Perché ci serve il concetto di comunità, di Gennaro Scala

Perché ci serve il concetto di comunità. Riflessioni a partire da un testo di Fabio Rontini su Costanzo Preve

Recentemente è stato pubblicato dal sito “intellettualecollettivo.it” un articolo, dal titolo un po’ internettiano-sensazionalistico La tesi di Costanzo Preve che spaventa i marxisti italiani di Fabio Rontini, che merita di essere discusso. Mi sia permessa un po’ di non malevole ironia, si direbbe che in Italia ci siano ancora schiere di marxisti, anche se facilmente prede dal panico, un po’ come le mandrie di mucche, ma ahimè secondo la mia esperienza ormai si contano sulle dita delle mani, se poi al sostantivo “marxista” aggiungiamo l’aggettivo “raziocinante” forse può bastare una mano sola. Rontini si chiede perché Costanzo Preve, uno dei migliori filosofi marxisti italiani, e che tale si è dichiarato fino all’ultimo anche se “non ortodosso e indipendente”, fosse stato ostracizzato, o posto in quarantena, se vogliamo utilizzare un termine più attuale, dalla sinistra marxista. Una prima risposta egli la trova in Carlo Formenti, notevole studioso delle trasformazioni sociali e politiche, anch’esso di formazione marxista, proveniente dall’operaismo, ma ha preso da tempo le distanze delle in-voluzioni negriane, restando invece estimatore del ben più profondo Mario Tronti. Formenti ha preso atto dell’irrimediabile deriva politica, e finanche antropologica, della sinistra dalla quale intende sottrarsi, e da questa via è giunto alla conclusione che è necessario un nuovo inizio, come sintetizza il titolo del libro Il socialismo è morto, viva il socialismo. Era conseguente quindi un ripensamento, espresso in un paragrafo del libro succitato, o per meglio dire un avvicinamento verso la figura di Preve, visto che afferma di aver “infine letto Preve”.

Veniamo alla tesi di Rontini, il quale sostiene giustamente che l’appartenenza dei marxisti al contenitore denominato sinistra perde di senso dal momento che è scomparsa ogni vestigia di borghesia progressista, desiderosa di rapportarsi con la classe operaia. Questa è la tesi di Preve, sintetizzata all’osso, che secondo Rontini spaventa i marxisti. Ciò è anche vero, ma non è questa sola tesi, ma la sua intera filosofia a costituire scandalo per il marxista benpensante e timorato … di Marx. Rontini utilizza il dibattito fra Preve e Losurdo che si svolse nel 2009, pubblicato in rete, come episodio esemplare dell’incomprensione della sinistra marxista nei confronti di Preve. Personalmente, direi di non focalizzare troppo su questo dibattito, i due si conoscevano bene tanto sul piano intellettuale, quanto su quello personale (conservo il ricordo di loro due discutere fittamente a distanza ravvicinata seduti ad un tavolino fuori da un convegno dalle parti di Assisi, adesso non ricordo quale, sono passati quasi vent’anni), per cui si tratta di un dibattito pieno di presupposti non esplicitati. Preve avrebbe voluto portare Losurdo dalla sua parte, quindi non va mai fino in fondo, esplicitando una rottura che poi era nei fatti. Il compianto Losurdo non avrebbe mai abbandonato una sinistra, nella quale la sua area, quella “antimperialista” dell’Ernesto e dintorni, non erano “ascoltati”. Erano isolati quanto lo stesso Preve ma continuavano e continuano fino alla fine a stare in essa, fino all’estinzione. Con Azzarà, che continua e continuerà fino alla fine a sbraitare contro la sinistra sul suo profilo facebook, ma a restare sempre al suo interno (immagino, perché mi ha bannato). Difendere la “distinzione destra-sinistra” voleva dire questo per loro, e che qualsiasi cosa faccia “la sinistra è sempre preferibile” ecc. ecc.

Se vogliamo capire perché Preve è stato ostracizzato dalla sinistra, marxista e non, bisogna guardare alla sua intera filosofia che mira ad una sua riforma teorica complessiva, ma essendo questa “irriformabile” (Preve) la conclusione logica è quella della necessità di un nuovo inizio.

Come racconta egli stesso, Preve iniziò un percorso di rottura dopo lo spettacolo del “baffetto bombardatore” che con il suo “sorrisetto cinico” mostrava soddisfazione della grande arguzia politica che l’aveva portato ad una completa acquiescenza nei confronti del “bombardamento etico” (titolo di un suo libro) della Yugoslavia. Mentre il “circo Barnum” della sinistra saltava sul carro del vincitore, e appoggiava la guerra contro una nazione che non ci aveva fatto nessun torto, e con la quale anzi avevamo proficui rapporti economici, con incoerenti prese di posizione di Rifondazione e del “filo-sovietico” Cossutta che fece una scissione per sostenere il governo D’Alema. Mentre invece esponenti della “nuova destra” come Alain de Benoist erano nettamente contrari a questa guerra. C’era qualcosa che non andava nelle categorie di Destra e Sinistra. Da qui inizia un ripensamento delle categorie di destra e sinistra, e anche questa è solo una parte del discorso di Preve, indirizzato alle categorie filosofiche di fondo che poi generano il discorso politico. Riporto qui un passo che è, a mio parere, il nucleo della sua analisi:

La sua critica al giacobinismo robespierrista, sia pure ogni tanto un po’ ingenerosa e unilaterale (personalmente, sono un ammiratore di Robespierre), resta però nell’essenziale è giusta, ed a mio avviso è la critica anticipata del comunismo storico novecentesco migliore che conosca. Se non condividessi profondamente questa critica, che è “comunitaria” e quindi né individualista né tradizionalistica, non avrei scritto un elogio del comunitarismo, ma l’ennesimo elogio del comunismo tout court. Se invece ho fatto questa scelta relativamente innovativa rispetto alla tradizione comunista da cui provengo, e proprio perché la critica di Hegel ai “comunitarismi frettolosi” che infine si rovesciano nel loro contrario e si autodistruggono mi pare convincente. Per me, questa non è in alcun modo una rottura con il comunismo, ma, al contrario, una maniera (che considero matura) di essere ancora fedele a questa scelta giovanile assolutamente non rinnegata che tempo fa definii una “passione durevole”.

[…] Hegel stima Rousseau e gli riconosce volentieri la sincera intenzione di superare l’individualismo atomistico astratto (per Hegel, l’individuo isolato è sempre astratto, mentre la comunità tenuta insieme dai costumi è sempre concreta), ma ritiene che su basi russoviane si possa avere soltanto una “comunità illusoria”, ossia un’addìzione di individualità presupposte come originariamente solitarie che si lanciano insieme nel progetto ugualitario di un nuovo contratto sociale equo, che possa sostituire quello precedente iniquo. Hegel chiama questo progetto russoviano una “furia del dileguare”. E che cosa è che propriamente “dilegua” , cioè scappa in .. avanti, si affretta senza essersi prima consolidato? È una comunità illusoria, tenuta insieme fittiziamente da una virtù politica soggettivamente sincera, che salta i momentìi essenziali della comunità familiare, della comunità elettiva di amici, della comunità fondata sul mestiere e sulla competenza professionale riconosciuta, e su tutte le comunità “intermedie” senza le quali non può neppure esistere la comunità delle comunità, il contratto sociale virtuoso fra cittadini uguagliati dalla legge.

Personalmente, trovo questa critica hegeliana non solo intelligente e pertinente, ma addirittura risolutiva. Non si può volere la “comunità ideale” se si comincia a disprezzare e ignorare le comunità intermedie precedenti. Il comunismo è, tra l’altro, morto proprio di questa specifica patologia. Ha messo la comunità astratta del comunismo davanti a tutto il resto, ha creduto di potersi costituire saltando la famiglia e la società civile (spacciate frettolosamente come “borghesi”), e così ha costruito sulla sabbia. Quando ha cominciato a entrare in crisi sul piano economico e produttivo, si era bruciato i ponti alle spalle, e non aveva più trincee di difesa su cui attestarsi. Franturnato l’apparato burocratico del partito, tutto si è dissolto in pochi mesi (l’esperienza della Russia nel 1991 è stata in proposito esemplare). (Elogio del comunitarismo, pp. 151-153)

In questo passo geniale viene esposta sinteticamente la tara storica della sinistra, comunista e non (notare che si parte dalla rivoluzione francese). In altre occasioni occasioni ho sintetizzato con il termine individualismo-universalismo, ovvero il salto dall’individuo al genere, il paradigma su cui si è costituita la sinistra comunista e non,. Ricostruire le categorie del movimento comunista superando questo paradigma fu il programma filosofico di enorme portata in cui Preve si impegnò. Un faticoso quanto necessario lavoro di ricostruzione su nuove basi, nel quale i “compagni” non hanno saputo e non hanno voluto impegnarsi, perché costava la dolorosa ridefinizioni delle convinzioni di una vita e dei rapporti politici, che sono poi anche rapporti personali.

Come ho sostenuto in occasione di un convegno in onore di Preve tenutosi a Bologna il 6 dicembre del 2013, il comunitarismo di Preve mira a correggere quell’impostazione di fondo per cui i comunisti e la sinistra in generale, hanno avuto una concezione errata dello Stato. È senso comune tra i “marxologi” che la concezione dello Stato fosse la tara principale della teoria marxiana, ma un “comunista antimperialista”, che in genere è, inconsapevolmente, più leninista che marxista, mi risponderebbe: i comunisti non hanno affatto ignorato la questione nazionale, i movimenti di liberazione nazionale del secolo scorso hanno visto un ruolo fondamentale dei comunisti! Per un’adeguata trattazione della questione non posso che rimandare al mio libro Per un nuovo socialismo, qui posso solo accennare al fatto che l’antimperialismo riportava nel movimento comunista “la questione nazionale” ma aveva dei difetti di fondo per cui non potè essere un’effettiva correzione del movimento comunista su tale questione. L’antimperialismo ha svolto una funzione importante durante il periodo dell’ascesa delle principali potenze che si oppongono allo strapotere americano, Russia e Cina, ma dal momento che queste potenze si sono affermate questa categoria va abbondonata e sostuita con il concetto di “mondo multipolare”. Inoltre, la categoria dell’antimperialismo si applica solo alle nazioni che hanno subito l’oppressione coloniale, ma delle autentiche questioni nazionali si sono poste e si pongono anche nella nazioni occidentali, ad es. l’errata teoria del movimento comunista sulla “questione nazionale” portò i comunisti a commettere dei gravi errori che favorirono l’affermazione del nazismo (in merito rimando al mio suddetto libro), come ho cercato di dimostrare anche basandomi su un testo del borioso Stefano G. Azzarà, allievo di Losurdo e punto di riferimento per Rontini.

Preve era un uomo della “vecchia guardia”, aveva trascorso gran parte della sua vita all’interno del fu movimento comunista, del quale si rese conto che aveva chiuso il suo ciclo, e cominciò un immane lavoro di ripensamento, ma su alcune questioni, tra cui l’antimperialimo e lo Stato, non giunse a delle soluzioni. Non credo di essere ingeneroso verso quello che considero uno dei miei principali maestri, è normale che sia così, gli siamo grati per l’enorme lavoro fatto, ma onoriamo i maestri proseguendo il loro lavoro, e a costo di apparire presentuoso, credo che almeno sulla questione dell’antimperialismo di aver fatto dei passi avanti.

Anche se il problema della subordinazione agli Usa non scompare, il problema più prossimo e più immediato, e che rischia di sfasciare lo Stato e la società italiana, è la subordinazione alla Ue (come ha già da tempo capito chi non era oberato da un bagaglio culturale marxista, ma magari in una prospettiva più limitata). Certo Preve sapeva che l’Unione Europea non poteva funzionare, e aveva previsto anche una divisione tra Europa del Nord e una del Sud, ma non costituiva per lui questo il principale problema. E in questo si dimostrava ancora uno della “vecchia guardia” che considerava il problema principale l’“imperialismo statunintense”. Io stesso ho fatto fatica a comprendere la priorità di questo problema, che ora è sotto gli occhi di tutti. Ripeto il problema del dominio statunitense non è certo scomparso, ma per l’immediato è assolutamente necessario risolvere il problema europeo.

Però Preve aveva posto correttamente il problema della sovranità e per questo è considerato un filosofo di riferimento dai “sovranisti”:

Immaginare che ci potesse essere una demokratia ad Atene con una guarnigione spartana stabilmente insediata sull’acropoli sarebbe stata un’assurdità per gli antichi. Eppure questa assurdità è oggi la normalità (una normalità anormale, in cui Kafka e Borges hanno sostituito Erodoto e Tucidide) per i popoli europei” (La saggezza dei Greci)

In breve tutte le divisioni politiche tra destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini perdono di senso in assenza di sovranità, poiché qualsiasi decisione scaturisca da questa dialettica politica questa si risolve in nulla, non serve a niente, poiché la decisione sulle questioni decisive spetta ad altri. Per questo è meglio A. de Benoist che si oppone all’imperialismo americano piuttosto che Luxuria che è culturalmente e politicamente allineato ad esso. La fine del mondo bipolare che aveva garantito uno spazio di sovranità (limitata) all’Italia e la degenerazione della sinistra avevano posto in secondo piano la divisione destra/sinistra, poiché è necessario convergere sull’obiettivo del ripristino di un adeguato livello di sovranità (una sovranità assoluta non potrà mai esistere). Quando in un ipotetico futuro la sovranità sarà ripristinata, le divisioni in base alle classi sociali e ai valori ritorneranno in primo piano, potremo anche tornare a definirle destra-sinistra, anche se a me non piace tale definizione che non sfugge al gioco di specchi, esiste una destra perché esiste una sinistra e viceversa, senza poi che si sappia “cos’è la destra e cos’è la sinistra” (per dirla con Gaber), preferisco le divisioni tra socialisti, (neo)liberisti, repubblicani, nazionalisti o in base all’identità religiosa ecc, insomma in base ad una definizioni dei valori politici, culturali, ideologici di riferimento, non delle generiche destra e sinistra che di per sé non vogliono dire nulla.

Destra e sinistra, o come si voglia definire le differenze politiche, hanno senso solo in uno Stato sovrano. Lo Stato è una delle comunità che si interpongono tra l’individuo e il genere. Il concetto di comunità avanzato da Preve è cruciale oggi. La crisi sociale, economica, politica innescata dal Coronavirus ha portato alla luce l’inconsistenza della costruzione sottostante alla “Comunità Europea”, mai nome fu più inadeguato. È fondamentale analizzare tutte le misure economiche e di carattere legislativo emanate dalla Commissione Europea e dalla Bce da valutare con la massima attenzione, ed è benemerito il lavoro di chi si sobbarca questo ingrato compito, ma ciò che più conta è stabilire se noi e i tedeschi (o anche i francesi) apparteniamo alla stessa comunità, se loro ci considerano o noi consideriamo loro come appartenenti alla stessa comunità. È questo che alla fine determina le misure economiche che vengono prese. Come sosteneva Preve appartienamo al genere umano, ma vi apparteniamo attraverso comunità determinate a partire dalla famiglia, passando per le classi sociali a finire con lo Stato. Tali comunità non hanno una base naturalistica, sono costruzioni sociali, ma sono nondimeno reali, e hanno effetti concretissimi. Alla luce dei fatti non possiamo che concludere che no, non apparteniamo alla stessa comunità, che non basta il nome, non abbiamo costruito con gli altri popoli europei una comunità, ogni nazione europea sta agendo per proprio conto e in funzione esclusiva dei propri interessi, e ci conviene ripristinare gli strumenti economici della sovranità che avevamo prima di entrare nell’Unione Europea altrimenti saranno c…. e qui evito di terminare con una locuzione volgare.

37° Podcast_Coronavirus, Taiwan-un esempio rimosso_di Gianfranco Campa

 

La diffusione del covid-19 ha scoperto il vaso di Pandora del complottismo; della tesi quindi della creazione artificiale del virus e della sua diffusione consapevole ad opera dei servizi americani. La verità, compresa quella dell’incidente, per ovvi motivi non la sapremo probabilmente mai. Appare però poco verosimile l’utilizzo di una arma difficilmente gestibile e il cui uso è suscettibile di ritorcersi contro l’eventuale aggressore. Tanto fervore induce piuttosto a mettere in ombra le enormi implicazioni geopolitiche e l’azione destabilizzante e trasformatrice di una tale crisi; ad oscurare le diverse modalità con le quali vari paesi hanno affrontato la pandemia. L’esempio di Taiwan è in proposito illuminante. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://soundcloud.com/user-159708855/podacast-episode-37

Qui sotto una sintesi scritta dell’intervento registrato di Gianfranco Campa. Si consiglia l’ascolto dei video linkati in calce al testo.

C’è un’isola che possiamo definire miracolata. La buona novella non è il risultato di un intervento divino dopo una preghiera in una piazza vuota, in un pomeriggio uggioso, recitata da un papa disorientato e inetto. Né deriva da un colpo del destino o da una buona dose di fortuna; è l’esito invece di una pianificazione esemplare, una preparazione e organizzazione stellare e una lungimiranza peculiare  di un popolo che, nonostante la condizione di precaria sopravvivenza, minacciata dal malefico dragone appena fuori l’uscio di casa, riesce ad eccellere sempre e comunque, contro tutto e tutti, anche nella titanica lotta pluridecennale nel farsi riconoscere come stato e come nazione legittima dalla comunità mondiale: stiamo parlando di Taiwan.

Taiwan, l’isola che resiste e che grazie alla sua organizzazione e pianificazione è riuscita nel miracolo di controllare l’epidemia di Coronavirus. Si parla e discute tanto di come l’epidemia del Coronavirus viene affrontata e gestita nei vari paesi. Si cerca di spiegare la mortalità relativamente bassa registrata in Germania, Giappone e Corea Del Sud; si è alla ricerca del modello ideale da prendere come esempio; sarà la Svezia, sarà Israele, sarà chi sarà… In altre parole, chi dei governi e collettività mondiale si vuole prendere come esempio dal quale studiare, analizzare e copiare la migliore risposta alla crisi pandemica e prepararsi quindi alla prossima pandemia. Vi posso assicurare che un’altra pandemia verrà, è solo questione di tempo.

Comunque sia del modello Taiwan non ne parla quasi nessuno; non è una sorpresa poiché l’isola per motivi politici e storici è una nazione collocata ai margini della diplomazia mondiale. Per esempio proprio qualche giorno fa durante un’intervista televisiva,  un alto funzionario dell’OMS ha evitato di rispondere ad alcune domande dirette su Taiwan. Il dottore canadese Bruce Aylward è stato intervistato da una stazione televisiva di Hong Kong (RTHK). L’intervista dell’ex vice direttore generale dell’OMS è diventata virale, scatenando feroci critiche. Nel segmento televisivo la giornalista Yvonne Tong chiede se l’OMS sarebbe disposta a riconsiderare la possibilità di far entrare Taiwan nell’organizzazione, vista la sua esclusione. Alla domanda segue un lungo silenzio di Aylward; concluso con la richiesta alla giornalista di passare ad un’altra domanda. Tong ha poi chiesto ad Aylward se poteva commentare “su come Taiwan sia riuscita a gestire finora la pandemia contenendo il virus“. Aylward ha risposto: “Bene, abbiamo già parlato della Cina e quando osserviamo le diverse aree della Cina, la realtà ci dice che hanno fatto un buon lavoro. Con questo vorrei ringraziarti molto per avermi invitato a partecipare” ha risposto Aylward staccando il video…

Il comportamento dell’OMS non è una sorpresa poiché la sua linea sembra rispecchiare la posizione della Cina su Taiwan, visto che l’OMS è ormai una organo pesantemente infiltrato dal partito comunista cinese. l’OMS non riconosce ufficialmente Taiwan. Ciò significa che in questa emergenza del Coronavirus, Taiwan rimane totalmente esclusa da riunioni importanti e conferenze globali  di esperti sulla pandemia di coronavirus. Il diplomatico taiwanese, Stanley Kao, ha affermato che negli ultimi anni all’isola è stato negato il permesso di partecipare alle riunioni annuali dell’Assemblea mondiale della sanità. Questa condizione di avversione e ostilità nei confronti di Taiwan è da ricercare nella storia controversa fra il partito comunista cinese e i taiwanesi; con il progressivo aumento del peso diplomatico della Cina negli ultimi decenni, sfociato in un’aperta “guerra” diplomatica, economica e culturale lanciata dal partito comunista verso l’isola miracolosa. Al momento attuale solo 15 paesi al mondo riconoscono e hanno pieni rapporti diplomatici con Taiwan.  Dal 1971 cioè da quando le  le Nazioni Unite espulsero Taiwan dall’organizzazione, trasferendo il seggio alla Repubblica popolare cinese (RPC). l’isola è stata lentamente e inesorabilmente isolata, diplomaticamente messa alla periferia del mondo, esclusa dal resto delle organizzazioni mondiali incluso l”OMS. 

Nonostante la mancanza di sostegno dell’Oms e l’isolamento in cui opera, l’isola ha gestito e continua a gestire la crisi del Covid19 in maniera esemplare. Quali sono i motivi di questo successo? Andiamo per ordine: Prima di tutto il sistema sanitario di Taiwan è considerato il migliore al mondo. Secondo la CEOWORLD, cioè la rivista guida a livello mondiale per amministratori delegati e professionisti esecutivi di alto livello, Taiwan si colloca al primo posto al mondo per assistenza sanitaria, mentre il sistema Italia si ritrova relegato al 37° posto. Questo dovrebbe una volta per tutte mettere a tacere le opinioni che sostengono “l’eccellenza del sistema italiano” . Tra parentesi mi fido piu dell’analisi del CEOWORLD che di quella dell’OMS il quale annovera l’Italia e la Spagna fra i 6 paesi al mondo con il sistema sanitario migliore. Il fiasco Italiano nel gestire la crisi del Coronavirus dovrebbe mettere a tacere qualsiasi proclama di eccellenza…

Parte del successo del sistema sanitario taiwanese consiste nella sua semplicità ed efficienza. Solo l’1% del budget sanitario viene speso in costi amministrativi e quindi la burocrazia è ridotta al minimo; per dirla all’americana meno ufficiali e più soldati insomma… Altro punto importante nel successo del sistema sanitario taiwanese riguarda l’efficiente sistema dell’infrastruttura tecnologica informativa; questa infrastruttura ha permesso al governo taiwanese di rispondere prontamente ed efficacemente ai primi casi di coronavirus, isolando gli infettati e separandoli dal resto della comunità, mappando nei minimi dettagli le comunità contagiate, evitando così che il virus si diffondesse a macchia d’olio, silenziosamente, tra il resto della popolazione. E’ chiaro che il sistema taiwanese non è perfetto e richiede di perfezionarsi con ulteriori accorgimenti; primo fra tutti la carenza di dottori pro-capite. Il problema è che i taiwanesi approfittano della loro assistenza sanitaria economica, accessibile e qualitativa andando dal dottore molto spesso. Come risultato il numero medio di visite mediche all’anno (12,1) è quasi il doppio paragonato a quello di altri paesi. Ci sono circa 1,7 medici a Taiwan per ogni 1.000 pazienti, che è ben al di sotto della media di 3,3 in altri paesi sviluppati. Comunque sia la sanità taiwanese rimane un buon esempio da seguire, non perfetto ma perfettibile.

Il secondo punto nel successo della gestione della crisi del Coronavirus è dovuto alla preparazione del governo taiwanese dopo la crisi del primo SARS nel 2003: Per non farsi trovare impreparati, sapendo che dopo la prima SARS sarebbe stata solo questione di tempo prima che arrivasse una seconda SARS; I taiwanesi si sono adoperati affinché tutta la catena di forniture necessarie a combattere una nuova pandemia venisse prodotta in casa senza fare affidamento a forniture straniere. Mascherine, grembiuli, occhiali di protezione, guanti, visiere, ventilatori, liquido igienizzante, medicine e molto altro viene ora prodotto internamente, senza far affidamento su altri paesi. Mentre in Europa sostenevano che le mascherine non fossero necessarie alla prevenzione del Coronavirus, Taiwan ha investito pesantemente nella loro produzione sapendo benissimo che le mascherine erano strumento essenziale nella prevenzione di  COVID-19. Come se non bastasse Taiwan, tramite la mappature digitale, ha inoltre sviluppato un sistema di razionamento in base al quale ogni residente adulto è in grado di acquistare tre maschere a settimana. Per garantire che tutti i residenti rispettino la regola, le maschere possono essere acquistate presso farmacie e centri medici designati. Queste sedi hanno le strutture per scansionare digitalmente le tessere dell’assicurazione sanitaria nazionale (NHI), la qual cosa consente al governo di registrare la cronologia degli acquisti. Il razionamento però non è stato necessario poiché la capacità di produzione di mascherine è aumentata da 4 milioni nel gennaio del 2020 agli attuali 15 milioni di pezzi al giorno; ripeto, l’attuale capacità produttiva di mascherine è ora di 15 milioni di pezzi al giorno. La capacità produttiva di taiwan e talmente larga che la presidente taiwanese ha promesso di donare 10 milioni di maschere ai paesi più colpiti dal coronavirus. Il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu ha specificato che le maschere sarebbero state inviate agli Stati Uniti e alle nazioni dell’Europa occidentale. Attenzione parliamo di donazioni non di vendita. Un gesto nobile per un paese piccolo e per lungo tempo abbandonato dalla comunità internazionale a scapito dei criminali di pechino.

Un paio di giorni fa l’avatar; Ursula von der Leyen sul suo account twitter ha ringraziato taiwan per conto della comunità europea: “ L’Unione Europea ringrazia Taiwan per la donazione di 5,6 milioni di mascherine per aiutare a combattere il coronavirus. Apprezziamo davvero questo gesto di solidarietà. Questo focolaio globale del virus richiede solidarietà e cooperazione internazionali.” 

Terzo punto importante nella lotta contro Covid19: Taiwan ha messo in atto un sistema chiamiamolo di allerta precoce.  In altre parole; Taiwan dopo la Sars del 2003 ha creato una Task force incaricata di monitorare il mondo a caccia di possibili segnali anticipati di pandemia. Possiamo chiamarla un servizio di intelligence incaricato di occuparsi esclusivamente di identificare possibili focolai di malattie prima che arrivino a colpire Taiwan. Questo servizio di monitoraggio è soprattutto finalizzato a cogliere gli eventi in corso nella Cina continentale. Così quando a Wuhan sono trapelati i primi segni di una nuova sconosciuta e devastante epidemia  il governo taiwanese era già informato delle possibili ramificazioni e disastrose conseguenze che avrebbe potenzialmente potuto arrecare al mondo. I primi segnali si erano avuti all’inizio di Dicembre, mentre il mondo nella quasi totalità ignorava ciò che stava succedendo nella provincia di Hubei e il partito comunista cinese era intento a censurare nascondendo la apocalittica realtà. I taiwanesi si erano già messi in moto per attuare i protocolli di sicurezza sviluppati negli ultimi anni, mettendo in moto la macchina organizzativa. . “Ciò che abbiamo imparato da Sars è che dobbiamo essere molto scettici riguardo i dati provenienti dalla Cina“, ha affermato Chan Chang-chuan, decano del College of Public Health dalla National Taiwan University. “Nel 2003 abbiamo imparato una funesta lezione e quell’esperienza è qualcosa che altri paesi non hanno recepito”.

Veniano così all’ultimo quarto punto fondamentale della battaglia Taiwanese al Covid19: la chiusura totale della frontiere. Nonostante le strette relazioni ed i frenetici scambi tra Cina e Taiwan, il governo di Taipei ha immediatamente limitato gli arrivi all’isola prima dalla Cina e poi dal resto del mondo, isolando di fatto l’isola dal resto della comunità internazionale. Chi è rientrato a Taiwan è stato assoggettato ad un rigoroso protocollo di controllo , monitorato elettronicamente, tramite i  propri cellulari, gli spostamenti delle persone sotto ordine di quarantena. Il Centro di comando per il controllo delle malattie (CECC) lavorando all’unisono a livello interministeriale, ha deciso di integrare i propri dati rendendoli compatibili con i dati della l’agenzia doganale e di immigrazione, la National Immigration Agency (NIA). Questo connubio ha reso possibile individuare, tramite il sistema PharmaCloud, la sequenza degli itinerari e degli spostamenti intrapresi dalle persone che entravano nel territorio Taiwanese. Ciò ha consentito  ai medici di avere accesso ai dati dei contatti della persona implicata. Un fattore che ha aiutato non solo ad isolare i potenziali portatori di epidemie, ma ha anche aiutato i medici taiwanesi a determinare se i pazienti dovevano sottoporsi ai tamponi ai fini dell’accertamento della presenza del Coronavirus.

Ricapitolando quindi i punti fondamentali del modello taiwan sono i seguenti: Un’eccellente sistema di copertura sanitaria gestito efficientemente. Uso appropriato ed efficace  della tecnologia informatica.Pronto monitoraggio di possibili focolai nel mondo. Produzione interna del materiale medico necessario a far fronte alla malattie e, ultimo ma non meno importante, controllo meticoloso e ferreo dei confini del paese, sia in entrata che in uscita.

Questo efficace sistema taiwanese è stato adottato dal governo neozelandese. All’inizio di marzo di quest’anno, il Dr. Ashley Bloomfield, capo del Ministero della Salute della Nuova Zelanda, ha elogiato le misure di prevenzione della pandemia adottate da Taiwan. Il dottor Bloomfield ha affermato che due paesi – Singapore e Taiwan – hanno mostrato una efficace capacità di isolare e mettere in quarantena coloro che sono venuti a contatto con casi positivi di coronavirus. Prendendo spunto dai taiwanesi la Nuova Zelanda dovrebbe muoversi in questa direzione.

Il successo di questa strategia potrebbe dare un nuovo impulso alle possibilità di riconoscimento diplomatico del paese. Nel frattempo il presidente americano Donald Trump ha firmato una settimana fa , ma per lo più ignorato dai mass media per via della crisi del coronavirus,  il cosiddetto disegno di legge denominato Taipei Act. Il TAIPEI ACT segna un cambio epocale nei rapporti Taiwan-USA in chiave soprattutto anti-Cinese. Il taipei act riporta un bilanciamento nelle relazioni asiatiche migliorando il supporto degli Stati Uniti verso Taiwan e incoraggiando altre nazioni a intrecciare relazioni con l’isola. Un tentativo di isolamento di coloro che seguono gli ordini del Partito Comunista Cinese (PCC). 

L’ufficio rappresentativo economico e culturale di Taipei (TECRO), l’ambasciata di fatto di Taiwan negli Stati Uniti, ha esternato la propria approvazione e gratitudine verso il presidente americano. Il presidente taiwanese Tsai ha affermato che è stato “gratificante” vedere firmata la legge TAIPEI, salutandola come un “attestato di amicizia e sostegno reciproco mentre lavoriamo insieme per affrontare le minacce globali alla salute umana e ai nostri valori democratici. Il disegno di legge ribadisce la forza congiunta di Taiwan e Stati Uniti. Inoltre, apre la strada a scambi bilaterali ampliati, preservando allo stesso tempo lo spazio internazionale del paese di fronte alla campagna di coercizione autoritaria della Cina “

Inutile dire che Il Partito Comunista Cinese è, ovviamente, meno soddisfatto della Legge TAIPEI. “Esortiamo gli Stati Uniti a correggere i propri errori, a non applicare la legge e non ostacolare lo sviluppo delle relazioni tra altri paesi e la Cina; incontrerà altrimenti inevitabilmente una risposta risoluta da parte della Cina“, ha avvertito un portavoce del ministero degli Esteri cinese. La Cina come risposta alla legge TAIPEI ha intensificato la sua campagna di pressione militare contro Taiwan conducendo provocatorie esercitazioni navali e aeree. Ma il dado è ormai tratto, la nuova guerra fredda tra i cinesi e gli americani è solo all’inizio e continuerà ad allargarsi. 

 Nel frattempo più di qualche nazione al mondo, a parte la Nuova Zelanda, potrebbe cogliere la novità ed adottare il modello taiwan come esempio da seguire per affrontare la prossima crisi epidemica ed economica. L’italia sarebbe una candidata eccellente per attuare queste misure, ma dubito che possa farlo anche se ci fosse la volontà, poiché attuare queste misure vuol dire andare in diretto contrasto con l’unione europea. Penso solo ai cambiamenti necessari per assicurarsi il completo controllo delle frontiere.  Tali controlli sarebbero necessari per gestire in maniera competente una nuova pandemia, Ma attuare ciò vuol dire eliminare, sospendere o uscire dal trattato di Schengen. Azioni decisive e ferme che però, ahimè, i nostri politicanti attuali non sarebbero capaci di intraprendere; preferiscono seguire l’avatar di Ursula von der Leyen, che ringraziando il governo di taipei per la forniture delle mascherine ha messo a nudo l’incapacità europea di affrontare la pandemia.

I morti italiani gridano vendetta, una vendetta che richiede dei passi decisivi e drastici. L’Italia non ha bisogno dell’Europa, L’Italia ha bisogno di trasformarsi in una nuova Taiwan. Un’italia sovrana, libera, democratica, padrona del proprio destino e capace di programmare e decidere la propria risposta. L’Isola miracolata, che resiste; Taiwan segna la strada. Per l’italia il modello da seguire è quello, al resto dell’Europa alla prossima pandemia possiamo regalare eventualmente quattro mascherine per puro spirito di compassione….

 

 

 

 

https://ceoworld.biz/2019/08/05/revealed-countries-with-the-best-health-care-systems-2019/

https://www.msn.com/en-us/news/world/taiwan-donating-millions-of-masks-to-other-countries-to-fight-covid-19/ar-BB121ex5

https://www.congress.gov/bill/116th-congress/senate-bill/1678

Sicurezza e libertà, di Piero Visani

Sicurezza e libertà

       Concludendo il suo quotidiano elzeviro su “La Stampa”, Mattia Feltri scrive, a proposito del fondamentale rapporto tra sicurezza e libertà in Paesi che possano definirsi “civili”: “…ricordiamoci che settantacinque anni fa si rischiava la vita per la libertà, ora si rischia la libertà per la vita. Speriamo che questo non dica qualcosa di noi”.
       In realtà dice moltissimo. Ci racconta la fuoriuscita dalla Storia di una civiltà vecchia, non solo anagraficamente, come quella europea. Abituata a considerare vita il numero di giorni che riesce a vivere in schiavitù senza rischiare la morte. Contenta di poter essere controllata in tutto (telefono, salute, risorse mobiliari e immobiliari, pur di sentirsi “al sicuro”). Ma “al sicuro da che?”, da virus che possono anche essere creati in laboratorio, approfittando di questa ossessione securitaria, magari tranquillizzati da “scienziati” che sicuramente sapranno tutto dei loro ambiti di competenza, ma difficilmente possono vantare conoscenze anche nelle relative applicazioni militari (che sono ricche e variegate, e non sempre smontabili con semplici operazioni di reverse engineering).
       L’ossessione securitaria ci ha condotto alla non-vita attuale, dove dobbiamo solo obbedire ad “ordini superiori” e farlo – ovviamente – per “il bene comune”. “Bene comune” che si identifica con la nostra “vita-morte”, naturale frutto di quella “bellezza dell’impotenza” ormai riservata al “Grande Ospizio” europeo, dove la libertà dei singoli – oggi controllatissima – si esprime nel contare, come si faceva ai tempi del servizio militare obbligatorio, quanti giorni manchino all'”alba del congedo”, partendo da 365 (visto che all’epoca la leva durava un anno). Con una piccola, ma fondamentale, differenza, i giorni che a noi mancano – per chi ancora li volesse scioccamente contare – non sono all’alba, ma al tramonto, l’ultimo, quello definitivo: la morte.
       La civiltà occidentale, del tutto priva di senso del tragico, è arrivata persino a inventarsi la colossale fola della “guerra senza morti”. Invece la guerra c’è, sempre e comunque; il nemico pure, anche se lo definiscono invisibile e – come spesso è accaduto della Storia – non ci sta di fronte, ma dietro, tra quelli che amiamo ritenere “i nostri capi”; e la morte ci è costante e serena compagna, anche perché le nostre vite di poveri “servi della gleba” e non di “beati possidentes“, da tempo deprivate di tutto o quasi (ma costantemente in nome del “bene comune”…) sempre e solo quell’esito ammettono, anche se molti di noi lo vorrebbero differibile in eterno. Senza accorgercene, persi dietro il sogno di vivere in eterno, ci siamo rassegnati a perdere ogni libertà e ogni dignità, ed a morire giorno dopo giorno. Dunque a morire sempre.

O si dimette Conte o Borrelli, di Domenico Cacopardo

Si avvicina il tempo del giudizio. Si dovrà vigilare. Potrebbe essere il tempo anche dei peggiori mercimoni, pur di salvarsi. La crisi del coronavirus sta ingombrando gli armadi di troppi scheletri, sia al centro che nelle periferie_Giuseppe Germinario

Se il politico non si dimette, deve lasciare il tecnico

 

«E allora?», mi ha scritto un lettore, dopo avere esaminato il mio J’accuse pubblicato da ItaliaOggi di ieri. E allora? Ripeto io, consapevole che il mio J’accuse può essere interessante e importante per valutare la qualità del personale di governo ma poi? Su questo «poi» vorrei intrattenermi oggi. Come accade in guerra un generale che colleziona sconfitte deve, ripeto deve, essere rimosso. Anche se è solo sfortuna, giacché, come sosteneva Napoleone Bonaparte la fortuna è una delle componenti essenziali del successo di un ufficiale.Delle due, l’una: o se ne va Giuseppe Conte o se ne va Angelo Borrelli. E, com’è evidente, è più facile sacrificare il funzionario che non il politico anche se, come nel caso del nostro premier, arrivato lì, a Palazzo Chigi, per caso e volontà dei pentastellati sconsiderati, porta sulle spalle un bel pezzo di responsabilità per le disfatte delle ultime settimane.

Il problema sarà trovare il sostituto, giacché, dopo la distruzione della pubblica amministrazione operata dai tanti irresponsabili che si sono succeduti nelle posizioni di governo, è proprio difficile individuare il soggetto giusto.

Fuori causa Guido Bertolaso, l’unico su piazza è Franco Gabrielli, il capo della Polizia. Nel chiedergli il sacrificio di fare il commissario straordinario (unico, grazie Domenico Arcuri, torna alla tua amata Invitalia) il governo dovrebbe altresì garantirgli, dopo un periodo di reggenza da parte del vice-vicario, il ritorno al Viminale. E non per fargli un favore. E poi dovrebbero essere poste in essere tutte le misure che per una ragione o per l’altra sono state accantonate o derubricate a non urgenti.

Nella tempesta, guai perdere la testa. Guardate Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York. Martedì sera, nella quotidiana conferenza-stampa trasmessa da Nbc, parlando in maniera piana, con i numeri ha chiarito che nel giro di un paio di settimane la pandemia crescerà tanto da rendere necessaria 140 mila posti letto con un 10% di terapia intensiva. Oggi ne abbiamo 5 mila. Quindi dobbiamo lavorare per accrescere la nostra disponibilità. E qui ha indicato le opzioni su cui sta lavorando il suo governo.

Durante la conferenza-stampa, Cuomo risponde anche alle domande di singoli cittadini. Al confronto, impietoso, Giuseppe Conte sembra uno scolaretto impreparato.

In questo discorso, c’è un elemento che non deve sfuggire: i numeri. Gli Stati Uniti affrontano qualsiasi problemi con i numeri. Possiedono statistiche e rilevazioni su ogni settore dell’economia, della società, delle attività di governo. Noi, viceversa, soffriamo di idiosincrasia per i numeri. Nel mondo, si trasformano in numeri i risultati dell’insegnamento. Da noi, i nostri docenti si oppongono, perché evidentemente dai numeri si capirà quale docente è somaro o negligente e quale è bravo.Un patologico concetto di eguaglianza, di cui siamo tributari a una parte del pensiero cattolico, espresso, tanto per intenderci, da don Lorenzo Milani.

E così i numeri danno il rating degli ospedali, dei dentisti, degli avvocati, dei commercialisti. E dei giudici: una volta accadeva che in Cassazione fossero tenute in vita le statistiche dell’attività di ogni magistrato, comprese quelle relative alle sentenze bocciate in appello.

Dai relativi numeri si faceva discendere l’idoneità o meno all’esercizio di mansioni superiori. Poi, un malinteso e corporativo principio di autonomia ha impedito che i giudici potessero essere giudicati sulla base del loro lavoro, quantità e qualità, perché tutto il gregge fosse composto da pecore tutte eguali, salvo coloro che assumevano incarichi di rilievo nelle organizzazioni di categoria.

Fra le tante cose che questa tragica pandemia spazzerà via, ci sarà probabilmente un pezzo importante dell’Italia politica, di quella economica e sociale. Forse culturale, cioè di quella parte di cultura asservita ai potenti di turno, sempre politici s’intende, anche se annidati nelle grandi mammelle distributrici di danaro costituite dalle fondazioni ex bancarie. Oggi, tornando alla pandemia, ciò che è perso è perso e quindi occorre ragionare sul da farsi domani e dopodomani.

Ci vuole qualcuno dall’efficienza garantita, non succubo delle fisime grilline, dei complessi di inferiorità di chi non è in grado di capire e di governare. E, a proposito di efficienza e sulla base dei numeri del Corona virus (a detta di molti, errati per enorme difetto), non possiamo dimenticare che questa contingenza ha mostrato a tutti gli italiani il fallimento delle regioni, dei loro politici, delle loro burocrazie. Questo sarà uno dei principali problemi del dopo.

https://www.italiaoggi.it/news/o-si-dimette-conte-o-borrelli-2434852?fbclid=IwAR03oW9CsU2fn_kVbOZ7aVk7C7V5i9lNc5Lugl3ipchmp4KpSlNsSAJFkLo

Con la guerra del petrolio, la fine dell’età d’oro per i paesi del Golfo?, di Julie KEBBI , Anthony SAMRANI 

Qui sotto un interessante articolo del quotidiano libanese OLJ sulle conseguenze della guerra delle estrazioni petrolifere connessa alla crisi pandemica_Giuseppe Germinario

Con la guerra del petrolio, la fine dell’età d’oro per i paesi del Golfo?

Un agente di cambio a Riyadh, Arabia Saudita, 10 marzo 2020. Ahmad Yosri / File Photo / ReutersUn agente di cambio a Riyadh, Arabia Saudita, 10 marzo 2020. Ahmad Yosri / File Photo / Reuters

DECRITTAZIONE Se l’esaurimento delle risorse s’inscrive nei tempi lunghi, potrebbe rimescolare le carte nella regione.

Ciò che nasce nel petrolio muore nel petrolio. Le petro-monarchie del Golfo iniziarono a diventare le potenze dominanti nel mondo arabo grazie allo shock petrolifero del 1973, avvenuto nel bel mezzo della guerra del Kippur, e pochi anni dopo la sconfitta del 1967, che segnò l’inizio della fine dei regimi pan-arabi. . Il primo intervento americano contro Saddam Hussein, poi la sua caduta, più di un decennio dopo, rafforzerà questa nuova realtà: il Golfo diventa di nuovo il centro politico del mondo arabo per la prima volta dalla morte del Profeta. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e persino il Qatar sono diventati, in pochi decenni, i paesi con il maggior peso, mezzi e persino influenza nella regione, nonostante una bassa demografia e una cultura politica lungi dal fare all’unanimità. Grazie ai petrodollari, il Golfo ha conosciuto in questi ultimi decenni la sua epoca d’oro, che gli ha permesso di costruire dal nulla città moderne e di sviluppare una rete di alleanze nella regione in parte basate sulla loro generosità verso paesi che non hanno le stesse risorse. Cosa sarebbero oggi la Giordania, l’Egitto e persino il Libano senza i soldi del Golfo e senza quelli delle loro diaspore che vi lavorano?

Tutta questa geopolitica è minacciata dalla crisi del coronavirus e in particolare dalla conseguente guerra petrolifera. “Penso che siamo entrati in una nuova fase, soprattutto se i prezzi del petrolio continuano a ristagnare”, ha dichiarato Joseph Bahout, ricercatore presso il Carnegie Center e specialista in Medio Oriente, contattato da L’Orient-Le Jour.

In totale, i paesi del Gulf Cooperation Council registrano quasi 4.530 casi di Covid-19, inclusi oltre 1.720 in Arabia Saudita, secondo gli ultimi dati. I bilanci che rimangono ampiamente inferiori a quelli del resto dei paesi della regione, mentre le monarchie del Golfo sono meglio armate di fronte alla pandemia, con infrastrutture ultramoderne di salute e più mezzi per applicare le misure del distanziamento sociale. Ad esempio, il re Salman dell’Arabia Saudita ha annunciato lunedì che il regno era pronto a pagare le spese per il trattamento dei pazienti con Covid-19, mentre Abu Dhabi ha recentemente aperto un  centro di contenimento del Covid- 19 con l’obiettivo di estenderlo a tutti gli emirati.

(Leggi anche: L’alleanza americano-saudita messa alla prova dalla guerra petrolifera )

Progetto ingrippato
L’epidemia potrebbe tuttavia avere conseguenze economiche. “L’impatto della pandemia sul multilateralismo, sulla cooperazione e sul commercio internazionale, nonché sulla globalizzazione sarà decisivo per i paesi del Golfo”, ha affermato Hussein Ibish, ricercatore presso l’Arab Gulf States Institute di Washington, intervistato da L ‘OLF.

Ma è la crisi petrolifera che dovrebbe far molto più male dell’epidemia stessa. Dopo aver fallito nel raggiungere un accordo con Mosca su un calo della produzione volto a mantenere alti i prezzi nonostante il calo della domanda cinese e quindi globale, Riyadh ha inondato il mercato nelle ultime settimane, causando il crollo dei prezzi. Il greggio Brent ha raggiunto $ 22,89 al barile all’inizio della settimana, il suo livello più basso dal 2002, prima di salire ieri a circa $ 30. Il regno vuole dimostrare che è ancora il giocatore dominante nel campo dell’oro nero e della quota di mercato sicura. Ma con prezzi così bassi, l’intera economia del Golfo, in gran parte dipendente dai petrodollari, è minacciata da una recessione. La strategia del regno non è sostenibile nel tempo, in particolare a causa della mancanza di riserve a Riyad in dollari (circa 500 miliardi di dollari), ma anche perché indebolisce le sue relazioni con il suo principale alleato, gli Stati Uniti, i cui produttori di scisto stanno subendo il peso del collasso dei prezzi al barile. Un gesto diplomatico a Washington o un desiderio di limitare il danno, ieri l’Arabia Saudita ha chiesto una “riunione urgente dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) e di altri paesi, tra cui la Russia, al fine di raggiungere un accordo equo che ristabilirà l’equilibrio dei mercati petroliferi ”, ha annunciato l’agenzia ufficiale saudita SPA. La guerra del petrolio non durerà per sempre. Ma quanto più dura, tanto più mette a repentaglio la stabilità dei paesi del Golfo e la loro capacità di attuare le loro politiche volte a uscire dal modello di economia delle rendite. “È l’intero progetto di Mohammad ben Salmane (il principe ereditario saudita) che ora viene bloccato”, riassume Joseph Bahout. Quasi tutti i paesi del Golfo hanno lanciato negli ultimi anni importanti piani di transizione economica miranti a concepire il dopo-petrolio. Ma l’attuale doppia crisi dovrebbe costringerli ad accelerare i loro modelli di transizione con mezzi limitati. “Questo mette molta pressione sui loro sforzi per creare economie post-petrolifere”, osserva Hussein Ibish. “Tutte le proiezioni indicano che se i prezzi attuali rimangono come sono, il regno avrà un deficit di bilancio molto grande per la prima volta nella sua storia nei prossimi 5-6 mesi, il che significa che il piano Vision 2030 sarà praticamente messo tra i reperti ”, ha detto Joseph Bahout. La diffusione del coronavirus e i conseguenti divieti di viaggio stanno rallentando, tra le altre cose, la campagna di apertura del regno saudita, che cerca di fare affidamento sul turismo per diversificare la sua economia. Molti eventi culturali e sportivi in ​​programma nel Golfo sono stati anch’essi cancellati o rinviati.

(Per la cronaca:  petrolio: perché il mercato è crollato )

Rovescio della storia
Le prime monarchie del Golfo potrebbero inizialmente emergere rafforzate dalla crisi del coronavirus se il numero di morti tra loro dovesse rimanere limitato. “La gestione della crisi del coronavirus potrebbe rafforzare o indebolire la leadership dei leader del Golfo”, afferma Hussein Ibish.

Ma il rischio è che la scarsità di risorse sia a lungo termine e provochi turbolenze sulla scena interna. La stabilità dei paesi del Golfo è dovuta in particolare a un patto sociale tra governanti e governati, che conferisce al primo potere indiscutibile e al secondo uno stile di vita generalmente confortevole. Ancor più che il rafforzamento dell’autoritarismo, la crisi economica sembra essere la principale minaccia che potrebbe provocare movimenti interni di protesta. “Dobbiamo rimanere cauti nelle analisi, ma potremmo vedere nei prossimi anni la terza fase delle rivoluzioni arabe che si sarebbero giocate questa volta nel Golfo”, afferma Joseph Bahout.

La mancanza di risorse potrebbe anche avere un impatto sulla politica estera di questi paesi. Il regno è diventato negli ultimi anni, rovesciando la sua storia, un potere interventista, in particolare nello Yemen, mentre gli Emirati si mostrano orgogliosamente come Sparta del Medio Oriente. L’influenza di questi paesi dipende soprattutto dalle loro capacità finanziarie, perché presentano carenze sia sul piano militare che sul piano del “soft power”. Saranno emarginati quando la loro leadership sarà sempre stata contestata nel mondo arabo, ma anche e soprattutto da Iran e Turchia?

Le petro-monarchie possono sentirsi rassicurate trovando che questo non è un gioco a somma zero. In altre parole, se i paesi del Golfo soffrono, gli altri soffriranno altrettanto, se non di più. L’Iraq, anch’esso dipendente dal prezzo di un barile, rischia il collasso. Giordania, Egitto e persino Libano troveranno molto difficile uscire dalla crisi senza l’aiuto dei paesi del Golfo. Tanto più se dovessero risentirne i milioni di arabi che lavorano in questi paesi.

Il grande rivale iraniano, che era già stato strangolato dalle sanzioni americane, dovrebbe emergere ancora più indebolito dalla crisi del coronavirus. La Turchia e la Russia, se riusciranno a limitare il danno, potrebbero imporsi a lungo termine come le due grandi potenze della regione, tanto più se il relativo ritiro degli Stati Uniti continuerà. Ma né Mosca né Ankara hanno i mezzi per indossare il costume americano del potere egemonico in Medio Oriente e un’alleanza tra i due paesi sarebbe più fragile a causa delle loro differenze di interesse. Il doppio rebus del coronavirus e della crisi petrolifera potrebbe rimescolare le carte nella regione e mettere in discussione l’influenza dei paesi del Golfo sul mondo arabo. A beneficio di chi? Questa è tutta un’altra storia.

https://www.lorientlejour.com/article/1213059/avec-la-guerre-du-petrole-la-fin-de-lage-dor-pour-les-pays-du-golfe-.html?utm_source=olj&utm_medium=email&utm_campaign=alaune

SOLO? NIENTE AFFATTO, di Elio Paoloni

SOLO? NIENTE AFFATTO

http://italiaeilmondo.com/2020/04/01/la-solitudine-di-papa-francesco-di-angelo-perrone/

Il pezzo di Angelo Perrone, La solitudine di Papa Francesco, mi ha ricordato un post FB di Alessandro Vietti che sosteneva la tesi della cantonata mediatica a proposito della benedizione urbi et orbi:

Perché quello che ha fatto, solo, in questa Piazza San Pietro desolatamente vuota, sotto queste nuvole e questa pioggia dal sapore apocalittico, degne di un film di Ridley Scott, è stato a mio avviso quanto di più lontano ci potesse essere dalla comunicazione di un sentimento di speranza e di fiducia nel futurouna “messinscena” oltremodo tragica, surrealmente tragica, al punto da potersi dire addirittura disturbante come la migliore inquadratura di un film di David Lynch. Perché quello che resterà nell’inconscio collettivo di quell’intervento non saranno tanto le sue parole, bensì la sua immagine, la solitudine e l’impotenza dell’Uomo – di “un” uomo – di fronte alla furia cieca della Natura (del Creato) che innalza il suo urlo triste e disperato contro un cielo di piombo, cieco e sordo”.

 

Apparentemente Perrone è su un altro versante. In realtà ha la stessa impressione di Vietti e si sforza di giustificare e sublimare il “cortocircuito”.

 

Io invece non riesco proprio a capire come si possa vedervi un errore – o un inciampo – di comunicazione. E’ passato proprio ciò che andava comunicato: l’impotenza dell’uomo, la violenza della natura, l’incombere dell’Apocalisse, la consapevolezza della propria fragilità, condizione necessaria per rivolgersi a Dio.

Se anche non fosse stata voluta, era necessaria proprio la potenza di quello spettacolo, che Emiliano Ferranti descrive così: “La forza dirompente di un’immagine che è già Storia. La potenza iconica e scenografica dell’Urbe. I colori e i capricci del cielo. Forme e vuoto alternate con geometrica e sacra cadenza. Il crepuscolo di un’era. Vox clamantis nel deserto: è La Foto di un epoca che si nutre di se stessa. Di fotogrammi disorganici e frantumati. Di un’epoca di distanze abissali nel paradosso di vicinanze virtuali, di anime frantumate, di voli rasoterra. E la nostra sconfitta scolpita nello spazio, tra i marmi eterni della Grande Bellezza”.

 

Vox clamantis in deserto. Come è stato, come è e come sarà. Ma il deserto metaforico è divenuto reale. Qualcuno ha rimarcato – oltre alla solitudine del Papa – la solitudine del Cristo, la foto scattata dopo l’entrata in Chiesa del Papa, col crocifisso desolato di fronte al vuoto. E invece mai come in quel momento il Cristo miracoloso è sembrato davvero il centro del mondo. Fuori dalla clausura di San Marcello e libero da folle turistiche col cappellino da baseball sotto il solleone, eccolo abbracciare la piazza e distendere il colonnato su Roma, sul paese, sul pianeta intero. Mai si era irraggiata così la sua influenza, mai era stata così necessaria la sua benedizione. Folle di astanti mediatici la attiravano, la accoglievano, liberati dal traffico e dalle distrazioni.

 

E’ mancata, come spesso accade a quest’uomo, la genuflessione davanti al Santissimo. Ma quanti hanno potuto notarla, se è sfuggita anche a me? Non ho alcuna simpatia per Bergoglio ma quando è lì, a pregare e a benedire, vedo solo il consacrato, il tramite, il Vicario, e dimentico le fesserie che spara quando svolazza da un paese all’altro.

La speranza nel futuro che Vietti trovava troncata dalle immagini, un cattolico non la trova nelle folle, nel traffico, nel cielo azzurro: la trova – e l’ha trovata – nell’esposizione di quel cerchio di pane bianco e piatto, piccolo, con tutt’attorno il più prezioso dei metalli, mirabilmente cesellato, il fasto più ardito che l’arte umana abbia potuto concepire e realizzare, la grandiosità dell’architettura più matura e più ricca nell’audacia delle sue forme e dimensioni. Che splendeva ancor di più nell’imbrunire bluastro.

 

 

Io ho presenziato in ispirito, insieme a milioni di persone, e la commozione di fronte alla maestà della Chiesa cattolica – l’Eucaristia, il Crocifisso bagnato dalle lacrime del Cielo, la Salus Populi Romani, la preghiera in San Pietro, cuore e centro di tutto l’orbe cattolico, “il luogo, diceva Chesterton, dove tutte le verità si danno appuntamento” – maestà che non è subordinata alle qualità del papa di turno, mi hanno impedito di notare una reticenza nelle parole, quella colta da Antonio Bianco:
“Papa Francesco ha elencato una serie di “manchevolezze” (perché in tutto il suo discorso la parola “peccato” non viene mai nominata) qui riassunte: guerre e ingiustizie planetarie e  l’indifferenza verso il “grido dei poveri e il grido “del nostro pianeta gravemente malato”.

Ma se, come affermano alcuni alti prelati, e come la bimillenaria storia della Chiesa insegna, le prove che siamo chiamati a superare sono conseguenza di un avvertimento di Dio, quindi una punizione meritata dall’uomo per i suoi molteplici peccati, e se il Signore lascia che si manifestino affinché l’uomo si ravveda, comprenda e si converta tornando a Dio, alla Sua vera ed unica Chiesa, quella Cattolica, e ai suoi sacramenti, sarebbe stato opportuno un chiaro riferimento ai peccati che ammorbano il mondo contemporaneo: la negazione del primato di Dio, il non santificare le feste, l’ateismo di stato, la negazione perpetua della Verità, gli aborti, gli omicidi, i peccati di adulterio, l’eutanasia, i furti, in pratica la “normalizzazione” di ogni peccato.

Noi non siamo Profeti, non conosciamo i disegni del Signore, e non possiamo affermarlo, ma chi, in cuor suo, non è stato sfiorato dall’idea che quel deserto, quella pioggia, quelle sirene spiegate, abbiano una relazione con il peccato mortale reiterato, negato ed elevato a normalità? Anche un non credente avrà potuto vederci la punizione della Hybris, del prometeismo, della divinizzazione della scienza manipolatrice.

 

No, quell’uomo non era solo; mai tanti uomini gli sono stati accanto. E non sarà mai solo: ha l’approvazione del Mondo, è in ottima compagnia. Le moltitudini adorano chi evita accuratamente di rammentare il peccato, il giudizio, l’Inferno.

 

 

 

 

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI….SOCIALISMO CHE FAI, di Pierluigi Fagan

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI. Rapido giro mattutino della stampa int’le (SPA,FRA,UK,GER,USA).

1) L’EUROPA. Nel gruppo euro, siamo a 15 paesi contro 4 (GER-OLA-AUS-FIN). I 4 hanno capito di aver clamorosamente sbagliato il primo round, critiche interne si sono sollevate soprattutto in Olanda ed un po’ anche in Germania. Soprattutto hanno capito di star mettendo seriamente a rischio euro ed UE. Così ora scatta l’operazione elemosina ovvero gettare in pasto alle opinioni pubbliche un marasma di ipotesi di intervento tutte largamente insufficienti, ma che possono dar l’impressione si stia facendo fattivamente qualcosa. Si parla di un fondo per la disoccupazione di 100 mld () e l’olandese Rutte, si è anche spinto fino all’idea di una donazione caritatevole da 10 mld che i Paesi “ricchi” farebbero ai “poveri”🤣. Von der Leyen ci scrive chiedendoci scusa, i tedeschi ci prendono qualche decina di malati da qualche giorno, Rutte ha chiesto scusa alla Spagna per l’infelice uscita che gli è valso quel “ripugnante” da parte del premier portoghese. L’importante è non fare nulla o poco, guadagnare tempo, minimizzare i danni d’immagine ed evitare che il “sogno europeo” venga percepito come “incubo europeo”. “Percepire”, questo è secondo questi illusionisti il problema, diagnosi che si commenta da sé. Segnalo però anche l’avvenuta gara europea per le fornitura centralizzata di miliardi di mascherine (Cina, India, Vietnam). Aspettiamoci quindi una invasione di mascherine con il logo europeista da portare tutti quando sarà obbligatorio, di modo da confermarci che l’Europa ci protegge.

2) POPOLI E GOVERNI. FAZ pubblica un sondaggio a 100.000 casi (Cambridge, Princeton, Harvard) sull’umore dei popoli. I più contenti del proprio governo sono gli austriaci, poi noi. Due terzi di consenso per Merkel, mentre così così (sotto o sopra 50%) stanno gli olandesi e svizzeri sebbene più positivi che negativi, mentre un po’ meno positivi ed un po’ più negativi francesi e spagnoli. Più di due terzi critici i britannici, più dell’80% degli americani (russi e turchi ancora peggio, secondo il sondaggio). Britannici, americani ed olandesi si auto-criticano anche come reazioni e comportamenti della popolazione all’emergenza, ma anche un po’ francesi e canadesi. Giudizi critici sull’onestà del proprio governo nel dire come stanno le cose soprattutto in USA, ma anche in Francia, Gran Bretagna e Spagna. Italia, più o meno a livello di Germania, Olanda, Svizzera e Svezia in territorio decisamente positivo.

3) CAPITALE vs SALUTE. Ovunque si mostra il conflitto tra interessi economici ed interessi sanitari. Segnalo che i governi spagnolo ovviamente ma anche francese, britannico e tedesco, sembrano voler frenare (come in Italia per altro) l’impeto a “riapriamo e fatturiamo”. Ovunque e stamane ne ho letto addirittura sulla stampa tedesca, c’è il semplice problema che noto ad alcuni fatica ad entrare in testa, della capacità ricettiva degli ospedali. Gli “altri” poi, sono indietro a noi nella tempistica di sviluppo dell’epidemia. Segnalo che oltre ovviamente a noi che abbiamo iniziato per primi e gli spagnoli che stanno sotto un treno, in termini di rapporto morti per 1 milioni di abitanti, cominciano a star maluccio anche francesi, belgi, olandesi e svizzeri, più indietro i britannici. Com’è noto i tedeschi sono invulnerabili, perché allora si preoccupino non si capisce. A proposito di tedeschi segnalo che per la terza volta in breve tempo, dopo la tempestosa riunione dei premier eurogruppo ed un messaggio alla nazione, Merkel continua a mandare messaggi vocali ma si rifiuta di comparire in video come nella conferenza stampa di ieri. Ricordo che Merkel è ufficialmente in “isolamento”, forse non si è fatta la messa in piega e non vuole mostrasi “scapigliata”?

4) SALUTIAMO L’AMERICA. Trump sta capendo in che razza di casino è capitata l’America. Diventato a fatica serio e preoccupato, pochi giorni fa ha annunciato di aspettarsi 100.000 morti poi appena qualche giorno dopo è passato a 240.000. L’America sta mostrando un livello di organizzazione pari forse solo all’Iran. Manca tutto in termini di materiali, c’è un casino tra entità federali pazzesco, non sanno dove mettere i morti e sono solo a poco più di un terzo dei nostri morti (e sono pure cinque volte più grandi di noi per non parlare della ricchezza). Non hanno fatto scattare alcun lockdown serio e quindi continueranno a contagiarsi e finire in ospedale per mesi e mesi. In più stanno fallendo compagnie di shale gas una dopo l’altra e seguiranno vari tipo di industria. La foto che gira degli homeless messi sdraiati per terra a distanza di sicurezza occupando – per “distanziamento sociale” – ognuno uno scacco dei parcheggi vuoti di Las Vegas con tutti gli alberghi vuoti a teorica disposizione dice dello stato di civiltà di quella nazione. Ricordo qualche settimana fa i commenti dei liberali italici indignati per i miseri ospedali messi su in una settimana dai cinesi, ma si sa, noi viviamo in un eterno presente e nessuno si ricorda quello che ha detto l’altro appena due giorni fa. Poi arriveranno i ghetti in rivolta e con la nazione che ha un terzo della popolazione con almeno un’arma (ma in complesso in USA ci sono più armi private che abitanti quindi alcuni hanno veri e propri arsenali), vedremo film à la Carpenter con Jena Plissken dal vivo.

Di cinesi, giapponesi, indiani, brasiliani ed africani ci occuperemo un’altra volta. A chiedere tre punti: 1) nonostante le difficoltà in cui si dibattono, i popoli si stringono al proprio leader o forse solo alla nazione detto in senso culturale, il “noi”. In emergenza, nessuno sente il bisogno di far esagerate polemiche, non è il momento, ora. Ma il momento arriverà, sembra che pochi abbiamo capito l’entità e la durata di questa storia; 2) l’epidemia è come un apparato radiografico semovente. Mano a mano che procede, rivela di ogni Paese e di ogni popolo, le nudità strutturali. Ogni giorno qualcuno scopre qualcosa di nuovo e di inaspettato, è un bagno di realismo il che in un’epoca surreale è interessante; 3) ricordo che i cinesi, a Wuhan, hanno chiuso tutto ma tutto davvero per dieci settimane. Oggi però sono alle prese con nuovi possibili focolai ed hanno richiuso Hong Kong. L’Imperial College, in uno studio -mi sembra logicamente affidabile-, ha detto settimane fa che la faccenda, a cicli di up&down, durerà probabilmente 18 mesi. Ognuno ne tragga la conclusione che crede su tempo e spazio del fenomeno.

[La foto è Associated Press, la prima agenzia di stampa del mondo ed è tratta da Time. Nulla meglio di foto+AP+Time dice dello stato delle cose occidentali]

IDEE DI SOCIALISMO SANITARIO. Oggi ci lanciamo in una semplice idea guida, un esempio di modo di ragionare che può tornare utile quando le cose saranno se non normali, meno eccezionali. Ed a tale proposito, da ieri possiamo dire -per il momento- che si vede forse la fine almeno della fase 1, quella emergenziale. L’emergenza era data da un semplice fatto, bisognava diminuire il flusso dei contagiati negli ospedali perché questi si riempivano più di quanto non si svuotassero. In quelle condizioni i morti sarebbero aumentati di molto.

In questi giorni molti hanno continuato a non darsi conto del fatto che i morti complessivi per e con coronavirus non fossero più delle normali epidemia di influenza. A parte il fatto che più di 11.000 morti in poco più di un mese sono ben più dello standard statistico delle influenze annuali, il problema principale in termini di “urgenza” (ciò che viene prime vs ciò che viene dopo) non erano solo i morti ma i bisognosi di ricovero (terapia d’assistenza respiratoria + terapia intensiva), tant’è che molti non ce l’hanno fatta, rimanendo a casa perché non c’erano posti nelle strutture ricettive. Nonostante giri da febbraio un disegnino con le curve a picco del “se non fai niente” o a curva sdraiata “se fai il lockdown”, ovvero spalmare i richiedenti ricovero bloccando i contatti sociali, come hanno capito per altro tutti i dotati di senno in tutto il mondo, vedo che molti hanno avuto insormontabili difficoltà a collegare un numero sufficiente di neuroni per capire questo fatto. Ieri però Callera ha detto che tra entrati ed usciti dagli ospedali lombardi, il saldo era solo di +2 e quei due letti in più ci sono, quindi incrociamo le dita per gli andamenti futuri e passiamo ad altro.

L’altro non è la fase 2 o 3 del coronavirus, ma quella posteriore l’epidemia. Ieri mi veniva in mente un sistema circolare di questo tipo. Lo Stato con suoi capitali, potrebbe creare un sistema che chiameremo Officine Sanitarie Nazionali. Sarebbe un network di imprese che producono, non tutto ma una buona parte dei materiali necessari al Servizio Sanitario Nazionale. Ora abbiamo avuto lo shock da mascherine, disinfettanti e ventilatori polmonari, ma ci sono anche molti farmaci con le molecole a libera produzione, solventi, vari tipi di liquidi necessari in varie terapie, strumenti diagnostici, strumenti di cura, fino ai letti reclinabili, l’arredo delle ambulanze e quant’altro d’uso comune e non solo per il coronavirus che prima o poi avremo domato. Tutto il necessario per un SSN in un Paese con un terzo di abitanti anziani quale abbiamo scoperto finalmente di essere. Una gran parte del valore di spesa della voce di bilancio “Sanità” che ogni anno lo Stato italiano deve spendere attingendo alla fiscalità generale, oltre a gli stipendi per le maestranze, se ne va per comprare tutto il necessario sul libero mercato, italiano ed estero.

La cosa tra l’altro produce costi enormi per via del’enorme macchina amministrativa (ordini-fatturazioni-rendicontazione) che deve indire gare a ripetizione. In più, oltre al costo vivo dei materiali ed al costo indiretto di gestione, c’è il costo occulto delle migliaia di atti di micro o macro corruzione che affliggono la gestione della spesa pubblica in Italia. Questi tre costi sarebbero semplicemente eliminati o abbassati grandemente perché se il fornitore è unico ed è dello Stato: 1) la spesa d’acquisto del SSN diventa guadagno del produttore statale, una buona parte della spesa sanitaria annua diventa una partita di giro; 2) non c’è da mantenere alcun ipertrofico apparato amministrativo perché non c’è da fare alcuna gara, solo ordini; 3) non c’è alcuna mazzetta che gira tra privati, Regioni, partiti, ospedali e primari.

L’occupazione persa tra amministrativi degli ospedali e delle Regioni così come le maestranze che oggi lavorano in aziende private verrebbe semplicemente assorbita dal network di aziende pubbliche che crea una sorta di socialismo sanitario nazionale (SSN). Ci sarebbe ovviamente da meglio curare l’efficienza delle imprese pubbliche, un problema che il “socialismo teorico” dovrà prima o poi affrontare perché il problema c’è ed è innegabile. Ma studiando credo si possa trovarne soluzione almeno parziale. Gran parte di questi costi, rimarrebbero in Italia in quanto potremo produrre molte cose qui invece che esser dipendenti da fornitori esteri. Ovviamente questo non coprirebbe tutte le necessità. Molti farmaci speciali, macchinari particolari, strumenti troppo costosi da produrre in pochi pezzi, rimarrebbero da acquistare sul mercato. In più, altri stanziamenti in ricerca, potrebbero alimentare continuamente di idee nuove e nuove soluzioni l’upgrade tecno-scientifico delle produzioni magari competitive al punto da avere anche un loro mercato estero. Di base però, cedo che il risparmio e l’efficienza di costo e gestione, sarebbe comunque notevole. In più permetterebbe di acquisire una certa resilienza per un servizio che è sempre più necessario data l’estrema longevità dei connazionali e che non può dipendere dalle sempre più frequenti perturbazioni di quadro internazionale. Un buon servizio sanitario nazionale, ovviamente, sarebbe anche un risparmio di spesa per singoli e famiglie ed il servizio nazionale potrebbe esser implementato proprio a partire dai risparmi ottenuti fornendo materiali prodotti in casa su cui non è più necessario far profitto.

Non mi viene in mente altro modo di onorare le vite di coloro che sono morti oltre il dovuto solo perché ci siamo fatti trovare “impreparati”, che far del loro sacrificio una lezione da apprendere. Quando inizieranno le geremiadi retoriche per coprire con l’emozione empatica il disastro a cui non siamo stati in grado di far fronte, facciamoci trovare pronti con altre soluzioni che non i pianterelli di circostanza. Finiremmo con l’esser colpevoli due volte, il che è inammissibile. Glielo dobbiamo …

Perché Cina e aziende cinesi aiutano l’Italia anti Covid-19?, di Giuseppe Gagliano

Perché Cina e aziende cinesi aiutano l’Italia anti Covid-19?

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Cina Italia

Mosse, obiettivi e strategie di Cina e aziende cinesi in Italia alle prese con l’emergenza Covid-19. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Che la posizione del nostro paese sul Mediterraneo sia stata – e sia – fondamentale per la Nato e la proiezione di potenza americana è un dato di fatto. Ora è la volta della Cina che intende attraverso la Nuova Via della Seta estendere la sua influenza sul nostro Paese anche con lo scopo di limitare e contenere quello americano.

L’anno scorso, l’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina sulla partecipazione alla Belt and Road Initiative cinese. L’Italia è stata la prima e finora l’unica nazione G7 a farlo. Dopo anni di stagnazione economica, l’Italia sperava di provocare uno stimolo necessario utile alla crescita grazie alla a una partnership economica con la Cina. Questa scelta ha determinato da parte degli alleati occidentali critiche molto dure determinando anche conflitti a livello nazionale, con una parte della coalizione governativa dell’epoca (la Lega di Matteo Salvini) che si opponeva. Allo stato attuale, la firma del protocollo d’intesa non ha portato all’Italia più contratti dalla Cina rispetto ad altri Paesi che non lo avevano fatto come ad esempio la Francia.

A marzo 2020 la situazione è cambiata. L’Italia è in preda alla crisi del coronavirus. A partire dal 20 marzo, la malattia ha ucciso oltre 3.400 italiani, più del bilancio delle vittime registrato in Cina, dove la pandemia è iniziata alla fine del 2019. All’inizio di marzo, l’Italia ha chiesto aiuto ai suoi partner dell’Unione europea. Nessuno Stato membro dell’Ue ha risposto. Inoltre, Francia e Germania hanno imposto il divieto di esportare maschere per il viso. Molti italiani si sono sentiti ingannati e umiliati dai loro partner europei.

Pechino, tuttavia, ha risposto bilateralmente e prontamente trasportato in aereo 30 tonnellate di forniture mediche a Roma. Il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha pubblicato un video sull’arrivo dell’aereo carico di approvvigionamento sulla sua pagina Facebook. Per la Cina è stato un trionfo a livello di soft power e di diplomazia pubblica. Se è vero che successivamente la Germania si è impegnata a fornire mascherine per il viso all’Italia e ha ospitato malati Covid-19, la narrativa nei social media era già stata plasmata: l’Unione europea ha abbandonato l’Italia e la Cina ha salvato la situazione. Di Maio si è preso il merito dell’aiuto della Cina, che ha collegato alla sua politica filo-cinese e alla sua telefonata con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi il 10 marzo, due giorni prima della consegna delle forniture dalla Cina.

In realtà le forniture erano state inviate di comune accordo tra la Croce Rossa cinese e italiana. Come è consuetudine tra le filiali della Croce Rossa in diversi paesi, la Croce Rossa cinese ha ricambiato per l’aiuto ricevuto dalla Croce Rossa italiana solo un mese prima, quando l’Italia ha inviato 18 tonnellate di forniture a Wuhan. La chiamata tra Di Maio e Wang Yi non riguardava la donazione della Croce Rossa, ma l’acquisto da parte dell’Italia di una grande quantità di ventilatori tanto necessari per le unità di terapia intensiva.

La macchina della propaganda cinese si è affrettata a cogliere l’occasione e ha pubblicato video di italiani riconoscenti che elogiano la Cina per la sua generosità.

Oltre alla prima spedizione di forniture mediche, sbarcata a Roma il 12 marzo, la Cina ha anche inviato una seconda spedizione a Milano il 18 marzo, che è stata inviata dalle province cinesi tra cui Zhejiang, che ha una grande comunità di immigrati in Italia. Altre donazioni di società cinesi sono state destinate a regioni e città italiane che ospitano le loro controparti italiane. Guarda caso una delle società in questione è la Zte, che ha donato 2.000 maschere alla città dell’Aquila dove Zte gestisce un centro di innovazione e tecnologia 5G congiunto con l’università locale. Inoltre, Huawei ha offerto di istituire una rete di cloud computing per collegare gli ospedali italiani tra loro e con gli ospedali di Wuhan, il che specie per il Copasir solleva interrogativi sul controllo delle infrastrutture critiche e la protezione dei dati, e il colosso cinese con Fastweb ha donato tablet e smartphone a ospedali della Lombardia e del Veneto.

Grazie a questo raggio d’azione, la Cina in Italia non è più associata all’origine della pandemia o incolpata a causa della sua scarsa regolamentazione dei mercati e della soppressione delle informazioni che avrebbero potuto aiutare a sradicare la malattia in una fase precedente. La propaganda online cinese ha lavorato instancabilmente per dissociare il coronavirus da Wuhan, dove è emerso per la prima volta, e dalla Cina, e in Italia tale sforzo è ampiamente riuscito. La Cina in Italia è ora vista come un Paese che ha fornito un aiuto concreto, mentre altri partner geograficamente più vicini si sono comportati in modo egoistico, nonostante la retorica della solidarietà europea e non hanno fornito alcun aiuto.

In una recente telefonata con il Primo Ministro italiano Giuseppe Conte, il premier Xi Jinping ha colto l’occasione per lanciare una nuova “Via della seta per la salute”, da associare all’attuale Belt and Road Initiative. Nell’ambito di questa iniziativa, la Cina userebbe le lezioni apprese nella sua riuscita lotta contro il virus e le condividerebbe con i suoi partner in tutto il mondo. Poiché è probabile che la pandemia duri più mesi in tutto il mondo e poiché una pandemia simile potrebbe ripetersi, molti paesi sarebbero interessati.

La percezione tra molti in Italia è che la Cina sia riuscita a dominare il virus in breve tempo grazie alle misure rigorose e decisive che ha adottato. L’Italia è paragonata sfavorevolmente alla Cina in questo senso. Implicitamente, la governance cinese è ammirata come un sistema più efficace che aiuta a salvare vite umane e a ridurre le perdite economiche in caso di emergenza.

Ora, al di là della ingenuità dei nostri politici nostrani, che leggono la dinamica internazionale in un’ottica scevra di qualsiasi realismo politico, la Cina ha piani molto precisi per l’Italia: è interessata ai porti e alle infrastrutture dell’Italia in connessione con la Belt and Road Initiative; alla sua qualità alimentare, al design e al potenziale turistico; ai suoi hub ad alta tecnologia come L’Aquila e allo sviluppo del 5G nel paese.

In ultima analisi, l’aiuto fornito dalla Cina dovrebbe aiutare a rafforzare le relazioni sino-italiane e a preparare il terreno per una celebrazione appropriata dei 50 anni di relazioni diplomatiche a novembre.

https://www.startmag.it/mondo/antichi-consigli-di-jean-per-tutelare-la-sicurezza-economica-dellitalia/?fbclid=IwAR27BAJzGLORaztCt6GUFr30XeTvUwQaCCqmD578KBkEz02UkvDsDonjgbE

Resoconto sull’ultima spiaggia, di Antonio de Martini

L’onnipresente Roberto Buffagni , da non confondersi con l’omonima nullità leghista, ha postato il resoconto della riunione dei capi di governo europei pubblicato da El Pais.

Andrebbe letta ( è in inglese) per capire quel che la nostra stampa non racconta.

L’ho chiosata con un commento che riporto : “Dal resoconto pare evidente che la lepre di cui vanno a caccia è in primis l’Italia; che l’antagonista vero della Merkel è stato Sanchez ; che la Merkel è consapevole di star combattendo per la sopravvivenza politica sua, del suo governo e del suo partito; che Macron non sta con noi italiani e spagnoli, ma interviene sul metodo dandoci un appoggio indiretto per assumere sul finale una posizione arbitrale.

Non credo ci sia altra possibilità di sbloccare la situazione se non il “ mezzocoronabond” ossia dei bond garantiti da una “ coalizione di chi ci sta” che potrebbe essere costituita da Italia , Spagna e due o tre dei paesi che hanno firmato l’iniziativa.

Una garanzia congiunta di sei/otto paesi sarebbe certamente migliore di collaterali di un solo paese e se dovesse fallire significherebbe la fine della EU come entità reale.

Il fatto che Conte non sia il capocordata della contestazione e che le decisioni vadano dall’Eurogruppo ( ministri delle finanze) ai capi di governo non può che essere che chiarificatore.

Lunghi e puntigliosi controlli sanitari alla frontiera – nelle prossime due settimane- dei prodotti caseari e floreali germano olandesi potrebbero rivelarsi determinanti. “

A queste considerazioni telegrafiche che ho fedelmente riprodotto, aggiungerei l’impressione che la Merkel ha dato segni di nervosismo e che la politica migliore sia non quella delle minacce – tipica ammissione di debolezza – ma della prosecuzione di una iniziativa informale accompagnata dall’esercizio del veto in maniera da bloccare l’istituzione e contemporaneamente far marciare l’iniziativa informale che non sarebbe contraria né alla lettera né allo spirito dei trattati. Potrebbe persino esercitare una qualche attrattiva per gli inglesi senza far loro abbandonare le posizioni isolazioniste.

La responsabilità di una eventuale crisi o rottura sarebbe quindi esclusivamente tedesca.

La Germania ha già messo in difficoltà la NATO con lo scontro aperto Trump Merkel e le ripetute ripicche con la Turchia che della alleanza rappresenta ancora l’ala destra.

Una rottura – con addebito – del legame EU e conseguentemente del patto di consultazione Adenauer-De Gaulle del 1967, nonché le frizioni a est per la vicenda Ucraina e le sanzioni alla Russia per la Crimea, lascerebbero isolata la vecchia signora in compagnia di Olanda, Finlandia e Austria.

Hitler nel 45 aveva più amici.

https://english.elpais.com/economy_and_business/2020-03-28/do-we-have-a-deal-pedro-an-inside-look-at-the-clash-between-eu-leaders-at-coronavirus-summit.html?fbclid=IwAR0ONZokAYPdH7lJgSc0PPtK9ntgvk1W_JSZJVJE7vRw_6xUm0BL-SlUt5w

Lezioni dalla risposta dell’Italia al Coronavirus di Gary P. Pisano , Raffaella Sadun e Michele Zanini

Qui sotto un interessante articolo della HBR con il quale trae un primo bilancio dell’approccio italiano alla crisi del coronavirus. Riflessioni in linea con le considerazioni già portate avanti da questa testata e dalle prossime ben più critiche ed approfondite che seguiranno.Buona lettura_Giuseppe Germinario

Mentre i politici di tutto il mondo lottano per combattere la rapida pandemia di Covid-19, si trovano in un territorio inesplorato. Molto è stato scritto sulle pratiche e le politiche utilizzate in paesi come Cina, Corea del Sud, Singapore e Taiwan per reprimere la pandemia. Sfortunatamente, in gran parte dell’Europa e degli Stati Uniti, è già troppo tardi per contenere Covid-19 nella sua infanzia, ei politici stanno lottando per tenere il passo con la pandemia in espansione. Nel fare ciò, tuttavia, stanno ripetendo molti degli errori commessi all’inizio in Italia, dove la pandemia si è trasformata in un disastro. Lo scopo di questo articolo è di aiutare i politici statunitensi ed europei a tutti i livelli a imparare dagli errori dell’Italia in modo che possano riconoscere e affrontare le sfide senza precedenti presentate dalla crisi in rapida espansione.

Nel giro di poche settimane (dal 21 febbraio al 22 marzo), l’Italia è passata dalla scoperta del primo caso ufficiale Covid-19 a un decreto del governo che essenzialmente vietava tutti i movimenti di persone all’interno dell’intero territorio e la chiusura di tutti i attività commerciali essenziali. In questo brevissimo periodo, il paese è stato colpito da niente meno che da uno tsunami di forza senza precedenti, punteggiato da un flusso incessante di morti. È senza dubbio la più grande crisi italiana dalla seconda guerra mondiale.

Alcuni aspetti di questa crisi – a cominciare dai suoi tempi – possono senza dubbio essere attribuiti alla semplice e semplice sfortuna (“sfortuna” in italiano) che chiaramente non era sotto il pieno controllo dei politici. Altri aspetti, tuttavia, sono emblematici dei profondi ostacoli che i leader in Italia hanno affrontato nel riconoscere l’entità della minaccia rappresentata da Covid-19, nell’organizzare una risposta sistematica ad essa e nell’apprendere dai primi successi nell’implementazione – e, soprattutto, dai fallimenti.

Vale la pena sottolineare che questi ostacoli sono emersi anche dopo che Covid-19 aveva già avuto un impatto completo in Cina e alcuni modelli alternativi per il contenimento del virus (in Cina e altrove) erano già stati implementati con successo. Ciò che suggerisce è un fallimento sistematico nell’assorbire e agire sulle informazioni esistenti rapidamente ed efficacemente piuttosto che una completa mancanza di conoscenza di ciò che dovrebbe essere fatto.

Ecco le spiegazioni per quel fallimento – che si riferiscono alle difficoltà di prendere decisioni in tempo reale, quando si sta verificando una crisi – e ai modi per superarle.

Riconosci i tuoi pregiudizi cognitivi. Nelle sue fasi iniziali, la crisi di Covid-19 in Italia non assomigliava affatto a una crisi. Le dichiarazioni iniziali sullo stato di emergenza sono state accolte dallo scetticismo sia da parte del pubblico che da molti membri nei circoli politici, anche se diversi scienziati hanno avvertito del potenziale di una catastrofe per settimane. In effetti, alla fine di febbraio alcuni importanti politici italiani si sono impegnati nella stretta di mano pubblica a Milano per sottolineare che l’economia non dovrebbe andare nel panico e fermarsi a causa del virus. (Una settimana dopo, a uno di questi politici fu diagnosticato Covid-19.)

Reazioni simili sono state ripetute in molti altri paesi oltre all’Italia ed esemplificano ciò che gli scienziati comportamentali chiamano pregiudizio di conferma  – una tendenza a cogliere informazioni che confermano la nostra posizione preferita o ipotesi iniziale. Minacce come le pandemie che si evolvono in modo non lineare (ovvero iniziano in piccolo ma si intensificano in modo esponenziale) sono particolarmente difficili da affrontare a causa delle sfide dell’interpretazione rapida di ciò che sta accadendo in tempo reale. Il momento più efficace per agire con forza è estremamente precoce, quando la minaccia sembra essere piccola, o anche prima che ci siano casi. Ma se l’intervento funziona davvero, sembrerà a posteriori come se le azioni forti fossero una reazione eccessiva. Questo è un gioco che molti politici non vogliono giocare.

L’incapacità sistematica di ascoltare gli esperti evidenzia i problemi che i leader – e le persone in generale – hanno capito come comportarsi in situazioni terribili e altamente complesse in cui non esiste una soluzione facile. Il desiderio di agire fa sì che i leader facciano affidamento sul loro intestino o sulle opinioni del loro cerchio interno. Ma in un momento di incertezza, è essenziale resistere a quella tentazione e invece impiegare il tempo per scoprire, organizzare e assorbire la conoscenza parziale che è dispersa in diverse tasche di competenza.

Evita soluzioni parziali. Una seconda lezione che si può trarre dall’esperienza italiana è l’importanza degli approcci sistematici e dei pericoli delle soluzioni parziali. Il governo italiano ha affrontato la pandemia di Covid-19 emanando una serie di decreti che aumentavano gradualmente le restrizioni all’interno delle aree di blocco (“zone rosse”), che venivano poi espanse fino a quando non si applicavano infine all’intero paese.

In tempi normali, questo approccio sarebbe probabilmente considerato prudente e forse anche saggio. In questa situazione, ha fallito per due motivi. Innanzitutto, non era coerente con la rapida diffusione esponenziale del virus. I “fatti sul campo” in qualsiasi momento non erano semplicemente predittivi di quale sarebbe stata la situazione pochi giorni dopo. Di conseguenza, l’Italia ha seguito la diffusione del virus piuttosto che prevenirlo . In secondo luogo, l’approccio selettivo potrebbe aver involontariamente facilitato la diffusione del virus. Considera la decisione di bloccare inizialmente alcune regioni ma non altre. Quando il decreto che annunciava la chiusura dell’Italia settentrionale è diventato pubblico, ha fatto esplodere un massiccio esodo nell’Italia meridionale, senza dubbio diffondendo il virus in regioni in cui non era presente.

Ciò dimostra ciò che è ormai chiaro a molti osservatori: una risposta efficace al virus deve essere orchestrata come un sistema coerente di azioni intraprese contemporaneamente. I risultati degli approcci adottati in Cina e Corea del Sudsottolinea questo punto. Mentre la discussione pubblica sulle politiche seguite in questi paesi spesso si concentra su singoli elementi dei loro modelli (come test approfonditi), ciò che caratterizza veramente le loro risposte efficaci è la moltitudine di azioni che sono state intraprese contemporaneamente. Il test è efficace quando è combinato con una traccia di contatto rigorosa e la traccia è efficace fintanto che è combinata con un sistema di comunicazione efficace che raccoglie e diffonde informazioni sui movimenti di persone potenzialmente infette e così via.

Queste regole si applicano anche all’organizzazione del sistema sanitario stesso. Sono necessarie riorganizzazioni all’ingrosso all’interno degli ospedali (ad esempio, la creazione di flussi di cure Covid-19 e non Covid-19). Inoltre, è urgentemente necessario un passaggio dai modelli di assistenza incentrati sul paziente a un approccio basato sul sistema comunitario che offre soluzioni pandemiche per l’intera popolazione (con un’enfasi specifica sull’assistenza domiciliare). La necessità di azioni coordinate è particolarmente acuta in questo momento negli Stati Uniti.

L’apprendimento è fondamentale. Trovare il giusto approccio di implementazione richiede la capacità di apprendere rapidamente sia dai successi che dai fallimenti e la volontà di cambiare le azioni di conseguenza. Certamente, ci sono preziose lezioni da trarre dagli approcci di Cina, Corea del Sud, Taiwan e Singapore, che sono stati in grado di contenere il contagio abbastanza presto. Ma a volte le migliori pratiche possono essere trovate proprio accanto. Poiché il sistema sanitario italiano è altamente decentralizzato, diverse regioni hanno provato diverse risposte politiche. L’esempio più evidente è il contrasto tra gli approcci adottati dalla Lombardia e dal Veneto, due regioni limitrofe con profili socioeconomici simili.

La Lombardia, una delle aree più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita in modo sproporzionato da Covid-19. Al 26 marzo, detiene il triste record di quasi 35.000 nuovi casi di coronavirus e 5.000 morti in una popolazione di 10 milioni. Il Veneto, al contrario, è andato molto meglio, con 7000 casi e 287 decessi in una popolazione di 5 milioni, nonostante si sia assistito a una diffusione sostenuta della comunità all’inizio.

Le traiettorie di queste due regioni sono state modellate da una moltitudine di fattori al di fuori del controllo dei responsabili politici, tra cui la maggiore densità di popolazione della Lombardia e il maggior numero di casi quando è scoppiata la crisi. Ma sta diventando sempre più evidente che anche le diverse scelte di salute pubblica fatte all’inizio del ciclo della pandemia hanno avuto un impatto.

In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili al distanziamento sociale e alle chiusure al dettaglio, il Veneto ha adottato un approccio molto più proattivo al contenimento del virus. La strategia veneta era articolata su più fronti:

  • Test approfonditi su casi sintomatici e asintomatici precoci.
  • Tracciamento proattivo di potenziali positivi. Se qualcuno è risultato positivo, sono stati testati tutti nella casa di quel paziente e anche i suoi vicini. Se i kit di test non erano disponibili, erano auto-messi in quarantena.
  • Una forte enfasi sulla diagnosi e l’assistenza domiciliare. Ove possibile, i campioni sono stati raccolti direttamente dalla casa di un paziente e quindi elaborati nei laboratori universitari regionali e locali.
  • Sforzi specifici per monitorare e proteggere l’assistenza sanitaria e altri lavoratori essenziali. Includevano professionisti del settore medico, quelli in contatto con popolazioni a rischio (ad es. Operatori sanitari nelle case di cura) e lavoratori esposti al pubblico (ad es. Cassieri di supermercati, farmacisti e personale dei servizi di protezione).

Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del governo centrale, la Lombardia ha optato invece per un approccio più conservativo ai test. Su base pro capite, finora ha condotto la metà dei test condotti in Veneto e si è concentrato molto più solo sui casi sintomatici – e finora ha fatto investimenti limitati in tracciabilità proattiva, assistenza domiciliare e monitoraggio e protezione dell’assistenza sanitaria lavoratori.

Si ritiene che l’insieme delle politiche attuate in Veneto abbia notevolmente ridotto l’onere per gli ospedali e ridotto al minimo il rischio di diffusione di Covid-19 nelle strutture mediche, un problema che ha avuto un forte impatto sugli ospedali lombardi Il fatto che politiche diverse abbiano prodotto risultati diversi in regioni altrimenti simili avrebbe dovuto essere riconosciuto fin dall’inizio come una potente opportunità di apprendimento. I risultati emersi dal Veneto avrebbero potuto essere utilizzati per rivedere presto le politiche regionali e centrali. Tuttavia, è solo negli ultimi giorni, un mese intero dopo lo scoppio in Italia, che la Lombardia e altre regioni stanno prendendo provvedimenti per emulare alcuni degli aspetti dell ‘”approccio veneto”, che includono la pressione del governo centrale per aiutarli a rafforzare il loro capacità diagnostica.

La difficoltà nel diffondere le nuove conoscenze acquisite è un fenomeno ben noto sia nelle organizzazioni del settore privato che in quelle del settore pubblico. Ma, a nostro avviso, l’accelerazione della diffusione della conoscenza che sta emergendo da diverse scelte politiche (in Italia e altrove) dovrebbe essere considerata una priorità assoluta in un momento in cui “ogni paese sta reinventando la ruota”, come ci hanno detto diversi scienziati. Perché ciò accada, specialmente in questo momento di maggiore incertezza, è essenziale considerare diverse politiche come se fossero “esperimenti”, piuttosto che battaglie personali o politiche, e adottare una mentalità (così come sistemi e processi) che faciliti imparare dalle esperienze passate e attuali nel trattare con Covid-19 nel modo più efficace e rapido possibile.

È particolarmente importante capire cosa non funziona. Mentre i successi emergono facilmente grazie ai leader desiderosi di pubblicizzare i progressi, spesso i problemi vengono nascosti a causa della paura della punizione o, quando emergono, vengono interpretati come fallimenti individuali – piuttosto che sistemici. Ad esempio, è emerso che all’inizio della pandemia in Italia (25 febbraio), il contagio in un’area specifica della Lombardia avrebbe potuto essere accelerato attraverso un ospedale locale, dove un paziente Covid-19 non era stato diagnosticato correttamente e isolato. Nel parlare ai media, il primo ministro italiano ha fatto riferimento a questo incidente come prova di inadeguatezza gestionale presso l’ospedale specifica. Tuttavia, un mese dopo è diventato più chiaro che l’episodio avrebbe potuto essere emblematico di un problema molto più profondo: che gli ospedali tradizionalmente organizzati per fornire cure incentrate sui pazienti sono mal equipaggiati per fornire il tipo di assistenza focalizzata sulla comunità necessaria durante una pandemia.

La raccolta e la diffusione di dati è importante. L’Italia sembra aver sofferto di due problemi relativi ai dati. All’inizio della pandemia, il problema era la scarsità di dati . Più specificamente, è stato suggerito che la diffusione diffusa e inosservata del virus nei primi mesi del 2020 potrebbe essere stata facilitata dalla mancanza di capacità epidemiologiche e dall’incapacità di registrare sistematicamente picchi di infezione anomala in alcuni ospedali.

Più recentemente, il problema sembra essere di precisione dei dati . In particolare, nonostante il notevole sforzo che il governo italiano ha dimostrato nell’aggiornamento periodico delle statistiche relative alla pandemia su un sito Web accessibile al pubblico, alcuni commentatori hanno avanzato l’ipotesi che la notevole discrepanza nei tassi di mortalità tra l’Italia e altri paesi e all’interno dell’italiano le regioni possono (almeno in parte) essere guidate da diversi approcci di prova. Queste discrepanze complicano la gestione della pandemia in modi significativi, perché in assenza di dati realmente comparabili (all’interno e tra i paesi) è più difficile allocare risorse e capire cosa sta funzionando dove (ad esempio, cosa inibisce la traccia efficace della popolazione).

In uno scenario ideale, i dati che documentano la diffusione e gli effetti del virus dovrebbero essere il più possibile standardizzati tra le regioni e i paesi e seguire la progressione del virus e il suo contenimento a livello sia macro (statale) che micro (ospedaliero). La necessità di dati a livello micro non può essere sottovalutata. Mentre la discussione sulla qualità dell’assistenza sanitaria viene spesso svolta in termini di macroentità (paesi o stati), è noto che le strutture sanitarie variano notevolmente in termini di qualità e quantità dei servizi offerti e delle loro capacità manageriali, anche all’interno degli stessi stati e regioni. Invece di nascondere queste differenze di fondo, dovremmo esserne pienamente consapevoli e pianificare di conseguenza l’allocazione delle nostre risorse limitate. Solo disponendo di buoni dati al giusto livello di analisi, i politici e gli operatori sanitari possono trarre le giuste conclusioni su quali approcci stanno funzionando e quali no.

Un approccio decisionale diverso

C’è ancora un’enorme incertezza su cosa debba essere fatto esattamente per fermare il virus. Diversi aspetti chiave del virus sono ancora sconosciuti e oggetto di accesi dibattiti e probabilmente rimarranno tali per un considerevole periodo di tempo. Inoltre, si verificano ritardi significativi tra il tempo di azione (o, in molti casi, l’inazione) e gli esiti (sia infezioni che mortalità). Dobbiamo accettare che una comprensione inequivocabile di quali soluzioni funzioneranno probabilmente richiederà diversi mesi, se non anni.

Tuttavia, due aspetti di questa crisi sembrano essere chiari dall’esperienza italiana. Innanzitutto, non c’è tempo da perdere, vista la progressione esponenziale del virus. Come capo della Protezione Civile italiana (l’equivalente italiano della FEMA) metterlo , “Il virus è più veloce la nostra burocrazia.” In secondo luogo, un approccio efficace nei confronti di Covid-19 richiederà una mobilitazione simile alla guerra – sia in termini di entità delle risorse umane che economiche che dovranno essere impiegate, nonché l’estremo coordinamento che sarà richiesto in diverse parti della salute sistema di assistenza (strutture di prova, ospedali, medici di base, ecc.), tra entità diverse sia nel settore pubblico che privato, e la società in generale.

Insieme, la necessità di un’azione immediata e di una massiccia mobilitazione implicano che una risposta efficace a questa crisi richiederà un approccio decisionale che è tutt’altro che normale. Se i politici vogliono vincere la guerra contro Covid-19, è essenziale adottarne uno che sia sistemico, dia la priorità all’apprendimento ed è in grado di ridimensionare rapidamente gli esperimenti di successo e identificare e chiudere quelli inefficaci. Sì, questo è un ordine elevato, soprattutto nel mezzo di una crisi così enorme. Ma data la posta in gioco, deve essere fatto.

https://hbr.org/2020/03/lessons-from-italys-response-to-coronavirus

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