tutti i problemi cyber degli Usa, di Giuseppe Gagliano

In tempo di pace_Giuseppe Germinario

Da WannaCry a SolarWinds, tutti i problemi cyber degli Usa

di

SolarWinds

L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

 

Nel marzo 2017, WikiLeaks ha fatto trapelare gli strumenti di hacking usati dalla Cia.

Il rapporto interno dell’agenzia di intelligence, ottenuto lo scorso anno dal Washington Post, ha accusato gli hacker della Cia di impegnarsi troppo nella “costruzione di armi cibernetiche a scapito della protezione dei propri sistemi”.

Un mese dopo la fuga della notizia sugli strumenti della Cia, un gruppo chiamato Shadow Brokers si è appropriato di un potente strumento di hacking riuscendo a sottrarlo ad un gruppo d’élite della Nsa chiamato “Tailored Access Operations”. Questi strumenti sono stati utilizzati da attori stranieri per eseguire attacchi informatici su larga scala, inclusi i famigerati attacchi WannaCry, i cui obiettivi includevano aziende statunitensi e agenzie governative.

Più recentemente, un attacco hacker di origine russa ha posto in essere un attacco a Solarwinds e il tentativo degli hacker di avvelenare l’approvvigionamento idrico di una città in Florida hanno dimostrato quanto sia vulnerabile l’America agli attacchi informatici sul proprio territorio.

Per decenni, gli Stati Uniti hanno avuto l’arsenale di armi cibernetiche più sofisticato al mondo. Ma la mancanza di attenzione alle misure difensive è uno dei suoi maggiori punti deboli, afferma la giornalista del New York Times Nicole Perlroth.

In “This Is How They Tell Me the World Ends: The Cyberweapons Arms Race” (Bloomsbury Publishing, febbraio 2021), Nicole Perlroth, che si occupa di notizie sulla sicurezza informatica da oltre un decennio, afferma che più stati-nazione e criminali informatici prendono di mira gli Stati Uniti con attacchi informatici rispetto a qualsiasi altra nazione, e gli Usa sono i più vulnerabili perché sono il paese più connesso.

Non è sempre stato così, aggiunge, suggerendo che gli Stati Uniti sono in gran parte responsabili del diluvio di attacchi.

Nel 2010, gli Stati Uniti e Israele hanno utilizzato un worm informatico noto come Stuxnet per sabotare una parte significativa del programma di arricchimento nucleare iraniano, in quello che è ampiamente considerato il primo “uso cibernetico della forza” ad aver causato danni nel mondo fisico. Il codice alla base dell’attacco è finito per trapelare online e gli hacker di tutto il mondo, incluso l’Iran, sono stati in grado di decodificarlo e ridistribuirlo per i propri scopi.

Questo ha scatenato una corsa agli armamenti informatici che da allora non si è mai fermata.

Da allora, quasi tutti i governi del pianeta, con la possibile eccezione dell’Antartide, hanno continuato questi programmi. E qualsiasi funzionario del governo ammetterà prontamente che l’obiettivo di questo attacco — l’Iran — ha raggiunto una grande efficacia in termini di capacità di attacco informatico in un periodo di tempo molto più breve di quello che si poteva prevedere.

Paesi come Iran, Russia, Cina e Corea del Nord hanno dedicato enormi risorse alle loro capacità cibernetiche e hanno raggiunto con successo obiettivi americani utilizzando strumenti originariamente progettati dagli americani e dai loro alleati, nonché strumenti sviluppati internamente. E poiché è così difficile attribuire definitivamente un attacco informatico a un paese specifico, la possibilità che gli Stati Uniti risponderanno con un forte attacco offensivo non costituisce un deterrente come con le armi convenzionali.

Gli Usa sono vulnerabili ad attacchi informatici poiché a lungo hanno trascurato la sicurezza delle infrastrutture critiche come le centrali elettriche, gli ospedali e gli aeroporti che un attacco sarebbe in grado di devastare.

Queste minacce sono amplificate dal fatto che sono le aziende private ​​come Solarwinds, che possiedono e gestiscono la stragrande maggioranza delle infrastrutture statunitensi, aziende che si concentrano sul profitto e non sulla sicurezza nazionale delle strutture critiche.

Proprio per questo, sottolinea la giornalista americana, sarebbe necessaria una migliore sinergia sulle informazioni tra il governo americano e il settore privato in relazione proprio alle minacce informatiche che sono in continua evoluzione.

https://www.startmag.it/innovazione/da-wannacry-a-solarwinds-tutti-i-problemi-cyber-degli-usa/?fbclid=IwAR39hIqv_CVzvHo6WaxPqOFkAp9im_TOMsNIuwnBn-58ORVm3MNdZJ4aPO0

I NUOVI MURI, di Andrea Zhok

I NUOVI MURI
L’editore Meulenhoff ha tolto il compito di tradurre la poetessa afroamericana Amanda Gorman alla scrittrice olandese Marieke Lucas Rijneveld dopo il pubblico bombardamento di critiche piovute sulla scelta della traduttrice.
Secondo un diffuso, o quantomeno vocale, ‘public sentiment’ la Rijneveld sarebbe inadeguata al compito in quanto donna bianca.
La casa editrice Meulenhoff si era difesa dicendo di aver scelto la Rijneveld in quanto affine nello stile e nei toni, e la poetessa olandese sembrava essere una scelta appropriata.
L’editore aveva inoltre assicurato che un gruppo di lettori avrebbe testato la traduzione per valutare se contenesse un linguaggio offensivo, stereotipi o altre improprietà.
Ma niente di questo è bastato, e di fronte alla montante protesta si è deciso di cambiare traduttrice.
Perché menzionare questo episodio, che molti, non senza ragioni potrebbero trovare semplicemente ridicolo?
Premetto, a titolo di opinione personale, che se la qualità letteraria della poetessa americana è quella mostrata nella sua declamazione al discorso di insediamento di Biden, credo che la letteratura mondiale possa serenamente privarsene senza soffrire danno alcuno.
Ma questo punto non è importante.
Il punto importante è che questo è solo uno, l’ennesimo, esempio della devastante forma mentis su cui stiamo costruendo il terzo millennio d.C.
Con un sorrisone fosforescente stampato in faccia, nel nome della bontà, dei diritti, della libertà stiamo costruendo una delle società più fitte di muri, steccati interiori, barriere, odi e disprezzi trasversali, incomprensioni, incomunicabilità che la storia ricordi.
Lo so che molti ancora sottovalutano questo punto.
Molti ancora pensano che questioni come quelle del ‘politicamente corretto’ siano tutt’al più educati formalismi, da cui niente di cruciale dipende.
Invece questo è un punto silente, ma esplosivo.
I più grandi sforzi etici del passato erano rivolti alla costruzione di forme del “noi”, di comunità o società immaginate come amalgama di individui accomunati da qualcosa di importante (l’amor di patria, la devozione religiosa, ecc.).
Tutto ciò cui lavoriamo culturalmente oggi rema invece in direzione esattamente opposta, verso la creazione di frammentazioni progressive, dove si proclama la fondamentale impossibilità ad essere compresi dagli altri.
Che siano steccati mentali fondati sull’appartenenza generazionale, sulla razza, sul genere, sulle inclinazioni sessuali, o altro, comunque il lavoro profondo del motore pedagogico della contemporaneità è dedicato alla decomposizione di ogni “noi” trasversale e comprensivo in “noi” sempre più sparuti, giù giù fino all’individuo isolato (e invero anche facendo breccia nella sua stessa identità personale).
L’elogio della diversità non è più l’elogio dell’interesse o del fascino che la diversità può suscitare.
Niente affatto.
L’elogio odierno della diversità è l’elogio dell’irriducibilità dell’altro, e dunque della nostra fondamentale incomunicabilità.
Che per ragioni oscure dovremmo venerare come un grande valore.
NB_tratto da facebook

Chiudere la “parentesi” di Trump?_ di Ingrid Riocreux

Ricordiamo che l’arrivo al potere di Donald Trump era stato considerato come una “sorpresa” e persino come un “salto nell’ignoto” dai media mainstream.

Una sorpresa, quando le cifre hanno accennato alla sua vittoria o, almeno, non hanno escluso radicalmente la possibilità. Un salto nell’ignoto, come se nessuna elezione fosse possibile; soprattutto, come se fosse assolutamente preferibile restare nel campo del prevedibile e del ripetitivo, supplicando la domanda che sarebbe bene appoggiare, mi sembra. In realtà, il trattamento mediatico di questo evento rifletteva l’incapacità di integrarlo nella consueta griglia di lettura del progressismo, quella di un senso della storia che implicherebbe l’inevitabile e sistematico sradicamento delle forze del passato e di ogni individuo identificato come. reazionario o populista (il popolo è un peso morto del passato di cui le élite illuminate vorrebbero sbarazzarsi).

Abbiamo visto questa logica applicarsi nuovamente in occasione della sconfitta dello stesso Donald Trump. Le espressioni usate per qualificare l’evento lo testimoniano. Abbiamo parlato di “chiusura della parentesi”, “risveglio da un incubo”, “fine della ricreazione”. Ciascuna di queste formule è interessante. La fine della pausa rimanda alla volontà di ridurre Donald Trump a una sorta di istrione eccentrico e incompetente.

Da leggere anche:  Intervista a Lauric Henneton- Cosa può rimanere di Donald Trump?

Troviamo questo discredito, in un’altra forma, nella metafora del risveglio dopo un incubo; qui abbiamo chiaramente a che fare con il registro della demonizzazione iperbolica. Notiamo che lo psicoanalista della radio France Info, Claude Halmos, ha dedicato un programma per esporre come interpretazione perfettamente oggettiva di una diagnosi collettiva, che i francesi (sì, noi, perché proviamo molta empatia nei confronti del popolo americano) Si sentirebbe meglio d’ora in poi perché la personalità molto ansiogena di Trump ha lasciato il posto a una figura rassicurante incarnata da Joe Biden. Ma la meno esagerata di queste tre espressioni è senza dubbio la più sintomatica:

Si parla anche di un ritorno alla normalità, come se questi quattro anni di presidenza fossero anormali. Devono apparire come una stranezza, un errore nella storia che ha urgente bisogno di essere cancellato e dimenticato. È in una damnatio memoriaeche i nostri media vorrebbero condannare Donald Trump. Questo trattamento dell’informazione, totalmente di parte, culmina in due fatti giornalistici che hanno attirato la mia attenzione: primo, anche se abbiamo condannato la messa in scena del potere nell’americano praticata da Donald Trump, la cerimonia di inaugurazione ridicolmente kitsch di Joe Biden, che ha coinvolto Jennifer Lopez e Lady Gaga con il suo microfono d’oro, per non parlare dei voli lirici sulla democrazia salvati in extremis da un presunto colpo di stato, non ha suscitato alcun sarcasmo giornalistico. Al contrario, una forma di meditazione, a testimonianza di una piena e totale adesione a questo scenario hollywoodiano del “tutto è bene quel che finisce bene”, ha costituito l’atteggiamento consensuale dei giornalisti che hanno seguito l’evento. Poi, il commento che Joe Biden ha iniziato il suo mandato firmando quasi due dozzine di ordini esecutivi che ribaltano le decisioni del suo predecessore ha chiaramente reso inutile qualsiasi revisione del record del suo predecessore, che è normalmente una costante richiesta e molto necessaria quando il leader lascia il potere. In altre parole, sembra inteso che Donald Trump, come lui sceglie, non ha fatto nulla che valesse la pena ricordare, incompetente che è (tesi di recesso), oppure ha preso solo decisioni sbagliate, dannose com’è (tesi dell’incubo); ma a che serve soffermarsi su quello che ha fatto o non ha fatto visto che, vedete, il suo mandato era solo una parentesi, ormai chiuso. che è normalmente una costante obbligatoria e molto necessaria quando un leader lascia il potere. In altre parole, sembra capito che Donald Trump, come lui sceglie, non ha fatto nulla che meriti di essere ricordato, incompetente che sia (tesi di recesso), o abbia preso solo decisioni sbagliate, dannose com’è (tesi dell’incubo) ; ma a che serve soffermarsi su quello che ha fatto o non ha fatto visto che, vedete, il suo mandato era solo una parentesi, ormai chiuso. che è normalmente una costante obbligatoria e molto necessaria quando un leader lascia il potere. In altre parole, sembra capito che Donald Trump, come lui sceglie, non ha fatto nulla che meriti di essere ricordato, incompetente che sia (tesi di recesso), o abbia preso solo decisioni sbagliate, dannose com’è (tesi dell’incubo) ; ma a che serve soffermarsi su quello che ha fatto o non ha fatto visto che, vedete, il suo mandato era solo una parentesi, ormai chiusa.

https://www.revueconflits.com/trump-biden-medias-riocreux-ingrid/

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?_di Hajnalka Vincze

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?

Portfolio – 28 gennaio 2021
Nota di notizie

Dietro le infinite lamentele sulla “perdita” del Regno Unito, in realtà molti si rallegrano, chi per un motivo, chi per un altro. I sostenitori dell’Europa federale ritengono che la strada sia chiara ora che il nemico giurato di qualsiasi idea di pooling (approfondimento dell’integrazione) è definitivamente fuori gioco. I campioni di un’Europa indipendente – che dipenderebbe meno dall’America – sorridono alla partenza del “cavallo di Troia” degli Stati Uniti, credendo che il loro momento sia finalmente arrivato: senza Londra, l’eterna torpediniera di qualsiasi iniziativa politica dell’Unione, l’Europa potrebbe anche diventare uno dei poli del potere nel mondo. Tale ragionamento non è del tutto infondato, ma non tiene conto dei malumori interni dei restanti Ventisette.

Sempre presente nelle teste

La Gran Bretagna ha sempre avuto una visione molto particolare della costruzione europea. Ha preferito stare lontano dal suo lancio; non solo, ha creato un’area di libero scambio che dovrebbe competere con esso e renderlo obsoleto sin dal suo inizio. Rendendosi conto del loro fallimento, gli inglesi cambiarono strategia: entrarono per meglio silurare, questa volta dall’interno, tutto ciò che prometteva di diventare più di un semplice mercato aperto. Che si trattasse di tariffe protettive, diritti sociali, autonomia strategica o politica industriale, Londra è stata un freno. Di conseguenza, le lotte più dure e frequenti l’hanno opposta alla Francia, paladina di un’Europa politica e indipendente. Quindici anni fa Jean-Claude Juncker, l’allora primo ministro lussemburghese, ha giustamente osservato, dopo una battaglia franco-britannica particolarmente dura nell’UE: “Qui si confrontano due filosofie. Ho sempre saputo che un giorno o l’altro sarebbe venuto a galla ”.

(Credito fotografico: Reuters)

Non è un caso che ciò sia avvenuto proprio in questo momento. Londra è stata rafforzata dall’adesione, nel 2004, del primo gruppo di paesi dell’Europa centrale e orientale. Nel dilemma “allargare o approfondire” che ha definito i dibattiti per tutti gli anni ’90, la Gran Bretagna spingeva per l’allargamento dell’UE più rapido e più ampio possibile nella speranza di abbattere l’inclinazione politica diluendo il progetto in un gigantesco supermercato. Di fronte a ciò, i francesi – e di tanto in tanto i tedeschi – cercavano di salvare, se necessario sotto forma di un’Europa a più velocità, l’essenza politico-strategica del progetto. Un tentativo coronato da scarso successo. Dopo l’ingresso dei nuovi Stati membri, seguaci della visione britannica, tutto suggeriva che lo scenario di un’Europa dei supermercati addormentata nell’inesistenza geopolitica sotto l’ala protettrice della NATO avrebbe prevalso per sempre.

È vero che lo spirito dei tempi ha lavorato a favore di Londra. Durante i quindici anni trascorsi dal crollo dell’ordine bipolare, il modello globalista-neoliberista controllato a distanza da Washington ha innestato una marcia in più, mentre la NATO, invece di scomparire con la Guerra Fredda, si è adattata, rinvigorita e ha persino effettuato una vera mutazione. In queste circostanze, Londra non ha avuto troppe difficoltà a promuovere, nelle parole dell’ambasciatore Usa, “la posizione comune anglo-americano all’interno dell’UE”. In vista del referendum sulla Brexit, il presidente Obama ha messo in guardia gli elettori britannici: la presenza di Londra è la garanzia che l’UE rimanga economicamente aperta e militarmente attaccata all’America. Sarà interessante osservare, dopo la Brexit, come si comporteranno i paesi membri che fino ad ora, su questi due temi, si nascondevano comodamente dietro Londra.

Minare, dall’esterno

Allo stesso modo, saranno intriganti da osservare gli sforzi che gli inglesi dispiegheranno, d’ora in poi dall’esterno, per indebolire qualsiasi dimensione politica e strategica dell’Unione. Un esempio molto divertente è il caos intorno al sistema di navigazione satellitare, Galileo (“GPS europeo”). Londra è sconvolta dalla perdita, a seguito della Brexit, del suo accesso automatico al “servizio pubblico regolamentato” (PRS) crittografato e ultra sicuro, controllato dai governi e dalle istituzioni dell’UE e in gran parte dedicato agli usi militari. La Gran Bretagna ha giurato il giorno dopo il referendum sulla Brexit che avrebbe messo in atto un proprio sistema simile, dicendo: “la sicurezza dei nostri soldati non può dipendere da un sistema esterno, che non dipende da esso”. Curioso argomento del Paese che, al lancio del programma Galileo, aveva lottato con le unghie e con i denti per impedire ogni uso militare. Con il pretesto del GPS e della NATO, non aveva trovato nulla di imbarazzante nell’essere, insieme a tutti gli altri europei, dipendente da un sistema sotto il controllo esclusivo americano.

Risultato della contesa: oggi l’Europa ha un proprio sistema di navigazione satellitare globale, mentre Londra può solo sperare in una costellazione regionale attaccata al GPS. Per una volta, l’Europa non ha ceduto ai tentativi britannici di sbrogliare. Perché Londra aveva chiesto, al di là dell’accesso diretto, un posto e una voce nel corpo di “governo” e controllo di Galileo. Esattamente come chiede un accesso privilegiato al Fondo europeo per la difesa (FES) destinato ai programmi europei di armamento, dal bilancio dell’UE. Questo gli avrebbe permesso di prendere due piccioni con una fava. Perché la Gran Bretagna ha sempre fatto di tutto per rendere le istituzioni della politica di difesa dell’UE più “flessibili”, cioè permeabili agli alleati della NATO che non sono membri dell’Unione. Da ora in poi, proverà a continuare lo stesso lavoro di affondamento, ma questa volta dall’altra parte dell’uscio.

Faccia a faccia franco-tedesco

Il successo dei tentativi britannici dipende dal fatto che i restanti Stati membri vi cedano o meno. Innanzitutto la Germania, caratterizzata da un’eterna ambiguità ma che generalmente si trova (sulla questione del grande mercato transatlantico di libero scambio o sul primato dell’Alleanza atlantica) piuttosto vicina agli inglesi. Charles Grant, il direttore del Centre for European Reform con sede a Londra, ha avvertito i parlamentari di Sua Maestà all’inizio degli anni 2010: la Gran Bretagna non può permettersi di essere passiva all’interno dell’UE, perché la sua emarginazione rischierebbe di avvicinare le posizioni di Berlino su queste questioni a quelle francesi. Non è un caso che oggi, a seguito della Brexit, la meccanica interna del motore franco-tedesco sia sotto i riflettori.

Con la partenza di Londra, Parigi e Berlino hanno perso un forte alleato all’interno dell’UE, ovviamente su argomenti diversi. Per la Francia, la Gran Bretagna è stata utile nella misura in cui – a differenza della maggior parte dei paesi membri, Germania inclusa – comprendeva l’importanza cruciale di costruire capacità militari (anche se Londra lo considerava piuttosto all’interno della struttura della NATO) e che era ferocemente desiderosa di preservare il carattere intergovernativo delle politiche estere, di sicurezza e di difesa europee. Per i tedeschi, gli inglesi sono stati un prezioso freno, sempre pronti a bloccare qualsiasi iniziativa francese che mirasse ad emarginare la NATO o mettere in discussione i principi del libero scambio deregolamentato. A seguito della Brexit, questo comodo scudo scompare su entrambi i lati; Francia e Germania si trovano ora faccia a faccia.

È sempre più difficile negare che, dietro i grandi discorsi europeisti, i due cerchino di posizionarsi nel modo più vantaggioso possibile l’uno sull’altro. Parigi vorrebbe correggere la sopraffazione economica tedesca proponendo meccanismi di solidarietà finanziaria europea, sempre più collettivizzanti. Berlino, da parte sua, si sta sforzando di neutralizzare le risorse diplomatiche e militari francesi (come il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o la superiorità nella tecnologia delle armi) spingendo, nell’UE, per una sempre maggiore integrazione in queste aree e sostenendo un passaggio delle decisioni a maggioranza qualificata. I due cercano di raccogliere intorno a loro quanti più alleati politici possibili, consapevoli delle rispettive debolezze.

La fine, ma la fine di cosa?

Chris Patten, ex commissario europeo per le relazioni esterne e rettore dell’Università di Oxford, ha prontamente ricordato un disegno della Chained Duck degli anni ’70 che mostrava un minuscolo Primo Ministro britannico, a letto, tra le braccia di una voluttuosa regina, Europa. Quest’ultimo, ovviamente seccato, gli disse: “Entra o esci, mio ​​caro Wilson. Ma smettila con questo ridicolo andirivieni ”. Con la Brexit, gli inglesi finalmente hanno obbedito e se ne sono andati, ma solo dopo più di quarant’anni. Inoltre, nel frattempo avevano in gran parte ridisegnato l’Europa striminzita. Come efficaci portatori dell’ideologia dominante degli ultimi decenni, sono riusciti a diluire il progetto al punto che, oggi, la stragrande maggioranza dei restanti Stati membri perseguirà la linea atlantista-neoliberista. O piuttosto lo avrebbero perseguito … se gli eventi non fossero stati di ostacolo.

Perché in questo periodo di cose ne stanno accadendo a livello internazionale. La pandemia del nuovo coronavirus ha inferto un colpo grave, persino fatale agli occhi di molti, a un dogma globalista-neoliberista che vacilla già da dieci anni. Chi meglio  nell’illustrarlo se non il prestigioso Financial Times di Londra, la Bibbia dei decisori europei, il cui giornale stesso nel suo editoriale dell’aprile 2020 ha sostenuto una rottura con gli orientamenti degli ultimi quattro decenni e ha chiesto un maggiore interventismo da parte dei governi, più ridistribuzione, più spesa statale a favore dei servizi pubblici. Sul fronte transatlantico, la presidenza di Donald Trump ha avuto un effetto rivelatore simile. Dietro i grandi consessi occidentali programmati a intervalli regolari, la realtà è sempre più evidente: alleanza o no, le relazioni sono principalmente determinate dai rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Ciò è generalmente vero anche per lo stato attuale delle relazioni internazionali. La riconfigurazione dei centri di gravità ha dissipato le illusioni sul trionfo universale, inevitabile, del modello liberale occidentale; ha riproposto il confronto tra grandi potenze. Ciò rivaluta, nell’Ue, “la dimensione politica” e “l’autonomia strategica”, le stesse caratteristiche che la concezione britannica avrebbe voluto scacciare una volta per tutte. È questa combinazione di sviluppi esterni (e non la Brexit) che probabilmente rimescolerà le carte in Europa. L’ex primo ministro britannico Harold Macmillan è stato intervistato da un giornalista alla fine degli anni ’50 su ciò che più influenza la politica del governo. La sua risposta: “Gli eventi, mio ​​caro ragazzo, gli eventi! “. Il dilemma dei 27 paesi dell’UE in questi giorni è se rispondere all’accelerazione degli eventi secondo il punto di vista dell’impasse britannico o preferire rilanciare il progetto dell’Europa politica. Ovviamente stanno facendo quello che sanno fare meglio: esitano.

Il testo completo, in ungherese, è disponibile sul sito Portfolio, cliccando qui .

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/591-le_brexit_camouflet_ou_cadeau_pour_leurope

CONCORDANDO CON DAVIDE GIONCO: LA MORTE, I BONOBO, IL DITTATORE SALAZAR, L’ ORDINE DEL DRAGO E  IL MODERNO PRINCIPE   Di Massimo Morigi

 

 

CONCORDANDO CON DAVIDE GIONCO: LA MORTE, I BONOBO, IL DITTATORE SALAZAR, L’ ORDINE DEL DRAGO E  IL MODERNO PRINCIPE

 

Di Massimo Morigi

 

 

Concordo in pieno con Davide Gionco. In Occidente le società antiche precristiane erano basate su un’espressività violenta (vedi Roma precristiana) unita a debole repressione sessuale. Quelle dopo la caduta di Roma avevano mantenuto la violenza espressiva ma, al contempo, avevano accentuato la repressione sessuale. In quelle moderne nate dalla rivoluzione industriale l’espressività violenta pubblica e privata è andata via via scemando (il dominio si è esercitato più direttamente in forme economico-industriali-finanziarie e/o con pratiche culturali apparentemente umanitarie, vedi metafisica e pratica dei diritti umani, vedi metafisica dell’ideologia democratico-democraticistica) e affermandosi una progressiva rimozione ed abolizione della repressione sessuale. Brillante risultato odierno: antropologicamente parlando un edonismo di massa che ha dato origine ad un’ homo sapiens ridotto ad una sorta di bonobo, il simpatico e pacifico primate in cui i legami sociali non sono formati attraverso una violenta conflittualità all’interno del gruppo ma tramite estesi ed apparentemente non violenti legami sessuali che attraversano ed impegnano tutto il gruppo, ma con la piccola differenza nell’uomo che in caso di un pericolo socialmente avvertito, come nella fattispecie del coronavirus, il bonobo umano, privato dell’originale carica aggressiva delle società precristiane, non riesce nemmeno più a mettere in atto la sua entelechia edonistica e si rifugia perciò nell’abulia e nel rifuggire il pericolo e nel rifiutare, infine, anche l’espressività sessuale (ultimo episodio, nelle moderne democrazie industriali occidentali,  di un aggressività modello precristiano, la seconda guerra mondiale. Dopo, le classi dirigenti hanno dovuto mettere in atto una organizzazione sociale che relegasse nell’oscenità il pensiero della morte e portando così a compimento le promesse di immortalità connaturate con l’Illuminismo). Quindi il coronavirus è sì un complotto, ma un complotto tutto particolare, cioè un complotto oggettivo nato dalle nostre debolezze cultural-comportamentali di “moderni”, unito anche, ovviamente, al fatto che di questa situazione se ne approfittano, oggettivamente, chi per strumenti culturali e/o posizione sociale e produttiva non è de facto completamente omologato alla narrazione democraticistica (anzi, dentro di sé, la disprezza di tutto cuore: si rimanda alla nostra individuazione degli agenti alfa-strategici e degli omega-strategici anche per comprendere l’ ultima impotente narrazione-mutazione terrorizzante di questa ideologia), che si è (auto)imposta la nostra società di massa. E se culturalmente per il momento è impossibile uscire da questa situazione di terrore della morte (e di veterodemocraticismo), dal punto di vista politico quello che si può fare è convertire poco a poco le nostre società di massa “bonobizzate” in società dove si faccia largo una maggiore consapevolezza strategica. Politicamente creare un complesso militare-industriale che affronti con consapevolezza le sfide della vita e della morte degli individui e delle società è da incoraggiare (primi timidissimi e contradditori passi in questa direzione dalle mosse del Governo Draghi sulla creazione di una capacità italiana di produrre vaccini e la consapevolezza che le inoculazioni devono procedere anche manu militari, vedremo se alle buone intenzioni seguiranno anche concreti atti ed  efficaci per raggiungere lo scopo: Draghi è un politico-tecnocrate di alto livello, significando questo che come politico di alto livello ha ben presente la totalitaria dimensione strategica della politica ma, come tecnocrate neoliberista gli ripugna con tutto l’animo che questa strategicità percoli dall’alto verso il basso. Insomma Draghi è tutto fuorché il machiavelliano-gramsciano  “Moderno Principe”: è più un novello Salazar defasticizzato  e servito alle masse ottenebrate dalla narrazione democraticistica, piuttosto che il vero Salazar che pur essendo il suo nano gobbo nascosto dentro il tavolo della scacchiera  e  che parimenti era un politico-tecnico di grande valore ma ideologicamente espressamente  autoritario ed antidemocratico). Se quindi dal punto di vista della politique politicienne nulla da eccepire, per ora, a quello che sta cercando di mettere in cantiere il nuovo governo (e il fatto che il nuovo primo ministro si rivolga, per quanto riguarda il recovery plan, a esperti delle maggiori multinazionali, non deve destare alcun scandalo; anzi non è che la dimostrazione del sue conosciute entrature e della sua mentalità strategica. Insomma quello che suscitava il giusto disgusto se tentato dall’avvocato Rocco Tarocco precedente presidente del Consiglio, cioè bypassare i nostri sputtanati ministeri responsabili della spesa, deve essere guardato con favore se tentato dal nuovo presidente del Consiglio dell’Ordine del Drago: noi al contrario di tanti falsi sovranisti, siamo in primo luogo realisti e quindi veramente sovranisti),  per quanto riguarda l’ambito strategico del nostro campo d’azione, cioè il l’azione cultural-politica per porre le basi del “Nuovo Principe”,  è necessario passare da una narrazione dirittoumanistica da fairy tales ad una improntata su una “epifania strategica” che investa sia i singoli sia le formazioni sociali dove questi singoli si trovano a vivere e ad esprimersi. Ma su questo abbiamo già detto e continueremo ancora per molto a dire … Massimo Morigi – 7 marzo 2021

link di riferimento http://italiaeilmondo.com/2021/03/07/per-paura-di-morire-abbiamo-smesso-di-vivere_-di-davide-gionco/

LA MERITOCRAZIA DEI COMPETENTI E LA MERITOCRAZIA DEI TALENTI, di Leo Renzi

LA MERITOCRAZIA DEI COMPETENTI E LA MERITOCRAZIA DEI TALENTI: PERCHE’ MARIO DRAGHI HA BISOGNO DI ELODIE
Lo scenario socio-economico è drammatico: disoccupazione femminile galoppante, l’aumento del disagio psichico giovanile a causa dell’isolamento sociale e dell’assenza di prospettive per il futuro, il Sud abbandonato a se stesso. Il Recovery Fund promette di portare alle casse dello Stato pochi spicci in cambio del pareggio del bilancio… in questo scenario di generale smarrimento e sfiducia nel futuro, le lotte collettive sono pressoché azzerate, dato che ognuno s’ingegna a sopravvivere come può.
In questo contesto il potere per legittimarsi deve dare una speranza, proporre un ordine dai valori monolitici e dai criteri chiari per dividere chi rientra nella società post-pandemica e chi no. Il valore individuato proposto da Draghi è la meritocrazia, di cui lui è la massima incarnazione tricolore. Il problema della meritocrazia che propone come modello i Draghi, i membri del CTS, i CEO delle multinazionali, gli scienziati delle Big Pharma ecc è che i suoi connotati di classe sono fin troppo lampanti: solo se vieni da una famiglia ricca o quanto meno benestante puoi sperare di poter investire decine di migliaia di euro in istruzione e master, per aprirti un’azienda hi-tech o mentre scali dal basso le gerarchie delle istituzioni universitarie o degli organismi internazionali… e se nasci come Elodie in una famiglia povera o appartenente alla classe media impoverita? In quel caso il sogno della scalata dal basso si arresta già alla fine delle superiori, quando altri 5 anni di studio e altre decina di migliaia di euro investiti sembrano uno sforzo titanico alle finanze familiari. Ecco allora spuntare il puntello all’autoevidente classismo del sistema della meritocrazia dei competenti, che noi chiameremo la meritocrazia dei talenti: nel caso tu nasca povero e i soldi per acquisire le competenze per la scalata sociale non li hai, puoi puntare sui tuoi talenti sportivi e artistici che abbisognano più di tempo che di soldi per essere sviluppati e messi a rendita… se ti mancano i soldi per diventare Draghi, puoi diventare Elodie o Ibrahimovic, Marracash o Paola Egonu.
E’ il sistema USA delle “attitudini” trasportato nel Bel Paese: esattamente come negli USA alle minoranze etniche (e ai bianchi poveri) escluse dall’american dream a causa delle svantaggiose condizioni sociali di partenza vengono proposte potenziali ricche carriere nel basket o nel cinema, nel baseball o nel rap, qui si tenta un’operazione simile, facendo balenare ai poveri esclusi dal sistema della competenza il sogno dell’ascesa sociale tramite lo sport, il cinema o la musica.
Elodie (intesa ovviamente non come persona, ma come idealtipo) è quindi l’altra faccia della medaglia di Mario Draghi: il tutti contro tutti per arrivare ad occupare il vertice dello showbiz sostituisce la lotta di classe per il miglioramento delle condizioni collettive, chi nasce economicamente svantaggiato invece di lottare per migliorare le proprie condizioni di partenza o le proprie condizioni di lavoro tramite welfare state e diritti sindacali, si batte perché gli sia garantito l’accesso all’arena dei talent o delle giovanili sportive. Il fatto che ai vertici dello sport o dello spettacolo ci possano stare solo poche centinaia di persone non mette in crisi il modello: l’importante è che la lotta per essere fra i pochi privilegiati sia aperta a tutti, così che tutti si impegnino nel combatterla distogliendo le loro forze dalle lotte collettive. E chi non vuole partecipare a tale battaglia o si accorge fin da giovane di averla persa? Non gli rimane che la povertà e l’insignificanza, perché ogni altra forma di miglioramento delle proprie condizioni socio-economiche è svanita: i partiti con radicamento popolare sono morti, lo stato è ovunque in ritirata e contrae i fondi destinati alle fragilità sociali, i sindacati non promuovono più lotte salariali.
Il problema del discorso autobiografico-motivazionale di Elodie a Sanremo non è quindi l’essere la storia del suo riscatto personale, ma il suo fungere da puntello ideologico inconsapevole ad una nuova idea di società: quella in cui pochi competenti iperistruiti dominano una massa di poveri ed impoveriti in lotta per accaparrarsi i posti al vertice dello showbiz.
AFFINITA’ E DIVERGENZE FRA LA COMPAGNA ELODIE E NOI, di Leo Renzi
Parafrasando il titolo di un vecchio album dei CCCP rispondo alle obiezioni più interessanti generati dal mio post sul discorso autobiografico-motivazionale di Elodie, per chiudere la polemica e passare ad occuparmi d’altro.
1) Prima obiezione: il discorso di Elodie non collima al 100% con la mia definizione dello stesso come “american dream in salsa tricolore”.
La mia risposta: io ho preso il discorso di Elodie come un idealtipo di una serie di uscite analoghe fatte da cantanti, attori, sportivi, ecc sul medesimo tono e nel medesimo arco temporale (quest’anno segnato dalla pandemia). L’ideatipo è un modello, a cui i singoli discorsi concreti non si conformano mai al 100%. Questo perché gli esseri umani non sono stereotipi ambulanti ma biografie complesse da cui si estraggono minimi comun denominatori: è quello che fa da sempre la sociologia e la critica del costume.
2) Seconda obiezione: criticare Elodie è classista.
Risposta: classista sarebbe se avessi criticata la sua scelta d’aver abbandonato la scuola per la carriera d’artista, invece di proseguirla e diventare l’ennesima laureata squattrinata. Io non l’ho assolutamente fatto, sia perché dal punto di vista della sua ascesa sociale personale ha compiuto la scelta migliore, sia perché non ho il feticismo dell’istruzione. Il problema che ho posto io è un altro: a livello statistico è più facile migliorare o mantenere il propio status sociale puntando sull’istruzione che scegliendo la via dello showbiz. Per questo è problematico proporre la sua ascesa personale come un modello per altri dal palco di Sanremo.
3) Terza obiezione: il fatto che un mascio-etero-bianco critichi una donna è una forma di etero-patriarcato maschilista.
Risposta: questo è fondato solo se si adotta il modello liberal delle politiche dell’identità: quindi ogni genere, orientamento sessuale, etnia, ecc è un mondo chiuso in se stesso, a cui è impossibile muovere alcuna critica o persino azzardarsi a fare un’analisi di ciò che propone. Essendo un umanista io ritengo invece che ogni essere umano, indipendentemente da razza, sesso, religione, ecc sia dotato di ragione, e quindi ogni essere umano abbia il diritto di analizzare e criticare ciò che un altro essere umano sostiene pubblicamente.
4) Quarta obiezione: criticare (o perfino analizzare) significa odiare l’oggetto criticato.
Risposta: questa è un’aberrazione concettuale che rimanda tanto alla retorica berlusconiana (critichi il Cavaliere perché lo invidi) quanto alla visione emozionale e sentimentalistica tipica dei talent, dove non esistono idee neutre ma solo odi, amori, ammirazioni e rancori. Non sono nè pro nè contro Elodie, e non vedo perché dovrei esserlo: è un individuo che si muove in un determinato ambiente sociale, ha un determinato ruolo e lo esercita secondo determinate idee. E’ questo ad interessarmi, null’altro.
5) Quinta obiezione: lei ha solo raccontato la sua vita davanti a tutti, e ha proposto un sogno che da speranza ad altri.
Risposta: vederla in questo modo significa decontestualizzare totalmente il discorso. Parlare della propria autorealizzazione e ascesa sociale dal palco del festival musicale più seguito d’Italia non è un accidente, ma una scelta. Proporre una determinata scelta individuale come modello in un momento storico di crisi economica generalizzata non è un caso, ma suggerire implicitamente una possibilità per uscirne.
Ribadito questo, non c’è assolutamente nulla di male nella persona di Elodie né nel suo discorso preso in sé: è il proporlo implicitamente come modello per altri nell’attuale contesto socio-economico ad essere perlomeno problematico.
Detto questo e ritornando al titolo del post, le affinità che trovo con la compagnia Elodie sono tante quanto le divergenze: l’ambizione nel puntare all’ascesa sociale è sacrosanta se sei povera, dato che è quell’ambizione a muovere da sempre tanto la lotta individuale quanto quella collettiva; il farlo bypassando il sistema classista dell’istruzione se hai i talenti e le conoscenze per farlo è un punto a favore, poiché il feticismo dell’iperistruzione è tipico della classe media benestante e della wannabe tale, classi che amo molto poco; l’esprimere pubblicamente dubbi e insicurezze nonostante il successo raggiunto significa rimanere esseri umani complessi, evitando di diventare stereotipi ambulanti del mito del selfmade man/woman.
Detto ciò, il punto rimane quello del mio primo post: i posti disponibili al vertice dello showbiz sono poche centinaia, ai milioni di individui che non ce la faranno a fare la scalata cosa resta? E’ ancora possibile per loro aspirare ad una vita dignitosa? Questo è il vero punto su cui riflettere.
Maurizio Tirassa

Grazie, bella l’intervista di Sacchetti. A me poi la musica leggera piace, la ascolto poco ma ogni tanto sento cose belle. Nel cinema la svolta verso il basso è avvenuta quando a) lo Stato ha smesso di imporre quote alle importazioni da Hollywood (come insegna F. List, non si può competere con chi è già arrivato in cima alla scala con il free trade) b) quando Silvio ha comprato il catalogo Paramount e ha cominciato a iniettare film in tv 24/7. Manco Alessandro Magno poteva resistere a quelle condizioni. In concomitanza con questi eventi luttuosi c’è stato un profondo cambiamento di mentalità del pubblico riguardo al rapporto tra cultura/arte/artigianato e merce. Esempio illuminante. Nella vecchia pubblicità di Carosello, c’era una storiella con una sua autonomia + il personaggio famoso, di solito un attore, che faceva il testimonial, tipo Gino Cervi con “Vecchia Romagna etichetta nera, il brandy che crea un’atmosfera”: dopo la storiella Gino in giacca da camera col bicchiere in mano. Stop. Questa forma rispecchiava la mentalità profonda del pubblico italiano, in particolare della borghesia, alta media e bassa. In sintesi “i soldi piacciono a tutti ma sono una cosa inelegante e un po’ schifosa benché necessaria, che va tenuta a distanza dalla cultura, dall’arte, dall’amicizia e dai bambini” Sono abbastanza vecchio da ricordare che a) ai ragazzi le persone ammodo NON davano soldi, MAI, se non contati, per precise incombenze. L’idea di dargli la carta di credito non sfiorava la mente di nessuno, neanche dei ricchi. b) A persona di ceto non subalterno NON si davano MAI i soldi direttamente in mano, sempre in una busta, e posandoli sul tavolo o altra superficie, MAI direttamente in mano, tipo “facciamo finta di niente”. Negli anni 70, arrivò il primo esempio di pubblicità all’americana, con la merce sbattuta in faccia al pubblico. Era la pubblicità del Dash. Paolo Ferrari, ottimo attore caratterista del teatro italiano, assurto a fama universale grazie allo sceneggiato TV in cui Tino Buazzelli interpretava il detective dilettante Nero Wolfe e Ferrari il suo braccio destro Archie Goodwin, si presentava a un paio di casalinghe italiane con due fustini di detersivo ignoto e proponeva: “Le do due fustini se le mi dà il suo fustino di Dash”. La casalinga si dichiarava pronta a morire per il suo fustino di Dash. Bene. Dopo l’esordio del carosello Dash, Ferrari torna in teatro a fare il suo mestiere. Quando entra in scena, dalla platea buia sorge il mormorio “Dash….Dash…Dash”. Il pubblico tossisce, si agita, è inquieto, non ci sta a rivedere in scena “in una cosa seria” il buffone del fustino. Ferrari ha avuto seri, serissimi problemi a ritrovare scritture in teatro. Giustapponi questo aneddoto a quello di Accorsi e della svolta con il Maxibon che ho riferito sopra e capisci tutto della svolta di mentalità del pueblo italiano.

Prima & dopo la cura, di Roberto Buffagni

In sintonia con il 150esimo dell’Unità d’Italia, mi sento in vena di anniversari, bilanci e morali. Ho cominciato la scorsa settimana con il bilancio di venticinque anni di frequentazione del varietà, ricavandone la seguente morale: com’è triste, il comico italiano!Oggi la serie prosegue con un altro bilancio venticinquennale: la mia prima (1986) e seconda (2010) traduzione per le scene italiane di Glengarry Glen Ross di David Mamet.

Il banale aneddoto personale servirà per lanciare il seguente sondaggio d’opinione: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e no, stiamo peggio o stiamo meglio?” E via con la storiella.

Venticinque anni fa tradussi e adattai per le scene italiane Glengarry Glen Ross di David Mamet (Teatro Stabile di Genova 1986, regia L. Barbareschi, con P. Graziosi, U.M. Morosi). In America Glengarry aveva appena vinto il Pulitzer. Ivo Chiesa, che dirigeva lo Stabile di Genova, mi affidò la traduzione perché due anni prima avevo per primo tradotto e adattato per il Piccolo Eliseo un lavoro di Mamet (American Buffalo, regia F. Però, con M. Venturiello e S. Rubini). Problema: Mamet era ritenuto, con ottime ragioni, intraducibile. Il “Mamet speak”, come lo chiamano negli USA, è uno slang strettissimo dal ritmo jazzistico studiato sul modello criptico della lingua di Pinter, e punteggiato da un turpiloquio di asfissiante monotonia. I suoi personaggi sono così idiosincraticamente e naturalisticamente americani che li identificherebbe a prima vista per tali uno spettatore proveniente da Alpha Centauri. Con American Buffalo m’ero cavato d’impiccio con un radicale adattamento italiano, e avevo trasformato i due balordi di ghetto USA in due balordi italiani di periferia metropolitana, riscuotendo un lusinghiero successo personale. Ma Glengarry non si poteva trasportare in Italia, perché il contesto dell’azione drammatica non aveva un vero e proprio correlativo oggettivo italiano, e dunque avrei finito per riscrivere daccapo un dramma “liberamente tratto” dall’opera di Mamet (che mi avrebbe giustamente mandato in galera).

Che cosa c’era di così alieno per un italiano, nel contesto dell’azione drammatica di Glengarry? La trama è questa. Un gruppo di agenti immobiliari che lavorano al limite della truffa vende terreni farlocchi a prezzi gonfiati. I capi indicono un sales contest mensile: il primo in classifica vince una Cadillac, gli ultimi due il licenziamento in tronco. USA land of opportunities, e vinca il migliore? Mica tanto. La gara è falsata da una specie di Comma 22. Per vendere è indispensabile avere i nominativi di serie A, quelli dei migliori clienti potenziali, che i capi comunicano solo a chi fattura di più; a chi fattura di meno, danno nominativi di serie Z (balordi spiantati). A fine primo atto qualcuno sfonda la porta dell’ufficio e ruba i nominativi di serie A. Chi è stato? Non guasto la festa a chi volesse per la prima volta leggersi il dramma o vedersi il film che ne fu tratto (Americani, 1992, di J. Foley, con Al Pacino, Jack Lemmon, Ed Harris, Alan Arkin, Kevin Spacey e Alec Baldwin, quest’ultimo nella foto in alto, mentre prorompe nella ormai epocale battuta: “Secondo premio: sei coltelli da bistecca”…).

Per l’attore italiano del 1986, e di conseguenza per lo spettatore italiano suo contemporaneo, i personaggi di Glengarry e le loro motivazioni erano totalmente alieni perché:

1) I suddetti personaggi non agiscono in base a motivazioni psicologiche riconducibili alla loro storia ideologica, emotiva, familiare, etnica, sessuale, etc. Non hanno storia personale, non hanno profondità psicologica: in confronto, Arlecchino è un personaggio ibseniano. Come ai personaggi di Pinter, gli è stata chirurgicamente asportata la dimensione del “perché”, sotto tutto i rispetti tranne uno: i rapporti di forza di volta in volta vigenti nella situazione drammatica data. Nel caso di Glengarry, questi rapporti di forza dipendono esclusivamente da due elementi: a) i soldi b) la capacità di ingannare il prossimo allo scopo di fare soldi: un’abilità direttamente proporzionale alla fiducia in sé generata dai soldi fatti nell’immediato prima.

2) Il contesto descritto al punto precedente non produce una commedia magari nera sugli imbroglioni, ma una tragedia esistenziale dov’è questione di vita e di morte perché: a) non esiste la minima provvidenza sociale, né la minima rete di protezione familiare o amicale, per chi perde il posto di lavoro. Se non ne trovi subito un altro (e se non sei giovane e vincente non lo trovi) facile che finisci a dormire per strada e rovistare nei cassonetti b) le spese correnti assorbono tutto il reddito, e anzi è normale campare sui debiti, finché regge il plafond delle carte di credito. Se ti salta il reddito di un mese, non hai di che pagare la consumazione al bar. Se nella competizione per fare soldi (con qualsiasi mezzo) non vinci, vieni dunque annichilito, liquidato, cancellato anche dalla memoria altrui: sei morto e forse peggio che morto.

Insomma, per interpretare credibilmente un personaggio di questo dramma, l’attore italiano di venticinque anni fa non sa da che parte prenderlo. Proponendo i ruoli sulla base di una prima stesura della traduzione abbastanza fedele all’originale, il regista ed io ci sentiamo chiedere più di una volta: “Ma chi è questa gente?! Che storia ha? Perché dice questo?” (Un grande attore caratterista rifiutò il ruolo che al cinema fu di Jack Lemmon perché nel dialogo c’erano troppe parolacce: o gran bontà dei cavalieri antiqui…). Provo a spiegare quel che ho spiegato qui, do fondo alle mie capacità analitiche e retoriche, e vedo certe facce… niente da fare, il messaggio non arriva.

Una legge ferrea del teatro è la seguente: se gli attori non capiscono e accettano a fondo il loro personaggio e le sue motivazioni, tanto meno lo capiranno gli spettatori. Risultato: per quanto si parli e si spieghi, lo spettacolo va a sbattere. Dunque trasformo la traduzione in parziale adattamento, e pur senza modificare radicalmente l’azione drammatica e l’ambientazione, che rimane americana, arrotondo e do spessore psicologico ai personaggi. Dirò senza falsa modestia che feci un ottimo lavoro; infatti, col nuovo copione sbrigammo in quattro e quattr’otto il casting, lo spettacolo ebbe un largo successo di pubblico e di critica, e ci incassai anche un bel po’ di diritti d’autore.

Passano venticinque anni e succedono tante cose: a me, al teatro, all’Italia e agli italiani.

Nel 2010 un nuovo gruppo di attori, guidati da un’altra regista, vuole rimettere in scena Glengarry Glen Ross (Compagnia Jurij Ferrini in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, regia di C. Pezzoli, con J. Ferrini, M. Fabris). Cristina Pezzoli, una cara amica, e Jurij Ferrini che conoscevo e stimavo solo di nome (è un ottimo e inventivo attore) leggono la mia traduzione di venticinque anni prima, la confrontano con l’originale e si accorgono che c’è molta farina del mio sacco. Mi chiedono il perché, e io glielo spiego. Ne parliamo, e visto che il tempo c’è, decidiamo di provare a riavvicinarci all’originale. Riscrivo una traduzione aderentissima all’originale, nel lessico, nel ritmo, nella costruzione dei personaggi, insomma in tutto (un lavoraccio). La proviamo con gli attori, tutti giovani. Risultato: tutti entusiasti. Naturalmente si accorgono che è molto difficile interpretarla bene, ma nessuno fa problemi, nessuno chiede “Chi è questa gente? Che storia ha? Perché dice questo?”. Quando spiego che qui le uniche motivazioni reperibili sono i soldi, nessuno trasecola, nessuno fa la faccia perplessa, tutti annuiscono come quando dici che fuori piove, e in effetti sta scrosciando un temporale. Insomma, si va in scena al Festival di Asti, e Glengarry 2 nella nuova traduzione ottiene un buon successo di pubblico e di critica.

Dipende dal fatto che nei venticinque anni trascorsi dalla prima alla seconda messa in scena italiana di Glengarry David Mamet è diventato famoso anche qui? No. La fama ti garantisce disponibilità all’ascolto, non comprensione; e se un attore non capisce sul serio, sa di non poter fare una decente figura in scena.

No. Dipende dal fatto che in questi venticinque anni, il contesto americano di Glengarry è diventato il nostro contesto. Attori e pubblico italiani non trovano più strano un personaggio senza storia e senza psicologia, motivato esclusivamente da rapporti di forza basati sui soldi e basta. Non trovano più alieno un mondo in cui puoi venire licenziato di punto in bianco, e non avendo la protezione della famiglia, degli amici e dei risparmi, facile che finisci a dormire sotto i cartoni. Uno sviluppo drammatico basato esclusivamente su rapporti di denaro (per somme nient’affatto grandiose, poco più che spiccioli) li tiene col fiato sospeso e la faccia scura perché sanno che si tratta di una tragedia esistenziale dov’è questione di vita e di morte (venticinque anni fa, il pubblico rideva e sorrideva spesso; oggi, quasi mai).

Ah, per finire: di diritti, ci ho preso una miseria. Come mai? Perché venticinque anni prima il Teatro Stabile di Genova produceva lo spettacolo con la sua compagnia (altrettanto stabile e dignitosamente pagata), e garantiva una più che onorevole tournée italiana dello spettacolo. Venticinque anni dopo, il Teatro Stabile di Torino nella teoria produceva lui lo spettacolo, però nei fatti lo dava in franchising per due euro alla compagnia Jurji Ferrini, così: a) attori, regista, scenografo, etc., tutti precarizzati, erano costretti a lavorare per una miseria anticipando le spese vive b) non dovendo ammortizzare le spese di allestimento e riscuotendo egualmente il finanziamento ministeriale e regionale, lo Stabile di Torino non aveva motivo di garantire la tournée allo spettacolo.

Tant’è vero che a un certo punto, parve che addirittura lo Stabile di Torino non volesse ospitare il nuovo allestimento di Glengarry nel suo circuito regionale piemontese. Gli attori erano disperati: rischiavano di lavorare gratis e forse di doverci rimettere di tasca propria. Allora uno di loro, amico personale di Mario Martone, il regista cinematografico che era anche direttore artistico dello Stabile di Torino, inghiotte l’orgoglio e gli telefona. “Caro Mario, come stai?” “Ah, ciao caro ***”. “Sai, Mario, sto facendo Glengarry con Ferrini e la Pezzoli, il lavoro è appassionante, sta venendo molto bene, etc. etc.” “Ah sì? Mi fa molto piacere, poi lo so, Ferrini è bravissimo, la Pezzoli la stimo molto, etc. etc.” “Sì, però, vedi Mario, qui la produzione non ci vuole dare il circuito regionale, siamo disperati, senza quelle piazze finisce che ci rimettiamo di tasca nostra…” “Ma davvero?! Incredibile, dove andremo a finire! E dimmi, chi lo produce lo spettacolo?”

Lo spettacolo lo produceva lui. Lui, cioè il Teatro Stabile di Torino, grande istituzione culturale pubblica da lui diretta. Venticinque anni prima, per risolvere qualche problemino dell’allestimento di Glengarry 1 c’era capitato di dover telefonare a Ivo Chiesa, direttore dello Stabile di Genova e famigerato autocrate: posso garantire che se a volte ci mandò a quel paese, mai e poi mai dubitò di esserne il produttore (anzi, noi ci lamentavamo, poveri ingenui, che fosse troppo padronale; mica è roba sua lo spettacolo, siamo noi artisti che, etc., etc. … perdono, Ivo! Guarda di lassù, come siamo ridotti!)

Alzheimer? Vista l’età di Martone, escluderei. No, è che in questi venticinque anni, i teatri stabili sono diventati macchine celibi: producono soprattutto se stessi (e i redditi che ne derivano). Il resto, cioè il teatro, è un effetto collaterale, una variabile dipendente, un sottoprodotto, un niente. Grande importanza invece hanno assunto il packaging e l’immagine: ecco perché il Teatro Stabile di Torino ha trovato conveniente nominare (e pagare immagino bene) un direttore artistico celebre che avendo altri interessi, fa magari un salto alla conferenza stampa d’apertura della stagione, rilascia qualche intervista, se ne ha voglia produce uno spettacolo suo, e per il resto non disturba i conducenti.

A questo punto, direi che possiamo rispondere alla domanda che ho proposto in apertura: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e no, stiamo peggio o stiamo meglio?”

Io inauguro il sondaggio rispondendo: “Stiamo peggio.” A voi la parola.

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2012/01/

Per paura di morire, abbiamo smesso di vivere_ di Davide Gionco

Per paura di morire, abbiamo smesso di vivere
di Davide Gionco

La perdurante campagna di terrorismo mediatico intorno alla pandemia del covid-19 (perché se fosse informazione corretta, sarebbe un’altra cosa) fa leva sul nostro istinto di sopravvivenza: se so che una certa azione comporta dei rischi per la mia incolumità, la evito. Si tratta di un atteggiamento che funziona bene nel caso di un pericolo immediato, come il rischio di un incidente stradale, ma che non sempre porta dei vantaggi nel caso di situazioni che perdurano nel tempo.
Un esempio classico è quello del fumo: tutti sanno che fumare fa male e che riduce la speranza di vita, tuttavia molti fumano (per la cronaca: non sono un fumatore), perché ritengono che fumare sia un “piacere della vita”, che la rende più piacevole, anche se forse più breve. Tutti sanno che un’alimentazione sana unita ad una regolare attività fisica è qualcosa che può allungare la vita, ma molte persone preferiscono alimentarsi con cibi più saporiti (anche se meno sani) e non affaticarsi a fare sport, preferendo altre attività ritenute più piacevoli. Tutti sanno che è pericoloso viaggiare, tuttavia molte persone viaggiano, perché viaggiare consente di lavorare, di rendere visita a persone care, di gustare qualche splendido angolo del mondo.
Il famoso filosofo Epicuro di Samo (341-270 a.C.) si era giustamente occupato del ruolo del piacere nella vita umana. Non siamo dei vegetali che devono sopravvivere, ma delle persone che desiderano vivere, riempire la propria esistenza di esperienze piacevoli che rendano la vita degna di essere vissuta.
Ho conosciuto una signora che era terrorizzata dai “microbi” che avrebbero potuto far ammalare i suoi figli. Per questo non lasciava mai i figli uscire di casa, per ridurre i rischi di malattie. Alla fine i figli si ammalarono comunque, una volta diventati adulti. E in compenso crebbero come delle persone tristi ed asociali, perché per evitare le malattie avevano sistematicamente evitato di tessere relazioni sociali.

Gli gnu della savana sanno che per vivere (nutrirsi, accoppiarsi, riprodursi) dovranno passare dall’altra parte del fiume, dove li attendono i verdi pascoli. Per questo motivo non esitano ad attraversare il fiume infestato dai coccodrilli. Sanno che qualcuno morirà (il quale lotterà per non soccombere), ma sanno anche che è il prezzo da pagare per continuare a vivere.

E noi essere umani, come ci siamo ridotti dopo un anno di pandemia e di misure di confinamento?
Abbiamo ridotto ai minimi termini le nostre relazioni sociali, proprio noi che siamo la specie sociale per eccellenza: chiusi in casa per evitare i rischi del contagio, senza potere scherzare (o piangere) con gli amici, senza poter corteggiare una ragazza di cui ci siamo innamorati, senza poter partecipare al funerale di una persona cara deceduta (sì, siamo arrivati anche a questo), senza poterci gustare un’opera d’arte o un concerto musicale, senza poter andare al mare a godersi il tramonto sulla spiaggia.
Si tratta di attività definite “non essenziali”, senza le quali, però, nessuno di noi potrebbe vivere. Se i nostri genitori non si fossero innamorati in occasione di attività “non essenziali” (un ballo, una vacanza al mare, in pizzeria, tutte cose oggi rigorosamente vietate in nome del covid…), non ci avrebbero messi al mondo e nessuno di noi oggi esisterebbe. Le attività legate alla socializzazione sono quindi più che mai essenziali per l’esistenza degli essere umani e per la perpetuazione della nostra specie.

Stiamo smettendo di fare all’amore. Secondo uno studio che ha coinvolto 500 italiani fra i 16 ed i 55 anni, lo stress generato al terrore sociale e dalle misure di confinamento ha portato ad un calo del desiderio sessuale, con conseguente riduzione dei rapporti. Fare all’amore con la persona che si ama è una attività essenziale o non essenziale?

Stiamo smettendo di fare figli. Nel 2020 ci sono stati circa 80 mila morti in più rispetto alla media, ma nessuno ha fatto notare come ci siano stati 160 mila nati in meno rispetto al 2010 (nostra stima, in attesa dei dati ufficiali ISTAT per il 2020). Questo processo di denatalità è peraltro in atto da molti anni, probabilmente causato dalle paure e dalle incertezze della persistente crisi economica, perché sempre meno giovani coppie osano investire nel futuro. Se giustamente intendiamo salvare dal covid-19 le persone anziane che abbiamo a cuore, per quale motivo abbiamo rinunciato a dare origine a nuove vite? Il fatto di non mettere al mondo dei figli, che certamente saprebbero riempire di gioia la vita degli adulti, oltre che garantire un futuro alla nostra società, significa privarsi di affetti fondamentali per la nostra esistenza, probabilmente molto di più di quanto lo siano gli affetti verso le persone anziane delle quali prolungheremo la vita grazie alle misure anti-covid.
Anche se, ovviamente, non si tratta di numeri comparabili, vale di più prolungare di qualche anno la vita delle persone anziane o mettere al mondo dei nuovi bambini che le sostituiscono, secondo come ha previsto Madre Natura? Che senso ha attuare misure di restrizione sociale anti-covid (unite al terrorismo mediatico) che consentono di salvare alcune decine di migliaia di vite di persone anziane, se poi questo ci costa, socialmente parlando, una riduzione del numero delle nascite di nuovi bambini? Oltre a danni sociali difficilmente misurabili in tutta la società.

Ogni anno in Italia muoiono circa 70 mila persone per le conseguenze del fumo (il “piacere della vita” sopra citato). Nessuno se ne scandalizza, eppure potremmo evitare queste morti con un ferreo divieto del fumo in Italia, che sarebbe certamente molto meno devastante, dal punto di vista sociale, delle limitazioni imposte per evitare un numero eccessivo di morti per covid-19.
Ogni anno muoiono in Italia circa 40 mila persone per le conseguenze dell’alcolismo. Nessuno se ne scandalizza. Perché non si vieta in modo assoluto il consumo di alcool? Non lo si fa, perché l’alcool, se assunto con moderazione, è uno dei piaceri della vita, ma un divieto assoluto dell’alcol sarebbe socialmente meno dannoso dell’attuale lockdown.

Con le restrizioni anti-covid abbiamo sostanzialmente sospeso ogni iniziativa di tipo economico: chi mai può pensare (a parte Jeff Bezos, che ci sta guadagnando con le vendite online) di fare investimenti economici in un periodo portatore di tutte queste incertezze per il futuro?
E’ stata uccisa la speranza in un futuro migliore, ciò che dà sapore alla vita che viviamo. Siamo stati ridotti a vegetali da mantenere in vita, mentre prima eravamo persone che vivevano.

In tutta la sua storia l’umanità ha affrontato numerose pandemie, anche molto più gravi di quella attuale, senza per questo mai cessare di godersi la vita, di fare figli e di investire nel futuro. La naturale paura di morire non ha mai portato a smettere di vivere, riducendosi a sopravvivere. Agli eventi della vita, comprese guerre e malattie.

Non si tratta di un discorso cinico, ma del significato e della qualità della nostra vita: fino a che punto ha senso che una intera società RINUNCI A VIVERE, per mesi e mesi, senza prospettive, solo per ridurre l’incidenza di una delle molte cause di morte fra la popolazione?
E’ qualche cosa che ricorda la situazione di persone che sono state rapite, rinchiuse in carcere a vita o detenute in confino, le quali sono ridotte a vivere alla giornata, senza poter guardare al futuro, senza poter sognare qualcosa che possa dare senso alla loro vita. La speranza viene ridotta all’attesa che la situazione di reclusione finisca, senza alcuna idea su quello che seguirà.

Il coronavirus in un anno ha fatto 80 mila morti su di una popolazione di 60 milioni di abitanti, il che significa lo 0,13% di morti per questa malattia. Se non ci fossero state le misure restrittive, ma sono misure mirate a proteggere le persone a rischio, supponiamo che saremmo arrivati ad un tasso di mortalità dello 0,2% (120 mila morti). Evitare la morte dello 0,2% della popolazione vale il prezzo della distruzione della socialità, del senso di vivere delle restanti 59’780’000 persone?

Forse dietro a tutto questo c’è una visione egoistica della vita: abbiamo paura di morire, abbiamo paura che muoiano i nostri cari. Per questo preferiamo imporre a tutti quanti di smettere di vivere, per ridurre il rischio a nostro carico di dover soffrire.
Anche io ho toccato con mano la morte di persone care a causa del covid, anche io sto attento a non contagiare le persone a rischio, per rispetto della salute di quelle persone. Ma per questo non mi sento in diritto di mancare rispetto alla stragrande maggioranza di persone “non a rischio”, privandole del mio apporto di socialità, di vita piena.

Mi auguro che queste riflessioni aiutino a superare la sterile contrapposizione “normali contro negazionisti” o “vaccinisti contro antivaccinisti”. Non è questo il punto. Il punto è che, senza accorgercene, stiamo diventando persone disumane, perché stiamo reprimendo la nostra umanità in nome delle misure di prevenzione anti-covid. Siamo davvero sicuri che il prezzo che pagheremo per questo, alla fine, non sia ben più alto di quello che avremo guadagnato?

NB apparso anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/03/06/per-paura-di-morire-abbiamo-smesso-di-vivere/

Vecchi dentro, di Giuseppe Masala

Secondo fonti di stampa Mario Draghi ha affidato i dossier del Recovery Plan da presentare a Bruxelles alla società di consulenza aziendale McKinsey. Fatto salvo il fatto che il governo precedente ha perso un anno di tempo e ci sono dei tempi strettissimi da rispettare (fine Aprile se non erro), c’è tutto un mondo dietro questa scelta.
1) Il piglio manageriale di Draghi, un piglio chiaramente anni 90. Peccato che siamo nel 2020 e sul mondo degli anni 90 del secolo scorso è calato il sipario.
2) C’è l’efficientismo anni 90 (again) di McKinsey, gente uscita dalle madrasse neoliberiste con idee stravecchie.
3) C’è il fatto che lo Stato che si vorrebbe progettare non è un azienda come pensano quelli di McKinsey.
4) C’è che lo stato andrebbe riprogettato nel riferimento ideale dei principi della nostra Costituzione.
E insomma, niente. I progetti che verranno messi a terra saranno vecchi prima di nascere. Occorreva altro, occorreva un dibattito aperto, un dibattito democratico, magari partendo dalle scuole e dalle Università dove si sarebbero dovuti mettere a lavoro i nostri giovani (del resto, il mondo che deve nascere è il loro, o no?). Occorreva interrogarsi sui temi fondamentali, sui principi, sull’uomo-aumentato, e dunque su che cosa è l’uomo, su che cos’è il lavoro del futuro, sulla società che ci attende.
Bisognava fare un progetto aperto, democratico, inclusivo ma per davvero, per riprogettare questa nazione. Occorreva che i diversi piani del sapere si incontrassero: filosofico, giuridico, economico, informatico-tecnologico, sociale tutto insieme.
Si è deciso di affidare il nostro futuro alla fuffa di un’azienda vecchia dove lavorano dei vecchi e dei giovani vecchi nati bene usciti dalle solite madrasse che hanno gli anni 90 in testa.
Nel frattempo lo scontro tra visione centralizzata e decentralizzata continua. Uomini come Andreas Antonopoulos, i fratelli Durov, Nick Szabo, Ralph Merkle e Vitalik Buterin combattono e fanno, così come Zuckerberg, Gates, Musk e Pichai. Chi vive nel sistema di valori anni 90 vende consulenze a gonzi. Draghi è vecchio (e non è questione di età, è vecchio dentro).
Draghi e il Salto Quantico che non c’è.
Chi mi conosce sa bene che considero Mario Draghi l’incarnazione di quel grumo di potere che ha devastato l’Italia. Dunque non vedo certamente di buon occhio il suo approdo a Palazzo Chigi. Pur riconoscendo che la spinta propulsiva del governo Conte si era esaurita con una serie di misure cervellotiche e inutili per rilanciare il paese: pensiamo alla follia del “bonus monopattini” o alla follia del “cashless” per le signore borghesi quando c’è la fila alle mense del volontariato.
Ma non voglio rivangare il passato remoto e meno remoto di Draghi. Basta discutere della crociere sul Britannia, basta discutere dello smantellamento dell’industria pubblica italiana, basta discutere del fallimento (di fatto) di Mps, basta parlare del golpe subito dalla Grecia a causa dei diktat proveniente dalla Bce di Mario Draghi. Basta anche parlare della lettera minatoria scritta dal Presidente della Bce uscente (Trichet) e di quello entrante (Draghi) all’allora governo Berlusconi. Basta tutto, concentriamoci sul futuro.
Due scelte in particolar modo mi hanno colpito del governo Draghi: la scelta di Daniele Franco a Ministro dell’Economia e la scelta di Vittorio Colao a ministro dell’innovazione digitale (non ricordo bene la dicitura del ministero, ma tant’è, ci siamo capiti).
Partiamo da Franco, già direttore della Banca d’Italia. Non lo conoscevo, ovviamente. Mi ha colpito però quanto ha detto in un simposio il 5 Novembre del 2020 alla Banca d’Italia. Secondo il Franco bisogna rimettersi di buona lena e riformare un cuscinetto di avanzo primario (almeno pari all’1,5% del Pil, dice lui) così da rimettere in carreggiata le finanze pubbliche. Lasciamo perdere il fatto che una operazione del genere significa ridurre gli investimenti pubblici demolendo (again and again) il Pil e riducendo lo Stato ad una carcassa di vecchiume. Ciò che colpisce e che a distanza di trenta anni, ci sia ancora qualcuno che crede alle idee di Carlo Azeglio Ciampi. E si, perchè Franco non ha prodotto nessun pensiero, si è limitato a riproporre ciò che Ciampi (e i suoi amici-consulenti Modigliani, Padoa ecc.) diceva agli inizi degli anni ’90. Un’idea quella di Ciampi che si è dimostrata completamente sbagliata. Sbagliata perchè astorica, priva di visione storica. Semplicemente il presupposto fondamentale di questa idea (che un’economista lo sappia o meno) è che nei prossimi decenni non avvenga nulla: la Storia come un mare placido nel quale navigare. Peccato che la Storia ci insegni un’inica cosa: le cose, le tempeste, avvengono e avvengono quando meno te lo aspetti.
Io appartengo ad una generazione chiamata a sacrificarsi (da Ciampi) nel nome dell’avanzo primario. Legge Treu, Legge Biagi, riforma delle pensioni Dini e chi più ne ha ne metta. Tutto andava sacrificato nel nome dell’Avanzo Primario e del cosiddetto risanamento del debito pubblico. Poi è venuta la crisi del 2008. Una crisi che in sei mesi, in un grande falò, s’è mangiata 13 anni di sacrifici della mia generazione. Siamo tornati allegramente al 130% di rapporto debito/pil. Non è bastato, è ripresa la stessa retorica dell’avanzo primario: altri sacrifici. Questa volta condita da nomi astrusi quali output gap, six path, fiscal compact. Ma al di là della fantasia sadica – di quegli economistelli da quattro soldi che hanno partorito questa robaccia – poco è cambiato: occorreva rifare sacrifici a colpi di avanzo primario per risanare le finanze pubbliche. Fatto. E’ servito a qualcosa? A niente, è venuta un’altra crisi, questa volta biologico-pandemica (o così ce l’hanno descritta) e siamo arrivati al 160% di rapporto debito/pil. Ora riattaccano un’altra volta. Ventriloqui e burattini di economisti morti (cito Lord Keynes) credono che bisogna riproporre la ricetta del trio Ciampi-Modigliani-Padoa. Sarebbe l’ennesimo buco nell’acqua. E si, anche senza fare lo Spengler dei poveri è facile intuire che quando finirà questa crisi (che comunque ci riserverà ancora amare sorprese) a distanza di un decennio, o quindicennio, ce ne sarà un’altra. Forse militare, forse ancora pandemica o chissà cos’altro. E’ l’unica cosa che ci insegnano i libri di Storia qualcosa accade sempre. E i futuri sacrifici che il Dottor Franco vorrebbe imporci saranno comunque vani. Anzi, dannosi, perchè ci presenteremo alla prossima sempre più deboli ed esangui, con nuove generazioni sempre più impoverite dal punto di vista educativo e incapaci ad affrontare le sfide. Davvero basta.
L’altro elemento fondante, dicevo, è la nomina di Vittorio Colao al ministero che dovrebbe rinnovare, rifondare, il tessuto economico nazionale. Ma per forza un economista bisognava chiamare? Ma ancora con l’idea che tutto debba essere ridotto al mero economicismo dobbiamo andare avanti? Colao l’abbiamo visto con il suo sciagurato “piano” di qualche mese fa: idee vecchie, idee legate ad un mondo che probabilmente esso stesso non reggerà alle nuove ondate della rivoluzione tecnologica. Un uomo che per formazione non potrà che essere legato ad un’architettura internet di tipo server-client (viene dalla Vodafone, vedi tu)….ma quell’architettura è in via di superamento. C’è un enorme battaglia in corso (a colpi di invenzioni tecnologiche) per superare quell’architettura. Dubito che Colao la veda (e non se ne dà infatti conto nel suo “piano”).
Ecco, per esempio, in parlamento abbiamo Rubbia, qualcuno gli ha chiesto una mano? Porto l’esempio della Sardegna, negli anni 80 Rubbia fondò il CRS4 dove si studiano progetti sull’informatica: ecco, cose come Tiscali, o come Italia-online (poi passata a Telecom Italia) e molte altre non vennero dalla Luna. Ecco qualcuno gli ha chiesto se ha qualche “ideuzza”? No, perchè, anche se anziano quello che gli passa in testa in mezz’ora a Colao non gli passa in tre vite (senza offesa). Insomma, perchè un economista a fare cose che o non capisce o capisce male solo perchè faceva il contabile alla Vodafone? Partorirà solo progetti vecchi ora, e vetusti a implementazione. Per esempio, parlano di un cloud della Pubblica Amministrazione. Ma perchè un Cloud? E non sarebbe meglio fare un’Edge per esempio? Perchè non approfittarsi di risorse economiche spendibili per fare un salto quantico proponendo qualcosa per primi al mondo e facendone un successo mondiale anzichè fare qualcosa che avremo tra qualche anno che i nostri concorrenti hanno già ora? Significa candidarsi ad arrancare in eterno. Significa buttar via i soldi. Ecco, questo è il rischio mettendo economisti da tutte le parti anche quando non servano. Un Giuseppe Attardi (per dirne uno) sarebbe meglio, che dite? Ma con quei soldi ti porti anche quel matto di Nik Szabo come consulente per ripensare la Pubblica Amministrazione….parlano di competenze e poi si continua con la vecchia visione economicista, che è anche conformista, oltre che vetusta. Da lì non si esce. Anche questo è condannarsi.
Ecco, il governo Draghi nasce già vecchio e inutile. Meglio nessun governo, se devo trangugiarmi la solita sbobba, sia in ambito economico che in ambito di innovazione tecnologica.
NB_Tratto da facebook

Mario Draghi e la sfida della concordanza, di Francois Hublet

Continuiamo con il nostro osservatorio dall’estero di chi ha puntato l’attenzione sull’arrivo di Mario Draghi_Giuseppe Germinario

L’Italia sta per diventare come la Svizzera?

Per comprendere le sfide che dovrà affrontare il nuovo governo, sostenuto da un’ampia maggioranza, è utile ricorrere al modello svizzero di “consociativismo” che offre una chiave originale per interpretare l’evoluzione del sistema politico italiano.

“Ci sono state molte discussioni sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dato origine a un’infinita varietà di formule. Con il rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il buon funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, soprattutto in una situazione drammatica come quella in cui viviamo, è semplicemente il governo. Paese. Non serve un aggettivo per definirlo. “

Mario Draghi, discorso al Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021

Al tavolo del governo ci sono i ministri di quattro partiti. Tra loro ci sono socialisti, liberali, membri del centro destra e del centro sinistra e persino alcuni populisti di destra. Nonostante l’assenza di un patto di coalizione formale, nonostante le colossali differenze ideologiche tra le fazioni, e soprattutto nonostante la violenza delle passate elezioni, per molti l’esecutivo collegiale che riunisce i principali partiti del Paese sembra essere un bene, uno stabilizzatore necessario in uno stato eternamente diviso. In Parlamento non c’è né maggioranza né opposizione. E quasi tutti lo accettano.

Questa storia non è quella dell’Italia del nuovo governo Draghi, iniziata nel febbraio 2021. È quella della Confederazione Svizzera, e dura da più di settant’anni.

Per comprendere meglio le sfide che dovrà affrontare il nuovo governo istituzionale italiano e per cogliere le opportunità aperte da questo nuovo capitolo rispetto alle precedenti esperienze di governi “tecnici”, ma anche per capire dove può un governo Draghi Traendo la sua legittimità di azione, è utile dare uno sguardo oltre le Alpi. In realtà, inteso come governo di condivisione del potere , il nuovo governo non sembra essere un incidente della storia o un hapax derivante dalle dinamiche idiosincratiche della politica italiana contemporanea. Al contrario, la pax draghiana– le brevi consultazioni, il via libera dato dai principali partiti, l’indispensabile collaborazione delle forze politiche – potrebbero essere normali, non solo nel sistema politico svizzero, ma in qualunque sistema politico che accetti di sostituire il principio della concorrenza tra le fazioni da un principio di collaborazione o, per usare il termine tedesco, di concordanza democratica.

La pax draghiana potrebbe essere normale, non solo nel sistema politico svizzero, ma in qualsiasi sistema politico che accetti di sostituire il principio di concorrenza tra le fazioni con un principio di collaborazione, o, per usare il termine tedesco, di concordanza democratica.

FRANCOIS HUBLET

Quando nel 1798 il potere di Napoleone impose ai cantoni dell’ex Confederazione una Repubblica Elvetica in stile francese, installò ad Aarau un governo di tipo direttivo, simile a quello dell’effimera Prima Repubblica. Mentre a Parigi questo modello di governo, in cui il potere esecutivo e le funzioni di capo di stato erano esercitate collegialmente da un ristretto numero di magistrati, dovette essere abbandonato l’anno successivo a favore del consolato istituito da questo stesso Bonaparte., In La Svizzera, un esecutivo di sette membri con una presidenza a rotazione annuale, è sopravvissuto fino ad oggi come Consiglio federale. Dal 1948 la “formula magica”, un accordo informale tra le forze parlamentari, ne determina la composizione: due seggi per il primo, il secondo e il terzo hanno ottenuto il maggior numero di voti nelle Camere e un solo seggio per il quarto partito. Così, dal 1961, gli stessi quattro partiti – socialisti, radicali liberali, democristiani e l’ex partito agrario che è diventato la principale forza populista di destra – hanno effettivamente dominato la politica svizzera, formando un perpetuo governo di “coalizione”.

Nel caso della Svizzera, tuttavia, anche l’idea di una “grande coalizione” dei principali partiti sul modello tedesco o austriaco è inappropriata. La distribuzione del potere esecutivo tra i rappresentanti dei quattro partiti non richiede alcuna convergenza programmatica tra di loro e non appiana le loro differenze. Fuori dalle mura del Consiglio federale, i partiti lottano per le proprie idee, opponendosi in quattro votazioni annuali e numerose elezioni locali e cantonali, a volte in modo piuttosto violento. All’interno dell’istituzione, tuttavia, il principio di collegialità e lo spirito di “concordanza” che caratterizzano il sistema politico svizzero richiedono decisioni comuni. I sette consiglieri federali, praticamente inamovibili (i loro mandati sono rinnovati quasi sistematicamente dal Parlamento, chi nel frattempo non può revocarli con mozione di censura), godono di un alto grado di indipendenza e sono obbligati a collaborare. I quattro partiti rappresentati nel governo non costituiscono una “maggioranza” formata sulla base di un accordo formale di governo, e quelli che non sono rappresentati non sono l ‘”opposizione”. Al contrario, il governo, come il parlamento, sono luoghi di compromesso e di discussione.

Questo sistema di condivisione del potere può, per alcuni aspetti, sembrare poco pratico o antidemocratico a coloro che sono sempre stati abituati alla democrazia “competitiva” che è il modello dominante nelle democrazie parlamentari europee. L’esempio di quella che è stata probabilmente la crisi più grave della politica svizzera contemporanea, nel 2007, fornisce un ottimo esempio della resilienza di questo modello, ma anche del fatto che, per molti svizzeri, è proprio la concordanza a garantire la stabilità del il paese e la solidità del suo sistema democratico.

Nel dicembre 2007 Christoph Blocher, consigliere federale, uomo d’affari multimiliardario ma soprattutto rappresentante dell’ala più radicale dell’Unione Democratica di Centro (nazional-conservatrice), si candida alla sua rielezione. Sebbene gli altri partiti non abbiano contestato la partecipazione dell’UDC al governo, la figura del suo influente ex presidente Blocher, autore di numerose campagne populiste e xenofobe che hanno contribuito alla radicalizzazione del suo partito, e che, nonostante la sua carica di federale L’assessore, comportatosi in Parlamento come un leader dell’opposizione, ha suscitato grande tensione.

Questa situazione ha portato a un evento unico nella storia recente della Svizzera: poche ore prima del voto parlamentare, i socialdemocratici, i verdi, i democristiani ei liberali verdi acconsentono a impedire la sua rielezione. Al suo posto eleggono Eveline Widmer-Schlumpf, originaria dei Grigioni, anche lei membro dell’UDC, ma molto più moderata. Widmer-Schlumpf accetta l’incarico, che pochi mesi dopo porta all’esclusione dell’UDC dall’intera sezione cantonale del partito e alla creazione di una nuova formazione, il Partito Democratico Borghese, comprendente anche il secondo consigliere federale uscente dall’UDC essere un membro, e che si fonderà nel 2021 con altri partiti centristi.Widmer-Schlumpf, apprezzato per la sua competenza e la sua capacità di dialogo, sarà rieletto nel 2011 contro i voti dell’Udc di Blocher. Per circa un anno, nel 2008, l’UDC si considererà ufficialmente un “partito di opposizione”. Ma abbandonerà presto questa posizione dopo l’elezione al Consiglio federale del suo presidente Ueli Maurer, fedele amico di Blocher: l’intermezzo “competitivo” non è durato più di un anno, e nemmeno il partito populista, più diviso che mai, né il suo potente ex leader, potrebbero trarne alcun vantaggio elettorale.

L’affare Blocher illustra la forza e il primato della condivisione del potere nella cultura politica svizzera. Il “consocialismo” svizzero, come lo chiama la scienza politica contemporanea, è molto più di un habitus politico-culturale che rende possibili ampie coalizioni di governo nonostante le divisioni linguistiche, religiose e ideologiche, come teorizzato da Arend Lijphart.1. A differenza di Belgio, Paesi Bassi o Lussemburgo, anch’essi archetipi di Stati “consociativi”, nel sistema svizzero la collaborazione di tutte le forze politiche è pienamente istituzionalizzata. Non esistono coalizioni politiche e non esiste un gruppo di opposizione in Parlamento. Invece del solito sistema Konkurrenz , troviamo quello che la scienza politica di lingua tedesca chiama un Konkordanzsystem , un sistema di concordanza tra le parti2.

Nel sistema svizzero, la collaborazione di tutte le forze politiche è pienamente istituzionalizzata. Non esistono coalizioni politiche e non esiste un gruppo di opposizione in Parlamento. Invece del solito sistema Konkurrenz , troviamo quello che la scienza politica di lingua tedesca chiama un Konkordanzsystem , un sistema di concordanza tra le parti.

FRANCOIS HUBLET

Lo stesso modello consociativo vale anche per i governi dei ventisei cantoni svizzeri, i cui membri, eletti a titolo personale secondo un sistema sia di maggioranza che di proporzionalità, rappresentano i principali partiti locali. Così, il Consiglio di Stato del Canton Ticino attualmente comprende un socialista, un democristiano, un liberale radicale e due membri della Lega dei Ticinesi, ideologicamente vicini all’omonimo partito italiano. Ci sono pochi altri esempi al di fuori della Svizzera e di due Stati federali austriaci (Bassa Austria e Alta Austria), ma la Commissione Europea, fatte salve alcune restrizioni (legate in particolare al meccanismo di nomina indiretta e alla sua natura di organo politico-amministrativo misto), può essere paragonato alla struttura manageriale che prevale a Berna.

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“È stato detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Fammi essere in disaccordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità, ma al contrario, in un perimetro di collaborazione nuovo e piuttosto inusuale, fa un passo avanti rispondendo alle esigenze del Paese […] “.

Mario Draghi, discorso al Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021

Esaminiamo ora il nuovo governo Draghi. Otto ministri indipendenti, quattro del Movimento 5 Stelle, tre di Forza Italia, tre della Lega, tre del Pd, un rappresentante di Italia Viva – il partito di Renzi – e un esponente del partito di sinistra Articolo Uno. Tra gli indipendenti, un ex ministro del Conte II (Lamorgese), esponente del governo Letta ( Giovannini), un ex consigliere regionale dell’Emilia-Romagna (Bianchi), due alti funzionari (Cartabia, Franco), due ricercatori (Cingolani, Messa) e un imprenditore (Colao). La varietà dei profili rispecchia quella della Camera dei Deputati, fatta eccezione per la mancata partecipazione dei Fratelli d’Italia, e i veri “tecnici” senza esperienza politica sono solo cinque su venti. Il governo è sostenuto da partiti che, secondo gli ultimi sondaggi, rappresentano tra il 70 e l’80% delle intenzioni di voto. Pertanto, come hanno giustamente sottolineato Gressani e Alemanno in Terraferma,il governo Draghi, a differenza di quello guidato da Mario Monti nel 2011-2013, non può essere qualificato come governo tecnico in senso stretto. L’autorità del nuovo Presidente del Consiglio riunisce partiti che possono contare sui propri ministri per affermare le proprie posizioni politiche all’interno del governo, invece di dover sostenere dall’esterno, come hanno fatto nel 2011, un governo di tecnici senza legittimità democratica. Per tutti questi motivi, se l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce può certamente essere definito “istituzionale”, non sarebbe corretto considerarlo un governo “tecnico”.

Il nuovo governo non è nemmeno un “governo di unità nazionale”. Certo, c’è la pandemia, e con essa la crisi esistenziale che, nella mitologia degli stati nazionali occidentali, giustificherebbe l’unità tra i partiti. Ma non c’è unità tra le parti. Non esiste una linea comune, nessuna causa da difendere e, inoltre, la crisi stessa non è realmente “nazionale”.

Vediamo emergere chiare somiglianze tra il governo Draghi e il sistema di concordanza svizzero. Naturalmente, la maggior parte di loro sono fortuiti. Nessuno ha mai voluto importare il modello svizzero a Roma e nessuno lo importerà lì. Tuttavia, per vari motivi, a Roma così come a Berna e Bellinzona, i principali partiti parlamentari siedono al governo e condividono le responsabilità esecutive. Lo Stato italiano non voleva certo questo nuovo modello; l’ha introdotto quasi involontariamente, ha lasciato che la bilancia penda a favore della concordanza per mancanza di altre alternative, ma in realtà è obbligato a sperimentarla. Anche la Germania non ha “voluto” le sue grandi e grandissime coalizioni. Ma la situazione italiana contemporanea, con il suo “governo di tutti i partiti”,

Per vari motivi, a Roma come a Berna e Bellinzona, i principali partiti parlamentari siedono al governo e condividono le responsabilità esecutive. Lo Stato italiano non voleva certo questo nuovo modello; l’ha introdotto quasi involontariamente, ha lasciato che la bilancia penda a favore della concordanza per mancanza di altre alternative, ma in realtà è obbligato a sperimentarla.

FRANCOIS HUBLET

Avendo ora a nostra disposizione, con il consociazionismo svizzero, un modello storico-politico a cui paragonare il nuovo esecutivo italiano, possiamo analizzare le principali sfide che il nuovo presidente del Consiglio ei suoi ministri dovranno affrontare nei prossimi mesi.

Prima di tutto, ci sono le difficoltà insite nel sistema di Konkordanz  : la necessità di un’intensa comunicazione interna, l’assoluta necessità di collegialità, l’indispensabile indipendenza dei ministri dalle proprie forze politiche e dai leader dei ministri. Quest’ultimo punto potrebbe essere particolarmente critico in un Paese dove un unico leader di partito è riuscito, quasi per capriccio, a far cadere un governo più o meno funzionante nel mezzo di una storica emergenza sanitaria.

Per funzionare, un governo consensuale richiede la piena solidarietà di tutti i suoi membri, se necessario anche contro la volontà del proprio partito. Tutti devono difendere le scelte dell’esecutivo, non come proprie, ma come risultato di un compromesso negoziato tra le forze in esso rappresentate. Questo è l’unico modo per il governo di intraprendere un’azione che gode di un alto livello di accettazione tra parlamentari e cittadini. Allo stesso tempo, la relativa indipendenza dei ministri consente alle decisioni del governo di essere attivamente contestate da alcuni membri degli stessi partiti da cui provengono. In Svizzera, l’UDC, rappresentato al governo da due consiglieri federali, ha appena lanciato una grande campagna pubblica contro il bloccoordinato dal governo federale; questo atteggiamento è tollerato fintanto che i due consiglieri federali continueranno, nell’ambito delle loro attività istituzionali, a difendere la linea ufficiale.

Il dibattito permanente (all’interno del governo, in parlamento come nello spazio pubblico) è quindi parte integrante della condivisione del potere, che non può consistere in un’armonizzazione al ribasso dei programmi o in un atteggiamento attendista degno di un governo di attualità. Ma i conflitti essenziali al dibattito democratico devono avvenire per la maggior parte agli occhi dei cittadini e in un dialogo permanente con loro, perché questi conflitti non possono manifestarsi così chiaramente nel gioco parlamentare. Nel caso dell’Italia, sembrerebbe del tutto irrealistico chiedere la fine degli scontri ideologico-politici tra le diverse forze politiche, in particolare le più radicali. Potrebbe essere molto più produttivo stabilire una chiara linea di condotta che, da un lato, richiede un atteggiamento costruttivo da parte dei ministri nella gestione degli affari di governo e, d’altra parte, consente esplicitamente una concorrenza illimitata tra parti esterne al governo. In questo modo, le evidenti divisioni tra le forze politiche potrebbero essere tollerate secondo gli standard di una vera democrazia deliberativa, senza dover rinunciare alla condivisione delle responsabilità governative.

Oltre alle difficoltà insite nella pratica consociativa3, il governo Draghi dovrà anche affrontare sfide più specifiche, derivanti dalla “transizione” improvvisa e temporanea del sistema politico italiano da un regime competitivo a un regime consensuale. In particolare, si possono identificare due tipi di sfide: sfide istituzionali e sfide culturali.

Istituzionalmente, è evidente che la Costituzione italiana non è stata concepita con l’obiettivo principale di facilitare la condivisione del potere tra le parti. La carica di Presidente del Consiglio, generalmente attribuita al capogruppo del partito più numeroso in maggioranza, non è quella di capo conciliatore, ruolo che più spesso spetta al Presidente della Repubblica. Secondo la Costituzione italiana, il Presidente del Consiglio non è, come il Presidente della Confederazione Svizzera, un primus inter pares ; spetta a lui “promuovere e coordinare le attività dei ministri” e “dirigere la politica generale del governo”, e non negoziare quotidianamente un difficile equilibrio tra le loro posizioni. Ma Draghi, a differenza dei suoi nuovi ministri e qualunque sia la dimensione della sua autorità morale e intellettuale, non può contare su alcuna legittimità democratica a titolo personale, non può fare affidamento su alcun accordo di governo firmato dagli altri leader del partito, e quindi non può realmente “guidare”. questo governo. Piuttosto, deve agire come un creatore di consenso all’interno del governo, nonostante il mandato costituzionale che gli garantisce la leadership; l’equilibrio sarà certamente difficile da mantenere. Anche in Parlamento, Le pratiche dovranno essere rinnovate nei mesi a venire per consentire la convivenza dei sostenitori senza eliminare alcuna possibilità di dibattito. E ovviamente ci sarà sempre la spada di Damocle, il rischio di un voto di sfiducia, inesistente nel sistema svizzero, o di una nuova crisi “alla Renzi” che potrebbe mettere a repentaglio l’unità del governo.

In un sistema di condivisione del potere, non ha senso cercare di soffocare o negare le differenze; al contrario, un sistema consensuale si basa su ” cross-cleavages” , cioè molteplici linee di conflitto tra le diverse parti, per raggiungere compromessi. Accetta questi disaccordi e li sfrutta per creare varie alleanze ad hoc su temi diversi, in modo che nessun partito, sentendosi escluso dal processo decisionale, possa avere interesse ad abbandonare la ricerca del consenso.

FRANCOIS HUBLET

Ma in realtà, è probabile che le sfide maggiori siano culturali. Come confrontarsi, come parlarsi in Parlamento senza maggioranza e senza opposizione? Come creare un consenso tra vecchi nemici, tra partiti da sempre abituati a non dover mai governare insieme? Anche in questo caso, va sottolineato che in un sistema di condivisione del potere non ha senso cercare di soffocare o negare le differenze; al contrario, un sistema consensuale si basa su ” cross-cleavages” , cioè molteplici linee di conflitto tra le diverse parti, per raggiungere compromessi. Accetta questi disaccordi e li sfrutta per creare varie alleanze ad hoc.su temi diversi, in modo che nessuna parte, sentendosi esclusa dal processo decisionale, possa avere interesse ad abbandonare la ricerca del consenso. Per riuscirci, il banchiere Draghi, l’uomo che ha salvato l’euro grazie al magistrale bluff del “  qualunque cosa serva  ”, dovrà usare tutte le sue capacità di persuasione e la sua lunga esperienza di negoziatore.

Concludiamo questo articolo con una brevissima discussione normativa. Nelle democrazie occidentali, i governi tecnici, e specialmente quelli formati in assenza di una coalizione politica credibile, sono ancora visti come anomalie del sistema democratico. Ma che dire di un governo composto da tutti i partiti? Potrebbe anche essere una negazione della democrazia? L’esempio svizzero ci mostra che non è così. La concordanza non è meno democratica della concorrenza, e in Svizzera è piuttosto “l’opposizione” a essere considerata antidemocratica. La difficoltà è quindi non giustificare la natura democratica del nuovo governo, come se fosse una regressione da nascondere: si tratta soprattutto di realizzare con successo la transizione pratica e culturale verso una nuova organizzazione della pratica politica che renda possibile una più ampia collaborazione tra le parti. In breve: il nuovo governo gode già di legittimità normativa; deve ancora costruire la sua legittimità culturale.

Ma potrebbe essere possibile andare oltre. Se il parlamentarismo italiano nella sua forma tradizionale – cioè competitiva – è in crisi, e se, a lungo termine, non c’è più prospettiva di un governo europeista e progressista in Italia senza un accordo molto ampio almeno tra i partiti di il centrosinistra, i Cinque Stelle e le forze moderate del centrodestra; se, insomma, la destra nazionalista ottenesse nei prossimi anni risultati tali da bloccare ogni tentativo di coalizione escludendo Lega e IDF, ma senza necessariamente dare a questi partiti la maggioranza assoluta dei voti, potrebbe essere interessante ‘prendere in considerazione la possibilità di estendere l’esperienza di un “governo multipartitico” oltre le prossime elezioni. Compresi, se necessario, con tutto il centrodestra e una figura neutrale alla presidenza. Le alternative – o nessun governo, o un governo sovranista con Salvini e Meloni a capo – non sono certo preferibili.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/03/01/mario-draghi-et-le-defi-de-la-concordance/?mc_cid=66dc30d521&mc_eid=4c8205a2e9

USA news: chi il gatto e chi il topo_con Gianfranco Campa

Gli Stati Uniti somigliano ad un naviglio dalle troppe falle. Quando si è pensato di aver cancellato l’anomalia di Trump e di aver rattoppato lo scafo, una nuova falla si apre ad imbarcare altra acqua. Si chiude al centro, ma si riapre la ferita nella periferia. Intanto si cerca di risolvere alle mancanze di un sistema elettorale a dir poco creativo nello spoglio e nella certificazione dei dati istituzionalizzando le procedure discutibili ormai emerse alla luce del sole_ Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/veddbl-usa-news-chi-il-gatto-chi-il-topo-con-gianfranco-campa.html

 

 

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