Il Washington Post ha finalmente raccontato tutta la verità, di Andrew Korybko

Il Washington Post ha finalmente raccontato tutta la verità su come le forze di Kiev se la stanno cavando male

Andrew Korybko
14 marzo

È comprensibile che l’occidentale medio sia sotto shock dopo aver letto l’ultimo rapporto del Washington Post sul conflitto ucraino. La verità è che il loro blocco di fatto della Nuova Guerra Fredda è sul punto di perdere malamente, a meno che non compiano un miracolo militare con la loro imminente controffensiva, che alcuni a Kiev temono sia destinata a essere solo un massacro suicida. Le loro truppe sono inesperte, poco addestrate e in alcuni casi letteralmente disarmate nella loro lotta contro la Russia.

L’evoluzione della “narrazione ufficiale” dell’Occidente sul conflitto ucraino, iniziata due mesi fa, ha appena raggiunto il suo culmine con il Washington Post (WaPo) che ha finalmente detto a tutti la piena verità su quanto male stiano facendo le forze di Kiev. Nell’articolo intitolato “Ukraine short of skilled troops and munitions as losses, pessimism grow” (L’Ucraina è a corto di truppe qualificate e di munizioni, mentre crescono le perdite e il pessimismo), questo risultato è stato raggiunto grazie a una combinazione di fonti ucraine e statunitensi senza nome, nonché a un coraggioso tenente colonnello che ha permesso che il suo nome di battaglia Kupol fosse incluso nel rapporto.

Prima di procedere, i lettori che non hanno seguito da vicino la guerra per procura tra NATO e Russia sono pregati di scorrere almeno le seguenti analisi per essere aggiornati sulle ultime dinamiche strategico-militari che collocano l’inatteso rapporto del WaPo nel suo giusto contesto:

* 26 giugno: “Il New York Times ha inavvertitamente rivelato l’entità qualitativa delle perdite di Kiev”.

* 8 gennaio: “Alti funzionari ucraini ed ex funzionari USA sono in preda al panico per il fatto che 100 miliardi di dollari di aiuti non sono abbastanza”.

* 13 gennaio: “Cinque ragioni per cui la liberazione di Soledar è così significativa”.

* 21 gennaio: “Il presidente dello Stato Maggiore ha appena ammesso che Kiev non può sconfiggere la Russia”.

* 14 febbraio: “L’autodichiarazione della NATO sulla ‘corsa alla logistica’ conferma la crisi militare-industriale del blocco”.

In breve, la parziale mobilitazione di riservisti esperti da parte della Russia e il suo robusto complesso militare-industriale hanno permesso a questa Grande Potenza multipolare di tenere testa in modo impressionante alla forza combattente completamente sostenuta dalla NATO, ma fronteggiata dall’Ucraina, per tutto questo tempo, il che dimostra la sua resilienza duratura.

Il lettore dovrebbe anche essere a conoscenza di due recenti rapporti della CNN e di Politico sulla spaccatura tra gli Stati Uniti e Kiev sull’importanza di Artyomovsk/”Bakhmut”, che i primi ritengono strategicamente insignificante, mentre i secondi temono che la Russia possa attraversare il resto del Donbass se viene catturato:

* 7 marzo: “Esclusivo: Zelensky avverte di una “strada aperta” attraverso l’est dell’Ucraina se la Russia cattura Bakhmut, mentre resiste alle richieste di ritirarsi”.

* 12 marzo: “Piccole fessure”: L’unità di guerra tra Stati Uniti e Ucraina si sta lentamente sgretolando”.

L’ultimo rapporto del WaPo conferma le precedenti osservazioni condivise dai membri della comunità Alt-Media (AMC), secondo cui è la Russia che sta logorando le forze di Kiev nel tritacarne di Artyomovsk/Bakhmut, e non l’inverso, come i media mainstream (MSM) hanno falsamente insistito finora.

Dopo aver informato il lettore del contesto corretto in cui interpretare il rapporto del WaPo, il resto del presente pezzo metterà in evidenza i dettagli più dannosi nell’ordine in cui sono stati condivisi. Si tratterà di semplici riassunti di una sola frase seguiti dall’estratto pertinente a sostegno di quanto detto. Dopo aver dimostrato quanto le forze di Kiev siano in difficoltà, come dimostrano i dettagli appena condivisi dalle fonti del WaPo, l’analisi si concluderà con alcune riflessioni finali sull’argomento.

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* Kiev dubita tranquillamente che la sua tanto sbandierata controffensiva avrà successo

– “La qualità delle forze militari ucraine, un tempo considerate un vantaggio sostanziale rispetto alla Russia, è stata degradata da un anno di perdite che hanno portato molti dei combattenti più esperti fuori dal campo di battaglia, portando alcuni funzionari ucraini a mettere in dubbio la prontezza di Kiev nell’organizzare la tanto attesa offensiva di primavera”.

* L’Occidente stima che le perdite dell’Ucraina siano quasi 10 volte superiori a quelle dichiarate da Kiev

– “Funzionari statunitensi ed europei hanno stimato che ben 120.000 soldati ucraini sono stati uccisi o feriti dall’inizio dell’invasione russa all’inizio dello scorso anno… Il generale Valery Zaluzhny, comandante in capo dell’Ucraina, ha detto in agosto che quasi 9.000 dei suoi soldati erano morti. A dicembre, Mykhailo Podolyak, un consigliere di Zelensky, ha detto che il numero era salito a 13.000”.

* Le Forze Armate Ucraine (UAF) sono più deboli sotto tutti i punti di vista di quanto non lo siano mai state prima.

– “Statistiche a parte, l’afflusso di reclute inesperte, portate per tamponare le perdite, ha cambiato il profilo delle forze ucraine, che soffrono anche di una carenza di base di munizioni, compresi i proiettili di artiglieria e le bombe da mortaio, secondo il personale militare sul campo”.

* Tutti i veterani sono già stati uccisi o feriti e sono rimaste solo le reclute inesperte.

– Un soldato che è sopravvissuto a sei mesi di combattimento e un soldato che viene da un poligono di tiro sono due soldati diversi. È il cielo e la terra. E ci sono solo pochi soldati con esperienza di combattimento”, ha aggiunto Kupol. Purtroppo sono già tutti morti o feriti”.

* Kiev continuerà a lanciare la sua controffensiva nonostante i timori che le sue truppe vengano massacrate.

– “Si crede sempre in un miracolo”, ha detto [Kupol]. O ci sarà un massacro e dei cadaveri o sarà una controffensiva professionale. Ci sono due opzioni. In ogni caso ci sarà una controffensiva”.

* La coalizione di carri armati della NATO è puramente simbolica e non cambierà nulla

– “Un alto funzionario del governo ucraino, che ha parlato a condizione di anonimato per essere sincero, ha definito il numero di carri armati promessi dall’Occidente una quantità “simbolica””.

* Anche gli alti funzionari ucraini sanno che la prossima controffensiva è suicida

– “Non abbiamo né le persone né le armi”, ha aggiunto l’alto funzionario. E conoscete il rapporto: Quando sei all’offensiva, perdi il doppio o il triplo delle persone. Non possiamo permetterci di perdere così tante persone”.

* Le ultime reclute di Kiev scappano dai russi perché non sanno letteralmente come combattere

– Kupol, che ha acconsentito a farsi fotografare e ha detto di aver capito che avrebbe potuto subire un contraccolpo personale per aver dato una valutazione franca, ha descritto di essere andato in battaglia con soldati appena arruolati che non avevano mai lanciato una granata, che abbandonavano prontamente le loro posizioni sotto il fuoco e che non avevano fiducia nel maneggiare le armi da fuoco”.

* Oltre 100 miliardi di dollari di aiuti non sono stati sufficienti per addestrare ed equipaggiare adeguatamente l’UAF.

– “Abbiamo bisogno di istruttori NATO in tutti i nostri centri di addestramento, e i nostri istruttori devono essere mandati laggiù nelle trincee. Perché hanno fallito nel loro compito”. [Kupol] ha descritto gravi carenze di munizioni, tra cui la mancanza di bombe da mortaio semplici e granate per gli MK 19 di fabbricazione statunitense”.

* I funzionari ucraini sono in overdose di copium invece di implementare con urgenza soluzioni sistemiche

– “Siete in prima linea”, ha detto Kupol. Vengono verso di te e non c’è niente con cui sparare”. Kupol ha detto che Kiev deve concentrarsi su una migliore preparazione delle nuove truppe in modo sistematico. È come se tutto ciò che facciamo fosse rilasciare interviste e dire alla gente che abbiamo già vinto, solo un po’ più lontano, due settimane, e vinceremo”, ha detto.”

* Le nuove reclute perdono la calma in trincea a causa dei bombardamenti incessanti della Russia

– “I bombardamenti sono così intensi a volte, [Dmytro, un soldato ucraino che il Post identifica solo con il nome di battesimo per motivi di sicurezza,] ha detto, che un soldato ha un attacco di panico, e poi ‘gli altri lo prendono’. La prima volta che ha visto i suoi commilitoni molto scossi, ha detto Dmytro, ha cercato di convincerli della realtà dei rischi. La volta successiva, ha detto, “sono scappati dalla posizione”. Non li biasimo”, ha detto. Erano così confusi”.

* Kiev nasconde all’Occidente il conteggio delle vittime per paura che glielo taglino per la sconfitta

– “Un funzionario tedesco, che ha parlato a condizione di anonimato per essere sincero, ha detto che Berlino stima che le vittime ucraine, compresi i morti e i feriti, siano fino a 120.000. Non condividono le informazioni con noi perché non si fidano di noi”, ha detto il funzionario”.

* Il comandante delle forze di terra ucraine ammette che le reclute russe sono meglio addestrate delle sue.

– “Nonostante le notizie di combattenti russi mobilitati e non addestrati che vengono lanciati in battaglia, (il col. gen. Oleksandr) Syrsky, (comandante delle forze di terra dell’Ucraina) ha detto che quelli che stanno arrivando sono ben preparati. Dobbiamo vivere e combattere in queste realtà”, ha detto. Certo, è problematico per noi”.

* Kiev ha rifiutato il consiglio degli Stati Uniti e ha continuato a gettare migliaia di persone nel tritacarne di Artyomovsk/”Bakhmut”.

– “Date le pesanti perdite che l’Ucraina sta subendo [a Bakhmut], i funzionari di Washington hanno messo in dubbio il rifiuto di Kiev di ritirarsi. Gli Stati Uniti hanno consigliato all’Ucraina di ritirarsi dalla città almeno da gennaio, ha detto il funzionario statunitense”.

* Molti degli ufficiali ucraini addestrati dagli USA negli ultimi nove anni sono già stati uccisi

– “L’Ucraina ha perso molti dei suoi ufficiali minori che hanno ricevuto l’addestramento degli Stati Uniti negli ultimi nove anni, erodendo un corpo di leader che ha contribuito a distinguere gli ucraini dai loro nemici russi all’inizio dell’invasione, ha detto il funzionario ucraino. Ora, ha detto il funzionario, queste forze devono essere sostituite. Molti di loro sono stati uccisi”, ha detto il funzionario.

* I volontari ucraini si sono volatilizzati e ora sono solo i reclutati forzati a combattere

– “All’inizio dell’invasione, gli ucraini si sono precipitati a offrirsi volontari per il servizio militare, ma ora gli uomini di tutto il Paese che non si sono arruolati hanno cominciato a temere di vedersi consegnare per strada le liste di leva. Il servizio di sicurezza interno ucraino ha recentemente chiuso gli account Telegram che aiutavano gli ucraini a evitare i luoghi in cui le autorità distribuivano le convocazioni”.

* I funzionari del Pentagono stanno già ridimensionando le aspettative sulla portata della controffensiva di Kiev.

– “Anche con nuovi equipaggiamenti e addestramento, i funzionari militari statunitensi considerano le forze ucraine insufficienti per attaccare lungo tutto il gigantesco fronte, dove la Russia ha eretto difese sostanziali, quindi le truppe vengono addestrate a sondare i punti deboli che consentono loro di sfondare con carri armati e veicoli blindati”.

* La guerra per procura sarà probabilmente persa a meno che Kiev non sferri un colpo da ko contro la Russia molto presto.

-I funzionari statunitensi hanno dichiarato di aspettarsi che l’offensiva ucraina inizi a fine aprile o all’inizio di maggio e sono consapevoli dell’urgenza di rifornire Kiev, perché una guerra prolungata potrebbe favorire la Russia, che ha più persone, denaro e produzione di armi”.

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È comprensibile che l’occidentale medio sia sotto shock dopo aver letto il riassunto dell’ultimo rapporto del WaPo sul conflitto ucraino. La verità è che il loro blocco di fatto della Nuova Guerra Fredda è sul punto di perdere malamente, a meno che non compiano un miracolo militare con la loro imminente controffensiva, che alcuni a Kiev temono sia destinata a essere solo un massacro suicida. Le loro truppe sono inesperte, poco addestrate e in alcuni casi letteralmente disarmate nella loro lotta contro la Russia.

Le dinamiche strategico-militari sono chiaramente a favore di Mosca almeno dall’inizio di gennaio, quando sono diventate evidenti con la liberazione di Soledar, ma quest’ultimo sviluppo è stato ovviamente reso possibile, col senno di poi, dai suoi successi logistici e di addestramento dietro le linee del fronte. Al contrario, la situazione sul lato di Kiev di quelle stesse linee è stata assolutamente disastrosa, come dimostrato dall’ultimo rapporto del WaPo, ma l’opinione pubblica è stata privata di questi fatti e invece alimentata con un copione senza fine.

Tutto potrebbe svelarsi rapidamente se la Russia facesse un passo avanti intorno ad Aryomovsk/”Bakhmut” nel prossimo futuro e/o se la controffensiva di Kiev finisse per fallire ancora di più di quanto si aspettino alcuni dei suoi stessi schieramenti. Questo spiega il vero motivo per cui il WaPo ha pubblicato il suo rapporto sorprendentemente veritiero, informando tutti su come i proxy dell’Occidente stiano andando male, al fine di precondizionare il pubblico per una serie di cattive notizie, in modo da non essere completamente colti di sorpresa da esse.

https://korybko.substack.com/p/the-washington-post-finally-told

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Cause ed effetti, di Andrea Zhok

Come ampiamente previsto il tema della pressione migratoria si sta ripresentando con forza. Naturalmente in questa rinnovata salienza gioca un ruolo anche l’opportunità di mettere le promesse del governo Meloni alla prova dei fatti, ma questo rientra nel legittimo gioco politico delle opposizioni (e dell’esteso apparato mediatico che ne rispecchia le posizioni).
Tuttavia il punto di fondo è che ogni crisi degli equilibri internazionali si ripercuote più severamente sugli anelli più deboli, e il doppio colpo Covid + Guerra Russo-Ucraina rappresenta la più pesante crisi dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora arriva semplicemente il conto relativo.
In Italia gli anni esplosivi dell’immigrazione sono stati quelli tra il 2011 e il 2017, e seguono la combinazione tra effetti mondiali della crisi subprime (dal 2008) e avvio delle cosiddette “primavere arabe” (dal 2010).
Il tema migratorio è il primo tema che ha esplicitato l’inadeguatezza dell’Unione Europea al ruolo di cui era stata accreditata.
Si tratta infatti di uno dei pochi temi in cui l’appello ad un’azione europea coordinata sembrerebbe la strada maestra per una soluzione, ed è parimenti un tema in cui si è manifestato nel modo più chiaro il carattere meramente predatorio e opportunista dell’UE, che si è presentata non come una potenza geopolitica, ma come un club dello scaricabarile (“beggar-thy-neighbour” policies).
In ogni singolo momento della gestione migratoria (come per ogni altro tema di rilevanza economica) abbiamo assistito ad un penoso balletto di singoli paesi o alleanze ad hoc, per sfruttare a proprio favore alcune condizioni contingenti, e lasciare gli altri “partner europei” con il cerino in mano. (Il sistema degli accordi di Dublino è esemplare a questo proposito, in quanto mirava a utilizzare i paesi di primo sbarco come “barriera naturale” per quelli interni, impedendo che si spostassero dai paesi d’arrivo a quelli più ambiti del Nord Europa.)
Il fallimento europeo peraltro è tutto tranne che inaspettato. I rapporti europei rispetto all’Africa seguono precisamente il medesimo indirizzo che informa i rapporti interni e in generale tutti i rapporti internazionali nella visione dei trattati europei: si tratta di un modello neoliberale di sfruttamento, massimizzazione del profitto e acquisizione di vantaggi competitivi a breve e medio termine. Non c’è qui nessuna visione politica, salvo la responsività alle lobby economiche interne, che in un’ottica neoliberale sono i più legittimi rappresentanti dell’interesse pubblico.
Così, i rapporti con l’Africa sono sempre stati improntati ad una politica di aiuti ad hoc, che permettevano di tenere le elité africane a catena corta, e ad una politica di trattati di scambio ineguale, che permettevano a questo o quel paese europeo di ritagliarsi un accesso favorevole ad una qualche area di risorse naturali.
E’ però importante capire qual è stata la natura specifica del fallimento europeo nella politica verso l’Africa (e più in generale verso i paesi in via di sviluppo).
Ciò che l’UE ha mancato di fare è stato di subentrare al sistema degli equilibri della Guerra Fredda, cercando di costruire nuovi rapporti di alleanza di lungo periodo.
Alla faccia degli storici della domenica che ti spiegano come “le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno”, bisogna osservare come l’epoca delle migrazioni di massa in Europa dall’area del mediterraneo inizia con la caduta dell’URSS e quindi con il trionfo nella Guerra Fredda dell’Occidente a guida americana.
Per l’Italia la data simbolica dell’inizio del “problema migratorio” è il 1991, con il grande sbarco degli albanesi nel porto di Bari.
Questo non è un caso. La Guerra Fredda, forma rudimentale di multipolarismo, cercava di contendersi i paesi in via di sviluppo, e lo faceva in vari modi, talora in forma cruenta (Corea, Vietnam), più spesso in forma di collaborazione. Questa situazione, per quanto precaria, coltivava l’interesse per una conservazione degli equilibri regionali. Nessuna “primavera araba” sarebbe potuta venire alla luce in quel contesto, perché tutti sapevano che eventuali sommovimenti interni ad un paese sarebbero stati nient’altro che mosse di uno dei due blocchi per finalità proprie. Questo equilbrio, cinico e ostile fin che si vuole, stimolava comunque l’interesse di entrambi i blocchi alla conservazione tendenziale degli equilibri nelle aree in via di sviluppo.
Con il venir meno di questo fattore equilibrante, cioè con il venir meno dell’URSS, il mondo in via di sviluppo (e anche buona parte di quello sviluppato) divenne libero terreno di caccia dei paesi in cima alla catena alimentare capitalistica (USA in testa).
A questo punto l’equilibrio regionale era molto meno importante per i decisori politici delle occasioni di profitto create dagli squilibri.
Ecco, questa prospettiva ci consente di vedere da che punto di vista potrebbe arrivare, nel medio periodo, una soluzione alla colossale questione dei processi migratori (per l’Europa).
A fronte della pelosa impotenza dell’UE, i cui colonnelli sono tutti indaffarati ad accaparrarsi piccoli vantaggi per questa o quella multinazionale di riferimento, subentrerà (sta già subentrando) una forma di competizione geopolitica simile alla Guerra Fredda.
Russia e Cina stanno già operando in questo modo verso molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in area africana. Naturalmente non lo fanno per “umanitarismo” (diffidate sempre quando uno stato afferma di muoversi per “ragioni umanitarie”). Lo fanno perché hanno una visione strategica di lungo periodo, in cui associazioni stabili con stati che siano davvero “in via di sviluppo” – e non semplicemente “condannati ad una sfrutttabile arretratezza” – è nel loro interesse.
Russia e Cina si muovono oggi come attori sovrani su uno scenario geopolitico di lungo periodo, e questo è sufficiente a rovesciare il tavolo alla cultura da “robber barons” del neoliberalismo occidentale e a instaurare un nuovo equilibrio (per quanto intrinsecamente precario).
Dunque alla fine, se qualcosa ci salverà dall’essere travolti da una migrazione incontrollata, questo sarà probabilmente proprio l’insediarsi di un nuovo equilibrio multipolare, la cui alba abbiamo davanti agli occhi.

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Ucraina, il conflitto 30a puntata. Stessi scenari, nuove star Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Non sempre le avanzate clamorose corrispondono a successi duraturi. Quasi sempre il clamore della narrazione insistente nasconde una realtà opposta. La guerra, nella sua tragedia e nella sua energia distruttiva, specie quando contiene le caratteristiche di un conflitto civile, può diventare l’evento in grado di piegare ed annichilire un popolo, quanto di forgiare una nuova classe dirigente. Nel conflitto ucraino stiamo assistendo ad entrambe le dinamiche. Non sono solo i popoli ucraino e russo a sperimentarne le conseguenze, ma tutti gli attori partecipi. Un nuovo mondo sta sorgendo, ma non tutti potranno godere della nuova luce. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Il futuro economico della Russia – Semiconduttori, armi e altro ancora, di Simplicius The Thinker

Il futuro economico della Russia – Semiconduttori, armi e altro ancora
Si dice che la Russia dipenda dall’Occidente, ma… in realtà è il contrario? Svelata la verità che apre gli occhi.

https://simplicius76.substack.com/p/russias-economic-future-semiconductors

Il pensatore Simplicius
3 febbraio
Di recente è stato versato molto inchiostro sul futuro economico della Russia in relazione alle “sanzioni paralizzanti” emanate dalle odiose potenze atlantiche occidentali. La sfera filo-ucraina/imperialista occidentale è in fermento per la presunta distruzione del potenziale economico e manifatturiero della Russia, in particolare in alcune industrie critiche come quella dei semiconduttori e delle armi, senza le quali la campagna militare russa sarebbe in pericolo.

Ma diamo un’occhiata ad alcune recenti rivelazioni che dipingono un quadro piuttosto contrario a quello che ci è stato detto.

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Innanzitutto, una breve contestualizzazione per rinfrescarci la memoria su quanto è accaduto nell’ultimo anno dall’inizio dell’OMT. Sappiamo già che il Rublo è stato dichiarato da tempo la valuta più forte del 2022, grazie alla sua spettacolare ascesa non solo dopo il breve shock subito all’inizio, ma anche per il modo in cui ha superato i livelli precedenti all’OMT.

Sappiamo anche che la Russia stava rastrellando una cifra assolutamente sbalorditiva e senza precedenti di 20 miliardi di dollari AL MESE in vendite di petrolio, con conseguente enorme crescita delle riserve di valuta estera.

L’Occidente, infatti, gongolava mentre “sequestrava” la metà di queste riserve valutarie, oltre 300 miliardi di dollari. Molti nella sfera della resistenza si sono scagliati contro la mancanza di lungimiranza del Cremlino e della tanto criticata banca centrale russa. Tuttavia, un fatto poco noto e poco discusso è che la Russia ha sequestrato a sua volta un equivalente di 300 miliardi di dollari di beni occidentali. La maggior parte di questi non erano Forex, ma piuttosto beni aziendali delle varie megacorporazioni occidentali che operano in Russia.

Per esempio, pochi hanno preso nota di questo commento molto trascurato di Dmitry Medvedev:

È vero: se ricordate, la Russia ha sequestrato molti jet Boeing che erano stati noleggiati alle sue compagnie aeree.

Finora sono stati recuperati solo 24 dei 500 jet che la Russia aveva trattenuto, e il resto aveva un valore di oltre 10 miliardi di dollari. (e i numeri sono incerti, considerando che 470+ jet del valore di oltre 80 milioni di dollari ciascuno dovrebbero essere un totale di circa 40 miliardi di dollari, non i “10 miliardi di dollari” che sostengono, a meno che quei jet non costino solo 22 milioni di dollari l’uno, il che è dubbio, ma li assecondiamo).

Un insider del settore ha dichiarato a Bloomberg che le società di leasing straniere hanno ripreso possesso solo di circa 24 degli oltre 500 aerei noleggiati ai vettori russi. Gli aerei rimanenti avrebbero un valore di circa 10,3 miliardi di dollari (14,1 miliardi di dollari australiani).

Inizialmente si temeva che la Russia non avesse i pezzi di ricambio per la manutenzione di questi jet e che quindi sarebbe stata messa sotto scacco dall’Occidente, ma in realtà è stato poi confermato che la Russia è riuscita ad acquisire una pipeline di ricambi attraverso l’India e la Cina. E questa è solo una delle tante imprese che la Russia ha rilevato. L’elenco è lungo, ad esempio, di importanti compagnie petrolifere occidentali, del valore di decine di miliardi, che sono fuggite lasciando le loro lucrose attività nelle mani dei russi. E queste sono solo alcune delle cose a cui Medvedev si riferisce quando dice che anche la Russia ha sequestrato beni equivalenti per un valore di 300 miliardi di dollari.

Ma anche questo settore è stato un fallimento occidentale sotto altri aspetti. Abbiamo visto che solo una minima parte delle aziende che hanno minacciato di andarsene e quindi di “schiacciare” l’economia russa ha effettivamente fatto i conti con la realtà. Solo 120 aziende su 1.405 hanno finito per andarsene, e la maggior parte di questo numero trascurabile proveniva comunque dagli Stati Uniti.

Infatti, con un annuncio estremamente ironico, è stato reso noto che l’economia russa non solo è destinata a crescere anziché contrarsi negli anni a venire, secondo il Fondo Monetario Internazionale, ma il suo tasso di crescita è destinato a superare quello degli Stati Uniti e del Regno Unito.

E tutto ciò proviene da fonti economiche occidentali. Doh!

Come si può vedere in questo grafico, il FMI prevede ora che l’economia russa cresca nel 2023 anziché contrarsi (come previsto in precedenza), e per il 2024 prevede una crescita del PIL del 2,1%. Potrebbe sembrare poco, se non si guarda alle previsioni per i principali Paesi occidentali: 1,0% per gli Stati Uniti, 1,6% per l’intera area dell’euro con Germania all’1,4%, Francia all’1,6%, Italia e Regno Unito allo 0,9%, ecc. Ciò è in contrasto con la tipica propaganda di basso sforzo diffusa dai russofobi nella twitter-sfera e altrove.

Passiamo ora alla sostanza. Molti discorsi ruotano intorno al tema critico delle capacità russe di semiconduttori, una delle principali debolezze classiche dell’economia e delle capacità russe in generale. Anche qui ci sono notizie ottimistiche.

Questo grafico mostra che le forniture russe di semiconduttori e circuiti integrati dai principali Paesi occidentali sono prevedibilmente diminuite nel 2022 rispetto al 2021. Tuttavia, è promettente che le forniture dalle principali economie orientali siano aumentate in modo esponenziale. Se assumiamo che le cifre a sinistra rappresentino “milioni”, la Cina ha aumentato le sue forniture di microcircuiti alla Russia da 400 milioni di dollari nel 2021 a quasi 950 milioni di dollari. La Malesia è aumentata di 20-30 milioni di dollari e persino la Turchia è venuta in soccorso, incrementando il proprio sostegno da 0 a ben 150 milioni di dollari.

L’aspetto fondamentale è che la perdita netta di forniture dall’Occidente sembra aggirarsi intorno ai 500 milioni di dollari. Ma il guadagno netto in termini di sostituzione del prodotto da parte dell’Est è di oltre 700 milioni di dollari. Quindi, non solo la Russia ha completamente annullato le perdite di semiconduttori dovute alle sanzioni e ha completato con successo la sostituzione delle importazioni, ma ha addirittura guadagnato un aumento considerevole, che probabilmente corrisponde alla domanda notevolmente accelerata di semiconduttori/circuiti alla luce dell’aumento della produzione nell’industria della difesa russa per l’SMO.

Ma non credetemi sulla parola, ecco un articolo di un vero capo economista ed esperto di sanzioni russe presso vari think-tank/istituti globalisti. Ha ottenuto più o meno gli stessi numeri, ed ecco il suo grafico:

Come si può vedere, l’importazione di circuiti da parte della Russia è quasi raddoppiata nel 2022. Ciò significa che le sanzioni non solo sono un completo fallimento e non hanno avuto come risultato nemmeno quello di ostacolare le capacità russe, ma in realtà hanno fatto un enorme favore alla Russia, dandole l’impulso e l’incentivo a riorientare completamente la sua catena di approvvigionamento di tecnologie per infrastrutture critiche verso i partner molto più affidabili dell’Est. Inoltre, la Cina stessa ha annunciato nuovi investimenti massicci in impianti di produzione di chip e in capacità generali di semiconduttori, in risposta alle recenti sanzioni e alle aggressioni generali degli Stati Uniti contro i chip e la tecnologia cinese.

Ciò significa che la Cina sarà presto una potenza ancora maggiore in questo settore, in grado di fornire alla Russia tutto ciò di cui ha bisogno per il futuro. Naturalmente, anche la Russia sta cercando di rilanciare la propria industria dei semiconduttori e sono stati fatti dei passi avanti, anche se non c’è ancora nulla di eclatante. Ma ha firmato nuove iniziative, come la seguente:

Il governo russo ha elaborato un piano preliminare per affrontare il problema. Si tratta di investire circa 3,19 trilioni di rubli (38,3 miliardi di dollari) nello sviluppo dell’industria microelettronica locale. Il denaro sarà destinato a quattro aree principali: lo sviluppo di tecnologie locali di produzione di semiconduttori, lo sviluppo di chip nazionali, la commercializzazione di tali chip e la formazione di talenti locali.

Ad oggi, la Russia è in ritardo di oltre 15 anni rispetto ai leader occidentali nella progettazione di semiconduttori. Ciò significa che la dimensione dei transistor che il gruppo russo Mikron, leader del settore, è attualmente in grado di produrre sui propri chip (65 nm) è all’incirca equivalente a quanto faceva Intel nel 2006. Gli attuali chip di Intel sono su scala 5nm e 3nm. Detto questo, il problema non è così grave come potrebbe sembrare, almeno non per le applicazioni militari. Certo, per l’elettronica di consumo prodotta su larga scala si tratta di una differenza enorme. Ma la maggior parte degli attuali armamenti utilizza ancora circuiti vecchi di decenni. Dopo tutto, gli Stati Uniti hanno ancora in magazzino molti Tomahawk e altri missili prodotti molti anni fa, con circuiti che potrebbero risalire agli anni ’90 o 2000, la maggior parte dei carri armati e i loro sistemi elettronici di controllo del fuoco sono stati prodotti negli anni ’80 e ’90, con la relativa tecnologia, ecc. Per questi scopi di navigazione e tracciamento di base, i circuiti di quell’epoca possono ancora essere più che “sufficienti”. Non sono necessari chip super avanzati da 5 nm per eseguire la mappatura di base del terreno e il tracciamento GPS, ecc. Tuttavia, quando si tratta di capacità di intelligenza artificiale, che sta diventando sempre più importante, è necessaria una potenza di calcolo grezza, e chi ha la potenza necessaria avrà sistemi molto più “intelligenti” e capaci in questo senso.

E le cose non vanno così bene come sembrano per gli Stati Uniti e l’Occidente su questo fronte. Per esempio, c’è la realtà ignorata che è in realtà l’Occidente e il suo potenziale militare-industriale a dipendere pericolosamente dalla Russia/Cina, piuttosto che il molto più spesso discusso contrario.

Questo articolo descrive come i produttori di armi occidentali non solo dipendano fortemente dalle materie prime russe, senza le quali non possono produrre polvere da sparo e molti altri sistemi d’arma, ma anche dalle reti ferroviarie russo-ucraine che trasportano gli ancor più essenziali minerali cinesi in Europa:

Un bell’inconveniente per chi ha blaterato di molte piccole parti e circuiti occidentali trovati nelle armi russe sequestrate in Ucraina, ignorando però selettivamente l’impossibilità di produrre quelle stesse parti senza le materie prime russe.

La Cina fornisce oltre il 90% degli elementi di terre rare utilizzati in Europa e gli ultimi dati dell’UE mostrano che le linee ferroviarie russe rimangono una trafficata via di navigazione e una tappa fondamentale dell’iniziativa “Belt and Road” di Pechino.

E questo articolo sottolinea come l’Ucraina abbia uno dei più grandi depositi di titanio al mondo, un metallo assolutamente essenziale per tutti i più avanzati sistemi d’arma del mondo.

Se l’Ucraina vincerà, gli Stati Uniti e i loro alleati si troveranno in pole position per coltivare un nuovo canale di approvvigionamento di titanio. Ma se la Russia riuscirà a impadronirsi dei giacimenti e degli impianti del Paese, Mosca aumenterà la sua influenza globale su una risorsa sempre più strategica.

E indovinate un po’? Non solo Cina e Russia sono tra i primi 3 produttori di titanio:

Ma la maggior parte degli enormi giacimenti di titanio (e di altri metalli di terre rare) in Ucraina, per i quali l’Occidente è così entusiasta, si trovano nelle regioni del Donbass e della “Novorossiya”:

Che corrispondono abbastanza bene al territorio che la Russia probabilmente annetterà:

Newsweek: “Un bene vitale”
Il Dipartimento degli Interni ha classificato il titanio come una delle 35 materie prime minerali vitali per la sicurezza economica e nazionale degli Stati Uniti. Ma gli Stati Uniti importano ancora più del 90% del loro minerale di ferro, e non tutti da nazioni amiche.

Come si vede, l’Occidente, come al solito, proietta le proprie inadeguatezze: non è la Russia ad averne bisogno e a naufragare sotto il peso delle sanzioni dell’Occidente, ma l’Occidente senza risorse, terrorizzato di perdere la presa su risorse vitali per la propria sopravvivenza di fronte alla nascente nascita di un nuovo mondo multipolare guidato da Russia e Cina.

Gli Stati Uniti non detengono più la spugna di titanio nel loro National Defense Stockpile e l’ultimo produttore nazionale di spugna di titanio ha chiuso i battenti nel 2020.

L’Ucraina è uno dei soli sette Paesi produttori di spugna di titanio, la base del titanio metallico. Cina e Russia, i principali rivali strategici dell’America, fanno parte di questo gruppo selezionato.

“La militarizzazione delle risorse energetiche da parte di Mosca ha fatto temere a Washington e ad altre capitali della NATO che il Cremlino possa un giorno congelare anche le esportazioni di titanio, mettendo in difficoltà le aziende del settore aerospaziale e della difesa.

Il gigante aerospaziale Boeing mantiene la sua joint venture con la russa VSMPO-Avisma – il più grande esportatore di titanio al mondo – anche se ha congelato gli ordini dopo l’invasione. Altri, come l’azienda europea di aerei commerciali Airbus, continuano a rifornirsi di titanio dalla VSMPO”.

Consiglio di leggere il resto dell’articolo di Newsweek. Apre gli occhi sulla disperazione degli Stati Uniti nel voler strappare segretamente alla Russia il controllo dei metalli rari ucraini di importanza cruciale e su come le industrie americane di armi e aerospaziali sarebbero devastate se la Russia le privasse di questi metalli chiave. Gli Stati Uniti sopravvalutano la presunta “dipendenza” della Russia dall’Occidente per le industrie chiave, al fine di nascondere in modo insincero la propria disperata dipendenza dai metalli, dal petrolio, dal gas, dall’energia, dal legname e da tutto il resto della Russia.

Vorrei soffermarmi ancora di più sugli aspetti specifici della produzione di armi: quali sono le vere scorte e le capacità della Russia di produrre granate, munizioni e missili guidati? Ma possiamo lasciare questa discussione per la seconda parte. Ma, come sempre, assicuratevi di abbonarvi per ricevere la notifica delle parti successive.

Sentitevi liberi di lasciare commenti, domande e critiche/suggerimenti qui sotto. E restate sintonizzati sulla seconda parte della serie Coming Offensive, che probabilmente sarà la prossima.

Alessandro Campi, Il fantasma della Nazione. Per una critica del sovranismo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Alessandro Campi, Il fantasma della Nazione. Per una critica del sovranismo, Marsilio Editore, Venezia 2023, pp. 205, € 15,00.

Diversamente da quanto più frequentemente si legge, questo saggio formula una critica al sovranismo, che è scientifica e lungimirante. Al contrario, per l’appunto di quanto raccontato nei media maenstream, dove a parlare di Nazione è regola pronunciare formule (e termini) esorcizzanti, e ancor più fare una gran confusione: tra Cavour e Mazzini da una parte e Alfredo Rocco e Enrico Corradini dall’altra (per non parlare di Mussolini). Ovvero tra il sentimento patriottico del risorgimento e quello dei nazionalisti e del fascismo.

Il primo – tra i non pochi pregi del libro – è così rimettere a posto significati, definizioni (e appartenenze). Tanto per fare un esempio il sentimento (nazionale) risorgimentale era quello di una Nazione che voleva costituirsi in Stato, di guisa da non dipendere dagli altri Stati, di gran lunga superiori agli Stati pre-unitari per popolazione, territorio, risorse, per cui era una rivendicazione di indipendenza ed autonomia. Mentre il nazionalismo dei Rocco e Corradini era una rivendicazione di potenza nei confronti di altri popoli – coloniali soprattutto. Il primo era difensivo, il secondo d’aggressione: distinzione essenziale che ancora gli ideologi del pensiero unico non riescono (o non vogliono) afferrare.

Particolarmente interessante è il pensiero di Campi sul rapporto tra destre e nazione, visto (anche) i diversi – e talvolta opposti – modi di declinarlo. In Italia, scrive Campi “quello tra destre (al plurale) e nazione è stato un rapporto per certi versi ambiguo e controverso, discontinuo e accidentato, fortemente rivendicato sul piano ideale quanto scarsamente produttivo su quello politico, che ha finito per generare un nazionalismo-patriottismo più che altro sentimentalistico e retorico, letterario, estetizzante e occasionalistico, come tale incapace di definire una chiara visione degli interessi nazionali dell’Italia… Potremmo dire che la nazione-mito, facile da invocare sul piano della propaganda e in chiave di mobilitazione politica, ha prevalso a destra sulla nazione-progetto, intesa come realizzazione nel concreto della storia di un disegno politico collettivo o comunitario”. Onde la destra italiana, non sembra “sia mai riuscita a elaborare una dottrina nazionalistica coerente e organica in grado di saldare il richiamo all’idea di nazione con un forte senso dello Stato e di tradurre quel richiamo sul terreno della progettualità politica”. A intenzioni “buone” hanno corrisposto spesso risultati modesti o addirittura pessimi. Tralasciando, per ragioni di spazio, tutte le interessanti analisi di Campi sul rapporto con la Nazione delle varie destre (risorgimentale, nazionalista, fascista, della prima repubblica, della seconda), veniamo all’attualità.

Nel presente la concezione di destra della Nazione, o meglio dello Stato nazionale “è la forma politica che assume l’identità collettiva di una comunità interessata a mantenere la propria integrità contro chi la insidia”. In effetti, scrive l’autore “la prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo”. Se questo costituisce un pregio rispetto alle declinazioni “aggressive” del nazionalismo, ha il difetto di suggerire “un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi”. Oltre che l’altro difetto di commettere imprudenze in politica estera. Per cui “Più che una dottrina politica o un progetto ideologico, il sovranismo, come spesso viene declinato soprattutto dalla nuova destra di Salvini e Meloni, può dunque essere considerato un espediente politico-psicologico, grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza in cui oggi si trovano molti individui e interi strati sociali”. Infatti manca il progetto che costituisca una realistica visione del domani. Malgrado la Nazione, sostiene Campi nelle ultime pagine, sia tutt’altro che “obsoleta” e superata. Lo dimostra come possa coniugarsi con la democrazia e il pluralismo “L’unità della nazione, assunta come presupposto del pluralismo, è dunque ciò che consente agli attori di una democrazia di dividersi senza il timore che la comunità si disgreghi o scivoli sul terreno di un conflitto aperto e letale. Questa connessione tra democrazia e nazione viene spesso sottovalutata dai critici di quest’ultima. Mentre invece rappresenta una interessante scommessa per il futuro”.

Due note a conclusione. È inutile ricordare come il saggio, come in genere, l’opera di Campi sia ispirata al pensiero politico realista, molto spesso rigettato (o demonizzato) dal “pensiero amico”.

Secondariamente se è vero che la Nazione nelle “vecchie” concezioni delle varie destre italiane si è per lo più manifestata in declamazioni roboanti e risultati modesti, onde non è confortante per il futuro, è anche vero da un lato che i sovranisti-populisti praticamente non sono mai andati al governo se non con il Conte 1 nel 2018 e poi da qualche mese con la Meloni, onde si può sperare che col tempo possano realizzare, almeno in parte, quanto promesso.

Anche perché, purtroppo, la situazione italiana ha raggiunto il fondo del barile nel decennio trascorso (il peggiore della pur cattiva “seconda Repubblica”). Il che da ai sovranisti un compito assai difficile, simile a quello descritto da Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe: di risollevare un popolo impoverito (e così anche indebolito) da élite politiche (e istituzioni) decadenti. E che soprattutto per questo da quasi dieci anni da un consenso maggioritario (intorno al 55-60% dei voti espressi nelle elezioni succedutesi) agli avversari di quelle élite. Operare meglio delle quali non è impossibile, fare un miracolo sì.

Teodoro Klitsche de la Grange

IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 3 e 4 di 7]_di Daniele Lanza

IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 3 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco e non solo. Da leggere senza impegno)
Un aquilotto spennato e imbarazzante – simboleggiante lo stato di Weimar – che impallidisce, sfigura dinnanzi alla VERA aquila tedesca (kaiseriana). L’immagine in basso (manifesto per le elezioni legislative al reichstag del 1924) rappresenterebbe il sentire del partito nazionalista Dnvp, ma in fondo proietta un’immagine diffusa nell’animo tedesco di quell’era, assai aldilà del sostegno o meno a partiti nazionalisti coevi.
Tempo addietro, un conoscente di estrazione comunista (di accademico livello) paragonò distrattamente – quasi propose un parallelo – tra lo stato sovietico e la repubblica di Weimar.
Nel senso che erano entrambe entità nuove, entrambe entità che rovesciavano ognuna a suo modo un precedente sistema reazionario e antiquato, detto a grandi linee (…).
Come tanti altri miei amici e conoscenti della medesima provenienza – mi dispiace dirlo – la sua ferrea impostazione tradizionale fatta di insuperabile (psicologicamente), inalterabile dicotomia destra/sinistra – gli inibisce, oscura, confonde la percezione di elementi che trascendono tale demarcazione dogmatica. Accettando un prisma simile si può tracciare un parallelo tra le due realtà : elemento moderno di rottura che “rottama” il ciarpame oscurantista ed elitario del passato….questa sarebbe la logica.
La verità tuttavia è che anche solo accostare casualmente due casi del genere è pura cecità intellettuale. Perché la logica (binaria) in questione sorvola sul fattore PATRIA, lo sottovaluta, lo mette in secondo piano in quanto non rilevante per essa : nega il potere profondo dell’autoidentificazione e la sua capacità insondabile di sfuggire alla categorizzazione vista sopra, aldilà (protesterebbe il sincero comunista) di qualsiasi razionalità.
Il fattore PATRIA decretò per molti versi la sopravvivenza della Russia sovietica, come all’opposto, l’implosione della Germania weimariana. Perché ? Come ? Le verità più basilari ed ineludibili dell’animo umano stanno in formule strabiliantemente semplici e quindi non sciorinerò elucubrazioni storico-politologiche, vado al punto : perché lo stato rivoluzionario sovietico pur sbarazzandosi del sistema ad esso anteriore, vi si sostituì efficacemente in tutto…..anche in quella necessità patriottica della società nel suo insieme. La rivoluzione d’ottobre (anche nonostante l’inenarrabile guerra civile che ne seguirà) si fa sistema, sulle ceneri di quello precedente, ed anche più forte di esso : diventa punto di riferimento per il multiforme sentire della parcellizzata umanità che deve governare, cooptando anche e soprattutto le fasce conservatrici/nazionaliste della “russità” , a partire da coloro che sin dal principio decidono di militare tra i rossi (bolscevichi di stampo “patriottico”, per intendersi), quanto, dopo la fine della guerra, gli sconfitti bianchi che vorranno rientrare, infondendo l’idea che l’evento cataclismatico è stato una VITTORIA nazionale (si presti attenzione doppia da questo punto in avanti perché è il perno di tutto).
Gli eventi che vanno dall’ascesa al potere di Lenin sino alla fondazione ufficiale del nuovo stato, passando traverso 4 anni di conflitto interno, sono subito storia ed entrano in brevissimo tempo a costituire il fulcro di un colossale processo di “nation-building” in seno alla società, malgrado ciò possa essere controintuitivo vista la cesura traumatica col sistema zarista e il successivo sviluppo di una divisiva e devastante guerra civile : questo perché in fondo…….tali eventi sono percepiti come un successo, in un contorto meccanismo psicologico che vede tutti, incluse le fasce conservatrici/nazionaliste – e tra queste anche gli sconfitti veri e propri – entrare a far parte di un’entità vincente.
Ma come è possibile un capovolgimento percettivo in quest’ordine di grandezza ?! Abbozzo una ragione (non è certo l’unica, nè quella scientificamente più dimostrabile, ma forse la più viscerale) : perché in fondo quanto accadde dal 1917 al 1921 era…LORO (a prescindere dalle parti). La rivoluzione era…LORO (a prescindere dalle parti).
Si intende che la consecutio di fatti che si snoda da ottobre in poi è un fenomeno INTERNO, pertinente cioè ad uno spazio profondo del paese (in senso fisico quanto morale) irraggiungibile ed inconoscibile all’”alieno”, allo straniero : una “sacra” arena che non cessa di esistere malgrado il collasso del secolare zarismo e quindi trascende il cromatismo (rosso/bianco) delle parti in causa e laddove i destini di un popolo – ed altri ad esso annessi – vengono stabiliti a prescindere da cosa avvenga al di fuori del proprio “umland” : in parole più chiare, alla storica/oggettiva polarizzazione “Rivoluzione – Reazione”, si fa concomitante su un piano inafferrabile della psiche, la polarizzazione “Russia – mondo esterno” (che sta per “occidente” in realtà, quest’ultimo effettivamente coinvolto nella lotta dai bianchi).
Se pure è vero che una parte in lotta nella guerra civile è stata sconfitta sul piano storico/oggettivo, altresì vero che su un piano più metastorico offerto dalla psiche, l’evento rivoluzionario in sé non viola un canone assai più remoto della civiltà russa (o “rossiskaya” concetto più ampio) : la propria autoctonia, la propria indipendenza dall’occidente o altre forze (queste in effetti sconfitte nel loro tentativo di penetrazione approfittando del confronto rosso/bianco), la sicurezza che dà il proprio impermeabile spazio interno (…). Questo schema delle cose permette l’innesco di una valvola di salvataggio nei meccanismi delicati dell’autoidentificazione : alla psiche del russo (anche se di parte sconfitta) viene offerta come una scialuppa che consente lui di rivedere, in linea di principio, ancora lineamenti familiari, una continuità metapolitica in quel contenitore di popoli che prima si chiamava impero ed ora si chiamava CCCP (la quale tra l’altro nonostante la cesura col passato rivendicava anzi ancor più di prima – in vesti mutate – un ruolo geopoliticamente attivo, influente, sotto il vessillo assai più messianico e patriottico di quanto potesse esserlo la corona dei Romanov).
I “bianchi” avevano perso sì, ma in fondo era anche vero che la RUSSIA, la sua dimensione peculiare contrapposta allo spazio esterno (occidente) aveva vinto a prescindere dai cromatismi delle parti in causa, riaffermando la sua potenza che anzi prima sotto gli zar era in declino….quindi alla fine (col tempo che fosse occorso per abituarsi), tutti – anche i bianchi “volenterosi” o altre fasce conservatrici potevano chiamarla degnamente patria. In definitiva sia bianchi che rossi erano ugualmente nazionalisti (si può a buona ragione discutere su chi lo fosse di più tra loro)…..esisteva un comune fondo di attaccamento a una “potente patria” : che questa non fosse più una cosmopolita aristocrazia dall’aquila a due teste, ma una coesa unione multinazionale sotto bandiera rossa forse non era poi un male, no ? Anzi….chi dice che non fosse quest’ultima la VERA patria (e l’altra un abbaglio) ?? A questo punto i colori finora menzionati cessano di esistere : i rossi bolscevichi sono patrioti che da subito hanno capito questo fatto, mentre i bianchi (quelli pentiti) sono ugualmente patrioti con l’unico peccato di aver capito più in ritardo lo stesso fatto (…)
Interrompo d’autorità questa caotica e estesa digressione (che agli occhi di molti – professionisti in primis – apparirà cervellotica, sconclusionata o peggio – agli occhi del comunista ortodosso – una litania dozzinale nel novero eretico dell’interpretazione in chiave nazionalista e slavofila della rivoluzione socialista, la quale invece “esce fuori della storia” (..)….tuttavia io replico a costoro (nel caso ci fossero) che la mia riflessione presuppone che sia proprio QUESTO il problema : un limite di comprensione di molti studiosi del passato (non essendo “national-konservativ” stentano ad entrarne nella dimensione e quindi a valutarne percorsi e forza reale).
E da qui quindi torniamo – ma con una serie di punti in mente che ci consente di intenderci e quindi di accorciare il discorso (il tempo perso in Russia ce ne fa risparmiare qui)– sul vero tema del ciclo che è il caso tedesco : tutto era iniziato con un vago accostamento tra Weimar e la CCCP giusto ? Bene, la domanda è : perché WEIMAR in fondo non fu mai considerata una vera patria ?
Risposta essenziale : perché era figlia di una sconfitta. Fattore banale, ma insuperabile.
A scanso di quali ideali sinceri potessero esservi alle spalle, a scanso della costituzione democratica (mi si ricorderà) che finalmente aveva, a scanso di tutto…..era il risultato di un’umiliazione sul campo di battaglia. La prima democrazia tedesca, per quanto democrazia, violava lo stesso principio eonico che vuole gli stati (o qualsiasi aggregazione umana, contratto sociale di qualsiasi dimensione) fondati sui SUCCESSI, sulle vittorie. Non – come in questo caso – su un “infamante” (percepito come tale sia a destra che a sinistra in fondo) trattato di pace a Versailles.
Weimar nasce dal collasso della patria kaiseriana “legittima”…senza riuscire in alcun modo a sostituirla con qualcosa che nell’immaginario possa tenervi testa. Ne occupa semplicemente lo spazio vacante in attesa che QUALCOSA di maggiormente degno e supremo la rimpiazzi (e questo qualcosa disgraziatamente arriverà). Oserei affermare che il percorso di autoidentificazione per i neo-cittadini di Weimar e quelli sovietici sia esattamente opposto : mentre quelli sovietici, come visto, trovano una dimensione comune aldilà delle parti (anche belligeranti), nella società tedesca weimariana questo è infattibile. Se la Russia zarista passa il testimone alla CCCP sul piano ideale della “patria potenza” (in fondo condivisa tanto da progressisti che da conservatori), la nuova repubblica tedesca NON riceve alcun testimone dal prestigioso predecessore ! La “patria potenza” è sostituita da un’imbarazzante “ex patria” (tanto nella percezione dei conservatori quanto in quella – non espressa apertamente – di molti progressisti).
Insomma : lo stato sovietico UNISCE nel rispetto delle sue solide istituzioni – nella sua dimensione patriottica – tanto sinistra quanto in fondo anche una buona parte di destra (anche se non ufficialmente). Lo stato weimariano UNISCE, ma nel disprezzo delle istituzioni, sia la destra quanto in fondo anche la sinistra (anche se non ufficialmente).
Eccovi l’antitesi dei casi. Sintetizzo all’estremo :
La Cccp è un EREDE di qualcosa
Weimar è un SURROGATO di qualcosa.
La formula sopra è volutamente esagerata, ma esprime – sempre su un piano psicologico – come vennero percepite le due realtà dalle rispettive società a prescindere (questo è importante) dalla demarcazione classica destra/sinistra.
(CONTINUA…)
IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 4 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco e non solo. Da leggere senza impegno)
L’affermarsi del “SUPER-STATO” nella prima metà del XX° secolo (ovvero sistemi politici che si presentano non come semplici edifici politico-amministrativi regolati da un diritto civile, bensì come energie messianiche che si prefiggono di uscire al di fuori della storia e regolarla anziché esserne regolati) – o anche “totalitarismo” (!) a seconda di come si vuole definire – è una reazione fisiologica al bisogno del cittadino stesso di 100 anni orsono a quest’epoca…della sua profonda incoerenza, scarsa conoscenza di sé.
Da un lato si strillava in piazza per per uno stato più umano, più civile…..dall’altro – una volta ottenuto – questo stato “civile ed umano” era un gradino meno rispettato di quello passato. Si odiavano i preamboli delle vecchie costituzioni liberali (“per grazia di Dio e volontà della nazione”), ne si voleva smorzare il tono un tantino ultraterreno e riportarle coi piedi a terra, a misura d’uomo, umanizzarne forma e contenuto senza tante investiture celesti e giuramenti alla corona………beh, ecco fatto. Anziché una guida speciale, lo stato diventa – per l’appunto, perché ciò si voleva – un semplice contenitore, un’arena civile (de-divinizzata) all’interno della quale muoversi. Ci volle poco perché l’agognata agorà moderna divenisse invece un parco giochi (…)
Tanti abitanti di Weimar erano in realtà nel profondo delle loro menti, più “ex-sudditi” che non “neo-cittadini”. Il parlamentarismo carnevalesco dal 1919 in poi non si poteva prestare allo stesso rispetto che poteva suscitare l’incedere del Kaiser un decennio prima e questo psicologicamente è verosimile. L’illuminismo ingenuo di quella breve repubblica non teneva conto – tanti dei migliori illuministi cadono in questo, ahimè – dei bisogni più primitivi e imponderabili dei governati.
Tanti volevano sinceramente la democrazia…..ma tutti esigevano – e subito – un comandante in capo, una forza unificante che garantisse forza e sicurezza (che sono sinonimi). Per metterla in filosofia occorreva il ripristino di quel perfetto ingranaggio, quel punto di congiunzione tra cielo e terra (o tra regno delle idee e quello materiale) che è lo stato prussiano di hegeliano conio (…). Quanto l’effimera Weimar non era. Lo si vede dai manifesti elettorali dell’era…pittoreschi, teatrali lo erano tutti, ma c’è qualcosa di più : nella maggioranza (a partire naturalmente dai più estremisti, ma arrivando anche a quelli moderati) si nota una ricerca di qualcosa di perduto, un’armonia arcadica irrecuperabile che lascia dinnanzi a sé o la difesa di quel poco che si ha ancora (le “heimat” locali in genere ad appannaggio di partiti centristi) ossia la logica “bastione contro l’orda barbara” oppure soppressione dell’esistente per rifondare una nuova “grande patria”.
Detto fatto, nel giro di 15 anni circa un sostituto lo si trova (anzi si fa avanti lui) : è un po meno aristocratico rispetto alla casta JUNKER in verità, anzi decisamente più proletario e ruspante, senza tanti galloni e mustacchi, quanto in più moderna e sportiva camicia bruna + baffetto, ma questo è anche meglio (“…a pensarci non sono in fondo anche quegli spocchiosi latifondisti della Prussia orientale con la loro flemma ad averci condotto al fallimento sul fronte occidentale e inguaiato la nostra PATRIA ?” p.s. = pensiero possibile dell’elettore popolare, Nsdap).
Siamo ad un punto critico : ho inaugurato questo ciclo di libere riflessioni al primo capitolo sottolineando come la vecchia identità prussiana sia stata distrutta e gettata via arbitrariamente assieme al nazional socialismo. Ebbene si potrebbe controbattere (tanti lo fanno) che in realtà tale retaggio era GIA’ stato distrutto e superato in due fasi : dalla deposizione del kaiser in primo luogo – cui la prussianità era legata per ragioni “memetiche” e dalla successiva affermazione nazista, la cui ascesa vertiginosa a cavallo tra anni 20/30 de facto assimila, inghiotte letteralmente tutto l’elemento vetro-conservatore (chiamiamo così la prussianità junker in politica) strappandolo ai contemporanei partiti nazional-conservatori più convenzionali dell’era Weimar che surclassa quanto a violenza e audacia (…).
Il nazional socialismo nel contesto in cui si trovò ad operare, devo ammettere, costituì un catalizzatore formidabile : da un lato arrivava a quegli strati popolari refrattari ai tradizionali partiti monarchici e vetro-conservatori…..mentre dall’altro riusciva a raccogliere l’elettorato proprio di questi ultimi, fisiologicamente irraggiungibile per socialisti e comunisti. Una creatura chimerica il nazismo, essere mutaforma “capace di assumere l’aspetto che l’osservatore voleva dargli” (se non ricordo male furono più o meno le parole di A.Speer al processo di Norimberga, nel descrivere il nazional socialismo).
(CONTINUA…)

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IL POPOLO DEI LUPI (cap.1 e 2), di Daniele Lanza

IL POPOLO DEI LUPI (cap.1)
(note storiche sparse tra Moldavia, Valacchia e Transilvania, dagli albori alla contemporaneità / ripub. 2018*)
Può avere vent’anni come quaranta…forse non ha mai avuto un’età. Inebetito, steso contro un tronco che stancamente si specchia nei flutti del grande fiume. Al suo passaggio gli elementi si tingono di rosso : terra e acqua sono uniformate in flusso scarlatto…..persino l’aria attorno a lui sembra percorsa da chiazze del medesimo riflesso. Prima che il sole cali la vita se ne sarà andata.
Si chiama Sudogvast ? o Vädusan ? altro ancora ? Cerca di dirmelo, ma in un idioma incomprensibile che in ogni caso non è più in grado di articolare. Una manciata di ore avanti, durante una sortita, qualcosa è andato storto ed un giorno qualsiasi si è trasformato nell’ultimo che potrà vedere. Lui non ha rimpianti in realtà : il suo concetto di morte non è analogo alla coscienza secolarizzata di chi legge…….ritiene che sia solo il passaggio verso un’altra esistenza, non meno piena o eroica.
Oltre il “grande fiume” non possiamo seguirlo, solo osservare ciò che si è lasciato dietro nella dimensione mortale : una sagoma compatta e slanciata che affiora dalla vegetazione, coperta unicamente da brache ridotte a brandelli, gli occhi ancora spalancati e una cascata di un castano lucido sulle spalle.
Eh…..si da il caso che la nostra sgangherata navicella spazio-temporale (con cui faccio viaggiare nel tempo chi mi legge) è riemersa presso l’uncino sud-orientale del nostro continente, 500 giri della Terra attorno al sole prima che Cristo iniziasse a predicare : da qualche parte, lungo il ricco bacino idrogeografico del Danubio.
L’uomo che ci guardava poco fa prima di transitare alla nuova vita, un suo remoto abitante……la cui fisionomia incute terrore tra i piccolo uomini bruni più a sud verso il mare Egeo.
Il popolo di Sudogvast è quello dei LUPI : così lo chiama chi vi confina e così loro appellano se stessi…fondamento mitico/fantastico che trova una parte di accordo anche nell’archeologia odierna. Esso si articola in un interminabile susseguirsi di clan e tribù che si spalma su un territorio che va dai Balcani fino alla pianura sarmatica (dalla Serbia fino all’Ucraina meridionale e occidentale) : la massa aborigena della protostoria è stata indoeuropeizzata sino a dar vita a uno strato di civiltà che chiameremo (paleo) Trace.
L’elemento TRACE non ha certo bisogno di presentazioni o precisazioni dal sottoscritto o da altri…….combattivo e acerrimo, in sinergia con l’ecosistema balcano/carpatico le cui immense foreste di conifere incutono timore nelle civiltà mediterranee, a partire da quella ellenica, che la associano a quello spazio di tenebra (quel “nord” mitico) dal quale di tanto in tanto sprizzano come scintille demoni dalle barbe che brillano rossicce tra la fiamme del saccheggio.
La percezione immaginifica del greco antico chiaramente dilatava inverosimilmente la frequenza di codeste fisionomie aliene ed oggi l’archeologia (supportata dalla genetica) ritiene più plausibilmente che i barbari a nord e sud del bacino danubiano fossero assai più simili ad un qualsiasi abitante dell’Europa meridionale per aspetto (solo disseminati di elementi più chiari che generano leggenda). I traci, come norma nella struttura organizzativa umana più elementare di allora NON sono uno stato unitario, che anzi sono anni luce dal conoscere : la parcellizzazione fino al livello di clan regna sovrana. Dal brodo sopramenzionato prende forma un sottoinsieme che assume il nome di DACI…..o Geto-daci (per la precisione i geti si trovavano in Valacchia, come si chiamerà in seguito, mentre i daci veri e propri in Transilvania odierna).
Il significato dell’etnonimo (usato dagli stessi) è questione di dibattito tuttora, ma parte dell’opinione scientifica li chiama “LUPI” o loro fratelli o discendenti…..il popolo dei lupi. Questi autoctoni subiscono variegate influenze celtiche e periodicamente praticano incursioni verso sud guadagnandosi fama sinistra presso i più meridionali vicini che negli stessi anni edificano il Partenone (…).
La struttura politica è estremamente semplice, adeguata al loro stadio di evoluzione umana : un grappolo di regni, grandi quanto un francobollo, che vanno e vengono assieme alle loro rudimentali dinastie sostenute da reti di clientele e relazioni di clan. Con tale status quo si mantengono relativamente indipendenti dal turbinio della collisione greco-persiana dei secoli cruciali e, sempre in queste condizioni vanno a incontrare con l’elemento romano (o meglio quest’ultimo va a cozzargli contro) : il II° secolo dopo Cristo vede assorbire questo mondo nell’assai più caotica voragine della latinità…….alle vittorie di TRAIANO segue un afflusso (non comune) di coloni di diversa provenienza fino a creare sul posto la provincia romana di cui tutti i manuali ci informano. La Dacia romana equivale solo a metà dell’attuale Romania e arriverà a contare 1 milione e mezzo di sudditi dell’imperatore : tutti gli appartenenti a tribù non comprese nel dominio romano vengono denominati “daci liberi” e tra di essi spicca la tribù dei “carpi”. Nel giro di un secolo sorgono ben 10 città ed oltre 100 forti, impiantandosi così il seme della civiltà latina, strettamente legato all’ambiente urbano, in contrasto col vasto entroterra rurale dei nativi.
L’area nonostante gli sforzi rimarrà instabile, assorbendo circa il 10% della forza militare dell’impero e resistendo non più di 175 anni complessivamente (ovvero da Traiano fino ad Aureliano, quando l’impero ordinatamente si ritira da una regione ritenuta indifendibile : siamo nel 275 dopo Cristo).
Il disimpegno militare romano lascia tuttavia sul campo dietro di sè qualcosa di inestimabile : gli abitanti del luogo nei 2 millenni a seguire, continueranno ad esprimersi in un idioma a noi familiare classificato come componente orientale della neo-latinità.
Occorre qui fermarsi un momento poiché la questione si fa cruciale : il processo di latinizzazione possa apparire scontato o banale, nel discorso scientifico esso NON lo è.
In parole altre, la dinamica di tale latinizzazione è tutt’altro che scontata e tuttora si confrontano due opposte opinioni : secondo alcuni la romanizzazione linguistica sarebbe avvenuta secondo un linearissimo ed intuibile moto di aggregazione dell’elemento indigeno ai nuclei romani già insediati sul territorio, finchè alla fine sono TUTTI “romani”. Secondo la tesi avversa (più macchinosa, ma non impossibile) l’elemento di lingua latina sarebbe emigrato sul posto da aree romanizzate da più lungo tempo (tutto l’illirico), fuggite al momento del collasso imperiale in cerca di riparo in zone più inaccessibili, giusto nel mentre della calata dei barbari da nord.
A questo, si aggiungono svariati punti di vista intermedi……ma il punto che accomuna tutti, il grado di ideologizzazione che il tema presenta, già alla vigilia dell’età delle idee (tarda modernità), come vedremo.
(continua) 
IL POPOLO DEI LUPI. (cap. 2)
(note storiche sparse tra Moldova, Valacchia e Transilvania, dagli albori alla contemporaneità, ripub. 2018*)
Abbiamo lasciato Sudovgast morente sulle rive di un fiume, 500 anni prima di Cristo : come sono divenuti i suoi discendenti 500 anni DOPO Cristo ?
Un millennio di evoluzione non può non sentirsi e i suoi posteri riconoscerebbero molti tratti culturali in lui, tranne uno vitale : ora sarebbe complicato comunicare verbalmente con lui. Malgrado il disimpegno imperiale nella provincia di DACIA (già nel 275 d.C.), il disfacimento dell’impero stesso 200 anni ancora dopo ed il conseguente gioco imprevedibile di maree demografiche che si innesca, niente riesce a cancellare la numerosa componente daco-romana nel cuore di quella che oggi chiamiamo Romania : è come se i più numerosi e aggressivi flussi slavi (e magiari) provenienti da settentrione non riuscissero a penetrare il nucleo geografico valacco/transilvano né passarvi traverso, risultandone deviati e costretti a costeggiarlo, passarvi tutto attorno.
Un residuo vivente della remota romanità (adattata al contesto particolare) trincerato attorno ai Carpazi, mentre lo spazio immediatamente limitrofo è sommerso dal suono di parlate aliene : la sopravvivenza, su così larga scala, di un ceppo smarrito della famiglia filologica romanza, a migliaia di km dal blocco italo-franco-porto-spagnolo del Mediterraneo occidentale è un miracolo (o anomalia) geoculturale dell’intera Europa sud-orientale.
I secoli post-imperiali passano senza che alcuna organizzazione politica di rilievo venga prodotta : questi nativi “romanzofoni” costituiscono sostrato aborigeno utile del quale il governante o dominatore di turno si serve all’occorrenza. Vista l’oggettiva infattibilità di riportare fedelmente gli innumerevoli e tortuosi sentieri della storia balcano/carpatica medievale (anche per non irritare i valenti medievisti che per caso leggono) effettuo una macro-sintesi culturologica………il lettore immagini questo (grossomodo) : sui nostri amici di lingua latina gravano DUE forze acculturanti principali, una da SUD e l’altra da NORD.
1) L’”energia” che viene dal sud è l’elemento BULGARO (che da sud supera la linea del Danubio ed estende la propria influenza fino a tutto l’areale dell’odierna Romania tra il 7° ed il 10° secolo dopo Cristo : si tratta della fase storica del cosiddetto impero bulgaro, potenza dominante nei Balcani dell’era altomedievale (di tale impero vi saranno due fasi, oggi chiamate dalla storiografia 1° e 2° impero : quest’ultimo si spegne definitivamente alla fine del 14° secolo quando la Bulgaria è incamerata dagli ottomani…1396 circa).
2) L’”energia che viene da nord è l’elemento MAGIARO (che si presenta successivamente rispetto ai bulgari : inizia a comparire nel 12° secolo, penetrando dal bassopiano pannonico e nelle stesse generazioni in cui si combattono le prime crociate in Terrasanta, si fa strada sempre più a sud strappando all’influenza bulgara e bizantina le provincie più settentrionali dell’attuale Romania.
Orbene, se si tiene a mente questo basilare schema di movimenti e forze, si ha una prima chiave d’accesso alla storia dell’identità romena e moldava e i suoi asimmetrici sviluppi a seconda delle regioni che oggi troviamo viaggiando in questo paese : diciamo sinteticamente che si parte da un’originaria dominanza bulgara, che ottiene la fondamentale conversione della cristianità dell’area in questione all’ortodossia, per poi subire un processo di erosione nella frangia più settentrionale dei territori balcano/carpatici, ad opera dei monarchi d’Ungheria che nel corso del XIII° secolo riescono ad espandere durevolmente il loro confini fino a ricomprendere quella che oggi chiamiamo “Transilvania”. Quest’ultima a partire dai primi anni del 1300 è parte del regno di Ungheria di cui costituisce l’estensione più orientale. Sempre i sovrani d’Ungheria nella loro avanzata verso meridione determinano la nascita di due ulteriori principati a parte la Transilvania……….la MOLDAVIA (ad ovest) e la VALACCHIA (a sud), inizialmente pensati come cuscinetto della frontiera sempre più balcanica d’Ungheria.
Ricapitoliamo : a partire dai primi decenni del 300 nell’area di lingua romanza (non chiamiamolo ancora “romena”) vengono a costituirsi TRE principati sotto l’impulso del regno medievale d’Ungheria.
1) Transilvania (direttamente inglobata)
2) Valacchia (1330)
3) Moldavia (1359)
Codeste entità chiaramente NON costituiscono alcuno stato unitario, né ci pensano : si tratta di potentati indipendenti l’uno dall’altro che semplicemente sorgono su popoli della medesima base linguistica culturale (elemento che tuttavia in età premoderna non è fondamentale).
Teniamo a mente un punto CHIAVE : mentre Valacchia e Moldavia si rendono presto autonome dai sovrani magiari (pur rimanendo formalmente vassalli), la Transilvania invece è oggetto di una vera e propria annessione territoriale all’Ungheria medievale che ne farà una regione della mitteluropa ungherese (poi austro-ungarica) per gli oltre 600 anni a venire (!). Questo fatto apre le porte della Transilvania al torrente della cultura centro-europea e dei relativi flussi migratori, ovvero popolandosi di minoranze germaniche, ebraiche e slave per il mezzo millennio che traghetta tutta la zona fino ai primi del XX° secolo.
Questo particolare assetto geoculturale è quindi un carattere di lunghissimo periodo che persisterà nonostante il successivo “ombrello ottomano” dal tardo medioevo : Valacchia e Moldavia stati autonomi di confine, mentre la Transilvania (a dispetto della maggioranza di lingua neolatina che la abita) è parte dell’Ungheria vera e propria. I sultani osmanidi erediteranno QUESTA suddivisione, più o meno.
(continua)

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L’amministrazione Biden punta a un ordine unipolare che non esiste più._Stephen M. Walt

L’anima pragmatica degli Stati Uniti. In altre occasioni abbiamo illustrato una terza America. Buona lettura, Giuseppe Germinario

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L’America ha troppa paura del mondo multipolare
L’amministrazione Biden punta a un ordine unipolare che non esiste più.
Walt-Steve-politica estera-columnist20
Stephen M. Walt
Di Stephen M. Walt, editorialista di Foreign Policy e professore di relazioni internazionali all’Università di Harvard, Robert e Renée Belfer. Clicca su + per ricevere avvisi via e-mail per le nuove storie scritte da Stephen M. Walt Stephen M. Walt

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden reagisce durante un incontro sul tema “Build Back Better World (B3W)”, nell’ambito del vertice dei leader mondiali della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP26 a Glasgow, in Scozia, il 2 novembre 2021.
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden reagisce durante un incontro sul tema “Build Back Better World (B3W)”, nell’ambito del Vertice dei leader mondiali della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP26 a Glasgow, in Scozia, il 2 novembre 2021.
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden reagisce durante un incontro sul tema “Build Back Better World (B3W)”, nell’ambito del Vertice dei leader mondiali della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP26 a Glasgow, in Scozia, il 2 novembre 2021.
Dopo che gli Stati Uniti sono passati dall’oscurità della Guerra Fredda al piacevole bagliore del cosiddetto momento unipolare, un’ampia gamma di studiosi, opinionisti e leader mondiali ha iniziato a prevedere, desiderare o cercare attivamente il ritorno a un mondo multipolare. Non sorprende che i leader russi e cinesi abbiano da tempo espresso il desiderio di un ordine più multipolare, così come i leader di potenze emergenti come l’India o il Brasile. E, cosa ancora più interessante, anche importanti alleati degli Stati Uniti. L’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder ha avvertito del “pericolo innegabile” dell’unilateralismo statunitense e l’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine ha dichiarato che “l’intera politica estera della Francia… mira a rendere il mondo di domani composto da diversi poli, non da uno solo”. Il sostegno dell’attuale presidente francese Emmanuel Macron all’unità europea e all’autonomia strategica rivela un impulso simile.

Sorpresa, sorpresa: I leader statunitensi non sono d’accordo. Preferiscono le opportunità espansive e lo status gratificante che derivano dall’essere la potenza indispensabile e sono stati restii ad abbandonare una posizione di supremazia incontrastata. Nel 1991, l’amministrazione di George H.W. Bush preparò un documento di orientamento per la difesa in cui si chiedeva di impegnarsi attivamente per prevenire l’emergere di concorrenti di pari livello in qualsiasi parte del mondo. I vari documenti sulla strategia di sicurezza nazionale pubblicati da repubblicani e democratici negli anni successivi hanno tutti esaltato la necessità di mantenere il primato degli Stati Uniti, anche quando riconoscono il ritorno della competizione tra grandi potenze. Anche importanti accademici si sono espressi in merito: alcuni sostengono che il primato degli Stati Uniti sia “essenziale per il futuro della libertà” e positivo sia per gli Stati Uniti che per il mondo. Io stesso ho contribuito a questo punto di vista, scrivendo nel 2005 che “l’obiettivo centrale della grande strategia degli Stati Uniti dovrebbe essere quello di preservare la propria posizione di supremazia il più a lungo possibile”. (Il mio consiglio su come raggiungere questo obiettivo è stato però ignorato).

Sebbene l’amministrazione Biden riconosca che siamo tornati in un mondo con diverse grandi potenze, sembra nostalgica della breve era in cui gli Stati Uniti non dovevano affrontare concorrenti di pari livello. Da qui la sua vigorosa riaffermazione della “leadership statunitense”, il suo desiderio di infliggere alla Russia una sconfitta militare che la renda troppo debole per causare problemi in futuro e i suoi sforzi per soffocare l’ascesa della Cina limitando l’accesso di Pechino a fattori tecnologici critici e sovvenzionando l’industria dei semiconduttori statunitense.

Anche se questi sforzi dovessero avere successo (e non è detto che lo abbiano), il ripristino dell’unipolarismo è probabilmente impossibile. Ci ritroveremo 1) in un mondo bipolare (con gli Stati Uniti e la Cina come due poli) o 2) in una versione sbilanciata del multipolarismo, in cui gli Stati Uniti sono al primo posto tra un insieme di grandi potenze diseguali ma comunque significative (Cina, Russia, India, forse Brasile e, plausibilmente, un Giappone e una Germania riarmati).

Che tipo di mondo sarebbe? I teorici delle relazioni internazionali sono divisi su questa domanda. I realisti classici, come Hans Morgenthau, ritenevano che i sistemi multipolari fossero meno a rischio di guerra perché gli Stati potevano riallinearsi per contenere pericolosi aggressori e scoraggiare la guerra. Per loro, la flessibilità dell’allineamento era una virtù. Realisti strutturali come Kenneth Waltz o John Mearsheimer sostenevano il contrario. Essi ritenevano che i sistemi bipolari fossero in realtà più stabili perché il pericolo di errori di calcolo era ridotto; le due potenze principali sapevano che l’altra si sarebbe automaticamente opposta a qualsiasi serio tentativo di alterare lo status quo. Inoltre, le due potenze principali non dipendevano dal sostegno degli alleati e potevano tenere in riga i loro clienti quando necessario. Per i realisti strutturali, la flessibilità insita in un ordine multipolare crea maggiore incertezza e rende più probabile che una potenza revisionista pensi di poter alterare lo status quo prima che le altre possano unirsi per fermarla.

Se il futuro ordine mondiale è un ordine multipolare sbilanciato e se tali ordini sono più soggetti a guerre, allora c’è motivo di preoccuparsi. Ma il multipolarismo potrebbe non essere così negativo per gli Stati Uniti, a patto che ne riconoscano le implicazioni e adattino la loro politica estera in modo appropriato.

Per cominciare, riconosciamo che l’unipolarismo non è stato un granché per gli Stati Uniti, soprattutto per quei Paesi sfortunati che hanno ricevuto l’attenzione degli Stati Uniti negli ultimi decenni. L’era unipolare ha incluso gli attacchi terroristici dell’11 settembre, due guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan, costose e alla fine infruttuose, alcuni cambi di regime sconsiderati che hanno portato a Stati falliti, una crisi finanziaria che ha alterato drasticamente la politica interna degli Stati Uniti e l’emergere di una Cina sempre più ambiziosa, la cui ascesa è stata in parte facilitata dalle azioni degli Stati Uniti. Ma gli Stati Uniti non hanno imparato molto da questa esperienza, dato che stanno ancora ascoltando i geni strategici le cui azioni hanno sprecato il trionfo di Washington nella Guerra Fredda e accelerato la fine dell’unipolarismo. L’unico freno alle azioni di una potenza unipolare è l’autocontrollo, e l’autocontrollo non è qualcosa che una nazione crociata come gli Stati Uniti sa fare molto bene.

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I tralicci dell’elettricità sono visibili sotto un cielo nuvoloso durante le piogge vicino a Romanel-sur-Lausanne, in Svizzera, il 15 settembre.
I tralicci dell’elettricità sono visibili sotto il cielo nuvoloso durante le piogge vicino a Romanel-sur-Lausanne, in Svizzera, il 15 settembre.
La crisi energetica dell’Europa sta distruggendo il mondo multipolare
L’UE e la Russia stanno perdendo il loro vantaggio competitivo. Questo lascia che siano gli Stati Uniti e la Cina a contendersi la scena.

ARGOMENTO JEFF D. COLGAN
La capsula Orion della NASA viene portata nel ponte del pozzo.
La capsula Orion della NASA viene portata in un ponte di pozzo.
Lo spostamento del centro di gravità della corsa allo spazio
La prima era lunare è stata definita dalla geopolitica. I vincitori della prossima saranno coloro che sapranno trionfare nella competizione economica e nella definizione delle regole.
Il ritorno del multipolarismo ricreerà un mondo in cui l’Eurasia conterrà diverse grandi potenze di diversa forza. È probabile che questi Stati si guardino con diffidenza, soprattutto quando si trovano in prossimità. Questa situazione offre agli Stati Uniti una notevole flessibilità nel modificare i propri allineamenti a seconda delle necessità, proprio come è accaduto quando si sono alleati con la Russia stalinista nella Seconda Guerra Mondiale e quando hanno ricucito i rapporti con la Cina maoista durante la Guerra Fredda. La capacità di scegliere gli alleati giusti è l’ingrediente segreto dei successi passati degli Stati Uniti in politica estera: La sua posizione di unica grande potenza nell’emisfero occidentale le ha dato una “sicurezza gratuita” che nessun’altra grande potenza possedeva, e ha reso gli Stati Uniti un alleato particolarmente desiderabile ogni volta che sono sorti problemi seri. Come ho scritto negli anni ’80: “Per le medie potenze europee e asiatiche, gli Stati Uniti sono l’alleato perfetto. Il suo potere aggregato garantisce che la sua voce sia ascoltata e le sue azioni siano percepite… [ma] è abbastanza lontano da non rappresentare una minaccia significativa [per i suoi alleati]”.

In un mondo multipolare, le altre grandi potenze si assumeranno gradualmente maggiori responsabilità per la propria sicurezza, riducendo così gli oneri globali degli Stati Uniti. L’India sta aumentando le proprie forze militari di pari passo con la crescita della sua economia e il pacifista Giappone si è impegnato a raddoppiare la spesa per la difesa entro il 2027. Naturalmente non si tratta di una notizia del tutto positiva, perché le corse agli armamenti regionali hanno i loro rischi e alcuni di questi Stati potrebbero agire in modi pericolosi o provocatori. Ma a proposito del mio primo punto, non è che gli Stati Uniti abbiano fatto un gran lavoro nel mantenere l’ordine in Medio Oriente, in Europa o in Asia negli ultimi decenni. Siamo sicuri al 100% che le potenze locali faranno peggio, o che agli americani importerebbe se lo facessero?

Anche se il multipolarismo ha i suoi lati negativi (vedi sotto), cercare di evitarlo sarebbe costoso e probabilmente inutile. La Russia potrebbe subire una sconfitta decisiva in Ucraina (anche se non è affatto certo), ma le sue vaste dimensioni, il suo arsenale nucleare e le sue abbondanti risorse naturali la manterranno tra le grandi potenze, indipendentemente dall’esito della guerra in corso. I controlli sulle esportazioni e le sfide interne potrebbero rallentare l’ascesa della Cina e il suo potere relativo potrebbe raggiungere un picco nel prossimo decennio, ma rimarrà un attore importante e le sue capacità militari continueranno a migliorare. Il Giappone è ancora la terza economia mondiale, sta avviando un importante programma di riarmo e potrebbe dotarsi rapidamente di un arsenale nucleare se mai lo ritenesse necessario. La traiettoria dell’India è più difficile da prevedere, ma quasi certamente nei prossimi decenni avrà un peso maggiore rispetto al passato e gli Stati Uniti non hanno né la capacità né il desiderio di impedirlo. Invece di impegnarsi in un inutile tentativo di riportare indietro l’orologio, quindi, gli americani dovrebbero iniziare a prepararsi per un futuro multipolare.

Idealmente, un mondo di multipolarismo sbilanciato incoraggerà gli Stati Uniti ad abbandonare la loro istintiva dipendenza dal potere duro e dalla coercizione e a dare maggior peso alla vera diplomazia. Durante l’era unipolare, i funzionari statunitensi si sono abituati ad affrontare i problemi con richieste e ultimatum e poi ad aumentare la pressione, iniziando con le sanzioni e le minacce di uso della forza, per poi passare allo shock e al cambio di regime se le misure più dolci di coercizione non funzionavano. I risultati deludenti, ahimè, parlano da soli. In un mondo multipolare, invece, anche le potenze più forti devono prestare maggiore attenzione a ciò che vogliono gli altri e lavorare di più per persuadere alcuni di loro a concludere accordi reciprocamente vantaggiosi. La diplomazia del “prendere o lasciare” deve lasciare il posto ad approcci più sottili e a un maggior numero di “dare e avere”; affidarsi principalmente al pugno di ferro porterà gli altri a prendere le distanze. Nel peggiore dei casi, inizieranno a schierarsi in opposizione.

Non fraintendetemi: Per gli Stati Uniti, e forse per l’intero pianeta, il futuro multipolare non è privo di aspetti negativi. In un mondo di grandi potenze in competizione, gli Stati più deboli possono giocare tra loro, il che significa che l’influenza degli Stati Uniti su alcuni piccoli Stati è destinata a diminuire. La competizione tra le grandi potenze in Eurasia potrebbe favorire errori di calcolo e guerre, proprio come avveniva prima del 1945. Un numero maggiore di Stati potrebbe decidere di dotarsi di armi nucleari, in un’epoca in cui i progressi tecnologici potrebbero convincere alcuni che tali armi potrebbero essere utilizzabili. Nessuno di questi sviluppi è da accogliere con favore.

Ma supponendo che gli Stati Uniti rimangano i primi tra i diseguali in un ordine multipolare emergente, i loro leader non dovrebbero essere eccessivamente preoccupati. Washington si troverà in una situazione ideale per mettere le altre grandi potenze l’una contro l’altra e potrà lasciare che i suoi partner in Eurasia si assumano maggiormente l’onere della propria sicurezza. Sebbene i leader statunitensi abbiano a lungo nascosto le loro inclinazioni realiste dietro una nuvola di retorica idealista, un tempo erano piuttosto bravi nella politica di equilibrio delle potenze. Con il ritorno del multipolarismo, i loro successori devono solo ricordare come si fa.

Stephen M. Walt è editorialista di Foreign Policy e professore di relazioni internazionali all’Università di Harvard, Robert e Renée Belfer. Twitter: @stephenwalt

https://foreignpolicy.com/2023/03/07/america-is-too-scared-of-the-multipolar-world/

Patto per la pace in Vicino Oriente_con Antonio de Martini

Svolta epocale nel Vicino Oriente. Dopo decenni di conflitti, propositi di pace, mediazioni con propositi dichiarati esattamente opposti ai comportamenti concreti, il Vicino Oriente conosce l’eclisse di uno dei protagonisti: gli Stati Uniti. E’ un passaggio in ombra, non una sparizione. Tanto è bastato perché tra due degli attori principali di quell’area, l’Iran e l’Arabia Saudita, si inneschi un processo di regolazione diplomatica delle controversie grazie all’attività di mediazione della Cina.  Una mossa che, portata a buon fine, innescherà un profondo stravolgimento della condizione e delle posizioni in quello scacchiere, a cominciare da Israele e dalla Turchia. Il reietto, l’Iran, ha potuto reggere lo scontro grazie al sostegno discreto di alleati lontani e al sostegno involontario e contraddittorio dell’avventurismo statunitense. Gli si aprono adesso ampi spazi che, gestiti saggiamente, potranno offrire nuova luce sulla reale natura dei conflitti che hanno infestato quell’area. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Dichiarazione trilaterale congiunta del Regno dell’Arabia Saudita, della Repubblica Islamica dell’Iran e della Repubblica Popolare Cinese

Venerdì 1444/8/18 – 2023/03/10

https://www.spa.gov.sa/viewfullstory.php?lang=en&newsid=2433231

 

Riyadh, 10 marzo 2023, SPA — In risposta alla nobile iniziativa di Sua Eccellenza il Presidente Xi Jinping, Presidente della Repubblica Popolare Cinese, di sostenere la Cina nello sviluppo di relazioni di buon vicinato tra il Regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran;

e sulla base dell’accordo tra Sua Eccellenza il Presidente Xi Jinping e le leadership del Regno dell’Arabia Saudita e della Repubblica Islamica dell’Iran, in base al quale la Repubblica Popolare Cinese avrebbe ospitato e sponsorizzato i colloqui tra il Regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran;

Partendo dal desiderio comune di risolvere i disaccordi tra loro attraverso il dialogo e la diplomazia e alla luce dei loro legami fraterni;

aderendo ai principi e agli obiettivi delle Carte delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI), nonché alle convenzioni e alle norme internazionali;

Le delegazioni dei due Paesi hanno avuto colloqui dal 6 al 10 marzo 2023 a Pechino – la delegazione del Regno dell’Arabia Saudita guidata da Sua Eccellenza Dr. Musaad bin Mohammed Al-Aiban, Ministro di Stato, Membro del Consiglio dei Ministri e Consigliere per la Sicurezza Nazionale, e la delegazione della Repubblica Islamica dell’Iran guidata da Sua Eccellenza l’Ammiraglio Ali Shamkhani, Segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale della Repubblica Islamica dell’Iran.

Le parti saudita e iraniana hanno espresso il loro apprezzamento e la loro gratitudine alla Repubblica dell’Iraq e al Sultanato dell’Oman per aver ospitato i cicli di dialogo che si sono svolti tra le due parti negli anni 2021-2022. Le due parti hanno inoltre espresso apprezzamento e gratitudine alla leadership e al governo della Repubblica Popolare Cinese per aver ospitato e sponsorizzato i colloqui e per gli sforzi profusi per il loro successo.

I tre Paesi annunciano che è stato raggiunto un accordo tra il Regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran, che include un accordo per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi e la riapertura delle ambasciate e delle missioni entro un periodo non superiore a due mesi, e l’accordo include l’affermazione del rispetto della sovranità degli Stati e della non interferenza negli affari interni degli Stati. Hanno inoltre concordato che i ministri degli Esteri di entrambi i Paesi si incontreranno per attuare questo accordo, organizzare il ritorno dei loro ambasciatori e discutere i mezzi per migliorare le relazioni bilaterali. Hanno inoltre concordato di attuare l’Accordo di cooperazione in materia di sicurezza tra i due Paesi, firmato il 22/1/1422 (H), corrispondente al 17/4/2001, e l’Accordo generale di cooperazione nei settori dell’economia, del commercio, degli investimenti, della tecnologia, della scienza, della cultura, dello sport e della gioventù, firmato il 2/2/1419 (H), corrispondente al 27/5/1998.

I tre Paesi hanno espresso la volontà di compiere tutti gli sforzi necessari per migliorare la pace e la sicurezza regionale e internazionale.

Rilasciato a Pechino il 10 marzo 2023.

Per la Repubblica islamica dell’Iran

Ali Shamkhani

Per il Regno dell’Arabia Saudita

Musaad bin Mohammed Al-Aiban

Ministro di Stato, membro del Consiglio dei Ministri e Consigliere per la Sicurezza Nazionale

Per la Repubblica popolare cinese

Wang Yi

Membro dell’Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista cinese (PCC) e direttore della Commissione Affari esteri del Comitato centrale del PCC

–SPA

15:45 ORA LOCALE 12:45 GMT

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