RUSSIA E CINA: L’EMERGERE DEGLI STATI ASSOLUTI , di Stefano d’Andrea

Un testo breve, ma intenso e attuale. A mio avviso, però, è proprio la definizione di “stato capitalista” che andrebbe ridimensionata anche storicamente. Il diverso peso che hanno ed hanno avuto nei centri decisori la componente manageriale ed imprenditoriale capitalista non è sufficiente a definire “capitalista” o meno uno stato e un regime. Il “politico” e le espressioni fisiche del politico seguono logiche proprie. Buona lettura, Giuseppe Germinario

RUSSIA E CINA: L’EMERGERE DEGLI STATI ASSOLUTI

Russia e Cina sono ordinamenti giuridici statali, che rappresentano una novità assoluta nella storia.
Sono indubbiamente ordinamenti capitalistici, perché il rapporto di lavoro subordinato capitale-lavoro è la forma giuridico-economica prevalente.
E tuttavia il potere politico non è nelle mani alla classe capitalista.
Il potere politico non è semplicemente autonomo dal potere economico e dotato di una relativa forza propria, che gli consenta di “venire a patti” con il partito della grande impresa (come accadde in molti Stati per 20 o 30 anni dopo la seconda guerra mondiale) ma è sovraordinato al potere economico dei capitalisti, che, appunto, è un potere puramente economico.
Ciò è vero sicuramente in Cina, dove il partito comunista ha escluso dagli organi di vertice del partito e dagli organi costituzionali finanche i boiardi di Stato, perché fanno una vita simile ai grandi imprenditori e introiettano e diffondono una mentalità analoga a quella dei grandi capitalisti e dei CEO delle imprese private, ma, dopo la guerra in Ucraina, come testimonia il discorso di Putin del 22 febbraio 2023, anche in Russia.
Gli Stati assoluti hanno più potere politico di quanto ne avessero i monarchi assoluti, perché più di questi ultimi sono di fatto e di diritto indipendenti dal potere economico della classe capitalista, anche e soprattutto in ragione dell’esistenza della moneta fiat.
Gli emergenti Stati assoluti non sono una fase di transizione destinata a portare allo stato costituzionale “borghese”, che meglio avrebbe dovuto essere definito (fino al secondo dopoguerra) stato costituzionale “capitalista”, come furono le monarchie assolute. Sono, invece, o una recente reazione vincente a quest’ultimo (Russia), o una resistenza di più lunga durata e di grandissimo successo (Cina).
La radice storica dei due Stati assoluti è l’esperienza del comunismo reale, che mostra di aver lasciato tracce indelebili nella storia.
Negli Stati assoluti il potere politico è nelle mani del “partito dello Stato” e la classe capitalista non possiede, se non in minima è insignificante parte, il potere di conformare l’opinione pubblica (indispensabile per contrastare e poi vincere l’egemonia del partito dello Stato), potere che in Russia è detenuto più dall’opposizione comunista che dalla quasi inesistente opposizione capitalista (gli oligarchi) e in Cina più dall’opposizione maoista che da CEO e grandi imprenditori.
Viene meno, con questi Stati assoluti, un caposaldo del marxismo, che vedeva nel potere politico degli ordinamenti capitalisti, un potere direttamente o indirettamente (tramite il “comitato d’affari”) esercitato dalla classe dei capitalisti.

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UNA BRUTALE VERITA’, di Stefano D’Andrea

tratto da facebook_ Stefano D’Andrea è Presidente del Fronte Sovranista Italiano http://appelloalpopolo.it/?cat=3380

UNA BRUTALE VERITA’

Gli ingenui credono che gli uomini di Stato non ricattino gli uomini di stato stranieri, non elaborino strategie per disintegrare geograficamente Stati stranieri, non siano al vertice di centri di spionaggio industriale militare e politico.

Proprio perché credono che la norma non sia la norma, gli ingenui considerano come fatti eccezionali ed eccezionalmente gravi normalissime azioni di spionaggio o di ricatto e normalissimi piani di destabilizzazione e disintegrazione.
E a quel punto gli ingenui tirano fuori giudizi morali sullo straniero, con il rischio del nazionalismo: passano dall’ingenuità al nazionalismo.

Fosse vera la storia narrata da Tria, essa rileverebbe soltanto che Saccomanni sarebbe da considerare un uomo minuscolo, privo di qualità e anzi codardo, che l’Italia ha avuto in un posto di grande responsabilità. Letta, invece, non sappiamo nemmeno da che parte eventualmente stesse.

Cari Italiani non crediate che si competa soltanto nel lavoro e nel calcio e magari anche in amore. Svegliatevi dal sonno generato dai narcotici: che gli Stati competano è una verità elementare, un dato un fatto, dimostrato da tutta la storia (persino i rapporti tra Cina e URSS ai tempi del socialismo reale non sono stati ispirati alla pura solidarietà internazionale).

Mentre la competizione tra imprese o tra squadre di calcio è o può essere disciplinata da un ente terzo che si trovi in situazione di potere superiore, la competizione tra Stati non è mai disciplinata da un terzo superiore, in posizione di forza.

Perciò se uno Stato non è governato da persone intelligenti, forti, scaltre, coraggiose, dignitose, capaci di essere cattive e spietate, per la difesa dell’interesse nazionale,quello Stato, se ha beni che fanno gola a qualcuno, subisce colpi e, se la situazione di debolezza continua, prima o dopo muore. E tanto più la classe dirigente è composta da larve, tanto più il popolo nemmeno si accorge che gli stanno rubando la casa.

Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia (3), di Stefano D’Andrea e Paolo Di Remigio del FSI

Il sovranismo è possibile e desiderabile, tratto da http://appelloalpopolo.it/?p=26256
DI STEFANO D’ANDREA · PUBBLICATO 2 DICEMBRE 2016 · AGGIORNATO 3 DICEMBRE 2016

di STEFANO D’ANDREA e PAOLO DI REMIGIO

In un lungo commento sul blog ‘L’orizzonte degli eventi’, ripreso e fatto suo da Barbara Tampieri, Roberto Buffagni si propone di mostrare l’impossibilità fattuale e l’indesiderabilità etica di un partito sovranista in Italia. Le sue tesi aprono una discussione tra potenziali alleati, quindi hanno almeno il merito di dare occasione a un chiarimento sui fini e i modi della loro azione politica. Per questo gli siamo grati di averle espresse.

A noi sembra che il punto di vista di Buffagni sia un po’ troppo limitato allo scenario politico, che vi siano troppo trascurate la storia e l’economia. Questi limiti si fanno evidenti nell’ultimo capoverso. Scrive infatti Buffagni: ‘… finché la sinistra è maggioritaria nell’opinione italiana, la maggioranza degli italiani continuerà a credere che la UE sia riformabile … non un nemico’; il che è vero, anzi è una tautologia: se il partito che crede nella riformabilità della UE (oggi va da Renzi a Fassina) ha la maggioranza dei consensi degli Italiani, la maggioranza degli Italiani crede che la UE sia riformabile. Se però la sinistra subisce una dura sconfitta, prosegue Buffagni, – e crediamo che si riferisca a una auspicabilissima sconfitta elettorale – allora dovrà dare ascolto e farsi guidare da chi ‘dall’interno della … sinistra ha saputo operarne una profonda revisione e le ha indicato come nemico la UE … ’.

Questa espressioni suscitano perplessità per più ragioni: la sinistra non è affatto maggioritaria nell’opinione italiana: già ora i sondaggi danno i grillini in vantaggio ed è almeno probabile che in futuro gli effetti di una politica economica demenziale contribuiscano a eroderne ancora i consensi; inoltre: dopo aver subito una dura e inequivocabile sconfitta, la sinistra non darà ascolto ai revisionisti perché, semplicemente, sarà finita, come è già successo, per esempio, a Rifondazione Comunista. E se finisce, diventa del tutto irrilevante che dia ascolto o meno ai suoi revisionisti anti UE (ammesso che esistano). La sinistra è morta da tempo e non si può uccidere un cadavere, lo si deve seppellire, per ovvi motivi igienici, perché emana il turpe odore del neoliberalismo.

Cosa intendiamo col dire ‘la sinistra è morta’? Che cos’è la sinistra? La sinistra è l’alone politico e culturale creatosi intorno all’URSS, la fede, più o meno viva, che la rivoluzione creerà una società superiore all’attuale. Se questo è vero, la divisione profonda che ha colpito il popolo italiano non nasce dal 1943, come ritiene Buffagni, ma dal 1917, quando il trauma della Grande Guerra e la presenza di una nuova società battezzata da una rivoluzione creano da una parte l’aspettativa dall’altra il terrore di una prospettiva rivoluzionaria: questa aspettativa è la sinistra, questo terrore è l’alleanza volta a contrastarla – alleanza che in Italia è leggibile nei partiti del primo governo Mussolini.

Cosa implica la rivoluzione di tanto grave da far sì che la sua prospettiva rappresenta un discrimine? Nessuno l’ha meglio espresso del più grande rivoluzionario, Lenin, quando durante la prima guerra mondiale ha esortato a trasformare la guerra tra Stati in guerra civile. La rivoluzione implica la guerra civile, la volontà rivoluzionaria implica una volontà di violenza estrema, che è incompatibile con il riconoscimento della maestà delle istituzioni e delle leggi statali.

Con questo non si vuole dire che l’idea rivoluzionaria sia delittuosa e rifiutarla moralisticamente: la morale riguarda le intenzioni del soggetto, la rivoluzione e la guerra civile sono eventi di massa, che esorbitano dalla sfera della volontà soggettiva, rispetto ai quali il soggetto deve rapportarsi innanzitutto politicamente. In ogni caso, ogni partito che si pretende rivoluzionario, che abbia un programma progressista o reazionario, è un partito che si prepara alla guerra civile: tale è il fascismo, tale è voluto apparire a cittadini e militanti il PCI finché ha potuto intravedere nell’URSS la realtà dell’avvenire: un partito del cambiamento radicale, non il partito riformista che effettivamente era (Pizzorno ha mostrato che in realtà, durante gli anni 1950-1960, nel pieno della guerra fredda, il 90% delle leggi fu approvato dal Parlamento all’unanimità o quasi: storia delle ideologie e delle declamazioni e storia dei fatti e degli atti non coincidono). La fine dell’URSS è dunque la fine dell’ultimo partito che ha nel suo strumentario ideologico (e più al livello di credo che di realtà) la guerra civile.

L’estinzione della sinistra con velleità rivoluzionarie ha un effetto profondo sul panorama politico italiano: scompare con essa la guerra fredda civile che, almeno a livello delle declamazioni ideologiche, ha caratterizzato l’Italia dalla prima guerra mondiale agli anni ’70. In questo senso la preoccupazione di Buffagni sull’irrimediabilità della divisione degli Italiani ci sembra più un’applicazione di uno schema naturalistico che il risultato di un’indagine storica.

Così anche l’altra sua preoccupazione, quella dell’essenza totalitaria di un partito sovranista, di un partito nazione, sembra poco ispirata alla realtà. La necessità dell’esistenza del sovranismo risulta non da un’esaltazione nazionalistica, ma dal fatto che in Italia e nel sud dell’Europa gli Stati non sono più sovrani – a differenza di quanto avviene in Germania, per la quale le disposizioni UE subiscono il vaglio di costituzionalità, sono cioè subordinate alla sovranità dello Stato tedesco. Il recupero della sovranità italiana diventa un programma di una parte politica nel momento in cui essa è smantellata da un‘altra parte politica diretta da poteri transnazionali anziché dalla volontà popolare. Qui non si ripropone dunque la situazione del ventennio fascista, quando una parte politica si identifica con la nazione e ne esclude altre parti che si sentono nazione non meno della prima. La nostra situazione è semmai quella opposta: ricondurre alla coscienza dello Stato una parte del popolo, intendiamo la sinistra europeista, che non si crede più sua parte perché disprezza i confini, perché ignora che i diritti non esistono naturalmente ma solo in quanto è definito un ambito di assunzione di doveri. Nel porsi il problema di restaurare la sovranità il Fronte sovranista italiano non può pensare neanche lontanamente ad escludere alcuno dallo Stato, vuole anzi recuperare chi se ne crede fuori; dunque si concepisce non come unico partito dello Stato nuovamente sovrano, ma come partito tra gli altri, erede di una specifica tradizione, quella della democrazia socialista, accanto ad altre tradizioni, come quella della solidarietà cattolica, quella della meritocrazia liberale, come espressione non soltanto dell’interesse universale, quello della fiducia e della legalità, ma anche di specifici interessi, quelli dei piccoli, accanto a quelli dei grandi.

Alla sinistra estinta è sopravvissuto un ceto politico educato alla retorica della guerra civile, frustrato da decenni di tentativi di appropriarsi della gestione del potere pubblico. Incapace di intendere lo Stato come quadro di fiducia reciproca entro il quale si articolano le differenze interne al popolo, avvelenato dalla concezione dello Stato come strumento con cui una fazione impone la sua dittatura, educato dallo storicismo materialista al disprezzo dell’eticità presente e all’ebbrezza del ‘nuovo’, questo ceto politico è stato cooptato dai poteri transnazionali (banche d’investimento, multinazionali, organismI internazionali che ne rappresentano gli interessi). Questa inedita strumentalizzazione è stata resa possibile dal comune orientamento anti-statalista: la rivoluzione globalista ha fatto degli internazionalisti un proprio strumento. A questo punto la sinistra diventa quel nemico, rispetto al quale è opportuno allacciare qualunque alleanza che abbia a cuore la civiltà.

La rivoluzione globalista non era diretta contro la sinistra nell’accezione ristretta che diamo a questo termine in questo contesto: non è il neoliberalismo ad aver vinto la guerra fredda, esso ha invece approfittato prima della crisi (fin dai primi anni ottanta) e poi della sconfitta dell’URSS per mettere fine all’interventismo statale che le élite occidentali avevano promosso dopo la crisi del 1929 e poi nei primi trent’anni del dopoguerra per rafforzare il fronte interno contro la minaccia comunista. L’antistatalismo ha unito globalisti e internazionalisti. Lo statalismo è dunque lo specifico del nostro sovranismo.

Buffagni non spiega perché la UE sia il nemico, ma sicuramente concorderà con la risposta che la UE è lo strumento con cui i poteri transnazionali e quindi il grande capitale, industriale, finanziario (nonché il capitale “marchio”) si sono imposti in Europa. Questa precisazione conduce però al di là delle sue posizioni, in quanto ci costringe a determinare per quali motivi i poteri mondialisti sono nostri nemici. In fondo hanno fatto propri ideali a cui noi stessi non potremo mai rinunciare: la condanna del razzismo, del sessismo, lo spirito di apertura culturale. Ebbene, il globalismo è nostro nemico perché da un lato, al livello ideologico, ossia delle declamazioni, fa della crescita economica l’obiettivo rispetto al quale ogni valore spirituale è annullato, dall’altro, non paradossalmente ma scientemente, si dimostra non solo del tutto inetto a favorirla, anzi opera sistematicamente in modo da bloccarla. Questo apparente paradosso di una ideologia che sacrifica l’umanità per raggiungere un obiettivo che proprio quel sacrificio impedisce di raggiungere è il riflesso della superstizione del mercato: la stolida credenza nelle capacità di regolazione economica del mercato ha annullato ogni esigenza di regolazione in vista di un bene superiore, di cui solo lo Stato può farsi veicolo; quindi ha emarginato lo Stato dall’economia, e insieme ha prodotto una delle recessioni più profonde della storia moderna. Precarietà, povertà, disoccupazione, insicurezza, miseria intellettuale, abbandono hanno colpito il mondo da quando l’imposizione del libero mercato in nome del primato dell’economia ha bloccato l’economia e ha promosso il trasferimento della ricchezza sociale a sparute minoranze.

Caratterizzare il nemico su questa base economica consente di determinare in termini positivi il programma politico del sovranismo. E questa positività consente di uscire dall’atteggiamento esclusivista di chi identifica partito e nazione: all’interno di chi vuole lottare contro il potere transnazionale che qui in Italia si esprime innanzitutto nella Ue, il Fronte sovranista italiano si segnala per specifici obiettivi per cui si differenzia dai potenziali alleati e non può confondersi con essi.

Secondo noi non basta uscire dalla Ue, non basta dissolvere l’euro; occorre sin d’ora porsi il problema del dopo. La rottura con la UE e della UE deve per noi inaugurare una stagione di intervento statale nell‘economia in vista della piena occupazione, in modo che l’uso statale senza timidezze degli strumenti di politica economica permetta l’uscita dalla crisi, l’esaurimento dell’esercito industriale di riserva e il riequilibrio del rapporto tra capitale e lavoro. Per noi l’ideale della sovranità statale, dopo essersi realizzato rispetto all’estero, dispiega il suo significato all‘interno: essa deve ripristinare la politica economica in modo da ricreare un equilibrio tra le classi, premessa indispensabile della libertà e della democrazia.

Questo programma positivo è qualcosa di più dei tre punti di azione politica proposti da Buffagni: più dell’influsso culturale, più del lavorare per dividere la sinistra (un lavoro in verità superfluo dato che la sinistra è già estinta ed esiste come ectoplasma soltanto nella stampa corrotta), e non può essere perseguito se si aderisce ai partiti anti UE già esistenti. Lega e Fratelli d’Italia possono essere “alleati” nella lotta contro la UE, ma solo alleati temporanei: essi condividono infatti con il capitalismo transnazionale i presupposti liberali, la superstizione del libero mercato; la Lega inoltre conserva la sua avversione allo Stato nazionale e non ha mai rinnegato l’obiettivo di dividere l’Italia settentrionale da quella meridionale. Delle quattro libertà del capitale: il libero movimento delle merci, dei servizi, dei capitali, delle persone, questi due partiti combattono con una certa chiarezza soltanto l’ultima, lasciando sperare molto poco sulle prime tre.

Ci sembra dunque di poter escludere che Lega nord e Fratelli d’Italia, addirittura gli stessi partiti europei anti UE come il Front National, se e quando conseguiranno il potere politico e saranno sorretti da robuste maggioranze parlamentari, agiranno col fine di distruggere l’Unione europea in quanto espressione del progetto neoliberale. Sarebbe necessario che già ora si ponessero come obiettivo una nuova Comunità economica europea, con meno vincoli rispetto a quella precedente, con meno membri, regolata da trattati stabili e priva di organi con poteri normativi e giurisdizionali sugli Stati. I partiti anti UE generati dalla destra tradizionale sono invece troppo avversi al protezionismo per concepire una semplice zona di parziale libero scambio; soprattutto a livello di classi dirigenti, sono troppo legati ai cliché reaganiani per condurre una vera lotta d’indipendenza e per respingere tutti i vincoli europei che impongono il liberalismo economico; si limiteranno dunque a promuovere, assieme ad altre forze, una semplice revisione dell’Unione europea: una timida riduzione o attenuazione dei vincoli, anziché una nuova stagione statalista.

Soltanto la prospettiva sovranista restaurerà lo Stato democratico dirigista e pluriclasse, volto alla piena occupazione, con un generoso stato sociale, con scuole, università, conservatori e istituzioni culturali rispettosi della ricchezza della tradizione culturale italiana.