È guerra, Josep, ma non come la conosciamo_di Aurelien

Cercando di capire cos’è l’Ucraina.

Ho in gran parte evitato di scrivere qualcosa di troppo attuale sul conflitto in Ucraina e dintorni, perché non mi piace la polemica, e comunque non ho abbastanza conoscenze tecniche per scrivere di questioni militari quotidiane. Nondimeno, non posso fare a meno di essere colpito dal senso di disorientamento e confusione intellettuale che mostra molta della scrittura occidentale sulle operazioni militari. A sua volta, questo deriva, suggerisco, da una fondamentale riluttanza occidentale a fare il duro lavoro di apprendere la strategia e gli usi politici della forza militare, e ad alzare gli occhi dagli eccitanti scoppi e boom, avanzate e ritirate sul campo di battaglia, e guardare il quadro generale.

Quindi qui, proverò a fare un passo se non tre indietro; parlerò del più grande dei grandi quadri e cercherò di mostrare come vari fattori politici ed economici debbano essere presi in considerazione per capire cosa pensano i russi e cosa stanno cercando di fare. Qualunque sia la tua opinione sul conflitto, è molto difficile dire qualcosa di utile al riguardo (sto guardando te, Josep Borrell, per esempio) a meno che tu non faccia uno sforzo per capire l’importanza di questi fattori.

Fortunatamente, altri si sono comportati così prima di scrivere di strategia, e nessuno più fruttuosamente del grande soldato prussiano e teorico militare, Carl von Clausewitz. Ora uno dei motivi per cui Clausewitz è importante è che fa parte di un gruppo molto ristretto di teorici e storici, tra cui Machiavelli e Tucidide, che erano praticamente coinvolti nelle cose di cui scrivevano. Come loro, si fa riferimento a lui molto più di quanto lo si legga, e si fraintende anche quando lo si legge. Ma Clausewitz è stato il primo teorico importante ad abbandonare gli scritti dettagliati sulla tattica e a porre (e in effetti a rispondere) alla domanda: a cosa serve effettivamente la guerra?  Perché gli stati ricorrono alla forza militare? La sua risposta è stata semplice: la guerra è “un atto di forza per costringere il nostro nemico ad accettare la nostra volontà”. Vogliamo che il nostro nemico faccia qualcosa, o smetta di farlo, e quindi, dice Clausewitz, dobbiamo mettere il nostro nemico in una “situazione che è ancora più spiacevole del sacrificio che gli chiedi di fare”. Inoltre, aggiunge, questa situazione non può essere transitoria, tale che il nemico può semplicemente aspettare che le cose migliorino, ma in cui il nemico è effettivamente indifeso o è probabile che lo diventi.

Ma Clausewitz insiste sulla necessità di situare la guerra nel contesto della politica statale in generale (non “politica” come spesso qui si traduce erroneamente politik ). Le guerre iniziano, dice, a causa di qualche “situazione politica, e l’occasione è sempre dovuta a qualche oggetto politico”. Così, “la guerra non è semplicemente un atto di politica, ma un vero strumento politico, una continuazione del rapporto politico, portato avanti con altri mezzi… L’oggetto politico è l’obiettivo, la guerra è il mezzo per raggiungerlo, e il mezzo non può mai essere considerato isolatamente dal loro scopo ” (corsivo mio). Sebbene On War sia un testo proibitivo, queste citazioni (nella traduzione standard di Howard e Paret) sono tutti presi dal Libro I, e puoi scaricare una vecchia traduzione di pubblico dominio di quel Libro e leggerla in un’ora. (Forse l’ufficio del signor Borrell dovrebbe considerare di farlo.)

Dopo averlo fatto, le cose diventano immediatamente molto più chiare, e una serie di domande non poste dai media e dai politici occidentali diventano ovvie. Quali sono, ad esempio, i più grandi obiettivi politici russi? Quanto sono significativi gli attuali combattimenti in Ucraina, e in effetti quanto sono significative le singole battaglie? Quali attività parallele stanno accadendo, politicamente ed economicamente, tutte nella stessa direzione? E quale visione hanno i russi della situazione che vogliono realizzare, quello che Clausewitz chiama lo “stato finale”?

Ma perché queste domande non vengono poste in modo sistematico dall’Occidente? Dopotutto, se si vuole frustrare i piani russi, potrebbe avere senso provare a dedurre quali sono quei piani e come i russi si aspettano di realizzare il loro stato finale.

La risposta, credo, viene da una combinazione di due fattori. In primo luogo, gran parte dell’impulso politico sull’Ucraina viene dai paesi anglosassoni, la cui storia di guerra, e il cui pensiero sulla guerra, è essenzialmente di corpi di spedizione e circoscritto. A parte brevissimi periodi nel 1916-18 e nel 1944-45, gli inglesi e gli americani non dovettero mai considerare l’uso di grandi forze terrestri e aeree e sviluppare una dottrina per il loro impiego. Storicamente le spedizioni militari erano piccole, con obiettivi limitati, lontane dalla madrepatria. La guerra delle Falkland del 1982, nonostante sia stata una notevole conquista militare, si inserisce perfettamente in questa tradizione, di tattiche di piccole unità, leadership individuale e improvvisazione sul campo di battaglia.

Il tipo di operazioni militari che gli europei hanno effettivamente condotto dal 1945, e soprattutto dal 1989, tende a seguire questo modello. Sebbene generazioni di ufficiali della NATO abbiano pianificato ed esercitato scontri apocalittici con il Patto di Varsavia, quei paesi che hanno effettivamente effettuato operazioni nella vita reale sono stati coinvolti in missioni di controinsurrezione o di mantenimento della pace di livello molto inferiore. E quando gli europei, ancora un po’ storditi dalla caduta del muro di Berlino, iniziarono a pensare a quali compiti avrebbero potuto svolgere i loro militari in futuro, la loro ipotesi migliore fu più o meno la stessa: missioni di pace, evacuazioni con assistenza militare, gestione delle crisi e relativo dispiegamento e così via. E così il servizio nazionale e i grandi eserciti furono abbandonati, la guerra su larga scala ad alta intensità smise di essere studiata se non come storia e le carriere venivano costruite guidando piccoli gruppi di soldati in missioni lontane.

Il secondo fattore è semplicemente che in generale le guerre dell’Occidente sono state guerre a responsabilità limitata, dove ci sono state poche vittime in patria. È vero, le guerre in Algeria, Angola e, probabilmente, Vietnam, hanno prodotto convulsioni politiche e fatto cadere i governi, ma la morte e la distruzione vere e proprie sono avvenute quasi tutte altrove.

Per i russi, la geografia imponeva un diverso insieme di criteri. Da sempre un paese enorme con una popolazione relativamente numerosa e lunghi confini, la nazione ha subito ripetutamente invasioni militari straniere nella sua storia. È abituato a combattere sul proprio territorio e nella sola seconda guerra mondiale ha subito quasi trenta milioni di morti, in gran parte civili. Pertanto, la difesa nazionale è letteralmente una questione di vita o di morte; pensare e pianificare la guerra avviene a un livello strategico enormemente più alto e più complesso. Vale anche la pena sottolineare che il formidabile edificio della scienza militare marxista-leninista non ha perso la sua influenza, e il marxismo era soprattutto una dottrina basata sul predominio delle forze materiali tangibili.

Questa esperienza russa produce inevitabilmente un modo di guardare al conflitto radicalmente diverso da quello occidentale, fermo restando che lo stesso Occidente ha dovuto dolorosamente imparare simili lezioni durante due Guerre Mondiali, per poi dimenticarsele ogni volta puntualmente. La guerra è vista in senso totale: come lotta politica, economica e militare combinata. Numeri puri, disciplina politica, enormi riserve di uomini e attrezzature, capacità di mobilitazione totale e pianificazione strategica a lungo raggio e ambiziosa sono caratteristiche inevitabili di un tale approccio, quindi se vogliamo vedere cosa cercano i russi, sarebbe bene includere questi fattori. Lo stato finale non è, per definizione, militare, e quindi i militari possono contribuire a tale stato finale in un’ampia varietà di modi. La vittoria sul campo di battaglia potrebbe non essere la priorità assoluta, se altri fattori stanno operando a tuo favore, e l’impiego di grandi forze su una vasta area imporrà esso stesso un modo di pensare di livello superiore. Ad esempio, dare battaglia, anche se pensi di vincere, potrebbe essere una cattiva idea se consuma unità ed equipaggiamento che saranno assolutamente necessari altrove. Meglio ritirarsi. Al contrario, invitare un nemico ad attaccare le tue posizioni, anche se tatticamente svantaggioso, può essere una buona idea se infliggi pesanti perdite che il tuo nemico non può sostituire.

Le forze armate sovietiche e russe hanno una lunga tradizione nello studio delle terribili guerre passate dal loro paese; ci sono una serie di conclusioni ovvie traibili da qualsiasi analisi del genere. Uno è l’importanza dei numeri, del personale, delle attrezzature e delle munizioni. In una lunga guerra, che i russi, a differenza dell’occidente, si sono sempre aspettati di combattere, queste cose contano moltissimo. Nella Guerra Fredda, l’Armata Rossa pianificò di vincere con una tattica nota come echeloning. In sostanza, invii prima le tue forze migliori, che vengono per lo più distrutte, ma distruggi anche le migliori forze nemiche. Quindi invii il tuo secondo scaglione e rastrelli le forze rimanenti del nemico, anche se perdi la maggior parte delle tue. Il tuo terzo scaglione non ha effettivamente opposizione e vinci. (Questo non avrebbe sorpreso Clausewitz, il quale sosteneva che era importante essere “forti ovunque, soprattutto nel punto decisivo.”) Allo stesso modo con le scorte di munizioni. Se hai due milioni di colpi di munizioni e il tuo nemico ne ha mezzo milione, il tuo nemico si esaurirà prima di te, dopodiché avrai il dominio. L’Occidente ha optato, dalla fine degli anni ’40, per avere meno armi e meno manodopera, sperando che la qualità prevalga sulla quantità. Durante la Guerra Fredda, prevedeva anche di utilizzare presto armi nucleari tattiche, poiché non poteva accettare l’onere economico di mantenere massicce forze convenzionali come fece l’Unione Sovietica. Per fortuna, non lo sapremo mai se tutto ciò avrebbe funzionato durante la Guerra Fredda, ma chiaramente è esattamente l’opposto della politica che i russi hanno perseguito di recente.

Se questo suona come una guerra su scala industriale, è esattamente quello che è. E’ letteralmente così, in quanto l’importanza della produzione bellica fu un’altra lezione tratta dal 1941-45, quando l’Unione Sovietica superò i tedeschi in attrezzature militari anche dopo aver spostato le sue fabbriche ad est degli Urali. Inoltre, l’equipaggiamento sovietico e successivamente russo era progettato per essere utilizzato dai coscritti, e quindi era mantenuto relativamente semplice, in modo da poter essere impiegato in numero molto elevato. Stiamo vedendo i risultati ora in Ucraina, dove i carri armati T-62, tenuti in riserva per molti anni, vengono inviati nel Donbass per essere gestiti dalle milizie locali e dai richiamati riservisti con standard di addestramento inferiori. L’Occidente ha optato per piattaforme che individualmente potrebbero funzionare meglio in combattimento (finora nessuno lo sa) ma sono molto più complesse e difficili da gestire e mantenere.

L’Occidente ha una difficoltà intrinseca con questo tipo di approccio. In particolare, la sua tradizione di storia e teoria militare si concentra molto più sulle battaglie che sulle campagne, molto più sui leader che sulle forze, molto più sulle storie dei singoli sistemi d’arma che sulla produzione bellica. Anche gli storici che scrivono sul fronte orientale nella seconda guerra mondiale tendono ancora a scrivere di singole battaglie (in particolare Kursk), mentre i migliori resoconti (di Chris Bellamyad esempio) solgono concentrarsi correttamente sul livello della campagna. In effetti, è stato argomentato in modo persuasivo che le singole battaglie in quel terribile conflitto influenzarono in gran parte solo il calendario preciso e che i fattori sottostanti determinarono il risultato fin dall’inizio. In particolare, la catastrofica sottovalutazione tedesca delle dimensioni e del potere di combattimento dell’Armata Rossa e l’incapacità della Wehrmacht di terminare la campagna entro l’inizio dell’autunno, sono state ritenute limitazioni molto più importanti della vittoria o della sconfitta in ogni singola battaglia. È come può essere, ma è chiaro che anche quel tipo di approccio è del tutto estraneo alla cornice intellettuale di quei commentatori occidentali che seguono ogni video, ogni voce, ogni svolta della sanguinosa partita che si sta giocando in Ucraina. Difficile trovare una metafora appropriata: forse critici musicali che discutono sul costume della primadonna in un’opera, senza menzionare se la produzione sia stata finalmente salutata da fiori e standing ovation, o dal cast bersagliato di uova marce.

Infine, i russi stanno operando, per ribadire l’osservazione che, secondo una tradizione Clausewitziana, vede la forza militare utile solo quando è chiaramente legata a uno scopo politico. (E uno scopo non è solo un’aspirazione.) L’invasione sovietica dell’Afghanistan, ad esempio, includeva una chiara strategia politica per creare sostegno al nuovo regime tra la classe media professionale, riformare lo stato e il sistema politico e creare forze di sicurezza efficaci . Alla fine non funzionò, almeno non dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma almeno fu una strategia. Al contrario, il tipo di piani per la ricostruzione afghana che ricordo di aver visto circolare in Occidente negli anni 2000, erano solo una serie di aspirazioni vagamente collegate, in cui si presumeva che le frecce sulle diapositive di Powerpoint rappresentassero in realtà una sorta di relazione causale . Più o meno lo stesso era vero al tempo della guerra in Iraq (sebbene il Dipartimento di Stato americano avesse fatto del suo meglio). A Washington, il futuro dell’Iraq era visto in termini di una serie di fantasie concordanti e sequenziali, senza alcuna idea di come si sarebbero realizzate. Principalmente, questo è dovuto al fatto che il liberalismo presuppone sempre che certi elementi politici esistano universalmente e che una volta che i Cattivi saranno rimossi dal potere, le nazioni si svilupperanno automaticamente e ineluttabilmente verso un modello democratico liberale. Questo è ancora il punto di vista prevalente odierno. Se hai a che fare con qualcosa di simile ad idee scambiate come ricostruzione post-conflitto o costruzione della pace, in particolare come commercializzazioni da organizzazioni come le Nazioni Unite e l’UE, ti verrà presentata una serie di passaggi sequenziali verso un’ipotetica utopia, ma con niente che li tenga insieme. Così, ad esempio, viene mostrato che un cessate il fuoco porta alla smobilitazione, quindi al riavvio del processo politico, quindi alle elezioni, quindi alla stabilità. Ma se chiedi con precisione come un cessate il fuoco porterà a riavviare il processo politico (o addirittura perché dovrebbe farlo) verrai accolto con un imbarazzato silenzio. E naturalmente nella vita reale generalmente non è così; è strano che sia il liberalismo, piuttosto che il marxismo, a credere nell’inevitabilità storica.

Quindi, se questa è la tradizione da cui provengono i russi, e se è per questo che l’Occidente ha difficoltà a capire cosa sta avvenendo in Ucraina, allora cosa ci dice sul tipo di piano più ampio e a lungo termine che i russi potrebbero avere, e come lo perseguiranno? Tuttavia, prima di iniziare è necessario aggiungere due chiose.

In primo luogo dovremmo evitare la tentazione di assumere ovunque “masterplan”. È facile cadere nelle teorie del complotto sugli Illuminati, il gruppo Bilderberg, la “cabala anglo-sionista” o qualche complotto per distruggere l’economia europea ideato da Washington. Ma questa è roba da bestseller aeroportuali, non da vita reale. In secondo luogo, e in parte di conseguenza, non stiamo parlando di un piano complesso e dettagliato nel corso delle generazioni, ma piuttosto di una serie di obiettivi relativamente semplici a diversi livelli, coerenti con le affermazioni russe fino ad ora, e con uno sguardo imparziale ragionevole su ciò che possono essere ovviamente i loro obiettivi di sicurezza. Da bravi studenti di Clausewitz, ci aspetteremmo che i russi considerino la guerra a tutti i suoi livelli, quindi affidiamoci di nuovo a lui come nostra guida.

Si consideri anzitutto quanto disse Clausewitz circa la necessità che la vittoria sia completa, e definitiva, per evitare che il nemico possa ricominciare la guerra. E qui ricordiamo che, nel 1945, l’Armata Rossa non si fermò al confine russo, ma arrivò fino a Berlino, dove occupò metà del paese e installò un regime fantoccio. Questo tipo di conclusione di una guerra in realtà non è insolito: nel 1814, le truppe russe occuparono effettivamente Parigi dopo la sconfitta finale di Napoleone. È solo negli ultimi decenni che accordi di pace pienamente inclusivi che affrontano le cause alla base dei conflitti, con la partecipazione di gruppi vulnerabili e complessi regimi di costruzione della pace dopo negoziati dettagliati e trattati di pace onnicomprensivi, sono diventati la norma. Quest’ultimo certamente non accadrà questa volta, motivo per cui dobbiamo stare molto attenti a come utilizziamo la parola “negoziazione”, ma non è nemmeno probabile che i russi vogliano occupare fisicamente l’Ucraina più del necessario. Quindi cosa significherebbe vittoria completa, in questo senso?

Dopo Clausewitz, la prima variabile sarebbe quella del tempo. Per i russi, l’Ucraina deve essere lasciata in una situazione in cui non sia in grado di costituire una minaccia in tempi ragionevoli. È difficile essere precisi, ma venticinque anni suonano bene. Ora, anche se i russi non facessero altro, l’ipotesi migliore è che ci vorranno dieci anni buoni per ricostituire le forze ucraine a qualcosa di simile al livello di efficacia del febbraio 2022. Ma si noti che ciò implica la disponibilità di massicci fondi (di cui l’Ucraina non dispone) o massicci, organizzati e sostenuti aiuti dall’estero, inclusi sostanziali dirottamenti di nuovi armamenti dalle già esaurite forze armate statunitensi ed europee, o sostanziali investimenti in nuova produzione di strutture soprattutto per l’Ucraina. Nessuno dei due sembra molto probabile. Inoltre, una nuova generazione di ufficiali dovrebbe essere reclutata e addestrata, l’infrastruttura militare riparata o ricostruita, e dovrebbe essere sviluppato un processo globale di conversione dall’equipaggiamento militare ex-sovietico a quello occidentale, insieme alla dottrina operativa associata. E naturalmente l’infrastruttura di base del paese dovrebbe essere riparata affinché l’esercito possa funzionare. Le possibilità di raggiungere questo obiettivo, figuriamoci nel breve periodo di un decennio, non sono grandi.

Quindi il problema potrebbe risolversi da solo. Tuttavia, probabilmente non è nell’interesse della Russia che l’Ucraina sia completamente disarmata, perché ciò porterebbe a una potenziale instabilità, che potrebbe estendersi alla Russia stessa. Qualunque governo succederà all’attuale regime di Kiev dovrà essere in grado di controllare il proprio territorio. Quindi i russi potrebbero imporre un trattato di pace all’Ucraina che, ad esempio, includa la creazione di una gendarmeria professionale, autorizzata a guidare veicoli corazzati leggeri ed elicotteri, ma non di più. I tentativi di sviluppare o acquisire sistemi più potenti sarebbero impossibili da nascondere e facili da schiacciare. Questa è una soluzione molto più elegante e molto più economica rispetto ai tentativi di costruire massicce fortificazioni o occupare territori non di lingua russa.

Tuttavia, è ovvio da tempo che l’Ucraina è solo la parte visibile dell’iceberg strategico, per entrambe le parti. L’Occidente vuole, grosso modo, un ritorno agli anni ’90 e la fine di un concorrente ideologico e strategico. Gli obiettivi russi ovviamente includono la frustrazione, ma quasi certamente vanno molto oltre. A differenza di molte persone, non ho idea di cosa ci sia nei capi collettivi del governo russo, ma è possibile fare alcune ampie deduzioni dalle bozze di trattati che i russi hanno fatto circolare nel dicembre dello scorso anno. Questi sono testi di trattati, e per di più bozze, quindi è improbabile che costituiscano qualcosa di più di una lista di obiettivi che in realtà dovrebbero probabilmente essere aggiustati verso il basso. Ma possiamo fare alcune deduzioni ragionevoli.

Il principale obiettivo russo in Europa è quello di essere la superpotenza militare locale, in un’Europa che è militarmente debole, in parte dipendente economicamente dalla Russia, e non rappresenta una minaccia militare. Per quanto riguarda la stessa Europa occidentale, ora non siamo lontani da questo: si poteva dire che solo l’Ucraina rappresentava una minaccia militare, e non è più così. L’idea sarebbe allora quella di convertire l’anello di Paesi attorno ai confini di Russia, Ucraina e Bielorussia (in pratica, Baltici, Romania e Polonia) in effettivi stati neutrali, senza truppe straniere di stanza lì. Ciò non significherebbe necessariamente che questi paesi lascino la NATO, perché le truppe statunitensi, ad esempio, sono comunque di stanza in paesi non NATO. Piuttosto, ci sarebbe un tacito accordo (come con la Finlandia durante la Guerra Fredda) che questi stati si sarebbero comportati bene nei confronti della Russia. Una componente di questa soluzione sarebbe il ritiro del numero relativamente piccolo di truppe statunitensi ancora in Europa. È probabile che ciò faccia parte dell’obiettivo parallelo di distruggere efficacemente la NATO come alleanza, dimostrando che, in pratica, non ha alcuna utilità militare e, per estensione, che quella che viene generalmente chiamata la “garanzia di sicurezza” americana è priva di valore. Si noti che questo non significa che la NATO non possa sopravvivere in qualche forma dormiente e rudimentale; è improbabile che i russi si oppongano a questo.

In tutto questo, bisogna tenere presente un altro concetto di Clausewitz: il Centro di Gravità. Clausewitz ha scritto molto su questo in diverse parti di On War, ma il modo più semplice per concepirlo consiste nel definire l’obiettivo più importante della guerra, da cui dipende tutto il resto. È “la sostanza ultima della forza nemica” sulla quale dovrebbe essere concentrato il massimo sforzo possibile. Clausewitz osserva che queste possono essere, ma non devono necessariamente essere, le forze militari del nemico. Alla fine del libro, monta una forte difesa della decisione di Napoleone di entrare a Mosca nel 1812, piuttosto che inseguire l’esercito russo sconfitto. Nessuna vittoria militare concepibile, sostiene, avrebbe potuto buttare fuori dalla guerra un paese delle dimensioni della Russia, mentre prendere e detenere la capitale nemica avrebbe potuto farlo. Alla fine, accetta che il piano sia fallito, ma in realtà valeva la pena tentare la sola cattura di Mosca. Se lo zar e l’aristocrazia fossero stati scossi dalla perdita della città come sperava Napoleone, la guerra sarebbe finita.

Clausewitz osserva inoltre che il centro di gravità potrebbe essere lo sferrare un colpo contro un alleato più potente. Quindi, nel caso delle operazioni nella stessa Ucraina, ciò significa la volontà dell’Occidente di continuare a sostenere militarmente, politicamente ed economicamente il regime di Kiev, perché se questo si ferma, finirà anche un’effettiva resistenza ucraina e questo aprirà la strada ad altri obbiettivi strategici. In una guerra in cui sia la Russia che l’Occidente stanno attenti a non colpirsi direttamente, questa volontà dovrà essere attaccata indirettamente, convincendo di fatto l’Occidente ad arrendersi, perché il successo è impossibile. Ci sono precedenti per questo, anche se possono sembrare sorprendenti. Le forze NVA/VietCong che combattevano contro gli Stati Uniti e le forze del Vietnam del Sud erano ben consapevoli di non poter ottenere una vittoria militare convenzionale. Quello che potevano fare era portare gli americani al punto in cui si rendevano conto che la lotta era senza speranza, semplicemente continuando la guerra e infliggendo danni politici ed economici agli stessi Stati Uniti. Questo lo fecero debitamente. La situazione era abbastanza simile con i francesi in Algeria e i portoghesi in Angola; entrambi erano militarmente dominanti, ma ogni guerra si concludeva con l’esaurimento politico ed economico e un cambio di governo. L’Afghanistan è un esempio più recente di un simile approccio. Quindi qui, l’obiettivo russo è probabilmente l’esaurimento politico ed economico dell’Occidente al punto in cui un ulteriore sostegno all’Ucraina sembra inutile, o addirittura impossibile. E anche se potrebbe non essere stato parte dei piani originali, è difficile credere che i russi si sarebbero pentiti che l’Occidente continuasse, almeno per un po’, a indebolirsi militarmente ed economicamente per una causa senza speranza.

Quindi, a quel livello, i russi stanno presumibilmente cercando di far rinunciare all’Occidente ad ogni speranza di una soluzione a loro favorevole. Ciò significa che non hanno alcun incentivo a scendere a compromessi o ad accettare colloqui di pace. In effetti, cercano solo di dettare i termini della pace, forse lungo le linee delineate sopra. Se l’Occidente non si arrende, le operazioni in Ucraina continueranno finché sarà necessario. A un livello strategico più alto, i russi probabilmente intendono anche che la guerra duri abbastanza a lungo da rendere trasparente la debolezza della NATO e l’impotenza degli Stati Uniti, in modo tale da poter raggiungere più facilmente il tipo di obiettivi più ampi che ho appena delineato , oltre a indebolire le economie occidentali.

Ora, non ho idea se questo sia effettivamente ciò che i russi intendono fare: posso solo dire che mi sembra del tutto possibile. Questa è, dopotutto, una società che prende Clausewitz più seriamente di Harry Potter e Tolstoy come una guida alla guerra migliore di Twitter. E non ho idea se avrà successo. Ma ancora più importante, se l’analisi di cui sopra è corretta anche lontanamente, allora il fatto che l’Occidente è intellettualmente e politicamente mal equipaggiato per capire cosa stanno facendo i russi, figuriamoci circa la capacità di reagire efficacemente.

https://aurelien2022.substack.com/p/its-war-josep-but-not-as-we-know

Ucraina, il conflitto 21a puntata_azioni coordinate Con Stefano Orsi e Max Bonelli

La mano del generale Surovikin comincia a farsi notare anche sul campo di battaglia oltre che sul più esteso teatro di guerra. Dopo il grande ripiegamento, pressoché indolore, da Kherson, compresa la protezione della popolazione filorussa, questa volta l’impronta è impressa sulla capacità di sostenere, in maniera dinamica, il confronto con l’esercito ucraino su di un fronte ormai ben definito e disegnato. Ormai l’esito del confronto sarà determinato dall’esaurimento di una delle forze in campo piuttosto che dall’avvio di una azione diplomatica, sempre sul punto di emergere, ma senza riuscire ad imporsi. In Ucraina hanno preso piede ormai un vero e proprio regime di guerra ed una economia altrettanto di guerra che ormai procedono per inerzia, per quanto spaventosa. Dal canto loro, gli Stati Uniti, l’attuale leadership, si sono troppo compromessi finanziariamente e politicamente per poter fare un passo indietro. In venti anni hanno creato in Ucraina una vera e propria zona franca nella quale il riciclaggio di denaro, il commercio illegale, le spericolate sperimentazioni di laboratorio fanno da supporto ed incentivo prosaico al disegno di neutralizzazione ed annichilimento della Russia. Una zona franca diventata terreno di pascolo di buona parte del ceto politico responsabile di queste scelte. Nell’altro versante quello che è iniziato come una ipotesi di collaborazione sempre più stretta tra la Russia, la Cina, l’Iran e, un po’ più a latere, l’India si sta tramutando in prime forme di integrazione del complesso militare industriale, nella fattispecie tra Russia ed Iran. Da un mondo unipolare e tendenzialmente bipolare si sta passando ad una fase multipolare sempre più definita. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1wyfq2-ucraina-il-conflitto-21a-puntata-azioni-coordinate-con-stefano-orsi-e-max-b.html

In “Competizione sistemica” con gli USA, di German-Foreign-Policy

Lo stiamo ripetendo da tempo. Ora c’è la conferma ufficiale. Non è però solo guerra commerciale. Le modalità di azione della guerra economica non si limitano ai dazi, alla politica monetaria, alla guerra dei tassi, alla regolamentazione dei flussi commerciali. Le sanzioni e le stesse scelte geopolitiche agiscono sulle scelte economiche. Queste ultime sono sempre più parte integrante delle dinamiche geopolitiche. Più la base egemonica si restringe, più i sottomessi sentiranno sulla propria pelle il peso del dominio.

Giuseppe Germinario

Si espande la guerra commerciale tra l’UE e gli Stati Uniti sui programmi di investimento statunitensi che attirano le industrie del futuro lontano dall’Europa. I manager avvertono di un “esodo industriale” negli Stati Uniti.

23
NOV
2022

BERLINO/WASHINGTON restringendo l’UE ai negoziati con gli USA. Secondo gli economisti, alla fine sono in gioco “un gran numero di industrie del futuro”. L’ex CEO di Siemens Joe Kaeser avverte persino di un “esodo industriale e di capitali dall’Europa” verso gli Stati Uniti.

“Compra americano”

I programmi di investimento statunitensi, del valore di centinaia di miliardi, che l’amministrazione statunitense ha lanciato nell’ultimo anno, sono ancora al centro del conflitto. Attualmente il dibattito si concentra sull’Inflation Reduction Act, che prevede quasi 400 miliardi di dollari USA per la decarbonizzazione, in particolare per l’energia verde e le auto elettriche.[1] Questi fondi sono estremamente attraenti per l’industria. L’acquisto di auto elettriche viene sovvenzionato con 7.500 dollari USA ciascuna. Tuttavia, solo le auto prodotte negli Stati Uniti sono sovvenzionate. Questo vale anche per i componenti, come le batterie. Anche le loro materie prime devono essere inizialmente estratte e lavorate al 40 e – a lungo termine – all’80 per cento negli Stati Uniti, o in alternativa in un Paese legato agli USA da un accordo di libero scambio. Ciò esclude la Cina, ma anche Germania e UE – non solo per singoli prodotti ma anche per intere catene di fornitura. Per poter beneficiare di questi programmi di investimento unici, alcune aziende hanno già iniziato ad espandersi all’interno oa creare nuovi siti negli Stati Uniti: si profila un trasferimento sistematico di segmenti significativi delle strutture produttive in Nord America.

„Un aspirapolvere per investimenti”

Ciò non riguarda solo l’industria automobilistica, compresi i suoi subappaltatori e la produzione di batterie. Si profilano già i primi ritardi nella costruzione pianificata di entrambe, una fabbrica di batterie Northvolt a Heide e l’espansione dello stabilimento Tesla a Grünheide vicino a Berlino, perché entrambe le società stanno dando la priorità alle loro attività negli Stati Uniti. I produttori di turbine eoliche possono anche sperare in sovvenzioni dall’Inflation Reduction Act se producono negli Stati Uniti. Secondo i rapporti, gli esperti della Commissione europea prevedono che le principali aziende di questo settore trasferiranno i loro siti produttivi negli Stati Uniti.[2] Christian Bruch, CEO di Siemens Energy, ha affermato che le risorse del settore per la transizione energetica saranno distribuite nei prossimi dodici mesi e “se l’Europa non reagisce, si investirà di più negli Stati Uniti che qui. ”[3] Uno sviluppo identico sta diventando evidente nell’industria dell’idrogeno, a causa degli alti sussidi e dell’energia molto più economica negli Stati Uniti. Jorgo Chatzimarkakis, segretario generale di Hydrogen Europe, prevede che gli Stati Uniti attireranno “investimenti… come un aspirapolvere”. potenziale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali. l’UE vuole trasformarsi in industrie di punta della transizione energetica con un potenziale di espansione globale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali. l’UE vuole trasformarsi in industrie di punta della transizione energetica con un potenziale di espansione globale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali.

Cooperazione costosa

I programmi di investimento statunitensi potrebbero avere conseguenze ancora più gravi nell’Asia orientale, dove avranno un impatto su due stretti alleati degli Stati Uniti: il Giappone e la Corea del Sud. Considerando che almeno alcune delle case automobilistiche tedesche possono già beneficiare di questi sussidi, perché stanno producendo negli Stati Uniti – ad esempio la BMW 330e o presto la Mercedes EQS – questo varrà solo per la Nissan Leaf, tra le case automobilistiche asiatiche. Il governo giapponese ha presentato una protesta attraverso i canali diplomatici, senza alcun risultato. Tuttavia, i principali produttori giapponesi come Toyota e Honda hanno da tempo in programma di creare impianti di auto elettriche e batterie negli Stati Uniti. La Corea del Sud è più gravemente colpita. Hyundai, ad esempio, ha alcuni modelli di auto elettriche di successo, con i quali l’azienda è in competizione con la statunitense Tesla. Tuttavia, questi non vengono prodotti negli Stati Uniti e, pertanto, sono totalmente esclusi dai programmi di sovvenzione.[5] Ciò si è rivelato motivo di imbarazzo per il presidente della Corea del Sud Yoon Suk-Yeol. Da quando è entrato in carica lo scorso maggio, ha sostenuto le misure di Washington di ogni tipo, ad esempio favorendo la produzione di chip statunitense, correndo così il rischio di tensioni con la Cina. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul.

“Compra europeo”

Un approccio deciso e consolidato, adottato da tutti gli Stati interessati, finora non ha avuto successo a causa della disunione all’interno dell’UE. La Francia preme per un’azione risoluta. A ottobre, il presidente Emmanuel Macron, in reazione alle normative statunitensi “Buy American”, aveva lanciato un appello per legiferare un “Buy European Act”, per proteggere il mercato dell’UE dalla concorrenza statunitense, o almeno fino a quando Washington lo sostiene il suo corso.[7] Il commissario francese per il mercato interno dell’UE, Thierry Breton, si è espresso a favore della “gestione del problema nell’ambito dell’OMC”, possibilmente anche presentando una denuncia all’OMC.[8] Tuttavia, il governo tedesco sta minimizzando. Ad esempio, il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, avrebbe affermato che “sono state avviate discussioni con gli americani”, in modo da “non entrare in una sorta di guerra commerciale. ”[9] Il ministro delle finanze tedesco, Christian Lindner, ha avvertito che una guerra commerciale crea solo perdenti, “nessuno ne trarrà vantaggio”.[10] Il commissario europeo per il commercio Valdis Dombrovskis sta seguendo la linea di Berlino. “Vogliamo un accordo negoziato”, ha dichiarato Dombrovskis. “Sono favorevole a procedere per gradi. Ora stiamo discutendo”. Solo allora, quando “i risultati non soddisfano le nostre aspettative”, “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11] ” sarà “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11] ” sarà “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11]

Colloqui senza alcun risultato

Dal 4 novembre, infatti, si riunisce regolarmente una task force transatlantica, per trovare il modo di evitare danni all’Ue, fino ad ora – per quanto si sa – senza risultati tangibili. Un emendamento all’Inflation Reduction Act è considerato fuori discussione, anche perché il Congresso Usa dovrebbe essere favorevole, cosa ancora meno ipotizzabile ora, visti i risultati degli ultimi mid-term, in cui i repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Camera dei Rappresentanti. Teoricamente, sarebbero possibili modifiche ai regolamenti di attuazione, ma non c’è nulla che indichi che Washington sarebbe d’accordo su qualsiasi cosa al di là di semplici aggiustamenti estetici. Il 5 dicembre, il Consiglio per il commercio e la tecnologia (TTC) UE-USA dovrebbe riunirsi per affrontare la questione, ma le aspettative sono basse.

“Esodo industriale negli USA”

Nel frattempo, diversi economisti e manager hanno commentato le dimensioni della disputa commerciale. Ad esempio, Gabriel Felbermayr, direttore dell’Istituto austriaco di ricerca economica (WIFO) di Vienna, ritiene che questo conflitto offuschi la controversia sui sussidi Airbus-Boeing,[12] che aveva coinvolto solo “un singolo settore”, mentre nell’attuale conflitto , sono in gioco “molte industrie del futuro”.[13] Si dice che l’ex capo della Siemens Joe Kaeser abbia affermato che “in una certa misura” l’UE non è solo in “concorrenza sistemica” con la Cina, ma anche con gli Stati Uniti. Se si guarda ai programmi di investimento degli Stati Uniti e al dissenso all’interno dell’UE, si profila chiaramente “un esodo industriale e di capitali dall’Europa verso gli USA”.[14]

 

[1] Vedi anche Lotte di potere dietro il fronte (II) .

[2] Silke Wettach: Der falsche Freund. WirtschaftsWoche 18.11.2022.

[3], [4] Warum ein Handelskrieg zwischen USA und EU droht. spiegel.de 18.11.2022.

[5] Martin Kölling: „Verräter, Bastarde“ – Wie die USA enge Verbündete gegen sich aufbringen. www.handelsblatt.com 14.10.2022.

[6] Ellen Kim: la legge sulla riduzione dell’inflazione viene messa a fuoco all’UNGA. csis.org 22.09.2022.

[7] Clea Caulcutt: Emmanuel Macron chiede un “Buy European Act” per proteggere le case automobilistiche regionali. politico.eu 26.10.2022.

[8] Moritz Koch: „Die USA eröffnen faktisch ein Subventions-Rennen“ – Il commissario dell’UE ha detto a Washington. www.handelsblatt.com 03.11.2022.

[9] Dana Heide, Silke Kersting, Moritz Koch, Annett Meiritz, Klaus Stratmann: USA stemmen „größte Investitionen aller Zeiten“ fürs Klima – und lösen in Europa Ängste aus. www.handelsblatt.com 03.11.2022.

[10] Lindner befürchtet Blockbildung durch US-Gesetz. n-tv.de 17.11.2022.

[11] Markus Becker, Michael Sauga: Rechnen Sie mit einem Handelskrieg, Herr Dombrovskis? spiegel.de 18.11.2022.

[12] Cfr. anche Die nächste Strafzollrunde .

[13], [14] Warum ein Handelskrieg zwischen USA und EU droht. spiegel.de 18.11.2022.

https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/9092

Le trappole del Medio Oriente_con Antonio de Martini

Il pendolo dei focolai di crisi continua ad oscillare tra l’Europa e Taiwan con una tappa obbligata, ormai da decenni, in Medio Oriente. L’Iran e la Turchia tornano alla ribalta con l’emergere di pesanti crisi interne, ma con alcune novità determinanti: la capacità di reazione e di movimento delle classi dirigenti dominanti e del ceto politico da queste espresso; il contesto geopolitico che vede emergere nuovi grandi attori e che riesce ad offrire una sponda meno precaria a questa volontà di resistenza e di intraprendenza. Gli schemi adottati in Libia e in Siria si rivelano quindi meno efficaci, non ostante la serietà dei problemi interni ai rispettivi paesi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1wmlja-le-trappole-del-medio-oriente-con-antonio-de-martini.html

Dopo il neoliberismo _ Di Rana Foroohar

In Italia la critica più pungente ed avveduta al costrutto politico-ideologico statunitense si è soffermata sui limiti e sul nichilismo dell’ideologia liberale e sulla sua commistione nefasta con le dinamiche del capitalismo. Il giudizio espresso è, giustamente, quanto mai impietoso, ma forse troppo fossilizzato. Il dibattito negli Stati Uniti non è poi così monocorde. Tra le classi dirigenti cominciano ad affiorare tesi ed opzioni teoriche alternative in grado di offrire alternative che consentono di sostenere il confronto multipolare. Ignorare o sottovalutare questo aspetto rischia di portare a considerazioni deterministiche un confronto ed uno scontro politico e geopolitico appena agli albori e dagli esiti incerti. In precedenza abbiamo pubblicato il documento strategico sulla sicurezza (NSS) e diversi articoli e commenti, anche di questo blog, inerenti questa tematica. Proseguiamo con questo saggio di “foreign affairs”. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Per la maggior parte degli ultimi 40 anni, i politici statunitensi hanno agito come se il mondo fosse piatto. Immersi nella tensione dominante del pensiero economico neoliberista, presumevano che capitale, beni e persone sarebbero andati ovunque sarebbero stati più produttivi per tutti. Se le aziende creassero posti di lavoro all’estero, dove è più economico farlo, le perdite di occupazione interna sarebbero controbilanciate dai benefici per i consumatori. E se i governi abbassassero le barriere commerciali e deregolamentassero i mercati dei capitali, il denaro fluirebbe dove è più necessario. I responsabili politici non dovevano tenere conto della geografia, poiché la mano invisibile era all’opera ovunque. Il luogo, in altre parole, non aveva importanza.

Le amministrazioni statunitensi di entrambe le parti hanno perseguito fino a poco tempo fa politiche basate su questi presupposti generali: deregolamentare la finanza globale, stipulare accordi commerciali come l’Accordo di libero scambio nordamericano, accogliere la Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e non solo consentire ma incoraggiare I produttori americani di spostare gran parte della loro produzione all’estero. Il globalismo del libero mercato è stato ovviamente spinto in gran parte dalle potenti società multinazionali meglio posizionate per sfruttarlo (società che, ovviamente, hanno donato equamente ai politici di entrambi i principali partiti statunitensi per assicurarsi che vedessero le virtù del neoliberismo). È diventata una sorta di crociata per diffondere questo nuovo credo americano in tutto il mondo, offrendo ai consumatori di tutto il mondo l’emozione del fast fashion e dei gadget elettronici sempre più economici. Le merci americane, in effetti, rappresenterebbe la bontà americana. Pubblicherebbero i valori filosofici americani, il liberalismo nascosto nel neoliberismo. L’idea era che altri paesi, deliziati dai frutti del capitalismo in stile americano, sarebbero stati spinti a diventare “liberi” come gli Stati Uniti.

Secondo alcune misure, i risultati di queste politiche furono tremendamente vantaggiosi: i consumatori americani in particolare godevano dei frutti della produzione straniera a basso costo, mentre miliardi di persone uscivano dalla povertà, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Quando i mercati emergenti si sono uniti al sistema del libero mercato, la disuguaglianza globale è diminuita ed è nata una nuova classe media globale. Quanto fosse libero politicamente, ovviamente, dipendeva dal paese.

Ma le politiche neoliberiste hanno anche creato immense disuguaglianze all’interno dei paesi e portato a flussi di capitale a volte destabilizzanti tra di loro. Il denaro può muoversi molto più velocemente delle merci o delle persone, il che invita a rischiose speculazioni finanziarie. (Il numero delle crisi finanziarie è cresciuto notevolmente dagli anni ’80.) Inoltre, le politiche neoliberiste hanno causato un pericoloso distacco dell’economia globale dalla politica nazionale. Per gran parte degli anni ’90, questi cambiamenti tettonici sono stati in parte oscurati negli Stati Uniti dal calo dei prezzi, dall’aumento del debito dei consumatori e dai bassi tassi di interesse. Nel 2000, tuttavia, le disuguaglianze regionali causate dal neoliberismo erano diventate impossibili da ignorare. Mentre le città costiere degli Stati Uniti prosperavano, molte parti del Midwest, del nord-est e del sud stavano subendo catastrofiche perdite di posti di lavoro. Redditi medi negli Stati Uniti

Il commercio con la Cina ha modificato in particolare la geografia economica degli Stati Uniti. In un articolo del 2016 su The Annual Review of Economics , gli economisti Gordon Hanson, David Autor e David Dorn hanno descritto come le politiche neoliberiste avessero devastato alcune regioni degli Stati Uniti mentre avevano conferito enormi vantaggi ad altre. La Cina “ha rovesciato gran parte della saggezza empirica ricevuta sull’impatto del commercio sui mercati del lavoro”, hanno scritto. Improvvisamente, non c’era un solo sogno americano, ma piuttosto un sogno costiero e un sogno del cuore, un sogno urbano e un sogno rurale. La mano invisibile non ha funzionato perfettamente, si è scoperto, e il suo tocco è stato percepito in modo diverso nelle diverse parti del paese e del mondo.

Questa non era un’intuizione del tutto nuova. Dall’inizio dell’era neoliberista, una manciata di economisti si era opposta alla saggezza consolidata del settore. Karl Polanyi, uno storico economico austro-ungarico, ha criticato le visioni economiche classiche già nel 1944, sostenendo che i mercati totalmente liberi erano un mito utopico. Anche gli studiosi del dopoguerra, tra cui Joseph Stiglitz, Dani Rodrik, Raghuram Rajan, Simon Johnson e Daron Acemoglu, hanno capito che il luogo contava. Come mi ha detto una volta Stiglitz , che è cresciuto nella Rust Belt, “era ovvio che se sei cresciuto in un posto come Gary, nell’Indiana, i mercati non sono sempre efficienti”.

Il posto ha sempre avuto importanza, ma lo sarà ancora di più in futuro.

Questo punto di vista, secondo cui la posizione gioca un ruolo nel determinare i risultati economici, sta appena cominciando ad approdare nei circoli politici, ma un numero crescente di ricerche lo supporta. Dal lavoro di Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman a quello di Raj Chetty e Thomas Philippon, c’è ora un consenso tra gli studiosi sul fatto che fattori geograficamente specifici come la qualità della salute pubblica, dell’istruzione e dell’acqua potabile abbiano importanti implicazioni economiche . Ciò potrebbe sembrare intuitivo o addirittura ovvio per la maggior parte delle persone, ma solo di recente ha ottenuto un’ampia accettazione tra gli economisti tradizionali. Come Peter Orszag, che è stato direttore del bilancio del presidente Barack Obama, mi ha detto: “Se chiedi a un normale essere umano: ‘Importa dove ti trovi?’ partirebbero dal presupposto che “Sì, dove vivi e dove lavori e da chi sei circondato conta molto”. È come se Econ 101 fosse appena uscito di strada negli ultimi 40 o 50 anni, e noi siamo tutte piccole isole atomizzate in macchine calcolatrici perfettamente razionali. E la politica è appena andata alla deriva insieme a questo modo di pensare. Ha aggiunto: “L’approccio di Economics 101, che è indipendente dal luogo, ha chiaramente fallito”.

L’importanza del luogo è diventata ancora più evidente dall’inizio della pandemia di COVID-19, dal disaccoppiamento economico tra Stati Uniti e Cina e dalla guerra della Russia in Ucraina . La globalizzazione ha raggiunto la cresta e ha cominciato a recedere. Al suo posto sta prendendo forma un mondo più regionalizzato e persino localizzato. Di fronte al crescente malcontento politico interno e alle tensioni geopolitiche all’estero, i governi e le imprese si concentrano sempre più sulla resilienza oltre che sull’efficienza. Nel prossimo mondo post-neoliberista, produzione e consumo saranno più strettamente connessi all’interno di paesi e regioni, il lavoro acquisirà potere rispetto al capitale e la politica avrà un impatto maggiore sui risultati economici rispetto a mezzo secolo. Se tutta la politica è locale, lo stesso potrebbe presto valere per l’economia.

LA VISIONE NEOLIBERISTA

L’agnosticismo del neoliberismo sul luogo è sorprendente, viste le origini della filosofia politica. È emerso in Europa negli anni ’30, quando le nazioni si stavano ripiegando verso l’interno e il commercio internazionale stava crollando. In seguito, il neoliberismo è diventato un pilastro del sistema economico del secondo dopoguerra proprio perché ha cercato di garantire che tali problemi di luogo non si ripresentassero mai. I neoliberisti volevano collegare il capitale globale e il business globale per impedire alle nazioni di entrare in guerra tra loro. Ma alla fine, il sistema è andato troppo oltre, creando non solo bolle speculative e un eccesso di speculazione, ma anche una grande disconnessione tra capitale e lavoro. Ciò a sua volta ha alimentato l’ascesa di un nuovo tipo di estremismo politico.

Questi eventi hanno in qualche modo rispecchiato quelli di 100 anni fa. Tra il 1918 e il 1929, i prezzi di quasi tutti i beni, siano essi azioni, obbligazioni o immobili, sono aumentati in Europa e negli Stati Uniti. I banchieri centrali di tutto il mondo avevano aperto i rubinetti monetari e incoraggiato le persone a comprare cose a credito. Ma questo senso di denaro facile e una marea crescente che solleva tutte le barche mascherava inquietanti cambiamenti politici ed economici. La rivoluzione industriale aveva accelerato l’urbanizzazione in molti paesi e sfollato milioni di lavoratori. Le forze lavoro che un tempo erano principalmente agricole ora lavoravano principalmente nelle fabbriche e nell’industria. I salari non sono aumentati così velocemente come i prezzi, il che significava che il benessere economico per la maggior parte delle persone dipendeva dal debito.

Nel frattempo, il commercio tra i paesi è rallentato. La prima guerra mondiale e la pandemia influenzale del 1918, che durò fino al 1920, fecero crollare il commercio internazionale dal 27% della produzione globale nel 1913 al 20% in media tra il 1923 e il 1928. La bolla del debito esplose nel 1929 e la conseguente Grande Depressione fece crollare il commercio internazionale a solo l’11% dell’economia mondiale nel 1932. I dazi commerciali e le tasse punitive su entrambe le sponde dell’Atlantico si aggiunsero al problema, e fu solo dopo la seconda guerra mondiale che i flussi transfrontalieri di merci e i servizi hanno nuovamente superato il 15% dell’economia globale.

Da questo cupo panorama economico nacque il fascismo, prima in Italia e poi in Germania . Le nazioni europee si sono accovacciate nelle loro posizioni coloniali, afferrando risorse dal mondo in via di sviluppo per finanziare i loro sforzi bellici. Un’atmosfera hobbesiana di “tutti contro tutti” cadde sull’Europa, portando inesorabilmente agli orrori della seconda guerra mondiale.

In seguito, leader e intellettuali in Europa e negli Stati Uniti cercarono comprensibilmente un modo per impedire che una simile carneficina si ripetesse. Credevano che se i mercati dei capitali e il commercio globale potessero essere collegati attraverso una serie di istituzioni che fluttuassero sulle leggi di un dato stato-nazione, il mondo avrebbe meno probabilità di precipitare nell’anarchia. Pensavano anche che un accordo così liberale potesse contrastare la crescente minaccia dell’Unione Sovietica. Come ha sostenuto lo storico Quinn Slobodian, l’obiettivo dei pensatori neoliberisti era “salvaguardare il capitalismo su scala mondiale”. Le istituzioni del progetto neoliberista, afferma, sono state progettate “non per liberare i mercati ma per racchiuderli, per inoculare il capitalismo contro la minaccia della democrazia, per creare un quadro per contenere il comportamento umano spesso irrazionale”.

CAPITALISMO SBLOCCATO

Per molto tempo questa idea ha funzionato, in parte perché l’equilibrio tra gli interessi nazionali e gli interessi delle imprese private non è andato troppo lontano dai colpi. Anche durante la presidenza di Ronald Reagan , c’era la sensazione che il commercio globale dovesse servire l’interesse nazionale piuttosto che semplicemente gli interessi delle grandi multinazionali. Reagan ha inquadrato il governo come un problema piuttosto che come una soluzione, ma la sua amministrazione ha preso in considerazione la sicurezza nazionale nei colloqui commerciali e ha utilizzato tariffe e altre armi commerciali per respingere gli sforzi giapponesi per monopolizzare le catene di approvvigionamento per i computer.

L’idea che il commercio dovrebbe essere al servizio degli interessi di politica interna è caduta in disgrazia durante l’ amministrazione Clinton, quando gli Stati Uniti hanno concluso una serie di accordi commerciali e hanno spinto per l’ingresso della Cina nell’OMC. Quest’ultimo sviluppo è stato un cambiamento sismico che ha rimosso i guardrail dall’economia globale. Adam Smith, il padre del capitalismo moderno, credeva che affinché i mercati liberi funzionassero correttamente, i partecipanti dovevano avere un quadro morale condiviso. Ma gli Stati Uniti e molte altre democrazie liberali furono improvvisamente invischiate in importanti relazioni commerciali con paesi – dalla Russia e dai petrostati del Medio Oriente a numerose dittature latinoamericane fino al più grande e problematico partner commerciale di tutti, la Cina – che avevano fondamentalmente diverse quadri morali, per non parlare di quelli economici.

Dall’inizio del ventunesimo secolo, i due maggiori beneficiari della globalizzazione neoliberista sono stati lo stato cinese, che non ha mai rispettato alla lettera le leggi dell’OMC, e le multinazionali, che per lo più non sono state colpite dalle turbolenze politiche nazionali. Il risultato negli Stati Uniti è stato un maggiore estremismo politico su entrambi i lati della navata, in gran parte sfruttando il disincanto economico delle masse. L’idea che l’economia globale debba essere rimessa al servizio dei bisogni nazionali sta prendendo piede, ma nessuna delle due parti ha presentato un piano completo su come farlo (sebbene l’amministrazione Biden si sia avvicinata di più).

Ciò che è chiaro è che la globalizzazione è in ritirata, almeno in termini di commercio e flussi di capitali. La crisi finanziaria del 2008-2009, la pandemia e la guerra in Ucraina hanno tutte messo in luce le vulnerabilità del sistema, dagli squilibri di capitale alle interruzioni della catena di approvvigionamento alle turbolenze geopolitiche. I paesi ora vogliono più ridondanza nelle loro catene di approvvigionamento per prodotti cruciali come microchip, energia e minerali delle terre rare. Allo stesso tempo, il cambiamento climatico e l’aumento dei salari in molti mercati emergenti stanno riducendo l’incentivo a spedire prodotti a basso margine come mobili o tessuti in tutto il mondo. Economie politiche diverse richiedono sistemi finanziari diversi e persino regimi valutari diversi. Innovazioni tecnologiche come la stampa 3D che consentono di realizzare prodotti rapidamente e in un unico posto stanno cambiando anche il calcolo economico, rendendo molto più facile ed economico costruire centri di produzione vicino a casa. Tutti questi cambiamenti suggeriscono che la regionalizzazione sostituirà presto la globalizzazione come ordine economico regnante. Il posto ha sempre avuto importanza, ma lo sarà ancora di più in futuro.

NON SI TORNA INDIETRO

Ad un certo punto, la pandemia finirà, così come la guerra in Ucraina. Ma la globalizzazione non tornerà a quello che era dieci anni fa. Tuttavia, non scomparirà del tutto. Le idee e, in una certa misura, i dati continueranno a fluire attraverso i confini. Lo stesso vale per molti beni e servizi, anche se attraverso catene di approvvigionamento molto meno complicate. In un sondaggio del 2021 condotto dalla società di consulenza McKinsey & Company, il 92% dei dirigenti della catena di approvvigionamento globale intervistati ha dichiarato di aver già iniziato a modificare le proprie catene di approvvigionamento per renderle più locali o regionali, aumentare la loro ridondanza o assicurarsi di non dipendere da un unico paese per forniture cruciali. I governi hanno incoraggiato molti di questi cambiamenti, sia attraverso leggi come il disegno di legge sulla politica industriale dell’amministrazione Biden o linee guida come la nuova strategia industriale dell’Unione europea, entrambi mirano a ristrutturare le catene di approvvigionamento in modo che siano meno lontane. La forma esatta del prossimo ordine economico post-neoliberista non è ancora chiara. Ma probabilmente sarà molto più locale, eterodosso, complicato e multipolare di quello che è successo prima. Questo è spesso descritto come una cosa negativa: una sconfitta per gli Stati Uniti e un rischio per gran parte del mondo. Ma probabilmente è proprio come dovrebbe essere. La politica si svolge a livello di stato-nazione. E nel mondo post-neoliberista, i politici penseranno molto di più all’economia basata sul luogo mentre lavorano per riequilibrare le esigenze dei mercati nazionali e globali. e multipolare rispetto a ciò che è venuto prima. Questo è spesso descritto come una cosa negativa: una sconfitta per gli Stati Uniti e un rischio per gran parte del mondo. Ma probabilmente è proprio come dovrebbe essere. La politica si svolge a livello di stato-nazione. E nel mondo post-neoliberista, i politici penseranno molto di più all’economia basata sul luogo mentre lavorano per riequilibrare le esigenze dei mercati nazionali e globali. e multipolare rispetto a ciò che è venuto prima. Questo è spesso descritto come una cosa negativa: una sconfitta per gli Stati Uniti e un rischio per gran parte del mondo. Ma probabilmente è proprio come dovrebbe essere. La politica si svolge a livello di stato-nazione. E nel mondo post-neoliberista, i politici penseranno molto di più all’economia basata sul luogo mentre lavorano per riequilibrare le esigenze dei mercati nazionali e globali.

Questo sta già accadendo nell’arena del commercio. Negli Stati Uniti, ad esempio, entrambi i principali partiti politici stanno giustamente mettendo in discussione alcuni aspetti della politica commerciale neoliberista. L’idea che la politica locale ei valori culturali non abbiano importanza quando si tratta di politica commerciale è smentita dall’ascesa di paesi autoritari, in particolare dall’ascesa della Cina. In parte come risultato, l’ amministrazione Biden ha mantenuto in vigore molte delle tariffe di Trump sui prodotti cinesi e ha cercato di rafforzare la produzione interna di beni fondamentali per la sicurezza nazionale.

Il nazionalismo non è sempre una buona cosa, ma mettere in discussione la saggezza economica convenzionale lo è. Paesi ricchi come gli Stati Uniti non possono esternalizzare tutto, tranne la finanza e lo sviluppo di software, nei mercati emergenti senza rendere se stessi e il sistema economico più ampio vulnerabili agli shock. La politica commerciale convenzionale dovrà quindi evolversi man mano che i paesi e le regioni ripensano l’equilibrio tra crescita e sicurezza, efficienza e resilienza. La globalizzazione si trasformerà inevitabilmente in regionalizzazione e localizzazione.

Si consideri il dibattito sull’industria manifatturiera, che rappresenta una percentuale piccola e in declino dei posti di lavoro nella maggior parte dei paesi ricchi e anche in molti paesi poveri. Alcuni economisti sostengono che i paesi dovrebbero abbandonare il lavoro in fabbrica mentre risalgono la catena alimentare verso i servizi, scambiando forza lavoro poco qualificata con manodopera più qualificata. Ma la produzione e i servizi sono sempre stati più interconnessi di quanto suggeriscano i dati sull’occupazione, e lo stanno diventando sempre di più. La ricerca mostra che le imprese ad alta intensità di conoscenza di tutti i tipi tendono a sorgere più frequentemente nei centri di produzione, stimolando una crescita complessiva più elevata. Non c’è da stupirsi che potenze industriali come Cina, Germania, Giappone, Corea del Sud e Taiwan abbiano scelto di proteggere le loro basi industriali in modi diversi dagli Stati Uniti. Lo hanno fatto non con sussidi dispendiosi o politiche fallimentari come la sostituzione delle importazioni, ma incentivando le industrie ad alta crescita e formando una forza lavoro per sostenerle. Gli Stati Uniti e altri paesi sviluppati stanno cercando di farlo ora, in particolare in parti chiave della catena di approvvigionamento, come i semiconduttori, e in settori strategicamente importanti, come i veicoli elettrici.

Movimentazione merci nel porto di Keelung, Taiwan, marzo 2016
Movimentazione merci nel porto di Keelung, Taiwan, marzo 2016
Tyrone Siu / Reuters

La politica industriale muscolosa sarà sempre più comune nel mondo post-neoliberista. Anche negli Stati Uniti, la maggior parte dei democratici e un numero crescente di repubblicani ritengono che il governo abbia un ruolo da svolgere nel sostenere la competitività e la resilienza nazionale. La domanda è come. Sovvenzionare lo sviluppo delle competenze, sostenere la domanda interna e spendere per mantenere i prezzi dei beni chiave relativamente stabili faranno probabilmente parte della risposta. Gli Stati Uniti dipendono maggiormente dagli input di produzione all’estero rispetto a molti dei suoi concorrenti, inclusa la Cina. Soddisfa solo il 71% della domanda dei consumatori finali con prodotti di provenienza regionale, mentre la Cina soddisfa l’89% e la Germania soddisfa l’83% con tali prodotti. Raggiungere la parità con la Cina potrebbe aggiungere 400 miliardi di dollari al prodotto interno lordo degli Stati Uniti, secondo le stime di McKinsey, e questo senza tener conto dei guadagni futuri derivanti dall’energia pulita e dalle innovazioni biotecnologiche avanzate come la terapia genica. Gli sforzi legati alla pandemia per colmare le lacune della catena di approvvigionamento di prodotti essenziali come dispositivi di protezione individuale e prodotti farmaceutici, insieme agli sforzi per aumentare la capacità interna in aree strategiche come batterie elettriche, semiconduttori e minerali delle terre rare, hanno creato un vento favorevole per la produzione locale di beni di alto valore. E questo potrebbe alla fine pagare enormi dividendi per gli Stati Uniti. Gli sforzi legati alla pandemia per colmare le lacune della catena di approvvigionamento di prodotti essenziali come dispositivi di protezione individuale e prodotti farmaceutici, insieme agli sforzi per aumentare la capacità interna in aree strategiche come batterie elettriche, semiconduttori e minerali delle terre rare, hanno creato un vento favorevole per la produzione locale di beni di alto valore. E questo potrebbe alla fine pagare enormi dividendi per gli Stati Uniti. Gli sforzi legati alla pandemia per colmare le lacune della catena di approvvigionamento di prodotti essenziali come dispositivi di protezione individuale e prodotti farmaceutici, insieme agli sforzi per aumentare la capacità interna in aree strategiche come batterie elettriche, semiconduttori e minerali delle terre rare, hanno creato un vento favorevole per la produzione locale di beni di alto valore. E questo potrebbe alla fine pagare enormi dividendi per gli Stati Uniti.

Man mano che il commercio globale e le catene di approvvigionamento si regionalizzano e si localizzano, la finanza globale farà lo stesso. L’invasione russa dell’Ucraina avrà conseguenze durature per i mercati valutari e dei capitali. Una conseguenza sarà l’accelerazione della divisione del sistema finanziario in due sistemi, uno basato sul dollaro USA e l’altro sullo yuan. La Cina e gli Stati Uniti competeranno sempre più nel regno della finanza, usando la valuta, i flussi di capitale e il commercio come armi l’una contro l’altra. I politici statunitensi devono ancora considerare seriamente le implicazioni di una concorrenza più ampia di questo tipo: i valori patrimoniali, le pensioni e la politica ne risentiranno tutti. I mercati dei capitali diventeranno un luogo in cui difendere i valori liberali (ad esempio attraverso sanzioni contro la Russia), perseguire nuove strategie di crescita e creare nuove alleanze. Tutto ciò significa che i mercati saranno molto più sensibili alla geopolitica rispetto al passato.

Le tecnologie decentralizzate consentiranno di produrre più beni per il consumo locale, cosa che potrebbe giovare all’ambiente. Le “fattorie verticali” ad alta tecnologia che coltivano prodotti sui muri o sui tetti delle città piuttosto che in climi vulnerabili stanno nascendo come soluzione all’insicurezza alimentare. Le grandi aziende si stanno muovendo verso l’integrazione verticale, possedendo una parte maggiore delle loro catene di approvvigionamento, come un modo per proteggersi dagli shock, siano essi climatici o geopolitici. Tecnologie di produzione all’avanguardia come la stampa 3D accelereranno questo spostamento verso sistemi industriali locali. Tale produzione consente di risparmiare denaro, energia ed emissioni. E durante la pandemia, ha contribuito a colmare le lacune della catena di approvvigionamento, consentendo di “stampare” localmente qualsiasi cosa, dalle maschere e altri dispositivi di protezione ai dispositivi di test e persino alle abitazioni di emergenza.

IL MONDO POST-NEOLIBERISTA

Come il mondo neoliberista, il mondo post-neoliberista porterà sfide e opportunità. La deglobalizzazione, ad esempio, sarà accompagnata da una serie di tendenze inflazionistiche (sebbene la tecnologia continuerà ad essere deflazionistica). La guerra in Ucraina ha posto fine al gas russo a buon mercato. La spinta globale verso la neutralità del carbonio aggiungerà una tassa permanente sull’utilizzo di combustibili fossili. La spesa delle aziende e dei governi per sostenere le catene di approvvigionamento alimenterà l’inflazione a breve termine (sebbene, nella misura in cui stimola industrie strategiche come la tecnologia pulita, alla fine stimolerà la crescita e migliorerà la posizione fiscale dei paesi che investono ora). Nel frattempo, la fine del programma di acquisto di obbligazioni della Federal Reserve statunitense ei suoi ripetuti aumenti dei tassi di interesse stanno mettendo un limite al denaro facile, spingendo verso l’alto i prezzi di beni e servizi.

Gli aspetti di questa nuova realtà sono positivi. Contare su governi autocratici per forniture cruciali è sempre stata una cattiva idea. Aspettarsi che paesi con economie politiche molto diverse rispettassero un unico regime commerciale era ingenuo. Inquinare il pianeta per produrre e trasportare merci a basso margine su lunghe distanze non aveva senso dal punto di vista ambientale. E il mantenimento di tassi di interesse storicamente bassi per tre decenni ha creato bolle speculative improduttive e pericolose. Detto questo, non si può ignorare il fatto che un mondo in via di deglobalizzazione sarà anche inflazionistico, almeno a breve termine, il che costringerà i governi a fare scelte difficili. Tutti vogliono più resilienza, ma resta da vedere se le aziende o i clienti pagheranno per questo.

Mentre i politici e gli imprenditori statunitensi cercano di affrontare queste sfide, devono respingere il pensiero economico convenzionale. Invece di presumere che la deregolamentazione, la finanziarizzazione e l’iperglobalizzazione siano inevitabili, dovrebbero abbracciare l’imminente era di regionalizzazione e localizzazione e lavorare per creare opportunità economiche produttive per tutti i segmenti della forza lavoro. Dovrebbero enfatizzare la produzione e gli investimenti rispetto alla finanza guidata dal debito. Dovrebbero pensare alle persone come attività, non passività, in un bilancio. E dovrebbero imparare dai successi e dai fallimenti di altri paesi e regioni, traendo lezioni specifiche da esperienze locali. Per troppo tempo gli americani hanno utilizzato modelli economici obsoleti per cercare di dare un senso al loro mondo in rapida evoluzione. Ciò non ha funzionato al culmine della mania neoliberista negli anni ’90, e certamente non funzionerà oggi. Il posto ha sempre avuto importanza quando si tratta di mercati e sta per avere importanza più che mai.

https://www.foreignaffairs.com/united-states/after-neoliberalism-all-economics-is-local-rana-foroohar

Guerre valutarie, guerre di imperi di JEAN-BAPTISTE NOÉ

Guai a chi riduce l’economia alla matematica o la confonde con la finanza. L’economia è prima di tutto filosofia morale. Studiare economia è analizzare la filosofia politica, la visione dell’uomo, le relazioni sociali, le conseguenze degli scambi. Al centro dell’economia c’è il denaro, che ne è l’elemento fondamentale. La guerra valutaria è quindi, prima di tutto, una guerra di sistemi politici e di visioni del mondo.

Fu Senofonte a coniare il termine “economia” nel trattato omonimo, dialogo tra Socrate e Critobulo. Dialogo sull’arte e il modo di gestire un dominio agricolo, ma anche sul comando, questo testo pone le basi dell’economia politica come essere il nomos (la norma, la legge), della casa (eco, il dominio). Tutto si basa sullo scambio, di cui il dialogo è un esempio, che è uno scambio di parole e di pensieri. E ciò che permette lo scambio è il denaro. Standard di valore, riserva valutaria, il denaro è anche una manifestazione del potere politico.

Dai talenti ai fiorini

La dracma ateniese manifesta il potere della città, poiché in seguito il denario d’argento e l’aureo di Augusto simboleggiano la stabilità e il potere di Roma. L’adesione all’impero si misura dalla diffusione e dall’uso della moneta al di fuori della città di origine. Il tesoro di Delo favorì l’uso della dracma di Atene e del talento, unità di misura equivalente a 6.000 dracme. In tempi in cui le monete sono fatte di metallo, possedere miniere d’argento e d’oro garantisce la produzione monetaria e quindi il potere. Durante la guerra del Peloponneso, le città dovettero proteggere il loro accesso alle risorse di grano (Mar Nero, Sicilia) tanto quanto alle miniere di metalli preziosi. Roma riprende e continua questo potere monetario unificando l’uso delle monete nell’impero, anche se continuano a circolare molte monete locali. La riforma e la costruzione di Cesare e di Augusto si manifestano nel campo politico e giuridico oltre che in quello monetario. Il denario è una moneta d’argento del peso da tre a quattro grammi a seconda dell’epoca, che equivale a dieci assi (da cui il nome). Augusto crea l’aureus, una moneta d’oro equivalente a 25 denari, utilizzata essenzialmente come riserva di valore. Il potere della moneta si manifesta con il suo uso, la sua grammatura, ma anche il suo conio. La testa dell’imperatore ei simboli coniati dicono qualcosa sulla politica e sull’immagine che cerca di promuovere. Si impongono come manifestazione di un potere politico che è tanto un uso economico quanto un volantino che parla a chi lo usa. Anche il denaro è un discorso e la sua questione di potere ha continuato a svilupparsi durante il medioevo.

Con la fine dell’impero, la moneta rivela la concorrenza di città, città-stato, regni, grandi vescovadi e abbazie. Battere moneta è segno di sovranità e indipendenza, è sia inserirsi in un tessuto economico sia affermare la propria esistenza e il proprio potere di fronte agli altri. L’abbazia di Cluny, che dalla sua roccaforte borgognona si è diffusa in Europa, ha impresso nello stemma il suo penny d’argento. Firenze del XIII secolosecolo batte la sua moneta che prende il nome di fiorino, in riferimento al giglio, simbolo della città, presente sul dritto della moneta. Una delle lotte politiche di Luigi IX fu quella di imporre i grandi tornei (denaro) con un’ordinanza del 1266, che permise di assicurare la stabilità monetaria del regno e di limitare la concorrenza delle monete battute dal grande feudale e dal grandi vescovadi. Avere una moneta è sempre la manifestazione della libertà e del potere politico.

La Sterlina da Torneo viene coniata a Tours, dall’Abbazia di Saint-Martin, importante centro spirituale nel nord della Francia. Fa concorrenza alla sterlina parigina, coniata a Parigi, prima di sostituirla nel 1203 quando la Touraine viene annessa al regno di Francia. Nel 1360 fu creato il franco cavallo per aiutare a pagare il riscatto del re di Francia, Jean le Bon. Anche in questo caso la moneta fu utilizzata come strumento politico per affermare il potere del regno e come leva per consentirne l’indipendenza dall’Inghilterra.

C’è una notevole continuità nell’uso della moneta, dai Greci ai giorni nostri, e nella doppia presenza di moneta d’argento e moneta d’oro, il bimetallismo, scomparso alla fine dell’Ottocento _secolo in cui ha prevalso il modello fiduciario, cioè la moneta della fiducia, impegnata non più su uno stock di oro di proprietà degli Stati, ma sulla fiducia intrinseca in una moneta perché rappresenta il valore di uno Stato. Il caso tipico di questo oggi è il dollaro e l’euro, il cui potere non poggia sull’oro della Bce o della Fed, ma sul potere economico degli Stati che queste valute rappresentano. Un euro utilizzabile ben oltre i confini dell’Unione Europea poiché è la valuta indicata negli aeroporti di Istanbul, San Pietroburgo e Baku, ed è possibile pagare in euro nella maggior parte dei paesi del Maghreb. In questo, la natura del denaro non è cambiata dai tempi di Senofonte: è sempre la fiducia che predomina nel suo uso.

legge e moneta

Il denaro impone anche la legge [1]. Dall’entrata in vigore delle leggi sull’extraterritorialità, qualsiasi azienda che utilizza il dollaro per le sue transazioni rischia di incorrere nell’intervento dei tribunali americani, in particolare del Dipartimento di Giustizia (DoJ) se si scopre che questi violano la legge statunitense. Molte aziende francesi ed europee ne hanno subito le conseguenze, attraverso multe e pressioni che le hanno costrette ad allinearsi agli standard americani. Forti del loro monopolio monetario, gli Stati Uniti ebbero poche difficoltà ad imporre il proprio ordinamento giuridico. Ora che è eroso da un lato dalle criptovalute e soprattutto dalla Cina, la guerra del diritto tramite il dollaro può essere condotta solo all’interno dei paesi che rimangono nell’orbita del dollaro, vale a dire principalmente europei. Non esiste legge senza polizia in grado di far rispettare le leggi. La potenza economica degli Stati Uniti, rendendone essenziale il mercato, ha impedito alle imprese, qualunque fosse la loro dimensione, di svincolarsi dall’extraterritorialità. È inoltre impossibile utilizzare un’altra valuta, in particolare per l’acquisto di energia. L’euro, che doveva avere questo ruolo e che veniva venduto come tale alle popolazioni europee, non ha mai potuto competere con il dollaro. La rivalità è venuta dalla Cina, che con la sua massa geografica e demografica e la sua potenza economica pazientemente costruita può ora creare un proprio mondo monetario, che non è una sfera su scala globale, ma regionale. L’Asia gli basta, almeno per ora. Abbastanza anche per aggregare intorno a sé i nemici o gli esclusi dell’America,

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Un secolo di “guerre valutarie”

L’ordine mondiale attraverso il denaro

Non c’è economia senza denaro, che permette gli scambi e testimonia il legame tra economia e politica. Inoltre non c’è economia senza energia, il gioco economico che consiste nel trasformare l’energia in produzione. Esistono due tipi di energia: alimentare (energia per uomini e animali) ed energia per la produzione, come petrolio, gas, nucleare. La guerra in Ucraina ha riportato al centro del dibattito questa realtà a volte sepolta: l’energia, e quindi l’accesso ad un’energia abbondante ea basso costo, è il fondamento di ogni politica economica. Per molto tempo il dollaro ha avuto il monopolio delle transazioni sul mercato dell’energia. Da diversi anni la Cina cerca di rompere questo monopolio creando le condizioni per un mercato finanziario parallelo che le permetta di non comprare più la sua energia in dollari, ma in renminbi (RMB). Se le cose stanno così, non solo le transazioni sfuggono alla legge americana, e quindi alla giurisdizione americana, ma in più i paesi si liberano dalla supervisione americana e dal privilegio del dollaro. È la fine di un monopolio non solo monetario e finanziario, ma anche politico. Anche durante il periodo di massimo splendore della Guerra Fredda, il rublo non è riuscito a equiparare il dollaro. Ciò che la Cina sta facendo oggi ci riporta, per certi aspetti, a ciò che l’Europa ha vissuto in epoca medievale e moderna, quando c’era una vera competizione tra valute, conseguenza della competizione tra Stati. ma in più i paesi si stanno liberando dalla tutela americana e dal privilegio del dollaro. È la fine di un monopolio non solo monetario e finanziario, ma anche politico. Anche durante il periodo di massimo splendore della Guerra Fredda, il rublo non è riuscito a equiparare il dollaro. Ciò che la Cina sta facendo oggi ci riporta, per certi aspetti, a ciò che l’Europa ha vissuto in epoca medievale e moderna, quando c’era una vera competizione tra valute, conseguenza della competizione tra Stati. ma in più i paesi si stanno liberando dalla tutela americana e dal privilegio del dollaro. È la fine di un monopolio non solo monetario e finanziario, ma anche politico. Anche durante il periodo di massimo splendore della Guerra Fredda, il rublo non è riuscito a equiparare il dollaro. Ciò che la Cina sta facendo oggi ci riporta, per certi aspetti, a ciò che l’Europa ha vissuto in epoca medievale e moderna, quando c’era una vera competizione tra valute, conseguenza della competizione tra Stati.

Fiducia cinese

Se la Cina paga il suo petrolio in RMB, tutta l’Asia ad eccezione del Giappone e della Corea del Sud farà lo stesso. I paesi nemici dell’America, come la Russia, il Venezuela, probabilmente l’Iran, venderanno a loro volta il loro petrolio in RMB e non più in dollari. La domanda è posta per i sauditi. Rimarranno fedeli all’alleanza americana o giocheranno la competizione delle potenze avvicinandosi alla Cina? Se il dollaro perde il monopolio della transazione energetica, l’America non sarà più in grado di finanziare la propria spesa attraverso il debito e la creazione di moneta, il che avrà conseguenze importanti non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa.

La Cina ha già tutti gli strumenti per operare la svolta finanziaria del mondo e affrancarsi dal monopolio americano: mercato dei futures petroliferi a Shanghai quotato al petrolio, banca internazionale per competere con FMI e Banca Mondiale, stabilizzazione dei tassi di cambio asiatici contro il RMB, ecc.

Il mondo consuma circa 100 milioni di barili di petrolio al giorno ed è normale che gli utenti mantengano circa tre mesi di fornitura. A 70 dollari al barile, questo stock “vale” circa 600 miliardi di dollari, il cui valore può essere raddoppiato se si tiene conto dei prodotti finiti. Se gli acquisti non saranno più fatti solo in dollari, ma anche in RMB, finirà sul mercato un gran numero di dollari utilizzati nel capitale circolante dell’industria petrolifera. Questo eccesso di liquidità gettato sui mercati internazionali indebolirà il valore del dollaro, favorendo l’inflazione negli Stati Uniti, poiché l’inflazione non è l’aumento dei prezzi, ma la perdita di valore della moneta.

Affinché il dollaro possa mantenere la sua posizione privilegiata, gli altri paesi devono avere fiducia nello Stato a cui appartiene, vale a dire gli Stati Uniti. Allo stesso modo, le aziende e gli stati useranno il RMB solo se hanno fiducia nella Cina o se sentono il bisogno di rompere il monopolio americano. Ma la fiducia negli Stati Uniti si sta erodendo. Tra un presidente con preoccupanti segni di senilità, una cancel culture che sta devastando università e luoghi di pensiero e riflessione, si indebolisce la fiducia nel potere culturale e politico americano. A cui si aggiunge la perdita di fiducia nel suo potere economico, a causa del suo massiccio indebitamento causato dalle politiche economiche e di bilancio keynesiane che lo indeboliscono. Alla perdita di fiducia culturale ed economica si aggiunge l’abbandono militare. Gli Stati Uniti, cacciati dall’Afghanistan, sconfitti in Iraq e in Siria, non sono più in grado di imporre il loro ordine attraverso il loro esercito, che è il più grande del mondo e quello che monopolizza la maggior parte dei bilanci. Di fronte ad essa, la Cina guadagna punti di fiducia internazionali, investendo massicciamente nella sua marina, aprendosi all’Eurasia con le vie della seta, stabilendosi in Africa. In un futuro probabilmente prossimo, è abbastanza probabile che la Cina proporrà la sostituzione del franco CFA con un renminbi africano che farebbe passare i paesi africani dalla dipendenza dalla Francia a quella della Cina. La Cina guadagna punti di fiducia internazionale, investendo massicciamente nella sua marina, aprendosi all’Eurasia con le vie della seta, stabilendosi in Africa. In un futuro probabilmente prossimo, è abbastanza probabile che la Cina proporrà la sostituzione del franco CFA con un renminbi africano che farebbe passare i paesi africani dalla dipendenza dalla Francia a quella della Cina. La Cina guadagna punti di fiducia internazionale, investendo massicciamente nella sua marina, aprendosi all’Eurasia con le vie della seta, stabilendosi in Africa. In un futuro probabilmente prossimo, è abbastanza probabile che la Cina proporrà la sostituzione del franco CFA con un renminbi africano che farebbe passare i paesi africani dalla dipendenza dalla Francia a quella della Cina.

[1] Per una visione più approfondita del rapporto tra denaro e diritto si veda “La guerre du droit”, Conflits , n° 23, settembre 2019.

https://www.revueconflits.com/guerre-des-monnaies-guerres-des-empires/

Analizzando l’interazione USA-Cina-Russia-India nella transizione sistemica globale, di Andrew Korybko

Si spera che l’intuizione di questa analisi possa aiutare a guidare la ricerca di altri nella transizione sistemica globale, che continuerà a svolgersi attraverso l’attuale “Età della complessità”. Senza apprezzare i ruoli, gli interessi e l’interazione tra questi giocatori di ciascuno di questi giocatori, i ricercatori non saranno in grado di produrre il lavoro più accurato possibile, ergo lo scopo di questo pezzo.

L’ordine mondiale multipolare

La transizione sistemica globale verso il multipolarismo , che ha preceduto l’ultima fase del conflitto ucraino ma ne è stata accelerata senza precedenti, ha contribuito direttamente a creare la Nuova Guerra Fredda tra il Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti il Global Sud innegabile. Ci sono quattro attori principali nella competizione mondiale: Stati Uniti, Cina, Russia e India, ognuno dei quali svolge un ruolo unico.

Il ruolo degli Stati Uniti

L’America vuole ritardare indefinitamente l’inevitabile declino della sua egemonia unipolare, a tal fine sta tentando di contenere contemporaneamente Cina e Russia. Gli Stati Uniti sembrano aver riconosciuto che la direzione multipolare della transizione sistemica globale è irreversibile dopo che il segretario stampa della Casa Bianca ha appena elogiato il crescente ruolo globale del primo ministro indiano Modi, nonostante il suo paese avesse precedentemente fatto pressioni affinché si sottomettesse. Ciò suggerisce una complementarità strategica che verrà toccata in seguito.

Il ruolo della Cina

Passando al ruolo della Cina, prevedeva di riformare gradualmente il modello di globalizzazione incentrato sull’Occidente, ma richiedeva l’assenza di conflitti tra le grandi potenze per avere successo. Di conseguenza, ” Il conflitto ucraino potrebbe aver già fatto deragliare la traiettoria della superpotenza cinese “, ma ciò non significa che non possa ancora essere la Grande Potenza economicamente più potente nell’emergente Ordine Mondiale Multipolare. Perché ciò accada, tuttavia, la transizione sistemica globale deve prima stabilizzarsi.

Il ruolo della Russia

L’ operazione speciale della Russia in Ucraina, iniziata per difendere l’integrità delle sue linee rosse di sicurezza nazionale lì dopo che la NATO le aveva attraversate clandestinamente, ha catalizzato una reazione a catena di conseguenze che hanno cambiato il mondo. Questo paese è stato improvvisamente catapultato a diventare il leader de facto del Movimento Rivoluzionario Globale (GRM) per porre fine radicalmente all’unipolarismo, fine a cui i suoi grandi interessi strategici sono ora serviti facilitando la completa decolonizzazione dell’Africa e l’ascesa delle grandi potenze eurasiatiche.

Il ruolo dell’India

La più importante tra le ultime categorie menzionate è indiscutibilmente l’India, che ha gestito magistralmente le conseguenze caotiche del conflitto ucraino attraverso la sua politica pragmatica di neutralità di principio nella Nuova Guerra Fredda per diventare il kingmaker in questa competizione mondiale. Al fine di aiutare il suo attento equilibrio tra il Golden Billion e il Sud del mondo di cui fa parte, l’India sta attivamente assemblando un nuovo Movimento dei non allineati (” Neo-NAM “) che spera di guidare in modo informale.

Gli interessi degli Stati Uniti

Avendo acquisito familiarità con i ruoli generali svolti da Stati Uniti, Cina, Russia e India nella transizione sistemica globale, è ora possibile vedere dove ciascuno si completa e contraddice l’altro. Gli Stati Uniti sperano di raggiungere una “nuova normalità” nella competizione sempre più tesa con la Cina attraverso una possibile nuova distensione; fantastica sulla ” balcanizzazione ” della Russia; e spera di utilizzare il Neo-NAM a guida informale indiana per gestire in modo più efficace la Repubblica popolare in tutto il Sud del mondo.

Gli interessi della Cina

Per quanto riguarda la Cina, anch’essa condivide l’interesse ad esplorare i parametri di una nuova distensione, purché non la portino a cedere unilateralmente sui suoi oggettivi interessi nazionali (il che spiega il successo degli incontri del presidente Xi con i suoi omologhi occidentali alla scorsa settimana G20); rimane impegnato a cooperare con la Russia al fine di riformare gradualmente il modello di globalizzazione incentrato sull’Occidente; e ha interessi simili rispetto all’India, in particolare nel fare da pioniere nel secolo asiatico .

Gli interessi della Russia

Per quanto riguarda la Russia, idealmente vorrebbe congelare la linea di controllo (LOC) in Ucraina tramite un accordo con gli Stati Uniti (nel cui scenario la sua operazione speciale sarebbe comunque un successo ); condivide la visione della Cina di riformare gradualmente il modello di globalizzazione incentrato sull’occidente; e sta dando la priorità all’India come suo principale partner nella transizione sistemica globale poiché quei due aspirano a creare congiuntamente un terzo polo di influenza ( insieme all’Iran ) per rompere l’ attuale impasse bi-multipolare di questa stessa transizione.

Gli interessi dell’India

L’India, a quanto pare, è indispensabile per tutti e tre i suoi pari. La sua crescente partnership strategica con gli Stati Uniti aiuterà questi due a raggiungere il loro obiettivo comune di gestire l’ascesa della Cina; il Neo-NAM che spera di guidare in modo informale ridurrà la pressione occidentale sulla Russia sbloccando una miriade di opportunità per Mosca in tutta l’Eurasia e nel resto del Sud del mondo; mentre il secolo asiatico di cui la Cina vuole aprire la strada è impossibile senza l’eguale partecipazione dell’India alla risoluzione delle loro controversie sui confini una volta per tutte.

Le contraddizioni degli Stati Uniti con i suoi pari

A parte la frase precedente sui piani dell’America di “balcanizzare” la Russia, l’intuizione precedente si è concentrata solo sulle possibili complementarità di ogni giocatore tra loro, quindi perché il seguito esaminerà ora le loro contraddizioni. Gli Stati Uniti temono la capacità della Cina di continuare a funzionare come il suo unico vero concorrente sistemico e potrebbero quindi sospettare che una nuova distensione potrebbe far guadagnare a Pechino il tempo necessario per guadagnare un vantaggio su di essa, mentre il Neo-NAM a guida informale indiana potrebbe eventualmente limitare l’influenza degli Stati Uniti.

Le contraddizioni della Cina con i suoi pari

La Cina considera anche gli Stati Uniti come il suo unico vero concorrente sistemico e potrebbe sospettare che una nuova distensione potrebbe far guadagnare a Washington il tempo di cui ha bisogno per ricalibrare la sua grande strategia al fine di contenere più efficacemente la Repubblica popolare in un secondo momento. Anche se Cina e Russia cooperano strettamente nella costruzione di istituzioni multipolari, la prima non si rende conto di come l’operazione speciale di quest’ultima abbia destabilizzato la globalizzazione, mentre non ha nemmeno piena fiducia che l’India non aiuterà gli Stati Uniti a contenerla.

Le contraddizioni della Russia con i suoi pari

La Russia non lo dirà mai apertamente, ma sembra risentirsi per il fatto che la Cina rispetti ufficiosamente molte delle sanzioni statunitensi contro di essa per paura che le sue società vengano colpite dalle cosiddette sanzioni secondarie che potrebbero ridurre la loro competitività globale nei confronti dell’America quelli, soprattutto in Europa. Non ci sono simili risentimenti nei confronti dell’India dal momento che il presidente Putin apprezza sinceramente la sua coraggiosa sfida alla pressione degli Stati Uniti e il continuo impegno per la loro partnership strategica che letteralmente cambia il mondo.

Le contraddizioni dell’India con i suoi coetanei

Proprio come la Russia non criticherà apertamente la Cina, nemmeno l’India criticherà apertamente gli Stati Uniti nonostante l’ intensa campagna di infowar di quest’ultimo contro i suoi legami con la Russia a causa dell’interesse di Delhi a mantenere relazioni cordiali con Washington per rimanere il kingmaker nella Nuova Guerra Fredda . Per quanto riguarda la Cina, l’India sospetta di voler diventare il “senior partner” del Secolo asiatico e imporre così un sistema unipolare al continente, mentre non sussistono dissensi o sospetti rispetto alla Russia.

La previsione politica degli Stati Uniti

Da questa rassegna degli interessi complementari e contraddittori di ciascun giocatore, è possibile raccogliere alcune informazioni sulle loro politiche potenzialmente imminenti. Gli Stati Uniti potrebbero pragmaticamente fare pressioni su Kiev affinché accetti un cessate il fuoco con la Russia o potrebbero prolungare artificialmente quella guerra per procura a tempo indeterminato; una nuova distensione con la Cina sarebbe reciprocamente vantaggiosa, ma solo se quei due prima ripristinassero una parvenza di fiducia, che non può essere data per scontata; e il Neo-NAM indiano ha la sua giusta quota di pro e contro per gli Stati Uniti.

Previsioni politiche cinesi

La Cina accetterà una nuova distensione con gli Stati Uniti solo se questi ultimi smettono di agitare le sciabole su Taiwan e compiono mosse tangibili nella direzione di porre fine gradualmente alla loro guerra commerciale o almeno di congelarla indefinitamente, nessuna delle quali è ancora avvenuta; le relazioni con la Russia rimarranno stabili ma non si prevede che si espandano in modo completo nel dominio economico fintanto che rimarranno in vigore le sanzioni statunitensi, che Pechino non violerà in modo significativo; e gli obiettivi massimalisti rendono improbabile una risoluzione della disputa sul confine indiano.

Previsioni politiche della Russia

Come accennato in precedenza, la Russia ha interesse a congelare la LOC in Ucraina al fine di consolidare i limitati successi della sua operazione speciale a fronte di crescenti battute d’arresto negli ultimi tempi, ma è improbabile che conceda ulteriore terreno come parte di un accordo speculativo; continuerà a cooperare con la Cina, ma rimarrà deluso dal fatto che Pechino abbia rispettato ufficiosamente le sanzioni statunitensi, erodendo così la fiducia nell’impegno del suo partner per il multipolarismo; mentre le relazioni con l’India continueranno a fiorire in tutti i regni.

Previsioni politiche dell’India

L’India non si schiererà dalla parte degli Stati Uniti nella Nuova Guerra Fredda, ma non si schiererà nemmeno contro gli altri, il che significa che il Neo-NAM che spera di guidare può essere un’efficace piattaforma di bilanciamento per tutte le parti; simile nello spirito al modo in cui l’India non concederà unilateralmente sui suoi oggettivi interessi nazionali di fronte alla pressione degli Stati Uniti per prendere le distanze dalla Russia, non concederà nemmeno la stessa di fronte a possibili pressioni cinesi sulla loro disputa sui confini; e per quanto riguarda la Russia, il loro asse multipolare in Eurasia continuerà a rafforzarsi.

Previsione dello scenario globale

Alla luce delle osservazioni di cui sopra, si possono prevedere i seguenti scenari: Stati Uniti e Cina continuano a esplorare seriamente i parametri di una nuova distensione al fine di restituire un senso di certezza al sistema globalizzato in cui entrambi hanno interessi altrettanto significativi (sebbene con diversi obiettivi in ​​mente); l’asse russo-indiano accelererà il declino dell’unipolarismo bilanciando pragmaticamente la Cina nel Sud del mondo; e il Neo-NAM a guida informale indiana sarà corteggiato dai tre pari di quel paese.

Punti in comune USA-Cina e Russia-India

Questa interazione tra i primi quattro attori della transizione sistemica globale appare la più probabile se si tiene conto dei loro ruoli e interessi, questi ultimi complementari e contraddittori. Gli Stati Uniti e la Cina sembrano curiosamente avere più cose in comune di quanto si possa pensare a prima vista a causa del loro ruolo di superpotenze (sia esistenti che speculativamente aspiranti), mentre lo stesso si può dire anche di Russia e India considerando il loro attuale ruolo di Grande Poteri.

Dinamiche contrastanti USA-Cina e Russia-India

Detto questo, i ruoli simili svolti da Stati Uniti e Cina significano anche che non si può escludere un’ulteriore competizione tra di loro poiché nessuno dei due si fida sinceramente dell’altro per non cercare di ottenere un vantaggio su di loro in una possibile Nuova Distensione. Nessuna diffidenza di questo genere caratterizza l’asse russo-indiano, tuttavia, né lo è mai stato da quando storicamente hanno goduto di relazioni così eccellenti che la loro partnership rappresenta un esempio di ciò che ogni coppia di paesi cerca di ottenere l’uno con l’altro nel migliore dei casi. .

Fattibilità contrastante tra Stati Uniti, Cina e Russia e India

Considerando tutto ciò, mentre non è chiaro se Stati Uniti e Cina metteranno da parte le loro divergenze per cercare di stabilizzare il sistema globale (indipendentemente da quanto tempo lo faranno e nonostante il loro successo o meno), non ci sono dubbi sul fattibilità dell’asse russo-indiano. La prima relazione rimarrà così pervasa dall’incertezza, mentre la seconda non ha alcuna possibilità credibile che emergano complicazioni irrisolvibili tra le sue metà costituenti.

Confronto dell’influenza USA-cinese e russo-indiana

Quindi, si può dire che queste coppie abbiano uguale influenza sugli affari globali a modo loro: il futuro dei legami USA-Cina ripristinerà una certa certezza e stabilità al sistema mondiale o accelererà ulteriormente la sua discesa nel caos; mentre il futuro dei legami russo-indiani continuerà a ripristinare i suddetti in Eurasia e infine nel resto del Sud del mondo indipendentemente dai legami delle superpotenze. Avvicinati da questa prospettiva, la Russia e l’India hanno un ruolo molto più importante di quanto molti potrebbero pensare.

Pensieri conclusivi

Complessivamente, si spera che l’intuizione di questa analisi possa aiutare a guidare la ricerca di altri nella transizione sistemica globale, che continuerà a svolgersi attraverso l’attuale “Età della complessità”. Senza apprezzare i ruoli, gli interessi e l’interazione tra questi giocatori di ciascuno di questi giocatori, i ricercatori non saranno in grado di produrre il lavoro più accurato possibile, ergo lo scopo di questo pezzo. Tutti guadagneranno su altri dagli Stati Uniti, dalla Cina, dalla Russia e dall’India contribuendo alla crescente letteratura su questo argomento.

https://korybko.substack.com/p/analyzing-the-us-chinese-russian?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=85531128&isFreemail=true&utm_medium=email

Stati Uniti, il dopo elezioni_Con Gianfranco Campa

Nella prima parte di questa conversazione abbiamo esaminato il voto, accennato ad una analisi sociologica, stigmatizzato le troppe manipolazioni che hanno alterato significativamente i risultati e contraddetto le previsioni. http://italiaeilmondo.com/2022/11/18/… E’ il momento di trarre alcune valutazioni sulle conseguenze di questo voto, partendo dalla incomparabile capacità organizzativa messa in campo dai democratici nel bene e, soprattutto, nel male per finire con le dinamiche che si innescheranno da questo esito. Mani sapienti agiscono intorno al bersaglio grosso da neutralizzare. Il bersaglio a sua volta non sembra attraversare un momento di particolare lucidità. Potrebbe costare caro ad un movimento molto più maturo e disincantato, altrimenti in grado di ostacolare l’avventurismo dell’attuale leadership statunitense. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1vwu6k-stati-uniti-il-dopo-elezioni-con-gianfranco-campa.html

COSA È CAMBIATO?_di Pierluigi Fagan

COSA È CAMBIATO? (Spoiler: non lo so). Due post fa ricordavo le dichiarazioni di Biden ad inizio ottobre che segnavano un deciso cambio di atteggiamento verso Russi, Putin e guerra in Ucraina. “Deciso” non sarà sembrato a chi non si interessa di questioni internazionali dove vige un codice simbolico per il quale anche piccoli accenni di qua e non di là fanno segnale, differenza, quindi informazione. Da allora, continuo il flusso di segnali, alcuni in una direzione, altri a mantenere calda l’atmosfera, ma seguendo chi diceva cosa e che potere ha, sempre più di un tipo e sempre meno dell’altro. Il generale Milley ha alla fine messo giù carte decise dicendo che era giunto il tempo di trattare, che gli ucraini avevano dato il massimo e di più non si poteva pretendere, ieri ha apertamente detto che la situazione sul campo non è credibilmente migliorabile. Attenzione, trattare non è pace, si può trattare per anni ed anni e così rendere di fatto una situazione che non si può accettare ufficialmente. Russia e Giappone non hanno ancora firmato la pace dopo 77 anni dalla IIWW.

Nel frattempo, i russi si ritiravano da Kherson, sia segnale di accettazione del presunto stato del campo ovvero darsi il Dnepr come confine, sia ovvia mossa di logistica militare. La questione del missile polacco ha mostrato come il dibattito pubblico non capisce quasi nulla di ciò che succede. Ho letto la notizia a tutta pagina prima di andare a letto ed ho pensato “ma perché mettere a tutta pagina una stupidaggine del genere?”. Un singolo missile a pochi chilometri dal confine di un paese in guerra è evidentemente un errore, non importa fatto di chi, certo non si attiva l’art. 5 della NATO per una cosa del genere. Viepiù in un clima generale che stava andando verso il sedersi al tavolo, anzi proprio questo generale andare verso il tavolo (USA-Russia), poteva ben spiegare chi aveva intenzione di sparare un missile dove non doveva.
Che Zelensky (nome collettivo dell’élite ucraina al potere) non abbia alcuna voglia di andare al tavolo e sostanzialmente accettare lo stato del campo o giù di lì (trattando qualcosa potrebbe ottenere se gli americani su un altro tavolo dessero qualcosa ai russi in termini di architettura di sicurezza generale), si comprende. Tuttavia, si spera siano abbastanza intelligenti da capire che affidarsi alle volontà strategiche di una iper-potenza dominante, comporta accettare questi cambi repentini di postura. Probabilmente, più si scende lungo la scala di rilevanza politica di questa scala, meno intelligenza si trova. Questo era noto e ne scrivemmo mesi fa, difficile per i vertici del potere ucraino richiamare ora le frange eccitate dal conflitto, armate, eroizzate, rese protagoniste, eccitate dal traffico d’armi e relativi introiti ed ora destinate a tornare nell’ombra. In questi casi capita anche che ti lancino un razzo a tua insaputa rendendo così palese che tu certe cose non le controlli.
Il che vale anche per il corteo di quelli che una volta si chiamavano “servi sciocchi” dell’establishment europeo e mediatico. Hanno preso tutti a vibrare all’unisono al segnale che forse, sì, era giunta “l’ora più buia” l’altra sera. Poi si sono resi conto che gli americani avrebbero sostenuto la tesi dell’incidente di tiro degli ucraini anche se il razzo fosse stato avvolto nel tricolore blu-bianco-rosso. Si capisce le opinioni pubbliche non siano veloci a cogliere i mutamenti di quadro, ma quelli che hanno responsabilità politiche e di interpretazione mostrano semmai più stupidità il che è sconfortante una volta di più.
Gente che in questi mesi è andata a dire che ii russi volevano andare a Berlino, poi che volevano prendere tutta l’Ucraina, che Putin aveva evidenti segnali di malessere psichico e fisico, poi che sarebbero crollati sotto le sanzioni, poi che ci sarebbe stato un colpo di stato contro Putin, poi che i russi avevano finito i missili, i soldati, i carrarmati, che ci si sarebbe fermati solo riconquistando la Crimea, che forse si poteva nuclearizzare Mosca preventivamente o forse anche solo con le armi convenzionali. Tonnellate e tonnellate di sciocchezze emesse 7/24 con sciami di replicatori su i social a creare nuvole di falsa percezione, altro che fake news. Anche loro, come gli eroi ucraini al fronte, ora presi in contropiede.
L’altro giorno a Bali, riunione dei G20, Biden ha dato altri segnali con Xi Jinping. E vabbe’ ci sarà competizione accesa ma forse conviene rimanere dentro quadrati predefiniti di ciò che si può e non si può dire o fare. Se ne riparlerà in un prossimo incontro sino-americano tra addetti ai lavori tecnici. La Dichiarazione di Bali, che si disperava si potesse avere in comune e che invece gli americani volevano fortemente, ammette che non tutti erano d’accordo, specie sulle unilaterali attribuzioni di colpe e sulle sanzioni ma che sì, la guerra perturba l’economia mondiale (che è l’oggetto per cui esiste il formato G20). Già, ne parlammo tempo fa a proposito della “pace multipolare”, la grande parte del mondo questa guerra non la voleva, non la vuole, la rifiuta come perno per operare in logica geopolitica contro la logica geoeconomica che dà speranze di sviluppo a tutti loro. Atteggiamento che vale verso gli americani, gli europei, i russi. Molti non hanno capito cosa significa “multipolare”, ovvero che gli attori sono tanti diversi, ognuno col proprio interesse e punto di vista. È da questa pluralità che può emergere un mondo sì dinamico (il mondo statico-ordinato tocca scordarcelo per sempre) ma più equilibrato come si conviene ad ogni sistema iper-complesso.
Biden se l’è sentito dire e ripetere a soggetto specifico Asia ed atteggiamento verso la Cina, nell’incontro precedente a Bali con gli ASEAN, gli 11 paesi asiatico orientali senza i quali la strategia di contenimento dei cinesi pensata a Washington non va da nessuna parte. Ma per la verità quella strategia era noto non andasse da nessuna parte. Da tempo penso che i circoli geopolitici di Washington sappiano qualcosa di Europa, Russia, Medio Oriente ma quanto all’Asia, mostrano di non saperne quasi nulla. Una cosa come quella della “Pelosi goes to Taiwan” la fai solo se non conosci i minimi termini di base della mentalità asiatica, asiatico confuciana diciamo. Tutta la storia dell’Indo-Pacifico ed i corteggiamenti multipli ai vicini del gigante di Beijing, mostra inquietanti segnali di wishful thinking. Ma si sono mai presi i dati di import-export di questi Paesi prima di pianificare strategie? Taiwan, per dirne una, a parte distare poche miglia dalla costa cinese, ha il 40% tanto dell’import che dell’export con RPC-Hong Kong. Alle brutte, basta un blocco navale totale e la sospensione totale di ogni scambio con l’isola che dopo due-tre settimane il capitalismo taiwanese farebbe un colpo di stato in favore di “una nazione, due sistemi” altro che Terza guerra mondiale. Se sottrai di colpo il 40% di un sistema, il sistema crolla per implosione.
Rimane la domanda: cosa ha cambiato la postura americana? Attenzione, di nuovo, in politica internazionale non puoi mai esser certo e definitivo, potrebbe esser un “buying time” in favore di cosa non so dire, ma un cambio moderato e però significativo c’è.
In questi due mesi pendeva la spada di Damocle delle elezioni in USA. Ora sappiamo che: 1) i democratici hanno salvato il Senato; 2) i repubblicani hanno preso la Camera; 3) l’area Trump ha problemi interni allo schieramento repubblicano. Tante altre cose del complesso ambiente economico e finanziario stelle e strisce non le sappiamo anche se possiamo intuire che siano, a parte ovviamente il complesso militar-industriale, più o meno sulle stesse posizioni di chi questo innalzamento della temperatura del conflitto non lo vuole per niente. Si fa presto a dire “friendshoring”, farlo è tutt’altro conto. Di questi tempi la nostra attenzione è strapazzata di qui e di là, forse pochi hanno registrato che Facebook ha operato 11.000 licenziamenti, più quelli di Musk a Twitter ed i prossimi di Amazon verso cui comincia qui in Europa a montare un certo fastidio allargato visto che chiudono negozi, gente va per strada, quei camioncini con lo sbaffo del sorriso inquinano e complicano il traffico, rubano dati, le vendite mondiali di smartphone sono in decisa contrazione etc.. Ma come? L’Era dei Dati, il mondo digitale e metaversico, il “Futuro”? Il Grande Reset è durato lo spazio di un mattino? Non ci sono più le distopie di una volta. Ma poi, questo comparto, non era poi il principale sponsor anche finanziario del partito democratico?
Andranno fatte ricerche ed analisi più a grana fine. I dem, forse, vedono la possibilità di spaccare i repubblicani tra l’area old style conservatrice ma sennata e l’area populista arruffona dissennata e quindi vedono luce per le elezioni fra due anni che prima erano buie. Gli alleati o i potenziali tali, stanno facendo sapere che qui ognuno ha i suoi problemi, tanti, economici, sociali, climatico-ambientali, politici. Forse è il caso di rallentare l’impeto della strategia “democrazie vs autocrazie” ovvero Cold War 2.0 che poi da Cold ad Hot ci mette un attimo. Russia va bene, ma con la Cina aspetta un attimo, come ha mostrato Scholz andando in Cina coi vertici delle sue multinazionali, i tedeschi sono lì per primi, erano tutte tedesche le aziende che aprirono le prime industrie a capitale misto (51% cinese) quando andai lì nel 1990. Magari meglio buttarla sulla diplomazia. Ne scrivemmo, ci pareva una strategia eccessivamente semplificante ed ambiziosa, difetti tipici di certi strateghi americani, lo si dice dal punto di vista “tecnico” che in questo periodo di grandi passioni ideali è un punto di vista poco frequentato ma che è sempre quello che, realisticamente, detta le partiture di gioco che è e rimane razionale.
Ai dem che ragionano ad elezioni, conviene ora metterla giù morbida, tanto internamente che esternamente. I mesi più difficili, dal punto di vista economico, finanziario, energetico, debbono ancora arrivare. Le olimpiadi greche sospendevano i conflitti, facciamo i mondiali, aspettiamo primavera, poi vediamo. Forse…

 

La difficile scelta di Surovikin, di Big Serge

Nel gennaio 1944, la 6a Armata tedesca, appena ricostituita, si trovò in una situazione operativa catastrofica nell’ansa meridionale del fiume Dnepr, nella zona di Krivoi Rog e Nikopol. I tedeschi occupavano un pericoloso saliente, che sporgeva precariamente nelle linee dell’Armata Rossa. Vulnerabili su due fianchi scomodi e di fronte ad un nemico superiore per uomini e potenza di fuoco, qualsiasi generale degno di questo nome avrebbe cercato di ritirarsi prima possibile. In questo caso, però, Hitler insistette affinché la Wehrmacht mantenesse il saliente, perché la regione era l’ultima fonte di manganese rimasta alla Germania, un minerale fondamentale per la produzione di acciaio di alta qualità.

Un anno prima, nelle prime settimane del 1943, Hitler era intervenuto in un’altra battaglia più famosa, vietando alla precedente incarnazione della 6a Armata di uscire da una sacca formatasi a Stalingrado. Vietato il ritiro, la 6a Armata fu del tutto annientata.

In entrambi i casi vi fu uno scontro tra la pura prudenza militare e gli obiettivi e le esigenze politiche più ampie. Nel 1943 non c’erano ragioni militari o politiche convincenti per mantenere la 6a Armata nella sacca di Stalingrado: l’intervento politico nel processo decisionale militare era insensato e disastroso. Nel 1944, invece, Hitler (per quanto sia difficile ammetterlo) aveva un argomento valido. Senza il manganese proveniente dall’area di Nikopol, la produzione bellica tedesca era condannata. In questo caso, l’intervento politico era forse giustificato. Lasciare un esercito in un saliente vulnerabile è un male, ma lo è anche rimanere senza manganese.

Questi due tragici destini della 6a Armata illustrano la questione basilare di oggi: come si analizza la differenza tra decisioni militari e politiche? In particolare, a cosa attribuiamo la scioccante decisione russa di ritirarsi dalla riva occidentale del Dnepr, nell’oblast di Kherson, dopo averla annessa solo pochi mesi fa?.

Vorrei analizzare la questione. Innanzitutto non si può negare che il ritiro sia politicamente un’umiliazione significativa per la Russia. La domanda che ci si pone è se questo sacrificio fosse necessario per motivi militari o politici, e cosa possa significare per il futuro corso del conflitto.

A mio avviso il ritiro dalla riva occidentale di Kherson deve essere motivato da una delle quattro possibilità seguenti:

  1. L’esercito ucraino ha sconfitto l’esercito russo sulla riva occidentale e lo ha respinto oltre il fiume.
  2. La Russia sta tendendo una trappola a Kherson.
  3. È stato negoziato un accordo di pace segreto (o almeno un cessate il fuoco) che prevede la restituzione di Kherson all’Ucraina.
  4. La Russia ha fatto una scelta operativa politicamente imbarazzante ma militarmente prudente..

Esaminiamo queste quattro possibilità in sequenza..

Possibilità 1: sconfitta militare

La riconquista di Kherson è giustamente celebrata dagli ucraini come una vittoria. La domanda è: di che tipo di vittoria si tratta? Politica/d’effetto o militare? È banalmente ovvio che si tratta del primo tipo. Esaminiamo alcuni fatti.

Innanzitutto, già la mattina del 9 novembre – poche ore prima dell’annuncio del ritiro – alcuni corrispondenti di guerra russi esprimevano [in russo] scetticismo sulle voci di ritiro perché le linee difensive avanzate della Russia erano intatte. Non c’era alcuna parvenza di crisi tra le forze russe nella regione.

In secondo luogo, l’Ucraina non stava eseguendo alcuno sforzo offensivo intenso nella regione al momento dell’inizio del ritiro, e i funzionari ucraini hanno espresso [in inglese] scetticismo sul fatto che il ritiro fosse reale. In effetti l’idea che la Russia stesse tendendo una trappola nasce dai funzionari ucraini che sono stati apparentemente colti di sorpresa dal ritiro. L’Ucraina non era pronta ad inseguire o a sfruttarlo, e ha avanzato [in inglese] con cautela nel vuoto dopo che i soldati russi se ne sono andati. Anche con il ritiro della Russia i soldati ucraini erano chiaramente spaventati dall’avanzare, perché gli ultimi tentativi di superare le difese dell’area gli avevano causato molte perdite.

Nel complesso il ritiro della Russia è stato attuato molto rapidamente con pressioni minime da parte degli ucraini – proprio questo fatto è alla base dell’idea che si tratti di una trappola o del risultato di un accordo dietro le quinte. In entrambi i casi la Russia è semplicemente scivolata indietro attraverso il fiume senza essere inseguita dagli ucraini, subendo perdite trascurabili e portando via praticamente tutto il proprio equipaggiamento (finora, un T90 guasto è l’unica cattura ucraina degna di nota). Il risultato netto sul fronte di Kherson rimane un forte sbilanciamento delle perdite a favore della Russia, che ancora una volta si ritira senza subire una sconfitta sul campo di battaglia e con le sue forze intatte.

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Possibilità 2: è una trappola

Questa teoria è emersa subito dopo l’annuncio del ritiro. Ha avuto origine dai funzionari ucraini che sono stati colti di sorpresa dall’annuncio, ed è stata poi ripresa (ironicamente) dai sostenitori russi che speravano che si giocasse a scacchi 4D – non è così. La Russia sta giocando a scacchi 2D standard, che è l’unico tipo di scacchi esistente, ma di questo parleremo più avanti.

Non è chiaro cosa si intenda esattamente per “trappola”, ma cercherò di riempire gli spazi vuoti. Ci sono due possibili interpretazioni: 1) una manovra convenzionale sul campo di battaglia che comporta un contrattacco tempestivo, e 2) una sorta di mossa non convenzionale come un’arma nucleare tattica o una inondazione per il cedimento di una diga.

È chiaro che non c’è alcun contrattacco sul campo di battaglia, per la semplice ragione che la Russia ha fatto saltare i ponti dopo il ritiro. Senza forze russe sulla sponda occidentale e con i ponti distrutti non c’è alcuna capacità immediata per entrambi gli eserciti di attaccare l’altro in forze. Certo, possono bombardarsi l’un l’altro attraverso il fiume, ma la linea di contatto effettiva è per il momento congelata.

Rimane la possibilità che la Russia intenda fare qualcosa di non convenzionale, come usare una testata nucleare a bassa potenza.

L’idea che la Russia abbia attirato l’Ucraina a Kherson per far esplodere una bomba atomica è… stupida.

Se la Russia volesse usare un’arma nucleare contro l’Ucraina (e non è così, per le ragioni che ho esposto in un precedente articolo) non c’è alcuna ragione sensata per cui sceglierebbe di farlo in una capitale regionale che ha annesso. Alla Russia non mancano i sistemi di lancio. Se volessero bombardare l’Ucraina, molto semplicemente, non si preoccuperebbero di abbandonare la loro città e di farne il luogo dell’esplosione. Semplicemente bombarderebbero l’Ucraina. Non si chiama trappola.

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Possibilità 3: accordo segreto

Questa possibilità è stata innescata dalla notizia che il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, è stato in contatto con la sua controparte russa, e in particolare dalla sensazione che la Casa Bianca abbia spinto per i negoziati. Secondo una variante dell’ “Accordo Sullivan”, l’Ucraina riconoscerebbe le annessioni russe a est del Dnepr, mentre la riva occidentale di Kherson tornerebbe sotto il controllo di Kiev.

Lo ritengo improbabile per una serie di ragioni. Innanzitutto, un accordo di questo tipo rappresenterebbe per i russi una vittoria di Pirro estrema: pur ottenendo la liberazione del Donbass (uno degli obiettivi espliciti dell’Operazione Militare Speciale), lascerebbe l’Ucraina in gran parte intatta e abbastanza forte da essere una perenne spina nel fianco, come uno stato nemico anti-russo. Rimarrebbero il problema di una probabile ulteriore integrazione dell’Ucraina nella NATO e, soprattutto, l’aperta cessione di una capitale regionale annessa.

Da parte ucraina il problema è che il recupero di Kherson non fa altro che rafforzare la (falsa) percezione per Kiev che la vittoria totale sia possibile e che la Crimea e il Donbass possano essere recuperati interamente. L’Ucraina sta godendo di una serie di conquiste territoriali e sente che si sta aprendo la sua finestra di opportunità.

In definitiva, non sembra esserci un accordo che soddisfi entrambe le parti, e questo riflette il fatto che l’ostilità innata tra le due nazioni dev’essere risolta sul campo di battaglia. Solo Ares può giudicare questa disputa.

Per quanto riguarda Ares, sta lavorando duramente a Pavlovka.

Mentre il mondo era concentrato sul passaggio di mano relativamente incruento a Kherson, la Russia e l’Ucraina hanno combattuto una battaglia sanguinosa per Pavlovka, e la Russia ha vinto. L’Ucraina ha anche tentato di rompere le difese russe nell’asse di Svatove, ma è stata respinta con pesanti perdite. In definitiva, la ragione principale per dubitare della notizia di un accordo segreto è il fatto che la guerra continua su tutti gli altri fronti – e l’Ucraina sta perdendo. Ciò lascia solo un’opzione.

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Possibilità 4: una scelta operativa difficile

Questo ritiro è stato sottilmente segnalato poco dopo che il generale Surovikin è stato messo a capo delle operazioni in Ucraina. Nella sua prima conferenza stampa ha segnalato l’insoddisfazione per il fronte di Kherson, definendo la situazione “tesa e difficile”, e alludendo alla minaccia dell’Ucraina di far saltare le dighe sul Dnepr e di inondare la zona. Poco dopo è iniziato il processo di evacuazione dei civili da Kherson..

Ecco cosa penso abbia deciso Surovikin su Kherson.

Kherson stava diventando un fronte inefficiente per la Russia a causa dello sforzo logistico di rifornire le forze attraverso il fiume con una capacità limitata di ponti e strade. La Russia ha dimostrato di essere in grado di sostenere quest’onere (mantenendo le truppe rifornite per tutta l’offensiva estiva), ma la questione diventa: 1) a quale scopo, e 2) per quanto tempo.

Idealmente, la testa di ponte diventerebbe il punto di lancio per un’azione offensiva contro Nikolayev, ma il lancio di un’offensiva richiederebbe il rafforzamento del raggruppamento di forze a Kherson, il che aumenta di conseguenza l’onere logistico della proiezione delle forze attraverso il fiume. Con un fronte molto lungo da gestire Kherson è chiaramente uno degli assi più impegnativi dal punto di vista logistico. Ritengo che Surovikin abbia preso il comando e abbia deciso quasi subito di non voler aumentare l’onere del sostegno cercando di spingere su Nikolayev.

Pertanto, se non si vuole lanciare un’offensiva da Kherson, la domanda diventa: perché mantenere la posizione? Dal punto di vista politico è importante difendere una capitale regionale, ma dal punto di vista militare la posizione diventa priva di significato se non s’intende passare all’offensiva a sud.

Siamo ancora più espliciti: a meno che non sia prevista un’offensiva verso Nikolayev, la testa di ponte di Kherson è militarmente controproducente.

Mantenendo la testa di ponte a Kherson, il fiume Dnepr diventa un moltiplicatore negativo di forze, aumentando il carico logistico e di sostegno, e minacciando sempre di lasciare le forze tagliate fuori se l’Ucraina riesce a distruggere i ponti o a far saltare la diga. Proiettare le forze attraverso il fiume diventa un fardello pesante senza alcun beneficio evidente. Ma ritirandosi sulla sponda orientale il fiume diventa un moltiplicatore di forze positivo, fungendo da barriera difensiva.

In senso operativo più ampio, Surovikin sembra rifiutare la battaglia a sud mentre si prepara a nord e nel Donbass. È chiaro che ha preso questa decisione poco dopo aver assunto il comando dell’operazione – l’ha accennato per settimane, e la velocità e la pulizia del ritiro suggeriscono che è stato ben pianificato, con molto anticipo. Il ritiro attraverso il fiume aumenta notevolmente l’efficacia di combattimento dell’esercito e diminuisce il carico logistico, liberando risorse per altri settori.

Questo rientra nel modello generale russo di fare scelte difficili sull’allocazione delle risorse, combattendo questa guerra con il semplice obiettivo di ottimizzare i rapporti di perdita e di costruire il perfetto tritacarne. A differenza dell’esercito tedesco nella Seconda Guerra Mondiale, l’esercito russo sembra essere libero da interferenze politiche per prendere decisioni militari razionali.

In questo senso il ritiro da Kherson può essere visto come una sorta di anti-Stalingrado. Invece dell’interferenza politica che ostacola l’esercito, abbiamo i militari liberi di fare scelte operative anche a costo di mettere in imbarazzo le figure politiche. E questo, in definitiva, è il modo più intelligente – anche se otticamente umiliante – di combattere una guerra..

https://sakeritalia.it/ucraina/la-difficile-scelta-di-surovikin/

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