EUROPA UNITA = EUROPA SOTTOMESSA, di Gianfranco La Grassa

EUROPA UNITA = EUROPA SOTTOMESSA

Tratto dal sito http://www.conflittiestrategie.it/europa-unita-europa-sottomessa

Il saggio rappresenta un breve consuntivo dell’elaborazione di analisi politica dell’autore. In particolare la ricostruzione seguita al secondo dopoguerra e la costruzione comunitaria in Europa sono il frutto anche di una elaborazione collettiva portata avanti dal sito negli ultimi sei anni cui www.italiaeilmondo.com intende riferirsi

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Il nord industriale Usa schiaccia il sud “cotoniero” nella guerra civile (o di secessione) e il paese si avvia così a divenire quella grande potenza che sarà nel XX secolo. Inizia subito l’allargamento della sua sfera d’influenza e innanzitutto batte l’ormai nettamente decaduta potenza spagnola a fine secolo XIX sottraendole Cuba e soprattutto le Filippine (1898), dove tuttavia insorsero forze indipendentiste, sconfitte a loro volta nella guerra condotta tra il 1899 e il 1902, con code fino al 1906 e poi ancora, molto debolmente, fino al 1913. Con quell’azione gli Usa si lanciano alla conquista della primazia in Asia e si scontreranno perciò a lungo con il Giappone, paese pure lui in forte crescita, che divenne una delle grandi potenze in conflitto nella prima metà del ‘900 (assieme a Inghilterra, Usa e Germania), soprattutto dopo aver vinto contro la Russia nel 1904-5 (sconfitta russa all’origine della prima grande rivoluzione antizarista del 1905, immortalata da Eisenstein ne “La corazzata Potemkin”).
Nella prima guerra mondiale, il Giappone entra al fianco della “Triplice Intesa” (Gran Bretagna, Francia, Russia) già nel 1914. Un impegno assai limitato, più che altro per togliere ai tedeschi quei pochi insediamenti da essi avuti in Asia (tipo Isole Marianne e Caroline). In ogni caso, quando gli Usa entrano in guerra nel 1917, il Giappone è ufficialmente loro alleato. In realtà, vi sarà sempre contrasto tra le due potenze per l’area del Pacifico. Ben noto è l’attacco “proditorio” giapponese del 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor, che spinse gli Stati Uniti all’entrata nella seconda guerra mondiale. Attacco provvidenziale poiché il Congresso americano si opponeva costantemente, e pressoché all’unanimità, all’intervento in guerra, fortemente voluto invece da Roosevelt; il presidente “buono”, quello del New Deal, atto per null’affatto risolutore della crisi del ’29-’33 (come raccontano storici ed economisti), dato che dopo un paio d’anni d’attenuazione della stessa, nel 1936 (proprio quando esce la keynesiana “Teoria generale”) si è di nuovo in stagnazione; solo la seconda guerra mondiale risolverà il problema. Anche qui, le solite superficialità sull’importanza della domanda enormemente accresciuta per fini bellici, mentre l’uscita dalla stagnazione (accompagnata da intensi progressi in tema d’energia e tecnologici) dipende dalla netta supremazia statunitense conquistata in tutta l’area del capitalismo più avanzato, con coordinamento generale di tali sistemi capitalistici da parte del “centro” statunitense.
Comunque, l’attacco a Pearl Harbor viene condotto dopo una lunga serie di tensioni nippoamericane e non certo tutte dovute ai giapponesi. Inoltre, è meno noto che pochi giorni prima dell’“imprevista” aggressione, tutte le portaerei americane (e credo anche alcune corazzate) avevano abbandonato il porto poi bombardato. Difficile ormai sapere la verità. Certamente è sorprendente (comunque, qualunque sia la verità) che i giapponesi non sapessero dell’allontanarsi delle principali navi da battaglia americane e, se lo sapevano, abbiano attaccato egualmente. In ogni caso, non si sfugge all’impressione che il gruppo dirigente Usa fosse ben conscio (e lieto) dell’aggressione, l’abbia favorita in tutti i modi, per superare l’ostilità del Congresso all’entrata in guerra. E così, sacrificando i 2400 soldati uccisi a Pearl Harbor – e certamente con un numero ben più alto di altri morti, non però per bombardamenti sulla popolazione civile americana, specialità lasciata al teatro europeo e asiatico – si concluse il confronto pluridecennale per la supremazia nell’area del Pacifico.
Ancora più complicato decifrare l’andamento degli eventi nell’area europea. Fu solo un errore (e madornale) l’aggressione tedesca all’Urss nel giugno del 1941? Gli “storici dei vincitori” (quasi tutti) raccontano di una decisiva “Battaglia d’Inghilterra” (nel 1940, di carattere aereo), in cui la RAF vinse sulla Lutwaffe e così bloccò l’invasione tedesca dell’Inghilterra. Credo si tratti di un’altra grossa balla. Dopo la rapida vittoria in Francia (dove si creò inoltre la Repubblica di Vichy, che non fu proprio contrastata dall’intera popolazione francese come poi hanno raccontato i soliti storici), la Germania si sentiva sicura della vittoria. E’ facile che invece di sbarazzarsi subito dell’Inghilterra, indubbiamente boccone più difficile da “ingoiare”, abbia iniziato (ma credo soprattutto per iniziativa dell’Inghilterra) segreti contatti onde arrivare ad una qualche intesa; e in questo sappiamo che aveva qualche carta da giocare il Duca di Hamilton. E penso che lo stesso Churchill, magari senza esporsi troppo, sia stato al gioco.
Infine, nel maggio del ’41 Rudolf Hess vola in Scozia e tenta di raggiungere il Castello del Duca di Hamilton. Certo, viene arrestato e poi sempre detenuto senza che mai sia stato rivelato (nemmeno dal “viaggiatore”) il reale motivo di quella “intemerata”, attribuita a malattia mentale dell’autore o a una sua caduta in disgrazia presso Hitler (e altre menzognere chiacchiere). Nel giugno dello stesso anno parte appunto l’Operazione Barbarossa contro l’Urss, con qualche ritardo (dovuto fra l’altro al colpo di Stato in marzo a Belgrado dove presero il potere dei militari favorevoli alla Gran Bretagna, causando così l’attacco tedesco). Sarebbe iniziata l’aggressione antisovietica senza contatti tra inglesi e tedeschi? E ben precedenti al viaggio di Hess che comunque – pur messo in galera per motivi evidenti, dato che la popolazione inglese non doveva affatto sapere di “strane trattative” in corso – potrebbe aver avuto egualmente abboccamenti di rilievo. Naturalmente, l’ipotesi più semplice da avanzare è che Churchill, direttamente o meno vista la non piacevole situazione dell’Inghilterra, abbia fatto credere a Hitler la possibilità di una trattativa che avrebbe messo fine alla guerra fra loro con soddisfazione tedesca e qualche concessione al suo paese insulare.
Eppure vorrei avanzarne una in po’ differente e forse ardita. Gli Stati Uniti, per null’affatto sconvolti (parlo dei dirigenti, non della popolazione) dalla “grande crisi”, erano ormai consci d’essere il nuovo capitalismo vincente; un capitalismo senza alcun ascendente “nobiliare” con cui fare ancora i conti, in assenza completa di ogni scrupolo morale o di senso dell’onore, strettamente imbricato alla criminalità, ecc. Del resto, vorrei ricordare che nel grande documentario sovietico di Vertov (“La sesta parte del mondo” del 1926!), il paese capitalistico per antonomasia sono appunto gli Stati Uniti. In Urss l’avevano già capito; mentre in Europa no. In particolare, nemmeno Germania e Italia avevano afferrato questo epocale mutamento. E Inghilterra e Francia ancora “giocavano” ai grandi protagonisti, pur dopo la misera figura fatta alla Conferenza di Monaco del settembre 1938.
Roosevelt (cioè il gruppo dirigente americano degli anni ’30) afferra che è possibile iniziare un reale confronto per il predominio pure nell’area europea; e non solo in Asia dove, come già considerato, ci si scontra con il Giappone. Sono dunque probabilmente gli Usa – consci dell’approssimarsi della loro entrata in guerra, resa difficile dal comportamento del Congresso, ma evidentemente già si stava lavorando ad una occasione infine arrivata con Pearl Harbor – a “consigliare” Churchill circa la necessità di prendere tempo, facendo inoltre credere a Hitler che poteva scatenarsi contro l’Urss, ma senza affatto arrivare ad alcun reale accordo. E scrivo consigliare tra virgolette perché ho la sensazione che il governo inglese, se avesse deciso da solo, avrebbe magari potuto intavolare – con gradualità e metodi tali da non crearsi vasta impopolarità presso una popolazione bombardata, ormai accesa nemica dei tedeschi, ecc. – qualche trattativa pregnante. Questo avrebbe impedito agli americani di arrivare da “liberatori” in Europa e avrebbe limitato la loro egemonia all’area asiatica.
No, ormai gli Stati Uniti erano maturi per ben altro: quindi inganno, spinta all’aggressione tedesca all’Urss, ma nessuna sospensione di ostilità di alcun genere; questo pretesero probabilmente gli Usa dall’Inghilterra, promettendo il loro decisivo aiuto assai presto. Ed infatti, a fine anno, giunge la sospirata occasione dell’aggressione giapponese e il convincimento del Congresso alla guerra. E credo che si siano andati accentuando anche gli “incidenti”, ormai in atto da tempo, con navi tedesche in modo da ottenere perfino la dichiarazione di guerra da parte della Germania quattro giorni dopo Pearl Harbor. E pure in tale occasione, comunque, si constata un decisivo errore di valutazione del governo tedesco, evidentemente convinto che il Giappone avesse distrutto una buona parte della potenza statunitense e si fosse portato in posizione di vantaggio. Inoltre, lo ripeto, penso proprio che Hitler, non meno di Mussolini, considerasse ancora troppo importante l’Inghilterra, non avendo capito con che tipo di nuovo capitalismo assai potente avesse a che fare; lo spirito eurocentrico ha giocato un brutto scherzo

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Questo lungo preambolo, e tuttavia succinto nei suoi punti salienti, voleva ricordare con quale paese predominante abbiamo a che fare ormai dalla metà del secolo scorso. Si tratta di qualcosa che, non so quanto appropriatamente (ma non vedo altra scelta), possiamo definire un neocapitalismo assai più efficiente di quello borghese, prevalente nell’Inghilterra ottocentesca (e che Marx prese a modello della forma capitalistica di società), ormai in fase di sostituzione all’epoca della prima guerra mondiale. Non a caso, la teoria marxista, divenuta ideologia della “rivoluzione proletaria”, confuse quella fine con il superamento del capitalismo tout court (“imperialismo, ultima fase del capitalismo”), mentre ne veniva avanti, vittorioso, un altro ben più duraturo. L’ho denominato provvisoriamente “dei funzionari del capitale” solo in parte influenzato dall’analisi di Burnham, comunque vicino alla realtà e che parlò di “rivoluzione manageriale”. Il “funzionario del capitale” non è però semplicemente il manager – pur privo della proprietà dei mezzi di produzione, che per Marx era invece decisiva nel designare il reale dominante, il borghese capitalista – figura direttiva dei vari processi in svolgimento soprattutto nell’impresa, ma certo anche negli altri apparati non soltanto economici della società. I funzionari del capitale non sono semplici direttori, bensì più precisamente strateghi di quel conflitto mirante alla supremazia sia nel contesto dei gruppi sociali attivi in un paese sia nel rapporto con altri paesi in date aree territoriali e, in ultima analisi, nel mondo intero.
Parleremo in altra sede dell’errore commesso da Marx – e ancor più da coloro che trasformarono la sua teoria scientifica in una sclerotizzata ideologia creduta sempre più per fede – nell’ignorare la funzione sociale decisiva (e dominante) svolta dai “non proprietari dei mezzi produttivi” e strateghi d’un conflitto, da cui derivava immediatamente la “non funzione rivoluzionaria” dei non proprietari e fornitori di plusvalore (vedremo meglio altrove questo problema); errore che non è certo causa minore del fallimento definitivo della sedicente “costruzione del socialismo” con crollo dei regimi politici ostinatamente attaccati a quell’ideologia. Per il momento, limitiamoci a sottolineare come il capitalismo americano – sottovalutato pure dai regimi che tentarono di sostituirsi al capitalismo borghese, senza tuttavia mettere definitivamente fine alle sue pratiche e mire ormai storicamente superate; mi riferisco principalmente a fascismo e nazismo che di questo tentativo sono a mio avviso stati artefici – abbia avuto in ultima analisi la via aperta alla supremazia mondiale, impropriamente contrastata dal presunto “campo socialista” e soprattutto dal centro di quest’ultimo, l’Urss. Si è parlato di mondo bipolare, e di “guerra fredda” tra i centri dei due poli. Malgrado la durata di quel bipolarismo (un po’ meno di mezzo secolo, che storicamente è un “fiat”), non vi è stato affatto vero equilibrio; l’Urss non riusciva a contrastare realmente gli Usa (malgrado certe pretese vittorie, come quella così sopravvalutata e incompresa in Vietnam). E anche su questi eventi cruciali manchiamo di una qualsiasi seria analisi con gli storici contemporanei che abbiamo avuto (e abbiamo) e che hanno occupato (e occupano tuttora) i posti salienti nelle Università e in altri luoghi culturali, annientando ogni decente valutazione del XX secolo.
Resta il fatto che gli Stati Uniti hanno indubbiamente mostrato una notevole abilità e flessibilità nel dare vita alla loro mitica “grande democrazia”, che semmai ha qualche rassomiglianza con il modello elitistico-competitivo di Weber-Schumpeter; e tuttavia non può essere ridotta nemmeno a questo. In ogni caso, si formano nell’agone della politica due schieramenti (in certi casi anche di più, ma due è senz’altro meglio per una reale efficacia nell’azione) decisamente contrapposti nei progetti e aspettative che suscitano nella popolazione. La contrapposizione è in genere più violenta a parole che nei fatti; talvolta però si deve anche passare dalle prime ai secondi. Nel contrasto non possono non venire forgiandosi ed enucleandosi due vertici dirigenti (vere élites), in grado di formare attorno a loro una costellazione di organismi addetti agli svariati bisogni e modalità del conflitto; alcuni organismi devono spesso essere molto appariscenti per la conquista dei favori popolari, altri devono agire in segreto, sempre pronti a quelle circostanze in cui è necessario passare, come già ricordato, dalle parole ai fatti (magari con qualche assassinio mascherato da incidente o da azione di un pazzo, ecc.).
I due schieramenti (o talvolta più, ma con efficienza in calando quanto più aumenta il numero) entrano in contrasto acuto, esacerbandolo se e quando necessario per convincere la popolazione che, scegliendo tra i due, si effettua una vera decisione di primaria importanza. Ovviamente, la scelta non è tra gli schieramenti, ma tra i vertici degli stessi; e dunque tra i vari organismi, appariscenti o segreti, che questi hanno già creato in un lungo processo storico di formazione. La popolazione viene chiamata a esprimersi, senza effettiva conoscenza della struttura organizzativa delle parti per cui opta; essa è sicura che i progetti dichiarati saranno poi mantenuti, mentre a volte proprio mutamenti imprevisti degli equilibri, sia interni che verso l’estero, impongono altre decisioni, prese necessariamente (anche per la velocità con cui devono essere prese) dalle élites e dai nuclei strategici da esse messi in piedi proprio per cogliere simili modificazioni delle situazioni.
Le popolazioni sono soddisfatte e anche chi resta in minoranza attende la possibilità successiva di rovesciare le posizioni. Per intanto, la minoranza deve accettare le scelte di quella élites maggiormente votata. Tuttavia, non vige il famoso “centralismo democratico” dei partiti comunisti, che è indubbiamente meno gradito e dunque di fatto errato, salvo che in momenti cruciali quali un grande, rapido e squassante rivolgimento politico-sociale. La minoranza (in realtà l’élite meno votata) può continuare a darsi da fare e a criticare, cercando di dimostrare gli errori avversari e la maggiore congruità delle sue proposte (pur esse in gran parte di facciata, soprattutto perché non dovendo decidere, è più facile dedicarsi all’agitazione parolaia). In ogni caso, una delle più grandi menzogne di tutti i tempi è quella che racconta come le “libere elezioni” esprimano la volontà popolare nella scelta di coloro che dirigeranno gli affari interni e mondiali dai cui esiti dipenderà la vita e la sorte dei popoli.

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Come già detto, dopo la seconda guerra mondiale, i veri vincitori sono gli Usa. Ad essi si contrappone per un certo periodo l’altra vincitrice della guerra, l’Unione Sovietica, che però sarà sempre in tono minore malgrado varie apparenze. Gli altri pretesi vincitori tipo Inghilterra e Francia (sull’Italia stendiamo il classico pietoso velo) sono in realtà perdenti e lo dimostreranno diminuendo via via d’importanza e confondendosi con le altre nazioni nella sedicente “comunità europea”: prima quella occidentale e, dopo il crollo sovietico, tutto l’insieme. Nell’aprile 1949 nasce il patto militare, la Nato, che già sancisce la subordinazione europea agli Stati Uniti, pur se vanno concessi indubbi meriti al governo francese durante il periodo gollista, che tuttavia non è servito ad impedire il definitivo servaggio anche di questo “illustre” paese. Iniziano subito dopo la guerra le mene per l’unità d’Europa che arrivano infine alla creazione della UE (Unione Europea) nel 1993. Si potrebbero spendere molte parole umoristiche su questa unione; mi basterà ricordare che essa nel 2012 (l’anno dopo la “primavera araba”, l’aggressione alla Libia con barbara uccisione di Gheddafi, ecc.) riceve il premio Nobel per la pace, da unire, nel ridicolo, a quello assegnato ad Obama nel 2009. Con la differenza che Obama è il presidente dei “padroni”, la UE è l’unione dei “servi”.
Ho sopra ricordato che negli anni ’30, all’avvicinarsi della guerra, gli Usa di Roosevelt già compresero di poter essere i dominatori della nostra area così come di quella asiatica. E nel dopoguerra, si servirono dei cosiddetti “padri dell’Europa”, uno più vergognoso dell’altro (e non starò a ricordarli per nome, perché sono accomunati nella stessa miseria). Nel 2000 (e di anni ne sono passati da allora) un meritevole ricercatore, evidentemente diverso dagli usuali “storici dei vincitori”, Joshua Paul della Georgetown University, ha portato alla luce molteplici documenti che dimostrano come tutti questi “Padri” emeriti, e i più importanti uomini di governo europei del dopoguerra, siano stati ampiamente finanziati appunto per giungere intanto all’unione di quei paesi europei non conquistati dai sovietici, sotto il predominio statunitense. E più tardi, altri servitorelli, ancora più scadenti e meschini, hanno continuato la loro opera; la creazione della UE è solo il perfezionamento della servitù, cui si sono prestati questi ignobili europeisti ben finanziati per divenire sempre più proni agli Usa. Lasciamoli festeggiare; la loro turpitudine verrà sempre più alla luce con il passare del tempo poiché la nostra decadenza sarà sempre più evidente. E l’ultima farsa (tragica), l’accoglimento di masse di migranti – che escono dai loro paesi grazie alle malefatte americane – sarà la tomba di questi asserviti. Purtroppo, però, solo storicamente parlando; ancora per un bel po’ di tempo, questa inesistente unione europea – poiché la UE è semplice organismo collaterale alla Nato e comunque nettamente influenzata dall’esterno – continuerà ad indirizzarci verso il disfacimento della nostra civiltà e costumi.
E’ vero che adesso si sono verificati alcuni eventi nuovi e persino imprevisti – tipo la brexit, l’elezione di Trump, ecc. – che sembrano indicare una notevole stanchezza e irritazione delle stesse popolazioni, non proprio consapevoli di quanto accade, nei confronti della politica svolta dagli Stati Uniti e dai loro scherani europei in questi ultimi decenni, soprattutto dopo la fine dell’Urss e del “campo socialista”. Tuttavia, è ancora troppo presto per comprendere se e quando il percorso storico fin qui seguito dall’“occidente” muterà direzione. Per il momento, UE e governi europei continuano a svolgere la stessa politica e ad essere legati al vecchio establishment Usa, ancora ben vivo e in continuo attacco alla nuova presidenza. E’ del tutto evidente, intanto, che i dirigenti europei non sono in grado di decidere politiche diverse da quelle eterodirette. Inoltre, appare poco chiara anche la politica trumpiana; da una parte, viene contrastata in modo aperto come non mai negli stessi Usa (e con lo strumento di Cia e Fbi, i fondamentali apparati dei Servizi) perché sarebbe troppo amichevole verso la Russia; dall’altra, Trump aumenta a dismisura la spesa militare, rafforza il settore nucleare, si permette adesso di criticare, in nome della falsa “democrazia”, la politica interna russa, tesa a disarmare i gruppi che vorrebbero rovesciare l’attuale dirigenza. E in questo comportamento ostile sembra dunque in linea con il già citato vecchio establishment.
E allora? Cerchiamo anche qui di andare un po’ oltre le apparenze che ci ammanniscono questi falsificatori dell’informazione in campo “occidentale”. Come al solito, partiamo da lontano ma per veloci cenni. Dopo il crollo dell’Urss, con la fine del bipolarismo, per qualche anno sembrò in atto una tendenza al monocentrismo americano, solo contrastato – ma molto più nella propaganda avversaria, in questo unita alla stupidità degli “orfani del socialismo” – dallo sviluppo cinese. In realtà, soprattutto con l’avvento del nuovo secolo, si chiarì una precisa tendenza al multipolarismo con rinascita più che discreta della Russia (anche se ridotta di dimensioni e potenza bellica rispetto all’Urss) e della suddetta Cina; alcuni troppo ottimisti vi hanno aggiunto l’India (abbastanza legata agli Usa, pur se si vi sono stati alcuni accordi con la Russia), il Brasile (oggi in notevole crisi) e perfino il Sud Africa (qui siamo ben lontani dalla realtà). Semmai, ma nel medio periodo, farei attenzione al Giappone, per il momento comunque in qualche difficoltà e che gioca un ruolo ancora assai subordinato agli Stati Uniti.
Quando infine si compilerà un serio bilancio della storia del bipolarismo, e della conseguente “guerra fredda”, si constaterà che quella situazione mondiale assicurò al campo occidentale un periodo di notevole tranquillità e di ottimo sviluppo; e con la completa centralità statunitense, che indubbiamente riorganizzò quest’area tuttora decisiva negli affari mondiali malgrado le tante chiacchiere fatte in contrario. Se vogliamo fare un paragone storico, dobbiamo rifarci alla centralità dell’Inghilterra tra il Congresso di Vienna (1814-15) e la nascita delle grandi potenze: Usa (dopo la guerra civile nel 1861-65), Germania (dopo la vittoria della Prussia sulla Francia nel 1970-71), mentre il Giappone seguirà a fine secolo e inizio del XX (quando vincerà la Russia nel 1904-5). E anche allora quella centralità fu caratterizzata dal completamento della prima rivoluzione industriale in Inghilterra e dalla sua impetuosa continuazione in Continente, con però il seguito della “grande depressione” (1873-95) quando iniziò ad affermarsi il multipolarismo.
Il bipolarismo – decisamente imperfetto grazie al lento declino dell’Urss dopo la seconda guerra mondiale, declino in crescita negli anni ‘50 e precipitato con Gorbaciov – è stato un periodo di rafforzamento continuo degli Stati Uniti; e che sarebbe stato ancora più veloce se la dirigenza americana non avesse manifestato notevoli divergenze negli intenti strategici (salvo il comune perseguimento del predominio mondiale), come si mise in evidenza sia nei contrasti seguiti a certi accordi (ancor oggi rimasti nascosti) tra Kennedy e Krusciov sia nell’aver contrastato l’intelligente mossa di Kissinger-Nixon con “apertura” alla Cina (non caratterizzata da spirito veramente amichevole come solitamente raccontato). In ogni caso, il bipolarismo è stato un periodo florido per il “campo occidentale” centrato sugli Usa. In seguito al crollo e fine di tale “stato del mondo”, si è creduto da parte statunitense – e questa è ancora l’opinione prevalente, che guida la forte malevolenza di democratici e forti settori repubblicani nei confronti della neopresidenza – di poter passare finalmente al predominio aperto e dichiarato del proprio paese.
Il caos creato non ha prodotto i risultati sperati. Allora, si può leggere l’apparente inversione di tendenza come un tentativo di ripristinare un nuovo bipolarismo, addirittura migliore del precedente poiché adesso tutta l’Europa è sotto il tallone statunitense e la sua parte orientale è perfino più accanita in senso antirusso. Si è inoltre riusciti a creare forti tensioni contro il paese eurasiatico in Ucraina; e anche in Georgia, ecc. Si è tentato pure con le Repubbliche centrasiatiche, ma lì al momento le mosse compiute non sembrano molto riuscite. La parte “trumpiana” (con il solito suggeritore Kissinger) cerca di creare qualche maggiore ostilità nei confronti della Cina; e probabilmente tale politica vuole anche giocare sulla notoria scarsa simpatia tra questa e la Russia, che fu in piena evidenza nel passato maoista. Un periodo di nuovo bipolarismo – con la Russia decisamente meno potente dell’Urss, non però in declino e anzi, almeno a mio avviso, in rafforzamento graduale – consentirebbe, secondo l’opinione dei centri rappresentati da Trump, di meglio studiare una nuova strategia “non caotica” pur sempre tesa al conseguimento dell’agognato predominio mondiale centrato sul proprio paese.

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Se quanto ipotizzato dovesse rivelarsi anche parzialmente esatto, ne risulterà abbastanza complicata la strategia che dovranno approntare le forze oggi in contrasto netto con questa Europa comunque in difficoltà e fortemente degradata. Non ci si deve fidare troppo di un Trump, poiché persegue, come finalità di fondo, la solita supremazia americana agognata da sempre, direi fin dalla guerra civile di un secolo e mezzo fa; e comunque affermata con particolare brutalità a partire dalla seconda guerra mondiale. Nello stesso tempo, però, la politica del nuovo presidente ha la possibilità di scompaginare e mettere in crisi l’establishment della UE, che è al servizio di tale supremazia, ma si è strutturato secondo gli intendimenti dei centri strategici in auge con le ultime presidenze statunitensi seguite al crollo del mondo bipolare (i due Bush, Bill Clinton, Obama) e che la Clinton intendeva ulteriormente rafforzare.
Le cosiddette sinistre europee – inutile ricordare che ormai la distinzione storica destra/sinistra ha poco a che vedere con quanto oggi esistente in un mondo politico in totale disfacimento; e non parliamo dei partiti detti di “centro” (tipo quello “diccì” della Germania oggi guidato dalla Merkel), ben poco distinguibili dalle “sinistre” – si sono dimostrate le più adatte a servire gli interessi statunitensi negli ultimi decenni. Mi sembra comunque ancora carente la conoscenza dei percorsi tramite cui si sono formate queste fantomatiche forze politiche dette di sinistra. Quanto alle destre, vi sono quelle che si distinguono appena, quanto a politica perseguita, rispetto ai loro avversari, da cui differiscono solo in merito a certe questioni di costume e di tradizione: sulla famiglia, sui gay, sul femminismo e via dicendo. Quanto alla politica (interna ed estera), a corruzione massima, a occupazione con metodi subdoli o corruschi delle varie posizioni di privilegio negli organismi politici, economici, nell’informazione e presunta cultura (che più degenerata di così non si è mai riscontrata in nessun’altra epoca), non ci sono grandi differenze tra presunte sinistre e altrettanto presunte destre.
Vi sono però oggi, e sembrano in crescita (ma difficoltosa), alcune forze, per la maggior parte assegnate alla destra, che vanno considerate parzialmente positive per il loro atteggiamento fortemente critico nei confronti della UE. Alcune manifestano anche attenzione ai rapporti amichevoli con la Russia che, lo ripeto, benché decisamente meno potente della defunta Urss è in crescita e non in declino com’era la (multi)nazione sovietica. Occorrerà tuttavia una lucidità d’analisi che ancora ci manca (e manca secondo me a tutti) per non cadere dalla padella nella brace, favorendo il progetto degli attualmente instabili nuovi centri strategici Usa con la loro probabile tendenza a creare un secondo mondo bipolare, nuovamente cristallizzato in senso tutto sommato favorevole agli americani. Anche perché, se poi questa instabilità della neopresidenza Usa dovesse favorire il ritorno dei vecchi “marpioni”, ci troveremmo nuovamente rafforzata questa ignobile organizzazione europea, il nostro autentico nemico, con le “sinistre” da tenere quale obiettivo principale della lotta anti-UE.
Abbiamo per fortuna, come già rilevato, la Russia in crescita di forza e d’influenza e non in declino come l’Urss. Lasciamo stare la crisi economica che l’attanaglia, problema principe per tutti i limitati economisti che non vedono al di là di tale orizzonte. Gli Stati Uniti della “grande crisi” (per nulla vinta e superata con il New Deal come si narra da sempre) si dimostrarono il capitalismo vincente e, con la seconda guerra mondiale, si lanciarono verso la supremazia mondiale. La Russia odierna può farcela a crescere progressivamente; non è cosa sicura e definitiva, ma piuttosto probabile. Quanto alla Cina, ben venga il suo rafforzamento se ciò implicasse una tensione futura con gli Usa nell’area del Pacifico; questo non potrebbe che indebolire tale paese prepotente. A noi interessa però l’area europea ed è qui che non mi sembrano ancora adeguate le forze anti-UE. Bisogna far perdere di popolarità – il che implica la capacità, al momento minima, di avere in mano importanti strumenti di informazione e di creazione di consenso presso le “imbambolate” popolazioni europee – a tutti i manipolatori di tale consenso per conto dell’UE e dei governi dei paesi ad essa aderenti.
La strategia del caos, messa in atto dall’ultima Amministrazione americana (quella di Obama), ha provocato la massiccia migrazione dall’Africa e dal Medioriente verso l’Europa. Probabilmente, si è trattato, ma solo in parte, di un processo sfuggito di mano; oggi non è solo ampiamente sfruttato da autentici banditi (tipo le ONG e l’Associazione che si fa risalire a Soros) per lucro economico (e che po’ po’ di lucro). Indubbiamente le “sinistre” al governo in Europa cercano di utilizzarlo pure per mantenere il loro potere che sembra in crisi. Come detto in altra occasione, non escluderei nemmeno la segreta intenzione di formare in futuro delle bande criminali in grado di intimorire popolazioni sempre più scontente della crisi, che si va accentuando con simile afflusso a volte somigliante ad un’invasione. Tuttavia, la “mistica” dell’accoglimento, cui si sta prestando anche la nuova dirigenza ecclesiastica cattolica, è causa di divisioni fra i vari governi europei e va corrodendo il consenso un tempo goduto da certe “sinistre”.
Vedremo se nasceranno forze in grado di approfittare del momento per certi versi favorevole. Alle “sinistre” si dovrebbero riservare trattamenti “speciali”, per il momento loro risparmiati da organizzazioni politiche di debole opposizione, ancora rimbecillite dalla lunga stagione in cui si è inseguito semplicemente il favore elettorale, essendo incapaci di comprendere che oggi sarebbero indispensabili ben altri metodi di ottenimento del consenso; non della maggioranza delle popolazioni scisse al loro interno dall’attuale crisi e in cui esiste sempre una grossa quota di indecisi e di inconsapevoli, bensì della parte più incattivita delle stesse, quella in grado di giungere a sufficiente grado di consapevolezza del degrado in atto. La migrazione odierna può ben essere un detonatore di una qualche forza e tuttavia non è sufficiente. Inoltre, non ci si deve fissare sul problema dei migranti in se stesso considerato, ma farne solo motivo di accentuata ostilità contro i “buonisti” di ogni ordine e orientamento.
Per rientrare nell’alveo di una nuova “normalità” finalmente favorevole allo sviluppo (e all’autonomia) dei nostri paesi – ma andando per gradi, conquistando posizioni di potere in alcuni di essi e da lì facendo leva per aggredire le attuali organizzazioni “servili” dell’intera UE – è necessario attraversare un’epoca di violento e distruttivo attacco a queste ultime e a chi le supporta. Non si chiedano voti per traccheggiare con meschino opportunismo; si disgreghino invece le forze politiche (e quelle di manipolazione ideologica) degli avversari (anzi nemici) con il supporto deciso e privo di mediazioni di coloro che non le sopportano più. E’ indispensabile che si entri, come in altre epoche, nello stato d’animo del “o noi o loro”. E deve cadere ogni pietismo più o meno falso, devono rinascere caratteri forgiati all’uso di metodi e strumenti “non gentili” e non adusi a compromessi. Gli attuali establishment dei governi europei, asserviti alla politica americana degli ultimi 70 anni, sono pronti ad impiegare simili metodi, magari con la loro solita ipocrisia e facendo strame della nostra antica civiltà e costumi. La risposta deve essere meno ipocrita e più netta poiché deve ripulire appunto tutta la me…lma accumulata in così tanti anni e decenni. Non si appoggi comunque alcuna lotta “clandestina”, sempre utilizzata dal nemico come gli anni ’70 e ’80 hanno dimostrato. Occorre una furia aperta, un autentico ciclone che tutto spazzi via. Come al solito bisogna concludere: staremo a vedere. Molti sono i dubbi in proposito.

LE RIPERCUSSIONI GEOPOLITICHE DEL BREXIT NEL MEDITERRANEO di Antonio de Martini

LE RIPERCUSSIONI GEOPOLITICHE DEL BREXIT NEL MEDITERRANEO di Antonio de Martini

tratto da https://corrieredellacollera.com/2017/03/30/le-ripercussioni-geopolitiche-del-brexit-nel-mediterraneo-di-antonio-de-martini/#more-33036

Seguendo la logica miserabile che ha contraddistinto questo scorcio di secolo, la maggior parte degli analisti europei si è concentrata sugli aspetti mercantili del divorzio tra Gran Bretagna e l’Europa Continentale e nessuno ha affrontato i nodi geopolitici, specie mediterranei.

Non è la prima volta che l’Inghilterra sceglie la sua strada in contrapposizione al resto dell’Europa. Lo fece al tempo del Magnifico isolamento, Lo ha ripetuto al tempo di Napoleone e di Hitler.

Poiché non siamo in guerra, l’esempio più calzante da esaminare sarebbe quello del Magnifico isolamento,( non a caso i loro giornali titolano “Magnificent moment”) ma senza trascurare il vezzo tutto inglese di fomentare movimenti di secessione e guerriglia o della incentivazione della pirateria, anche con titoli nobiliari che ne hanno sempre caratterizzato le azioni di ampio respiro.

Il Carlyle scrive nel suo “Past and Present” che ” tra tutti i popoli del mondo, presentemente, gli inglesi sono i più sciocchi per la parola e i più saggi per l’azione”.

Cito autori inglesi perché essere tacciati di anglofobia oggi  è come essere accusati di antisemitismo.

In effetti, la Geopolitica inglese ha sempre lavorato sul lungo periodo e utilizzando come agenti principali geografi e antropologi.

Ian Fleming e le bravate di James Bond non hanno mai saputo farle, mentre il fratello di Ian Fleming, Victor, antropologo di valore ha sempre lavorato per l’MI6 in America Latina. Serviva ” uno di famiglia” per rincominciare a rinverdire il blasone, fin dagli anni sessanta.

Le Brigate rosse attinsero a arsenali ex inglesi, non americani. Lo scandalo P2 travolse la massoneria filo americana, ma non sfiorò nemmeno quella di obbedienza inglese.

A via Caetani, il cadavere di Moro fu ritrovato di fronte al numero civico che ospitava   una sede dell’Intelligence Service (la moglie era inglese, di questo parla il senatore Pellegrino nel suo libro su Moro, ma non lo ha detto nessuno.                                                                                                                    Hanno dirottato l’attenzione su Henry Kissinger, ma l’umiliazione di essere battuta al vertice UE di Venezia sul delicato tema palestinese la subì Margaret Tatcher, non l’americano.

Questo, per dire che quel che sto per proporre di analizzare, viene da lontano.

UN PO DI STORIA: STOCCOLMA CONTRO ROMA

Quando, nel 1956, i sei paesi europei continentali decisero di creare la Comunità Economica Europea ( CEE), l’Inghilterra non si limitò a non aderire, ma poco dopo diede vita nel 1960 a una comunità economica concorrente ( EFTA) cui aderirono originariamente Austria, Danimarca, Norvegia,Portogallo, Svezia, Svizzera e, naturalmente il Regno Unito.Furono seguiti, nel 1986, da Islanda e Finlandia. L’atto fu firmato a Stoccolma.

Nel 1961, La G.B. chiese per la prima volta di entrare nel Mercato comune assieme a Irlanda e Danimarca. Dopo un paio di anni di negoziato, nel 1963, De Gaulle espresse i suoi dubbi circa l’effettiva volontà di adesione inglese e i negoziati naufragarono.

La seconda richiesta inglese data dal 1967, anno in cui la Francia negò il suo consenso e i negoziati fallirono. ATTENZIONE: l’anno successivo si verificarono i moti del ’68 miranti a far cadere De Gaulle.

Nel 1969, L’Inghilterra reiterò la richiesta per la terza volta e, Pompidou, succeduto a De Gaulle, accettò, i negoziati durarono tre anni. Il 1 gennaio 1973 l’Inghilterra entra nel MEC e la scelta è confermata nel 1975 da un referendum.

Dopo l’adesione della Gran Bretagna alla Unione Europea, l’EFTA non si sciolse, ma alcuni paesi aderirono e altri mantennero in vita l’organizzazione che ha vivacchiato con sede in Svizzera, accettando l’adesione del granducato del Liechtenstein.

Come paventato da De Gaulle, l’Inghilterra divenne il cavallo di Troia degli USA in Europa( in questo sta la lamentela di perdita di sovranità).                 Poi, preceduta dal “Guardian” che aprì la sua redazione americana ben più grande della casa madre, l’UK iniziò a guardare sempre più agli USA.

Nei tre anni che hanno preceduto il referendum sul Brexit, è scattata l’offensiva del sorriso inglese verso il Mediterraneo  a base di film sulla famiglia reale, la guerra coi turchi ( in cui i turchi fanno sempre bella figura), la regina ormai veneranda che viene a visitare il suo vecchio amico Napolitano snobbando il Papa dove registra un inedito ritardo di mezz’ora; l’ambasciata inglese ospita in contemporanea Grillo e Renzi ecc. Insomma si pone al centro della scena.

Nel 2001 partecipa all’invasione Afgana.

Nel 2003 è lo ” sparring partner” degli USA nell’attacco all’Irak e condivide il bottino.

Nel 2011 partecipa alla campagna libica ” soffiandoci” le risorse petrolifere e ottenendo dal governo fantoccio la prospezione del mar di Cirenaica; Fa nascere il caso Regeni per impedire rapporti conclusivi tra Italia e Egitto, fino a che l’ENI non accetta di spartire la concessione che ha trovato  nelle acque profonde di fronte al delta del Nilo; assume una posizione defilata nella crisi Greca e rinnova le basi di Cipro ( una aerea e di intercettazioni, l’altra navale).

ADESSO CON LA BREXIT L’INGHILTERRA RITORNA NEL MEDITERRANEO

  1. il primo problema a porsi sarà Gibilterra: quale sarà la posizione della Unione Europea verso questo contenzioso? Si schiererà con il partner spagnolo o sosterrà Albione?
  2. La “Secessione Catalana”: sarà certamente una carta in mano agli inglesi che hanno creato e finanziato questa iniziativa condotta da gentucola, ma che rappresenta una poderosa arma di ricatto anche a fronte della possibilità che lo Spagnolo – parlato nel mondo da 440 milioni di persone- possa scalzare l’inglese, parlato da 445.                     Nel settembre 2017 la regione catalana vorrebbe fare un referendum…
  3. Il terrorismo Il TIMES di oggi ha reso chiaramente il pensiero della signora May che ha condizionato la lotta al terrorismo alla stipula di un accordo commerciale preferenziale.
  4. Israele: A Ginevra è di ieri un distinguo dell’ambasciatore inglese contro l’ONU con la dichiarazione che ” le nazioni Unite hanno un partito preso abituale ” sulla questione palestinese.
  5. Egitto e Turchia: L’Inghilterra ha accuratamente evitato di partecipare a tutte le azioni che avrebbero potuto irritare Erdogan e si sta attivando per proteggere  i suoi tradizionali alleati i ” fratelli Mussulmani”anche in Egitto, dove è di fatto alleata con Sissi e coi suoi nemici: A Sissi mostra l’esca della Cirenaica dove l’uomo forte è il suo candidato Haftar e ai fratelli mussulmani offre la mediazione col regime.                                         Ai turchi lo specchietto delle allodole è Cipro e/o le sue risorse promesse a troppi. Come al solito.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        LA PROSSIMA CRISI MEDITERRANEA SARA’ L’ALGERIA                                                                                                                                                              Gli americani non hanno dimenticato che per tutti gli anni settanta l’Algeria ha dato rifugio a Timothy Leary il professore universitario scopritore dell’LSD che sottrasse al monopolio CIA e alle Pantere Nere ( Eldridge Cleaver, Roger Holder, Melvin MCNair, tra gli altri) ricercate negli Stati Uniti  e che costituirono un serio pericolo per il governo americano.  Lo scorso anno la Russia ha minacciato di rendere pan per focaccia agli USA e sono risorte le ” Nuove Pantere Nere ” a seguito delle numerose uccisioni di gente di colore da parte delle forze dell’ordine.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              L’Algeria è il nostro ultimo rifugio di rifornimento indipendente di GAS ed è in costruzione un gasodotto bis che passi per la Sardegna e rifornisca l’Europa.  Poi saremo completamente sottomessi.                                                                                                                                                           La Francia non può partecipare all’attacco per parcellizzare l’Algeria, che è il paese più grande dell’Africa dopo che il Sudan è stato dimezzato,   a causa del gran numero si algerini sul suo territorio. Gli inglesi, si.          Un altro passo avanti nella marcia di integrazione con gli USA dove ormai regnano numerosi borsisti della fondazione Rodhes sostenitore della superiorità della razza anglosassone e del suo predominio nel mondo. Altro che quei microbi di Soros e Gates.

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

link della 1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/natura-morta-di-giuseppe-germinario/

documento congressuale citato: http://www.partitodemocratico.it/congresso-2017/avanti-insiememozione-congressuale-matteo-renzi/

Ci siamo lasciati un mese fa nel bel mezzo del viaggio di riflessione di Renzi negli States con una sospensione di giudizio circa le sue frequentazioni. Si può confermare con ragionevole sicumera che la spregiudicatezza esibita sinora dal personaggio abbia superato da tempo ormai il suo acme; tutto si è risolto e racchiuso nella ristretta cerchia di consiglieri, sostenitori e mentori che ha facilitato la sua sfolgorante ascesa, incapace però di indirizzare proficuamente con sapienza la sua energia prorompente.

Da qui una prima considerazione. Non è sufficiente la lucidità e la chiarezza di obbiettivi individuati da uno staff destinato necessariamente a rimanere nell’ombra e avulso dal contesto politico del paese se non si dispone poi sul campo dell’indispensabile personale politico in grado di tessere appropriate relazioni, di muovere le necessarie energie, di tradurre in strategie e tattiche adeguate tese a scompaginare e ricomporre gli schieramenti e i gruppi di interesse in campo sino a ricostruire una formazione sociale sufficientemente solida, tanto più in un contesto di risorse e di margini economici decisamente ristretti.

Si ripropone in maniera sempre più acuta il problema delle modalità di formazione di una classe dirigente sempre più espressione dei poteri orizzontali dispersi nel paese e formatasi nelle varie realtà amministrative e gestionali locali piuttosto che alimentata da centri e da strutture verticali di potere sempre più logorate ed incapaci di elaborare strategie autonome; queste ultime sempre più mera espressione di indirizzi e strategie esterne al paese nel caso di centri di potere e gestionali, sempre meno in grado di elaborare indirizzi ed obbiettivi generali unificanti nel caso delle grandi associazioni nazionali.

È una delle tante conseguenze deleterie della campagna di smobilitazione della grande industria pubblica, della faciloneria con la quale si è consentita la cessione all’estero della quasi totalità della pur scarna grande industria privata e di buona parte della struttura finanziaria, della dissennatezza con la quale sono stati introdotti principi di federalismo grazie ai quali si è accentuata la disarticolazione dello Stato Centrale e l’infiltrazione delle strutture comunitarie nelle articolazioni periferiche senza la necessaria mediazione e l’indispensabile indirizzo dei centri nazionali.

Assieme al degrado del sistema universitario e all’indebolimento delle scuole nazionali di Pubblica Amministrazione e alla supina integrazione di buona parte delle strutture di comando specie militari, sono tutti fattori che contribuiscono al progressivo inaridimento del bacino da cui attingere personale in grado di elaborare ed operare secondo una visione politica generale con modalità adeguate.

Argomenti per altro già trattati in articoli di alcuni anni fa e che riproporrò su questo sito nel tempo.

A complicare ulteriormente la posizione del nostro è sopraggiunta la serie di indagini giudiziarie che sta intaccando la credibilità del cosiddetto “Giglio Magico”.

Non entrerò nel merito di come l’attuale ordinamento giudiziario, specie nei settori più permeabili della fase istruttoria, agisca pesantemente nel confronto politico, né mi soffermerò sull’evidente protagonismo di alcuni di essi, anche se in parte ridimensionati dalle recenti avocazioni. Preme sottolineare, piuttosto, come tali iniziative siano ormai un preciso segnale dell’indebolimento e del declino di un determinato gruppo dirigente e, soprattutto, evidenzino ancora di più la estrema fragilità degli attuali partiti. L’attuale sommatoria di nuclei dirigenti localistici in perenne competizione impedisce una netta separazione dell’azione politica dall’opera di reperimento e gestione più o meno trasparenti delle risorse, specie economiche. Una separazione che era particolarmente efficace ai tempi dei grandi partiti di massa della prima repubblica; una commistione ed una prossimità invece le quali rendono gli attuali gruppi dirigenti particolarmente esposti a ricatti e scorribande.

Paradossalmente il PD, proprio perché rimane l’unico partito strutturato in buona parte secondo criteri classici e con un radicamento nazionale, sembra ormai soffrire maggiormente di questi limiti, di questa permeabilità e di questa esposizione.

A mio avviso l’attuale dibattito interno, lo scontro politico in atto per la prossima rielezione del segretario vanno collocati in tale contesto.

L’esame delle tre mozioni congressuali interne al partito e dei documenti delle nuove formazioni in via di costituzione alla sua sinistra offrono alcuni spunti di riflessione al riguardo.

Inizio dalla mozione di sostegno a Renzi, a meno di qualche clamoroso incidente di percorso il predestinato alla vittoria nella battaglia politica, per lo meno quella interna al partito.

È l’unica mozione che ribadisce convintamente la necessità di una riorganizzazione istituzionale tesa a rideterminare una gerarchia funzionale delle competenze dello Stato; manca, nel contempo, altresì una qualsivoglia analisi delle ragioni del fallimento della riforma istituzionale legate anche alle contraddizioni intrinseche di quel progetto; un fallimento che rischia di rendere vacua la parziale riorganizzazione delle strutture amministrative comunque in corso. Una carenza di analisi quindi assolutamente non casuale, vista la particolare retorica che impregna l’intero documento.

Si parte dallo scontato atto di accusa rivolto ai “populisti”, entro i quali si accomunano indistintamente e opportunisticamente sovranisti, nazionalisti, razzisti, antiliberisti, comunitaristi e via dicendo, di costruire muri e di perseguire il modello della “chiusura”.

Un espediente retorico tanto semplicistico quanto ormai inefficace visto che non si riconosce attività umana, tanto più quella dell’agire politico, in grado di operare senza delimitazioni e “muri”. Più che dell’esistenza degli stessi, il dibattito risulterebbe meno pleonastico se si riuscisse a discutere concretamente del tipo di “porte” e del tipo di filtri da schierare agli ingressi e alle uscite. Un equivoco in cui l’estensore rischia di rimanere invischiato quando parla di contrapposizione tra limite ed integrazione; ma un limite appunto del quale l’estensore sembra intuire l’esistenza quando parla di “alleanza tra libertà e protezioni” e del “nuovo bisogno di sicurezza e di appartenenza” da soddisfare.

Si tenta quindi un recupero del riconoscimento dell’importanza del principio di identità nel garantire la coesione e la dinamicità di una comunità; un’azione congiunta di promozione dal basso, tesa alla valorizzazione delle comunità locali e dall’alto mirante alla costruzione di una identità europea. Cosa potrebbe essere l’identità europea se non il tentativo di costruzione di una nuova identità nazionale l’autore è lungi dal determinarlo; ciò che risalta alla fine, nella sua assenza, è l’elusione dell’esistenza delle identità e degli stati nazionali vigenti. Non più, quindi, il disconoscimento aperto così pervasivo nella retorica europeista più oltranzista, ma l’aggiramento del problema, tanto più paradossale in quanto dovrebbero essere gli stati nazionali stessi, stando alla nuova prassi instaurata obtorto collo da Renzi, a condurre il processo di proprio esautoramento. Un escamotage che inibirà ancora una volta il pieno utilizzo delle leve statali quantomeno per contrattare una condizione meno supina nell’ambito comunitario e per assumere almeno la consapevolezza del proprio stato di subordinazione; in realtà l’ennesima cortina fumogena che consentirà lo sviluppo del processo funzionalista di polarizzazione condotto attraverso i due livelli, regionale-locale ed eurocomunitario, già in atto da decenni.

L’EUROPA

Secondo il documento ad ogni buon conto si tratterebbe di recuperare, in polemica con i populisti appiattiti sulle pulsioni e con “la miopia di una classe dirigente succube del pensiero tecnocratico”, il valore della politica, la capacità quindi del politico-intellettuale di comprendere, non solo di analizzare freddamente, e di agire collettivamente sulla base di tale comprensione.

A dispetto degli inaspettati richiami gramsciani l’ennesimo disconoscimento della legittimità politica di due correnti di pensiero, populista e tecnocratico, impedisce un corretto confronto politico. Tende, in particolare, al netto delle inerzie proprie delle burocrazie, a sopravalutare l’autonomia politica di questi centri e a evitare il confronto diretto con i reali interlocutori che li indirizzano; attori assolutamente politici.

L’obbiettivo sarebbe la realizzazione di “una convergenza che faccia perno sulle tre più grandi democrazie dell’Eurozona, su un modello originale che concili integrazione e democrazia” adottando “un modello con due livelli di governo distinti, uno federale con un adeguato bilancio da gestire e regole comuni per dare una dimensione davvero europea ai nostri mercati, e uno rinviato alla responsabilità degli Stati, singoli o in forma associata nel Consiglio europeo”; “restituire quindi anima e respiro alle quattro libertà europee – la libera circolazione delle persone, dei prodotti, dei capitali e dei servizi – ritrovando in esse un orizzonte comune, di progresso e crescita”. Per concludere si deve realizzare “il principio di fondo della nostra visione; quello di un’Europa politica e democratica e anche di un’Europa sociale”.

Fine, quindi, della politica di austerità, investimenti in sicurezza, ricerca e cultura svincolati dai tetti di spesa, spesa fiscale comune attraverso una assicurazione europea contro la disoccupazione e per investimenti contro la povertà educativa. Torna in auge la funzione cruciale e prioritaria per la sinistra dell’investimento nel sociale, termine salvifico che giustifica la propria esistenza, ma che innalzata a funzione taumaturgica non fa che relegare ad una pura funzione redistributiva la sua azione politica; una funzione tutt’al più complementare incapace il più delle volte di determinare strategie in grado di preservare la forza e l’autonomia politica di un paese e lo sviluppo e la coesione sociale stessi nel lungo periodo.

Le ricadute nell’economicismo mi sembrano evidenti; lo spirito del documento equivale al tentativo di librarsi di un uccello troppo pesante per poter volare.

L’aspetto puramente politico, la sicurezza stessa dei confini vengono d’altronde giustapposti e ridotti al problema della gestione della immigrazione; a questa, ipocritamente, pare vincolata la proposta di difesa comune “partendo dal nucleo dei grandi paesi fondatori e individuando alcuni obiettivi concreti: rafforzare la collaborazione e la cooperazione; mettere in comune competenze e risorse, sulla base di un modello  condiviso e di un accordo costitutivo per stabilire finalità e modalità operative, al fine di realizzare una forza europea multinazionale, con funzioni e mandato stabiliti insieme, dotata di una struttura di comando e di meccanismi decisionali ed economici comuni; investire in una dimensione europea di integrazione dell’industria della difesa europea; dirigere risorse, umane ed economiche, verso settori strategici quali ad esempio la difesa cyber, il sistema di difesa satellitare e la logistica”.

 Si tratterebbe quest’ultimo in realtà di un passaggio epocale, sempre che non si riveli una rischiosa velleità. Tanto impegno sarebbe legato ad un obbiettivo politico tangibile: “una politica estera europea che, grazie al contributo fondamentale dell’Italia, investa su due aree d’importanza strategica: gestione dei processi migratori e Mediterraneo”.

 

Le lacune e le incongruenze presenti nel documento a mio avviso si infittiscono.

Assegnare un valore strategico alla gestione dei processi migratori e al Mediterraneo porta a confondere le cause con gli effetti. Negli ultimi anni appare evidente l’emersione di un conflitto sempre più manifesto tra Stati Uniti e Russia e sempre meno latente tra i primi e la Cina. All’interno di questo si inseriscono le dinamiche di emersione di potenze regionali, l’esplosione di conflitti regionali, l’avvio di potenti processi di riorganizzazione sociale ed economica che inducono tra l’altro a colossali movimenti migratori che si incanalano lungo corridoi resi più agibili dalla dissoluzione per lo più indotta di alcuni stati nazionali. La Libia, la Siria, l’Ucraina, il Sudan, la Bosnia sono gli esempi e le vittime più lampanti. Il terreno di confronto tra Russia ed USA vede l’Europa come teatro principale e all’interno di esso i vari paesi europei, in particolare i loro centri dominanti, hanno trovato accomodamenti più o meno convenienti. La Germania ha trovato il modo di conciliare con l’establishment americano le proprie ambizioni di estensione dell’area di influenza nella regione balcanica e nell’Europa Orientale, sacrificando al momento e per una lunga fase una prospettiva di politica più autonoma del tutto impraticabile senza una riconciliazione con la Russia; i paesi scandinavi e gran parte dei paesi dell’Europa orientale e nord-orientale hanno rispolverato ambizioni ed ostilità russofobe, sopite per quasi due secoli e assecondato di conseguenza l’espansionismo americano; l’Italia tra i paesi mediterranei ed in gran parte la Francia hanno sacrificato anche i propri interessi immediati in nome della pedissequa fedeltà atlantica con la prima ridotta ormai a terra di conquista dei propri amici alleati. L’avvento di Trump avrebbe dovuto rappresentare una occasione di recupero di rapporti accettabili con la Russia e di un’opportunità di recupero di una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. Tanto l’aperta ostilità della Merkel verso il nuovo Presidente americano, invece, rivela la solidità degli interessi di breve periodo di quella classe dirigente e la sua speranza di un rapido ripristino del vecchio ordine nel paese egemone quanto il significativo silenzio del nostro rivela invece la debolezza e la subordinazione costosa per il nostro paese della nostra classe dirigente all’ordine precedente. Non si vede, quindi, come si possa ambire ad una difesa comune senza aver definito una altrettanto area comune di interesse e conduzione politica che ponga fine, in primo luogo, alla destabilizzazione di impronta preminentemente americana dei numerosi stati ai bordi delle aree di influenza. La stessa creazione di un unico complesso militare-industriale è quanto di più lontano si possa immaginare dalla dinamica di un libero mercato e presuppone un ruolo attivo e potente di concertazione dei vari stati nazionali.

Gli investimenti cosiddetti sociali ed una politica adeguata di investimenti infrastrutturali comunitari, altro cavallo di battaglia ricorrente, presuppongono una capacità fiscale almeno quindici volte maggiore dell’attuale senza che nessuno evidenzi le implicazioni di questo eventuale enorme trasferimento di risorse dai bilanci degli stati nazionali, data l’impraticabilità di un ulteriore incremento massivo del carico fiscale.

Basterebbe ricordare che gli Stati Uniti raggiunsero la piena condizione di stato federale dopo oltre un secolo dall’indipendenza, dopo una sanguinosa guerra civile e con il repentino passaggio del carico fiscale dall’otto a quasi il trenta per cento del prodotto interno a fine ottocento.

Gli stessi investimenti strutturali europei tra l’altro, così come concepiti sull’altare del tabù della concorrenza, secondo una letteratura ormai consolidata ma poco considerata in Italia, sono un’arma ambivalente che può accentuare anziché ridurre gli squilibri, desertificare piuttosto che ripopolare gli insediamenti produttivi, inibire lo sviluppo di una imprenditoria locale radicata.

Un dibattito aperto sul merito farebbe vacillare un altro totem indiscusso della retorica europeista.

Sono tutte ambiguità e rimozioni che servono a glissare sul peccato originale dell’attuale costruzione europea. Il suo carattere prettamente economicista e velleitariamente federalista offusca il dato che l’Unione Europea è nata sulle ceneri di una sconfitta militare dei paesi europei e sulla base di una alleanza militare che sancisce il predominio americano su di essa, così come esplicitamente definito per altro nei trattati; nasconde surrettiziamente le dinamiche di competizione e di prevalenza tra stati comunque presenti all’interno di essa; rimuove l’unica possibilità di costruzione europea che renda più trasparenti questi rapporti e agevoli un processo di emancipazione dalla sudditanza scaturita dagli esiti della seconda guerra mondiale e dalla fine della Guerra Fredda: quella confederale limitata ad un numero più ristretto di attori europei.

La ristrettezza del cerchio di frequentazioni di Renzi non è quindi casuale; rappresenta l’indice dei rigidi vincoli entro cui intende e può muoversi.

 

IL PAESE

 

La rigidità dei vincoli non è però sinonimo di immobilismo, tutt’altro. L’agenda del candidato è fitta di appuntamenti e di propositi riformatori che comunque godono di una dinamica insolita rispetto al passato.

Il welfare di cittadinanza piuttosto che di settori e di corporazioni, l’intervento assistenziale attivo, teso all’inserimento produttivo, la garanzia di reddito minimo, in particolare pensionistico, di fatto contrapposto al sistema contributivo delle pensioni, l’attenzione dichiarata e sancita al cosiddetto terzo settore legato in prevalenza ai servizi alla persona, gli investimenti nella logistica, la riforma scolastica ed universitaria sono programmi, buona parte dei quali in fase di attuazione, che stanno rivoluzionando gli assetti organizzativi e sociali e di conseguenza modificando le modalità di aderenza e di controllo pervasivo del ceto politico sulle strutture e negli apparati. Lo stesso riconoscimento di cittadinanza ai ceti professionali autonomi finalmente acquisito politicamente nel PD è un altro segno evidente della svolta, tradottosi anche nella recente legge

Si tratta di una dinamica cui Renzi ha dato una spinta decisiva, anche se scomposta, ma che aveva cominciato a delinearsi chiaramente già da sette anni, a partire dai seminari di Todi del 2011 promossi dalla Conferenza Episcopale con i quali aveva preso forma compiuta in Italia il processo di esautoramento del Governo Berlusconi. Una spinta che avrebbe dovuto portare alla creazione di una nuova DC; fallita miseramente quell’ipotesi il baricentro di quella iniziativa si è riposizionato prontamente nel PD.

Una dinamica potenzialmente ambivalente ma che rischia di assumere sempre più le caratteristiche di uno nuovo sistema di servizi di tipo parassitario e assistenziale di supporto ad un assetto sociale ed economico più precario e meno autonomo nella determinazione delle strategie. Tutto dipende dalla collocazione internazionale che si intende accettare e dalle strategie economiche che si intende perseguire. Delle prime ho accennato sopra; sulle seconde ho già accennato in altri articoli.

Le dinamiche del conflitto interno al PD sono per altro il riflesso di questo rischio.

Le tesi sostengono di puntare su turismo, edilizia ed esportazioni, qualcosa di non molto diverso dall’impronta Einaudiana data al sistema economico italiano degli anni ‘50; in realtà lo schema, già in fase avanzata di realizzazione, prevede il parziale controllo dei presidi sul territorio e la cessione a terzi esterni al paese del controllo strategico di gran parte delle reti e non fa che assecondare e accentuare le tendenze del cosiddetto libero mercato.

Come si possa essere “artefici del proprio destino” delegandone la supervisione ad altri rinunciando per altro alle leve necessarie a contrattare una compartecipazione resta un mistero.

Sindacare sul rigore di un documento può sembrare pedante e poco generoso rispetto ad una situazione talmente intricata e complessa. La coerenza di fondo può rivelarne però i limiti e le finalità effettive che possono anche prescindere dalle intenzioni soggettive.

La contingenza politica, per di più, sta costringendo Renzi al tentativo di bloccare l’erosione a sinistra, snaturando e paralizzando i propri propositi riformatori.  I richiami a Gramsci, la rivendicazione ostentata del carattere di sinistra della sua azione sono una manifestazione evidente del peso dei retaggi. Dopo le rivisitazioni subite nella sinistra latino-americana, in Podemos e in Siriza, all’intellettuale e politico sardo tocca subire anche questo ulteriore scempio, seguito alle persecuzioni fasciste.

Il PD rischia alla fine di diventare per Renzi più che un veicolo, una gabbia che rischia di soffocarlo definitivamente contribuendo in tal modo al sorgere di una terza fase più convulsa della battaglia politica. Gran parte del personale politico raccolto da Renzi, del resto, è stato coltivato dalle tre precedenti gestioni del partito sulla base di esperienze prevalentemente territoriali e localiste.

Nella terza parte dell’articolo vedremo quindi come gran parte dei suoi oppositori interni ed esterni della sinistra rappresentino un fattore di freno ulteriore e di impaludamento della situazione; in particolare vedremo come lo schema classista, quello che oppone sfruttati e sfruttatori, ricchi e poveri, forti e deboli alla base della loro azione politica offra una chiave esclusiva di lettura che impedisce di individuare le dinamiche di conflitto e cooperazione e la composizione delle forze in campo; ostacola la difesa stessa delle condizioni di vita degli strati più popolari impedendo il loro inserimento consapevole in un blocco sociale più dinamico e promettente.

LE FACCE DELLA DEMOCRAZIA NELLA FASE MULTIPOLARE DI LUIGI LONGO, tratto dal sito www.conflittiestrategie.it del 14set2016

Mi fa male qualsiasi tipo di potere, quello conosciuto, ma anche quello sconosciuto, sotterraneo, che poi è il vero potere. Mi fanno male le oscillazioni e i rovesci misteriosi dell’alta finanza. Più che male mi fanno paura, perché mi sento nel buio, non vedo le facce. Nessuno ne parla, nessuno sa niente: sono gli intoccabili. Facce misteriose che tirano le fila di un meccanismo invisibile, talmente al di sopra di noi da farci sentire legittimamente esclusi. È lì, in chissà quali magici e ovattati saloni che a voce bassa e con modi raffinati si decidono le sorti del nostro mondo: dalle guerre di liberazione, ai grandi monopoli, dalle crisi economiche, alle cadute dei muri, ai massacri più efferati.

Mi fa male quando mi portano il certificato elettorale.

Mi fa male la democrazia, questa democrazia che è l’unica che io conosco.

Mi fa male la prima repubblica, la seconda, la terza, la quarta.

Mi fanno male i partiti, più che altro… tutti.

 Mi fanno male i politici, sempre più viscidi, sempre più brutti. Mi fanno male i loro modi accomodanti, imbecilli, ruffiani. E come sono vicini a noi elettori, come ci ringraziano, come ci amano. Ma sì, io vorrei anche dei bacini, dei morsi sul collo… per capire bene che lo sto prendendo nel culo. Tutti, tutti, l’abbiamo sempre preso nel culo… da quelli di prima, da quelli di ora, da tutti quelli che fanno il mestiere della politica.

Che ogni giorno sono lì a farsi vedere. Ma certo, hanno bisogno di noi che li dobbiamo appoggiare, preferire, li dobbiamo votare, in questo ignobile carosello, in questo grande e libero mercato delle facce… facce, facce, facce che lasciano intendere di sapere tutto e non dicono niente.

Facce che non sanno niente e dicono… di tutto!

Facce suadenti e cordiali, col sorriso di plastica.

Facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo.

Facce compiaciute, vanitose, che si auto incensano come vecchie baldracche.

Facce da galera, che non sopportano la galera e si danno malati.

Facce che dietro le belle frasi hanno un passato vergognoso da nascondere.

Facce da bar che ti aggrediscono con un delirio di sputi e di idiozie.

Facce megalomani, da ducetti dilettanti.

Facce ciniche da scuola di partito, allenate ai sotterfugi e ai colpi bassi.

Facce che hanno sempre la risposta pronta e non trovi mai il tempo di mandarle a fare in culo!

Facce che straboccano solidarietà.

Facce da mafiosi, che combattono la mafia.

Facce da servi intellettuali, da servi gallonati, facce da servi e basta.

Facce scolpite nella pietra che con grande autorevolezza sparano cazzate!

Non c’è neanche una faccia, neanche una che abbia dentro il segno di qualsiasi ideale. Una faccia che ricordi il coraggio, il rigore, l’esilio, la galera. No, c’è solo l’egoismo incontrollato, la smania di affermarsi, il potere, il denaro, l’avidità più schifosa, dentro a queste facce impotenti e assetate di potere.

Facce che ogni giorno assaltano la mia faccia in balia di tutti questi nessuno.

E voi credete ancora che contino le idee? Ma quali idee…

La cosa che mi fa più male è vedere le nostre facce con dentro le ferite di tutte le battaglie che non abbiamo fatto.

E mi fa ancora più male vedere le facce dei nostri figli con la stanchezza anticipata di ciò che non troveranno.

Sì, abbiamo lasciato in eredità forse un normale benessere, ma non abbiamo potuto lasciare quello che abbiamo dimenticato di combattere e quello che abbiamo dimenticato di sognare.

Bisogna assolutamente trovare il coraggio di abbandonare i nostri meschini egoismi e cercare un nuovo slancio collettivo magari scaturito proprio dalle cose che ci fanno male, dai disagi quotidiani, dalle insofferenze comuni, dal nostro rifiuto! Perché un uomo solo che grida il suo no, è un pazzo. Milioni di uomini che gridano lo stesso no, avrebbero la possibilità di cambiare veramente il mondo.

Giorgio Gaber*

Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri. Noi ci tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e le orecchie, per poter negare l’esistenza dei mostri […]

Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi.

Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale[ ?, mio interrogativo], può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi.

 

                                                                                                                                  Karl Marx*

 

 

1.Premessa

 

Stiamo entrando con sempre maggiore decisione nella fase multipolare che delinea con più chiarezza le potenze (Russia e Cina) che mettono in discussione l’attuale egemonia mondiale degli USA. Si confrontano configurazioni di poli di potenze con visioni, culture e strategie diverse nell’intendere le relazioni mondiali. Ricordo che sto parlando di potenze mondiali come espressione di capitalismi diversi e di agenti strategici dominanti con una loro visione di potere e di dominio, sia nazionale sia mondiale, storicamente dati. Non parlo di nazioni e di relazioni tra nazioni come espressione di soggetti portatori di un’altra visione di relazioni sociali e di rapporti sociali che si confrontano in una logica multilaterale e multiculturale ( i termini vogliono semplicemente indicare un confronto tra mondi e culture diversi): in questo tempo e in questo spazio storico, i soggetti portatori non esistono; forse storicamente essi non sono mai esistiti nella polis democratica di Atene né nei populares dell’antica Roma, né nella Comune di Parigi del 1871 né nella rivoluzione russa del Novembre 1917.

Comunque va sottolineato che la Russia e la Cina sono per un mondo multilaterale, per un mondo relazionale mentre gli USA sono per un mondo unilaterale e sono ferocemente determinati ( la loro strategia del caos mondiale lo sta a dimostrare: oggi, in particolare, in Siria, in Libia, in Turchia ) a contrastare l’inizio del loro declino egemonico e a rilanciare una nuova sfida con una nuova visione delle relazioni mondiali che abbia come centro di coordinamento gli USA; così Zbigniew Brzezinski: << Come la sua epoca di dominio globale finisce, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale […] La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale […] Il fatto è che non c’è mai stata una vera e propria potenza “dominate” globale fino alla comparsa dell’America (gli Stati Uniti, mia precisazione) sulla scena mondiale. La nuova, determinante realtà globale è stata la comparsa sulla scena mondiale dell’America come giocatore allo stesso tempo più ricco e militarmente più potente. Durante l’ultima parte del 20° secolo nessuna altra potenza gli si è nemmeno avvicinata. Quell’epoca sta ormai per finire ( corsivo mio) >> (1). Robert Kagan precisa che per gli USA il << […] “multilateralismo” indica una politica volta a sollecitare attivamente e ottenere l’appoggio degli alleati. Gran parte degli americani, persino coloro che si dichiarano “multilateralisti”, considera l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sempre desiderabile ma mai essenziale (“multilaterale se possibile, unilaterale se necessario”, corsivo mio). Si tratta, insomma, di un mezzo per raggiungere il fine, cioè l’appoggio degli alleati. Per la stragrande maggioranza degli americani il multilateralismo non è un fine in se stesso >> (2). Joseph Nye afferma << Il National Intelligence Council […] ha pubblicato un rapporto in cui si prevede che nel 2030 gli Stati Uniti saranno ancora il paese più potente al mondo, ma non ci saranno paesi “egemoni”. La fase unipolare è finita, e gli Stati Uniti non saranno potenti come in passato. Tuttavia, un certo declino relativo non significa la fine dell’era americana >> (3). Costanzo Preve chiarisce << Per dirla in modo chiaro, la speranza che in un futuro non troppo lontano i rapporti fra Europa ed USA possano passare dal nesso fastidioso e diseguale Unilateralismo/Subalternità al nesso virtuoso Partnership/Eguaglianza fra i Contraenti è a mio avviso privo di fondamento, perché l’Americanismo è un Progetto Messianico, mentre l’identità culturale europea di oggi, comunque la vogliamo declinare e comunque vogliamo elencarne le cosiddette “componenti storiche”, non è un progetto messianico, ma un Progetto Relazionale. E chi non capisce la differenza qualitativa fra Progetto Messianico, strutturalmente unilaterale, ed un Progetto Relazionale, strutturalmente multilaterale, non può effettivamente cogliere il bandolo della matassa ( corsivo mio) […]>> (4).

Nella fase multipolare il ruolo dello Stato con le sue articolazioni territoriali, inteso come luogo dove gli agenti strategici dominanti esercitano la propria egemonia di potere e di dominio in una situazione di equilibrio dinamico, diventa meno flessibile e agisce in una logica di accentramento dei poteri in tutte le sfere sociali, in particolare in quella politica, istituzionale e militare, mettendo mani formalmente alle Costituzioni nazionali.

Al contrario, nella fase unipolare, la presenza di un centro di coordinamento garantisce più libertà di movimento; né è un esempio la storia occidentale ad egemonia USA che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine del secolo scorso; altra cosa è la storia orientale dell’URSS durante la guerra fredda con le sue sfere di influenza, dove la rigidità del sistema a socialismo irrealizzato ha assunto ben altre caratteristiche di potere e di dominio ( sarebbe utile approfondire e produrre un’analisi comparata sulla costruzione storicamente data dello Stato da parte degli agenti strategici dominanti delle due potenze mondiali protagoniste dell’intero Novecento fino all’implosione dell’ex URSS avvenuta formalmente nel periodo gennaio 1990 – dicembre 1991) (5).

In questa fase multipolare in Italia si sta verificando quanto segue: << […] A Pisa, dove due anni fa è stato costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito (Comfose), si sono intensificati da mesi i voli dei C-130J che partono per ignote destinazioni carichi di armi e rifornimenti. Tali operazioni sono segretamente autorizzate dal presidente Renzi scavalcando il parlamento. L’articolo 7 bis della legge n. 198/2015 sulla proroga delle missioni militari all’estero conferisce al presidente del consiglio facoltà di adottare << misure di intelligence di contrasto, in situazioni di crisi, con la cooperazione di forze speciali della Difesa con i conseguenti assetti di supporto della Difesa stessa >>, col solo obbligo di riferire formalmente al << Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica >>. In altre parole, il presidente del consiglio ha in mano forze speciali e servizi di intelligence da usare in operazioni segrete, con il supporto dell’intero apparato militare. Un potere personale anticostituzionale, potenzialmente pericoloso anche sul piano interno. […] il presidente del consiglio Renzi, nel quadro della strategia USA/Nato, porta l’Italia in altre guerre e a una crescente spesa militare a scapito delle esigenze vitali del paese. Spesa a cui si aggiunge quella segreta per le operazioni militari segrete da lui ordinate.>> (6).

Per quanto riguarda la riforma costituzionale, oggetto di referendum prossimo, Alessandro Pace afferma che << […] In definitiva il d.d.l Renzi privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega, come già detto, l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.
Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai difficili raccordi del Senato delle autonomie con lo Stato, con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) e infine con l’Unione europea >> (7). Questi due esempi di accentramento dei poteri in atto vanno inquadrati nella questione di servitù volontaria italiana (ed europea) alla potenza mondiale degli Stati Uniti. Se non si affronterà la questione dell’autonomia nazionale, fondante e prioritaria, non si capiranno nè il progetto di ri-costruzione di una Europa come soggetto politico, intesa come federazione di Stati, che dialoga con l’Occidente e con l’Oriente; nè l’accentramento dei poteri in atto (sia nelle istituzioni nazionali sia nelle istituzioni mondiali) al servizio delle strategie statunitensi per ritardare il loro declino e ri-lanciare su basi diverse un nuovo disegno mondiale di egemonia che può prevedere, in una prima fase, un Progetto Relazionale ( il conflitto delle elezioni presidenziali statunitensi si gioca tra il progetto messianico di Hillary Rodham Clinton e il progetto relazionale di Donald Trump. Mi auguro che vinca Donald Trump.).

Niccolò Machiavelli scrive: << E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate da la fortuna e da Dio che li uomini, con la prudenza loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì fuora di ogni umana coniettura, a che pensando io, qualche volta mi sono in qualche parte inclinato nelle opinioni loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assimiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che quando si adirano allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifici, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E benchè sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessimo fare provvedimento e con ripari e con argini in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle e quivi volta e’ sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla. E se voi considerrete la Italia che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcun riparo, che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande che la ha o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti aver detto quanto allo opporsi alla fortuna in universali >> (8).

 

 

  1. Facce della democrazia

 

Parlerò delle facce della democrazia nella fase multipolare attraverso due esempi.

Il primo esempio riguarda la potenza mondiale USA ad egemonia declinante con le facce dei Clinton nell’esperimento del Kosovo tratto dal libro di Diana Johnstone (Hillary Clinton, regina del caos, Zambon editore, Francoforte sul Meno, 2016, pp.146-149).

Il secondo esempio concerne l’Italia, territorio geografico espressione degli USA, con le facce del tribunale di Torino che ha condannato a due mesi di carcere con la condizionale una ex studentessa del corso di Laurea Magistrale in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica (interateneo) della Università Ca’ Foscari di Venezia per aver usato il noi partecipativo nello scrivere la tesi di laurea su << Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità >>. Il fatto è tratto dall’appello di libertà di ricerca e di pensiero << Mai scrivere “noi” >> pubblicato sul sito www.effimera.org.

Quattro precisazioni a mò di chiarezza.

La prima. Intendo le facce delle persone come espressione delle relazioni sociali ( le maschere sociali) e come funzioni che svolgono nei rapporti sociali storicamente dati (le funzioni-tipo) (9).

La seconda. Non condivido le analisi e la lotta del movimento NO TAV perché stanno tutte nella logica del conflitto capitale-economia, capitale-natura, capitale-territorio e per capire il processo di infrastrutturazione del territorio nazionale ed europeo, in questa fase multipolare funzionale alle strategie degli USA-NATO, occorre mettersi nel campo del conflitto strategico (10).

La terza. Difendo la libertà di pensiero e di ricerca, per quella che ci è concessa individualmente e per quella che si riesce a conquistare socialmente, soprattutto nelle università italiane dove, dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, è stata sempre più ridotta fino ad essere eliminata. La difendo a prescindere dal fatto che oggi nelle Università italiane non si fa quasi più ricerca.

La quarta. Non credo nella separazione dei poteri come bilanciamento delle storture e degli abusi di potere e di dominio da parte degli agenti strategici. Credo nella costituzione di agenti strategici delle sfere sociali che lottano per la propria egemonia e trovano nei luoghi istituzionali ( lo stato con le sue ramificazioni territoriali) l’equilibrio dinamico atto ad affermare la propria visione sociale, la realizzazione del modello di sviluppo sociale, la gestione del proprio potere ( le singole sfere sociali) e la strategia del proprio dominio ( l’insieme delle relazioni sociali ) sia interno (nazionale) sia esterno (mondiale).

 

 

2.1 L’esperimento del Kosovo

 

Durante la presidenza Clinton, tra il 1993 e il 2000, la Jugoslavia fu utilizzata dall’establishment della politica estera come laboratorio sperimentale per il collaudo di tecniche di controllo, sovversione e “regime change” a opera degli Stati Uniti destinate a essere poi impiegate altrove. L’uso della Jugoslavia come una mini-URSS, con la Serbia nella parte della Russia, e la frantumazione della Jugoslavia e quindi della Serbia stessa ( attraverso il distacco del Kosovo) costituirono la prova generale del processo che abbiamo recentemente visto all’opera in Ucraina, con la Russia come obiettivo.

Vi si possono ravvisare le stesse tecniche:

 

Hitlerizzazione. L’aggressione inizia come guerra di propaganda, condotta da media mainstream organicamente legati a esponenti governativi e think tank di primo piano. Nella prima fase, il paese preso di mira scompare praticamente sotto l’ombra del suo leader, bollato come “dittatore” ( anche se regolarmente eletto), che viene raffigurato come l’incarnazione del male sulla terra e che “ se ne deve andare”. La parte del nuovo Hitler è stata affibbiata alle personalità più diverse quali Slobodan Milosevic’, Saddam Hussein, Muhammar Gheddafi, Bashar al-Assad e ora Vladimir Putin.

 

Sanzioni. Le sanzioni economiche contro l’Hitler di turno servono a stigmatizzare il malvagio, a destabilizzare le sue relazioni e ad arruolare gli alleati interni che esitano ancora a ricorrere alle armi ma sono disposti ad accettare questo presunto metodo “pacifico” per fargli cambiare atteggiamento. Una volta fallite le sanzioni, l’opinione pubblica è ormai stata preparata a considerare “necessario” l’uso della forza militare.

 

Clienti locali. Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di alleanze con i peggiori elementi degli Stati presi di mira, forze che non si fermano davanti a nulla. In Serbia, gli Stati Uniti fornirono sostegno politico e militare a criminali senza scrupoli. Nei paesi musulmani, gli USA hanno appoggiato e armato fanatici islamici. In Ucraina, la campagna anti-russa poggia sul controllo delle piazze da parte di miliziani nazisti impenitenti.

 

ONG dei diritti umani. Le cosiddette Organizzazioni Non-Governative, che in realtà sono strettamente legate o perfino finanziate direttamente dal governo USA ( in particolare dal National Endowment for Democracy e dalle sue filiali), svolgono una funzione centrale nel presentarsi come l’incarnazione della vera democrazia strangolata dall’”Hitler” nel mirino, quando la polizia interviene contro i disordini provocati dai “veri democratici”. Gli scenari elaborati dal politologo Gene Sharp sulla base delle esperienze di movimenti rivoluzionari o progressisti vengono utilizzati come manuale di addestramento in vista di azioni atte a suscitare simpatia provocando la repressione dello Stato, e prive di qualunque contenuto politico al di là dell’opposizione al leader in carica. Le agitazioni messe in atto in Serbia dal gruppo giovanile “Otpor”, addestrato a Budapest da specialisti USA, costituirono un modello che venne in seguito adattato alle “rivoluzioni colorate” successive.

 

Sabotaggio della diplomazia. Per preparare la guerra in Kosovo, il Segretario di Stato Madeleine Albright organizzò falsi negoziati tra il governo jugoslavo e i nazionalisti albanesi del Kosovo nel castello di Rambouillet, mantenendo segregate le due parti, sostituendo il capo della delegazione albanese professor Ibrahim Rugova con il suo cliente, il criminale Hashim Thaci, e presentando un ultimatum (totale occupazione militare della Serbia) che obbligò i serbi a rifiutare e ad assumersi così la responsabilità del “rifiuto di negoziare”. E’ ormai un’abitudine per i rappresentanti USA alle Nazioni Unite sabotare i negoziati ricorrendo a filippiche, insulti e bugie.

 

Criminalizzazione. In relazione al conflitto in Jugoslavia, l’influenza preponderante degli Stati Uniti consentì a Washington di dare inizio alla pratica dell’uso dei tribunali internazionali per trattare i nemici alla stregua di criminali comuni invece che come avversari politici. Il concetto di “impresa criminale collettiva” (“joint criminal enterprise”), utilizzato nel diritto penale statunitense contro la mafia, fu introdotto nel Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, creato ad hoc, per essere applicato ai serbi, con il presupposto implicito che la semplice difesa degli interessi serbi costituiva un crimine. In seguito, gli Stati Uniti sono riusciti a influenzare la Corte Penale Internazionale ( alla quale gli USA stessi non aderiscono) perché incriminasse nemici quali Muhammar Gheddafi sulla base di accuse prive di fondamento. Questa procedura contribuisce a escludere a priori ogni negoziato di pace, dal momento che, si sostiene, non è possibile negoziare con un criminale sotto accusa.

 

Spauracchio del “genocidio”. Ogni qual volta gli Stati Uniti prendono posizione in un conflitto etnico o politico in atto in una data regione, la procedura abituale consiste nell’accusare la parte avversa di tramare di “genocidio”. Tale accusa esclude la possibilità che entrambe le parti stiano combattendo per raggiungere specifici obiettivi territoriali o politici che, se adeguatamente compresi, potrebbero essere oggetto di mediazioni.

 

Media e propaganda. La chiave dell’intero sistema di aggressione è costituita dalla padronanza con cui gli Stati Uniti maneggiano un enorme apparato di propaganda, incentrato sui media mainstream. La colonna sonora è fornita dall’industria dello spettacolo, in particolare da Hollywood, che sforna a getto continuo prodotti che glorificano l’uso della violenza per schiacciare il nemico. I videogiochi rappresentano un potente nuovo strumento atto a rendere normale l’istinto omicida. Realtà e finzione si fondono nelle fantasie visive di innumerevoli battaglie tra il Bene e il Male, confezionate e vendute al pubblico americano.

 

Bombardamento. Questa è l’argomentazione decisiva, la spada di Damocle che pende su qualunque controversia. Per il Pentagono, la NATO, la CIA, la NED, i media mainstream e l’establishment della politica estera USA, la guerra del Kosovo costituì un’ottima esperienza didattica, un terreno di prova, un allenamento per future avventure. Fu la “guerra per fare le guerre”.

 

Per i Clinton, il Kosovo rappresentò un diversivo rispetto ai loro scandali privati e un’occasione per salire sul palcoscenico delle grandi questioni mondiali. In Kosovo, Bill Clinton è venerato come il padre fondatore di questo piccolo protettorato USA strappato alla Serbia. Una statua dorata alta tre metri del benefattore venuto dall’Arkansas saluta i passanti in viale Bill Clinton, nei pressi di una boutique chiamata “Hillary”. Mentre nel mondo gli Stati Uniti sono sempre più odiati per i loro interventi militari e il loro incessante bullismo, questo intervento ha creato un’enclave di fanatici filoamericani. Durante la sua visita a Pristina nel 2010, il Segretario di Stato Hillary Clinton ebbe modo di crogiolarsi nell’adulazione. Il fatto che i paesi più entusiasticamente filoamericani del pianeta siano oggi il Kosovo e l’Albania la dice lunga sul declino degli USA agli occhi del mondo. Non è qualcosa di cui andare fieri.

 

 

2.2 Mai scrivere “noi”

 

Il 15 giugno 2016, il tribunale di Torino ha condannato Roberta, ex studentessa di antropologia di Ca’ Foscari, a 2 mesi di carcere con la condizionale per i contenuti della sua testi di laurea, conseguita nel 2014. Per scrivere la tesi «Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità», Roberta ha trascorso due mesi sul campo durante l’estate del 2013, ha partecipato a varie dimostrazioni in Valsusa, intervistando attivisti e cittadini. Coinvolta insieme a lei in questo procedimento giudiziario era Franca, dottoranda dell’Università della Calabria, che come Roberta era in Valle per ragioni di ricerca, che compare con Roberta nei video e nelle foto analizzati dalla procura ma che a differenza di Roberta è stata assolta da tutti i capi d’imputazione. A differenza di Franca, Roberta è stata condannata a 2 mesi di reclusione con la condizionale. Nonostante le motivazioni della sentenza saranno rese pubbliche tra 30 giorni, la ragione della sua condanna è stata attribuita all’utilizzo, nella sua tesi di laurea, del “noi partecipativo” interpretato dall’accusa come “concorso morale” ai reati contestati. Di fatto, i video e le foto scattate durante le manifestazioni parlano chiaro: le due donne sono lì, presenti, anche se in disparte. È stato dimostrato in tribunale che nessuna delle due imputate ha preso parte a momenti di tensione. Né bisogna dire che tutti i momenti di tensione contestati dall’accusa hanno trovato riscontro nel materiale video fotografico acquisito dalla procura. Durante l’azione dimostrativa tenutasi davanti alla ditta Itinera di Salbertrand che fornisce il cemento al cantiere di Chiomonte le due ragazze partecipano ma rimangono ai margini. Di sicuro il pm Antonio Rinaudo ha chiesto 9 mesi per entrambe, ma mentre Franca è stata assolta da tutti i capi d’imputazione, Roberta è stata condannata. Roberta, infatti, avrebbe dimostrato un “concorso morale” con le condotte contestate dall’accusa, non a caso in alcuni passaggi della sua tesi raccontò l’accaduto in prima persona plurale. Quello che per la difesa era un “espediente narrativo” – nella ricerca etnografica il posizionamento del ricercatore rispetto all’oggetto della ricerca è una scelta soggettiva che fa parte di ciò che si chiama storytelling – diventa, per l’accusa, la prova di collusione rispetto ai reati contestati.

Siamo indignati: che ci risulti, è la prima volta dal 25 aprile 1945 che una tesi di laurea viene considerata oggetto di reato e subisce una condanna. Ci domandiamo, increduli, quale perversione attraversi un paese che porta nelle aule di un tribunale le parole di una tesi di laurea. Ci sconvolge che tutte le tesi di laurea siano potenzialmente oggetto delle letture inquisitorie dei magistrati e che la Procura di Torino si senta legittimata a sanzionare penalmente l’uso di un pronome personale a tutti gli effetti fondante della grammatica italiana quando usato in riferimento a un tema politico ad essa non gradito. L’accusa di “concorso morale” in riferimento all’analisi situata di un problema politico va intesa come sintomo dell’accanimento contro chiunque osi raccontare quanto avviene in Val di Susa senza criminalizzare la determinazione di una comunità a lottare contro la devastazione del suolo, della salute dell’ambiente e del territorio. Ricordiamo che all’interno dello stesso procedimento altre 45 persone, tra cui 15 minorenni, sono state rinviate a giudizio. Questa storia va intesa inoltre per ciò che è: un inaccettabile atto intimidatorio contro la libertà di pensiero e la libertà di ricerca, ancor più grave in quanto portato avanti contro giovani studenti accusati di mettere troppa passione in ciò che fanno e minacciati di essere pesantemente sanzionati se prendono posizione, “partecipano” o osano fare politica.

Rivolgiamo questo appello in modo particolare al mondo universitario italiano per rompere il silenzio e denunciare la violazione della libertà di ricerca e di opinione. Nessuno dei classici difensori delle libertà democratiche si è fatto, fino a ora, sentire. Nessun esponente di rilievo del mondo accademico né del ministero dell’Università e della Ricerca ha ritenuto necessario dover rilasciare una dichiarazione. Vogliamo rivolgerci in particolare al mondo accademico per chiedere quanto a lungo intenda accettare esplicite intimidazioni e minacce di ritorsioni. Se il fine di questo processo è sigillare la colpevolezza di chi racconta le ragioni di chi lotta contro la violenza e i soprusi, siamo tutti colpevoli. “Per uno scrittore il reato di opinione è un onore” ha scritto Erri De Luca, il primo assolto per un crimine che non esiste ma che l’Italia odierna punta pericolosamente a restaurare: il reato d’opinione. Sentiamo l’esigenza di prendere parola in difesa della libertà di ricerca e di pensiero in Italia e chiediamo a tutti di moltiplicare le iniziative in questa direzione. Ribadiamo che nessuna intimidazione o minaccia di ritorsioni potrà distoglierci dalla nostra narrazione, dal nostro storytelling, dal nostro impegno di ricerca perché il nostro mestiere lo conosciamo e lo amiamo, nonostante tutto.

 

 

3.Conclusioni

 

La democrazia e la libertà sono relazioni sociali che vanno conquistate e costruite quotidianamente in tutti i luoghi del vivere sociale ( dalla famiglia allo Stato). La quotidianità non è il pragmatismo rozzo del vivere biologico dell’umanità storicamente dato, essa è la sintesi pratica e teorica di tutti i livelli della società: dal microcosmo del singolo individuo al macrocosmo dei sistemi sociali e delle visioni culturali che li sottendono. E’ un processo di democratizzazione della vita quotidiana nell’accezione lucacciana del termine. Viviamo in una società capitalistica dove la democrazia è asimmetrica e vi è un terribile scarto tra la forma e la realtà. Quando c’è lo scarto tra forma e sostanza siamo in un processo di rapporti sociali dove vengono meno, per la maggioranza della popolazione, gli elementi fondamentali del vivere sociale. Lo scarto storicamente assume forme di flessibilità a seconda delle varie fasi storiche ( unipolare, multipolare, policentrica). Mai si annulla. Per annullarlo occorre un processo di cambiamento dei rapporti sociali che ha come obiettivo reale la partecipazione della maggioranza della popolazione alle decisioni inerenti il suo vivere sociale. La democrazia non è solo partecipazione come cantava Giorgio Gaber ma è autocoscienza critica sessuata che conosce, interpreta e progetta in maniera aporetica un’altra idea di società.

La democrazia capitalistica può diventare un vettore verso vere e reali forme di libertà e di democrazia. Anche se la storia ha dimostrato che così non è mai stato qualunque sia stato il processo rivoluzionario messo in atto. E con questo non voglio negare i vantaggi per l’umanità intera che questi grandi cambiamenti hanno apportato in tutti i settori della vita sociale:<< Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E, ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinchè il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi.>> (11).

Viviamo in una triste fase storica come tutte le fasi multipolari e policentriche storicamente determinate ( con questo non voglio dire che le fasi unipolari sono gioiose ma quantomeno non prospettano un orizzonte di guerre ( regionali e mondiali) che sono comunque mezzi della politica; anche se nell’era nucleare la guerra come continuazione della politica va ripensata: ahinoi!).

Né le finestre che la storia può aprire, soprattutto nelle fasi policentriche ( per esempio la rivoluzione del Novembre russo del 1917), possono far intravedere per la grande maggioranza della popolazione cose buone perché il problema centrale è come si arriva all’appuntamento delle finestre storiche.

Vladimir Ilic Lenin, intelligente uomo rivoluzionario, ebbe una intuizione significativa quando affermò che lo Stato << potrà essere diretto da una cuoca >>. L’affermazione va inquadrata nel contesto teorico di elaborazione della fase di estinzione dello Stato e di trapasso alla fase del comunismo (12). E Gianfranco La Grassa dà una corretta interpretazione della questione quando sostiene che << L’idea della “cuoca” capace di gestire gli affari di Stato è la meno felice di quelle maturate nel geniale cervello di Lenin. Certo, egli si riferiva ad uno Stato ormai quasi estinto, quasi arrivato alla fine del socialismo in quanto fase di transizione al comunismo. Poiché tuttavia tale fase non si è mai vista, né mai si sarebbe potuta riscontrare nel presunto “socialismo” dell’Urss, essa è stata sfruttata per sostenere tesi cervellotiche >> (13). Gianfranco La Grassa, però, non coglie il particolare, sfuggito anche a Vladimir Ilic Lenin, che è quello della soggettività femminile ( la donna come soggetto altro dall’uomo) restando così nel limite dell’uguaglianza e della emancipazione femminile velate ed annullate nel concetto di classe; ovviamente parlo di quando esistevano le classi non di oggi dove esiste una ammucchiata di gruppi sociali (14). Lascio parlare una delle madri del pensiero femminile << In una donna la grandezza c’era da prima, era sua da prima, non appariscente, come un’avventura segreta, come un abito di tutti i giorni ma disegnato da Valentino. Occorre però che lei accetti il suo privilegio e lo coltivi, come hanno fatto i nobili in certe epoche e in certi paesi. Se lo sa portare, allora cattedra o cucina non fa una differenza sostanziale, le fiabe lo insegnano. C’era questa intuizione nella celebre immagine usata da Lenin per far intendere che cos’è il comunismo, la cuoca che diventa capo di Sato? O, al contrario, mancava proprio questa intuizione e la sua era fede nell’emancipazione? E’ naufragato per questo il movimento comunista, per non aver saputo misurare la fortuna che le donne sono per l’umanità, ossia per aver suscitato energie femminili che sono straripate dai suoi confini, e non averle seguite in quell’andare oltre?. >> (15).

Il problema resta sempre la costituzione di soggetti sessuati di cambiamento che possono deviare il flusso oggettivo della storia che è sempre sedimentazione delle relazioni umane date. Perché, come ci ricorda Gianfranco La Grassa, i cambiamenti reali non avvengono solo con le idee.

 

Le epigrafi riportate sono tratte da:

 

Giorgio Gaber, Mi fa male il mondo in Album “ E pensare che c’era il pensiero”, 1995, www.giorgiogaber.it .

Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, pag.6.

 

NOTE

 

  1. Zbigniew Brzezinski, Toward a global realignment, Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido., 17/4/2016. Stralci dell’intervista sono compresi anche nell’articolo di Mike Whitney, La scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano, www.megachip-globalist.it, 28/8/2016.
  2. Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004, pp.46-47. Si veda anche la parte dell’intervista a Henry Kissinger compresa nell’articolo di Umberto Pascali, La disperazione degli USA e il ritorno di Kissinger, www.controinformazione.it, 24/8/2016.
  3. Joseph Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016, pag. 99. Si segnala la lettura critica del libro perché analizza l’egemonia reale degli Stati Uniti sia nelle sfere fondanti (produzione, ricerca, tecnologia, cultura, armamenti) sia nelle istituzioni mondiali della cosiddetta governance.
  4. Costanzo Preve, Il marxismo e la tradizione culturale europea, editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2009, pag.110. Sull’unilateralismo americano si veda Charles A. Kupchan, La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel ventesimo secolo, Via e Pensiero, Milano, 2003, Capitolo V.
  5. Su questi temi rimando agli atti del seminario di Conflittiestrategie su “Stato, interesse nazionale. Perché scegliamo in questa fase l’autonomia nazionale”, tenutosi a Bologna il 16-17 aprile 2016 e pubblicati in www.conflittiestrategie.it .
  6. Manlio Dinucci, Le macerie della democrazia, il Manifesto del 6 settembre 2016.
  7. Alessandro Pace, Le insuperabili criticità della riforma costituzionale Renzi-Boschi, Cosmopolitica del 20/2/2016 e ripresa da Micromega ( www.micromega.it, 1/3/2016) e da Megachip ( www.megachip-globalist.it, 9/9/2016). Si veda anche Alessandro Pace, La riforma Renzi-Boschi: le ragioni del no, www.rivistaaic.it, 17/6/2016.
  8. Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Diciasettesima edizione, Milano, 2011, pp.220-222.

9.Per questi temi rimando a Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975; Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, Mondadori, Milano, 1973; Luigi Russo, Personaggi dei promessi sposi, Laterza, Bari, 1965; Gyorgy Lukacs, Saggi sul realismo, Einaudi, Torino, 1976.

  1. Luigi Longo, TAV, corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 23/12/2012.
  2. Gunther Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita dell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag.1.
  3. Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma, 1974, Capitolo V, pp.157-179.
  4. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica, Mimesis, Milano-Udine, pag. 87.

14.Vladimir Ilic Lenin è stato in relazione con le donne. Una relazione significativa l’ha avuta con Inessa Armand. Ha scritto sulle donne, per esempio, L’emancipazione della donna ( Editori Riuniti, Roma, 1977). Ma, come Karl Marx, non è andato oltre un ragionamento di emancipazione e di uguaglianza.

  1. Luisa Murarro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma, 2011, pag.16.

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI – Prosegue il dibattito

Prosegue il dibattito su

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI

Massimo Morigi

« Il cortesissimo ( ed acuto) Fabio Falchi mi cita dove affermo che “lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico” e quindi conclude che “Quindi natura e cultura non sono realtà identiche , dato che devono essere unificate (sono cioè realtà distinte non irrelate/separate). L’unificazione è appunto un processo storico (inevitabile a mio avviso). ” Purtroppo questa conclusione, ovviamente solo per quanto riguarda l’interpretazione del mio pensiero, è errata. Quando io parlo di “strumento”, l’affermazione deve essere interpretata dialetticamente, vale a dire che lo strumento interpretativo del conflitto strategico è la chiave che ci permette di interpretare la realtà ma è, al tempo stesso, la struttura della realtà stessa. E che questa debba essere l ‘ “interpretazione autentica” (m viene un po’ da ridere ad impiegare questo linguaggio da leguleo ma Fabio Falchi, la cui indulgenza ed ironia immagino sia pari alla sua giustissima acribia, spero sappia sorriderne) lo si deduce bene dalle parole finali al mio commento alla sua benevola recensione: “In altre parole per il Repubblicanesimo Geopolitico la suddivisione fra natura e storia o fra natura e cultura è totalmente artificiosa e lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico. ” Unificare nella teoria e nella prassi significa che come processo astrattamente logico esistono la teoria e la prassi ma che la vera conoscenza e la vera azione si verificano quando riusciamo a superare questa ipostatizzazione logica; vera conoscenza e vera azione esistono, insomma, quando impieghiamo nella teoria come nella prassi il metodo dialettico. E la divisione fra natura e cultura è, a modestissimo giudizio dello scrivente, non altro che il frutto della predetta ipostatizzazione. Vi è, inoltre, un punto fra le intelligenti osservazioni di Fabio Falchi che dovrebbe essere molto approfondito ed è quando si afferma che “anche le formiche si fanno la guerra ma non fanno rivoluzioni o colpi di Stato”. Sinceramente sui colpi di stato della formiche non ho molto da dire ma fra gli animali che hanno raggiunto un maggior livello di evoluzione rivoluzioni e colpi di stato esistono eccome, e esistono pure linguaggi diversi, quindi diverse tradizioni culturali, fra gruppi di animali della stessa specie ma cresciuti in luoghi diversi. Non faccio esempi perché facilmente reperibili e sottolineo questo punto solo per mettere in dubbio le troppo salde certezze fra l’ontologica suddivisione fra natura e cultura e non tanto per controbattere alle pur legittime osservazioni di Falchi in merito all’uomo come animale politico e non, mi si passi il termine, “bellico” (natura bellica dell’uomo, sia detto per inciso, che io non sostengo, io sostengo che l’uomo è un animale “strategico”, e sono sicuro che Falchi, pur probabilmente non condividendola, colga pienamente questa sottile differenza). Infine, chiedo scusa se è parso che io abbia voluto accusare Falchi, siccome sviluppa una linea di pensiero in alcuni punti non conforme alla mia, di avere un atteggiamento da “tabula rasa” rispetto alla tradizione marxiana e marxista. E chiedo scusa non tanto perché tale atteggiamento sia, a mio giudizio, del tutto assente dal suo argomentare ma per il semplice motivo che anch’io mi ci posso ritrovare (tanto per essere chiari: quando, come il sottoscritto, si afferma che la la visione della classe operaia come classe intermodale in grado di originare una palingenesi del sistema capitalistico non è altro una immanentizzazione della soteriologia cristiana, direi che la compagnia di demolizione o gli sgombera cantine stanno bussando alle porte). Il punto è dove sgomberare e demolire e mi auguro che su questo si continui per molto ancora a (dialetticamente) dibattere. Massimo Morigi – 19 marzo 2017 »

 

Fabio Falchi

Io condivido in buona misura quanto sostiene Morigi nella sua ultima risposta, ma occorre fare due brevi precisazioni per capirsi meglio.
1) Il mio esempio riguardo alle formiche non deve essere frainteso. Con questo esempio ho solo voluto segnalare che le formiche sono sì animali sociali che si fanno le guerre tra di loro ma non per questo sono animali politici. Vale adire che il conflitto che davvero conta per comprendere il Politico (a mio giudizio s’intende) è la stasis, la lotta intestina , la guerra civile, piuttosto che la guerra in generale. Non è cioè qui in gioco tanto la differenza tra l’uomo e gli altri animali (ché pure l’uomo è animale, sia pure razionale, simbolico, economico, politico etc.) , ma la questione del rapporto (già evidenziato da Heidegger contro Schmitt) di quello tra l’Essere-insieme e l’Essere-contro che si verifica con la dicotomia amico vs nemico. Quindi anche per me l’uomo è animale politico ma non necessariamente un animale “bellico”. Riguardo infine agli animali più evoluti, risulta anche a me che vi possono essere (ad esempio tra i macachi) dei conflitti che portano ad un rivolgimento sociale e ad un mutamento della gerarchia all’interno del gruppo (non sono un esperto, ma non credo  che si possa parlare di rivoluzioni o di colpi di Stato, anche perché manca lo Stato; comunque sia, anche in questo caso mi pare che il Politico sia più connesso alla stasis che al polemos, che è appunto quello che mi premeva evidenziare).
2) Io non penso ad una natura da una parte e alla cultura da un’altra con il Politico in mezzo , ma fin dall’inizio come dure realtà uni-ficate ma in perpetuo divenire (un processo dialettico quindi, se si preferisce). Pertanto, è forse la nozione di natura che è diversa nel mio discorso, dato che non rimanda alla biologia bensì alla natura intesa “grosso modo” come la intende Aristotele. La natura umana, per lo Stagirita, è una (vi è identità di specie, cioè di “forma sostanziale”) ma si esprime e articola in modi diversi e perfino incompatibili tra di loro.  In base a questa prospettiva allora si può affermare che noi non siamo differenti dai Greci o dagli aborigeni australiani per natura ma per cultura. Nondimeno, non vi è una natura umana disincarnata (un universale astratto) ma sempre, per così dire, avvolta nelle differenze ( ossia è una realtà “particolare” in senso culturale, storico,  politico nonché sotto il profilo individuale/personale). In definitiva, in quest’ottica, il concreto modo di articolarsi della natura umana  non è “dato” (non si sviluppa in base ad una “legge di natura”) nel senso che è un processo  storico e politico (in quanto la natura comunitaria dell’uomo è “aperta”, si può cioè es-primere in modi diversi).
Chiaramente, anche se la mia posizione non coincide con quella difesa da Morigi, sono il primo a riconoscere l’importanza della sua riflessione sul repubblicanesimo geopolitico.

 

UNA ULTERIORE PRECISAZIONE DI FABIO FALCHI A WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI

Due brevi precisazioni.
1) Non sarò certo io a contestare che è essenziale “com-prendere” quello che ci ha preceduto soprattutto nell’ambito del pensiero. Del resto, chi ha letto qualche mio scritto sa che per me decisivo è “com-prendere” non solo il pensiero dei Greci ma, in generale, il linguaggio (e il mondo) del mito (e del simbolo). Quindi nessuna “tabula rasa”. Ci mancherebbe! D’altronde, Marx è certo un Autore importante. La mia osservazione mirava solo ad evidenziare la prospettiva, per così dire, politico-intellettuale di Morigi (certo diversa  dalla mia) anche se mi sembra che, come del resto lo stesso GLG, anche Morigi tenda a portarsi, muovendo da Marx, “oltre” Marx (benché non “contro” Marx).
2) Io non sono affatto dualista, bensì non dualista (che non è sinonimo di monista). Natura e cultura non credo siano opposti irrelati, ma non sono  realtà “identiche” ( per capirsi: si deve mangiare per vivere, ma non necessariamente si deve mangiare l’aragosta per vivere). I rapporti di potere variano comunque nella storia, sia nella stessa epoca e perfino nella stessa “regione” (in Grecia erano diversi da quelli che vi erano in Persia, ma a Sparta non vi erano quelli che vi erano ad Atene), sia nel tempo (quelli della Francia rivoluzionaria non erano certo identici a quelli della Francia sotto Luigi XV e quelli in Unione Sovietica non erano quelli della Russia degli zar o di Putin etc.). Variano insomma pure gli ordinamenti politici e le classi dominanti (quella capitalistica – se si accetta la ricostruzione storica di Braudel – salì al potere non prima del XV-XVI sec.:  Milano, Firenze, Venezia, Genova; poi l’alleanza dei banchieri genovesi con la Spagna seguita dalla breve egemonia olandese, poi da quella inglese; infine a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale quella americana, attualmente in crisi). Ma è ovvio che Morigi non dubiti che vi siano queste (e altre) “differenze”. Il punto allora qual è? Morigi afferma: “lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico”. Quindi natura e cultura non sono realtà identiche , dato che devono essere unificate (sono cioè realtà distinte non irrelate/separate). L’unificazione è appunto un processo storico (inevitabile a mio avviso). Faccio un esempio.
Il Politico è un “destino” dell’uomo, che è sì per “natura” un animale comunitario ( di questo ne sono convinto) ma anche colui il cui agire non è determinato dalla “natura” (a differenza, come i Greci ben sapevano, del moto degli astri e dell’agire degli stessi animali). Peraltro, ritengo che non sia la guerra (polemos) all’origine del Politico, ma da un lato la nostra “natura” comunitaria (con il linguaggio di Heidegger, il Mitsein cioè l’essere insieme e essere nel mondo insieme) e dall’altro il fatto che il nostro agire può portare ( e di fatto lo porta sempre!) lo scompiglio nella stessa “polis” (anche le formiche si fanno la guerra ma non fanno rivoluzioni o colpi di Stato!). Dunque, è il  Politico che unifica (e “deve” unificare) natura e cultura facendo valere misure , ordini e proporzioni che non si trovano in “natura” ma devono essere “generati” (e si generano appunto attraverso la dialettica individuo/comunità, le lotte sociali, un orizzonte di senso condiviso etc.) ma tenendo conto di quella forma umana e comunitaria dell’esperienza  senza la quale il conflitto degenera in lotta intestina o in guerra civile (anche la questione della guerra/polemos mi pare connessa quindi con questo “intreccio” tra natura e cultura).
Certo, so bene che la questione è molto più complessa e che molte altre riflessioni e considerazioni sarebbero necessarie. Qui mi premeva solo fare qualche precisazione per evitare equivoci, anche perché seguo con interesse la riflessione di Morigi, che comunque ringrazio, anche per la cortese risposta al mio primo commento.
Di seguito il commento precedente di Massimo Morigi: “Innannzitutto, ringrazio Fabio Falchi per la valutazione complessivamente positiva di WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA, poi veniamo a due velocissime puntualizzazioni. Fabio Falchi osserva che la prospettiva di WALTER BENJAMIN, IPERDECISiONISMO etc “pare ancora marxista” e ciò, mi sembra di capire, non viene valutato con altrettanta indulgenza. Ora senza voler discettare in questo luogo quali e quanti siano i miei debiti col pensatore di Treviri, una cosa tengo a sottolineare e questo non vale solo per Marx. Il problema riguarda il rapporto che si vuole tenere con la tradizione filosofica e, per farla breve, il malvezzo psicologico della stragrande maggioranza dei pensatori passati e presenti può essere riassunto con la sindrome della “tabula rasa”, vale a dire che tutto quello che mi ha preceduto non ha alcun valore e sono con me si è iniziato a scrivere le tavole della legge. Questo non è il mio approccio e quindi, operando il sottoscritto con questo stato d’animo (e, spero) modus agendi, mi trovo completamente a mio agio anche con una prospettiva marxiana (non marxista e non devo certo spiegare a Fabio Falchi e agli altri 24 lettori la non sottile differenza). Seconda puntualizzazione. Falchi afferma che ” i rapporti di potere non sono “dati” ma “generati” , ossia non sono naturali ma storici (appunto politici!)”. Oltre a tutta la tradizione filofosica occidentale di stampo, diciamo, immanentistico, la pensava così anche Marx ma, in tutta la mia modestia, è proprio quanto io contrasto nell’ambito della dottrina politico-filofosofica del Repubblicanesimo Geopolitico. In altre parole per il Repubblicanesimo Geopolitico la suddivisione fra natura e storia o fra natura e cultura è totalmente artificiosa e lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico. Ho già affrontato la problematica del conflitto dialettico-strategico nel DIALECTICVS NNCIVS e l’argomento verrà ripreso con GLOSSE AL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, di prossima pubblicazione. Nel frattempo, anche nonostante queste mie non brillanti precisazioni, spero ancora di godere dell’ attenzione dell’intelligente Fabio Falchi e degli altri indulgenti 24 lettori. Massimo Morigi – 5 marzo 2017”

Repubblicanesimo Geopolitico. 3a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Se però l’analisi del potere di Hannah Arendt risulta essere assolutamente realistica (il potere non è il male ma è la benzina della società), la filosofa politica ebrea tedesca naturalizzata statunitense non fu altrettanto puntuale nell’analizzare le problematiche del potere relative alla moderne democrazie rappresentative, in quanto il suo punto di riferimento della polis greca se assolutamente illuminante per quanto riguarda l’analisi fenomenologica del potere, non è assolutamente proponibile come modello per le moderne società industriali (e la Arendt ne era assolutamente consapevole) e la sua mitizzazione della rivoluzione americana – con l’idea di una riproposizione come futuro soggetto politico, mutatis mutantis, delle piccole comunità americane di origine che erano state alla base della voglia di libertà e laboratorio politico della rivoluzione e delle prime forme di democrazia del nuovo continente –, se ancora fondamentale per capire le dinamiche dominio-potere-libertà risulta ancora una volta improponibile come reale modello alternativo alla democrazia rappresentativa. Arrivo quindi rapidamente alla conclusione intorno alla domanda di cosa sia il Repubblicanesimo Geopolitico. Il Repubblicanesimo Geopolitico intende riempire questa lacuna nella consapevolezza molto elementare ma fondamentale che la partita della libertà non si gioca né in astratti enunciati (libertà come non interferenza di matrice liberale o libertà come non dominio del (neo)repubblicanesimo) ma nei concreti rapporti di forza (e quindi nei concreti spazi di libertà) che si sviluppano all’interno della società. Con questa enfasi sui rapporti di forza fra le classi, sembrerebbe però essere dalle parti di una riedizione del
marxismo vecchia maniera. Errore e per due semplici motivi. Primo perché nel Repubblicanesimo Geopolitico l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marximo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marximo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà. Dove Mazzini parlava di una missione dell’Italia una volta che fosse stata riunificata geograficamente e spiritualmente, sarebbe assai singolare non vedere in queste parole la consapevolezza che una nazione non può vivere – e quindi essere libera – senza che abbia un’idea della sua collocazione fra le altre comunità politiche del mondo, senza che possa disporre di un suo Lebensraum, non solo geografico e materiale ma anche culturale e spirituale (quello di Lebensraum, cioè spazio vitale, è un concetto che venne coniato da Friedrich Ratzel e sviluppato dalla geopolitica tedesca e per questo ha subito una sorta di damnatio memoriae. Ora il fatto che il nazismo abbia sviluppato una sua
versione criminale del Lebensraum non significa che questo concetto non sia fondamentale per la geopolitica e quindi per il Repubblicanesimo Geopolitico, tanto che il Repubblicanesimo Geopolitico potrebbe anche essere chiamato Lebensraum repubblicanesimo se non fosse per il fatto che il concetto di Lebensraum è ancor oggi appaiato all’imperialismo guglielmino e al male assoluto del nazismo e – per ironia della storia, se pur rifiutato dalle accademie politologiche e filosofico-politiche del secondo dopoguerra – impiegato come strumento di analisi fondamentale per dirigere l’azione geopolitica delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale. Il Repubblicanesimo Geopolitico, invece, intende impiegarlo per i suoi scopi di libertà). Quando Mazzini criticava Marx questo non avveniva per una sorta di cecità nei confronti delle condizioni della classe operaia ma avveniva nella consapevolezza che la dinamica dello scontro delle classi sociali – e quindi della libertà – non poteva essere compressa nelle formulette che si riassumevano nella credenza parareligiosa della classe operaia come “classe intermodale” e quindi come unico agente per la trasformazione rivoluzionaria della società. Mazzini fu sempre accusato di misticismo. In realtà non era affatto un mistico ma, piuttosto, un dialettico che era consapevole che la partita della libertà poteva essere vinta solo con una generale crescita culturale (e quindi politica) di tutta la società. Quando Mazzini preconizzava l’edificazione per la sua nuova Italia di “scuole, scuole, scuole”, non designava per sé il ruolo di futuro ministro della pubblica istruzione ma era semplicemente consapevole che la libertà italiana doveva passare attraverso l’innalzamento culturale del popolo. Oggi questa dimensione culturale è entrata a pieno vigore nel lessico della geopolitica e si chiama noopolitik, quella noopolitik che presa molto sul serio dal Celeste Impero, rischia di qui a pochi anni, assieme ai suoi fattori di eccellenza economica, di rendere la Cina la prima superpotenza a dispetto degli standard terribilmente mediocri, almeno se comparati a quelli delle cosiddette
democrazie rappresentative occidentali, nel campo dei diritti politici. Ora, senza voler ripercorrere tutti quegli autori e personaggi storici in cui il momento geopolitico fu fondamentale (Garibaldi fu un geopolitico “pratico”, il nazionalismo italiano ebbe una sua versione di destra tipicamente autoritaria mentre la matrice democratica del nazionalismo è impensabile senza considerare il Maestro di Genova, l’interventismo democratico era mazzinianamente animato da una profonda, anche se rudimentale, consapevolezza repubblicana e geopolitica che la libertà del nuovo Stato – e quindi dei suoi cittadini – non era al sicuro senza la demolizione degli Imperi centrali, l’impresa fiumana ben lungi dall’essere stata uno stolto rigurgito del peggior nazionalismo come da certa stereotipata storiografia, diede voce – ed azione – alla consapevolezza geopolitica di matrice mazziniana diffusa fra gli strati più umili della popolazione – ma non per questo non certo politicamente meno avvertiti –, che l’astratto wilsonismo era un attentato non solo contro la potenza di una nazione, l’Italia, che aveva vinto la guerra ma anche contro la sua libertà nel consesso delle nazioni e, quindi, al suo interno, anche contro il suo sviluppo in una società sempre più libera. E quanto fossero avanzate le concezioni politiche e sociali dei “fiumani” guidati da D’Annunzio, volentieri si rimanda alla misconosciuta Carta del Carnaro), la tragedia dell’Italia attuale è che la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, assieme alla giusta ridicolizzazione del fascismo, trascinò nel disastro anche quel Repubblicanesimo Geopolitico che era stato una delle componenti fondamenti del suo Risorgimento e della sua riunificazione e che aveva ben compreso che la libertà non poteva essere scissa dalla sua componente spaziale-geografica (2). Rimane da rispondere al quesito posto da Roberto Stefanini sulla rappresentazione della situazione che si fa il Repubblicanesimo Geopolitico. Se per rappresentazione della situazione s’intende il quadro delle relazioni internazionali, il Repubblicanesimo Geopolitico sente una profonda affinità, e prende robusti spunti oltre che dai già
citati padri della geopolitica, dalla dottrina delle relazioni internazionali che oggigiorno va sotto il nome di costruttivismo e che ha per caposcuola Alexander Wendt. Famoso il titolo del saggio di Alexander Wendt Anarchy is What States make of it, e cioè che l’anarchia del sistema internazionale non è una meccanica legge di natura ma dipende dalle scelte, a loro volta influenzate dalla storia e dalla cultura, che le singole nazioni compiono di volta in volta. Il costruttivismo, insomma, sottolinea l’importanza dei cosiddetti dati “sovrastrutturali” e volitivi nel determinare la dinamica del sistema internazionale. Da questo punto di vista, il Repubblicanesimo Geopolitico è completamente d’accordo col costruttivismo ma con una piccola rivendicazione, non per sé stesso – ci mancherebbe – ma per chi prima ancora del costruttivismo e con feroce volontà attuativa pensò in questi termini: il solito Giuseppe Mazzini. Se per rappresentazione della situazione si intende, invece, il giudizio sullo stato di salute della democrazia in Italia e nelle altre cosiddette democrazie rappresentative, il giudizio è già stato espresso in altri interventi sul “Corriere della Collera” ma, in estrema sintesi, si riassume nella conclusione che quello che i media – ed anche un pensiero politico asservito a necessità che con la ricerca della verità e dell’espansione della libertà hanno poco a che spartire – oggi chiamano democrazia non è altro che un regime ove le oligarchie finanziarie sostengono e foraggiano un teatrino dove ancora si consente di scegliere attraverso formalmente libere elezioni la rappresentanza politica ma in cui questa rappresentanza politica è totalmente irresponsabile rispetto al suo elettorato ed è spogliata, de facto, di qualsiasi potere decisionale (questo teatrino del potere e della falsa libertà politica è comune a tutte le cosiddette democrazie rappresentative occidentali. Proseguendo con l’immagine, possiamo dire che, allo stato attuale, la democrazia è una recita fatta dai politici su un palco gentilmente fornito dalle oligarchie finanziarie. In Italia poi, per non farci mancare niente, gli attori sono pure degli scadenti
guitti). Questo giudizio, peraltro, non è proprio un’esclusività del Repubblicanesimo Geopolitico ma è condiviso anche dalla parte meno corrotta dell’attuale mainstream della scienza politica (Colin Crouch, Robert Dahl tanto per citare qualche autore). Al contrario però di coloro che vedono la postdemocrazia e/o la poliarchia come un destino inevitabile per le democrazie rappresentative occidentali, il Repubblicanesimo Geopolitico non si rassegna all’avvizzimento della democrazia per il semplice motivo che se gli uomini per pigrizia possono essere sordi sulla loro libertà, la storia è un’ottima sveglia e che, se inascoltata, può portare a traumatici e tragici risvegli. È la storia del nostro paese che è tutto un susseguirsi di momenti alti e di altri di tragica miseria. È persino inutile dire in quale momento il Repubblicanesimo Geopolitico ambisca a collocarsi. Sembrerebbe, è vero, una missione impossibile, per non dire connotata da un’assoluta ed insopportabile hubris. Se il Repubblicanesimo Geopolitico fosse una semplice nuova elaborazione di scuola sui temi (neo)repubblicani ciò sarebbe assolutamente vero. Ma ovviamente la pretesa – o meglio la speranza – del Repubblicanesimo Geopolitico non è di essere la solita accademica variazione sul tema (neo)repubblicano ma modestamente, anche se con molto orgoglio, è di non essere altro che l’ennesima espressione di quel moto profondo che nasce dal cuore della nostra storia e civiltà e che si riassume nella ricerca di una sempre maggiore espansione della libertà. Ora e sempre.
Ravenna-Coimbra, 26 novembre 2013

NOTE
(1) In questa risposta [sul “Corriere della Collera”] sul Repubblicanesimo Geopolitico ho originariamente omesso qualsiasi citazione dei vari Nozik, Friedrich von Hayek, Dworkin
e Rothbard come autori di riferimento in merito al canone liberale. La ragione è molto semplice. Tutti questi autori, chi più da “sinistra” chi più da “destra”, ci restituiscono un’immagine talmente caricaturale del liberalismo – e talmente priva di qualsiasi riferimento alla nozione di “conflitto strategico” (concetto coniato da Gianfranco La Grassa nell’ambito del suo fondamentale rinnovamento del marxismo e dell’interpretazione del filosofo di Treviri ma il cui campo semantico rimanda direttamente a Machiavelli) – che da parte di un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, che intende seriamente e radicalmente superare il pensiero liberale è consigliabile, almeno in sede divulgativa come può essere quella di un blog, piuttosto che lasciarsi andare a facili, scontate – seppur giustificate – ironie, lasciar perdere ed ignorarli del tutto. Insomma, i lettori dei blog politici (o, meglio, tutti coloro che vogliono costruirsi una vera cultura politica e comprendere quindi anche la grandezza, seppur da superare, del liberalismo) se vogliono “perdere” tempo, affrontino Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Adam Smith, Ricardo, Carl von Clausewitz, Hegel, Marx, Mazzini, Mosca, Pareto, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Carl Schmitt, Sorel, Lenin, Antonio Gramsci, Hannah Arendt, Friedrich List, Schumpeter, John Maynard Keynes, per finire con i padri della geopolitica Alfred Thayer Mahan, Halford John Mackinder e Friedrich Ratzel piuttosto che i moderni pedestri, feticistici ed irrealistici propagandisti nominati sopra di un liberalismo visto come una sorta di sistema eterno, immutabile e al di sopra della storia (e di un individuo come una sorta di onnipotente Robinson sociale), servi sciocchi di quegli agenti strategici, che coperti dalle enunciazioni ideologiche (un tempo socialiste e liberali oggi solo liberali) ad usum della manipolazione del consenso hanno inteso le varie organizzazioni socioeconomiche in cui venivano ad operare (socialiste e liberaldemocratiche e oggi solo liberaldemocratiche) come il campo di battaglia sul quale scontrarsi per ottenere la supremazia. Agenti strategici che,
insomma, da veri propri leviatani hobbessiani hanno fatto sempre un sol boccone, strumentalizzandoli e trattandoli come carne da cannone, dei vari Robison sociali del liberalismo e dei vari Stakanov del socialismo reale. È inutile aggiungere che il Repubblicanesimo Geopolitico sia dal punta di vista conoscitivo che da quello politico è unicamente inteso a far uscire dal loro “stato di minorità” questi illusi Robinson liberali e i tuttora persistenti – e perdenti – cultori del fu Stakanov del defunto socialismo reale.
(2) Fondamentale per comprendere sul piano teorico questa dialettica spazio/libertà, Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction, London, 1919 di Halford Mackinder, il fondatore accanto a Thayer Mahan della geopolitica, e al quale si deve la comprensione che la democrazia è nata e si sviluppata grazie all’insularità della Gran Bretagna e che quindi il wilsonismo – oggi si direbbe l’esportazione della democrazia – era un assoluto non senso,

STAR WARS di Gianfranco Campa

Pubblichiamo un articolo già apparso nell’aprile 2013 ma ancora attuale a proposito dell’intenzione dell’allora amministrazione di Obama di installare in Corea del Sud il sistema antimissile THAAD. La proposta fu accolta dal Governo Giapponese e respinta da quello Sudcoreano. Il progetto rientrava pienamente nella politica di destabilizzazione che il governo americano di allora perseguiva in diverse regioni cruciali del mondo a scapito di quei paesi più restii ad accettare i diktat e i desiderata americani e suscettibili di perseguire una politica di avvicinamento alla Russia. In questi giorni il governo sudcoreano ha invece acconsentito all’installazione del sistema antimissilistico; potrebbe essere però una decisione a termine a pochi mesi dalle elezioni di quel paese che potrebbero portare alla vittoria uno schieramento di centrosinistra favorevole ad un avvicinamento alla Cina e contrario al dispiegamento del sistema d’arma. Più che una prosecuzione, quindi, della politica obamiana un segno della schizofrenia dell’attuale politica estera statunitense la quale, piuttosto che riorientare il confronto ostile dalla Russia alla Cina, rischia l’apertura di più fronti di conflitto contemporaneamente con i due paesi. Una schizofrenia che soffre quindi questa volta del confronto aperto all’interno degli Stati Uniti tra diverse strategie.

All’inizio di aprile la Casa Bianca fu informata specificamente dai servizi che le minacce che venivano dalla Corea del Nord erano da prendersi sul serio. I probabili obiettivi dei colpi nord-coreani erano da considerare le isole di Guam ed Okinawa in Giappone. Entrambe le isole hanno una forte presenza militare americana e sono posizionate strategicamente nell’arena dell’Asia-Pacifico. In particolare Guam è considerato l’obiettivo principale in quanto territorio non-incorporato degli Stati Uniti nell’ oceano Pacifico occidentale. La valutazione dei servizi riteneva più probabile un attacco a Guam che non sugli USA continentali.

Le capacità di attacco della Corea del Nord non sono totalmente chiare, ma osservando delle immagini satellitari molto precise il Dipartimento della Difesa USA riporta che i missili che la Corea del Nord vorrebbe lanciare, fanno parte della famiglia No-Dong/Musadan, ed in particolare quelli di classe B. I No-Dong B sono la versione più recente della famiglia No-Dong.

Secondo i rapporti dei servizi il No-Dong B è lungo circa 12 metri con diametro di circa mezzo metro. Sembra che i missili classe B siano un po’ più piccoli di quelli dell’intera famiglia No-Dong. La differenza con gli altri sta nella maggiore gittata e mobilità di questi missili che possono essere lanciati da mezzi semoventi. Le stime della loro gittata vanno da un minimo di 2400 km ad un massimo di 4000 km. La classe B è potenzialmente in grado di raggiungere le basi americane a Guam ed Okinawa.

Diversi missili No-Dong B sono stati scoperti mentre erano trasportati via treno attraverso la nazione verso i loro siti di lancio. Guardando le foto in dettaglio, si osserva che i missili hanno un comparto motore ed un serbatoio di propellente insieme ad un componente ulteriore simile al No_Dong A/1 che fornisce al classe B un ulteriore stadio come veicolo di rientro. Con l’aggiunta del serbatoio di propellente e del veicolo di rientro, il No-Dong B potrebbe essere capace di aggiungere altri mille kilometri di gittata, che è un buon risultato, ma non ancora sufficiente per raggiungere parti critiche degli USA. Con le attuali apparecchiature militari la Corea del Nord non ha ancora sviluppato la capacità di raggiungere gli USA continentali. Le smanie dei media su possibili obiettivi come S.Francisco o Los Angeles sono esagerate e totalmente sbagliate.

Chiarito che non c’è alcuna possibilità di raggiungere gli USA continentali, comunque, i missili nord-coreani hanno la gittata per raggiungere Guam e Okinawa. Okinawa, anche se in territorio giapponese, è una delle più importanti aree militari americane, rendendola un obiettivo primario. Lo stesso per Guam, che non solo è un possedimento USA, ma è anche sede di tre basi militari importanti. La base aerea Andersen a Yigo, la base navale nel porto di Apra e le forze navali a Marianas.

Stabiliti i possibili obiettivi dell’attacco nord-coreano e con solide informazioni dei servizi (ancorché non complete) sulle capacità della Corea del Nord, la Casa Bianca ha scatenato pienamente la macchina militare. Il vincitore del Nobel per la pace Obama, fra un ricevimento ed un torneo di golf, ha chiarito che ogni azione ostile della Corea del Nord sarà contrastata col pugno di ferro. Ma mentre tutti rivolgono la loro attenzione alle tradizionali manovre della marina, dell’esercito e dell’aviazione nell’arena asiatica, lo sviluppo più significativo è lo spiegamento del nuovissimo THAAD (Difesa dell’Area Terminale ad Elevata Altitudine).

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Il 3 aprile 2013 il Dipartimento della Difesa ha annunciato che il sistema di difesa anti-missili balistici THAAD era stato dispiegato a Guam. Dal 14 aprile la prima unità THAAD è in posizione e pronta ad intercettare qualsiasi missile possa essere lanciato dalla Corea del Nord. Questa nuova classe di intercettori è l’ultima aggiunta al Sistema di Difesa anti-Missili Balistici (BMDS) che è completato dai Patriots e dal sistema AEGIES BMD. I THAAD sono dispiegabili rapidamente e capaci di distruggere missili sia dentro che fuori l’atmosfera durante la fase finale del loro volo.

Ecco alcune delle caratteristiche del THAAD. I missili sono basati a terra, montati su veicoli semoventi e ad alta tecnologia. Sono specificamente progettati per distruggere qualsiasi testata bellica e sono molto efficaci contro qualsiasi minaccia asimmetrica di missili balistici. La loro capacità di intercettare i missili in arrivo ad altitudini molto elevate, mitiga gli effetti di ogni arma di distruzione di massa prima che arrivino a terra. Una batteria THAAD consiste di quattro elementi: un lanciatore, gli intercettori, il radar ed infine il controllo del fuoco. I lanciatori sono montati su camion e quindi molto mobili, i missili possono essere facilmente sparati e ricaricati. Ci sono otto intercettori per ogni lanciatore. Ogni lanciatore è provvisto di un AN/TPY-2 (sistema di sorveglianza radar). Il radar è in grado di cercare, seguire e puntare un oggetto e di identificare di che tipo di oggetto si tratti prima di decidere di colpire l’oggetto in arrivo. Ogni componente del THAAD è connesso a mezzo di software estremamente sensibile e sofisticato. Il THAAD è capace di esplorare, applicare ed eseguire soluzioni di intercettazione multiple, ridefinendo continuamente i suoi obiettivi. THAAD ha un’altitudine operativa di 150 km.

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Il progetto THAAD è stato inizialmente concepito nei primi anni ‘90 ma vari ritardi per ragioni di budget lo avevano rallentato. Nel 1992, Lockeed Martin Missiles-Space e Raytheon hanno ottenuto un contratto di 689 milioni di USD per sviluppare il sistema THAAD. Alla fine il programma THAAD entrò nella fase di sviluppo progettuale e costruttiva nel 2000. La piena produzione del THAAD cominciò nel marzo 2004 nei nuovi impianti Lokheed Martin a Pike County, Alabama. Le prove di volo incominciarono nella base di White Sands Missile Range nel New Mexico. Il primo test di volo del sistema completo incluso missile, lanciatore, radar e sistema di controllo ebbe luogo nel maggio 2006. Nel gennaio 2007 nella base Pacific Missile Range, a Kauai, nelle Hawai ci fu un test positivo di intercettazione condotto nella elevata endo-atmosfera. I test sono continuati negli anni incluso, nell’ottobre 2012, un test combinato utilizzando tutta la tecnologia e le apparecchiature dell’arsenale BMDS, un test integrato per valutare l’interoperabilità fra AEEGIS BMD, THAAD, Patriots e il sistema di comando-controllo. Occorre dire che il test del sistema THAAD è stato estremamente positivo. Interessante che nel 2011 gli Emirati Arabi Uniti (EAU) abbiano  firmato un accordo da 1,96 miliardi di USD per due sistemi d’arma THAAD e apparecchi di supporto. Questo è il primo contratto di vendita estero del THAAD. Il THAAD è considerato vitale per la protezione degli EAU contro le minacce missilistiche provenienti dall’Iran. Personalmente non credo che la Corea del Nord stia preparandosi ad eseguire una attacco contro installazioni militari o territori americani, ma se un tale attacco avvenisse, Guam e Okinawa potrebbero diventare campi di prova per valutare le reali capacità dei sistemi di dispiegamento e lancio dei missili nord-coreani e per valutare il salto militare americano nel futuro con il sistema THAAD e la sua efficacia in situazioni di scenario reale.

SIRIAN CONNECTIONS : LA PACE AVANZA IN SEGRETO: ISRAELE TEME I RUSSI E GLI USA LA TURCHIA. di Antonio de Martini

un articolo di Antonio de Martini, uno dei maggiori esperti italiani del mondo arabo e di questioni mediorientali, tratto da il corrieredellacollera.com

Con la ripresa del controllo di Palmira da parte delle truppe lealiste, la situazione, se non fosse tragicamente sanguinosa, giunge al culmine della comicità. L’ennesimo comandante americano in tour assieme ai giornalisti  – Joseph L.Votel,  sembra un sosia del comico Jerry Lewis ed è il capo dell’US central Command – aveva appena dichiarato ai reporter del suo seguito di voler aumentare i mezzi USA in zona per liberare Palmira con una frase cui siamo ormai abituati: ” that’s an option”.L’ha pronunziata con tanta convinzione da indurre l’inviato del New York Times, Michel L. Gordon,  a riferirla virgolettata.

La settimana dopo, le truppe siriane riprendevano Palmira ( Tadmor in arabo) e iniziavano i lavori di sminamento come annunziato dal portavoce del Cremlino Dimitri Peskov.

Nel frattempo, Tom Perry della Reuters da Amman rivelava che sul fronte occidentale ( l’area che va dal confine giordano al Giabal Druso e confina con Israele) la CIA aveva sospeso addestramento , salari ai combattenti e rifornimento di munizioni anche ai ribelli del FSA ( Free Sirian Army), ossia alla fazione più vicina agli USA ed ai suoi interessi.

Sul fronte orientale ( confine Siria-Turchia e costa attorno ad Aleppo) la situazione è al calor bianco.

Dopo la conquista della cittadina di Al Bab, strappata al Daesch grazie a una azione congiunta ribelli del FSA, truppe turche e osservatori USA che hanno fornito appoggio aereo, il fronte unitario si è sfilacciato di fronte al rifiuto turco di accettare che l’YPG ( milizie curde appoggiate da Israele) vengano riforniti ad integrazione degli evidentemente sparuti ribelli del FSA.

Non solo, approfittando della loro presenza  in territorio siriano, i turchi, per bocca del ministro degli esteri  Mevlut Cavusoglu hanno inviato un ultimatum : se entro 48 ore l’YPG non avesse evacuato la città di frontiera di Minbej, avrebbero provveduto le truppe turche.

A questa dichiarazione, ha replicato il Consiglio Militare di Minbej ( che fa parte del FDS, Fronte Democratico Siriano) di aver raggiunto un accordo, mediato dai russi, che le truppe regolari siriane verranno accettate e si interporranno lungo l’intera frontiera vanificando così l’operazione ” Scudo sull’Eufrate” ideata dai turchi e mostrando chiaramente di preferire il regime di Assad piuttosto che una occupazione turco-americana.

La sorpresa è stata totale: che Assad si fidasse dei russi si sapeva da un pezzo. Che i ribelli del FSA ed il loro organo politico FDS preferissero la mediazione russa e la protezione delle truppe siriane a quella NATO rappresentata dai turco-americani, è veramente dura da digerire.

Naturalmente, anche nelle cose illogiche la logica c’é.

La Siria continua a disporre con intelligente parsimonia delle proprie truppe. Ha ripreso Palmira infliggendo un duro colpo ai banditi del Daesch che avevano abbandonato il campo dopo aver minato fino all’inverosimile la zona archeologica. Lo aveva saputo anche il generale americano e voleva fare una bella rentrée in territorio siriano, ma è stato preceduto da Assad.

La interruzione dei rifornimenti ( e degli stipendi) sul fronte nord, è stata ufficialmente attribuita al rifiuto delle varie milizie all’unificazione, ma non è vero. Il fronte nord, come abbiamo visto, è ben più frazionato e addirittura in lotta con le altre milizie che si dicono alternative a Assad.

La realtà è ben più consolante:in tutta la zona frontaliera con Israele le armi devono tacere. La Siria ha annunziato ufficialmente che vuole riconquistare quel territorio ed ha ammonito ( dopo cinque anni di incursioni subite in silenzio) Israele a non interferire.  Ora la Siria ha ripreso Aleppo, svincolando altre truppe ed ha al suo fianco un alleato impegnato militarmente. Ecco un altra area in cui si apre uno spazio di mediazione per la Russia e questa scelta è stata certamente negoziata in segreto.

La chiave per giungere alla pace, per ora,  è a Ginevra , dove l’ HCN ( alto comitato negoziale, legato agli USA) sta sabotando i negoziati di pace con i gruppi di lavoro di Mosca e del Cairo  dove stanno negoziando le sigle della rivolta che sono più in contatto con la Russia.

Resta l’ostacolo reale del fronte nord dove la Turchia non vuole rinunziare a schiacciare i curdi e gli USA che li hanno già abbandonati due volte in Irak, non se la sentono di farlo per la terza volta. Ma è una brutta figura che vale l’alleanza della Turchia.

Altro indizio che la pace sia segretamente in cammino è dato dall OSCH, la strana organizzazione del signor Abdelrahman ( marito della prof del caso Regeni?)che , giunto a cinquecentomila vittime della guerra, ha iniziato a scendere. Ieri era tornato a quattrocentomila. Buon segno.

IL RITORNO DEI NEOCONS, di Gianfranco Campa

Storicamente parlando, durante la prima Guerra Fredda,  anche nei momenti di tensione più palpabili, come per esempio la crisi dei missili a Cuba, da qualche parte, nelle stanze riservate della casa Bianca e del Cremlino, c’era chi si parlava, comunicava, cercava spiragli per risolvere crisi che portavano sempre inevitabilmente a confrontarsi con la possibilità di una Guerra Nucleare. Nell’assurdità del sistema politico attuale, la assillante propaganda Anti-Russa, usata come arma per screditare Trump e qualsiasi nemico del sistema governativo teso al nuovo ordine mondiale, porta a chiederci fino a che punto questi signori sono disposti a spingere la retorica di una nuova Guerra Fredda; confronto che potrebbe sfociare in qualcosa di molto più grave. Servirebbe fermarsi un attimo per ponderare le ripercussioni che potrebbero avere una intensificazione della crisi Nato-Russia.

In questo contesto si impongono un paio di domande fondamentali:

  • cosa ne sarà di una distensione mai veramente cominciata, forse appena solo accennata?
  • Una distensione con la Russia è ancora possible?

Il generale Flynn ha pagato il prezzo di essere stato la figura di spicco, l’attore principale, incaricato da Trump nel provare a tessere quella rete diplomatica che con il supporto di Tillerson avrebbe dovuto portare ad un tavolo di negoziati Trump e Putin.  Flynn ha anche pagato un prezzo caro per la sua lealtà al Presidente e per la dedizione alla missione a lui assegnata nelle sue valenze ed implicazioni più strettamente geopolitiche. Il pesante retaggio di Flynn, arrivato ad inimicarsi negli anni via via la maggior parte degli apparati di governo con le sue dure critiche, prima ad Obama poi all’establishment Repubblicano, colpevole quest’ultimo di non aver  sostenuto Trump durante la campagna elettorale, per proseguire con  la sua aperta disapprovazione della condotta dei vertici dei servizi di intelligence, tra di essi personaggi come James Clapper e John Brennan, ne ha fatto un bersaglio facile. Sarebbe stato troppo costoso, in termini politici, per Trump difendere Flynn. Così il Presidente ha cercato un atterraggio morbido, qualcosa che alleggerisse la pressione e rilanciasse la possibilità di creare un ambiente meno torbido intorno alla sua presidenza.

Ora possiamo ricostruire con quasi certezza gli episodi principali che hanno portato alle sue dimissioni. Tre giorni prima dell’ormai noto “scandalo” delle intercettazioni, Flynn aveva consegnato a Trump un dossier, un documento, da lui stesso redatto, con l’assenso, piu o meno tacito di Tillerson e di pochi altri appartenenti al circolo più stretto di Trump, con il quale si ponevano le basi di un accordo su vasta scala con la Russia. Seguendo la traccia del documento si sarebbe dovuto discutere, in un summit Trump-Putin, dei Balcani, della Siria, dell’Iran e della Cina; soprattutto si sarebbe affrontato la questione dell’Uncraina, punto critico da cui si genera la ragione della maggior resistenza dei Neocons alla svolta politica del Presidente. I contenuti dettagliati del fascicolo sono tuttora sconosciuti e, se devo azzardare una previsione, il dossier probabilmente è sparito per sempre, consegnato agli annali della storia più nascosta e segreta della Repubblica a Stelle e Strisce. Comunque è chiaro che il tempestivo assalto a Flynn tendeva  non solo ad un indebolimento di Trump, ma ad un deragliamento definitivo di qualsiasi accordo con Putin.

Girano voci di corridoio che additano in Reinhold Richard Priebus, meglio conosciuto come “Reince” Priebus, il cecchino di Flynn. Sono solo voci di corridoio, tese ad indebolire un altro fedele di Trump. Insinuando un tradimento di Priebus si colpiscono due piccioni con un solo colpo; far fuori Flynn e Priebus con lo stesso scandalo delle intercettazioni, equivarebbe ad un terno al lotto. Ma io so con certezza che Priebus non c’entra assoluntamente niente con il siluramento di Flynn. C’è invece un altro attore più potente complice del siluramento, perché sodale del vecchio establishement: Mike Pence. Il nostro caro vice presidente, Mike Pence, con il pretesto che Flynn gli avesse mentito riguardo alle sue assicurazioni dello scorso dicembre di non aveva parlato di sanzioni con l’ambasciatore russo, ha fatto pesanti pressioni su Trump perché lo rimuovesse dal suo incarico.

Mike Pence è un sornione, un uomo che trasuda fiducia da tutti i pori con la sua aria di vecchio amico che non ti tradisce mai. Fatto sta che Pence col suo sorriso soave di buon Cristiano e brav’uomo di famiglia è lo strumento che viene usato, naturalmente con il suo pieno consenso, dall’establishement repubblicano per manovrare Trump.

Trump ha cosegnato a Pence le chiavi di molte stanze e concesso una ampia libertà di azione; neanche il vecchio Joe Biden godeva sotto Obama di tale facoltà.

Biden era il cagnolino di Obama, Pence è la serpe che si insinua nel letto e ti colpisce quando vuole.

E` andata piu` o meno così. Pence ha sussurato all’orecchio di Trump la soluzione di tutti i suoi problemi: “fai fuori Flynn, affida la politica estera in mano ad altri, concentrati sulla politica interna, cerca un accordo con l’establishment per poi essere ricompensato con il pieno appoggio di tutto l’apparato repubblicano contro le orde barabariche democratiche.”

Questo però è un gioco pericoloso per Trump; intanto perché non sono convinto che i Repubblicani possano ostacolare i Democratici nella loro offensiva. Sono soprattutto persuaso che non abbiano assolutamente il desiderio di farlo.

Flynn, il fautore di una relazione più stretta fra Russia e USA, lascia il posto ad un altro Generale, H. R. McMaster. Con McMaster la manovra di aggiramento da parte dell’Establishment è completata. Ci sono voluti più o meno quattro mesi di assidui attacchi, di manovre e contromanovre  per far capitolare Trump e far deragliare le sue promesse di una nuova distensione con la Russia sostenute sin dai tempi delle primarie.

Intendiamoci; le credeziali del nuovo National Security Advisor non si discutono.

Il curriculum parla da sè: McMaster, per chi lo non lo conosce è un generale a tre stelle, decorato dalla testa ai piedi, soprattutto per le sue azioni durante la prima Guerra del Golfo, in Iraq. McMaster è anche l’autore di diversi libri; il più famoso riguarda la Guerra in Vietnam, con il quale McMaster critica, non tanto le ragioni della guerra, quanto le tattiche usate e la divisione alimentata con gli argomenti “parrocchiali” di chi altrimenti avrebbe dovuto gestirla strategicamente. Fattori che secondo McMaster hanno contribuito alla disfatta militare .

Il libro è diventato, per un’intera generazione di ufficiali militari, una lettura obbligata.

Ora il Generale McMaster avrà la possibilità di mettere a disposizione della Casa Bianca le proprie conoscenze, anche se McMaster non solo è un uomo di intelligenza superiore ma è anche un personaggio di brutale schiettezza e scorbuticità.

Un carattere duro che gli è costato più volte la promozione, raggiunta poi inevitabilmente grazie alle innegabili capacità.

Resta il fatto che McMaster è stato messo lì per intimidire Trump e portarlo ad abbracciare politiche neocons. Basta osservare che gli arcinemici di Trump, fino al giorno precedente la capitolazione di Flynn, sputavano veleno sul Presidente; ora si trovano ad eloggiare la nomina di McMaster. Il nostro caro McCain in un Twitter ha detto di McMaster: “Lt Gen HR McMaster è una scelta eccellente come consigliere per la sicurezza – uomo d’intelletto genuino, carattere e capacità

 

La disfatta di Trump è sintetizzata dal regista Oliver Stone; in un commento ha detto che:  “Condi Rice e Susan Rice impallidiscono accanto al generale H.R. McMaster, un cane da guerra del Pentagono fino alle midolla. Trump chiaramente sembra ormai sconfitto dal potere delle agenzie di intelligence e dei media. Anche il psicotico John McCain approva con tutto il cuore la nomina di McMaster.”

Il regista Stone è impegnato da oltre un anno nell’arduo compito di comunicare agli americani la pericolosità dell’antagonismo verso la Russia e delle menzogne costruite sull’Ucraina. Lo stesso regista parla di ostruzioni pesanti che arrivano non solo da entità politiche ma anche dall’ipocrita mondo hollywoodiano i quali cercano di ostacolarlo in tutti i mondi nella produzione di un documentario sulle verità ucraine.

Con la dipartita del General Flynn, la speranza di una distensione con la Russia sembra ormai confinata nell’ottimismo quasi illusorio di pochi credenti i quali si abbarbicano a cercare improbabili appigli.

Come ho scritto in precedenza, nutro ancora qualche speranza; soprattutto che Rex Tillerson possa compiere un miracolo e contro tutto e tutti riesca a raggiungere un accordo, anche se minimo con Lavrov. Un accordo che apra la via a negoziati più seri.  Inutile nascondere le difficoltà nelle quali Tillerson dovrà operare.

Tillerson però è un uomo dalle risorse nascoste, che ne fanno un formidabile nemico degli avversari della distensione.

Non ci resta  che seguire le trame che si svilupperano nei prissimi giorni, settimane, mesi.

Una cosa è certa; i Neocons sono tornati, ma forse non erano mai andati via.

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