I MANIFESTI NEMICI _ REPLICA DI ROBERTO BUFFAGNI AD ALESSANDRO VISALLI_ULTIMA PARTE

I manifesti nemici

Replica ad Alessandro Visalli – seconda e ultima parte

1a PARTE   http://italiaeilmondo.com/2017/11/07/i-manifesti-nemici-di-roberto-buffagni/

In basso a destra della pagina principale del sito, nella categoria dossier, alla voce “Europa Unione Europea” sono disponibili gli articoli sin qui prodotti sull’argomento

 

Tocco qui il punto della Dichiarazione di Parigi che Visalli definisce “una scelta che proprio non posso condividere.” Riporto per esteso il brano criticato da Visalli sia per comodità del lettore, al quale sono stati presentati i testi in esame qualche settimana fa, sia perché il punto è importante.

Qual è la scelta che Visalli trova inaccettabile? Così la descrive il brano della Dichiarazione di Parigi citato e commentato dal nostro interlocutore: (sottolineature mie)

Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro…Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.”.

Visalli critica così: (sottolineature mie) “Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza…. Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Replico brevemente alla critica di Visalli.

1) Le classi e i ceti, cioè a dire la diseguaglianza sociale, sono una regolarità storica permanente. La diseguaglianza sociale può affermarsi nella realtà effettuale in molti modi; e in molti modi può essere legittimata. Le distanze gerarchiche possono essere più o meno grandi e più o meno rigide, le asimmetrie di potenza maggiori o minori, ma la diseguaglianza sociale resta un dato storico permanente e universale.

2) E’ possibile e desiderabile, un’azione politica tendente a eliminare la diseguaglianza sociale? Si badi bene: eliminare, non ridurre, o modificare ricostruendola su basi anche radicalmente diverse?

3) No. L’eliminazione della diseguaglianza sociale è impossibile, e dunque indesiderabile, perché produce effetti enantiodromici. La dinamica è la seguente: a) per eliminare la diseguaglianza sociale è necessario intervenire sulla realtà sociale non egualitaria b) per intervenire efficacemente sulla realtà sociale è indispensabile il potere c) il potere non può essere esercitato da tutti, sennò l’eguaglianza ci sarebbe già d) il potere viene invece esercitato da alcuni: come sempre il potere, che è per sua natura un differenziale di potenza, + potente/- potente d) risultato: più eguaglianza sociale si vuole ottenere, più dispotismo politico risulta necessario impiegare e) alla fine delle operazioni, si ottiene molta eguaglianza per i molti, molto potere per i pochi.

4) Questa dinamica paradossale ed enantiodromica è la caratteristica più vistosa di quel che Eric Voegelin chiamò “gnosticismo politico”[1], cioè a dire la trasposizione sul piano storico, immanente, delle categorie escatologiche cristiane. La trasposizione è motivata dalla reazione patologica a un’esperienza universalmente umana: l’orrore di fronte all’esistenza – per esempio, l’orrore di fronte all’ingiustizia sociale, che può assumere forme veramente atroci – e il desiderio di fuggirne. Il cristianesimo sdivinizza, “disincanta” il mondo naturale e storico. Quando la fede cristiana nella trascendenza si eclissa, l’angoscioso vuoto di senso che si spalanca nel mondo viene riempito dalle gnosi: che prendono forma politica qualora le società non trovino più sufficiente legittimazione nel loro ethos tradizionale, e sentano il bisogno di un’efficace, coesiva teologia civile. Lo gnosticismo politico non commette soltanto un errore teorico in merito al significato dell’eschaton cristiano. In conformità a questo errore, le ideologie gnostiche e i movimenti che le traducono in azione politica interpretano una concreta società e l’ordine che la regge come un eschaton; e dando una lettura escatologica di concreti problemi sociali e politici, fraintendono la struttura della realtà immanente: cioè sognano quando sarebbe indispensabile essere ben desti. In particolare, il sogno gnostico oscura e rimuove la più antica acquisizione della saggezza umana: che ogni cosa sotto il sole ha un inizio e una fine, ed è sottoposta al ciclo di crescita e decadenza; che insomma tutto, nel mondo immanente, è governato dal limite.

5) Gli errori in merito alla struttura del reale hanno serie conseguenze pratiche, che spesso si manifestano in forma paradossale: come nell’esempio succitato, in cui perseguendo l’eliminazione della diseguaglianza sociale si ottiene il dispotismo; o come nel caso dell’immigrazione di massa, nel quale perseguendo l’accoglienza umanitaria indiscriminata degli stranieri si ottiene non soltanto il rischio di collasso delle strutture sociali, ma addirittura l’insorgenza del razzismo.

6) Se l’errore in merito alla struttura del reale consegue a un’ideologia gnostica, l’accecamento di fronte alla realtà diventa però una questione di principio. Immediata conseguenza: lo gnostico vuole ottenere un effetto, e ne ottiene un altro diametralmente opposto. Del baratro tra intenzione e risultato, però, lo gnostico non incolperà mai se stesso e il suo sogno: incolperà sempre gli altri, o la società nel suo insieme, che non si comportano secondo le regole in vigore nel suo profetico mondo di sogno.

7) Lo gnosticismo politico non si manifesta in una sola forma. Ieri si è manifestato in forma di comunismo, nazismo, puritanesimo, catarismo, etc. Oggi si manifesta in forma di progressismo, di “liberal-democrazia” mondialista.

8) Si può, e si deve, discutere a lungo e a fondo, dissentendo anche con asprezza, in merito ai contenuti, alle forme, alle ragioni di eguaglianza e gerarchia sociali. Il dibattito teorico, e il conflitto pratico, sono non soltanto inevitabili ma benefici: a patto che dibattito e conflitto non si si propongano obiettivi immaginari ma reali, e dunque limitati (può essere limitato anche un conflitto armato).

9) E’ un obiettivo immaginario e pertanto distruttivo ed enantiodromico l’abolizione delle diseguaglianze sociali, è un obiettivo reale e pertanto costruttivamente perseguibile una loro diminuzione, e/o una loro diversa composizione e legittimazione. Uno dei dati di realtà da tenere in conto è il conflitto dei valori: libertà/sicurezza, eccellenza/eguaglianza, democrazia/capacità decisionale, etc. In quest’ultimo caso, l’esperienza storica suggerisce che la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico; che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche. Nella cultura politica del repubblicanesimo antico e moderno si possono trovare molte utili indicazioni in merito alla funzione positiva e costruttiva della compresenza conflittuale di istituzioni che si rifanno a principi diversi: monarchico (esecutivo forte), aristocratico (senato), democratico (suffragio universale).

Per concludere. Non tocco, qui, il tema “quali eguaglianze, quali gerarchie siano desiderabili e perché”. Ne potremo discutere, con Visalli e con altri, in seguito. Quel che mi preme, per ora, è indicare il contesto entro il quale questa discussione mi pare fruttuosa: che non è l’antitesi radicale e principiale eguaglianza/gerarchia, progresso/reazione; ma le forme e i contenuti concreti delle eguaglianze, delle differenze, delle gerarchie possibili.

[1] Per una trattazione sintetica, v. Eric Voegelin, «Modernity without Restraint», in Collected Works of E.V., vol. V, Columbia and London: University of Missouri Press, 2000.

 

L’ aperi-cena filosofica _ Il Manifesto convivialista , di Elio Paoloni

 

 

L’ aperi-cena filosofica

Il Manifesto convivialista

 

Elio Paoloni

 

Su questo sito si discute di Manifesti, in particolare della Dichiarazione di Parigi,(https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/ ) che, come altri collaboratori del blog, condivido interamente. Parigi c’entra poco, in realtà, anche se tra i firmatari ci sono il medievista francese Rémi Brague, studioso di Maimonide e docente alla Sorbona e Chantal Delsol, la fondatrice dell’Istituto Hannah Arendt di Parigi: tra gli altri firmatari del documento, originariamente redatto in inglese,  troviamo Roger  Scruton, uno dei massimi filosofi anglosassoni, (https://eliopaoloni.jimdo.com/2013/01/14/un-conservatore-relativista ) il polacco Ryszard Legutko, ex ministro dell’Istruzione, docente di Filosofia antica all’Università Jagellonica di Cracovia e prima ancora responsabile intellettuale di Solidarnosc durante la Guerra fredda, il tedesco Robert Spaemann, a lungo compagno di ricerche e studi dell’allora professor Joseph Ratzinger e poi erede della prestigiosa cattedra che fu di Hans-George Gadamer a Heidelberg, lo spagnolo Dalmacio Negro Pavón, membro dell’Accademia reale spagnola per le scienze sociali e poi personalità olandesi, tedesche, norvegesi.

 

Francofoni erano invece i firmatari di un manifesto in cui mi sono imbattuto, quello convivialista, (qui http://www.edizioniets.com/scheda.asp?n=9788846739421 , qui un compendio in PDF http://www.postfilosofie.it/archivio_numeri/anno7_8_numero7/1compendio.pdf ), redatto qualche anno fa con il proposito di unire le diverse anime del pensiero alternativo, di “individuarne il massimo comun denominatore”.

 

Non è così difficile, in realtà, unire diversi volenterosi sull’ennesima esposizione di lodevoli principi: come non concordare sulla nocività della finanziarizzazione del mondo e della subordinazione di tutte le attività umane a una norma commerciale, iniziata con l’imposizione dell’idea di “Fine della storia”? Come dissentire dalla stigmatizzazione dell’imperio del Mercato a discapito di qualsiasi seria azione politica? Come non rammaricarsi, con i firmatari, che venga disconosciuta la “motivazione intrinseca” al lavoro, che si escluda il fare per senso del dovere, per solidarietà, per il gusto di un lavoro ben fatto e per il desiderio di creare?

 

Vediamo dunque i capisaldi della politica convivialista:

 

  • Principio di comune umanità: aldilà delle differenze di colore della pelle, di nazionalità, di lingua, di cultura, di religione o di ricchezza, di sesso o di orientamento sessuale, esiste soltanto un’umanità, che deve essere rispettata nella persona di ognuno dei suoi membri. Sai la novità! Dette duemila anni fa e riproposte, desacralizzate, due o tre secoli fa in tanto solenni quanto inerti dichiarazioni. Ma concordiamo pure.

 

  • Principio di comune socialità: gli esseri umani sono esseri sociali. Un po’ di storia della filosofia e la ritroviamo ancor più indietro dei duemila anni. Ma, ancora una volta, nulla da eccepire.

 

  • Principio di individuazione: la politica legittima è quella che permette a ciascuno di affermare al meglio la propria singolare individualità in divenire, sviluppando le proprie capabilità (apprezzabile richiamo all’etica di Amartya Sen).

 

  • Principio di opposizione controllata: è naturale che gli esseri umani possano opporsi. Ma è legittimo farlo solo se non si mette in pericolo il quadro di comune socialità. Perbacco! E ci si sono messi in quaranta?

 

In effetti i firmatari si rendono conto che la scommessa “porta esattamente su ciò che si cerca dall’inizio della storia umana: un fondamento durevole all’esistenza comune, al contempo etico, economico, ecologico e politico”. Per quel che mi riguarda quel Fondamento esiste già. Non per i convivialisti, ovviamente. Quale sarebbe dunque questo massimo comun denominatore?

 

Forse la costruzione di una società del care, “la cura, la sollecitudine – alle quali le donne per prime sono state storicamente assegnate”. Ed eccoci subito dinanzi alla mancanza di coraggio, o alla necessità di mediazione, insomma al timore di indispettire le femministe, perché quello storicamente andrebbe sostituito con biologicamente.

 

Ma questo non basta, ovviamente. Analizziamo le considerazioni morali dei firmatari: va proibito all’individuo “di sprofondare nell’eccesso e nel desiderio infantile di onnipotenza (la hybris dei Greci)”. Giustissimo! Ma la hybris si configurerebbe, qui, nel pretendere di appartenere a qualche specie superiore (perché mai, infatti, l’uomo dovrebbe essere superiore alla zanzara?) o nel monopolizzare una quantità di beni eccessiva. Non un cenno al galoppare dell’Eugenetica o al delirio di onnipotenza di chi cerca l’immortalità tagliandosi le tette in via preventiva, a prescindere, come la tristemente rifatta Angelina Jolie, approdo ultimo della vaccinocrazia, della medicalizzazione di ogni ambito della vita, della ricerca ossessiva della Sicurezza. Neanche una parola sul delirio di onnipotenza di chi intende annullare i generi, femminilizzare gli uomini, abbrutire le donne. Nessun riferimento a chi manovra per sradicare le tradizioni e imporre a tutto il pianeta, divinizzandolo, un unico regime politico, un unico governo. Ah, dimenticavo: il governo mondiale è anche nei disegni dei nostri buontemponi: nel paragrafo delle considerazioni politiche si prende atto che è illusorio attendere nel prossimo futuro la costituzione di uno stato mondiale. Pare di capire che in un futuro più remoto essa sia probabile, anzi auspicabile. Viva il mondialismo? E in che cosa sarebbe alternativo questo movimento? Nel frattempo, poveri noi, dovremmo accontentarci dell’azione politica di “associazioni e ONG”, magnifici strumenti sovranazionali, progressisti e – come dubitarne – indipendenti che abbiamo imparato a conoscere.

 

Concretamente, continuano i convivialisti, il dovere di ciascuno è di lottare contro la corruzione. Questi umanisti non hanno letto Croce (https://www.storiadellafilosofia.net/filosofia-moderna/benedetto-croce/l-onest%C3%A0-politica/ ). Ad ogni modo, occorre “rifiutare di fare ciò che la coscienza disapprova”. Coscienza con la minuscola? E perché mai, in un mondo relativista, la coscienza di Soros dovrebbe dettare gli stessi imperativi di quella di un derviscio rotante? Chi stabilisce, nel mondo del pensiero debole, liquido, più propriamente diarroico (che nessun convivialista si sogna di denigrare) cosa sia “giusto e intrinsecamente desiderabile”?

 

Ma nello specifico? Reddito di base, ovvero il grillino reddito di cittadinanza depurato dell’aggettivo troppo nazionalistico: non siamo tutti, soltanto, cittadini del mondo? Pare abbastanza condivisibile l’instaurazione di un reddito massimo, che però non scalfirebbe minimamente le grandi entità multinazionali e i centri di potere finanziari, le cui sedi sono immateriali. Ah, dimenticavo, nel convivialismo ‘pienamente realizzato’, il governo sarà planetario.

 

Evasivi, criptici, fumosi, gli altri proponimenti politici: “nella moltiplicazione delle attività comuni e associative, costitutive di una società civile mondiale… il principio di autogoverno ritroverebbe i suoi diritti, al di qua e al di là degli Stati e delle nazioni”. Cosa ci sarebbe qui di alternativo alla globalizzazione? Che senso ha scardinare le uniche entità che possono avere la forza di arrestare il tanto osteggiato dominio della finanza, a favore di un arcadia anarco-digitale? Digitale, già. Perché, come insegnava anche Casaleggio, “Internet è un potente mezzo di democratizzazione della società e di invenzioni di soluzioni che né il Mercato né lo Stato sono stati capaci di produrre… attraverso una politica di apertura, di accesso gratuito, di neutralità e di scambio”. Come se il Mercato non passasse ormai massicciamente dalla rete, come se la neutralità fosse un attributo necessario dei Gates e degli Zucherberg. Come se in assenza di Stato si potesse impedire il monopolio, quel monopolio che ora almeno viene – debolmente – avversato. Come se qualcuno, in assenza di Nazione, potesse garantire l’accesso gratuito. Come se davvero la gente usasse quel Linux che a costoro pare la panacea: tra le mie conoscenze, un solo amico lo ha installato (ma non lo usa: è uno smanettone e ha voluto provarlo, tutto qui).

 

Non è possibile commentare seriamente il proposito di rinnovamento dei servizi pubblici attraverso “emergenza, consolidamento e allargamento dei nuovi beni comuni dell’umanità”. Con scappellamento a destra?

La situazione planetaria “impone di regolare strettamente l’attività bancaria e i mercati finanziari e delle materie prime, limitando le dimensioni delle banche e mettendo fine ai paradisi fiscali”. Non ci avevamo pensato! Eppure sarebbe così semplice, tra una sarchiata nell’orto comunitario urbano e una corsa al mercatino equosolidale per acquistare il caffè, sbaragliare, convivialmente, i paradisi fiscali. Chi, esattamente, lo farà, in assenza di Stato e di Nazione? Ah, ecco: “sarebbe giudizioso creare un abbozzo di l’Assemblea Mondiale (Non ci sono bastate la Società delle Nazioni e l’ONU?) che comprenda rappresentanti della società civile mondiale associazionista, della filosofia, delle scienze umane e sociali e delle differenti correnti etiche, spirituali e religiose che si riconoscono nei principi del convivialismo”.

1980-16-pellegrinaggio-nucleare-cm86x71-0-126Non sbagliava Michel Lacroix: “Per affrontare i problemi odierni, il New Age sogna un’aristocrazia spirituale nello stile de La Repubblica di Platone, gestita da società segrete”. E codesta accolta di onesti uomini tecnici, che per fortuna non ci è dato sperimentare (dal brano di Croce sopra citato) che si ritroveranno a governare il mondo, così, per caso (per acclamazione?) come fermeranno i finanzieri cattivi? Con un armata di bocciofile? Con volenterose truppe internazionali, come i caschi blu di Srebrenica? No, essenzialmente con tre formidabili armi:

 

  • il sentimento di appartenere a una comunità umana mondiale” che è un sentimento abbastanza comune, preso genericamente (per certi versi un’ovvia constatazione) ma difficile da provare nel concreto a meno che non si appartenga agli esponenti della globocrazia, quella casta di cosmopoliti che scorrazzano per il mondo piegandolo ai loro illuminati voleri (Monti, Boldrini, Draghi, Rockefeller e via dicendo). Nel mondo reale solo una cerchia ristretta può essere avvertita come la nostra comunità. Già la nazione – fuori dai campionati di calcio – è qualcosa di difficilmente avvertibile: il soldato non lotta per la Patria ma per il suo plotone. L’umanità è troppo ampia perché la si possa – politicamente – avvertire come prossima. Non è questione di cultura o sensibilità: la storia tutta intera, l’antropologia, la sociologia e la psicologia ci avvertono che l’accento del paesino limitrofo già ci separa. Aci Trezza è tuttora acerrima nemica di Aci Castello. Eppure, secondo Fistetti, firmatario e postfatore del manifesto, “tocca ai cittadini delle società liberaldemocratiche «deporre le armi», o, come dice Mauss, «fidarsi interamente» e avanzare l’offerta di alleanza” ai migranti che, manco a dirlo, sono, nella loro totalità ‘profughi’ e, se proprio non ce la facciamo a infilarli nella categoria, ‘migranti ambientali”. Una «scommessa sulla generosità»(Caillé) tipicamente cristiana ma in assenza di cristianesimo e anche di una seria riflessione sulla natura della principale religione antagonista, quindi una follia. Un suicidio politico, e prima ancora morale.

 

  • l’indignazione degli onesti e, specularmente, la vergogna “che è necessario far provare a coloro che violano i principi di comune umanità” (si vergogni, califfo Al Baghdadi, si vergogni, mister Rothschild, si vergogni mister Soros. Ma se già i fantocci politici di casa nostra sono proverbialmente definiti “senza vergogna”!).

 

  • sempre in tema sentimentale, la mobilitazione degli affetti e delle passioni, ben al di là, udite udite, delle scelte razionali degli uni e degli altri. Ma come, ci hanno sempre messo in guardia dal far appello alla pancia dei cittadini, ai rischi dello scatenarsi di emotività nella massa! Ma no, nel Mondo Nuovo convivialista si affermerà per incanto “il meglio delle passioni”, “per inventare altre maniere diverse di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di insegnare”. Immaginazione al potere, quand’è che l’avevo già sentita? Basteranno nuove Enciclopedie – digitali, ça va sans dire – aggiornate ai dettami ecovegansolidalpacifisti, compulsate le quali narcos boliviani, narcotizzati telespettatori e coatti d’ogni continente si eleveranno a un nuovo stadio di spiritualità.

 

Scorrendo le pagine di questo fantasioso libello mi imbatto anche nell’“obbligo perentorio di far scomparire la disoccupazione”. Di perentorio in tal senso ricordo solo i piani quinquennali. Che si facevano rispettare a suon di deportazioni.

In fondo, finalmente, leggo che si “dovrà assolutamente puntare a ricongiungere sovranità monetaria, sovranità politica e sovranità sociale”. Ottimo! Anzi no: eravamo stati ingannati dalla formulazione ambigua: leggendo meglio si arguisce che la sovranità riguarderebbe una UE rafforzata, non i singoli Paesi.

 

Fin qui solo fuffa: un contenitore vuoto, una sequela di buonismi, di quelle buone intenzioni che sappiamo bene cosa sono destinate a lastricare. Anche di intenzioni pessime, per quel che mi riguarda, come lo è ogni proposito contro la sovranità nazionale. Ma, a ben vedere, una proposta politica concreta c’è: tra le anime alternative ne emerge prepotentemente una, che ho volutamente tralasciato, benché sia presente sin dalle premesse. La parola d’ordine è ‘decrescita’. Latouche risulta essere solo uno dei firmatari ma sui suoi vagheggiamenti si fonda buona parte del manifesto, che riprende i catastrofismi da Club di Roma e il tormentone del CO2 per approdare alla esaltazione della “sobrietà volontaria e dell’abbondanza frugale”. Il problema fondamentale sarebbe la “minaccia antropica”(ci mancava il neo-malthusianesimo), la “finitezza orami evidente del Pianeta e delle sue risorse naturali”. “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La situazione ecologica del pianeta rende necessario ricercare tutte le forme possibili di una prosperità senza crescita”.

 

Le infelici uscite di Latouche, che si fondano su un’idea primitiva dei sistemi economici, immaginati come insiemi di caratteristiche fisse ed immutabili nel tempo, sono state già ampiamente contestate: è chiaro per qualsiasi studioso vero che la riduzione del reddito nazionale non si traduce automaticamente in una produzione più pulita; anzi, è più facile che un calo delle risorse monetarie finisca con il tradursi in un processo di regressione industriale in cui vengano preferite tecnologie obsolete, e più dannose per l’ambiente (vedi il recente ritorno in auge del carbone tra le fonti di energia). E, soprattutto, gli effetti di una riduzione del PIL non sarebbero equamente distribuiti: andrebbero ad abbattersi in modo regressivo, colpendo la fascia più povera della popolazione, accrescendo proprio quella già enorme disuguaglianza additata nel Manifesto.

 

Collegate alla famigerata decrescita troviamo altre esplosive iniziative alternative: post-sviluppo, movimenti slow food, slow town, slow science; la rivendicazione del buen vivir, l’affermazione dei diritti della natura: “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La relazione di dono/contro-dono e di interdipendenza deve esercitarsi soprattutto verso gli animali, che non devono più essere considerati come materiale industriale. E, più in generale verso la Terra”.

Diritti della natura, attenzione. Non giuste e condivisibili preoccupazioni razionali su ciò che dobbiamo gestire e tutelare ma attribuzione di “diritti”. Per attribuirne alla gramigna e alle blatte non basta un paradigma filosofico, occorre una nuova religione, anzi no, basta forse reintrodurre quella andina (vedi elogio del pachamama). Non solo animalismo, insomma si accenna a cavalcare anche il misticismo dell’ipotesi Gaia, la teoria di Lovelock, allarmista pentito che non crede più alla fine del mondo per surriscaldamento e che, ad ogni buon conto, ha sempre sostenuto  l’unica energia abbondante veramente pulita e, per il nostro Paese, strategica e opportuna: quella nucleare, ovviamente demonizzata dai firmatari.

Il Sacro, scacciato dalla porta, rientra sempre dalla finestra. L’adorazione che non è rivolta al cielo si proietta verso il mondo. Gea, Iside o Mama Pacha, e l’immarcescibile Vitello d’oro (oggi Gattino, Cagnolino, Maialino), tutto si presta ad essere venerato dai nuovi pagani, i ‘laici’.

 

Ma cosa, insomma, sta dietro a questo movimento? Cosa lo differenzia da tanti generici propositi di tante brave (e anche pessime) persone? A conferire portata filosofica a questo documento di una povertà concettuale sconcertante, sarebbe, spiega Francesco Fistetti nella postfazione all’edizione italiana, il paradigma del Dono: molti degli studiosi firmatari, in particolare il propugnatore del manifesto, Alain Caillé, sono seguaci dell’eroe della tradizione antropologica francese, Marcel Mauss, autore del Saggio sul dono (1925), nel quale, interrogandosi sul rapporto tra diritto e interesse, teorizzava che la forma-dono delle società primitive resta uno dei capisaldi sui quali è fondata anche  la nostra società. “Non si concepiscono società senza mercato” e l’errore del socialismo è stato quello di volerlo abolire: il mercato va regolato.

Tutti noi non chiediamo di meglio anche se siamo convinti che per farlo ci vogliano un pensiero – e una azione – tutt’altro che slow. In cosa, ad ogni modo,  il convivialismo differisce dal Welfare State o dallo stato Keynesiano? Nel principio euristico, per cui l’economia, come la politica e la morale, è soltanto uno degli elementi dell’arte di viver in comune: “la società è un tutt’uno”. Non fa una piega. E dunque? “Occorre tornare al paradigma del dono”. Questo è lo slogan risolutivo, la panacea.

 

Ora, se questa parola d’ordine deve essere divulgata e portata sugli scudi, è necessario qualche chiarimento. Il termine dono , in questo contesto, è irrimediabilmente ambiguo, anzi fuorviante. Perché il destinatario del messaggio penserà al Dono, alla gratuità totale, a una postura caritatevole, disinteressata e amorevole come solo nella dimensione trascendente si dà. Stiamo invece parlando di un meccanismo di mercato molto ritualizzato e complesso, solo apparentemente libero e gratuito, in realtà obbligato e interessato (poiché il dono va obbligatoriamente ricambiato). Presso i Polinesiani gli attori coinvolti erano collettività: famiglie, clan, tribù; e non venivano scambiati solo beni ma anche “banchetti, riti, cortesie, azioni militari, donne, bambini”. Insomma “un sistema di prestazioni sociali totali”. Nelle quali, inutile dirlo, il manato ricambio veniva sanzionato anche duramente. Mauss riallacciava tutto ciò alle istituzioni di sicurezza e previdenza sociale. L’assicurazione è dunque un dono? E la previdenza? A me pare un mero accantonamento, una forma di risparmio, ma forse sto banalizzando.

 

Sarebbe il caso, ad ogni modo, di lasciar perdere questo mantra poiché il grande merito di Mauss è stato proprio quello di scoprire che quel dono non era affatto un dono. Lasciamo il Dono ai credenti e chiamiamo scambio questa forma della socialità.  Ecco che ci ritroviamo con un pallone sgonfiato. Che c’è di così nuovo nello scambio? Se ben comprendo, nel fare a meno della moneta tradizionale. Si parla infatti, nel manifesto, di commercio equo, mutua assistenza, monete parallele e complementari, sistemi di scambio locale. Si avversa dunque il signoraggio?

 

Il punto è, si sostiene, che mentre nelle società arcaiche l’economia era inserita nei rapporti sociali ora sono i rapporti sociali a essere inseriti nel sistema economico. Giusto. Sono anni che qui e su ogni sito decente del web si proclama che la politica deve riprendere il sopravvento sull’economia. Ma il dono non c’entra: c’entrano i rapporti di forza, nozione ormai abbandonata dagli intellettuali progressisti che la forza non vogliono sentirla nominare in alcun contesto.

 

Ad ogni modo, chiarito l’equivoco ci troviamo di fronte a un altro intoppo: abbiamo un paradigma che da un canto si sostiene già attivo – attivo da sempre, in ogni società, e – d’altro canto – non presente, dato che si chiede di  reintrodurlo. Si deve intendere che la reintroduzione consista semplicemente nel riconoscere – e ricollocare – le forme presenti oppure che si debba tornare a forme arcaiche, vale a dire alle usanze di piccole, lente e crudeli società patriarcali dove si “donavano” donne e bambini? C’è di che far spazientire.

 

babeleCosa disegnano costoro, insomma? Una società molto liquida basata su un economia di sussistenza, con strutture politiche anch’esse liquide, come avveniva appunto nelle società tribali, popolate di figure di prestigio prive di reale potere. Come poi tutto questo, una rete di centri sociali allargati percorsi dalla buona volontà senza neppure il supporto della Buona Novella, possa affermarsi su scala planetaria senza che si precipiti nell’anarchia più belluina non è dato comprendere. Vi saranno sempre nobili figure stoiche in grado di recepire imperativi morali, tratteggiare etiche e conformarvisi pure. Ma non è cosa che commuova le folle. Le lotte non si conducono con il salmodiare buonista ma con la dura analisi degli interessi storici e degli arcana imperii, diceva Costanzo Preve, che pure, per certi versi, col suo Nuovo Comunitarismo, potrebbe essere apparentato ai convivialisti.

 

Perché dunque spendere tante righe per confutare le affermazioni di un movimento così poco convincente, che è riuscito a darsi un nome improbabile, evocatore più di  libagioni da nouvelle cuisine che di lotte politiche, un movimento che presumibilmente si scioglierà come neve al sole o sopravvivrà in eterno come accade a quelle conferenze ininfluenti e costituzionalmente inconcludenti che sono i tavoli ecumenici del dialogo interreligioso?

 

Perché mentre i volenterosi pensatori francesi tentano di indurci alla frugalità volontaria i loro governanti si occupano della nostra decrescita forzosa. Tra banche, moda, alimentare, hi-tech ed energia, i cugini d’Oltralpe hanno speso negli ultimi cinque anni la bellezza di 24 miliardi di euro per mettere le mani sui gioielli grandi e piccoli, quotati e non, del made in Italy. Vedi qui: http://www.ilgiornale.it/news/politica/litalia-gi-colonia-francese-24-miliardi-1342668.html

 

Normali operazioni commerciali, all’apparenza. Ma quando il nostro governo, pochissimo tempo dopo aver stretto accordi di enorme importanza (e di mutuo soccorso militare) con Gheddafi, ha assistito coraggiosamente, favorendola pure, all’esplosione della Libia, voluta e fomentata col beneplacito della Clinton (vedi file wikileaks) dai nostri cari cugini al fine di estromettere l’ENI e concederci in cambio graziosamente la risorsa profughi, si è compreso che l’invasione è – anche – politica, strategica, preordinata. E’ di dominio pubblico la recente nazionalizzazione “temporanea” dei cantieri navali Stx, attualmente appartenenti a imprenditori coreani, pur di non farli finire nelle mani dell’italiana Fincantieri. Nonostante accordi ineccepibili con l’ex presidente Hollande. In altri tempi cose del genere potevano scatenare una guerra. Noi sorridiamo e libiamo ne’ lieti calici.

 

I nostri cari cugini, insomma, crescono, si espandono e si accaparrano risorse fossili, compreso l’uranio, mentre i loro chierici tentano di intortarci con le tavolate slow food.

 

 

 

 

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI. (a cura di) Luigi Longo

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI.

(a cura di) Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Federico Dezzani su Assalto all’Eurasia: la Corea del Nord è solo l’antipasto, apparso sul blog: www.federicodezzani.altervista.org il 26 ottobre m.s., è interessante perché fa riflettere sulle strategie di attacco a tutto mondo degli Stati Uniti d’America.

La prima riflessione. Gli USA minacciano ritorsioni contro la Corea del Nord perché si è dotata della prima bomba termonucleare per la difesa della propria indipendenza. Le minacce non riguardano tanto la Corea del Nord, quanto la Cina e la Russia (l’Heartland) perché osano mettere in discussione gli attuali equilibri statunitensi nell’area pacifica (per non parlare nell’area mediorientale e africana) e indebolire i nodi strategici del Rimland (che va dall’Europa all’estremo Oriente).

La seconda riflessione. L’Europa delle regioni, che avanza sulle rovine delle nazioni, renderà impossibile qualsiasi ruolo da protagonista, nelle fasi multicentrica e policentrica, sia delle nazioni sovrane sia di una futura Europa delle nazioni sovrane.

La terza riflessione. Gli USA vogliono evitare qualsiasi ipotetica alleanza tra la Cina (attuale potenza economica) e la Russia (attuale potenza militare) che possa mettere in discussione il loro dominio mondiale in declino, che essi rilanciano con la forza delle armi perché non accettano un mondo multicentrico. Questo, a prescindere dal conflitto interno tra i loro agenti strategici: la potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza, oltre ad una missione speciale da compiere ed essere pertanto, l’unica nazione indispensabile del mondo (Progetto Messianico).

Non so se le potenze mondiali sono già delineate all’interno dello scontro tra Terra e Mare: i giochi sono aperti e la fase multicentrica sta delineando i centri delle potenze mondiali che saranno definite con le loro alleanze nella fase policentrica. Resta da capire bene le strategie e le percezioni del mondo della Cina sia in relazione alla Russia sia in relazione agli USA (senza dimenticare l’India).

Le relazioni cinesi e russe a livello mondiale, in questa fase, sono orientate rispettivamente l’una dalle sfere economico- finanziaria e politica, l’altra dalle sfere militare e politica: ciò è insufficiente per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Quindi parlo di due potenze mondiali emergenti che si difendono dall’attacco degli USA e lottano per un mondo multicentrico nel rispetto delle proprie differenze.

L’Europa? Essa è uno spazio americanizzato e occupato da basi militari USA-NATO (qui la Nato è intesa prevalentemente come strumento militare dell’agire statunitense) e non sarà protagonista nelle diverse fasi della storia mondiale. E’ sempre più un continente in mano agli USA per le loro strategie di dominio.

 

 

ASSALTO ALL’EURASIA: LA COREA DEL NORD È SOLO L’ANTIPASTO

di Federico Dezzani

Crescono le tensioni tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti d’America: la determinazione di Pyongyang a sviluppare il proprio deterrente nucleare si scontra con la convinzione di Washington che l’atomica nordcoreana abbia una natura offensiva. È ormai chiaro che, qualsiasi amministrazione occupi la Casa Bianca, la strategia di fondo non cambia: la potenza marittima americana ed i suoi alleati mirano a circondare il blocco euroasiatico su ogni lato. L’arsenale atomico di Pyonyang è solo un pretesto per militarizzare la regione e contenere la potenza navale cinese. Un’eventuale attacco alla Nord Corea anticiperebbe soltanto una guerra già ben delineata: l’ennesimo scontro tra terra e mare.

 

L’Heartland (Cina e Russia), il Rimland (la Corea) e le potenze marittime (USA)

Marx ed Engels definivano “struttura” l’economia e il sistema produttivo, “sovrastruttura” la politica, la cultura e la religione. La storia universale sarebbe quindi, secondo i due filosofi tedeschi trapiantati a Londra, questione di lavoro e capitale. Sbagliarono e, probabilmente, furono anche consapevoli del loro errore. “Struttura” è la volontà di potenza degli Stati e la geopolitica, la scienza che studia questa volontà di potenza, è il miglior strumento per capire ed interpretare la storia. In particolare, la storia è basata sulla volontà del “mare” di sottomettere la “terra” e sull’opposto desiderio della “terra” di domare il “mare”. Atene contro Sparta, Cartagine contro Roma, i Saraceni contro Bisanzio, Olanda contro Spagna, Inghilterra contro Francia, Londra contro Berlino, Washington contro Mosca.

Di fronte a questo scontro plurisecolare, mosso da forze telluriche che trascendono il contingente, tutto è “sovrastruttura”: tutto è accessorio, superfluo, quasi scontato. Le ideologie, le religioni, le singole personalità politiche. Tutto si muove perché la terra ed il mare bramano la guerra, in attesa della battaglia finale (se mai verrà).

È più utile, per chi volesse capire lo scenario internazionale, lo studio di “The Geographical Pivot of History”, pubblicato nel 1904 da Halford John Mackinder che la lettura di tutta la stampa specializzata attuale. Mackinder, esponente di spicco della talassocrazia per eccellenza, il Regno Unito, osserva il mappamondo ed individua nel cuore dell’Eurasia, zona inaccessibile alle potenze marittime, “l’area pivot” del globo terrestre: quell’area che, se debitamente organizzata dal punto di vista militare, logistico, economico e sociale, può schiudere, per chi la controlla, l’egemonia mondiale. Mackinder, in particolare, osserva con timore la costruzione delle ferrovie russe, capaci di spostare merci e soldati nelle sconfinate pianure come navi sul mare. Guai, dice Mackinder, se la Russia si alleasse alla Germania. Con un’incredibile preveggenza, Mackinder, chiude il suo pensiero con uno scenario ancora più preoccupante: l’integrazione tra la Cina ed il retroterra russo.

Seguiranno due guerre mondiali, che consentiranno agli angloamericani di annichilire la Germania e insediarsi in Europa (NATO-CEE/UE) e in Oriente (CENTO e SEATO, poi sciolte).

Durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale, lo stratega olandese, naturalizzato americano, Nicholas J. Spykman (1893-1943), pubblica un’opera (America’s Strategy in World Politics) che vuole aggiornare ed integrare il lavoro di Mackinder, per adattarlo alla prossima realtà geopolitica: poco importa, dice Spykman, chi controlla l’Heartland (URSS e la Cina che diverrà presto comunista), l’importante è che le potenze marittime “contengano” il nemico, circondandolo con una serie di Stati-satelliti così di depotenziarlo. A fianco dell’Heartland, nasce così il “Rimland”, rappresentato da tutti quegli appigli (dall’Italia al Giappone, passando per l’India) con cui le talassocrazie possono aggrapparsi alla masse terrestre. Non è, in realtà, un pensiero nuovo: già Mackinder, infatti, aveva evidenziato l’importanza di queste “teste di ponte”, indispensabili per le potenze marittime. Tra le teste di ponte citate da Mackinder nel 1904… c’è anche la Corea!

Iosif Stalin, ben consapevole dell’importanza di questo lembo di terra lungo 950 km, piuttosto brullo ed inospitale, decide di sfrattare gli americani dal condominio che si è creato dopo la sconfitta del Giappone: sovietici ed americani, infatti, si incontrano al 38esimo parallelo ed ognuno, nella propria metà, ha installato un governo amico. All’alba del 25 giugno 1950, l’esercito nordcoreano attraversa il 38esimo parallelo, travolgendo le difese sudcoreane. Caduta Seul, il 30 giugno, il presidente Truman autorizza il generale Douglas MacArthur ad intervenire: comincia così la guerra che si protrarrà fino al 1953 e si concluderà con un sostanziale pareggio (il confine tra le due Coree rimane fissato al 38esimo parallelo), grazie al massiccio intervento della Cina. Il regime di Kim Il Sung (1912-1994) supererà la Guerra Fredda senza altri particolari colpi di scena, grazie al costante appoggio cinese.

Simpatico aneddoto: l’ex-agente del SISMI, Francesco Pazienza, incontra i nordcoreani negli anni ‘80 alle isole Seychelles, dove gestiscono il servizio informazioni del presidente Ti France René. Propongono a Pazienza di eliminare un agente CIA, di cittadinanza italiana, che gira per le isole facendo troppe domande: il suo nome è Antonio Di Pietro1.

Nel 1991 collassa l’URSS e le potenze marittime riprendono la loro marcia verso l’Heartland (allargamento ad est della NATO, Georgia, Asia Centrale, etc. etc.). In questo contesto, la Corea del Nord è una potenza ostile situata nella fascia intermedia, il suddetto Rimland: il suo destino dovrebbe essere lo stesso quello della Jugoslavia. L’amministrazione Clinton, che apre le porte del WTO della Cina, ha però scarso interesse a scatenare una guerra a poca distanza dall’area in cui le imprese americane stanno delocalizzando. L’amministrazione Bush valuta il cambio di regime nel 2003, ma il pantano iracheno raffredda l’ardore bellico di Donald Rumsfeld e soci.

Resta il fatto che qualsiasi Stato ostile agli USA e privo di arsenale atomico può essere rovesciato in qualsiasi momento: Pyongyang accelera quindi il proprio programma nucleare bellico, usando uranio locale, e nel 2006 effettua con successo il primo test atomico. Nel caos dell’Ucraina post-Euromaidan2 (2014), i nordcoreani acquistano i missili balistici SS-18; il 29 agosto 2017 lanciano il primo vettore che sorvola il Giappone per inabissarsi nel Pacifico; il 3 settembre 2017 testano la prima bomba termonucleare.

La Nord Corea è ora nel ristretto club atomico: dispone di un arsenale che, in teoria, dovrebbe dissuadere qualsiasi aggressore. Il celebre “deterrente nucleare”.

La storia finirebbe qui se, come però sottolineato in precedenza, la penisola coreana non fosse parte di quel “Rimland” con cui le potenze marittime circondano, contengono e, all’occorrenza, attacco “l’Heartland”: è proprio quest’ultimo, non la piccola Corea del Nord, che ossessiona le talassocrazie.

L’intero continente euroasiatico, dal Mar Meridionale Cinese al Mar Baltico, si sta coprendo di ferrovie ad alta velocità ed alta capacità, anno dopo anno. Cina e Russia conducono esercitazioni navali congiunte nel Pacifico come nel Mediterraneo. Gasdotti ed oleodotti attraversano i due Paesi. Pechino costruisce linee ferroviarie capaci di raggirare lo Stretto di Malacca (attraverso la Birmania) o di raggiungerlo in poche ore (attraverso la Malesia), indebolendo così la funzione di Singapore. “L’area pivot” di Mackinder non è mai stata così viva e dinamica, ponendo le talassocrazie di fronte ad un bivio: la capitolazione o l’attacco.

È in questa cornice che va collocata la tensione tra angloamericani e nordcoreani: poco importa a Washington dell’arsenale di Kim Jong-un, molto invece della crescente potenza navale cinese (nell’aprile del 2017 i cantieri di Dalian hanno varato la prima portaerei Made in China) e della cooperazione con quella russa. Sia Mosca che Pechino ne sono coscienti ed è per questo che a settembre hanno votato in sede ONU le sanzioni contro Pyongyang, sebbene edulcorate quanto basta da non portare il regime al collasso3: il nucleare nordcoreano è soltanto un pretesto utile alle talassocrazie per tentare di strangolare il blocco continentale.

Un comodo espediente per il dispiegamento dei missili THAAD in Sud Corea4, duramente contestato dalla Cina, per il riarmo del Giappone (che gioca oggi un ruolo identico al Giappone filo-britannico ed anti-cinese di inizio Novecento), per la riesumazione della SEATO: sono questi gli obbiettivi che interessano a Washington e Londra, resi possibili dall’arsenale atomico nordcoreano. Il presidente Donald Trump, sempre più avvinghiato nella ragnatela di Washington, lancerà un attacco preventivo contro la Nord Corea? Se così fosse, significherebbe soltanto anticipare al 2017 una guerra già ben delineata. L’ennesimo scontro tra terra e mare.

1Francesco Pazienza, il Disubbidiente, Longanesi, 1999, pg. 460

2https://www.nytimes.com/2017/08/14/world/asia/north-korea-missiles-ukraine-factory.html

3https://www.vox.com/world/2017/9/12/16294020/russia-china-water-un-sanction-north-korea

4http://edition.cnn.com/2017/09/07/asia/south-korea-thaad-north-korea/index.html

DALLE PRIMAVERE AGLI INVERNI DI SOROS. SARANNO CALDI, MOLTO CALDI di Giuseppe Germinario

UN TORRIDO INVERNO

Questo insolito tepore ottobrino, così siccitoso, lascia presagire un torrido ed infuocato inverno.

Dal punto di vista meteorologico potrebbe essere una previsione troppo azzardata; previsioni del tempo attendibili riescono a coprire un arco di tempo ancora troppo breve, di pochi giorni.

È la temperatura politica del pianeta, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, che pare surriscaldarsi sino a sfiorare pericolosamente il punto critico di formazione di tempeste distruttive e roghi devastanti.

Provo a collegare, più o meno avventurosamente, quattro episodi apparentemente avulsi tra essi.

  1. Il discorso di Trump all’ONU_ Il 19 Settembre scorso Trump ha pronunciato il suo primo e per ora unico discorso all’ONU. Sul sito ne abbiamo già parlato con dovizia http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

http://italiaeilmondo.com/2017/09/27/massimo-morigi-a-proposito-del-podcast-episode-13_-lo-smarrimento-dei-vincitori-di-gianfranco-campa/  ; allo stato attuale, potremmo arricchire e corroborare le nostre valutazioni con una ulteriore supposizione. Quel discorso così apparentemente contraddittorio e paradossale potrebbe essere in realtà un tentativo particolarmente sofisticato e pericoloso di mettere a nudo le debolezze, l’inconcludenza e l’avventurismo delle strategie di quello staff militare dal quale è ormai circondato e che sta cercando di erigere una vera e propria barriera in grado di filtrare rigorosamente i contatti del presidente americano. Sembra voler dire: “volete lo scontro con la Russia e la Cina, l’Iran e la Corea del Nord? Ve lo offro su un piatto d’argento e vediamo se avete la reale intenzione e capacità di portarlo avanti, con quali rischi e a che prezzo!”

Il recente viaggio degli esponenti del ramo prevalente dei Saud, dei regnanti quindi dell’Arabia Saudita, in Russia può essere d’altro canto letto non solo come un sussulto di autonomia di quella classe dirigente di fronte allo stallo della politica di destabilizzazione in Medio Oriente e al recupero di autorevolezza della Russia di Putin; ma anche come una sorta di diplomazia parallela e per interposta persona che le forze fautrici dell’avvento di Trump alla Presidenza Americana continuano a portare avanti. Le aperture ben più esplicite dei generali egiziani alla Russia da una parte e i contatti di Bannon, il mentore ufficialmente disconosciuto e reietto, in realtà ancora costantemente e discretamente consultato dal Presidente, con la dirigenza cinese sembrano confermare l’esistenza di questi doppi canali di comunicazioni e di relazioni.

  1. Lo scandalo a sfondo sessuale del produttore cinematografico americano Weinstein e le rivelazioni di wikileaks sul traffico di uranio con la Russia alimentato da personaggi politici di spicco del Partito Democratico americano hanno una cosa essenziale in comune. Entrambi colpiscono al cuore gli esponenti più importanti e decisivi della coorte che ha sostenuto e determinato in questi decenni l’ascesa e il consolidamento dell’affermazione del sodalizio tra neoconservatori e democratici americani. Più che i danni materiali e i vizi privati sbandierati sui media, risalta l’irrimediabile deterioramento di immagine e di credibilità del costrutto ideologico e mediatico sul quale si sono fondati trenta anni di politica estera e di gestione interna di quel paese.

Gli uni assestano un colpo tremendo all’ipocrisia disgustosa del politicamente corretto tanto fervido ed accorato nell’ostentare le pubbliche virtù e la coerenza del rispetto della dignità umana, quanto certosino nel coltivare nel privato della persona e nei canali riservati delle relazioni politiche i soprusi, le sopraffazioni, le meschinerie, i mercimoni più interessati.

Gli altri rivelano le relazioni e gli interessi inconfessabili di una classe dirigente così apertamente ostile alla formazione di un mondo multipolare, la quale ha individuato nella Russia di Putin il nemico acerrimo della pacificazione unipolare e globalistica, salvo intrattenere con settori di essa gli affari e i commerci più loschi. Le vittime sacrificali predestinate appaiono il produttore Weinstein e il politico Podesta, ma il capro espiatorio finale appare ben più emblematico.

  1. L’Open Society di Soros si è vista rimpolpare in breve tempo il proprio salvadanaio di ben 18.000.000.000 (diciotto miliardi) di dollari.gentiloni-soros Una cifra stratosferica in grado di impressionare manipolatori persino particolarmente adusi e avvezzi al denaro come Soros, in grado di muovere eserciti, bande armate, contestatori, manifestanti e Pussy Riot di mezzo mondo. Sino ad ora il nostro paladino delle libertà e del soccorso umanitario ha utilizzato un doppio metro di comportamento al centro e alla periferia dell’Impero, nonché nei confronti dei riottosi più ostinati esterni ad esso. Apertamente violento e destabilizzatore ai margini; più cauto e pervasivo, più suadente man mano che le trame riguardavano la geografia prossima al centro dei poteri. Qualcosa, evidentemente, comincia a cambiare in questa strategia in maniera assolutamente radicale. Come non bastasse saltano nuovamente alla ribalta organizzazioni, quasi sempre legate al filantropo e beneficiarie dei più disparati finanziamenti pubblici e privati, spesso concessi dagli stessi rappresentanti delle vittime delle loro azioni; tutte dedite, con solerzia e qualche dose inevitabile massiccia di stupidità ed ottusità, alla compilazione di liste di prescrizione foriere di una prossima caccia all’untore. Tra queste brilla ultimamente, secondo RT, https://www.rt.com/news/407347-rt-guests-list-ngo/ , l’associazione http://www.europeanvalues.net/ ,con questo documento http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2017/09/Overview-of-RTs-Editorial-Strategy-and-Evidence-of-Impact.pdf e secondo questo interessante documento fondativo, corredato da un elenco dei finanziatori sorprendente, ma non troppo http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2013/02/VZ2015_ENG_FIN.pdf L’analogia con la caccia alle streghe del Maccarthismo degli anni ’50 è inquietante. A ruoli invertiti, è probabile che le squadracce che vediamo infiltrate nelle manifestazioni di strada antisistema, prointegrazione e via dicendo, diventino lo strumento di giustizia sommaria e di fomentazione provocatoria di questi filantropi.
  2. L’investimento mortale a Charlottesville, in Virginia, di due mesi fa,riviera24-luca-botti-strage-los-angeles-390786 la drammatica strage del cecchino (dei cecchini?) a Las Vegas di due settimane fa, ancora coperta da una fitta e misteriosa coltre di nebbia da cui emergono i sussurri più inquietanti; il tentativo di secessione in Catalogna e lo stesso referendum nel quadrilatero lombardo-veneto annunciano alcune variazioni essenziali sul tema della strategia del caos perpetrata in questi ultimi anni. Le modalità di svolgimento di questi eventi apparentemente sconnessi lasciano sospettare, rispettivamente, a volte una vera e propria provocazione, altre volte una istigazione, altre ancora una manipolazione e per finire una capacità di cogliere opportunità. Non si tratta, quindi, semplicemente, di un complotto ordito a tavolino sin nei particolari; troppo semplicistico! Quanto, piuttosto, di sfruttamento di opportunità create e utilizzate in un contesto di crescente instabilità e di emersione di nuove forze antagoniste, spesso confuse e contraddittorie. Un terreno, tra l’altro, sul quale diventa particolarmente difficile ed insidioso l’intervento politico di forze sovraniste, specie quelle più sensibili alla suggestione della democrazia dal basso e della superiorità dei progetti autonomistici e localistici.

La “strategia del caos” che sino ad ora ha interessato i paesi riottosi al predominio unipolare, in particolare la Russia, ha investito le zone di confine e di contesa ai margini dell’impero, come il Nord-Africa, il Medio Oriente, in parte il Sud-Est Asiatico, l’estremità dell’Europa Orientale pare investire sempre più da vicino i luoghi e la geografia centrale dei centri di potere e delle formazioni sociali connesse attorno secondo gli stessi propositi degli attori-mestatori.

È il segno che lo scontro politico sta investendo direttamente questi centri di potere, piuttosto che essere condotto da essi per interposte persone; li sta costringendo ad un confronto diretto sempre più aspro e risolutivo.

Richiederà il sacrificio di alcuni illustri capri espiatori, alcuni dei quali particolarmente in auge nell’immediato passato.

Nel Partito Repubblicano neoconservatore abbiamo visto cadere qualche testa illustre, ma ancora senza particolare crudeltà.

Nel Partito Democratico americano, la ricomposizione che si sta tentando con buone probabilità di successo tra la componente pragmatica vicina ad Obama e la componente social-radicale prossima a Sanders, il candidato sconfitto da Hillary Clinton alle primarie, in parte lui stesso nominalmente esterno al partito, ma generosamente ricompensato con una buona presa e radicata presenza all’interno di esso, richiederà probabilmente il sacrificio ben più sanguinoso di una intera dinastia politica: quella dei Clinton. Sanguinosa riguardo al futuro delle carriere politiche, ma anche a quello degli averi e della sicurezza economica del sodalizio.

La figura che più si potrebbe attagliare a quella di Hillary Clinton, potrebbe essere metaforicamente proprio quella di Maria Antonietta, vittima predestinata della Rivoluzione Francese.

La signora Rodham Hillary C. si presenta come il capro espiatorio perfetto sul capo riverso della quale costruire le fortune di una nuova classe dirigente ansiosa di liquidare al più presto l’attuale mina vagante dello scenario politico americano: Donald Trump. Una classe dirigente ancora in grado di controllare la quasi totalità delle leve di potere e di controllo e di legarsi ai settori tecnologicamente più vivaci, ma sino ad ora incapace di dare un respiro strategico alla propria iniziativa che riesca a garantire una sufficiente coesione della formazione sociale americana e a coinvolgere in una nuova versione del sogno, buona parte del resto del mondo. Il cumularsi di errori grossolani e di una gretta difesa degli interessi di costoro e la boria legata ad un inguaribile senso di superiorità rischiano di far precipitare quel paese in una crisi analoga a quella che ha prodotto la guerra di secessione di metà ‘800, ma dagli effetti ancora più distruttivi piuttosto che creativi in un contesto di potenza declinante. Non solo, ma di lasciare i propri orfani e sodali disseminati nel mondo, soli ed esposti ad affrontare con scarso sostegno le intemperie e a cercare col tempo nuovi ripari, più per se stessi che per il gregge da accudire, come ogni buon Gattopardo o Generale Badoglio che si comandi.

 La forza e la possibile sopravvivenza delle componenti che hanno espresso Trump risiede proprio nella debolezza strategica dei suoi avversari, piuttosto che nella solidità dei propri mezzi.

Su questo “Italia e il Mondo” cercherà di concentrare la propria attenzione e le proprie scarse energie sin dai prossimi articoli con lo scopo di individuare le opportunità e gli spazi di formazione di una nuova classe dirigente così necessaria a questo nostro “pauvre pays”.

L’autunno della Fronda, di Roberto Buffagni

La vicenda catalana, che con l’odierna dichiarazione di indipendenza in standby tocca un vertice di comicità ineguagliato a memoria d’uomo, ci parla però di qualcosa di molto, molto serio. Ci parla della nuova fase in cui è entrata la Rivoluzione (con la Maiuscola) che da cinque secoli trascina con sé, non si sa dove, la civiltà europea e occidentale, e dunque il mondo. Pare follia impiegare questi paroloni per un’avventura politica di Peppa Pig® qual è l’indipendentismo catalano, come andare a caccia di tordi con i missili terra-aria. Ma «On a remarqué, avec grande raison, que la révolution …. mène les hommes plus que les hommes la mènent. Cette observation est de la plus grande justesse… […] Les scélérats mêmes qui paraissent conduire la révolution, n’y entrent que comme de simples instruments; et dès qu’ils ont la prétention de la dominer, ils tombent ignoblement.» (De Maistre, Considérations sur la Révolution, 1796).

La vicenda catalana ci parla infatti di una crisi che non è soltanto la crisi politica degli Stati nazionali, che si rivelano fragili, disuniti, disfunzionali: è la crisi del simbolo politico, del cosmion1 che ordina(va) e illumina(va) di significato la forma di civiltà assunta dall’Europa dopo la fine delle guerre di religione. Come tutti i simboli, un cosmion entra in crisi quando non ci parla più. Un simbolo può ammutolire per infiniti motivi; ma trattandosi di un simbolo politico, di solito la sua voce si fa fioca per l’azione congiunta di un abuso di autorità e di una contestazione di autorità. Se il dissenso in merito all’ordine non può essere ricomposto, entra in campo la nuda violenza politica, e il clamore delle armi copre la voce del simbolo.

La forma primaverile di questa lotta fra le autonomie e gli Stati sono le guerre della Fronda, che vedono lo Stato assoluto nascente opporsi agli “stati”, nel senso che questa parola assume nell’antica istituzione francese degli “Stati generali”: la forma politica che rivestono le autonomie sociali, allora rappresentate dai grandi signori e dai Parlamenti2. Lo scontro tra stati e Stato nasce dalla crisi di un altro grande cosmion: la cristianità medievale, frantumato e ammutolito dalle guerre di religione; e si svolge contemporaneamente in Inghilterra (Cromwell contro gli Stuart) e in Francia (de Retz e Condé contro Mazzarino e Turenne). In Inghilterra vincono gli stati, in Francia lo Stato3.

Oggi assistiamo (e volenti o nolenti partecipiamo) alla forma autunnale della lotta fra autonomie sociali o stati e lo Stato nazionale. Autunnale, per due ordini di ragioni. Anzitutto, lo Stato nazionale europeo non basta più a se stesso – non può autolegittimarsi – almeno da quando, entrato in crisi lo Stato liberale, sono sorti gli Stati nazionali totalitari fascista e nazista, sconfitti sul campo nella Seconda Guerra Mondiale. Lo Stato nazionale europeo è stato poi arruolato, insieme al cristianesimo, nella gigantomachia tra USA e URSS. Conclusa quella, la potenza imperiale egemone ha trattato gli Stati nazionali europei come un residuo o un ostacolo, come dimostrano sia l’appoggio americano all’Unione Europea, che agli Stati nazionali risucchia autorità e potenza, sia il disinvolto intervento nella guerre civili jugoslave, con la promozione delle indipendenze e la creazione dello Stato fantoccio del Kosovo. Ma ecco il secondo ordine di ragioni: questa Fronda 2.0 è autunnale cioè decadente perché entrambe le forze che la combattono, stati e Stato nazionale, sono in via di esaurimento, e alle loro spalle si stagliano forze imperiali nascenti: anzitutto la neocristianità russa, ma anche la Cina neoconfuciana. Questi, infatti, paiono essere i nuovi cosmion, i nuovi simboli politici che sorgono per rispondere alla sfida culturale e politica dell’impero statunitense. Dove l’insorgere, con Trump, di una nostalgia di Stato nazionale declinata in forma di isolazionismo pasticcione, illustra la crisi della potenza egemone mondiale in seguito ai terribili errori strategici, frutto di arroganza e avidità, commessi dopo il crollo del suo nemico storico, l’URSS.

Per trarre una conclusione provvisoria, potremmo dunque dire che la vicenda catalana ci insegna, per ora, questo: che lo Stato nazionale è un simbolo politico morente, che sopravvive come monumento storico-turistico, come nostalgia di un ordine perento, rifugio provvisorio di chi si sente debole e minacciato, psicofarmaco contro l’angoscia di un futuro che si profila caotico e minaccioso. E che gli stati che lo attaccano, come le iene e gli sciacalli attaccano il leone ferito, letteralmente non sanno quello che fanno, neppure che al leone ferito basta ancora una zampata per disperderli. Per finire, ci insegna di nuovo che l’Unione Europea non sarà mai un simbolo politico vitale. Non è un impero. Non è uno Stato nazionale. E’ un fascio di stati, un insieme arlecchinesco di forze economiche, sociali e politiche incapaci di legittimarsi e di fiorire in un ordine simbolico, che quando le cose si fanno serie – quando la crisi culturale e politica lo tocca da vicino – è costretto puntellare ipocritamente lo Stato nazionale del quale continua a minare le basi.

1 “Cosmion” è un’espressione che prima Adolf Stohr e poi Eric Voegelin impiegano per definire il simbolismo politico, pensato in analogia con il cosmo, che conferisce senso a una forma di civiltà e ne costituisce l’ordine politico. C’è dunque il cosmion imperiale ellenistico o romano, ma anche il cosmion dello Stato nazionale assoluto, etc.

2 I Parlamenti francesi dell’ancien régime sono istituzioni giuridiche con il compito di registrare gli atti del potere regale. Sono anche e soprattutto le istituzioni nelle quali siedono i rappresentanti delle 40.000 famiglie che detengono la ricchezze commerciale e industriale del regno di Francia, mentre i grandi signori frondisti sono i detentori di una larga quota delle terre, e, naturalmente, sono professionisti della guerra.

3 Le ragioni del diverso esito sono molteplici. Non secondaria la diversa statura dei contendenti, re Giacomo commette gravi errori politici e sul campo non si dimostra all’altezza di Cromwell, mentre Mazzarino e Turenne sono più che validi avversari di un politico geniale come Retz e di un grande soldato come Condé. Il risultato determina la diversità storica di cultura politica, che permane tuttora, tra l’anglosfera e il continente europeo: nei paesi anglosassoni lo Stato nazionale non assumerà mai il valore simbolico e la forza politica che invece prende nell’Europa continentale (la direzione politica del Regno Unito non deve la sua efficacia a uno Stato nazionale razionalmente strutturato, ma alla permanenza di un nucleo dirigente che si riproduce per cooptazione ed è l’erede diretto dell’alleanza tra alta aristocrazia e grande commercio che con la guida di Cromwell sconfisse re Giacomo) . In seguito alla sconfitta patita dall’Europa continentale nelle due guerre civili europee e all’egemonia dell’anglosfera, la cultura politica anglosassone, che privilegia sullo Stato nazionale la “società civile” ovvero, nell’accezione contemporanea, le autonomie sociali, ha egemonizzato anche l’Europa continentale: come ognuno vede.

MASSIMO MORIGI A PROPOSITO di CRISTIANESIMO, TOLLERANZA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. NOTE A MARGINE A TACCUINO FRANCESE! CHE COSA CI INSEGNA LA CRISI DEL FRONT NATIONAL? DI ROBERTO BUFFAGNI

15 Haec cum audisset quidam de simul discumbentibus, dixit illi: “Beatus, qui manducabit panem in regno Dei”.  16 At ipse dixit ei: “Homo quidam fecit cenam magnam et vocavit multos; 17 et misit servum suum hora cenae dicere invitatis: “Venite, quia iam paratum est”. 18 Et coeperunt simul omnes excusare. Primus dixit ei: “Villam emi et necesse habeo exire et videre illam; rogo te, habe me excusatum”. 19 Et alter dixit: “Iuga boum emi quinque et eo probare illa; rogo te, habe me excusatum”. 20 Et alius dixit: “Uxorem duxi et ideo non possum venire”. 21 Et reversus servus nuntiavit haec domino suo. Tunc iratus pater familias dixit servo suo: “Exi cito in plateas et vicos civitatis et pauperes ac debiles et caecos et claudos introduc huc”. 22 Et ait servus: “Domine, factum est, ut imperasti, et adhuc locus est”. 23 Et ait dominus servo: “Exi in vias et saepes, et compelle intrare, ut impleatur domus mea. 24 Dico autem vobis, quod nemo virorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cenam meam” ”

 Evangeliun Secundum Lucam 14: 15-24

 

Facendo i più vivi complimenti all’analisi politica svolta per “L’Italia e il Mondo” da Roberto Buffagni in “Taccuino francese! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?”, (1) un’analisi dove la puntuale conoscenza delle forze politiche che si scontrano sullo scenario transalpino viene eccellentemente unita ad una visione in profondità degli ultimi due secoli di storia francese, tale che vista l’importanza di questa nazione per la modernità politica occidentale, il “Taccuino francese!” può veramente aspirare ad essere una prima ricognizione non solo dei nostri problemi italiani (ed auspicabili soluzioni, posto, non mi stancherò mai di ripetere che in storia e nella vita delle società non si danno soluzioni come in matematica ma, semmai, nuovi problemi, dialetticamente connessi con quelli che li hanno preceduti) ma anche di quelli di tutte le odierne c.d. “democrazie”, è proprio sull’aspetto definito nell’analisi di Buffagni “metapolitico” (cioè della Weltanschauung e della politica culturale che dovrebbero connotare le consapevoli e più culturalmente attrezzate attuali forze antisistema) che si pone la necessità di una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema. Una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema che non può assolutamente sfuggire all’impostazione “culturalistica” datane da Antonio Gramsci quando nei suoi Quaderni del Carcere a livello di strategia politica preconizzava la graduale ed inesorabile conquista attraverso una lunga e paziente guerra di posizione delle “casematte” politico-culturali del nemico (dal suo punto di vista di comunista queste casematte erano occupate dalla borghesia e il movimento rivoluzionario non solo avrebbe dovuto battere il nemico di classe ma anche insignorirsi dei migliori valori di questa classe, in modo che non solo questi valori passassero al proletariato ma anche che i migliori rappresentanti della classe egemone ora sconfitta passassero dalla parte del proletariato) e formulava, con mentalità molto sorelliana, il mito del “moderno principe”, che non si riassumeva certo nell’ingannevole figura del classico “uomo forte”ma che rappresentava, piuttosto, la sintesi dialettica, incarnata in un movimento politico che sapesse fondere il momento più politico con quello di cultura politica – Buffagni lo definisce metapolitico – , fra le spinte dal basso politiche e culturali provenienti dal proletariato e le migliori istanze della borghesia che pur doveva venire sconfitta tramite la predetta guerra di posizione all’interno della società. Insomma, per Gramsci la cultura “nazionalpopolare” non era solo uno strumento per comprendere la società italiana del suo tempo ma era, soprattutto, un progetto rivoluzionario “in fieri” che doveva preludere alla rivoluzionaria vittoria del proletariato. E veniamo quindi ora ai punti “metapolitici” dell’articolo di Buffagni. Per farla breve, ed anche perché questo a mio giudizio è il cuore di tutto il ragionamento di Buffagni, cito direttamente il punto 3 che afferma: “L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo”. Ora, a parte il fatto che il termine ‘mondialismo’ dice troppo o troppo poco (ma si tratta di intendersi, tutti, compresi lo scrivente, soffrono della mancanza, dopo il fallimento storico delle esperienze e categorie marxiste, di un adeguato lessico rivoluzionario e ‘mondialismo’ – preso cum grano salis e con la consapevolezza della sua natura di strumento provvisorio da sostituire quanto prima con ben altre e più ficcanti terminologie, e il Repubblicanesimo Geopolitico è anche, se non soprattutto, impegnato nella formulazione di queste nuove “categorie del politico – può ben indicare la retoricizzazione a scopi di dominio politico interno e di proiezione imperialistica degli ideali democratici e dei c.d. diritti umani), è sull’opposizione totale e totalitaria all’illuminismo e all’universalismo che è necessario spendere qualche ulteriore riflessione (e diciamolo chiaramente anche qualche critica). Questo per due fondamentali motivi. Punto numero uno. Proprio perché come già affermato nelle vicende storiche e sociali non si danno mai soluzioni ma semmai nuovi problemi od assetti dialetticamente legati agli stati precedenti e che magari soddisfano, almeno parzialmente e per brevi periodi, coloro che li hanno generati ma che, in nessun modo, possono essere chiamati soluzioni alla stregua delle soluzioni matematiche, non ha dal punto di vista prettamente teorico alcun senso affermare che si è contro o a favore di una determinata situazione o periodo storico. O per essere ancora più radicali – ed anche apparentemente auto contraddittori – la teoresi politica e culturale è allo stesso tempo dialetticamente contro tutta la realtà che l’ha preceduta ma è anche attratta inesorabilmente da questa stessa realtà. Questo per il molto semplice e banale motivo che senza polarità di attrazione-repulsione della realtà che gli si pone di fronte, non solo non è possibile modificare la realtà stessa ma non esisterebbe nemmeno, a meno che non si voglia cadere nella “storia monumentale” di nietzschiana memoria, la teoresi stessa. E questa dialettica di attrazione-repulsione della teoresi verso la realtà non è altro, se ci si pensa bene, che la trasposizione su un piano prettamente teorico della dinamica del confronto-scontro strategico che avviene negli altri livelli della realtà, dalla evoluzione delle istituzioni e consuetudine umane all’evoluzione degli organismi in natura. Ma su questo fondamentale aspetto non mi voglio ora dilungare oltre, atteso che tutti i lettori sono a conoscenza della hegeliana dialettica servo-padrone ed anche perché – si parva licet componere magnis – è un aspetto che ho già precedentemente trattato e che troverà una ulteriore sistemazione nelle mie prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico. Secondo – ed ultimo – fondamentale motivo per cui il punto 3 dell’articolo di Buffagni necessita di una ulteriore messa a fuoco: è vero noi siamo tutti, tanto per intenderci su un piano di praticità operativa e retorica e in attesa anche di più scaltrite categorie politiche – contro l’universalismo ed il mundialismo ma – e qui ritorna in campo l’impostazione culturalistica di Gramsci – non dobbiamo assolutamente dimenticare (e Buffagni nei suoi punti assolutamente non dimentica) che universalismo e una delle sue degenerazioni che chiamiamo per comodità operativa mondialismo, sono l’ultimo anello di una catena che parte dal mondialismo (e mondializzazione altrimenti detta globalizzazione) occidentale iniziata coll’impero romano, proseguita dal cristianesimo e sfociata per ultimo in epoca moderna nelle grandi illusioni illuministe prima e marxistiche in finale di partita: tutto ciò per dire che ragionando con procedure dialettiche e gramsciane sembra veramente difficile che possa avere vita e forza politica, come invece sembra voler indicare Buffagni, una cultura nazionalpopolare che inglobi al suo interno una prospettiva cristiana ma rifiutandone ab imis l’universalismo relegandola ad una sorta di astratto momento ma disgiunto dall’azione vera e propria. In esergo a queste brevi considerazioni ho posto la parabola del convito dal Vangelo secondo Luca. Il padrone dice ai servi, costringete la gente ad entrare nel banchetto (compelle intrare: Luca 14:23). Nella tradizione della Chiesa, da Agostino a S. Tommaso d’Aquino, questa parabola è sempre stata citata per giustificare la persecuzione e la conversione forzata degli atei e degli infedeli. Se il lascito del cristianesimo riguardo ai rapporti col diverso fosse solo l’universalistico e mondialistico compelle intrare non ho nessuna remora ad affermare, nonostante tutti gli sforzi di sintesi dialettica che si debbono compiere in sede di teoresi, che non avrei proprio nessuna difficoltà a schierarmi toto corde contro cristianesimo, illuminismo e – ovviamente ça va sans dire – contro l’universalismo retorico e contro la sua ulteriore ed imperialistica estensione del mondialismo. Ma il cristianesimo non è stato solo questo, è stato, anche se perseguitato, spesso il suo contrario, e dal punto di vista storico e quindi della teoresi non è forse del tutto inutile ricordare che il concetto di tolleranza, ancor prima di assumere le modalità liberali di individualismo metodologico come infine sono state elaborate prima auroralmente e contraddittoriamente da Hobbes (libertà di coscienza ma solo nel foro interno e decisionismo sovrano che prevale nella società esterna schiacciando il sorgere pubblico di sette e divisioni all’interno della stessa), poi da Spinoza e infine definitivamente compiute in Locke, fu nella modernità occidentale elaborato dalle sette ereticali sorte in seguito alla Riforma, sette ereticali che, in polemica con la riforma stessa, affermavano, in buona sostanza, che l’amore universalistico che deve unire tutti gli uomini impedisce senza possibilità di alcun dubbio che qualcuno sia costretto ad entrare, sia cioè costretto a convertirsi. E queste sette e movimenti ereticali che fecero della tolleranza il loro maggiore lascito religioso, politico e culturale (gli eroici nomi delle loro guide spirituali: Sebastiano Castellione, (2) Bernardino Ochino, i Sozzini) erano gli eredi culturali del miglior e più scaltrito umanesimo italiano (il suo principale ed archetipo esponente, Lorenzo Valla) che tramite la loro critica filologica avevano ben capito che il compelle intrare ed altri luoghi comuni testuali, compormentali e culturali del cristianesimo o erano stati mal interpretati allo scopo di politiche di puro potere o, comunque, come tutti le umane imprese che nascono e muoiono nella storia, andavano debitamente contestualizzati tenendo sempre presente come stella polare l’universalismo dell’amore – e quindi della tolleranza – che giudicavano come il vero cuore pulsante del cristianesimo. Penso che una Kultur che avversi l’universalismo liberista e l’imperialista mondialismo e che partendo dalla storia della modernità occidentale sia sempre più radicata fino a diventare nazionale popolare (e quindi politicamente efficace) debba tenere ben presente anche questi elementi e del cristianesimo (3) e di questo aspetto di storia della religione che si sono manifestati proprio con estremo rigore e vigore in Italia. Concludo con una situazione estranea al bell’articolo di Buffagni ma che, anche se con una battuta, ci consente e di stigmatizzare il falso mondialismo democratico e di mostrare che l’ epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (progetto che fu anche di Gramsci, anche se con categorie per ora smentite dalla storia, ma avendo ben presente che si doveva dare origine ad un movimento politico-culturale “nazionalpopolare” e quindi radicato nella storia storia) non significa la falsa visione, portata a livello di massa, di un mondo intrinsecamente violento ma la consapevolezza molto strategica ma non necessariamente violenta che, esprimendoci con Alexander Werndt “anarchy is what states make of it”. (4) La bestiale repressione in Catalogna – e tanti saluti alla democrazia e ai diritti politici universalistici del mondo liberal-liberista falsamente propagandati dall’UE – ha fatto sì che, in piena tradizione esegetica cristiana mainstream di Luca 14: 15-24, si sia passati dal compelle intrare al compelle legnare. (5) Si tratta, in senso terroristico e con una versione della Kultur occidentale che noi avversiamo (contraddizione: non avevo appena detto che non si fanno i processi alla storia?) assieme ad una ulteriore conferma del detto wendtiano – ma in negativo, cioè della capacità umana, anziché di essere artefice del suo destino come indica la citazione wendtiana, di compiere il male – anche, attraverso la sua totale e speculare antitesi, dell’indicazione su cosa si deve intendere per ‘epifania strategica’. Una epifania strategica ed un senso delle più profonde e migliori radici della Kultur occidentale (6) che è del tutto assente nella mente e negli occhi spenti di questa attuale brutale Europa politica liberal-liberista e – usiamo ancora una volta questo termine sicuri che sappiamo capirci – mondialista.

Massimo Morigi – 4 ottobre 2017

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NOTE

1 Agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/, http://www.webcitation.org/6tvriCfRo e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F09%2F29%2Ftaccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni%2F&date=2017-10-03 .

2 Nell’ottobre 1553 venne messo al rogo a Ginevra l’antitrinitrario Michele Serveto (Michel Servet, Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553). L’anno successivo stigmatizzando la decisione di Calvino di mettere a morte Serveto, Sebastiano Castellione (Sébastien Castellion, o Chatellion o Châteillon, in italiano Sebastiano Castellione, Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 29 dicembre 1563) con lo pseudonimo di Martin Bellius pubblica il “De haereticis an sint persequendi” dove attraverso citazioni di diversi autori fra cui Martin Lutero, Erasmo da Rotterdam, Sebastian Frank e lo stesso Castellione, Castellione mostra l’insensatezza dell’intolleranza vista l’assoluta soggettività delle opinioni umane e, soprattutto, nella consapevolezza che il vero può essere avvicinato solo con una libera ricerca. Celebre la sua frase sul rogo di Serveto “Tuer un homme ce n’est pas défendre une doctrine, c’est tuer un homme. Quand les Genevois ont fait périr Servet, ils ne défendaient pas une doctrine, ils tuaient un être humain : on ne prouve pas sa foi en brûlant un homme mais en se faisant brûler pour elle” che consegna l’ “uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo” come una delle massime pietre miliari non solo della cultura occidentale ma anche (e ci sia concesso per un attimo il peccato dell’universalismo) di tutte le culture dell’uomo.

3 Altro tratto del cristianesimo fondamentale per il Repubblicanesimo Geopolitico per un’ulteriore sviluppo di una Kultur realmente alternativa alle attuali scemenze liberal-liberiste, e cioè il tormentato rapporto del cristianesimo di S. Paolo con la legge civile, è stato affrontato nel nostro “Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica” , che è stato pubblicato originariamente per “L’Italia e il Mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2017/07/29/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6sMcGBjay e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F07%2F29%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-31) e che poi è stato anche caricato autonomamente su Internet ed ora è quindi consultabile, oltre che su altre piattaforme, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia600809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf .

4 “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” è il titolo di un articolo di Alexander Wendt comparso nel 1992 sulla rivista “International Organization” (Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425), articolo nel quale viene esemplarmente esposto quell’approccio costruttivista che ha rivoluzionato la dottrina delle relazioni internazionali e che ha profonde affinità con l’impostazione dialettico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. L’articolo è ora anche consultabile su Internet, oltre altre piattaforme, all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf , mentre per l’importanza per il Repubblicanesimo Geopolitico del costruttivismo di Alexander Wendt, oltre a vedere “Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari”, pubblicato prima sul “Corriere della Collera” all’ URL https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/ e ora anche sull’ “Italia e il Mondo” all’ URL http://italiaeilmondo.com/2017/03/16/repubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6t4eGt59y e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F03%2F16%2Frepubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi%2F&date=2017-08-29), si rinvia, more solito, per la “dialettizzazione” del costruttivismo wendtiano alle prossime “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico”.

5 Proseguendo con gli ignobili giochi di parole, ma per certe situazioni e certi uomini non si può sprecare troppa intelligenza, dopo l’indegno discorso di re Filippo VI di Spagna in seguito alla brutale e bestiale repressione in Catalogna per un referendum definito incostituzionale (ma ammesso e non concesso che lo fosse, sarebbe bastato non riconoscerne il risultato, cercando di non farlo svolgere si denuncia la propria coda di paglia e, comunque, ne viene posto, de facto, un sigillo di legittimità se non giuridica certamente politica), ora per le vicende di Spagna al “compelle legnare” bisogna anche associare un “compelle regnare” (o, con (in)felice sintesi “per regnare compelle legnare”: comunque, non si sa bene ancora per quanto, visto che la giustificazione di un’istituzione anacronistica come la monarchia nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa si giustifica proprio per essere una voce , in ragione della sua natura non elettiva e quindi non sottoposta ad alcuna spinta elettoralistica, volta unicamente alla concordia del popolo, al di sopra delle fazioni e contro ogni demagogia – e nel caso della Spagna – delle bestialità autoritarie di leader politici – e degli agenti strategici politico-militari nostalgici del franchismo – che devono rispondere ai peggiori istinti totalitari del loro elettorato …).

6 Il Repubblicanesimo Geopolitico è debitore a Walter Benjamin, oltre alla elaborazione delle “categorie del politico” dell’ ‘iperdecisionismo’ e dello ‘stato di eccezione permanente’ che animano le “Tesi di filosofia della storia” (cfr. sull’argomento i nostri Massimo Morigi, “La Democrazia che sognò le fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico”) e Id.,Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola”, entrambi lavori pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” e consultabili anche su varie piattaforme Web), anche del suo particolare messianismo, non rivolto verso un imprecisato futuro ma inteso a salvare quanto nel passato era stato cacciato ai margini della storia ed oppresso. A questo proposito Benjamin creò la metafora del “balzo di tigre nel passato”. Nella Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopolitico, questo messianico “balzo di tigre nel passato” si tramuta in un’ epifania strategica che per realizzarsi si pone l’obiettivo di una Kultur non statica ma sempre in fieri , attraverso la quale vengano recuperate e rese strategicamente operative e vincenti tutte quelle situazioni e (fallite) soluzioni che nel passato appartennero agli agenti omega-strategici: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così per Robespierre l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, tesi n. 14 di “Tesi di filosofia della storia”.

Massimo Morigi a proposito del “podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa”

Un lungo commento di Massimo Morigi  al podcast sulle vicende presidenziali americane, ma con un occhio all’uomo “forte” del recente passato d’Italia

http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

 

«Dell’ “eroe”, sia pure popolare, nel senso emersoniano Mussolini ebbe ben poco (come ben poco ebbe del vero uomo di Stato, mentre indubbiamente fu un notevole uomo politico); in tutti i momenti nodali della sua vita gli mancò la capacità di decidere, tanto che si potrebbe dire che tutte le sue decisioni più importanti o gli furono praticamente imposte dalle circostanze o le prese tatticamente, per gradi, adeguandosi alla realtà esterna, il che non sembra poi molto diverso. Per molti aspetti fu piuttosto, per usare un suo pseudonimo giovanile, l’homme qui cherche e non l’ homme qui va e trovò la sua via giorno per giorno, senza avere una idea di dove sarebbe arrivato, ma “sentendo” da vero politico, quale fosse la propria direzione. Sotto questo profilo bene ci pare lo abbia capito Maurras quando scrisse nel suo Dictionnaire: “[in C. Maurras, Dictionnaire politique et critique, III, Paris 1932, p.124, nota bibliografica dal testo citato]:Mussolini ne procède pas en doctrinaire idéologue. L’expérience le conseille, il en suit la leçon, soucieux, au jour, de restaurer le nécessaire, nullement ambitieux de précipiter les éléments politiques et sociaux à la manière d’une pâte dans un gaufrier. Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.”» : Delio Cantimori, prefazione a Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einuadi, 1994, p. XXIII.

Così il più profondo e tormentato storico italiano del Novecento, Delio Cantimori, nella sua prefazione, si era nel 1965, alla prima edizione del primo volume della biografia di Renzo De Felice su Benito Mussolini, Mussolini il rivoluzionario, volendo rappresentare in pochi icastici tratti la personalità di Benito Mussolini, ci restituiva la rappresentazione di un uomo né genio né demonio ma quella di un personaggio “umano, troppo umano” in cui le debolezze caratteriali venivano celate da un decisionismo di facciata che copriva un vuoto di pensiero e di progetto politico, e in questo non solo troppo umano ma anche troppo italiano, troppo simile a quegli italiani (in questo veramente uguali al di là delle magliette degli opposti schieramenti di destra e di sinistra) dove sia sul piano personale che su quello pubblico pensano che una petizione di principio ed una trombonata retorica possano fare le veci di un serio impegno personale e di una seria preparazione sui problemi pubblici. Al di là dei decenni e delle sideralmente diverse condizioni culturali e politiche, vichiani corsi e ricorsi della storia (ma, ancor più, dell’eterna natura umana, sempre una natura di tipo conflittual-strategico: l’eterno problema è come questa natura viene declinata, se seriamente o in maniera da pagliacci. Insomma la machiavelliana dannata serietà della politica che, se non presa con la dovuta consapevolezza, e questo è uno dei più importanti lasciti del Segretario fiorentino, non solo si ritorce contro chi l’ha così stoltamente concepita ma si tramuta malignamente in una vera e propria crisi di civiltà): nel fresco ritratto di Donald Trump che ci restituisce il tredicesimo podcast di Gianfranco Campa, “Lo smarrimento dei vincitori”, emerge veramente un Donald Trump con tratti terribilmente simili al cantimoriano ritratto di Mussolini. Non una terribile ed onnicalcolante mente dittatoriale (nel caso di Trump, seguendo la vulgata politicamente corretta: un democratico imbevuto di idee fascistoidi) ma piuttosto, un abile, anzi abilissimo politico, che fece del suo principale difetto, la superficialità, la sua principale se non unica arma per la conquista del potere ed una personalità politica dove il decisionismo è una decisionismo completamente di facciata perché la sua unica preoccupazione fu sempre, almeno fino a quando la sua azione di governo ebbe una certa efficacia, quello di una diuturna mediazione fra le varie componenti del fascismo non creando mai una situazione originale e sfruttando costantemente le varie circostanze che gli si presentavano di fronte senza avere mai un approccio veramente creativo (dopo, quando egli pensò di essere veramente un genio non ascoltò più nessuno e a questo punto la sua superficialità unita ad una crescente megalomania lo dannò): comunque tutto si può dire di Mussolini tranne che non fosse un abilissimo uomo politico (nel peggior senso della parola, ovviamente, e in questa sua assenza di “creatività” politica e fortissimo opportunismo e crescente megalomania, vero “padre ignobile” dell’attuale ceto politico antifascista del regime sorto in seguito alla sconfitta militare e che perdura ancora sfacciatamente nonostante che i miti resistenziali abbiano mostrato la loro funzione di “arma di rimozione di massa” dell’esperienza del fascismo) e tutto si può concedere a Mussolini tranne il fatto che fosse uno statista, essendo il significato del suo percorso pubblico e privato la dimostrazione più lampante del suo esatto contrario, il demagogo, specie umana e politica che infesta in egual modo sia le dittature che le c.d. “democrazie”. Continuava Cantimori nel suo ritratto di Mussolini: «Visto in una simile prospettiva lo studio della vita di Mussolini, pur mantenendo tutte le sue peculiarità, assume in un certo senso un valore “tipico”, che può servire a capire non solo l?uomo Mussolini, ma il significato del fascismo stesso, e può costituire anche una sorta di primo specchio del modo e della misura nei quali il socialismo di Mussolini e poi il suo fascismo furono visti e valutati dai suoi contemporanei. È in questa funzione, anzi, che la nostra narrazione della vita di Mussolini procede con una prospettiva, un inquadramento, che potremmo definire “a ventaglio” (allargandosi cioè a mano a mano che gli orizzonti di Mussolini si dilatano e la sua figura assume una portata maggiore sino ad avere un ruolo nazionale ed europeo e, quindi, ad inserirsi in un contesto che non è più locale, di partito, nazionale, ma internazionale), ma contemporaneamente senza precorrere, se così si può dire, i tempi della sua evoluzione e del suo successo. Più che ricorrere per lumi e per conferme al poi, insomma, abbiamo di volta in volta preferito attenerci al presente; nel pensiero e soprattutto nell’azione di Mussolini è possibile infatti riscontrare, per dirla con Maurras, uno sviluppo, una traiettoria che hanno una loro logica precisa; voler vedere però in certe “svolte”, in certe “scelte” della vita di Mussolini la consapevolezza che esse lo avrebbero portato a certe soluzioni, a certi obbiettivi a lungo raggio ci sembra non solo arbitrario, ma tale da distorcere i fatti e la loro comprensione: si finirebbe per fare di Mussolini l’ homme qui va e quindi per non capire più il vero significato degli avvenimenti attraverso i quali egli pervenne al successo e per ridurre tutte le altre figure ad un ruolo subalterno, a manichini messi nel sacco da un mago istrione e non piuttosto a considerarle più correttamente come altrettanti protagonisti di una vicenda che – bene o male – ha corrisposto al momento di crisi della società liberale postunitaria e al realizzarsi (tra incertezze, sbandamenti ed errori, dovuti appunto alla grandiosità e alla novità di questa trasformazione e all’imponenza della posta in gioco) di una nuova società politica di massa.»: Ivi, pp. XXV-XXVI.

Dai podcast di Gianfranco Campa per “L’Italia e il mondo” emerge “un inquadramento a ventaglio” della vicenda di Donald Trump, una ricognizione che dalla puntuale individuazione delle caratteristiche “umane, troppo umane” del personaggio Trump si allarga alla profonda conoscenza di tutti i protagonisti e comprimari culturali, politici, economici e militari che avversandolo (la stragande maggioranza) o favarendolo (sarebbe meglio dire: creandolo) stanno dando origine all’attuale micidiale scontro strategico all’interno dell’attuale establishment americano. E in questo tumultuoso quadro magistralmente e puntualmente – ma anche con profondi e cupi tratti espressionistici – rappresentato da Gianfranco Campa, Donald Trump appare sempre più, piuttosto che l’ homme qui va , l’homme qui cherche, un homme qui cherche veramente all’insegna delle parole conclusive di Charles Maurras su Benito Mussolini: “Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.” Il gramsciano “ottimismo della volontà” di Gianfranco Campa, in un’analisi talmente partecipe della situazione politica statunitense quasi da voler diventare uno degli attori dello scontro che rappresenta (ma questo atteggiamento “attivistico” non costituisce una debolezza della stessa ma, dialetticamente, indica anche una precisa moralità politica per chi, anche in Italia, si pone in posizione radicalmente alternativa rispetto all’attuale “stato delle cose” ma non si concede la scorata passività dell’osservatore mussoliniano di Charles Maurras), oltre a fare, tramite il suo realismo, letteralmente piazza pulita della “pappa del cuore” della menzogna del politicamente corretto che infesta pressoché tutti i commentatori, destra o sinistra non importa, quando parlano degli Stati uniti, costituisce anche una precisa traccia per un’autentica moralità politica che ponga le basi per quel gramsciano “moderno principe” che dovrà essere l’esatta antitesi del tipo umano e politico rappresentato da Marraus descrivendo Mussolini. Che, proprio perché simmetrica antitesi, non dovrà avere nulla da spartire e combattere come i principali nemici coloro che respingono Trump perché lo rappresentano come un fascistoide …

Massimo Morigi – 26 settembre 2017

A proposito de “la fortezza assediata di Gianfranco Campa”, di Massimo Morigi

Considerazioni di Massimo Morigi sul recente podcast di Gianfranco Campa http://italiaeilmondo.com/2017/09/02/11-podcast_la-fortezza-assediata-di-gianfranco-campa/

«lo spazio esteriore – svuotato – della sovranità territoriale rimane intatto, mentre il contenuto reale di questa sovranità viene modificato in quanto vincolato alla protezione del grande spazio economico della potenza esercente il controllo. Il controllo e il dominio politico si fondano qui sull’intervento, mentre lo status quo territoriale rimane garantito. […] la sovranità territoriale si trasforma in un vuoto spazio di eventi economico-sociali. Viene garantita l’integrità territoriale esteriore, con i suoi confini lineari, non già il contenuto sociale ed economico della stessa integrità, ovvero la sua sostanza. Lo spazio del potere economico determina l’ambito giuridico internazionale. » (Schmitt, 2003, pp.324-325)
La guerra dell’establishment politico americano contro Trump (repubblicani e democratici indifferentemente, grandi mezzi di comunicazione, complesso militare-industriale) descritta e analizzata con acutezza da Gianfranco Campa nei suoi podcast ed in particolare nell’ultimo “La fortezza assediata”, l’undicesimo, dove viene freddamente rappresentata quella che sembra essere la resa finale dei conti contro coloro che hanno costruito l’ascesa alla presidenza dell’erratico e manovriero (purtroppo solo pro domo sua) nuovo presidente statunitense, al di là delle peculiarità caratteriali e politiche (ripetiamo, totalmente negative) del neoeletto presidente ed al di là anche degli errori segnalati da Campa che possono (o meglio, che sicuramente hanno) commesso gli “ingegneri” della costruzione di questa singolare presidenza (Sebastian Gorka, Roger Stone, Steve Bannon), certamente abili, per non dire geniali, nell’ avere compreso il malessere profondo dell’America contro un’ establishment dirittoumanista e pro globalizzazione e del tutto insensibile verso gli interessi dei ceti medio-bassi dei lavoratori statunitensi ma anche ingenui nello scegliere un burattino, Donald Trump, che pensavano di poter dirigere a piacimento ma che alla fine si è dimostrato una sorta di maligno e stregato simulacro dotato di vita propria e a tutto disposto per protrarre ad ogni costo e con ogni compromesso non solo la sua vita politica ma, soprattutto, anche la sua incolumità personale, una cosa dimostra e ci consegna pure un insegnamento per coloro che in Italia puntano ad un rivoluzionamento concreto ed integrale del nostro paese. E quello che la vicenda Trump dimostra è che il vero arcanum imperii della politica internazionale emerso dopo il secondo conflitto mondiale è che le potenze vincitrici mentre si ergono più o meno custodi dell’integrità territoriale degli stati sono al medesimo tempo le più occhiute sorveglianti a che questi confini territoriali delimitano sì un territorio ma un territorio privato di ogni autonomia politica ed economica. Stiamo parlando, in altre termini, della morte sostanziale della sovranità statale, o, meglio, della morte della sovranità di quegli stati che hanno perso la seconda guerra mondiale o, pur avendola vinta militarmente, l’hanno persa politicamente. Per rimanere alla vicenda Trump, accanto al fatto che questa nuova amministrazione intende de facto proseguire nella strategia del caos di obamiana memoria, semmai con qualche retorica correzione anti ideologia dei diritti umani e di esportazione della democrazia, è ancora più chiaro che strategia del caos o no oppure, in via ipotetica, la faticosa ricerca di una sua sostituzione attraverso strategie alternative (faticosa ed in via ipotetica perché i revirement trumpiani tarpano le ali a qualsiasi alternativa all’impostazione caotica e dirittoumanistica obamiana ), è ancor più chiaro che quello che in alcun modo non potrà essere cambiato è la politica statunitense volta a mantenere del tutto vuota ed insignificante la sovranità statale degli stati appartenenti alla sua sfera d’influenza. E non solo di questi ma anche di quelli che mai appartenuti al perimetro dell’alleanza occidentale, si ostinano a volere mantenere ben salda ed efficace la propria sovranità. Come dimostra la vicenda nord coreana in cui, al di là del giudizio che si possa dare di quel regime politico, la volontà di voler costruire una propria “force de frappe” nucleare altro non segnala che la sua volontà di tener cara e ben vitale la propria sovranità statale. Trump parla della Corea del nord come di uno stato terrorista: in realtà il suo rapporto col terrore è da invertire perché se questo stato terrorizza è per il semplice motivo che rifiuta di farsi terrorizzare e conseguentemente, e su questo possiamo anche convenire con l’establishment politico-militare statunitense, colui che rifiuta pervicacemente di farsi terrorizzare può suscitare profonde inquietudini ed apprensioni. L’insegnamento che consegna per l’Italia la vicenda Trump. Si tratta di un insegnamento molto semplice che deve partire dalla comprensione ed accettazione del dato di fatto da parte dell’opinione pubblica e da parte di quelle forze politiche che dall’attuale establishment vengono definite antisistema e populiste (qualità per noi positive ma che, purtroppo, allo stato attuale sono tutte da dimostrare: un ribaltone alla Trump da parte di queste forze una volta che abbiano eventualmente assunto il potere è quasi, allo stato attuale dell’arte, una matematica certezza) che un cambiamento reale della nostra vita politica ed economica non può che venire dal consapevole sovvertimento dell’annullamento della nostra sovranità consegnataci dall’esito disastroso del secondo conflitto mondiale ma protratto per più di settant’anni non da ineluttabili leggi storiche ma dalla consapevole e costante azione politica internazionale degli Stati uniti (e per rovesciare non questa “legge di natura” dell’annullamento della sovranità statale italiana ma, invece, il preciso risultato della precisa e conseguente volontà politica della potenza egemone, valgono i percorsi che già su “L’Italia e il Mondo” si sono indicati: processo di progressiva neutralità dell’Italia – con, mi permetto di aggiungere, un occhio a quanto sta facendo la Corea del nord: per dirla tutta, un’Italia neutrale non può non dotarsi di un suo arsenale nucleare – , completo cambiamento della prospettiva politico-culturale, un vero e proprio riorientamento gestaltico della mentalità comune e politica dove vengano spodestati i fantomatici diritti umani e le retoriche democraticistiche per sostituirli con una decisa e spietata difesa e rafforzamento della cultura italiana, intesa questa come l’inestricabile e dialettico portato storico di tutti quegli elementi politici, culturali, economici, religiosi e linguistici che hanno formato l’identità italiana (e qui mi fermo perché, come già detto, è urgente iniziare il dibattito e vi debbono essere anche altri contributi, l’importante è la consapevolezza della direzione da assumere). Insomma, se sapremo contribuire alla formazione di una pubblica consapevolezza politica lungo l’interpretazione espressa dalle parole di Carl Schmitt poste ad incipit di queste brevi considerazioni sarà molto difficile, per non dire impossibile, che si ripetano sul suolo italico le deludenti vicende che stanno oggi accadendo negli USA. Se invece si permetterà alle c.d. forze antisistema di continuare a praticare la loro interessata somaraggine politico-culturale (tanto per fare un esempio: se permetteremo che queste c.d. forze antisistema continuino a blaterare il loro loffio slogan “aiutiamo gli immigrati a casa loro” anziché, come in osservanza ad un elementare buon senso di realismo politico deve essere pubblicamente affermato, comincino ad impegnarsi con un ben più sostanzioso e vincolante: «pur mantenendo intatte e rispettando rigorosamente le disposizioni e consuetudini di civiltà e del diritto internazionale che impongono di soccorrere in terra ed in mare chi si trova in pericolo di vita, noi permettiamo di circolare e lavorare sul nostro territorio solo a chi economicamente e culturalmente – cioè chi è funzionale alla nostra Kultur, come avrebbe detto l’infamata geopolitica tedesca del secolo scorso ma infamata perché gli sconfitti non potessero più praticarla contro i vincitori della guerra – fa i nostri interessi e dei rimanenti che non soddisfano questi requisiti, per dirla in tutta franchezza, nun ce ne pò fregà de meno» … ), il cambiamento sarà solo quello del personale che governerà il paese. E tutto rimarrà come prima, come puntualmente è accaduto negli Stati uniti con la nuova – ma vecchissima nella sostanza – presidenza di Donald Trump. Massimo Morigi – 3 settembre 2017

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (3a ed ultima parte)

1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/08/07/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-1a-parte/

2a    parte     http://italiaeilmondo.com/2017/08/12/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-2a-parte/

Così si conclude la seconda parte dell’articolo:

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

Meno due, meno uno……, a cura di Giuseppe Germinario

bannonsteve_trumpdonald_gorkasebastian_gnCon le dimissioni di Sebastian Gorka dallo staff presidenziale americano, la presenza del nucleo originario di sostegno che ha portato all’elezione e all’insediamento di Trump si riduce al solo Peter Navarro, rimasto per altro al di fuori del Consiglio Nazionale. Una funzione, praticamente, di mera testimonianza. La lettera ha evidenziato chiaramente i termini del dissenso, in aggiunta e in maniera più secca rispetto alla lettera di dimissioni di Bannon. La lotta all’islamismo radicale avrebbe dovuto essere la base su cui costruire un accordo di vicinato con l’attuale leadership russa. Una ambizione resa però chimerica dall’inclusione di Hamas, tra le organizzazioni terroristiche, in buona compagnia dei Fratelli Musulmani, sostenuti dalla Turchia; dall’elezione dell’Iran a principale avversario dichiarato nello scacchiere mediorientale. La revisione dell’accordo con l’Iran avrebbe dovuto riguardare soprattutto, nelle intenzioni iniziali, la parte economica, giudicata poco favorevole agli interessi americani; con il passare del tempo, grazie anche alla sommatoria di opzioni scaturite dal conflitto interno alla dirigenza americana, ha assunto sempre più un peso geopolitico. Una dinamica la cui inerzia sta risucchiando la politica estera americana verso il classico sodalizio israelo-saudita indebolito però dalla crisi della dinastia dei Saud. Una impostazione che sta ricacciando progressivamente gli Stati Uniti dalla posizione di arbitro-giocatore a quella di compartecipe pur essenziale. In questo il pragmatismo dichiarato di Trump e del nuovo staff di cui si è circondato, o per meglio dire che lo ha circondato e messo sotto tutela, sembra avere decisamente la meglio con il risultato di riportare in auge, su scala più ampia e coinvolgendo direttamente gli stati nazionali, l’interventismo “caotico” privo però, almeno al momento, della copertura ideologica dirittoumanitarista. Il coinvolgimento esplicito dell’India, l’inclusione possibile dei Talebani, di parte di essi, nella riorganizzazione dell’Afghanistan successiva al nuovo intervento americano, esplicitato per la prima volta in forma ufficiale, lasciano intravedere nuove articolazioni per altro già tracciate sul finire della Presidenza di Obama, ma anche nuovi spazi ai disegni geopolitici concorrenti. Non a caso, tra le varie cose, l’attuale Governo Afghano ha offerto proditoriamente ai russi il ruolo di mediatori e di forza di intermediazione. Una impostazione che sta riportando rapidamente la politica americana dall’intenzione di ridimensionare direttamente la Cina attraverso soprattutto l’induzione di una sua crisi finanziaria, come teorizzato dal gruppo ormai sconfitto all’interno della Casa Bianca al classico canovaccio che vede nella Russia l’avversario da battere e la Cina la potenza da contenere e da inglobare in qualche maniera. Con il tramontare, pur anche agli albori, di questa nuova strategia rimane comunque un ruolo più diretto ma più circoscritto degli Stati Uniti e della sua stessa diplomazia. Quest’ultima, spesso e volentieri, vedi anche l’Ucraina, rimaneva defilata salvo agire per vie traverse sabotando o reinterpretando accordi sottoscritti da altri. Fallisce, probabilmente, l’obbiettivo prioritario di ridare coesione alla formazione sociale americana attraverso una politica di massiccio reinsediamento industriale e produttivo a scapito dei tanti paesi economicamente emergenti sulla base del deficit commerciale americano da perseguire attraverso un rivoluzionamento del sistema di accordi commerciali e finanziari. Il punto di compromesso tra le forze originarie residue sostenitrici di Trump e la parte del vecchio establishment disponibile, almeno all’apparenza, ad un accordo sarà probabilmente un parziale riequilibrio delle compensazioni commerciali che non metta in discussione l’impianto delle relazioni economiche e finanziare e del sistema delle relazioni internazionali. Un compromesso che, probabilmente, risulterà insufficiente a ricomporre le divisioni e la disgregazione che sta colpendo quel paese, al pari di tanti altri soprattutto del blocco occidentale. Da qui la considerazione che la battaglia politica non sia affatto conclusa nei termini così aspri e cruenti manifestatisi ultimamente. Il rientro di Gorka a Breibart e il programma di rifondazione del sito sono lì a testimoniare la determinazione. Resta da vedere quanta parte delle élites dissidenti sono disposte a seguirli. Da lì si vedrà se lo scontro assumerà le forme di una riproposizione o assumerà tutt’altre conformazioni e chiamerà nuovi leader alla ribalta. Giuseppe Germinario

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Le intenzioni e le dichiarazioni di Bannon e Gorka sono tutte lì a testimoniare, pur nel residuo ossequio formale al Presidente, come pure però le grandi contraddizioni irrisolte di quel movimento che meriteranno una riflessione a parte, soprattutto alla luce delle possibilità di azione politica nel nostro paese che si potranno creare.

Qui il link con il testo integrale delle dimissioni di Sebastian Gorka

http://www.breitbart.com/big-government/2017/08/28/in-full-dr-sebastian-gorkas-explosive-white-house-resignation-letter/

 

tf78gy9uhoijpQui sotto la traduzione (utilizzando un traduttore)

Il dottor Sebastian Gorka, che da gennaio ha servito come vice assistente del presidente Donald Trump, si è dimesso dall’amministrazione della Casa Bianca venerdì sera, dicendo: “è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa di MAGA (Make America Great Again)sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca. “

Breitbart News ha ora ottenuto una copia completa della sua lettera di dimissioni:

Caro Signor Presidente, 

È stato un mio grande onore servire nella Casa Bianca come uno dei tuoi Vice Assistenti e Strategisti.

Negli ultimi trent’anni la nostra grande nazione, e soprattutto le nostre élite politiche, mediatiche ed educative, si sono allontanate così lontano dai principi della Fondazione della nostra Repubblica, che abbiamo affrontato un futuro triste e ingiusto.

La tua vittoria dello scorso novembre era veramente un “passaggio di Ave Maria” sulla via per ristabilire l’America sui valori eterni sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza.

Per me è dunque più difficile sostenere le mie dimissioni con questa lettera.

La tua presidenza si dimostrerà uno degli eventi più significativi della politica moderna americana. L’8 novembre è il risultato di decenni durante i quali le élite politiche e mediatiche hanno ritenuto di sapere meglio di quelle che li hanno eletti in carica. Non lo fanno, e la piattaforma MAGA ha permesso di ascoltare finalmente le loro voci.

Purtroppo, al di fuori di te, gli individui che hanno più incarnato e rappresentato le politiche che “faranno di nuovo grande l’America” sono state contrastate internamente, rimosse sistematicamente o minacciate negli ultimi mesi. Questo è stato fatto chiaramente ovviamente mentre leggevo il testo del tuo discorso su Afghanistan questa settimana.

Il fatto che chi ha formulato e approvato il discorso abbia rimosso qualsiasi menzione di “islam radicale” o “terrorismo islamico radicale” dimostra che un elemento cruciale della vostra campagna presidenziale è stato perso. 

Semplicemente preoccupante, quando discuteva le nostre azioni future nella regione, il discorso ha elencato gli obiettivi operativi senza definire mai le condizioni di vittoria strategiche per le quali stiamo lottando. Questa omissione dovrebbe disturbare seriamente ogni professionista della sicurezza nazionale e qualsiasi americano insoddisfatto degli ultimi 16 anni di decisioni politiche disastrose che hanno portato a migliaia di americani uccisi e trilioni di dollari dei contribuenti spesi in modi che non hanno portato sicurezza o vittoria.

L’America è una nazione incredibilmente resiliente, la più grande sulla Terra di Dio. Se non fosse così, non avremmo potuto sopravvivere attraverso gli anni incredibilmente divisivi dell’amministrazione Obama, né assistere al tuo messaggio per sconfiggere in modo sconfitto un candidato che ti ha spedito in modo significativo con il suo complesso industriale di Fakenews è al 100%.

Tuttavia, dato gli avvenimenti recenti, è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa MAGA sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca.

Di conseguenza, il modo migliore e più efficace per poterti sostenere, signor Presidente, è al di fuori della Casa del Popolo.

Milioni di americani credono nella visione di rendere l’America ancora grande. Essi contribuiranno a riequilibrare questa sfortunata realtà temporanea.

Nonostante il trattamento storicamente senza precedenti e scandaloso che hai ricevuto da parte di coloro che sono all’interno dell’istituzione e dei principali media che vedono perenne l’America come il problema e che vogliono re-ingegnerizzare la nostra nazione nella loro stessa immagine ideologica, so che tu resterai sicuramente per il bene di tutti i cittadini americani.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta nei tuoi uffici a New York, nell’estate del 2015, è stato immediatamente chiaro che amate la Repubblica e a questo non dovrai mai rinunciare una volta che ti sei impegnato nella vittoria.

Quando si tratta dei nostri interessi vitali della sicurezza nazionale, la tua leadership garantisce che il terrorismo islamico radicale sarà eliminato, che la minaccia di un Iran nucleare sarà neutralizzata e che le ambizioni egemoniche della Cina comunista saranno contrastate in modo robusto.

I compatrioti ei stessi lavoreranno all’esterno per sostenere te e il tuo team ufficiale quando torniamo l’America al suo luogo giusto e glorioso come la splendida “città su una collina”.

Dio benedica l’America.

In gratitudine,

Sebastian Gorka

Qui sotto l’estratto di un interessante documento sulla possibile evoluzione del conflitto politico-sociale negli Stati Uniti (dovete però tradurvelo):

Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 1 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

Founded in 1972. Formerly Defense & Foreign Affairs Daily Volume XXXV, No. 42 Friday, August 18, 2017 © 2017 Global Information System/ISSA.
Early Warning The Impulse in the US Toward Civil War Analysis. By Gregory R. Copley, Editor, GIS/Defense & Foreign Affairs. Yes, there is a civil war looming in the United States. But it will look little like the orderly pattern of descent which spiraled into the conflict of 1861-65. It will appear more like the Yugoslavia break-up, or the Russian and Chinese civil wars of the 20th Century. It will appear as an evolving chaos. And the next US civil war, though it yet may be arrested to a degree by the formal hand of centralized government, will destabilize many other nation-states, including the People’s Republic of China (PRC). It may, in other words, be short-lived simply because the uprising will probably not be based upon the decisions of constituent states (which, in the US Civil War, created a break-away confederacy), acting within their own perception of a legal process. It is more probable that the 21st Century event would contage as a gradual breakdown of law and order. The outcome, to a degree dependent on how rapidly order is restored, would likely be the end, or constraint, of the present view of democracy in the US. It would see a massive dislocation of the economy and currency. It would, then, become a global-level issue. Humans mock what they see as an impulse toward species suicide among the beautiful lemming clan of Lemmus lemmus.1 In fact, these tiny creatures have a societal survival pattern which seems more consistent than that of their human detractors. The pattern of human history shows that civilizations usually end through internal illness rather than at the hand of external powers. It is significant that the gathering crisis in the United States was not precipitated by the November 7, 2016, election of Pres. Donald Trump, and neither was the growing polarization of the United Kingdom’s society caused by the Brexit vote of 2016. In both instances, the election of Mr Trump and the decision by UK voters for Britain to exit the European Union were late reactions — perhaps too late — by the regional populations of both countries to what they perceived as the destruction of their nationstates by “urban super-oligarchies”.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 2 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

The last-ditch reactions by those who voted in the US for Donald Trump and those who voted in the UK for Brexit were against an urban-based globalism which has been building for some seven decades, with the deliberate or accidental intent of destroying nations and nationalism. It is now crystallizing into this: urban globalism sees nations and nationalism as the enemy, and vice-versa. The battle lines have been drawn. The urban globalists — the conscious and unconscious — have thrown their resources behind efforts to avert a return to nationalism, particularly in the US and UK, but also in Europe, Canada, Australia, and the like. Urban globalists control most of the means of communications [is this new “means of production”; the 21st Century marxian dialectic?] and therefore control “information” and the perception of events. “Nationalists”, then, are operating instinctively, and in darkness. There is little doubt that the US, despite the evidence that economic recovery is at hand, could spiral into a self-destructive descent of dysfunction, dystopia, and anomie. The path toward a “second civil war” has significant parallels with the causes of the first US Civil War (1861-65). Both events — the 19th Century event and a possible 21st Century one — saw the polarization of a fundamentally urban, abstract society against a fundamentally regional, traditional society. In some respects, it is a conflict between people with long memories (even if those memories are flawed and selective) and people to whom memories and history are irrelevant. Equally, it is a conflict between identity and materialism, with the abstract social groups (the urban populations) the most preoccupied with short-term material gain. I have covered the US for 50 years, and my earliest view of it was, a half century ago, that its populations would inevitably polarize into protective islands of self-interest, surrounded by seas of unthinking locusts. What is ironic is that the present islands of wealth and power — the cities — have come to represent short-term materialism, as cities have throughout history. But what is interesting is that, despite the global attention on the political/geographic polarizations occurring in the US and other parts of the Western world, there has been a reversion in other parts of the world to a sense of Westphalian or pre-Westphalian nationalism. The fact that “the West” may have ring-fenced Iran, Russia, and so on, with sanctions and other forms of isolation may well be what ensures their enduring status. They have avoided the contagion of globalism. Russia, indeed, recovered from the Soviet form of globalism in 1991. An urban globalist “victory” over Trump and Brexit would trigger that meltdown toward a form of civil societal collapse — civil war in some form or other — as the regions disavow the diktats of the cities. That would, in turn, bring about the global economic uncertainty which could impact the PRC and then the entire world.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 3 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

But such a conflict — physical or political — could, equally, lead to a victory for nationalism over globalism, and to the protection of currencies and values. We have seen this cycle repeated for millennia. It is the eternal battle. Footnotes: 1. See, Copley, Gregory R.: “The Lemming Syndrome and Modern Human Society”, in UnCivilization: Urban Geopolitics in a Time of Chaos. Alexandria, Virginia, USA, 2012: the International Strategic Studies Association.

 

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