GEORGE SOROS, LA PARABOLA DI UN FILANTROPO_ di Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario

Anche quest’anno George Soros ha avuto a disposizione, probabilmente si è concesso, a Davos oltre un’ora di vaticinio. Un privilegio di minuti concesso solo a numero selezionatissimo di astanti. Ad ascoltarlo e vederlo viene in mente questa frase di Melville:  «Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, maledetta bestia!» Ha avuto modo di prendersela con il carattere monopolistico di Google e Facebook, con la loro capacità di manipolazione, controllo e selezione dei flussi di dati e di formazione degli orientamenti personali e delle società. Un pericolo estremo soprattutto se tale propensione dovesse trovare sostegno e accondiscendenza in regimi autoritari come Russia e Cina. Giudica i Bitcoin, buon per lui, un prodotto troppo speculativo. Soros è però fiducioso: « E’ solo questione di tempo prima che il loro monopolio sia interrotto. La loro fine verrà con le regole e le tasse. E la loro nemesi sarà la commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager» L’Unione Europea, con essa i vecchi e nuovi leader dell’Europa Occidentale, ha quindi per il momento sostituito gli Stati Uniti nel ruolo di paladina della libertà . Cosa intendano per tutela della libertà i novelli templari lo lasciano intuire la composizione e le intenzioni dei vari Comitati di Salute Pubblica in procinto di essere costituiti. Strano, perché la campagna contro la disinformazione è comunque partita dagli “ambienti più politicamente corretti” statunitensi i quali più si sono distinti nella partigianeria ossessiva. In mancanza di una sponda istituzionale solida e sicura a casa propria non resta che affidarsi, al momento, agli epigoni di qua dell’Atlantico. Non che il problema sia irrilevante. Sia Facebook che soprattutto Google, ma anche sempre più i gestori della rete stanno assumendo uno straordinario e crescente potere di manipolazione non solo dei comportamenti individuali, civili e politici, ma anche, attraverso il controllo dei flussi di dati e dei comandi, dello stesso sistema produttivo e di comunicazione. Un controllo che potrebbe limitare la libertà di movimento e di azione di altri manipolatori, come Soros, adusi ad altre e ben più diversificate pratiche, anche le più prosaiche. Le varie “primavere” sparse nel mondo sono lì a ricordarcelo. Per questo “Padre del Globalismo”, tra i tanti, si tratta però di una contingenza, di un accidente destinati ad esaurirsi rapidamente nell’onda lunga della storia “Reputo chiaramente l’amministrazione Trump un pericolo per il mondo, ma lo considero puramente un evento transitorio che scomparira` nel 2020, se non prima. Do al presidente Trump credito per il modo brillante di motivare la sua base, ma per ogni numero di sostenitori c’è un numero egualmente motivato di oppositori. Per questo mi aspetto una valanga democratica nelle elezioni di medio termine 2018″ Con i diciotto miliardi di dollari ( http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ ) attualmente messi a disposizione dalla sua Open Society, George Soros saprà dare sicuramente il suo personale contributo, con le buone o le cattive, alla “motivazione” e all’afflato ideale dei novelli fustigatori. Dovesse richiedere il sacrificio di qualche martire, tanto meglio; ogni libertà, specie la propria, richiede un tributo e un sacrificio, meglio se di altri. Da parte sua il portafogli, da altri in mancanza di questo o di altro può essere sufficiente la vita. Anche in Italia, negli ambienti più insospettabili, gli adepti non mancano e dopo le elezioni numerosi usciranno allo scoperto. Qualcuno, addirittura, trepida per le sue condizioni di salute; vedi la “Stampa” di oggi.

Qui sotto i link relativi all’intervento di George Soros_ Gianfranco Campa-Giuseppe Germinario

Taccuino francese: il ritorno della Vandea, di Roberto Buffagni

Taccuino francese: il ritorno della Vandea

 

Nello scorso novembre, Patrick Buisson[1] ha pubblicato un libro molto interessante: La grande histoire des guerres de Vendée[2]. Non l’ho letto, ma da quel che ne dicono le recensioni non credo ci racconterà  molto di nuovo sulla terribile repressione rivoluzionaria dell’insorgenza vandeana.

Il libro resta di grande interesse, ma per altre ragioni. Anzitutto, per l’autore. Patrick Buisson è uno storico, un giornalista e un militante politico di primo piano della destra francese. E’ stato consigliere di Sarkozy nella sua prima campagna elettorale (2007); seguendo i suoi consigli, Sarkozy non solo ha vinto le elezioni presidenziali, ma per la prima e unica volta nella storia politica francese ha strappato sette punti elettorali al Front National. La campagna elettorale suggerita da Buisson, che appartiene alla destra francese conservatrice di ascendenza maurrassiana[3], batteva su tutti i temi cari al FN, anzitutto l’identità nazionale (alla quale fu poi intitolato un ministero). Buisson, però, nel corso della presidenza Sarkozy, ha dovuto toccare con mano le conseguenze di una circostanza che non gli sarà sfuggita, ma che forse aveva sottovalutato: l’altro principale consigliere del suo candidato era Alain Minc[4], cioè l’esatto opposto ideologico di Buisson, un liberal-progressista che “ha superato la distinzione destra/sinistra”; e infatti, nell’elezione presidenziale del 2017 Minc ha sostenuto la candidatura del centrista républicain Alain Juppé finché ha avuto chances, per poi passare nel campo di Emmanuel Macron, il candidato su misura per lui. In sintesi: Sarkozy, un abile tattico senza principi, ha usato la linea conservatrice e populista di Buisson in campagna elettorale per prendere voti, e una volta al governo ha seguito la linea liberal-progressista di Minc (così perdendo l’elezione del 2012). Insomma: passata la festa, gabbato lo santo.

Non l’ha presa bene, Buisson. Dopo un ultimo tentativo con Sarkozy nel 2012, quando ha tentato inutilmente di persuadere sia il candidato sia il partito a uscire dalla trappola del Front Républicain – la conventio ad excludendum contro il Front National costruita da Mitterrand per garantire ai socialisti il congelamento di metà della destra francese, e la rendita di posizione che ne conseguiva per il PS – Buisson si è allontanato dai Républicains, ha pubblicato La cause du peuple, un libro di violentissima critica a Sarkozy e alla destra liberale[5] che ha avuto spinosi contraccolpi giudiziari, e si è dedicato alla battaglia politico-culturale per la riforma della destra francese.

L’obiettivo strategico della battaglia di Buisson è la fondazione di una destra conservatrice autentica, accomunata da tradizioni, valori e ideologie non liberali o francamente antiliberali (gaullisti di destra e gaullisti sociali, cattolici reazionari, maurrassiani, etc.). Sul piano operativo, l’obiettivo si può raggiungere solo attraverso una spaccatura e una rifondazione: la spaccatura dei Républicains tra liberali/conservatori non liberali e antiliberali, e la rifondazione del Front National su basi nazionaliste, antiliberali, conservatrici, cattoliche (grossolanamente: la linea che si identifica in Marion Maréchal Le Pen[6], contro quella che si identifica in Marine, e prima di Marine in Florian Philippot[7]). In termini pragmatici, per Buisson i conservatori francesi, sinora politicamente rappresentati dai Républicains, devono prendere la guida di una nuova formazione politica di destra antiliberale e antiprogressista, e diventare il corpo ufficiali di un esercito le cui truppe sono costituite dall’elettorato popolare, sociologicamente e geograficamente periferico, del Front National.

Un’altra ragione d’interesse de La grande histoire des guerres de Vendée è il suo prefatore, Philippe de Villiers[8]. Il visconte vandeano Philippe de Villiers è stato leader del fronte sovranista che nel referendum del 2005 bocciò la proposta di costituzione europea promossa dalla UE; ed è fratello maggiore di Pierre de Villiers[9], il capo di stato maggiore delle FFAA francesi che si è recentemente dimesso (applaudito dalle truppe) dopo un violento scontro con il presidente Macron sui finanziamenti alle forze armate.

Terza e ultima ragione d’interesse del libro, il suo soggetto. Non solo perché la guerra civile di Vandea e il terrore di Stato che sterminò  i combattenti vandeani sono una memoria tuttora viva e politicamente attiva in Francia; ma perché non ho il minimo dubbio che Buisson abbia sottolineato, nel suo libro, come la Convenzione rivoluzionaria abbia decretato la durissima repressione delle insorgenze legittimiste e cattoliche sulla base di un consenso elettorale che definire minoritario è dir poco: su 7 MLN di aventi diritto (suffragio ristretto), solo il 10% espresse un voto valido. L’analogia con la ridotta legittimazione popolare di Emmanuel Macron (al secondo turno, 40% circa sul totale degli aventi diritto, con un record storico di astensione e schede bianche o nulle) è lampante[10].

Non è da ieri che uomini di cultura e politici propongono alle destre francesi questa linea francamente conservatrice, che non è mai riuscita ad affermarsi. Ma rispetto a ieri, oggi c’è una grossa novità: che il successo di Emmanuel Macron l’ha resa l’unica linea politica praticabile, se la destra francese non vuole mettere una pietra tombale sulla sua lunga storia. L’abilissima operazione di “taglio delle estreme” che ha condotto Macron alla presidenza ha resuscitato la “destra di situazione” liberale e orleanista[11] che si cristallizzò nel 1830: nell’odierna riedizione, i centristi e gli europeisti/mondialisti di entrambi i maggiori partiti francesi, PS e Républicains, vengono risucchiati dal “movimento di governo” En Marche!  e svuotano dall’interno i partiti da cui provengono. Li svuotano di personale politico, di clientele, di voti, di finanziamenti e soprattutto di ragioni d’esistere. Li svuotano di ragioni d’esistere, perché a dettare la strategia politica tanto del PS quanto dei Républicains è tuttora il paradigma del Front Républicain, l’adattamento francese dell’ “arco costituzionale antifascista” italiano inventato da Mitterrand negli anni Ottanta[12]: e come hanno dimostrato plasticamente le presidenziali del 2017, non esiste blocco sociale, ideologia, formazione politica più adatta ed efficace per battere il Front National del centrismo orleanista di Macron, che si situa all’esatto opposto del blocco sociale e dell’ideologia del Front National e ne è per così dire il negativo fotografico.

Quindi, chi all’interno del PS e dei Républicains vuole ritrovare ragioni d’esistere al di là del nudo e crudo richiamo della gamelle, e non si vuole allineare con il centrismo orleanista di Macron, è costretto a spezzare il cerchio magico del Front Républicain, e a prendere atto che è finita l’alleanza storica tra il liberalismo e il conservatorismo a destra, tra il liberalismo e il socialismo a sinistra. Esattamente come nel 1830, il  liberalismo puro coincide, oggi, con il pensiero e le forze economiche e politiche socialmente dominanti. C’è però una differenza sostanziale tra il 1830 e il 2018, una differenza che è la chiave politica di tutto: che nel 1830 il suffragio elettorale era censitario e ristretto, nel 2017 universale: e per quanto il sistema politico-mediatico possa manipolarlo con le campagne di guerra psicologica, con le leggi elettorali maggioritarie, etc., non può permettersi di abolirlo, perché il suffragio universale è la “formula politica” (Mosca)[13] che lo legittima. E’ questo, il punto debole del liberalismo, che è democratico soltanto suo malgrado. Il liberalismo non è mai riuscito a diventare “popolare”, perché sin dalla sua premessa metodologica non si rivolge ai popoli e alle comunità, ma agli individui.

In sintesi. Stravincendo e mettendo con le spalle al muro tanto la sinistra quanto la destra, il liberalismo orleanista di Macron costringe entrambe ad affrontare e tentar di sciogliere un nodo metapolitico di portata storica: la dialettica dell’illuminismo e il precipitato storico della Rivoluzione francese. Il mondialismo liberale è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo, del progressismo e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo. L’opposizione al mondialismo è dunque costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo politico[14]; e la linea di frattura politica che divide i campi tende a coincidere con la linea di frattura culturale che divide l’Europa sin dal tempo delle guerre di religione[15].

Ecco perché nel 2018 ritorna di attualità la Vandea. Ed ecco perché nella campagna elettorale presidenziale del 2017 due soli candidati hanno incentrato la loro proposta intorno alla ripetizione della parola “patrie”: Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. Per Marine, non c’è bisogno di spiegare. Per Mélenchon, la spiegazione che propongo è questa: con la reiterazione martellante della parola “patrie”, Mélenchon manifesta il tendenziale distacco della sinistra francese dal liberalismo, e cerca di ritrovare le radici democratiche rousseauiane della sinistra giacobina e socialista. Non è un caso che anche Alain de Benoist, che ha designato il liberalismo come nemico principale del suo campo politico, abbia dedicato una crescente attenzione a Rousseau[16]: perché il liberalismo trionfante tende a separarsi dalla democrazia.

I progetti di ridefinizione politica e partitica oggi in corso in Francia e non solo in Francia, insomma, sono la manifestazione di superficie di un movimento tettonico profondissimo, che costringe gli europei e gli occidentali a ripensare la loro storia, la loro filosofia e la loro religione (o irreligione). Proprio per questo, le vicende politiche francesi che ho brevemente illustrato sin qui interessano direttamente anche l’Italia. Le differenze storiche tra le culture politiche francese ed italiana sono molte, e non superficiali. Ma in profondità, il sommovimento geologico culturale tocca l’Italia come la Francia. Ne vedremo, probabilmente, gli effetti di superficie dopo le prossime elezioni politiche del marzo 2018. Anche da noi, il blocco sociale e politico liberale tenterà di operare il “taglio delle estreme”, con l’ausilio, a destra, delle quinte colonne Berlusconi e Maroni, a sinistra delle formazioni dissidenti dal PD, e usando come massa di manovra il Movimento 5 Stelle, che grazie alla sua “impoliticità”[17] si candida a essere usato come “ago della bilancia” in una manovra machiavellica di superamento della distinzione tra destra e sinistra storiche. Se l’operazione “taglio delle estreme” riuscirà, l’effetto a breve termine sarà devastante per il campo antimondialista e antiUE; a medio e lungo termine, però, sarà benefico e liberatorio, perché farà coincidere la linea di frattura politica con la linea di frattura culturale e sociale reale e principale.

[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Patrick_Buisson. Per una esposizione approfondita delle sue posizioni, i francofoni possono seguire questa sua conferenza del maggio 2017: https://youtu.be/Hj_B708sCWY

[2] La grande histoire des guerres de Vendée, Perrin, Paris 2017

[3] https://fr.wikipedia.org/wiki/Nationalisme_int%C3%A9gral

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Alain_Minc

[5] Qui una recensione simpatizzante : https://www.polemia.com/la-cause-du-peuple-de-patrick-buisson/

[6] https://fr.wikipedia.org/wiki/Marion_Mar%C3%A9chal-Le_Pen

[7] https://fr.wikipedia.org/wiki/Florian_Philippot

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_de_Villiers

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Pierre_de_Villiers_(militaire)

[10] http://www.lefigaro.fr/elections/presidentielles/2017/05/07/35003-20170507ARTFIG00164-apres-une-abstention-et-un-vote-blanc-record-macron-attendu-au-tournant.php; https://www.rtbf.be/info/monde/detail_presidentielle-francaise-emmanuel-macron-obtient-66-06-de-voix-selon-les-resultats-quasi-definitifs?id=9600231

[11] Ne ho parlato diffusamente qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/ . “Destra di situazione” significa una destra che non è tale per i valori e l’ideologia che propone, ma per il posizionamento relativo nella dialettica parlamentare; come fu appunto la destra orleanista nel 1830, che a sinistra escludeva repubblicani e bonapartisti, a destra i legittimisti.

[12] Mitterrand, un politico di abilità machiavellica, fece di tutto per promuovere a dignità di pericolo nazionale il Front National di Jean-Marie Le Pen, erede di Vichy e dell’OAS, piazzandolo nello spettro politico-ideologico allo stesso posto in cui stavano il fascismo e i suoi eredi in Italia, così ridefinendo i confini della legittimità politica in Francia a scapito della destra, e garantendo alla sinistra un vantaggio permanente in ogni competizione elettorale. A sinistra, nessun nemico (Mitterrand vinse la sua prima campagna presidenziale, nel 1981, con l’appoggio decisivo del Partito Comunista Francese, allora forte di un 15% di voti) a destra, un confine invalicabile.

[13] https://fr.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Mosca

[14] Ne ho parlato qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/

[15] Ne ho parlato, dialogando con Alessandro Visalli, a proposito della “Dichiarazione di Parigi” firmata da un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama: http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/roberto-buffagni/

[16] Qui un articolo liberamente scaricabile: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/alaindebenoist/pdf/relire_rousseau.pdf

[17] E’ “impolitico” un movimento politico che non designa l’avversario, e dunque non designa neppure l’amico. La sua impoliticità lo predispone all’eterodirezione, all’essere usato come massa di manovra e come “ago della bilancia” in una manovra politica spregiudicata “al di là della destra e della sinistra”.

PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO: TORNIAMO A PENSARE UN PIANO B PER L’EUROPA, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un articolo di Pierluigi Fagan del quale a breve pubblicheremo una videointervista.

Il tema dell’Europa e delle possibili dinamiche future che interesseranno i suoi stati, posto nel pezzo,risulta ancora più attuale alla luce del recente incontro tra Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio uscente e Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica di Francia. Un incontro importante più che per i contenuti specifici per la decisione di addivenire entro il 2018 ad un vero e proprio trattato bilaterale. Sino ad ora l’unico trattato importante di questo genere ha riguardato la Francia e la Germania, ormai cinquantacinque anni fa. Gli sviluppi prossimi ci diranno se si tratta di un evento estemporaneo, utile soprattutto alla Francia a porsi come cerniera tra parte dell’area europea mediterranea e la Germania oppure di un atto dirompente che porterà alla formazione in Europa di aree di influenza distinte e sempre più strutturate. Impressionante la totale assenza nel discorso di Gentiloni, al quale vanno riconosciute notevoli doti di ironia, di un qualsiasi accenno ai colpi di mano e alle forzature che la classe dirigente e la diplomazia francese hanno prodigato negli ultimi anni a cominciare dalla Libia per arrivare alle scorribande nei settori della telefonia e al recente pesante intervento nell’accordo Fincantieri-STX. Alla nostra decadente classe dirigente è ancora sufficiente propinare una buona dose di retorica europeista per sublimare, è il termine utilizzato recentemente dal Ministro della Difesa Pinotti, ancora una volta l’interesse nazionale, rinunciando con ciò a priori a porre basi solide di trattative con gli altri attori europei. Basta osservare la mappa dei posti occupati in sede comunitaria per comprendere l’importanza e il punto di vista da cui partono i nostri cosiddetti rappresentanti_Giuseppe Germinario

PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO: TORNIAMO A PENSARE UN PIANO B PER L’EUROPA.

PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO: TORNIAMO A PENSARE UN PIANO B PER L’EUROPA.

In Europa è in atto una unione tra 27 stati, con una sezione rinforzata che adotta una moneta comune a 19 Paesi. Cosa s’intende per “Unione”? Nei fatti, l’Unione europea è una confederazione. Una confederazione altro non è che una alleanza intorno ad uno o più aspetti della politica interstatale. Tali alleanze sono giuridicamente regolate da un trattato o da una rete di trattati. Una confederazione, nonostante l’assonanza, non ha nulla a che fare con una federazione. Una federazione  è un modo di organizzare internamente uno stato sovrano mentre nella confederazione gli stati associati rimangono sovrani individuali tranne che per le questioni che hanno deciso di mettere assieme nell’alleanza. Nessuno al momento ha dichiarato, né sembra avere intenzione ed obiettivo, di voler fare della confederazione europea una futura federazione[1].

Il perno del piano confederale europeo, non è la Germania,  è la Francia. L’ Unione europea è in primis, è in essenza e ragion d’essere, il trattato di pace tra Francia e Germania, convivenza storicamente difficile che ha segnato la storia europea negli ultimi due secoli. Lo stato della relazione tra Francia e Germania è oggi in un impasse. La Francia ha superato la crisi politica di una paventata affermazione delle forze politiche più nazionaliste e critiche su i prezzi di sovranità pagati da Parigi per serrare Berlino in una rete di condivisioni che senza portare ad alcuna effettiva fusione che ripetiamo, in realtà nessuno vuole, garantisse l’impossibilità di ritrovarsi in una situazione di reciproco conflitto. La soluzione alla temuta crisi francese che arrivava alle elezioni con una classe politica devastata,  è stata una faccia nuova, un partito nuovo, una classe dirigente presuntivamente nuova, una triplice novità formale per continuare la strategia politica ed economica ormai tradizionale dell’area euro-liberale, francese nello specifico. A sei mesi dalle elezioni però, Macron ancora non si è politicamente espresso, sta aspettando di siglare un accordo sostanziale con la Merkel, ma la Merkel è alle prese con la difficile soluzione della sua crisi per la formazione di un governo stabile in Germania.

Di questo patto franco-tedesco al cuore del progetto confederale, che tutti suppongono esistere (e che parte dal Trattato dell’Eliseo del 1963) ma di cui nessuno conosce precisamente il contenuto, fanno parte le due grandi aree costitutive i sistemi di vita associata: l’economico-monetario e, prossimamente, il militare[2]. Quanto all’economico, è fuori di discussione che le regole sono e verranno imposte dalla Germania, sebbene la stessa Germania avrà interesse a salvaguardare la posizione di Macron. Macron è chiamato ad operare in maniera sostanziale sulle  forme socio-economica della Francia, la quale ha goduto sino ad oggi di molti permessi speciali in termini di allineamento alle severe linee stabilite dalla Germania e condivise dai paesi del nord Europa. Questo intervento è improcrastinabile ma a Macron dovrà esser garantita qualche contropartita effettiva altrimenti il dissenso che il suo intervento provocherà in Francia, lo brucerà. Macron è per molti versi l’ultima possibilità per la Francia, se salta è imprevedibile la rotta che potrebbe prendere l’esagono. Ecco allora che in attesa la Merkel si possa presentare al tavolo della trattativa franco-tedesca,  a dicembre spunta fuori un Rapporto strategico di difesa e della sicurezza nazionale  della Repubblica francese ed un paper congiunto di think tank francesi e tedeschi, di cui è interessante seguire i ragionamenti[3]. Questa mossa, più della nebulosa frittura di parole vuote che ha viaggiato nel pubblico dibattito sotto l’etichetta “Europa a più velocità”, sembra prefigurare la mossa francese per sdoganare una nuova fase strategica della confederazione europea: a voi l’economia, a noi la difesa.

Questi documenti dicono che si è attori geopolitici, si è giocatori in grado di sedersi al tavolo del gioco di tutti i giochi del mondo multipolare, giocatori in grado di imporre e non subire una strategia a protezione e promozione dei propri interessi sovrani, laddove -in termini di politica estera- si verificano le piene condizioni di autonoma decisione politica, capacità operative, autonomia produttiva dei sistemi d’arma. La sequenza in realtà va letta al contrario, senza una autonomia produttiva di competitivi sistemi d’arma né si è operativamente in grado, né si può esser sovrani politicamente. Stante la necessità ovvia di discutere, precisare e firmare tra Francia e Germania documenti di intenti chiari, la prima condizione necessaria sarà chiarire le questioni relative ai soldi,  a gli investimenti nella ricerca, sviluppo e produzione dei nuovi sistemi d’arma. Qui ci sono tre problemi.

Il primo è che i due consoli confederali, sul fatto militare sono asimmetrici poiché mentre la Francia ha costantemente cercato di reggere il passo della competizione sull’argomento, la Germania si è volutamente astenuta[4] avendone come doppio vantaggio sia una maggior leggerezza di bilancio pubblico, sia la libertà, forse anche più importante, di spadroneggiare economicamente dato che non costituiva una minaccia militare.

Il secondo non è esattamente un problema ma una constatazione. Ora che non c’è più l’UK e che Trump, da una parte reclama il “giusto” contributo alla NATO di cui però gli USA e la stessa UK rimangono i comandanti in capo e visto che l’interesse geo-strategico anglosassone andrà nel tempo e divergere da quello sub continentale, la necessità di recuperare la piena sovranità di difesa si fa improcrastinabile. Ma questa è anche una opportunità poiché sarà cifra del nuovo mondo multipolare, aumentare gli investimenti in arma[5], investimenti che oltre che occupazione, portano notoriamente ad un parallelo grande sviluppo tecnologico che ha positivi fall-out sull’economia civile. In più, essere competitivi su questo importante segmento, oltre che autonomia, porterà vantaggi all’export e con l’export militare oltreché bilancio si fa strategia poiché così come si è sovrani se si è autonomi, non lo si è se si dipende dalle forniture terze, appunto le forniture che una nuova industria europea d’armi potrebbe garantire ai partner geopolitici che verranno catturarati nella propria sfera d’influenza. Su questo punto, Cina, Russia ed ovviamente USA sono già molto presenti, l’UK ha già deliberato di voler sviluppare una propria nuova competitività, Turchia ed Arabia Saudita, nel comprare armi dai russi, hanno chiesto di avere in patria anche gli impianti industriali per produrle, preludio per l’acquisizione di un know how di partenza che possa emanciparle -almeno in parte-  dalla dipendenza verso terzi. Avere un mercato di sistemi d’arma plurale, sarà necessario in un mondo multipolare e chi sarà solo compratore non sarà autonomo, quindi sovrano.

Il terzo punto invece torna a presentare problemi. E’ chiaro, sottintende Macron, che tutto ciò ha dello straordinario, quindi prescinde dalle norme economiche standard tanto care ai tedeschi, stante che la Francia è sicuramente almeno all’inizio in vantaggio sull’argomento, ovvero reclamerà la parte del leone sullo sviluppo di questa strategia il che le permetterà di bilanciare il negativo dei tagli e degli interventi per neo-liberalizzare l’economia transalpina con importanti investimenti e relativa occupazione nel nuovo sviluppo di questo settore.  Ma questo punto rischia di non essere digeribile per gli stomaci tedeschi che notoriamente non hanno l’elasticità tra le loro qualità digestive. Tre sono le difficoltà digestive tedesche: la prima è condividere il potere tenendosi l’economico ma sostanzialmente subordinandosi su quello di politica estera dove per altro non è affatto detto che la pura strategia geopolitica tedesca -come poi vedremo-  vada naturalmente a coincidere con quella francese; il secondo è che ogni eccezione al rigore, all’austerity, alla rigidità dei limiti eventualmente concessi ai francesi accenderà la già baldanzosa opposizione tedesca ma anche quella di tutti i Paesi europei costretti invece al più rigido allineamento; il terzo è che, in linea generale, i tedeschi non amano sentir parlare di armi, eserciti, guerre anche solo temute e ventilate e francamente anche molti altri nel mondo e nell’Europa stessa.

Si tenga infine conto che al di là degli interessi francesi in termini di equilibrio di potere ai vertici della confederazione, il seggio francese al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite potrebbe presto esser revocato se non fosse in grado di rappresentare qualcosa di più che la sola Francia ed inoltre, come abbiamo già ripetutamente notato negli ultimi mesi, la Francia sa che una eventuale perdita del suo potere e ruolo nel quadrante occidentale africano, sarebbe per lei esiziale. Perdita che va anticipata portando Germania ed anche Italia a condividere i costi di presenza e manovra nell’area. Questo obiettivo, affiancare alla già fitta rete di disposizioni ed istituzioni comuni sul piano economico la cui egemonia strategica è tutta in mani tedesche, una nuova rete di interessi e strategie concrete sul piano della difesa, è essenziale per Macron e la Francia, lo è in chiave di bilanciamento europeo ma prima ancora, lo è sul piano dell’esistenza futura della Francia stessa.

In sintesi, i due consoli della confederazione sembrano voler andare ad un rinforzo con spartizione e bilanciamento della loro diarchia, quella fase che è stata pomposamente annunciata come “Europa a più velocità”. Per quanto l’iper produzione di discorso economico e valutario imperi ancora oggi nelle analisi sulla causa unica dei processi europei, nel mondo “grande e terribile”, si ragiona ormai da tempo coordinando interessi economici, valutari e geopolitici. Russia, Cina, la nuova America di Trump, l’India, le locali potenze islamiche (Arabia Saudita/EAU, Turchia, Iran, Egitto, Pakistan), ma anche la Corea del Sud ed il Giappone, sono già alle prese con questo tipo di gioco sconosciuto a gli osservatori economici e non è un caso che al di là delle specifiche convenienze nel necessario riequilibrio delle forze tra Germania e Francia sia proprio quest’ultima a portare avanti l’argomento in uno scenario discorsivo altrimenti ingombro di fiscal compact, euro e bilanci. Il patto per una nuova fase confederale quindi, dovrà basarsi su due egemonie, quella economica e valutaria tedesca e quella di difesa e politica estera francese che poi porteranno i due a dover contrattare, l’un con l’altro, anche gli aspetti di cui sono leader dato che i due argomenti sono strettamente intrecciati. La confederazione europea, lungi dal voler diventare uno Stato federale, tenderà ad evolversi legando tra loro ulteriormente i due contraenti il trattato di pace, accentrando sempre più su di loro i poteri decisivi. Tutto questo ci porta a due considerazioni. La prima è che nonostante le sue difficoltà di sviluppo ed attuazione, questa strategia non ha -al momento- alternative se non portare l’intero e decennale progetto confederale sull’orlo o oltre l’orlo del collasso, non ha alternative ovviamente stante l’attuale assetto della confederazione europea ed il suo decennale percorso. La seconda è che occorre cominciare a prevedere un piano B, pensare appunto ad una alternativa, sia perché certo l’avranno certo fatto tanto i francesi che i tedeschi, sia perché il piano A certo non può piacere ad un italiano che non abbia un cervello seriamente danneggiato.

Quale potrebbe essere un piano B per i tedeschi? La Germania potrebbe non sentire così pressante la necessità di dotarsi di una potenza  militare, in fondo una blanda politica estera già la fanno a traino dei loro interessi economici. Potrebbero aderire alle richieste di Trump di incrementare i contributi NATO, magari più assegni e mezzi tecnici che uomini, magari facendoli pesare sull’altro piatto della bilancia sbilenca, ovvero la bilancia commerciale. Altresì, ai tedeschi, è probabile interessi non rompere tutti i legami con gli inglesi temendo grandemente la britannica concorrenza banco-finanziaria ed anche geopolitica relativamente all’area dell’est Europa a cui i tedeschi guardano come loro Grossraum (grande spazio) naturale e dove già agisce in maniera disordinante gli Stati Uniti. E’ natura di una Germania potenza solo economica avere interesse ad adottare, come sino ad oggi hanno fatto, un basso profilo geostrategico, amici di tutti perché gli affari si fanno con tutti. Una Germania più assertiva e schierata, potrebbe essere una Germania meno benvenuta in sede di commercio internazionale. Una Germania tendenzialmente ambigua, passiva e neutrale, come sino ad oggi è stata, potrebbe piacere anche alla Russia con la quale la Germania ha un dialogo geo-storico longevo e naturale. Una resistenza passiva tedesca a gli intenti francesi, un convenire ma ritardare, accettare ma complicare, non dispiacerebbe in fondo neanche a molti altri partner europei certo non contenti di dover diventare feudo periferico non solo dell’economicismo tedesco ma anche del militarismo francese. Alcuni poi, soprattutto i Paesi dell’est e dell’area balcanica, preferiscono dichiaratamente sottomettersi direttamente all’ombrello USA/NATO rispetto ad un ipotetico esercito europeo, poiché ravvedono forte il comune interesse a contenere la Russia ed è certo che per contrastare l’ipotetico contro-potere dei due europei, gli americani useranno molto questa leva. Non incrinare troppo i rapporti con questa area che i tedeschi ritengono per loro decisiva, potrebbe esser vantata come causa per rallentare o dilungare la costruzione di una effettiva alleanza militare più stretta. Nel caso poi di una ipotetica implosione dell’euro e della stessa UE, la Germania forte del suo ruolo economico nell’area del nord Europa, può sempre contare su un grande spazio di più di 6000 mld  US$ di Pil. Infine, extrema ratio, la teoria geopolitica dice che al di là delle contingenze attuali, un sistema binario Germania – Russia sarebbe assai temibile per tutti e non poco conveniente per entrambi i partner (energia/mano d’opera  vs tecnologia). Non è detto quindi che la Germania seguirà con convinzione il piano A francese che per lei ha convenienze problematiche  e comunque ha diverse opzioni alternative.

E la Francia? Quale potrebbe essere un piano B per i francesi? La Francia è notoriamente una sorta di media europea, occidentale quanto centro europea, meridionale quanto settentrionale, franca quanto latina, atlantica quanto mediterranea e da ultimo neoliberista non meno che storicamente statalista. Se non si concretizzasse lo sviluppo della strategia di diarchia coi tedeschi, consapevole pur con dolore di lesa maestà che da sola non andrebbe da nessuna parte, non le rimarrebbe che il Mediterraneo, i Paesi latini. Una più stretta confederazione tra i Pesi latini mediterranei, conterebbe su una popolazione di circa 200 milioni, per un Pil di poco meno di 6000 mld US$ che avrebbe, per consistenza, il terzo posto nella classifica mondiale. Dal seggio nel Consiglio di sicurezza a tutti tavoli in cui si discutono le regole del nuovo gioco del mondo, fino al proporsi come terzo nella dialettica cinese – americana, nonché potendosi così garantire il diritto di primazia sulla sempre più turbolente area mediterranea, questo sistema ha molti punti di prospettiva.  Questa configurazione avrebbe una qualità in più rispetto a quella attuale ovvero una certa omogeneità relativa delle popolazioni e delle istituzioni dei Paesi associati. E’ ad esempio chiaro che i latino mediterranei avrebbero tutt’altro atteggiamento nei confronti di una loro eventuale moneta comune alternativa, tutto quanto di indigeribile c’è nell’attuale sistema dell’euro, potrebbe non esserci in questa diversa configurazione, ad esempio una moneta d’aiuto a rientrare dai picchi più gravi di indebitamento, una moneta a disposizione per investimenti e politiche espansive, una moneta diversamente prezzata su i mercati internazionali ovvero maggiormente di supporto all’export. Proprio i francesi potrebbero trarre molto giovamento da scambi regolati da una valuta meno impegnativa dell’euro, poiché più di altri volti a mercati non europei. Ma anche la politica estera sarebbe più naturalmente condivisibile dal momento che la dicitura “latino-mediterranea” richiama appunto un comune quadro geografico e storico di lunga durata, un quadro di interessi comuni naturali poiché amalgamati da un tempo e spazio comune. Portoghesi e spagnoli, potrebbero aprire a più strette relazioni col mondo centro-sud americano mentre Africa occidentale e mediterranea e Medio Oriente sarebbero altrettanto naturale obiettivo di relazioni multiple e strategiche, anche in termini di sviluppo, sviluppo viepiù potenziato dall’utilizzo di una moneta libera dai dogmi tedeschi. Soprattutto, questa seconda linea avrebbe maggiori possibilità di puntare con decisione ad un esito finale chiaro e pre-definito, un esito il cui obiettivo potrebbe ordinare tutto il precedente processo di condivisione: una futura effettiva fusione istituzionale federale, quindi politica, quindi democratica. Sulle questioni strategiche decisive, non ci sarebbe decisione possibile nell’ipotetico futuro parlamento federale latino-mediterraneo, senza accordo tra Francia ed Italia che farebbero assieme il 63% dei seggi parlamentari. Questo piano B però, non è oggi nelle agende dei decisori francesi.

Una federazione dei pesi latino-mediterranei è pensabile a differenza degli impossibili Stati Uniti d’Europa e questa prospettiva è l’unica che può riquadrare la doppia esigenza di superare lo stato nazionale da una parte e darsi un nuovo sistema ordinabile politicamente e democraticamente dall’altra, creando un soggetto geopolitico di tutto rispetto per i giochi multipolari. L’Unione europea o il sistema dell’euro non sono sistemi politici e quindi democratici proprio perché sono confederazioni, alleanze laddove le alleanze sono degli accordi contrattati da Stati sovrani. Questi Stati si definiscono e cercano di essere (pur in maniera molto approssimata) “democratici” ma solo al loro interno, in termini di trattati internazionali agiscono tramite mandato nazionale stante che effettivamente, le deleghe nel voto di rappresentanza, contengono in genere assai poco in termini di contenuto condiviso su ciò che effettivamente va fatto -con chi e come- in politica estera. L’omogeneità strutturale tra i Pesi latino-mediterranei, a partire dalla lingua che è poi il presupposto di ogni costruenda nazionalità, ma anche la cultura (incluso il fondo religioso), lo stile di vita, lo spirito, oltreché come abbiamo accennato l’interesse economico e geopolitico che sono i due assi centrali di ogni strategia di sopravvivenza nel nuovo mondo complesso e multipolare, danno consistenza e lasciano intravedere possibilità di ulteriore sviluppo storico di questa idea.

E l’Italia? L’Italia ha tre strade davanti a sé.

La prima è quella di continuare a farsi trascinare dentro i meccanismi della insidiosa confederazione europea. Qui va chiarito ai meno realisti, ovvero coloro che pensano che una cosa basta pensarla per renderla possibile, che questo non porterà mai a nessuna ipotetica federazione degli Stati Uniti d’Europa che oltreché nessuno davvero vuole e comunque impossibile in linea di principio[6]. Poiché nessuno ha in animo la costituzione di una unione politica democraticamente contendibile, è da stamparsi bene in mente che un assetto confederale mai e poi mai potrà esser soggetto a decisioni democratiche, richiedere la “democrazia” in una confederazione non ha semplicemente senso. Si sta quindi accettando la lenta dissipazione di ogni forma democratica in favore di trattative dirette e non pubbliche  tra Paesi forti, ovvero Francia e Germania, ma questo sacrificio non sembra poter avere un fine compensatorio da tutti gli altri condivisibile. I tedeschi non accetteranno mai di rimandare le decisioni politiche, economiche, fiscali, valutarie che li riguardano ad un parlamento democratico poiché quasi due terzi di quel parlamento, nel caso del sistema euro, voterebbe per un diversa politica monetaria. Quanto all’Italia nell’attuale Unione, non si tratta di nostra mancanza di protagonismo o bassa assertività o pugni sul tavolo, noi -semplicemente- non abbiamo alcuna ragione, peso, potenza e possibilità di intrometterci nel trattato di pace franco-tedesco. Dopo aver ceduto la politica economica ai tedeschi, cederemo anche la politica estera ai francesi, poi altri pezzi di sovranità ad entrambi, diventando come quei personaggi dei film horror che si trovano nello stato di non morte, privati ormai di ogni potere per dirsi vivi, eppure formalmente ancora con un Presidente, una bandiera, un inno nazionale, una squadra di calcio e poco altro, imbozzolati in una Unione che ci toglie più di quanto ci dà, senza neanche la falsa promessa di poter un giorno sperare di avere una democratica sovranità condivisa.  Più si va avanti nella costruzione della ragnatela confederale, più -nei fatti- diventerà praticamente impossibile divincolarsi e disfarsene.

La seconda strada davanti a noi, è quella di pensar possibile e necessario un rimbalzo violento da questa situazione ovvero immaginare una uscita dall’euro e da questa UE, per decisione unilaterale o come gli apparentemente  più realisti sperano ovvero aspettando la sua conflagrazione spontanea. Questa conflagrazione spontanea rischia però di essere puro wishful thinking. Al di là delle notevoli difficoltà in cui si dibattono e dibatteranno i tedeschi ed i francesi nel regolare i loro contraddittori reciproci rapporti di potere all’interno dei vertici confederali, è molto difficile immaginare sia accettabile per le rispettive élite e per buona parte dei rispettivi sistemi-paese, una demolizione controllata dell’Unione e dell’euro. In questi casi, al crescere delle contraddizioni, si preferisce il cercar di mettere toppe di qui e di lì, anche per anni, pur di non ammettere che il matrimonio non regge più ed è ora di andare dagli avvocati. Né la maggioranza dei tedeschi, né dei francesi, sembra così scontenta della loro collocazione ai vertici confederali da spingere ad un collasso. Se Macron è l’ultima speranza francese ed anche tedesca, in un modo o nell’altro, finirà il suo primo ed anche un secondo mandato e semmai se ne riparla fra dieci anni, dieci anni che non ci possiamo permettere. La nostra uscita unilaterale -invece- è cosa che possono pensare solo gruppetti di indomabili utopisti dalla penna arrabbiata, che sta bene scritta su qualche foglio o pagina web ma che nel “mondo grande e terribile” delle cose reali, non ha alcuna possibilità concreta di realizzarsi.

Poi c’è la terza possibilità. Questa è la via del farci noi per primi, catalizzatori di un interesse latino-mediterraneo, un interesse che oggettivamente c’è almeno in potenza e che nessuno cura. Andrebbe fatto anche solo per formare un contro-potere che sebbene non invitato nel privé franco-tedesco, potrebbe comunque cercare di intromettersi su molte questioni. Il gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia ed Ungheria) potenziato oggi anche con l’Austria, mostra come posizioni chiare e concrete, possono opporsi alla ragnatela tessuta dai franco-tedeschi, opponendo dei “no” che poi diventano delle importanti basi di successiva trattativa. Ma andrebbe fatto anche per perseguire una linea strategica alternativa che aiuti le contraddizioni dell’Unione e dell’euro a far implodere o indebolire le strutture che ingombrano il campo delle possibilità. Andrebbe fatto anche solo per spingere una Francia che per gran parte delle sue élite rimane franca e nord europea, a prenderla in considerazione come alternativa, anche per influire nelle loro dinamiche politiche interne, ma anche in Italia dove all’europeismo confederale del PD si oppongono mugugni di vario tipo che non paiono in grado di prefigurare alcuna vera alternativa viabile.

Andrebbe fatto per prefigurare un piano B che per noi sarebbe A, un piano che dovremmo fare anche a prescindere dalle spinte ad uscire dalla ragnatela euro-confederale, poiché anche riottenendo -non si sa come-  una ipotetica autonomia di ripristinata sovranità, nel mondo multipolare in cui siamo entrati, un Paese di 60 milioni di persone tra l’altro con sempre più anziani, su i piani energetici, economici, valutari e militari, delle nuove tecnologie e relativi investimenti di ricerca e sviluppo, nella gestione di una politica estera rivolta all’Africa ed ai problemi migratori, non può che avere una autonomia meramente formale[7]. Se l’Unione e l’euro sono i problemi ravvicinati in cui i poteri delle nostre decisioni vanno rinforzati, quelli di una minorità oggettiva in balia di russi, cinesi, indiani, trambusti africani ed islamici, britannici con rinnovato spirito piratesco ed americani alle prese con la loro inevitabile contrazione di potenza, lo sono in immediata e certa prospettiva. La sovranità -in teoria- decide certo come giocare la partita ma questa ha i limiti che sono imposti dal tavolo di gioco, le grandi dinamiche del mondo complesso e la strategia di gioco dei giocatori principali.  La sovranità dipende da condizioni di possibilità che riceve da contesti che non controlla, “sovranità” suona come un assoluto ma è un relativo.

Cosa saremo tra venti anni? Le forze sociali, intellettuali e politiche che si identificano con le idee di democrazia popolare, di emancipazione, di volontà di liberazione dal dominio delle logiche economiche e delle loro interpretazioni più estreme, neo-liberali o ultra-capitalistiche o come le si voglia definire, italiane ma anche latino-mediterranee, dovrebbero a nostro avviso, pensare a questa strada poiché è l’unica strategia che si fa carico non solo di dire no ai poteri dominanti ma anche di dire si ad altre forme di potere stante che i nostri sistemi di vita associata debbono per forza avere strutture con poteri[8]. Lamentandosi, criticando, insultando, corrodendo con le parole, i pensieri e le strutture dominanti, non accade nulla di concreto, accade qualcosa se realisticamente al problema dato si dà non la risposta A ma quella B, senza un piano B non c’è alcuno sbocco possibile ai crescenti malumori verso l’euro e l’UE, non c’è alcun peso negoziale da far valere a difesa dei nostri interessi minimi. Se si vuole essere forza alternativa occorre una viabile idea alternativa, questa di una confederazione dei più simili che attragga i francesi su una via alternativa,  vale in vista di negoziazioni su gli sviluppi dell’attuale UE ed euro ma di più vale in vista di una piena federazione politica latino-mediterranea. Questo di un futuro soggetto politico al contempo dotato di massa e pienamente sovrano e democratico,  è l’unico che vediamo, possibile e desiderabile.

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[1] La recente ricerca YouGov condotta in alcuni Paesi europei (dic.’17) sull’idea di Schulz di puntare alla concreta realizzazione degli Stati Uniti d’Europa ha dato risultati interessanti: d’accordo un 30% in Germania ed un 28% in Francia, percentuali invece gravemente minoritarie in Svezia, Finlandia, Danimarca e Norvegia. Altri Paesi non sono stati intervistati ma si può immaginare una forte contrarietà all’est ed una forse maggior adesione a sud. Come la solito il campione scelto dall’istituto di ricerca è molto esiguo ma più in generale, è molto dubbio che sia chiaro a gli intervistati il complesso portato di questa opzione. Difficile da immaginare che il restante 70% di francesi e tedeschi sia convertibile e soprattutto lo siano i tedeschi una volta chiarito che questo progetto porterebbe ad uno strappo con la propria area naturale di partner nord europei e che semmai gli Stati Uniti d’Europa andrebbero fatti  solo tra Germania e l’Europa latino-mediterranea. Se dopo 25 da Maastricht, questo è il sentimento, non si vede per quale ragione esso possa evolvere in positivo nei prossimi otto anni (Schulz parlava infatti di un processo costituzionale da chiudere nel 2025), soprattutto quando dall’empireo delle petizioni di principio si dovesse passare ai dettagli concreti.

[2] A novembre, è partita la Permanent Structured Cooperation (PeSCo) all’interno dell’UE con 22 partecipanti su 27. Dal 2021 ci sarà anche un Fondo europeo per la difesa e con il Rapporto annuale comune sulla difesa (CARD), costituiranno la base per lo sviluppo di questa nuova gamba della confederazione. Al momento, il tutto si muove ancora nell’ambito della NATO ma non credo sia questa la destinazione finale pensata dai francesi. QUI  

[3] Un articolo che presenta le idee dei piani: QUI  (all’inizio dell’articolo il link al pdf della Repubblica francese). Il documento congiunto SWP-IFRI – QUI 

[4] Un rapporto presentato al Parlamento tedesco nel 2014, dava un quadro disastroso dello stato di condizione della Bundeswehr. Da allora gli investimenti sono aumentati e così gli arruolati ma la strategia tedesca sembra esser un’altra. Con il Framework Nation Concept, ha dato il via all’accorpamento di alcune divisione estere (olandesi, rumeni e cechi, ma già si parla anche di scandinavi), ovvero formazioni di battaglioni misti tra tedeschi e stranieri. La strategia tedesca è sempre la stessa, legare i partner con molteplici fili, ognuno dei quali singolarmente poco rilevante, che nell’insieme però riducano l’altro ad una condizione di compromissione tale da rendere impossibile l’eventuale distacco. QUI 

[5] Dal 2005, ogni anno si è verificato un aumento dei volumi dei trasferimenti d’arma nel mondo (SIPRI Yearbook 2017 QUI ). C’è poi da vedere i volumi dei trasferimenti non ufficiali che si pensano ingenti. La Francia è il quarto esportatore nel mondo dopo USA, Russia e Cina. La Francia è anche il terzo Paese per dotazione nucleare. Pur avendo un esercito ritenuto oggi al di sotto dei minimi standard di efficienza, la Germania ha però continuato a sviluppare industria militare (sopratutto armi a mano e mezzi di terra) ed è oggi il quinto esportatore. Francia e Germania hanno annunciato di voler sviluppare un nuovo caccia comune di quinta generazione, teoricamente competitivo con gli F-35 USA.

[6] Non possiamo qui dettagliare le ragioni di questa apodittica affermazione. Invero però, prima di esser noi coloro che negano una possibilità, dovrebbero esser coloro che la mettono sul tavolo a presentare le proprie ragioni. Che persone serie e intellettulmnete e politicamente responsabili, possano pensare ad una idea del genere senza che ne esista la benché minima traccia di un serio studio di possibilità, fattibilità, opportunità, dice di quanto -in fondo- si stia facendo del puro intrattenimento. Si usa l’idealità degli “Stati Uniti d’Europa” che si basano su un analogia insostenibile (con gli Stati Uniti d’America ovviamente), per non pensare le cose concrete. Dico solo che quando gli americani decisero di risolvere le loro contraddizioni unioniste, lo fecero con una sanguinosa guerra ma sopratutto erano -in tutto- circa trenta milioni e parlavano pure la stessa lingua! In linea generale, tutto il dibattito sul tema Europa, sembra essere gravato da una molteplicità di modi con cui se ne legge la sostanza. Pensare che l’Unione europea sia d’origine una macchinazione delle élite neoliberiste o il trattato di pace tra Francia e Germania, cambia parecchio in termini di analisi. Fare finta sia un oggetto contendibile politicamente dai popoli e non una alleanza contrattata da capi di Stato, ognuno con il peso che gli compete secondo la dura logica della potenza, ci porta a perdere tempo appresso a discussioni irrealistiche ed infondate.

[7] L’esiguo e pur ostinato “movimento sovranista”, dovrebbe farsi un serio esame di coscienza. E’ davvero necessario illudere coloro che pur hanno avvertito l’insostenibilità dell’attuale situazione, con l’opzione di una presunta sovranità nazionale risorgimentale e mazziniana? Al di là dello sfoggio di originalità retorica, quanto può esser sovrano uno stato europeo nato nel XV secolo come dimensione, quando cioè le questioni inerivano solo i nostri rapporti interni al subcontinente? Saremo sovrani di cosa in un mondo in cui un cartello di fondi può attaccare la tua valuta e farne oscillare il prezzo in maniera da farti fallire in un pomeriggio? Nell’essere vaso di coccio tra vasi di ferro in qualsiasi rapporto commerciale bilaterale potremmo far valere i nostri interessi? Non essendo autonomi energeticamente ancora per molto tempo, in attesa di volgerci alle energie alternative, quanto dovremmo mediare la nostra sovranità? Con una popolazione in contrazione e sempre più anziana come la difenderemo?  Saremo sovrani lasciando che tutto il mondo scorrazzi nel Mediterraneo vendendo armi ed organizzando guerre sulle coste dirimpette? Dichiarandoci pacifici in un mondo che si sta armando a piene mani? Diventando cosa in un mondo complesso, multipolare, ipertecnologico, instabile e sempre più competitivo? Convincendo come, una massa critica di almeno un 60% di connazionali votanti, per portare avanti questo miraggio fondato su slogan inconsistenti, sempre che i servizi segreti esteri e le stesse élite che ci dominano dall’unificazione del ’61, ce lo lascino fare?

[8] L’idea di un contro-potere latino-mediterraneo, è presente qui e là sebbene non supportata da una più convinta attenzione, sopratutto da parte italiana. Più di un anno fa, Tsipras ha promosso un forum di coordinamento dei Paesi latino mediterranei -EUROMED- che  si è già riunito tre volte ed un quarta sarà il prossimo 10 Gennaio a Roma. Questa “alternativa mediterranea” è presente nei programmi di France Insoumise di J-C Mélenchon, come di Podemos e certo non dispiacerebbe al Bloco de Esquerda portoghese. L’intero movimento italiano critico verso UE ed euro dovrebbe riflettere sulla propria dispersività concettuale e sull’assenza di una vocazione ad alleanze strategiche. Improbabile il risolvere problemi inter-nazionali partendo solo dal dentro di una nazione.

MACRON, Micròn_ 3a parte, di Giuseppe Germinario

MACRON, micròn _ 2a parte, di Giuseppe Germinario

 

MACRON Micròn_1a parte, di Giuseppe Germinario

IL RITORNO DELLA REGALITA’

Macron ha reso nuovamente familiare la postura “regale” propria di un Presidente, Capo di Stato francese. Un portamento praticamente sconosciuto alla quasi totalità degli uomini di stato italiani, ma ultimamente in disuso anche in Francia grazie alla presenza dimessa di Hollande e istrionica di Sarkozy.

Nel suo discorso di fine anno Macron sostiene convintamente “cette volonté de faire vivre notre Renaissance française” (la volontà di far vivere il nostro Rinascimento francese) assolutamente dentro l’Unione Europea. “La France ne peut pas réussir sans une Europe elle aussi plus forte” (la Francia non può riuscire senza una Europa essa stessa più forte); “nous avons besoin de retrouver l’ambition européenne, de retrouver une Europe plus souveraine, plus unie, plus démocratique parce que c’est bon pour notre peuple. Je crois très profondément que l’Europe peut devenir cette puissance économique, sociale, écologique et scientifique qui pourra faire face à la Chine, aux Etats-Unis en portant ces valeurs”(abbiamo bisogno di ritrovare l’ambizione europea, di ritrovare un’Europa più sovrana, più unita, più democratica perché cosa buona per il nostro popolo. Credo profondamente che l’Europa possa divenire questa potenza economica, sociale, ecologica e scientifica che possa far fronte alla Cina e agli Stati Uniti sostenendo i propri valori..). “Ce colloque intime avec nos amis allemands est la condition nécessaire à toute avancée européenne” (il colloquio intimo con i nostri amici tedeschi è la condizione necessaria ad ogni avanzamento dell’Europa). Infine l’appello: “j’ai besoin qu’ensemble nous ne cédions rien ni aux nationalistes ni aux sceptiques” (ho bisogno che tutti insieme, non cediamo in nulla ai nazionalisti e agli scettici).  Però, la constatazione: “Je sais que plusieurs d’entre vous ne partagent pas la politique qui est conduite par le gouvernement aujourd’hui” (so che tanti tra di voi non condividono la politica oggi condotta dal governo). Ma “je respecterai et toujours à la fin, je ferai” (io rispetterò e sempre alla fine io farò).

Non è un semplice discorso di circostanza; in poche affermazioni si trovano le linee che guideranno le scelte politiche di questi anni. Una Europa più sovrana, ma in ambito economico, sociale, scientifico ed ambientale; in grado di far fronte a Cina e Stati Uniti apparentemente sullo stesso piano, ma perché il confronto è limitato presumibilmente a questi tre ambiti. Il grande assente è la Russia, ma perché la competizione politica, nell’ambito politico-statuale, è evidentemente rimossa probabilmente per non mettere in discussione l’alleanza atlantica almeno nei suoi termini espliciti.

Pare riecheggiare le intenzioni francesi di oltre cinquanta anni fa. Allora l’oggetto principale della contesa era la struttura di comando della NATO e la configurazione istituzionale ed operativa della Comunità Europea; su quei pilastri De Gaulle subì il voltafaccia tedesco e adeguò le scelte verso una politica di apertura all’URSS e alla Cina e verso la decolonizzazione e un dirigismo economico e sociale. Oggi la globalizzazione impone un sistema di relazioni molto più complesso ed articolato e la Francia, in esso, assume una posizione molto più fragile verso la Germania e gli Stati Uniti e meno significativa rispetto all’emergere di Cina e Russia e in parte India, anche se meno condizionata dalle contrapposizioni ideologiche così nette della fase bipolare. Una libertà che consentirebbe, teoricamente, maggiori margini di azione al riparo di anatemi.

LA POLITICA AL PRIMO POSTO

A differenza della quasi totalità della classe dirigente italiana, il gruppo di potere al governo in generale e Macron in particolare, non possono entrambi essere tacciati di puro economicismo, dell’attribuzione del peso soverchiante, quindi, delle regole di mercato e delle dinamiche economiche nella determinazione delle scelte politiche. Non a caso in Francia opera da anni un “dipartimento della guerra economica” incaricato di prospettare le strategie di azione politica in economia.

Lo stesso bagaglio culturale del Presidente è piuttosto vasto e include la frequentazione assidua di intellettuali contemporanei del calibro di Balibar, Ricoeur, Habermas, Bauman; politici del calibro di Rocard, Attali, Chèvenement; maestri quali Saint Simon e Schumpeter oltre ad una solida formazione classica. Si potrebbe parlare di un personaggio coltivato a dirigere sin dall’adolescenza, ma con una propria precoce personalità; in possesso di un carnet di contatti impressionante per la sua giovane età e di una già variegata esperienza professionale nelle strutture di controllo finanziario dello stato, nella banca dei Rotschild e in importanti gruppi di elaborazione a supporto dei decisori, sin dai tempi della presidenza Sarkozy.

È la prova evidente che in Francia, a differenza che in Italia, esistono ancora strutture statali e parapubbliche, centri di potere in grado di formare quadri e classe dirigente capaci di coagulare e definire interessi e punti di vista, di impostare processi politici, non ostante i colpi subiti dai processi di disarticolazione innescati dal regionalismo di stampo europeista.

L’elezione di Macron rappresenta un vero capolavoro politico. Ancora più significativo perché condotto, a differenza delle precedenti elezioni americane, dagli stessi centri di potere in auge ma con l’obbiettivo del ricambio radicale del ceto politico. Fallito con Dominique Strauss-Kahn e Manuel Valls il tentativo di rifondazione interna del Partito Socialista, hanno scelto la carta dell’ “uomo nuovo” in grado di neutralizzare l’ascesa del Fronte Nazionale e di scompaginare i tradizionali partiti. Nel giro di due anni Macron abbandona la carica di Ministro, ricoperta con successo, e con esso il Partito Socialista; fonda un movimento, En Marche e vince le elezioni.

Non si è trattato di un successo travolgente e sfolgorante, merito esclusivo di luce propria. Deve la sua emersione in buona parte alle campagne giudiziarie che hanno azzoppato i concorrenti e ai clamorosi errori, chissà se del tutto involontari, e alle oscillazioni della sua avversaria più temibile. Ha goduto del sostegno di aree politiche avverse ma decise a bloccare la vittoria del FN e dell’astensione di altre aree sinistrorse più refrattarie. Ha fruito del supporto di uno staff di prim’ordine e discreto in grado di manipolare al meglio le tecniche e di combinare l’utilizzo degli strumenti più moderni di comunicazione con quelli tradizionali, nonché di finanziamenti privati cospicui. Un complesso di circostanze che lasciano intuire la forza, l’organizzazione e l’influenza degli artefici del trionfo rimasti sapientemente nella penombra.

Nelle interviste e conversazioni più selettive Macron ha affermato chiaramente del resto che la politica è segreto e riservatezza, è decisione, è dialogo attribuendo a quest’ultimo una funzione soprattutto pedagogica; in essa l’ideologia assolve al compito essenziale, tutto althusseriano, di fornire la rappresentazione e la guida delle scelte individuali e di un popolo.

Un tipico approccio da uomo di potere piuttosto che di governo. Un pedigree sufficiente a preservarlo dalla tentazione di attribuire e di affidare agli esclusivi comandamenti delle leggi dell’economia il timone delle direzioni e delle decisioni politiche da adottare negli ambiti più vari.

Un punto di forza nell’azione politica, ma che lo espone più dei liberisti “tout court” al giudizio politico finale della propria azione di politica economica.

La particolare composizione dello staff governativo, segnato marcatamente da esperti di economia e privo praticamente di strateghi ed esperti militari, rappresenta però, probabilmente, un limite nella completezza di visione dell’azione politica e il segno che l’attività tenterà di dipanarsi a partire da e soprattutto in quell’ambito, salvo cause di forza maggiore.

LA CONDIZIONE DEL PAESE

La condizione economica del paese è particolarmente contraddittoria e squilibrata, al limite della capacità di tenuta sociale.

Una rete infrastrutturale ancora in grado di connettere adeguatamente la decina di centri metropolitani, ma che ha trascurato del tutto le periferie del paese. Si stima, ad esempio, che la sola rete ferroviaria abbia bisogno di circa cinquanta miliardi per garantire la necessaria sicurezza e i collegamenti regionali vitali. L’intenzione di potenziare il trasporto privato e pubblico su gomma attraverso la liberalizzazione appare un ripiego e una dichiarazione di impotenza piuttosto che un segnale di progresso e di intraprendenza.

Una rete industriale e di servizi di grandi marchi capace di estendere la propria influenza e il proprio raggio di azione all’estero, ma con un complesso di piccole e medie aziende autonome ridotto, rispetto a quello tedesco e italiano, incapace quindi di diffondere le possibilità di sviluppo nella periferia del paese e dei suoi strati sociali intermedi.

Il complesso industriale strategico, compreso quello militare, presenta alcuni punti di sofferenza preoccupanti.

Di AIRBUS si è già parlato.

Nella meccanica pesante si è proceduto alla scomposizione di ALSTOM e alla vendita del settore di generatori e turbine alla GE americana, dei treni e quasi tutto il resto alla Siemens tedesca. Protagonista di questi ultimi passi è lo stesso Macron, nella veste di Ministro prima e Presidente poi.

La stessa industria nucleare, la base delle ambizioni di grandeur, a causa di investimenti sbagliati in Africa, ma soprattutto di veri e propri raggiri in Australia e Stati Uniti, di filoni di ricerca troppo incerti, rivelatisi infruttuosi e di un assetto organizzativo ormai elefantiaco vive una condizione di crisi finanziaria difficilmente sostenibile da uno Stato e da una economia di queste dimensioni.

Come si possa conciliare una rivendicazione di recupero della sovranità con la cessione del controllo delle attività che dovrebbero fornire le risorse indispensabili per esercitarla richiederebbe un ragionamento forse troppo complesso anche per un esteta della complessità quale si rivela Macron.

L’impressione è che l’oggettiva difficoltà di una media potenza di reperire le risorse e le capacità necessarie ad esercitare la propria piena sovranità contribuisca, nella migliore delle ipotesi, a far rientrare dalla finestra il demone della surdeterminazione delle dinamiche economiche che il complesso bagaglio culturale del giovane Presidente cerca in qualche maniera di imbrigliare.

I MIRAGGI E LA REALTA’

Abbagliato, al pari del suo coetaneo Renzi, dalla dinamicità appariscente della Silicon Valley californiana, Macron, evidentemente incoraggiato dalle sue stesse frequentazioni, appare deciso a varare un programma di incentivazione di aziende start-up, coadiuvato al più dall’apporto di università e istituti di ricerca e dal contributo delle banche; un impulso frutto più dell’infatuazione riguardo allo spirito di ventura imprenditoriale che di un’analisi realistica dell’intreccio a prevalente contribuzione pubblica tra agenzie governative, istituti di ricerca, grandi aziende e sistema finanziario che ha consentito il miracolo di quella e di altre aree degli Stati Uniti, come di pochi altri paesi. La sua interpretazione del “processo di distruzione creativa”, così meravigliosamente delineato da Schumpeter, rischia di essere un po’ troppo letterale e foriera di ulteriori squilibri ingovernabili della formazione sociale e di rinunce imperdonabili sugli assets strategici del paese.

Il suo programma di sviluppo delle zone periferiche, del quale fa parte pienamente il piano di liberalizzazione del trasporto pubblico su gomma, poggiando quasi esclusivamente sul potenziamento delle reti, sembra fare affidamento sui processi spontanei di sviluppo economico; un principio perfettamente in linea con i sistemi di incentivazione dell’Unione Europea e che porterà agli stessi risultati di accentuazione degli squilibri. Un principio che, dietro la retorica delle opportunità, glissa sul fatto che le posizioni di partenza dell’offerta sono comunque squilibrate, specie nelle fasi iniziali dei processi; le condizioni di svantaggio, quindi, rischiano di essere accentuate.

Lo stesso programma di detassazione ed alleggerimento fiscale si sta rivelando piuttosto un trasferimento verso l’imposizione indiretta ed uno svuotamento dei fondi gestiti dalle categorie sociali in modo da poter intervenire più agevolmente “manu militari” sulle pensioni e sul sistema assicurativo.

Una miscellanea di provvedimenti, compresi quelli di liberalizzazione del mercato e della disciplina del rapporto di lavoro, ispirati alle riforme tedesche di Schroeder e a quelle recenti di Renzi, sia pure con una maggiore cautela, vista la rapida traiettoria del magnifico fiorentino, ma senza la certosina tutela del sistema economico e assistenziale che la diligente e “preveggente” dirigenza teutonica ha saputo preservare.

Macron ha, dalla sua, quattro anni di relativa agibilità che possono consentire il consolidamento della sua formazione politica. Una formazione, appunto, che dietro la pletora di nuovi arrivati senza esperienza, nasconde un’ossatura attinta dalla sua nutrita rubrica. Sa, quindi, di poggiare su basi precarie e minoritarie. Lo ha detto esplicitamente nel suo discorso di fine anno.

Può approfittare di una frammentazione della sinistra che pare fossilizzata sulla pretesa dei diritti, quindi su una più o meno involontaria difesa arroccata di prerogative acquisite da gruppi particolari piuttosto che su di un programma di rilancio del paese, non ostante alcune ingannevoli venature sovraniste; la relativa facilità con la quale Macron è d’altronde riuscito ad introdurre alcune modifiche sul contratto di lavoro e sulla contrattazione sono lì a certificarlo.

Come pure di una destra che ha bisogno di tempo per spostare il baricentro di comando verso quelle componenti gaulliste che consentano di inserire le tematiche dell’immigrazione e del degrado dei ceti intermedi in un processo di ricostruzione identitaria del paese meno nostalgico e triviale.

Macron cerca in tutti i modi di intercettare questa aspirazione e costringere questo tentativo nell’alveo di una visione europeista illusoria e ingannevole che rischia di assecondare il processo di annichilimento e subordinazione politica che attraversa, in gradi diversi, gli stati europei, sempre più in contesa tra loro, ma per i posti meno ambiti. I vincoli di politica e di indirizzo economico europei sono delle zavorre pesanti.

DE GAULLE, MITTERRAND, MONNET

Cerca di rivestire il programma di un’aura di nobiltà e autorevolezza regali ponendosi come erede e portatore della sintesi gaullista-mitterrandiana.

Una pesante mistificazione.

charles de gaulle

Non sappiamo se De Gaulle, nel contesto politico nel quale ha operato Mitterrand, avrebbe continuato a seguire le proprie orme. Sappiamo di sicuro che De Gaulle perseguiva l’ambizione di un asse con la Germania in funzione antiatlantista ed antieuropeista per come l’UE già si andava delineando all’epoca.

Venuta meno la possibilità del sodalizio, perseguì autonomamente una politica di avvicinamento alla Russia e alla Cina.

 142ee0ec-8d4a-4a1d-99e4-59ac933a2375_largeMitterrand, al contrario, perseguì una politica di integrazione nell’Unione Europea e ne avviò una di subordinazione progressiva alla politica estera statunitense, vedasi Jugoslavia ed Iraq, in funzione del contenimento della potenza tedesca. Una scelta agevolata dal via libera francese, sul finire degli anni ’70, all’ingresso nella Comunità Europea della Gran Bretagna come risposta alla Oestpolitik tedesca. 9933-004-26D9AB83Più che mitterrand-gaullismo si dovrebbe parlare quindi di mitterrand-monnetismo. E Monnet era considerato da De Gaulle poco meno che una spia americana.

VOLONTA’ E VELLEITA’

Sono tutti elementi che non agiscono a favore di una praticabilità dei proclami del giovane Presidente.

Quanto alla loro sincerità, il compiacimento nell’eloquio e la sicumera e la solennità degli atteggiamenti e dei rituali segnano qualche punto a suo favore. In politica, però, sono qualità umane che potrebbero rivelarsi addirittura aggravanti e controproducenti.

Possono rivelarsi, altresì, un ulteriore handicap e rivelare paradossalmente in breve tempo la nudità del re. Il suo continuo richiamare alla funzione pedagogica della politica rivelerebbe la terribile sottovalutazione delle divisioni e dell’incomunicabilità tra intere parti del paese; della aperta ostilità che funge da brodo di coltura in particolare del terrorismo islamico.

Anche su questo Macron sta rivelando sorprendenti incertezze, frutto di una concezione di laicità che rischia di decadere in ogni momento nel relativismo culturale e nella giustapposizione di comunità separate, ma anche di equilibri geopolitici entro i quali la Francia ha concesso sin troppo, nel proprio stesso ventre sociale e finanziario, ai regimi arabi più fondamentalisti.

Al giovane Presidente si dovrà sicuramente concedere qualcosa alla giovinezza e alla incompleta esperienza, per altro così efficace nella campagna elettorale.

Un peccato di gioventù che può essere redento solo a patto di avere chiavi politiche di interpretazione adeguate e forze che abbiano la volontà e la capacità di praticarle.

Il progressismo di cui è pervasa la sua cultura lo induce, in realtà, a calcare il piede su un tracciato evolutivo che segnerebbe già il percorso dell’umanità pur tra possibili momentanee deviazioni. Di solito queste predeterminazioni conducono a combattere contro i mulini a vento o a inseguire o adombrare chimere sotto le cui sembianze agiscono i cerberi del momento. In costanza di chiavi interpretative, la maturità indurrà il giovane politico ad abbandonare semplicemente i primi, i mulini, per additare agli allievi del pedagogo le seconde, le chimere.

Macron ha chiesto tempo al proprio popolo e questo pare concederglielo, anche se non illimitatamente.

Le ricette che propone sono molto simili a quelle di Matteo Renzi nel suo pieno fulgore.  L’organizzazione statuale della Francia gli consente certamente maggiori margini di manovra e possibilità di attuazione. Di per sé non ne garantiscono però le possibilità di successo ed efficacia. A suo vantaggio rimane la possibilità di compensare parzialmente i costi dei cedimenti verso gli stati più attrezzati con la spremitura dei paesi più remissivi e subordinati, tra questi l’Italia, o implicati nel retaggio coloniale, come in Africa.

 Il ritorno in pompa magna in Africa Subsahariana, dopo le tentazioni di abbandono di un decennio fa, ne rivelano le intenzioni, ma anche i pesanti limiti e i rischi. Nella recente conferenza di Djamena in Ciad, in Costa d’Avorio, e in Burkina Faso Macron ha invitato espressamente i giovani africani a farsi carico del cambiamento dei regimi. Le élites di quei paesi stanno ormai abbandonando l’idea di importare pedissequamente un modello di democrazia occidentale che in paesi divisi su base clanica, etnica e tribale ha portato a vere e proprie oppressioni di etnie e clan su altri meno attrezzati. L’ingerenza delle élites francesi in questi processi non ha più un corso autonomo, ma avviene all’ombra di forze più potenti e con avversari geopolitici impensabili appena venti anni fa, come la Russia e soprattutto la Cina, ma anche l’India e i paesi del Golfo Arabo. La Francia ha schierato in quell’area circa una forza di quattromila soldati, dal limitato impatto strategico. Gli Stati Uniti ne schierano circa ottomila, con tutto il loro arsenale strategico e la strumentazione economica, finanziaria , tecnologica e culturale annessa; La Cina inizia ad avere una propria presenza militare ed una forte presenza economica e politica. I modelli e le alternative che si pongono alle élites locali sono quindi diversi e rendono praticamente impossibile un ritorno pedissequo alle vecchie politiche coloniali o imperialistiche.

L’Unione Europea dovrebbe essere, agli occhi dell’attuale classe dirigente francese, l’argine possibile e praticabile verso l’intraprendenza e l’invasività dei paesi emergenti, primo tra essi la Cina e fornire la massa critica necessaria alla Francia a riproporre la sua influenza nel Mediterraneo, nella sua interpretazione geopolitica più estesa. L’Unione Europea tanto potrà essere in grado di porre argini e barriere verso l’Oriente, per tutelare il proprio residuo patrimonio tecnologico, la propria forza commerciale quanto invece, per il proprio indelebile peccato di origine legato alla sconfitta militare della seconda guerra mondiale, compiutasi del tutto con la successiva implosione sovietica, risulta inesorabilmente scoperta e permeabile all’influenza d’oltreatlantico. In questo paradosso la probabilità che la retorica del Rinascimento francese in salsa europeista si risolva ancora e di più in un puro esercizio di retorica, nel quale Macron si sta rivelando ahimè particolarmente abile e prolisso, destinato però, più prima che poi, a scontrarsi con la dura realtà, è pressoché una certezza solo in parte offuscata dalle iniziative diplomatiche in Medio Oriente, con la Turchia, la Russia e le timide cortesie verso Trump.

Sarkozy si è limitato a cadere nel ridicolo; a Macron il destino, piuttosto che il suggello sotto l’Arco di Trionfo, potrebbe riservare un epilogo più incerto e più drammatico.

MACRON, micròn _ 2a parte, di Giuseppe Germinario

 

il link della prima parte   http://italiaeilmondo.com/2017/12/22/macron-micron-di-giuseppe-germinario/

LE PAROLE E LE COSE

MACRON Micròn_1a parte, di Giuseppe Germinario

Il grande merito di Macron è di aver avuto la forza, la determinazione e l’abilità di ripresentare l’Unione Europea come la cornice entro la quale affrontare e guidare il necessario rinnovamento del paese e costruire un nuovo processo identitario che tenesse insieme la nazione. Non più, quindi, una Unione Europea alibi e capro espiatorio cui addossare la responsabilità e la volontà di politiche impopolari altrimenti insostenibili dalle singole classi dirigenti nazionali.

Più che una strategia, però, la rappresentazione si risolve in un espediente tattico sufficiente a incasellare le prerogative regali dello stato francese nell’alveo europeista; un esercizio a dir poco ardito, ma produttore intanto di una retorica sufficiente a garantire a Macron, durante la campagna elettorale, la necessaria postura presidenziale rispetto all’atteggiamento contestatario di Marine Le Pen.

Un costrutto teorico abbastanza coerente, a prima vista attraente, ma che si sta rivelando, già dai primi passi, in stridente contrasto con l’evidenza dei fatti.

Un costrutto la cui fragilità intrinseca potrà godere comunque di ulteriori mesi di sospensione di giudizio grazie all’esito delle elezioni tedesche e al ritardo nella composizione di quel governo.

L’interesse nazionale della Francia, la gratificazione del proprio orgoglio nazionale passerebbe quindi per il rafforzamento dell’Unione Europea a guida Franco-Tedesca; una Unione nella quale le nazioni e lo stato nazionale continuerebbero ad avere un ruolo essenziale.

Un punto fermo rispetto alla persistente posizione italiana, espressa recentemente tra gli altri, dal Ministro delle Difesa Pinotti secondo la quale l’interesse nazionale italiano verrebbe semplicemente “sublimato”, quindi dissolto, in quello europeo.

Negli importanti discorsi di Macron, nelle settimane successive all’insediamento, il richiamo all’orgoglio nazionale è costante; la globalizzazione viene vista come un catalogo di opportunità del tutto compatibili con le ambizioni francesi. La Francia è, in sintesi, la culla dei diritti universali dell’uomo e l’affermazione di questi sono l’affermazione della Francia nel mondo.

L’afflato napoleonico viene in qualche modo ricondotto alla dura realtà con il presupposto che l’affermazione di potenza consisterebbe soprattutto nella capacità mediatoria radicata nel soft-power ormai bisecolare accumulato.

Quanto agli strumenti più prosaici, legati all’uso della forza e della capacità economica, a supporto delle politiche di persuasione, essi vanno forgiati nella Comunità Europea, vista l’entità dello sforzo richiesto, insostenibile dalla sola Francia, e la qualità degli avversari nello scacchiere mondiale.

Una impostazione già adottata da altre presidenze francesi, a cominciare da Mitterrand per finire con Sarkozy e Hollande e fallita miseramente nell’intento di salvaguardare la potenza francese all’interno dello schema europeista e della NATO. Caratteristica comune di queste presidenze è infatti di aver proclamato l’efficacia di una politica “entrista” per trasformare le finalità e le modalità di funzionamento dei due sodalizi; di essere invece scivolati progressivamente nel ruolo di mosche cocchiere nella conduzione soprattutto degli affari internazionali. Siria, Libia ed Ucraina “docent” in merito.

Macron ha riproposto lo stesso motivo con una maggiore retorica nazionalista, ma con un accorgimento tattico più accondiscendente verso i propri alleati maggiori, lo stesso adottato da Renzi sulle politiche di riduzione del deficit e del debito.

Nella politica economica acquisire credibilità verso i partner europei, piuttosto che la tolleranza alle proprie trasgressioni da parte della Germania, rispettando i vincoli di bilancio ed avviando il riordino della spesa pubblica e una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro per ottenere il varo di una politica espansiva di investimenti europei coordinata possibilmente da un Ministero delle Finanze UE.

Riguardo alla politica estera europea, puntare decisamente al Mediterraneo e all’Africa Subsahariana.

Riguardo alla praticabilità di queste linee, Macron riconosce i limiti intrinseci della gestione di una Unione Europea a ventisette stati e preconizza un accordo rafforzato (rapporto di cooperazione rafforzata, secondo i trattati) praticamente con i paesi fondatori della Comunità più la Spagna.

Sono i tre orientamenti che, nelle intenzioni di Macron, dovranno plasmare il sodalizio franco-tedesco nei prossimi anni; rischiano, al contrario, di mettere a nudo le divergenze di interessi tra i due paesi e di pregiudicare definitivamente le possibilità di recupero di potenza e di rilancio controllato dell’economia e in particolare dei settori strategici dell’economia francese.

FRATELLI COLTELLI

I tagli di bilancio e la parziale riduzione e riorganizzazione delle imposte, infatti, hanno già aperto due crepe allarmanti nel sistema di potere e di consenso.

La prima sta lacerando il sistema assistenziale e dei servizi in gran parte gestiti dagli enti pubblici territoriali, in primo luogo i comuni. L’abolizione, in parte compensata da nuovi tributi, della tassa sulla casa, la riorganizzazione del patrimonio abitativo pubblico con una presumibile parziale privatizzazione e vendita degli immobili, la riforma del sistema di integrazione dei redditi comporterà un radicale mutamento dell’organizzazione degli enti, specie quelli più periferici, e della base sociale sulla quale si fonda il residuo sistema di potere e di formazione dei gruppi dirigenti dei vecchi partiti messi radicalmente in crisi dall’ascesa di Macron. Può essere, d’altronde, l’occasione per il partito del Presidente (LaREM), in vita da nemmeno un paio di anni, di attecchire più saldamente sul territorio nazionale.

La seconda è molto più preoccupante perché agisce su un pilastro fondamentale sul quale poggiare l’immagine regale e l’attivismo rifondativo, l’Armèe (l’Esercito). Le Forze Armate di Francia, impegnate all’interno, nel Pacifico, in Medio Oriente e in Africa Mediterranea e Subsahariana, sono esposte ormai da anni su numerosi fronti, al di sopra delle proprie capacità operative. Sono riuscite a concentrare forze sufficienti, specie in Africa, per gestire l’impatto iniziale delle operazioni, ma non a gestire il prosieguo degli interventi. Sono in grande difficoltà nella ricostituzione delle scorte, nell’avvicendamento delle forze impegnate, nella manutenzione di materiali e strutture; hanno perso l’autonomia in alcuni settori operativi fondamentali come la logistica ed i collegamenti di lunga gittata e la funzionalità continuativa di alcuni ambiti strategici come la Marina. La rapida integrazione nel sistema di comando della NATO e l’iniziale tentazione, sino alla prima decade del millennio, di abbandono di alcune aree di influenza, in particolare dell’Africa Subsahariana e in parte del Pacifico, hanno in qualche maniera nascosto e sopperito al progressivo degrado. L’interventismo oltranzista delle presidenze Sarkozy e Hollande, in particolare in Siria e Libia, lo hanno messo pienamente a nudo. Le conseguenze politiche di quelle scelte sono state per di più particolarmente pesanti per quel paese. Lo hanno esposto pericolosamente specie in Nord-Africa e in Medio Oriente a favore di alcune fazioni, attualmente in declino e largamente compromesse in quell’area, e lasciato grottescamente isolato di fronte ai ripensamenti e alle oscillazioni degli Stati Uniti; i risultati in termini di influenza e di vantaggi economici rispetto alle energie profuse sono stati deludenti in Libia,  Tunisia e penisola araba, del tutto compromessi in Siria e probabilmente in Iran; quelli in termini di stabilità interna drammatici, grazie all’infiltrazione saudita e qatariota nel sistema finanziario e nella gestione politica ed assistenziale delle periferie urbane di Francia a prevalenza mussulmana. I vincoli di bilancio posti alla gestione di spesa delle Forze Armate rischiano di accentuare le difficoltà dell’Armèe ed accentuare la dipendenza operativa di essa e la subordinazione politica del paese, tanto più che i provvedimenti influenzeranno non solo la condizione operativa del 2018, come afferma Macron, ma anche quella dei due anni successivi come sostengono autorevoli riviste specializzate. Lo scontro con il Generale de Villiers non può essere considerata “una tempesta in un bicchier d’acqua”, ma l’indizio di un conflitto latente tra istituzioni fondamentali e di un confronto sempre più acuto all’interno delle Forze Armate tra vertici, sempre più attratti dalle sirene dell’integrazione operativa nella NATO ed ambiti significativi sostenitori di una politica e, quindi, di una forza operativa autosufficiente, autonoma e certamente più costosa.

Alle implicazioni riguardanti la praticabilità di una politica capace di conciliare esigenze di potenza ed autorevolezza ed accettazione delle politiche di austerità europee a trazione tedesca si aggiungono le divaricazioni strategiche latenti tra le attuali classi dirigenti dominanti dei due paesi.

Per la Germania della Merkel sarebbe particolarmente gravoso concedere la priorità ad una politica europea volta verso il Mediterraneo e sacrificare, quindi, la sua politica di influenza verso l’Europa Orientale, la Scandinavia ed i Balcani; una espansione resa praticabile e compatibile grazie alla adesione sempre più manifesta alla strategia antirussa e russofoba degli Stati Uniti e degli organismi ad essi collaterali. Come sarebbe altrettanto problematico assecondare rapidamente un processo di cooperazione rafforzata tra i paesi fondatori occidentali della Comunità Europea che possa offrire pretesti e spazi di maggiore autonomia di gran parte dei paesi dell’Europa Orientale; autonomia verso gli altri paesi europei, ma ulteriore dipendenza verso gli Stati Uniti, perdurando la loro attuale ostinata ostilità verso la Russia. Come pure sarebbe incompatibile con il suo attuale assetto socioeconomico concedere qualcosa di più di una semplice e limitata redistribuzione di risorse che non intacchi le dinamiche in corso da trenta anni.

Rischierebbe di pregiudicare il fragile equilibrio che consente a Stati Uniti e Germania di trarre reciproco beneficio dal loro sodalizio; un equilibrio già reso meno rassicurante dall’avvento della Presidenza Trump alla Casa Bianca.

Su questi dilemmi e su queste contraddizioni sono già cadute le presidenze di Sarkozy e di Hollande e hanno pagato pegno, a posteriori, l’autorevolezza di personaggi come Mitterrand; hanno ridotto i loro proclami e le loro ambizioni dichiarate in una roboante verbosità o in una dimessa propensione mediatoria esattamente proporzionale alla progressiva dipendenza politica del paese dalle avventure atlantiste ed europeiste a trazione statunitense e tedesca.

Si vedrà come Macron continui a percorrere, sotto mutate spoglie, il filone del progressismo democratico responsabile di tale tendenza. Del resto la sua formazione politica e culturale, per altro di tutto rispetto, si è nutrita ampiamente di quelle risorse.

Il suo programma ricalca in larga misura e per l’essenziale elaborazioni maturate nelle precedenti presidenze e sostenute anche da forze politiche in qualche maniera affini in Europa, tra esse il Partito Democratico di Matteo Renzi.

Si vedrà tuttavia come la qualità della classe dirigente che ha espresso Macron, la statura del personaggio, la condizione generale del suo paese, la sua organizzazione istituzionale, le particolari condizioni politiche interne, l’avvento per altro osteggiato di Trump consentano qualche margine di manovra più ampio rispetto alla condizione disarmante di un paese come l’Italia. Il declino della Merkel, all’evidenza uno smacco clamoroso ai propositi macroniani sin dal loro nascere, potrebbe rivelarsi l’occasione inaspettata per liberarsi dall’abbraccio soffocante e dalle contraddizioni intrinseche della sua visione.

Potrebbero solo prolungare l’agonia e il declino della Francia, come al contrario contribuire a riposizionare il paese in condizioni più accettabili.

Al prossimo capitolo più che la sentenza, sarebbe mera presunzione, un tentativo di interpretazione.

Guerra di secessione americana-le ragioni del protezionismo, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la traduzione di un interessante articolo del professore americano Thomas Di Lorenzo riguardante i motivi profondi della drammatica guerra di secessione interna agli Stati Uniti deflagrata a metà ‘800.

 Il saggio è importante per almeno due motivi.  https://www.paulcraigroberts.org/2017/12/01/professor-dilorenzo-explains-real-cause-war-northern-aggression/

Il primo riguarda il contributo ulteriore che riesce ad offrire, pur in una produzione letteraria ormai copiosa, sulle cause scatenanti di un evento sanguinoso e tragico, che portò alla morte violenta di circa il 3% della popolazione statunitense, concentrata nella sua parte più vitale e ammantato di una retorica umanitaria ed antirazziale in gran parte fuorviante rispetto a quel contesto storico; evento epocale, propedeutico alla irresistibile ascesa di quello stato nell’agone geopolitico mondiale.

Il secondo aiuta indirettamente a collocare più realisticamente e pragmaticamente il dibattito sul rapporto tra globalizzazione e protezionismo.

Il termine di globalizzazione tende ad essere identificato con il processo di liberalizzazione degli scambi. Con globalizzazione si dovrebbe intendere, invece, la possibilità e capacità incrementata di relazione, comunicazione e scambio resa possibile dagli impressionanti sviluppi della tecnologia in spazi talmente estesi e lassi di tempo talmente ridotti, impensabili sino a quaranta anni fa. Il processo di globalizzazione non comporta l’eliminazione e l’irrilevanza progressiva di regole, norme, imposizioni di fatto e compromessi che conformino tali scambi, tutt’altro; i campi di normazione e di azione si estendono in ambiti sino a poco tempo fa impensabili. Il discrimine che determina le peculiarità di sviluppo di questo processo è tra una situazione di dominio egemonico di una potenza sulle altre ed una nella quale sono più potenze a contendersi il predominio e le rispettive aree di influenza all’interno delle quali comunque avviene il gioco dei vari centri strategici e dei vari stati nazionali.

Nel primo caso è più facile che la normazione sia più uniforme, ma comunque conformata dando priorità alla visione e agli interessi della forza dominante; tendenzialmente l’ambito economico e le strategie politiche all’interno di esso assumono un carattere più autonomo.

Nel secondo la mediazione, i contrasti e la regolazione sono sicuramente più faticosi, imprevedibili e contraddittori. Ma sempre di regolazione si tratta. Gli Stati Uniti, specie nella periferia e nella semi periferia, sono presentati ostinatamente come i paladini del liberalismo tout court, quando sono in realtà i campioni di un liberalismo alquanto selettivo e di una definizione di regole e consuetudini conformi alle loro esigenze di sviluppo e di successo. Sarebbe interessante analizzare con cura e competenza le loro modalità operative e regolative. Sono un esempio, ma certamente anche gli altri soggetti politici, gli altri stati ambiscono ai medesimi obbiettivi, secondo le ambizioni e le possibilità delle rispettive classi dirigenti (qui di seguito un testo dove tratto più estesamente l’argomento ( http://italiaeilmondo.com/2016/10/02/globalizzazione-e-stati-nazionali/  – http://italiaeilmondo.com/category/dossier/globalizzazione-e-stati-nazionali/ ). Ogni stato ed ogni formazione sociale che abbia  voluto tentare la strada dello sviluppo e della crescita di potenza ha tentato di stabilire al proprio interno e nelle relazioni esterne particolari norme e filtri che consentissero il proprio sviluppo industriale.

La guerra di secessione americana rappresenta certamente un paradigma per tentare di inquadrare queste dinamiche. Un paradigma, però, che non deve nascondere l’attuale complessità dell’azione politica dei centri strategici. Allora la contesa riguardava praticamente l’entità delle barriere doganali e le modalità di funzionamento delle giovani istituzioni americane; oggi le contese riguardano apparati e ambiti operativi molto più sofisticati e complessi all’interno dei quali le barriere citate assumono un ruolo secondario e spesso distorcente. Gli Stati Uniti, ancora oggi, con le vicende legate all’avvento della presidenza Trump appaiono l’epicentro di questo scontro. A titolo di esempio per definizione parziale, riguarda la difesa del know-how, della conoscenza, della tecnologia, della determinazione degli standard di applicazione, delle caratteristiche dei prodotti, della regolazione dei flussi finanziari, dei dati, delle comunicazioni, dei confini entro i quali gli stati hanno giurisdizione. Tutto questo presuppone l’esistenza, non l’abolizione o l’indebolimento degli stati nazionali, come ancora sentiamo predicare soprattutto negli ambienti della sinistra, mondialista o del particulare che sia. Le modalità di sviluppo delle loro relazioni e dei loro conflitti sono, quindi, una chiave interpretativa fondamentale delle vicende del mondo. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

PS_ Per la traduzione, per motivi di tempo, ho corretto le imprecisioni più vistose del traduttore utilizzato. Segnalate eventualmente ulteriori errori ed imperfezioni

guerra-civile-americana-27617055Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

1 ° dicembre 2017 | Categorie: Contributi ospiti | Tag: | Stampa questo articolo

Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

Le cause della “guerra civile” nelle parole di Abraham Lincoln e Jefferson Davis
Di Thomas DiLorenzo
, 30 novembre 2017
https://www.lewrockwell.com/2017/11/thomas-dilorenzo/the-causes-of-the- guerra civile-in-the-parole-di-Abraham-Lincoln-e-Jefferson-Davis /

“Quando [gli stati] entrarono nell’Unione del 1789, accompagnarono il loro ingresso con l’innegabile riconoscimento della facoltà del popolo di riprendere l’autorità delegata ai fini di quel governo, ogni volta che, a loro parere, le sue funzioni erano pervertite e i suoi fini sconfitti . . . gli Stati sovrani qui rappresentati si sono separati da quella Unione, ed è un grave abuso di linguaggio definire tale atto ribellione o rivoluzione. “ -Jefferson Davis, Primo discorso inaugurale, Montgomery, Alabama, febbraio 1861.

“Quindi . . . l’Unione è perpetua  ed [è] confermata dalla storia dell’Unione stessa. L’Unione è molto più antica della Costituzione. È stato formato, infatti, dallo Statuto nel 1774. È stato maturato e confermatoo dalla Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776. È stato ulteriormente consolidato e la fede di tutti i tredici Stati si è espressa e impegnata espressamente nella affermazione che dovrebbe essere perpetua . . . . Da queste considerazioni risulta che nessuno Stato. . . può uscire legalmente dall’Unione. . . e quelli che agiscono. . . contro l’autorità degli Stati Uniti sono insurrezionali o rivoluzionari. . . “
-Abraham Lincoln, primo discorso inaugurale, 4 marzo 1861.

Queste due dichiarazioni di Abraham Lincoln e Jefferson Davis nei rispettivi discorsi inaugurali evidenziano forse la causa principale della guerra per prevenire l’indipendenza del Sud: Davis credeva, come fecero i padri fondatori, che l’unione degli stati fosse un’unione volontaria creata quando gli Stati liberi, indipendenti e sovrani hanno ratificato la Costituzione, come stabilito dall’articolo 7 della Costituzione; Lincoln affermò che non era volontaria; era più simile a quella che le generazioni future avrebbero conosciuto come Unione Sovietica – tenute insieme dalla forza e dallo spargimento di sangue. Murray Rothbard ha deriso la teoria di Lincoln circa l’unione americana non volontaria con una teoria dell’unione “Venere velenosa” descritta nel suo saggio, “Just War”. Infatti, nello stesso discorso Lincoln ha usato le parole “invasione” e “spargimento di sangue” per descrivere cosa sarebbe successo con qualsiasi stato che avesse lasciato la sua unione “perpetua”. La sua posizione era che dopo aver combattuto una lunga guerra di secessione dal tirannico impero britannico, i fondatori si voltarono e crearono uno stato centralizzato quasi identico, di tipo britannico, dal quale non ci sarebbe mai stata alcuna via di fuga.

Per quanto importante fosse questo problema, Jefferson Davis annunciò al mondo che una questione altrettanto importante se non più importante era il tentativo del Nord di usare finalmente i poteri dello stato nazionale per saccheggiare il Sud, con una tariffa protezionistica come suo principale strumento di predazione. Come ha affermato nel suo primo discorso inaugurale, il popolo del Sud era “ansioso di coltivare la pace e il commercio con tutte le nazioni”. Tuttavia:”Non c’è motivo di dubitare che il coraggio e il patriottismo del popolo degli Stati confederati si troveranno pronti a qualsiasi misura di difesa che potrebbe essere richiesta per la loro sicurezza. Dedicati alle attività agricole, il loro principale interesse è l’esportazione di una merce richiesta in ogni paese manifatturiero. La nostra politica è la pace e il commercio più libero che le nostre necessità consentiranno. È allo stesso modo il nostro interesse, e quello di tutti coloro a cui vorremmo vendere e da cui compreremmo, che ci dovrebbe essere la minor quantità di restrizioni praticabili sull’interscambio di merci. Non può esserci che poca rivalità tra noi e qualsiasi comunità manifatturiera o di navigazione, come gli Stati nordoccidentali dell’Unione americana. ”

“Deve seguire, quindi, che l’interesse reciproco dovrebbe invitare alla buona volontà e alla gentilezza tra loro e noi. Se, tuttavia, la passione o la lussuria del dominio dovessero offuscare il giudizio e infiammare l’ambizione di questi Stati, dobbiamo prepararci a fronteggiare l’emergenza e mantenere, con l’ultimo arbitraggio della spada, la posizione che abbiamo assunto tra le nazioni della terra.”

Per inserire queste affermazioni nel contesto, è importante capire che il Nord stava più che raddoppiando il tasso medio delle importazioni in un momento in cui almeno il 90% di tutte le entrate fiscali federali proveniva dalle tariffe sulle importazioni. Il livello di tassazione federale era più che raddoppiato (dal 15% al 32,7%), come accadde il 2 marzo 1861, quando il presidente James Buchanan, il protezionista della Pennsylvania,commutò l’ordinanza tariffaria di Morrill in legge; una legge che fu pervicacemente promossa da Abraham Lincoln e il Partito Repubblicano. (La delegazione della Pennsylvania era una componente chiave per la nomina di Lincoln. Prima della convention repubblicana mandò un emissario privato, il giudice David Davis, in Pennsylvania con copie originali di tutti i suoi discorsi in difesa delle tariffe protezionistiche degli ultimi venticinque anni per convincere gli stessi protezionisti della Pennsylvania, guidati dal produttore / legislatore d’acciaio Thaddeus Stevens, che era il loro uomo. Ha conquistato la delegazione della Pennsylvania e in seguito ha nominato Davis alla Corte Suprema.

Da quando entrarono in vigore la Tariffa del 1824 e la “Tariffa degli abomini” ancor più protezionistica del 1828, con una aliquota media del 48%, il Sud protestava e minacciava persino l’annullamento e la secessione dal saccheggio protezionistico, come fece la Carolina del Sud nel 1833 quando fu formalmente annullata la “Tariffa degli abomini”. I voti al Congresso su queste tariffe erano completamente sbilanciati in termini di sostegno settentrionale e opposizione meridionale – sebbene vi fossero piccole minoranze di protezionisti del Sud e commercianti liberi del Nord, specialmente a New York in quest’ultimo caso.

Il Sud, come il Mid-West, era una società agricola che veniva saccheggiata due volte dalle tariffe protezionistiche: una volta pagando prezzi più elevati per i manufatti “protetti” e una seconda volta riducendo le esportazioni dopo che le alte tariffe impoverivano i loro clienti europei ai quali era proibitivo vendere negli Stati Uniti a causa delle tariffe elevate. La maggior parte dei prodotti agricoli del Sud – quasi il 75% circa in alcuni anni – era venduta in Europa.

La Carolina del Sud annullò la tariffa degli abomini e costrinse il presidente Andrew Jackson ad accettare un tasso tariffario inferiore, di compromesso, introdotto per più di dieci anni, a partire dal 1833. Il Nord non aveva ancora il potere politico di saccheggiare il Sud, un atto che molti statisti del Sud ritenevano talmente una grave violazione del patto costituzionale da giustificare la secessione. Ma nel 1861 la crescita della popolazione nel Nord e l’aggiunta di nuovi stati del Nord, avevano dato al Nord stesso un potere politico sufficiente per saccheggiare il Sud e il Mid-West agricoli con tariffe protezionistiche. La Tariffa Morrill era passata alla Camera dei Rappresentanti durante la sessione del 1859-60, molto prima che qualsiasi stato meridionale si fosse separato, e era segnato sul muro che era solo una questione di tempo prima che il Senato degli Stati Uniti ne seguisse l’esempio.

La Costituzione Confederata ha messo fuori legge completamente le tariffe protezionistiche, chiedendo solo una modesta “tariffa di entrata” del dieci percento circa. Un atto talmente orribile per il “Partito delle grandi cause morali” che i giornali affiliati al Partito repubblicano nel Nord chiesero il bombardamento dei porti del Sud prima della guerra. Con una tariffa del Nord nella fascia del 50% (l’aumento tariffario che sarebbe intervenuto alla firma di Lincoln dei dieci articoli legislativi; e tale sarebbe rimasta per i successivi cinquanta anni) rispetto alla tariffa media del 10% meridionale, hanno capito che molto del commercio del mondo sarebbe passato attraverso i porti del Sud, non del Nord, e per loro è stato questo il motivo di guerra. “Ora abbiamo i voti e intendiamo saccheggiarti senza pietà; se resisti invaderemo, conquisteremo e soggiogheremo “è essenzialmente ciò che diceva il Nord.

Né Lincoln né il partito repubblicano si sono opposti alla schiavitù del sud durante la campagna del 1860. Si sono solo opposti all’estensione della schiavitù nei nuovi territori. Questo non era a causa di alcuna preoccupazione per la condizione degli schiavi, ma faceva parte della loro strategia di saccheggio perpetuo. Gli agricoltori del Mid-West, come gli agricoltori meridionali, sono stati duramente discriminati dalle tariffe protezionistiche. Anche loro sono stati doppiamente tassati dal protezionismo. Questo è il motivo per cui il Mid-West (chiamato “il Nord-Ovest” nel 1860) ha fornito una seria resistenza antebellum allo schema yankee di saccheggio protezionistico. (Il Mid-West ha anche fornito alcune delle più efficaci opposizioni al regime di Lincoln durante la guerra, essendo la casa dei “Copperheads”, così chiamato come un termine diffamatorio del Partito Repubblicano). Questa opposizione è stata annacquata, tuttavia, quando il Partito Repubblicano sostenne la politica di impedire la schiavitù nei territori, preservandoli “per il libero lavoro bianco” secondo le parole dello stesso Abraham Lincoln. I Mid-Western erano razzisti come chiunque altro a metà del diciannovesimo secolo, e la stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro. Lo stato dell’Illinois di Lincoln aveva modificato la sua costituzione nel 1848 per proibire l’immigrazione di neri liberi nello stato, e Lincoln stesso era un “manager” della Illinois Colonization Society, che usava i dollari delle tasse statali per deportare il piccolo numero di neri liberi che risiedeva nello stato. La stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro.

Anche i braccianti bianchi e le masse di contadini non volevano la concorrenza per il loro lavoro da neri, liberi o schiavi che fossero; il Partito Repubblicano era felice di assecondarli. Poi c’è il “problema” degli schiavi nei Territori che gonfia la rappresentanza congressuale del Partito Democratico a causa della clausola della Costituzione dei tre quinti. Con una maggiore rappresentanza democratica, il saccheggio protezionista sarebbe diventato molto più problematico da raggiungere.

Questa strategia fu spiegata nella relazione della commissione per gli affari esteri degli Stati Confederati d’America il 4 settembre 1861:

“Mentre la gente del Nord-Ovest, essendo come la gente del Sud, un popolo agricolo, era generalmente contraria alla politica tariffaria protettiva – la grande strumentalizzazione settoriale del Nord. Erano alleati del sud, per sconfiggere questa politica. Quindi è stato solo parzialmente, e occasionalmente di successo. Per renderlo completo e per rendere il nord onnipotente a governare il Sud, la divisione nel Nord doveva essere sanata. Per realizzare questo progetto, e per sezionare il Nord, iniziò l’agitazione riguardante la schiavitù africana nel Sud. . . . Di conseguenza, dopo il rovesciamento della tariffa del 1828 [cioè la tariffa degli abomini], con la resistenza della Carolina del Sud nel 1833, l’agitazione riguardante l’istituzione della schiavitù del sud. . . è stato immediatamente avviato nel Congresso degli Stati Uniti. . . . Il primo frutto di [questo] dispotismo settoriale. . . era la tariffa recentemente approvata dal Congresso degli Stati Uniti. Con questa tariffa la politica protettiva si rinnova nelle sue forme più odiose e oppressive, e gli Stati agricoli sono resi tributari agli Stati manifatturieri “.

Il primo discorso inaugurale di Lincoln: “Pay Up or Die!”
Il primo discorso inaugurale di Abraham Lincoln fu probabilmente la più forte difesa della schiavitù del Sud mai fatta da un politico americano. Cominciò dicendo che in “quasi tutti i discorsi pubblicati” aveva dichiarato che “non ho alcuno scopo, direttamente o indirettamente, di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui già esiste”. Credo di non avere alcuna diritto legale di farlo, e non ho alcuna inclinazione a farlo. “Ha poi citato la Piattaforma del Partito Repubblicano del 1860, pienamente approvata, che proclamava che” il mantenimento inviolato dei diritti degli Stati, e in particolare il diritto di ciascuno Stato per ordinare e controllare le proprie istituzioni nazionali. . . è essenziale per quell’equilibrio di potere da cui dipendono la perfezione e la resistenza del nostro tessuto politico. . .” (enfasi aggiunta). “Istituzioni domestiche” significava schiavitù.

Lincoln quindi si impegnò a far rispettare la legge sugli schiavi fuggiaschi, che in effetti fece durante la sua amministrazione, restituendo dozzine di schiavi fuggiaschi ai loro “proprietari”. Soprattutto, sul finire del suo discorso approvò i sette paragrafi dell’emendamento Corwin alla Costituzione, già approvati da Camera e Senato e ratificato da diversi stati. Questo “primo tredicesimo emendamento” proibirebbe al governo federale di interferire in ogni modo con la schiavitù del sud. Avrebbe inciso esplicitamente la schiavitù nel testo della Costituzione. Lincoln affermò nello stesso paragrafo che riteneva che la schiavitù fosse già costituzionale, ma che non aveva “alcuna obiezione al fatto che fosse reso esplicito e irrevocabile”.

Nel suo libro La squadra dei rivali Doris Kearns-Goodwin usa fonti primarie per documentare che la fonte dell’emendamento non era in realtà il deputato dell’Ohio Thomas Corwin ma lo stesso Abraham Lincoln che, dopo essere stato eletto ma prima di essere insediato, incaricò William Seward di ottenere l’emendamento attraverso il Senato degli Stati Uniti dominato dal Nord; cosa che ha fatto. Altri repubblicani videro che anche la Camera dei rappresentanti dominata dal Nord avrebbe votato a favore.

Così, il giorno in cui fu insediato, Abraham Lincoln offrì la più forte e intransigente difesa della schiavitù del Sud immaginabile. Egli annunciò efficacemente al mondo che se gli stati del Sud rimanessero nell’unione e si sottomettessero a essere saccheggiati dall’impero protezionista dominato dagli yankee, allora il governo degli Stati Uniti non avrebbe mai fatto nulla contro la schiavitù.

La risoluzione Aims War of the Senate degli Stati Uniti riecheggiava le parole di Lincoln secondo cui la guerra NON riguardava la schiavitù, ma il “salvataggio dell’unione”; una contesa che Lincoln ripeteva molte volte, inclusa la famosa lettera al direttore del New York Tribune Horace Greeley in cui diceva pubblicamente ancora una volta che questo scopo era “salvare l’unione”; il non fare nulla contro la schiavitù. In realtà il regime di Lincoln distrusse completamente l’unione volontaria dei padri fondatori. “Salvando l’Unione” intendeva costringere il Sud a sottomettersi al saccheggio protezionistico, non preservando l’unione altamente decentralizzata e volontaria della generazione fondatrice basata su principi come il federalismo e la sussidiarietà.

In drammatico contrasto, sulla questione della riscossione delle tariffe, Abraham Lincoln fu violentemente intransigente. “Niente” è più importante del passaggio della tariffa Morrill, come aveva annunciato a un pubblico della Pennsylvania poche settimane prima. Niente. Nel suo primo discorso inaugurale ha affermato nel diciottesimo paragrafo che “[T] qui non deve essere spargimento di sangue o violenza, e non ce ne sarà nessuno a meno che non sia forzata l’autorità nazionale”. Di cosa avrebbe potuto parlare? Cosa causerebbe “l’autorità nazionale” a compiere atti di “spargimento di sangue” e “violenza” contro i propri cittadini americani? Il presidente non fa un giuramento in cui promette di difendere le libertà costituzionali dei cittadini americani? In quale modo ordinare atti di “spargimento di sangue” e “violenza” nei loro confronti è coerente con il giuramento presidenziale per l’ufficio che aveva appena assunto,

Lincoln spiegò nella successiva frase: “Il potere confidato in me sarà usato per tenere, occupare e possedere la proprietà e i luoghi appartenenti al Governo, e per raccogliere i doveri e le imposte; ma al di là di ciò che potrebbe essere necessario per questi oggetti, non ci sarà nessuna invasione, nessuna forza sarà usata contro la gente da nessuna parte “(enfasi aggiunta). I “doveri e imposte” a cui si riferiva erano le tariffe da riscuotere secondo la nuova legge Morrill. Se ci dovesse essere una guerra, disse, la causa della guerra sarebbe in realtà il rifiuto degli Stati del Sud a sottomettersi al saccheggio della tassa federale appena raddoppiata, una politica che il Sud stava periodicamente minacciando di annullare con la stessa secessione finita per i precedenti trentatré anni.

In sostanza, Abraham Lincoln stava annunciando al mondo che non avrebbe fatto marcia indietro verso i secessionisti del Sud come aveva fatto il presidente Andrew Jackson accettando una riduzione negoziata della tariffa degli abomini (negoziata dall’idolo e dall’ispirazione politica di Lincoln, Henry Clay, autore della Tariffa degli Abomini in primo luogo!). Ha promesso “violenza”, “spargimento di sangue” e guerra alla riscossione delle tariffe, e ha mantenuto la sua promessa.

Thomas J. DiLorenzo è professore di economia alla Loyola University nel Maryland e autore di The Real Lincoln.

 

MARE NOSTRUM_UNA CHIOSA A “UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA”_ GIUSEPPE GERMINARIO

Qui sotto il link di un articolo decisamente interessante, apparso sulla rivista Eurasia, riguardante una possibile ricollocazione geopolitica dell’Italia che consentirebbe una maggiore autonomia di azione senza necessariamente rimettere radicalmente in discussione l’attuale sistema di alleanze incentrate sulla Unione Europea e sulla NATO. Il fulcro dell’azione politica, in sostanza, dovrebbe volgersi verso il Mediterraneo e verso l’Africa nel vicinato prossimo e verso l’Asia, la Russia e la Cina in quello lontano. E’ indubbio che, pur all’interno dei pesanti vincoli di subordinazione ed alleanza, ci siano margini di agibilità che la nostra classe dirigente nemmeno sogna di utilizzare. L’esempio positivo della Turchia, per altro, mi pare fuorviante; come pure quello della Polonia, giacché l’Italia gode, a dispetto della presunta perifericità del paese, della stessa attenzione strategica da parte delle potenza dominante. La condizione di frammentarietà e debolezza politica ed istituzionale difficilmente consentirebbe di sostenere  una pressione analoga a quella subita dalla Turchia. E infatti appare propedeutico e decisivo l’orientamento politico strategico della classe dirigente dominante per intraprendere una qualsiasi strada di maggiore autonomia. La vicenda delle sanzioni alla Russia, tra i tanti, assume la veste di un vero e proprio paradigma. Non sono solo uno strumento offensivo contro la Federazione Russa, sono anche uno strumento di compattamento dell’alleanza atlantica; si stanno rivelando, sorprendentemente, nella loro opacità ed arbitrarietà di applicazione un modo particolarmente subdolo di ridefinire i rapporti interni all’alleanza stessa e di danneggiare i paesi diretti dalla classe dirigente più prona. La volontà di una classe dirigente è, però, solo una condizione, sia pure determinante. Il problema è innanzitutto come si forma e costruisce una classe dirigente alternativa, visto che quella attuale non pare offrire nessuna capacità di analisi e possibilità di redenzione. E tuttavia occorre prestare un occhio più attento alla condizione oggettiva del paese. Su questo l’articolo assume, a mio avviso, una postura un po’ troppo ottimistica sia pur nella cautela in esso suggerita rispetto a soluzioni-panacea quali quella dell’uscita dall’euro. Intanto, ancora una volta, l’estensore sembra fondare sulle capacità economiche e sulle potenzialità produttive la possibilità di redenzione dalla condizione di asservimento. Purtroppo numerosi eventi ed episodi attestano ormai quanto queste potenzialità siano piegate e conformate dalle esigenze politiche e rese praticabili da una credibilità e autorevolezza politica della classe dirigente purtroppo in via di esaurimento. Il paese, inoltre, sta erodendo drammaticamente piuttosto che acquisendo le capacità tecnologiche e produttive necessarie a dar corpo a queste politiche. Ma non solo quelle; anche dilapidando le stesse capacità e qualità professionali che non ostante tutto riesce ancora a formare. La classe dirigente sta perdendo progressivamente e consapevolmente il controllo e la capacità di indirizzo dei residui atout disponibili. Non è un caso che gli americani si siano concentrati nell’acquisizione dei settori strategici, anche quelli in apparenza meno significativi come la ceramica; non è un caso che francesi e tedeschi si siano concentrati sulla logistica, sul drenaggio del risparmio e sull’acquisizione di marchi, in particolare di quelli che potessero qualificarli con miglior lustro, sotto mentite spoglie, in Medio Oriente. Due esempi tra tutti, l’Edison e l’Italcementi, concesse anch’esse allegramente rispettivamente in mano francese e tedesca. Una gran parte dell’apparato produttivo, per altro, è costituito da componentistica legata ormai mani e piedi al prodotto finito della grande industria tedesca. La storia dello sviluppo industriale del paese è lì a rammentarci, per altro, che i momenti di maggior espansione e di sviluppo qualitativo dell’economia, in particolare dell’industria, a partire da metà ‘800, si sono ottenuti guardando a nord e ad ovest, il più delle volte obtorto collo. Emblematico ed illuminante a proposito il contenuto dell’acceso dibattito degli anni ’50, propedeutico al “miracolo economico”. La stessa impresa straordinaria di Mattei all’ENI, pur con tutti i margini di audacia ed autonomia che costui si è concesso e per i quali ha pagato drammaticamente dazio, consistevano sì in una apertura verso i paesi mediterranei, africani e mediorientali, che consentisse soprattutto l’approvvigionamento necessario alla compartecipazione, però, del paese al miracolo economico euroccidentale. Non a caso Mattei contrastò l’ostracismo dei settori più retrivi dell’industria italiana, anch’essi favorevoli ad una espansione verso il Mediterraneo, sostenne lo sviluppo dell’industria di base, specie energetica, siderurgica e chimica, antagonista a quelli e si alleò con la nascente industria meccanica, notoriamente direttamente legata ai centri americani. Nell’attuale condizione, uno spostamento del baricentro rischierebbe di asservire ulteriormente il paese al vero dominus dal secondo dopoguerra ad oggi, gli Stati Uniti. La condizione preliminare di una svolta è, diversamente, l’assunzione del controllo delle principali leve di governo e di indirizzo del paese; il patto europeo, negli attuali termini, inibisce questi sforzi secondo modalità ben più complesse della mera introduzione della moneta unica, l’euro e della imposizione delle norme di stabilità finanziaria, sui quali si incentra purtroppo la quasi esclusiva attenzione dei critici. Una rinegoziazione piuttosto che una rottura presupporrebbe l’esistenza di una classe dirigente ancora più determinata e capace e di un contesto ben diverso, quanto meno di una Unione Europea molto più ristretta e gestibile degli attuali ventisette aderenti. Una rideterminazione del “pivot” non può prescindere quindi da un lavorio sagace in grado di favorire il cambiamento degli equilibri politici in Francia e Germania, senza il quale rischiamo di trovarceli come avversari sempre più dichiarati, in una Europa sempre più frammentata e rissosa, ma sempre a supporto della potenza dominante. A maggior ragione le implicazioni sarebbero determinanti se il paese, motu proprio, dovesse allargare il raggio di azione a Cina e Russia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA

Dell’uguaglianza: dialogo sui due Manifesti (seconda parte), di Alessandro Visalli

Dell’uguaglianza: dialogo sui due Manifesti (seconda parte)tratto da

https://tempofertile.blogspot.it/2017/11/delluguaglianza-dialogo-sui-due.html

 

Continua il dibattito avviato con la pubblicazione dei due manifesti per l’Europa http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/

Rileggendo le repliche di Roberto Buffagni al mio testo su “Lo scontro tra le diverse Europe”, che a sua volta era una replica al suo “Due appelli, due Europe” mi pare il punto dirimente sia il concetto adoperato di “uguaglianza”. Si tratta, a tutta evidenza, di un concetto-monstre; all’avvio della voce “Uguaglianza” della vecchia e insostituibile Enciclopedia Einaudi (14, pp. 515 e seg) si legge che “il concetto di uguaglianza ha un’estensione tanto vasta che si può affermare nei suoi confronti ciò che Hegel diceva di Dio, che preso di per sé è ‘un suono privo di senso, un mero nome’”.

Tuttavia la sua replica ci precipita in tale estensione; dunque tocca parlarne.

Nella prima parte della replica si afferma con un’utile schematizzazione idealtipica che il “progressismo”, individuato come nemico da Buffagni, sia caratterizzato da: “universalismo politico”, “relativismo spirituale”, “egualitarismo omologante”, “individualismo astratto”, e probabilmente soprattutto “telos e senso della storia identificati con la distruzione creatrice capitalistica e il progresso che meccanicamente ne consegue, in vista dell’obiettivo strategico/utopico del governo mondiale”, in conseguenza “scientismo”. Al contrario il “conservatorismo” sarebbe caratterizzato da “endiadi di universalismo spirituale e relativismo politico”, “primato ontologico della comunità sull’individuo e della gerarchia sull’eguaglianza tanto nella personalità dell’uomo quanto nella strutturazione della società”, “telos e senso della storia identificati con la trasmissione dell’eredità del passato e la perenne ricerca – sempre contrastata e sempre rinnovata, mai conclusiva – dell’ordine, in vista del bene comune”.

Questa opposizione rappresenterebbe la frattura lungo la quale tendono a ricomporsi i campi politici. E nel ricomporsi riavviano le guerre di religione, nel senso di guerre per il senso più profondo dell’essere uomo. Si arriva a porre i due opposti manifesti (questo e questo) come momento di manifestazione di un piano di conflitto profondo come lo furono le 95 tesi luterane (a posteriori).

Su questa valutazione, che solo i posteri potranno confermare, viene la prima sfida intellettuale che il testo pone: la ‘sinistra’ si dividerà a suo parere lungo la linea di faglia, e precisamente tra umanismo e quello che chiama ‘post-strutturalismo’. Il punto di differenza sarebbe nell’attribuzione di qualche sostanza naturale all’uomo ed al suo bene. Il cosiddetto post-strutturalismo (termine nel quale, come noto, si addensano le ampie tradizioni culturali, in particolare filosofiche), oltrepassa, appunto, lo strutturalismo marxista ed il materialismo, che include necessariamente una valutazione del bene e dell’uomo come dotato di propria natura, seguendo una critica radicale della ‘ragione’. Questa prende in effetti molte e diverse facce (nel mondo francofono, passando per una rilettura di Nietsche e Heidegger, sfocia nella genealogia foucaultiana o nella ‘decostruzione’ derridiana; in quello anglofono nella rilettura della tradizione pragmatista ed in autori come Rorty; in quello italiano nel cosiddetto ‘pensiero debole’ di Vattimo e poi nel pensiero delle moltitudini di Negri). La spaccatura si aprirebbe dunque tra post-marxisti, legati a qualche tipo di umanesimo, e post-metafisici che cercano di farne a meno.

È piuttosto difficile alzare barriere così nette, ad esempio nella seconda famiglia sono molto più frequenti riletture di autori sicuramente riconducibili alla “cultura politica del conservatorismo”, come Heidegger e Nietzsche, e sono in opera tentativi di sintesi come quello di Habermas e delle ultime generazione francofortesi (che, però, in qualche modo tornano verso Hegel).

Se comunque la questione dirimente fosse l’ancoraggio ad un concetto di natura umana “fondato religiosamente e/o metafisicamente” (ancorato alle tradizioni culturali greco-romana e cristiana) e dunque ancorato ad un’affermazione assoluta e universale della verità, saremmo in presenza di una frattura che grosso modo può essere fatta risalire al trauma della ‘guerra civile europea’ della prima metà del novecento. Ma tutte le tradizioni culturali che dal trauma traggono una sorta di cultura del sospetto (tutti i citati, sia pure in modo enormemente differenziato) faticano ad essere raggruppate dalla stessa parte secondo gli assi conservatore/progressista o destra/sinistra. Per fare un esempio è l’opposto di un progressista Heidegger, ma certamente sospetta la metafisica occidentale (alla quale riconduce certamente lo scientismo e il mito del progresso prometeico) e con essa l’identificazione di essenze. È per lui la domanda sull’essere che tiene in movimento la natura umana, caratterizzata dall’esserci e dall’essere per la morte, e che abita nel linguaggio (nella radura aperta da esso). Questa mossa è interpretata da autori come Rorty, in uno con la tradizione pragmatista alla quale è legato, come parte di un “linguistic turn” complesso da incasellare nelle categorie indicate.

Ma in fondo credo che il discorso non sia su questo piano, la questione centrale focalizzata è tra un universalismo che si traduce in imperialismo (non alieno anche alle tradizioni antiche) e un universalismo fondato su una distinzione tra “le due città”, agostiniano. Qui la critica alla rivoluzione francese, con la sua pretesa tutta moderna di creare in terra la perfezione tocca il tema della “uguaglianza”, che sarebbe in realtà “solo virtuale o potenziale”.

Nel secondo intervento ecco che la critica prende corpo: secondo Buffagni se si cerca di attuare l’eguaglianza si passa inevitabilmente il segno, precipitando nel suo opposto (il concetto utilizzato è ‘enantiodromia’, che Jung riconduce al dominio di una direttiva unilaterale che produce una inconscia direzione d’azione opposta). Qui in particolare è discussa la critica che avevo avanzato al capoverso della “Dichiarazione di Parigi” nella quale veniva sconfessato “l’egualitarismo esagerato” e la connessione di una “democrazia sana” alle “gerarchie sociali e culturali”, capaci di articolarsi su perseguimento di “eccellenza” ed attribuzione di “onore”. Ovvero la “restaurazione” di un senso socialmente condiviso della grandezza “spirituale” (questa sottolineatura è naturalmente importante), degna di onore al di là della “mera ricchezza”. La frase che più di ogni altra mi ha mosso è, però, la seguente: “la cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale”. Frase che è soprattutto chiarita, nel suo senso, dal suo seguito: “dobbiamo ricuperare il rispetto tra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore a tutti”.

Confermo che qui c’è una divergenza di sensibilità. Citai appositamente un autore denso, culturalmente avveduto, e molto consapevole della linea di frattura prima evocata, come il filosofo francese di destra (estrema) Alain De Benoist, perché leggendolo questa divergenza mi è sempre saltata all’occhio. Non è facile coglierlo in fallo, per così dire, ma nell’insieme per me passa il segno.

Non si tratta però neppure di disconoscere un semplice fatto, come quello che le classi ed i ceti sono regolarità storiche, perché sarebbe ovviamente atto ridicolo. Né si tratta di immaginare un mondo dell’eden, in terra, nel quale la diseguaglianza sociale (ovvero, appunto, le differenze creanti organizzazione sociale) sia eliminata.

Se si tentasse questa via (che è sfiorata in alcuni passi più politici anche di Marx, dunque di un autore “umanista” nella classificazione sopra fatta) certamente gli effetti sarebbero ‘enantiodromici’. E tale fu, più o meno, la critica della componente di sinistra (ma anche di quella di destra) della scuola post-strutturalista. Per chi volesse sincerarsene potrebbe rileggere il breve passo in cui Jacques Derrida, in “Spettri di Marx” afferma che non si può capire la decostruzione senza far mente al clima nei primi anni sessanta e tardi cinquanta di critica del sovietismo (seguita alle invasioni nell’Est europeo).

Come anche per altre grandi mosse della modernità (in particolare ottocentesche) quando ci si attarda con questa idea si sta trasponendo, senza avvedersene, strutture logiche e orientamenti affettivi delle escatologie cristiane. Lo fa il liberalismo, quando estremizza il proprio proceduralismo, lo fa il socialismo, quando immagina la ‘città celeste’ nella classe. Si tratta, indubbiamente, di teologie, anche se ‘civili’ (ovvero travestite).

E dunque in quella traccia cadono tutte le obiezioni di Buffagni; le condivido.

Posso anche capire il modo in cui usa il termine “ethos aristocratico” in questa frase: “la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico”, presumibilmente nella stessa direzione in cui Durkheim ricercava una ‘morale civica’ che sia in grado di creare un sentimento motivante alla reciproca considerazione ed all’agire comune. Un sentimento (si può leggere “la Fisica dei costumi”, del 1896) che consenta di anteporre alle loro preferenze e convinzioni il bene della comunità democratica, impegnandosi per lo sviluppo comune. Dato che le cittadine ed i cittadini possono essere disposti a tale passo solo se giudicano desiderabili, e degni di essere difesi, i corsi di azione comuni, è necessario quindi, scrive Durkheim, una qualche misura di “patriottismo”.

Dunque, come scrive Buffagni: “che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche”.

Direi che su questo piano si incontrano molte acque, l’ultimo Habermas, ad esempio (erede di alcune tradizioni “del sospetto”, ma anche “progressista”) si chiede nelle sue ultime riflessioni sulla religione (ad esempio “Verbalizzare il sacro”) se la trascendenza dall’interno, attivata dal linguaggio non sia circondata da distese, per così dire, “illuminabili ma non penetrabili” (scrive Leonardo Ceppa in un bel saggio su questo pensiero, “Habermas, le radici religiose del moderno”, che leggeremo insieme) con i semplici strumenti del pensiero proposizionale. Il disincantamento scientifico del mondo ed il lavoro di messa tra parentesi delle differenze compiuta dal diritto democratico non basta, ci sono fonti di solidarietà che non possono essere aggirate (qui torna anche il concetto di anomia durkmehiano). Dunque, in vece della promessa escatologica che si critica, per essa dell’idea liberale che l’ordine possa generarsi dall’aggregazione cieca delle libertà solo private, e la legittimità dalla mera legalità, è necessario riconoscere il surplus di ‘devozione repubblicana’.

È necessario dunque il ‘patriottismo’ di Durkheim e il patto politico. Come scrive Ceppa, “non è pensabile nessuna ‘repubblica dei diavoli’” (ivi, p.110).

Ma la ricerca dell’eguaglianza politica (e delle sue condizioni di possibilità materiali) è un cantiere sempre aperto, e che deve restare tale.

Ma forse conviene tornare un attimo sulla questione posta, dal Manifesto di Parigi, dell’uguaglianza dei moderni come invenzione della rivoluzione. Sieyès dirà in “Che cos’è il Terzo Stato”, nel gennaio 1789 che “il privilegiato si considera insieme ai suoi colleghi come appartenente a un ordine a parte, una nazione scelta all’interno della nazione”, questi “arrivano a vedersi come un’altra specie di uomini”. La democrazia è, alla fine, dunque semplicemente questo: una società di simili (Tocqueville).

Viceversa la mentalità aristocratica, consolidata in particolare nel sedicesimo secolo, verso la quale è mobilitata l’energia rivoluzionaria, vedeva stirpe, estrazione sociale, un insieme di qualità sociali ereditarie proprie, caratterizzare alcuni come preordinati, e per questo adatti, a dirigere la società tutta. Altri, viceversa, a stare “nei loro doveri” (per usare la formula di una supplica al re di Francia fatta appunto dai rappresentanti dei nobili in occasione degli Stati Generali del 1614). Le diversità di status, che fondavano una gerarchia naturale, erano quindi radicate da diversità intrinseche di per sé evidenti. Come la mette Rosanvallon “essi pensavano di vedere tanti tipi di uomini quante erano le condizioni sociali, tutti partecipi di una stessa natura, ma diversificati in modo ereditario per il loro comportamento e il loro diseguale valore umano” (“La società dell’uguaglianza”, p.30). Il Decreto della notte del 4 agosto 1789 ne distruggerà in Francia la base materiale (privilegi fiscali, diritti esclusivi e barriere professionali e amministrative) ma ne attaccherà anche la pretesa di non essere eguali, di non mescolarsi, di essere separati.

Dall’altra parte dell’oceano viene contemporaneamente posta sotto attacco la “frivola leziosità della cortesia”, i “gentiluomini”, e come dichiara la Pennsylvania la pretesa di “non essere tutti sullo stesso piano”. Nel 1786 i costituenti dello Stato americano affermeranno: “un regime democratico come il nostro non ammette alcuna superiorità”.

Questo è lo spirito rivoluzionario, ed è semplice: si tratta di rigenerare l’umanità e riconciliarla, farla uguale ed una.

La radice di ciò ha un’aria di famiglia inconfondibile: “non c’è né ebreo né greco, né schiavo né uomo libero, né uomo né donna, perché tutti voi non siete che uno in Cristo Gesu” (Paolo di Tarso, Lettera ai Galati, 3,28).

Ma, come ricorda anche Buffagni, questa uguaglianza (davvero radicale) è tuttavia “spirituale”, non è affatto politica. Non è per niente una eguaglianza democratica.

Per molti secoli nessuno (o quasi) ha tratto, infatti, conseguenze politiche dal lascito verbale del cristianesimo. L’intero sistema di credenze ed istituzioni lo impediva, lo rendeva non pensabile. La sovversione interna di questo messaggio potenziale avviene lentamente a partire dal ripensamento seicentesco e, in America, dalla tradizione puritana. Ancora nella Enciclopedia, curata da Diderot, la voce afferma essere la “uguaglianza assoluta” una “chimera”, e sottolinea “la necessità delle diverse condizioni, dei gradi, degli onori, delle distinzioni, delle prerogative, delle subordinazioni che devono regnare in ogni governo”. In accordo con una lontana tradizione l’uguaglianza davanti a dio e naturale ha ancora una dimensione strettamente morale, e solo questa.

Quello evocato dal nostro interlocutore è, insomma, un antico terreno di battaglia.

I MANIFESTI NEMICI _ REPLICA DI ROBERTO BUFFAGNI AD ALESSANDRO VISALLI_ULTIMA PARTE

I manifesti nemici

Replica ad Alessandro Visalli – seconda e ultima parte

1a PARTE   http://italiaeilmondo.com/2017/11/07/i-manifesti-nemici-di-roberto-buffagni/

In basso a destra della pagina principale del sito, nella categoria dossier, alla voce “Europa Unione Europea” sono disponibili gli articoli sin qui prodotti sull’argomento

 

Tocco qui il punto della Dichiarazione di Parigi che Visalli definisce “una scelta che proprio non posso condividere.” Riporto per esteso il brano criticato da Visalli sia per comodità del lettore, al quale sono stati presentati i testi in esame qualche settimana fa, sia perché il punto è importante.

Qual è la scelta che Visalli trova inaccettabile? Così la descrive il brano della Dichiarazione di Parigi citato e commentato dal nostro interlocutore: (sottolineature mie)

Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro…Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.”.

Visalli critica così: (sottolineature mie) “Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza…. Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Replico brevemente alla critica di Visalli.

1) Le classi e i ceti, cioè a dire la diseguaglianza sociale, sono una regolarità storica permanente. La diseguaglianza sociale può affermarsi nella realtà effettuale in molti modi; e in molti modi può essere legittimata. Le distanze gerarchiche possono essere più o meno grandi e più o meno rigide, le asimmetrie di potenza maggiori o minori, ma la diseguaglianza sociale resta un dato storico permanente e universale.

2) E’ possibile e desiderabile, un’azione politica tendente a eliminare la diseguaglianza sociale? Si badi bene: eliminare, non ridurre, o modificare ricostruendola su basi anche radicalmente diverse?

3) No. L’eliminazione della diseguaglianza sociale è impossibile, e dunque indesiderabile, perché produce effetti enantiodromici. La dinamica è la seguente: a) per eliminare la diseguaglianza sociale è necessario intervenire sulla realtà sociale non egualitaria b) per intervenire efficacemente sulla realtà sociale è indispensabile il potere c) il potere non può essere esercitato da tutti, sennò l’eguaglianza ci sarebbe già d) il potere viene invece esercitato da alcuni: come sempre il potere, che è per sua natura un differenziale di potenza, + potente/- potente d) risultato: più eguaglianza sociale si vuole ottenere, più dispotismo politico risulta necessario impiegare e) alla fine delle operazioni, si ottiene molta eguaglianza per i molti, molto potere per i pochi.

4) Questa dinamica paradossale ed enantiodromica è la caratteristica più vistosa di quel che Eric Voegelin chiamò “gnosticismo politico”[1], cioè a dire la trasposizione sul piano storico, immanente, delle categorie escatologiche cristiane. La trasposizione è motivata dalla reazione patologica a un’esperienza universalmente umana: l’orrore di fronte all’esistenza – per esempio, l’orrore di fronte all’ingiustizia sociale, che può assumere forme veramente atroci – e il desiderio di fuggirne. Il cristianesimo sdivinizza, “disincanta” il mondo naturale e storico. Quando la fede cristiana nella trascendenza si eclissa, l’angoscioso vuoto di senso che si spalanca nel mondo viene riempito dalle gnosi: che prendono forma politica qualora le società non trovino più sufficiente legittimazione nel loro ethos tradizionale, e sentano il bisogno di un’efficace, coesiva teologia civile. Lo gnosticismo politico non commette soltanto un errore teorico in merito al significato dell’eschaton cristiano. In conformità a questo errore, le ideologie gnostiche e i movimenti che le traducono in azione politica interpretano una concreta società e l’ordine che la regge come un eschaton; e dando una lettura escatologica di concreti problemi sociali e politici, fraintendono la struttura della realtà immanente: cioè sognano quando sarebbe indispensabile essere ben desti. In particolare, il sogno gnostico oscura e rimuove la più antica acquisizione della saggezza umana: che ogni cosa sotto il sole ha un inizio e una fine, ed è sottoposta al ciclo di crescita e decadenza; che insomma tutto, nel mondo immanente, è governato dal limite.

5) Gli errori in merito alla struttura del reale hanno serie conseguenze pratiche, che spesso si manifestano in forma paradossale: come nell’esempio succitato, in cui perseguendo l’eliminazione della diseguaglianza sociale si ottiene il dispotismo; o come nel caso dell’immigrazione di massa, nel quale perseguendo l’accoglienza umanitaria indiscriminata degli stranieri si ottiene non soltanto il rischio di collasso delle strutture sociali, ma addirittura l’insorgenza del razzismo.

6) Se l’errore in merito alla struttura del reale consegue a un’ideologia gnostica, l’accecamento di fronte alla realtà diventa però una questione di principio. Immediata conseguenza: lo gnostico vuole ottenere un effetto, e ne ottiene un altro diametralmente opposto. Del baratro tra intenzione e risultato, però, lo gnostico non incolperà mai se stesso e il suo sogno: incolperà sempre gli altri, o la società nel suo insieme, che non si comportano secondo le regole in vigore nel suo profetico mondo di sogno.

7) Lo gnosticismo politico non si manifesta in una sola forma. Ieri si è manifestato in forma di comunismo, nazismo, puritanesimo, catarismo, etc. Oggi si manifesta in forma di progressismo, di “liberal-democrazia” mondialista.

8) Si può, e si deve, discutere a lungo e a fondo, dissentendo anche con asprezza, in merito ai contenuti, alle forme, alle ragioni di eguaglianza e gerarchia sociali. Il dibattito teorico, e il conflitto pratico, sono non soltanto inevitabili ma benefici: a patto che dibattito e conflitto non si si propongano obiettivi immaginari ma reali, e dunque limitati (può essere limitato anche un conflitto armato).

9) E’ un obiettivo immaginario e pertanto distruttivo ed enantiodromico l’abolizione delle diseguaglianze sociali, è un obiettivo reale e pertanto costruttivamente perseguibile una loro diminuzione, e/o una loro diversa composizione e legittimazione. Uno dei dati di realtà da tenere in conto è il conflitto dei valori: libertà/sicurezza, eccellenza/eguaglianza, democrazia/capacità decisionale, etc. In quest’ultimo caso, l’esperienza storica suggerisce che la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico; che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche. Nella cultura politica del repubblicanesimo antico e moderno si possono trovare molte utili indicazioni in merito alla funzione positiva e costruttiva della compresenza conflittuale di istituzioni che si rifanno a principi diversi: monarchico (esecutivo forte), aristocratico (senato), democratico (suffragio universale).

Per concludere. Non tocco, qui, il tema “quali eguaglianze, quali gerarchie siano desiderabili e perché”. Ne potremo discutere, con Visalli e con altri, in seguito. Quel che mi preme, per ora, è indicare il contesto entro il quale questa discussione mi pare fruttuosa: che non è l’antitesi radicale e principiale eguaglianza/gerarchia, progresso/reazione; ma le forme e i contenuti concreti delle eguaglianze, delle differenze, delle gerarchie possibili.

[1] Per una trattazione sintetica, v. Eric Voegelin, «Modernity without Restraint», in Collected Works of E.V., vol. V, Columbia and London: University of Missouri Press, 2000.

 

Lo scontro tra le diverse Europe: due Dichiarazioni, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito sui due documenti pubblicati da “Italia e il Mondo” a proposito di Europa, Europe ed europeismo http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/ .  In aggiunta alla nota di Luigi Longo e all’intervento di Roberto Buffagni segue un contributo di Alessandro Visalli, tratto dal blog https://tempofertile.blogspot.it/2017/10/lo-scontro-tra-le-diverse-europe-due.html ,

cui seguirà una replica dello stesso Buffagni

 

Sulla pagina on line “Italia e il Mondo”, è uscito un articolo dal titolo “Due appelli, due Europe” del mio amico Roberto Buffagni nel quale è presente una interessante lettura di due diversi appelli, usciti negli ultimi tempi, nel campo conservatore, sul destino dell’Europa. Sono molto diversi, decisamente opposti: il primo parla di ‘progetto’, il secondo di uno scontro nel quale è in campo il ‘proprio sé’. Il primo è stato scritto da una importante istituzione che ha sede a Bruxelles e finanzia azioni politiche e culturali per la promozione della democrazia, fornendo quelli che chiama “finanziamenti veloci e flessibili”; ne fanno parte politici come Elmar Brok (CDU), Andrej Grzyb (PP), Bogdan Wenta (PPE), Cristian Preda (PPE), Pier Antonio Panzieri (PD), Alexander Lambsdorff (Partito Liberale), Elena Valenziano Martinez-Orozco (PSE), Mark Demesmaeker (conservatori e riformisti) e Tamas Meszerics (Verde ungherese). Il secondo da un gruppo di intellettuali accademici caratterizzati da una netta prevalenza dei filosofi politici e dall’essere conservatori di chiara fama.

La prima Dichiarazione chiama all’azione culturale e propagandistica (il campo del proponente) per la “democrazia”, ma intende una specifica connotazione del termine, la seconda ad una battaglia egemonica contro l’utopia di un mondo globalizzato, in cui le nazioni si dissolvano progressivamente in una utopistica unità multiculturale (ovvero, tradotto in termini realistici, siano inquadrate senza resti in un’unità imperiale). Del resto giova ricordare che la relazione tra democrazia e progetto del governo mondiale, pur avendo importanti antisegnani, è soprattutto scritta nella anglosfera di marca conservatrice (uno dei firmatari è Francis Fukuyama).

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Coalition for democratic renewal

Si potrebbe dire che si tratta di due testi molto e forse troppo lontani, ma Buffagni li connette su una linea specifica: l’inimicizia reciproca, fondata su diversi orizzonti. Cioè su prospettive diverse in modo irriducibile.

La conclusione che trae (salto molti passaggi) è che sia in corso uno scontro decisivo per la definizione dei nostri tempi, dentro il campo conservatore, tra:

  • – una destra liberale e tecnocratica, ‘progressista’,
  • – e una destra orientata sulla nazione, la cultura comune, ‘conservatrice’ e per questo schierata contro la UE.

La sinistra, invece, è secondo lui indisponibile a produrre una riflessione critica, e tanto meno un’azione politica contro la UE, e dunque si estromette automaticamente dal campo dello scontro ordinato da questa dualità. Cioè non entra nella battaglia.

La sinistra, dice Buffagni in sostanza, è ancora troppo legata alla mossa inaugurale della modernità, ed al mito della rivoluzione (in primis francese) per riconoscere il lato oscuro della ragione illuminista, la sua hybris di potere. Tentativi, per la verità, ce ne sono stati: ad esempio la prima Scuola di Francoforte, più di recente il post-strutturalismo francese, alcune componenti della cultura pragmatista americana, molti antropologi, qualche raro e coraggioso economista, ma non riescono a fare sistema. L’ancoraggio all’industrialismo ed al milieu culturale nel quale i socialismi si formarono, nella prima metà dell’ottocento, è ancora troppo forte; la sostanza della cultura della sinistra, sembra dire, è legata ad una visione fondamentalmente scientista, tardo positivista, e quindi a visioni idealiste della storia (anche se ammantate da un materialismo scolastico che ne nasconde le fattezze). Una tesi del genere la sostiene il filosofo francese radicale Michéa.

Alla fine dunque la sinistra gli appare come una variante, e magari neppure particolarmente interessante, del liberalismo illuminista, la cui versione più coerente e radicale è in fondo quella assunta nella metà del secolo scorso dai pensatori politici ed economisti che per comodità chiamiamo “liberisti”. Dunque per Buffagni mentre la sinistra è solo una versione più ipocrita della posizione della “coalizione per il rinnovamento” e del suo “Appello di Praga”, le posizioni coerentemente conservatrici, senza il peso di doversi districare nella densa tradizione rivoluzionaria, possono andare al nocciolo, espresso nella “Dichiarazione di Parigi” in modo esemplare.

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Per dialogare con questa posizione, proporrò qualche distinzione, ma prima vediamo meglio i due Appelli: sono, come è tipico del genere letterario, delle chiamate alle armi. Il primo, quello di Praga, per la “democrazia liberale”, che sarebbe sotto attacco da parte dei “populismi”. Il secondo, quello di Parigi, per la difesa della “casa” contro una idea trasversale e sbagliata. Chiamano dunque alle armi l’uno contro l’altro.

Più precisamente, l’idea sbagliata, per il secondo, è quella del progresso inevitabile, che viene riclassificato da “fede” (faith nel testo di Praga) in “superstizione”. Non, quindi, realizzazione della cesura della modernità (fatta risalire alle due rivoluzioni liberali settecentesche sulle opposte sponde dell’Atlantico), ma abbandono della casa e sua “requisizione”. Se presa sul serio, infatti, questa idea della cesura, del rasoio che separa le vecchie tradizioni dal moderno, incarnato dallo spirito della ragione, che è propria della ‘fede’ nella forza dell’individualismo illuminista, si estende necessariamente al mondo intero; con la sua forza corrosiva dei legami ascrittivi, essa ha intrinsecamente un respiro di potenza che finisce per classificare necessariamente tutti tra “liberali” e “illiberali”, in uno tra democrazie “avanzate” e “arretrate”. A leggere il primo Appello si vede che le prime si fondano infatti sulla “credenza nella dignità della persona” e quindi nei diritti umani (libertà di espressione, associazione, religione), nel pluralismo e nella competizione, nella “economia di mercato priva di corruzione e capace di offrire opportunità a tutti”, le seconde invece sulle politiche estrattive, sull’oppressione delle persone e sull’oscurantismo, appunto sul tradizionalismo. La prima posizione è cioè ‘progressista’, la seconda ‘conservatrice’.

Buffagni prende quindi da questo elenco di banalità, che spicca per la sua sicumera (potendo dare senza esitazioni patenti al mondo intero, in funzione della maggiore o minore distanza da un sé immaginato e idealizzato), la “dichiarazione di guerra totale all’Europa come realtà storica e come tradizione culturale”.

Si, perché la realtà storica dell’Europa (non del suo “progetto”) è fondata invece nella differenza delle sue profonde culture, e non nasce come un fungo dalla terra nel 1789. Senza considerare questa radice gli estensori dell’appello di Praga, che sono per lo più politici centristi, dicono in sostanza che se non si riconosce che la forma della civiltà occidentale, e per essa la forma politica della democrazia liberale nata dalle due rivoluzioni settecentesche, è superiore si è “relativisti”, e certamente c’è del vero; ma parimenti sarebbe da rimarcare che allora loro sono “assolutisti” (dato che si definisce tale chi sostiene una posizione, appunto, “assoluta”). E le forme di assolutismo hanno un sapore strano, un retrogusto imperialista (se applicate, come del caso, alla geopolitica), mentre il relativismo suona diversamente: ha curiosamente il gusto della libertà.

Questo rovesciamento dovrebbe renderci sensibili al rischio di definire una posizione assiale che non guarda alle proprie premesse, e non le mette in questione. Multiculturalismo sta ad impero, se si tenta di farne una posizione politica, mentre su questo piano il relativismo culturale si connette con l’accettazione del multipolarismo. Stiamo leggendo, ad esempio, la posizione complessa ed in movimento di un autore certamente non conservatore come l’economista egiziano e terzomondista Samir Amin, a partire dal suo “Lo sviluppo ineguale”, del 1973, e poi “Oltre la mondializzazione”, del 1999, ma anche “Per un mondo multipolare”, del 2006, che ripercorre alcuni momenti della formazione della legge del valore mondializzato, trascinata dalla logica implacabile dell’accumulazione che finisce per dominare l’intero sistema sociale. Ciò che spinge verso l’espansione mondiale, e la dissoluzione di ogni resistenza statuale, oltre che nazionale, è per lui la tendenza alla polarizzazione ed alla mobilizzazione delle risorse (tra le quali sono inclusi i portatori di forza-lavoro divenuti emigranti). L’egemonia dell’economico, posta sotto accusa anche dalla Dichiarazione di Parigi, è dunque ciò che va ricondotto a controllo; ciò che nei termini di questa va ‘risecolarizzato’ (dato che si tratta di una sorta di surrogato della religione, come dice anche Amin, cfr OM, p.57). Ovvero che va nuovamente “incastrato in un iceberg di rapporti sociali di cui la politica costituisce la parte emergente” (OM, p.102).

La tesi, che come si vede non è articolabile solo da destra, è che “la ‘mondializzazione mediante il mercato’ è un’utopia reazionaria contro la quale bisogna sviluppare teoricamente e praticamente l’alternativa del progetto umanista di una mondializzazione che si inquadri in una prospettiva socialista” (OM, p.176), ma questa forma di connessione richiede e non inibisce la costituzione di fronti “nazionali, popolari e democratici”. Ciò che bisogna separare è il nesso interno tra una certa visione lineare della storia come progresso verso un qualche telos, l’identificazione della meccanica (quando non anche del telos stesso) con un presunto svolgersi infallibile di leggi dell’economia ‘pura’ (una visione autorizzata da una lettura banalizzante di alcuni passi dello stesso Marx, ma molto più di Engels e di alcuni suoi epigoni), e il precipitare finale di tutto ciò a servizio di un progetto di potenza nascosto in bella vista nella retorica Wilsoniana di tanto in tanto riemergente.

Si tratta di un nodo di grande rilevanza.

Ma qui la “Dichiarazione di Parigi” manifesta il suo tessuto conservatore; conduce infatti la battaglia contro la “falsa” idea del progresso imperialista, dell’uniformante idea assoluta del ‘Vero’ e del ‘Giusto’, sulla base di un’enfatizzazione caratteristica della “casa”. Questa idea riecheggia in effetti dibattiti ripetuti tra le posizioni liberali e quelle variamente ricondotte a posizioni comunitarie (talvolta abbiamo sfiorato un terreno di emergenza di questo antico dibattito in autori orientati a sinistra come Sandel, MacIntyre, anche qui, Walzer, e ne riprenderemo i testi essenziali), ed è riassunta in modo molto eloquente nel primo capoverso:

  1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa.Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

Riconnettendosi piuttosto chiaramente alla tradizione conservatrice (che è inaugurata in Europa dal pensiero controrivoluzionario di Burke, de Maistre, Novalis, Schlegel, poi ovviamente Nietszche, e nel novecento Heidegger, autori di cui alcuni degli estensori sono fini studiosi) il progressismo illuminista è qui accusato, in sostanza, di essere parte delle “esagerazioni e distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa”, e cieco ai propri “vizi”. Si scivola insomma nello stesso tipo di linguaggio essenzialista che si rivede nella controparte: ci sono posizioni “autentiche” e altre “false” (le prime quindi “vere”), ci sono “distorsioni” (del “retto”). C’è dunque una “Europa falsa”, ed una “vera”, dove la prima smercia caricature e nutre pregiudizi verso il passato. Una Europa che è “orfana”, non riconosce padri, e se ci sono li uccide. Che si sente orgogliosa di questa mossa, si sente forte in essa. Si sente quindi “nobile”. Gioverebbe rileggere per fare mente locale “Filosofie del populismo” di Nicolao Merker.

Una Europa simile, che non c’è, e non ci può essere, in quanto vuota e disincarnata (direbbe Sandel), “incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatore di una comunità universale che però non è né universale né una comunità”. Una comunità universale è, infatti, quasi per definizione impossibile. E in quanto impossibile non è universale. Quel che si ha è al massimo una comunità di élite sradicate e interconnesse con i poteri sradicanti del capitalismo di cui parla Amin.

In questo scontro tra tradizioni culturali e politiche l’attacco è assolutamente radicale:

  1. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

Se tutto questo è fondato per gli autori della Dichiarazione, la minaccia che abbiamo davanti è “la stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità di immaginare prospettive”.

Scriveva Heidegger in “Lettera sull’umanismo”, nel 1949: “l’essenza dell’agire è portare a compimento [e non produrre un effetto in base alla sua mera utilità]. Portare a compimento significa dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori questa pienezza, producere”. Dunque si produce, in certo senso, solo ciò che già è; precisamente è nel pensiero e nel linguaggio che “è la casa dell’essere” e nella cui dimora “abita l’uomo”. Ecco che si viene alla stessa idea che è incorporata nella densa frase della Dichiarazione: “il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa”. Il pensiero “dell’Europa falsa” è dunque la sua vera ed essenziale azione.

Nel suo assai complesso, ed a lunghi tratti involuto, manifesto contro ‘l’umanesimo’ (dunque anche contro l’illuminismo), Heidegger lamenta la “perdita di mobilità” e contesta l’esattezza “tecnico-teoretica” degli scritti specialistici e nel farlo si esercita in un vertiginoso esercizio di distinzioni e narrazioni. Si scopre quindi che ogni umanismo si fonda su una metafisica, ovvero su una posizione che già presuppone un’interpretazione data degli enti (e quindi una loro funzionalizzazione, un apprestarli) senza porre insieme la questione “dell’essere”; anzi in effetti la impedisce.

Porre lo sviluppo storico come dispiegarsi della logica immanente della tecnica come apprestamento del mondo per l’uso (tramite l’economico), in altre parole, dimentica di riflettere sul senso. Dimentica l’essere, lasciandoci in un mero mondo di enti, di oggetti. Noi stessi fatti tali. Nel linguaggio della tradizione marxista, che ovviamente Heidegger ha di mira, è la questione della ‘reificazione’ (cfr qui).

Nell’impedirlo può porre (e lo fanno i romani per primi, dice) come autoevidente “l’essenza universale dell’uomo” (in Segnavia, p.275); ovvero dell’uomo come animale razionale. Una interpretazione dell’umano che, naturalmente, “non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica”. Non si tratta, cioè, di abbandonarsi “all’azione dissolvente di uno scetticismo vuoto”, ma di tenere in movimento il pensiero (tramite l’interrogazione dell’essere).

La posizione del filosofo tedesco è in sostanza che l’uomo si dispiega solo a partire da un reclamo che gli viene dalla domanda dell’essere, ovvero da un abitare in qualche modo all’aperto. Nello “stare nella radura” che gli è propria (in quanto essere che veramente “vive”).

Dunque il punto non è che il discorso sui valori (universali, ovvero umanistici) sia “senza valore”, perché ciò sarebbe opporre banale al banale, ma che bisogna capire che porre una cosa come “valore” in questo senso, crea sempre un fare e con esso una oggettivazione. Cioè fa il mondo come oggetto (ovvero lo manipola).

Con le sue parole: “ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare” (ivi, p. 301). Pensare “contro i valori” non significherebbe, cioè, “sbandierare l’assenza di valori e la nientità dell’essere, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto”.

Con il linguaggio della Scuola di Francoforte, esercitare la critica. Uno degli esercizi più recenti ed interessanti nel lavoro in corso della Rahel Jaeggi, in “Forme di vita e capitalismo”.

Allora, tornando alla “Dichiarazione di Parigi”, da questa posizione si può rivendicare la storia concreta delle tradizioni di lealtà civica e le battaglie condotte per fare “i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare”, talora “con modi ribelli”, e la storia di condivisione ed unità, che ci consente di guardarci gli uni con gli altri come prossimi; come insieme responsabili.

Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Ne consegue che non si tratta di accettare od opporsi ad un astratto umanesimo, o a “Valori” universalmente preordinati a fare del molteplice l’uno. Si tratta di avere, o di essere nelle radure dell’essere (come direbbe Heidegger), riconoscendo che “l’Europa vera è una comunità di nazioni”. Si tratta di esercitare la critica partendo da ciò che si è, dalla Europa ‘vera’: lingue, tradizioni, confini.

Qui il testo raggiunge probabilmente il suo punto più profondo:

  1. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Uno strano “cosmopolitismo” vi viene enunciato: un cosmopolitismo concreto.

E viene enunciata una connessione tra il venir meno del collante cristiano e lo sforzo di un sostituto funzionale (ma quanto più povero) nell’universalismo economico, nella sorta di impero regolatorio e monetario. In una sorta di universalismo pseudoreligioso.

Ci sono anche momenti di espressa polemica con l’altra Dichiarazione, come questo:

L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

E dunque questo “spirito”, che è propriamente europeo, implica una fiducia (non una fede), gli uni negli altri, e una responsabilità verso il futuro. Quindi implica una forma di libertà che non è individuale ma collettiva, è una responsabilità verso se stessi e la forza di non prostrarsi; neppure davanti “all’implacabilità di forze storiche”.

Un europeo, insomma, si sente autore del suo destino. E sente questa forza e responsabilità attraverso le forme politiche che hanno prevalso, lo stato-nazione, tratto caratteristico della civiltà europea.

Altri tratti caratteristici che sono richiamati nella Dichiarazione, anche in questo radicalmente estranea al liberalismo (sia classico sia contemporaneo), sono le tradizioni religiose (con “virtù nobili” come “l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità”) e lo spirito del dono, ma anche quelle classiche, l’eccellenza, il dominio di sé, la vita civica. Dunque il futuro non è da considerare connesso con un universalismo disincarnato che dimentica il sé e perde la memoria, ma nella lealtà alle tradizioni migliori. Nella ripresa dell’antico lessico delle ‘virtù’ nel quale, come insegna MacIntyre riposava la tradizione greco-romana che la modernità ha interrotto.

Su questa via il progetto europeo, tracciato sulla via del cosmopolitismo liberale e della dissoluzione delle solidarietà nazionali, è designato come nemico.

E con essa è designato, con aspra franchezza, come nemico anche il movimento di liberazione dei costumi e antiautoritario che ha attraversato l’occidente al finire degli anni sessanta. Un movimento che viene connesso sia con la riduzione delle autorità, sia con l’esplosione dei consumi e di uno stile di vita edonista e individualista. Ovvero è denunciato come fattore di disgregazione sociale.

  1. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Una disgregazione che è invece per gli estensori dello “statement” fonte di anomia, di perdita di senso, e del “vuoto conformismo” di una cultura ormai guidata da media e dai consumi. Una generazione, quella del 1968, che ha distrutto insomma forme di vita e valori storici ma non li ha sostituiti con altri; che ha, secondo gli autori, solo creato un vuoto.

Quel vuoto intravisto anche dal nostro Pasolini, che si riempie quindi di surrogati: i social media, il turismo di massa, la pornografia.

La Dichiarazione continua attaccando quindi direttamente il multiculturalismo, che nega le radici cristiane:

L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

E quindi ovviamente la globalizzazione: la promozione di istituzioni sovranazionali il cui vero scopo è di tenere sotto controllo la sovranità popolare, riportando tutto allo stato di necessità, all’assenza di alternativa.

Ciò che propone è di “risecolarizzare la vita politica”, riconoscendo che la “fede” proclamata nella Dichiarazione di Praga è solo una superstizione, e che non abbiamo affatto bisogno di surrogati della religione (anche se il capitalismo stesso è una sua forma, come scrisse Benjamin).

Abbiamo bisogno, invece, di una nuova politica:

  1. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Ciò significa anche affrontare con prudenza e ragionevolezza il tema dell’immigrazione, puntando su una corretta integrazione ed assimilazione degli immigrati, non alla coesistenza di culture non integrate senza comune unità civica e solidale.

Ma c’è di più:

In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Non si può dire che la Dichiarazione non sia dotata di coraggio nello sfidare apertamente il senso comune che è largamente condiviso nel nostro tempo. Lo spirito libertario nel quale per lo più siamo stati formati, nel quale io sono stato formato.

Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza.

Lo scopo è comunque enunciato con grande chiarezza: “l’Europa deve riorganizzare il consenso intorno alla cultura morale in modo che la gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa”.

E qui si trae direttamente la più netta delle scelte:

Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Anche se mi pare giusto “resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato”, e che mette “tutto in vendita”, il rispetto reciproco spetta in ultima istanza agli individui e spetta a tutti in quanto esseri umani, non a questi in quanto parte di classi (né cambia il rispetto al salire da una classe all’altra, o scendere). Ci sono certo doveri, e vanno rispettati, ma non competono allo stato in cui ci si trova, competono al nostro reciproco doverci. Qui, insomma, per me si passa il segno. Un umanesimo è necessario.

Ciò non impedisce che sia necessario i mercati siano orientati a fini sociali, e incorporati in beni non economici e non disponibili.

Gli autori sono:

  • Philippe Bénéton (France), 71 anni, politologo, professore all’Università di Renne e all’Istituto Cattolico di Studi Superiori, studioso del conservatorismo, Machiavelli, Erasmo e Thomas More.
  • Rémi Brague (France), 70 anni, filosofo, medievalista e studioso del pensiero arabo di fama mondiale, conservatore e studioso influenzato da Heidegger, Strauss, ha ricevuto il Premio Ratzinger.
  • Chantal Delsol (France), 70 anni, filosofa conservatrice e allieva di Julien Freund.
  • Roman Joch (Česko), 47 anni, politico.
  • Lánczi András (Magyarország), 61 anni, filosofo conservatore e politologo dell’università di Budapest.
  • Ryszard Legutko (Polska), 67 anni, filosofo polacco e traduttore di Platone
  • Pierre Manent (France), 68 anni, politologo conservatore, studioso di Alexis de Tocqueville, Raymond Aron, Leo Strauss, Allan Bloom.
  • Dalmacio Negro Pavón (España), 85 anni, politologo e studioso di Carl Schmitt.
  • Roger Scruton (United Kingdom), 73 anni, filosofo conservatore ed occidentalista.
  • Robert Spaemann (Deutschland), 90 anni, filosofo conservatore e teologo.
  • Bart Jan Spruyt (Nederland), 53 anni, storico conservatore, cofondatore della Edmund Burke Foundation.
  • Matthias Storme (België), 58 anni, giurista conservatore.

Di certo non si può dire che non sia una importante compagine, come non si può dire non sia caratterizzata da una specifica parte.

Ciò che dobbiamo, io credo, ricercare è la costruzione di una “comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un dato territorio” (Formenti, “La variante populista”, p.9) che indirizzi una tensione aperta ed inclusiva a fare “Nazione”, nel pieno rispetto della vocazione e del diritto eguale delle altre (ovvero in direzione di un autentico multipolarismo plurale). Ciò significa anche coltivare e dare piena legittimità ad una forma di “patriottismo”, cioè di amore e rispetto, verso tutti coloro che si orientano allo “spirito oggettivo” delle migliori istituzioni e della forma di vita che ci crea come individualità collettiva. Una forma di vita nella quale siamo socializzati o che accettiamo volontariamente. Un patriottismo che può essere aperto e universalista, senza sconnettersi, anzi proprio collegandosi, con le tradizioni costituzionali e la storia di libertà e determinazione ad essere esempio nei momenti più alti in cui ci siamo costituiti. Ciò non è affatto incompatibile con gli obblighi che intendiamo auto assumerci nei confronti dell’umanità in generale, ma li sostanzia: la causa dell’umanità si sostiene, infatti, difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare; compiendo la “buona gara” di renderle ognuna esempio per l’altra.

La conclusione della Dichiarazione è la seguente:

  1. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

 

Questa la condivido.

 

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