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LA RICCA EUROPA E’ IL PREMIO DEL CONFRONTO, di Antonio de Martini
LA POSTA IN GIOCO NON E’ L’UCRAINA MA LE FORNITURE DI GAS ALL’ EUROPA E LA PELLE DELLA RUSSIA CHE SPERA NELLA CINA CHE GUARDA AGLI USA…
ANTEFATTO N 1
Nikita khrushev, pur essendo nato in altra parte dell’impero, fece tutta la sua carriera di funzionario del partito comunista russo in Ucraina. Diventato segretario generale del PCUS ( partito comunista della Unione Sovietica), ebbe un occhio di riguardo per i suoi vecchi compagni, assegnando alla loro regione l’amministrazione della Crimea ( il luogo all’epoca più desiderato per le vacanze della nomenclatura e per i cittadini) e incluse ben 17 milioni di russi nei confini della Ucraina , che all’epoca era una regione dell’URSS.
Di qui nascono una serie di guai in cui sono incappati i suoi successori.
Una volta sciolta l’Unione sovietica e smantellato il patto di Varsavia, i governanti statunitensi lasciarono intendere al presidente BORIS YELTSIN di non avere mire sull’est Europa, ma mentre Yeltsin e il suo ministro degli esteri Eduard Shevarnadze si accontentarono di assicurazioni verbali a mezza bocca ( i verbali sono stati desegretati dagli USA un paio di anni fa e accennano a numerosi brindisi), gli americani – vedendo risorgere la potenza sovietica sotto la pelle della nuova Russia- decisero di sfruttare l’ingenuità combinata di Khrushev e di Yeltsin per iniziare a cooptare i paesi dell’est Europa nella loro sfera di influenza e accerchiare la Russia con una catena di basi che lasciassero aperta ogni opzione di possibili attacchi in maniera da creare incertezza strategica sulle intenzioni dello zio Sam. Attratti dalla prospettiva di essere ricoperti d’oro dalla Unione Europea, dal mare del nord al mar nero, prima o poi, abboccarono tutti.
Più difficile l’azione nelle Repubbliche ex sovietiche di cultura turca ( i quattro stan) dove un momentaneo successo della segretaria di Stato Hillary Clinton fece credere di poter disporre di un paio di basi , ma la pronta reazione russa si affermò facilmente.
Al sud, Iran e Afganistan , dove comunque gli USA sono riusciti a costruire un paio di infrastrutture strategiche logistiche che vanno verso la frontiera russa, il problema é ancora indeciso per via dell’ostinazione iraniana e della sua inimicizia con Israele e l’Arabia Saudita che sono le potenze regionali rivali e i più sicuri, per ora, alleati degli USA.
ANTEFATTO 2
La strategia principe degli USA nella seconda guerra mondiale consistette nello strangolamento del Giappone con il controllo delle materie prime e sopratutto del petrolio.
Una volta entrati in guerra, adottarono la stessa strategia nei confronti della Germania e la stessa resa dell’Italia fu considerata positivamente per l’opportunità di utilizzo offerta dagli aeroporti pugliesi per bombardare i pozzi petroliferi di Ploesti in Romania.
Controllando le fonti principali di petrolio del pianeta, senza il quale, navi, aerei e carri armati restano fermi, la vittoria non fu che questione di quando, non di se. La carne da cannone la misero i russi e i dominions.
Nel caso della Russia, ricchissima in petrolio ed ogni sorta di materie prime, il problema non é più consistito nel controllo delle fonti , ma nell’impedirne ai russi lo sfruttamento che é il principale sostegno finanziario dell’economia russa il cui PIL equivale a quello del Benelux. Un vantaggio aggiuntivo é l’opportunità di sostituire la Russia come fornitore della ricca e decadente Europa. Il rifornimento avviene via mare ( con navi e con l’onere di costruire impianti di rigasificazione dato che viene liquefatto per agevolare il trasporto. Ci sono attualmente in Europa sette impianti di rigasificazione in progetto- costruzione)
Il ruolo chiave dell’Ucraina in questa vicenda di scontro di interessi strategici e commerciali tra la potenza marittima per eccellenza e la controparte di terra, é esemplificato dalle due cartine che vedete. L’Ucraina serve agli Stati Uniti per strangolare, come fece col Giappone, ogni velleità espansionistiche – sui mercati o i territori, poco importa – della Russia.
Dalla carta ” di terra” é evidente la parte del Leone che fa l’Ucraina nel veicolare gas e petrolio versa la ricca Europa e nella “carta di mare” il fatto che gli Stati Uniti stanno già acquisendo il cliente Europa cui é già sono fornito il 26% della produzione di gas di scisti, molto più costoso sua per le modalità di estrazione che per quelle di trasporto.
Negli anni ottanta, una manovra analoga fu fatta con l’oro, sacrificando gran parte dell’oro Inglese e canadese , oltre che americano, per far scendere il prezzo sui mercati e privare l’URSS di questo introito importantissimo per la sopravvivenza del regime.
L’ingresso sul mercato dell’India , l’acquirente più grande del prezioso metallo e di altre neo potenze asiatiche , ha consentito la ripresa della Russia di Putin dopo il crollo dell’URSS. L’Afganistan fu un infortunio politico importante ma non decisivo come questo.
Come vedete da questo breve riassunto di una situazione ingarbugliata, l’Ucraina lucra da anni la protezione americana per esigere royalties sempre maggiori per il passaggio delle pipelines sul proprio territorio, la Russia cerca di diversificare le linee di accesso all’Europa attraverso il NORD STREAM uno e due o attraverso la Turchia .
L’Europa, e in particolare l’Italia, galleggiano su un mare di petrolio e di gas dell’est mediterraneo ( Leviathan e Tamar nei mari della Grecia, Libano, Israele e Siria) nel mediterraneo centrale ( le acque profonde dell’Egitto da cui hanno cercato di schiodarci con l’affare Regeni), nelle acque della Sirte e le coste delle Cirenaica ( ormai rese insicure da taglieggiamenti endemici alle fazioni in lotta)e l’Algeria che ha saputo resistere solo a prezzi elevatissimi di sangue. L’Iran e il Venezuela ci sono stati interdetti con il pretesto che non sono democrazie.
Come se il Katar e l’Arabia Saudita e la Guinea Equatoriale, lo fossero….
A tutte queste opportunità, vanno aggiunte le coste pugliesi – alla prospezione delle quali si oppone, non si sa a che titolo, una americana di origine italiana che dice di insegnare in una università della Florida, ma opera in Puglia; al largo di Rimini abbiamo giacimenti trovati da ENI e Gulf italiana negli anni settanta e subito richiusi ” per non danneggiare il turismo”, senza contare i giacimenti in Basilicata e quelli storici della val padana.
In altre parole viviamo su un sottosuolo intriso di gas e petrolio, ma lo compriamo all’estero in cambio di protezione data alla banda di ladruncoli che si accontenta – oltretutto- delle briciole.
La chiamano democrazia, suo marito é il “libero mercato” ( che non é né l’uno né l’altro) e dicono che Al Capone era italiano.
https://corrieredellacollera.com/2022/02/20/la-ricca-europa-e-il-premio-del-confronto/
Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia, di Bernard Lugan
Due vicende ormai lontane tra loro. Il massacro di Gheddafi e la distruzione dello stato libico nel 2011; il pressante invito della giunta militare del Mali alle truppe francesi di abbandonare immediatamente il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui si tiene a Ginevra, con qualche ironia della sorte, la conferenza congiunta tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Non siamo alla conclusione di una parabola, ma ci siamo ormai vicini. L’avventura libica avrebbe voluto essere l’atto di affermazione di un nuovo ruolo assertivo della Francia in Africa Settentrionale. Erano ben altre le forze in azione dietro le quinte. Ha innescato una dinamica che al contrario sta accelerando e sancendo il ridimensionamento definitivo della Francia e delle sue ambizioni neocoloniali in quell’area. In un ultimo sussulto teso a difendere i propri caposaldi, ha cercato di coinvolgere altre forze europee, in particolare italiane e tedesche, nell’avventura. Come in altre occasioni, il nostro ceto politico, privo di ogni respiro strategico e di una qualche cognizione di interesse nazionale, si è accodato supinamente a queste scelte, dilapidando ulteriormente il patrimonio di credibilità e di rispetto guadagnatosi per due decenni a partire da Mattei. L’ennesima svolta che sta maturando in Libia, con il probabile avvicinamento della Turchia all’Egitto, se a buon fine, sancirà l’estromissione definitiva dell’Italia da quell’area così prossima con tutte le nefande conseguenze che ne deriveranno; ma anche per la Francia, con il suo ruolo di mosca cocchiera nell’avventura libica, si prospetta una sorte simile, visto il suo progressivo arretramento anche in Algeria e gli esiti incerti in Tunisia. Tra Ucraina e Nord-Africa la tenaglia che stringe l’Europa amorfa, vittima accondiscendente dell’avventurismo statunitense, si stringe in una morsa ormai destabilizzante lo stesso continente. Giuseppe Germinario
Venerdì 18 febbraio 2022, la giunta militare al potere a Bamako ha chiesto che la partenza delle forze “Barkhane” avvenisse immediatamente, e non per tappe, come aveva annunciato il presidente Macron. Come siamo arrivati a una tale situazione ea una tale rottura?
Come dico e scrivo da anni, soprattutto nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini al presente , in Mali i decisori francesi hanno sommato gli errori derivanti da una falsa analisi consistente nel vedere il conflitto attraverso il prisma dell’islamismo. Ma qui l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etnorazziali millenarie che nessun intervento militare straniero è stato per definizione in grado di chiudere.
Inoltre, in un momento in cui sempre più africani rifiutano la democrazia in stile occidentale, la Francia si sta, al contrario, rafforzando questa ideologia vista in Africa come una forma di neocolonialismo. Più che mai, i vertici francesi sarebbero stati quindi ispirati a meditare su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne troveranno qualcosa per trarne vantaggio”… uno parola, il ritorno al vero africano e non l’incantesimo a ideologie appiattite.
Questa è la grande spiegazione di questo nuovo fallimento francese in Africa. Per non parlare del concreto rifiuto di mettere in discussione semplicemente le argomentazioni della giunta maliana. Immediatamente messa alla berlina da Parigi, che non le ha lasciato alcun margine di manovra, quest’ultima è stata automaticamente costretta a una corsa massimalista a capofitto per non perdere la faccia. I piccoli marchesi che plasmano la politica africana della Francia dovrebbero però sapere che in Africa la priorità assoluta quando si entra in contenzioso è non far perdere la faccia al proprio interlocutore. Ma questo non si può imparare a Science-Po…
Infatti, dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta in Mali, Emmanuel Macron ha letteralmente strangolato il Mali economicamente imponendo sanzioni del tutto inopportune e improduttive a questo Paese, che hanno finito per opporre l’opinione pubblica maliana alla Francia.
Accecato dal suo presupposto democratico, Emmanuel Macron non vedeva che il colpo di stato del colonnello Goïta era un’occasione di pace. Poiché questo Minianka, ramo minoritario del grande gruppo Senufo, non ha contese storiche con i Tuareg e i Fulani, i due popoli all’origine del conflitto, potrebbe quindi aprire un discorso di pace attorno a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale, così che Tuareg e Fulani non sono più automaticamente esclusi dal gioco politico dalla democrazia, che è diventata una semplice etnomatematica elettorale.
Al contrario, accecati dal loro imperativo democratico, dall’ideologia dei “diritti umani”, del “buon governo” e dello “stato di diritto”, tutte nozioni almeno localmente surreali, i leader francesi hanno considerato l’apertura di negoziati tra Bamako e alcuni gruppi armati del nord come provocazione. Mentre l’operazione sarebbe stata del tutto proficua perché avrebbe consentito di chiudere il fronte settentrionale per concentrare le risorse di Barkhane nella cosiddetta regione dei “Tre Confini”.
Frutto della reazione francese, presa per la gola, la giunta si lanciò in una corsa a capofitto consistente nell’adulare la propria opinione pubblica designando la Francia come capro espiatorio. Questo spreco ha anche permesso alle élite locali che hanno sistematicamente saccheggiato il Mali di nascondere sei decenni di corruzione, appropriazione indebita, incapacità politica, in una parola, incompetenza. Risultato, dopo la Repubblica Centrafricana, la Francia si vede “espulsa” dal Mali mentre i suoi soldati vi sono caduti per garantire l’incolumità delle popolazioni abbandonate dal proprio esercito…
L’altro grande errore francese è non aver fatto la differenza tra i vari gruppi armati. Dal 2018 al 2019, l’intrusione del DAECH attraverso l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha cambiato profondamente i fatti del problema. E’ scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di appartenere al movimento di Al-Qaeda, accusandoli di favorire l’etnia a spese del califfato. Parigi poi non ha visto, mentre io non ho smesso di inviare note ai funzionari interessati, che i due principali leader etnoregionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero il tuareg ifora Iyad Ag Ghali e il Fulani Ahmadou Koufa, leader del Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, aveva deciso di negoziare una via d’uscita dalla crisi.
Non volendo una tale politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia del Sahel, ha poi deciso di prendere il controllo e imporre la sua autorità, sia su Ahmadou Koufa che su Iyad ag Ghali. Fu poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati di vedere che lo Stato Islamico si avvicinava al confine algerino. L’Algeria, che considera il nord-ovest della BSS come il suo cortile di casa, ha infatti sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo del posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questa ifora touareg è contraria allo smembramento del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per i propri Touareg.
Parigi non lo capiva. E non più il fatto che il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e di quelli dei Fulani al seguito di Ahmadou Koufa, avrebbe consentito di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi pianificare a termine un soccorso di Barkhane, quindi il suo spostamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi della futura destabilizzazione in atto eserciteranno nel prossimo futuro pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.
Fin dall’inizio, e come ho sempre suggerito, abbiamo dovuto andare d’accordo con questo capo Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è l’identità prima di essere islamista. Per ideologia, rifiutando di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica africana francese hanno ritenuto al contrario che fosse l’uomo da uccidere… Proprio di recente, il presidente Macron ha persino ordinato ancora una volta alle forze Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stavano negoziando con lui una pace regionale… E siamo sorpresi dalla reazione della giunta maliana…
In un modo che definirei insolito come “carità”, l’Eliseo ha persistito nell’accumularsi di false analisi. Emmanuel Macron, quindi, non ha voluto vedere – torno a un episodio essenziale di cui ho parlato sopra – che, il 3 giugno 2020, è scomparsa l’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la regione del Sahel, uccisa dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente le definizioni del problema. La sua eliminazione diede autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelli degli “emiri algerini” che avevano guidato a lungo Al-Qaeda nella regione, quello di Abdelmalek Droukdal appunto e che ha segnato molto chiaramente la fine di un periodo, Al-Qaeda non è più guidata lì dagli stranieri, dagli “arabi”, ma da “regionali”. Questi capi regionali, però, hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Fulani. La mancanza di cultura e i presupposti ideologici dei leader francesi impedivano loro di vederla
In questo nuovo contesto, nell’agosto 2020 è avvenuto in Mali un primo colpo di stato militare che ha permesso di avviare negoziati tra Bamako e Iyad Ag Ghali, che hanno amareggiato Parigi. Il 24 ottobre 2020 ho pubblicato un comunicato stampa sull’argomento dal titolo “Mali: serve il cambio di paradigma”. Ma, ancora una volta, Parigi non ha preso la misura di questo cambio di contesto, continuando a parlare indiscriminatamente di una lotta globale al terrorismo. Inoltre, contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “toccando” indiscriminatamente i GAT (Gruppi terroristici armati), e rifiutando qualsiasi approccio “buono”… “alla francese”. ..
In conclusione, da questo nuovo e amaro fallimento della politica francese in Africa si dovrebbero trarre quattro grandi insegnamenti:
– La priorità urgente è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e se sì, a cosa livello e senza perdere la faccia.
– In futuro non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a beneficio degli eserciti locali che abbiamo addestrato instancabilmente e invano dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente.
– Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e specifiche realizzate dalle navi, che eliminerebbero il disagio dei diritti territoriali percepiti localmente come una insopportabile presenza neocoloniale. Sarà quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza dei nostri mezzi marittimi dispiegabili.
– Infine e in primo luogo, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che gli ex governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma tale è nondimeno la realtà africana.
C’è stato un “contratto” messo dalla NATO sulla testa del colonnello Gheddafi?
La Francia, allora guidata da Nicolas Sarkozy, ha una pesantissima responsabilità nella disintegrazione della Libia con tutte le conseguenze locali e regionali che sono seguite e che ancora seguono. Ma perché è entrata così direttamente in una guerra civile in cui non erano in gioco i suoi interessi? Perché anche la NATO ha interferito così profondamente in questa guerra? L’alibi umanitario citato da BHL non fornendo una risposta soddisfacente, restano ancora due domande senza risposta:
– La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?
– L’obiettivo di questa guerra era la morte di quest’ultimo?
Esistono elementi di risposta che sottolineo in occasione della ristampa aggiornata da parte di Éditions du Rocher del mio libro ” Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri ” e che sono riportati nel seguente comunicato:
Domanda 1: La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?
Durante i lavori della Commissione Speciale del Congresso degli Stati Uniti d’indagine sull’attacco alla missione americana a Bengasi nel settembre 2012, attacco costato la vita all’ambasciatore americano Christopher Stevens, sono state prodotte e-mail riservate di Sidney Blumenthal, consigliere di allora- Il segretario di Stato Hillary Clinton.
Secondo questi documenti, la DGSE (Direzione generale per la sicurezza esterna) francese avrebbe organizzato, su ordine di Nicolas Sarkozy, incontri segreti con gli oppositori libici a partire dal febbraio 2011, quindi proprio all’inizio dei fatti.
In una di queste note intitolata ” Come i francesi hanno creato il Consiglio nazionale libico ” si legge che gli agenti francesi avrebbero ” dato denaro e consigli ” e che questi agenti parlando a nome di Nicolas Sarkozy ” hanno promesso che non appena il (Consiglio ) è stato progettato, la Francia lo riconoscerà come il nuovo governo libico” .
In un’altra nota datata 20 marzo questa, si legge che Nicolas Sarkozy “si aspetta che la Francia guiderà gli attacchi contro (Gheddafi) per un lungo periodo di tempo” .
Se fosse autentico, e allo stato attuale del fascicolo, non vi è motivo di dubitarne, tale documento stabilirebbe quindi che, appena tre giorni dopo il voto sulla risoluzione 1973 risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di Sicurezza del le Nazioni Unite che prevedevano solo l’istituzione di una no-fly zone intorno alla sola città di Bengasi, il presidente Sarkozy avrebbe pianificato una guerra totale contro la Libia, cosa non prevista dalla suddetta risoluzione.
Domanda 2: Lo scopo della guerra era la morte del colonnello Gheddafi?
Martedì 16 dicembre 2014, a Dakar, in occasione della chiusura del Forum sulla pace e la sicurezza in Africa , acclamato dai partecipanti, il presidente ciadiano Idriss Déby ha sganciato una vera bomba quando, alla presenza del ministro della Difesa francese, ha ha dichiarato che andando in guerra in Libia: “(…) l’obiettivo della Nato era quello di assassinare Gheddafi. Questo obiettivo è stato raggiunto “.
Se è vero quanto affermato da questo intimo conoscitore del caso libico, tutta la storia di una guerra dalle conseguenze devastanti va dunque riscritta. Tanto più che questo conflitto razionalmente inspiegabile si è innescato quando, paradossalmente, il regime libico era diventato l’alleato degli europei, sia contro il jihadismo che contro le reti di immigrazione.
Torniamo indietro. :
– Il 13 gennaio 2011, dopo 42 anni al potere, il colonnello Gheddafi ha dovuto affrontare manifestazioni che si sono trasformate in un’insurrezione.
– Il 23 febbraio, per sostenere gli insorti, la Francia ha chiesto all’Unione Europea “la rapida adozione di sanzioni concrete” contro il regime libico. In Francia è stata poi orchestrata una grande mobilitazione dal “filosofo” Bernard-Henri Lévy per per “salvare” la popolazione di Bengasi.
– Il 17 marzo Alain Juppé, ministro degli Affari esteri francese, ha strappato al Consiglio di sicurezza dell’ONU la risoluzione 1973[1] , che ha consentito l’apertura delle ostilità[2]. Questa risoluzione autorizzava semplicemente e solo la creazione di una no-fly zone sulla Libia , non l’intervento nel conflitto.
Tuttavia, di fronte all’incapacità dei ribelli di minare le difese del regime, Parigi intervenne gradualmente nella guerra civile, impegnandosi anche sul campo, in particolare a Misurata dove ebbe luogo un’operazione dei Navy Commandos, e a Jebel Nefusa. Una cosa tira l’altra, violando la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia e la NATO hanno condotto una vera guerra, prendendo di mira direttamente e ripetutamente lo stesso colonnello Gheddafi.
L’attacco più sanguinoso è avvenuto il 1 maggio 2011 quando gli aerei della Nato hanno bombardato la villa di suo figlio Saif al-Arab mentre lì si teneva una riunione di famiglia, alla presenza del colonnello e di sua moglie. Dalle macerie della casa sono stati rimossi i cadaveri di Saif al-Arab e tre dei suoi figli piccoli. Reagendo a quello che ha definito un omicidio, Mons. Martinelli, Vescovo di Tripoli, ha detto: “Chiedo, per favore, un gesto di umanità verso il colonnello Gheddafi che ha protetto i cristiani di Libia. È un grande amico”. Tale non era evidentemente l’opinione di coloro che avevano ordinato questo bombardamento chiaramente inteso a porre fine al capo di stato libico.
I capi di stato africani che si erano opposti quasi all’unanimità a questa guerra e che avevano tentato senza successo di dissuadere il presidente Sarkozy dall’intraprenderla, pensavano di aver trovato un risultato accettabile: il colonnello Gheddafi si sarebbe dimesso, il potere provvisorio era assicurato dal figlio Saif al -Islam Gheddafi e questo, per evitare un posto vacante favorevole al caos. Questa opzione è stata rifiutata dalla CNT portata a condizioni di mercato dalla Francia. Di conseguenza, il colonnello Gheddafi si è trovato assediato nella città di Sirte, che è stata oggetto di intensi bombardamenti NATO.
È stata quindi preparata un’operazione di esfiltrazione verso il Niger. Tuttavia, ben informati (da chi?), i miliziani di Misurata si tesero in agguato sull’asse che da Sirte portava al Fezzan e da lì al Niger. Il 20 ottobre 2011, il convoglio di diversi veicoli civili del colonnello Gheddafi è riuscito a lasciare la città. Sebbene non costituisse un obiettivo militare, fu subito preso di mira dagli aerei della NATO e in parte distrutto. Catturato, il colonnello Gheddafi è stato brutalmente messo a morte dopo essere stato sodomizzato con una baionetta: in rete è visibile il video della sua cattura e del linciaggio. Suo figlio Moatassem Gheddafi è stato evirato, poi gli sono stati cavati gli occhi, le mani e i piedi tagliati. I loro resti sanguinanti furono poi esposti nell’obitorio di Misurata. La NATO non aveva quindi lasciato alcuna possibilità al colonnello Gheddafi e a suo figlio.
Fatte queste premesse, le accuse del presidente Deby assumono quindi tutto il loro valore. In retrospettiva, lo svolgersi degli eventi potrebbe infatti essere paragonato a un “contratto” posto sulla testa del colonnello perché non gli fu offerto alcun onorevole risultato diplomatico e tutte le sue proposte di pace furono rifiutate…
[1] Su questo argomento si veda il testo della conferenza stampa di Alain Juppé a New York ( www.ambafrance-at.org ).
[2] Su richiesta di Francia, Regno Unito e Libano, la risoluzione 1973 è stata adottata, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza con 10 voti (10 favorevoli, 0 contrari, 5 astenuti tra cui Russia, Cina e Germania). La Russia si è astenuta dal voto all’ONU, poi Mosca ha denunciato gravi violazioni della risoluzione 1973.
la nuova Russia proattiva: il Cremlino passa al piano B, di Gilbert Doctorow
Avere a che fare con la nuova Russia proattiva: il Cremlino passa al piano B |
Per i primi vent’anni del nuovo millennio, era ovvio che Vladimir Putin e la sua squadra al Cremlino erano reattivi, piuttosto che propositivi in quasi tutti i rapporti con l’Occidente collettivo. Naturalmente, voglio dire che era ovvio per la sostanziale minoranza di professionisti che commerciano in fatti e seguono causalità, azione e reazione, dall’inizio alla fine, piuttosto che scambiare solo propaganda ideologicamente guidata. Per quanto riguarda i comunicati stampa del governo statunitense e i media mainstream, ciò che è stato fornito al pubblico in generale negli Stati Uniti, in Europa in tutti questi anni, ha sempre sistematicamente invertito causa ed effetto. Fuori dalla telecamera, gli Stati Uniti hanno colpito negli occhi i russi; sulla telecamera, ci è stata mostrata solo la reazione aggressiva dei russi.
Noi osservatori professionisti della Russia sapevamo che Vladimir Putin era molto cauto. La sua parola più comunemente usata in relazione alla condotta di qualsiasi politica è stata “аккуратно”, che significa “attento”.
Nel 2021 ci ha preceduto un nuovo Putin, uno che sembra assertivo se non aggressivo e che sembra pronto a correre enormi rischi senza troppe esitazioni mentre muove due o più passi avanti ai suoi interlocutori occidentali, non due passi indietro come era stato il caso fino ad ora.
Intendo in questo saggio spiegare in che modo la Russia è attiva oggi. Tuttavia, prima di procedere, diamo uno sguardo a ritroso ai due casi in quella che può essere definita “l’età di Putin” in cui la Russia ha effettivamente preso l’iniziativa e si è mossa coraggiosamente sulle proprie relazioni estere e sul proprio corso militare. Le date in questione sono il 1999 e il 2015.
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Negli ultimi 22 anni ci sono stati due casi eccezionali in cui la Russia ha preso l’iniziativa negli affari internazionali e non ha semplicemente reagito a qualche passo dell’Occidente, e degli Stati Uniti in particolare. Il primo è stato nel giugno 1999 quando un distaccamento di 250 soldati russi con base in Bosnia in missione di mantenimento della pace ha marciato in Kosovo per preparare la strada ai rinforzi dei paracadutisti che dovrebbero arrivare in aereo all’aeroporto di Pristina, dove insieme potrebbero stabilire una “zona” russa in quello che potrebbe diventare un Kosovo diviso. A quel tempo, Eltsin era gravemente malato e non aveva il controllo degli affari quotidiani, e il suo ministro degli affari esteri sembrava non essere a conoscenza dei movimenti sul campo nell’ex Jugoslavia, mentre messaggi contraddittori arrivavano dai militari. Un certo Vladimir Putin, allora consigliere per la sicurezza di Eltsin, ma sei mesi dopo essere nominato successore di Eltsin come presidente della RF, fu coinvolto in incontri con il vicesegretario di Stato in visita Strobe Talbott. Mentre Talbott era ancora a Mosca, si è saputo del trasferimento russo all’aeroporto di Pristina. Si dice che Putin abbia assicurato che si trattava di un malinteso, non preoccupatevi. E così Talbott è volato via, solo per tornare a Mosca a metà volo quando è diventato chiaro che in Kosovo si stava verificando una situazione di stallo potenzialmente pericolosa tra il distaccamento della NATO ei russi.
Come si è scoperto, l’offerta russa di catturare l’aeroporto di Pristina e far valere gli interessi russi all’interno o insieme alla KFOR è stata ostacolata dal mancato ottenimento dei diritti di sorvolo dall’Ungheria per il trasporto pianificato di rinforzi. Gli Stati Uniti avevano assicurato all’Ungheria il rispetto dei suoi desideri per far dispetto ai russi.
Il secondo caso di iniziativa russa che mi viene in mente risale al settembre 2015, quando la Russia annunciò inaspettatamente il suo ingresso nella guerra civile siriana con attacchi aerei intesi a sostenere il regime fallito di Assad. Questa volta, l’azione militare russa è stata resa possibile proprio dall’aver ottenuto il previo accordo dell’Iraq e di altre potenze regionali di sorvolare il loro territorio. E la complicità di Bagdad, già stabilita all’interno di un’unità di intelligence congiunta russo-irachena, è proseguita senza la minima conoscenza della massiccia ambasciata americana a Bagdad. La successiva missione della Russia per salvare il regime siriano nei due anni successivi è stata un completo successo e non c’è dubbio su chi abbia spostato i pezzi degli scacchi sulla scacchiera: Vladimir Putin. La capacità dei russi di operare in totale segretezza sotto il naso del comando degli Stati Uniti mette in discussione tutte le affermazioni di Washington di oggi di avere al suo interno fonti di intelligence sui piani della Russia per l’Ucraina.
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Le azioni russe al confine con l’Ucraina iniziate nel novembre 2021 e continuano a presentarsi sono una prova positiva di una nuova posizione come iniziatore del cambiamento negli affari globali.
In un primo momento, potremmo ipotizzare che l’ammassamento di 100.000 soldati russi fosse solo una reazione all’ammassamento di 120.000 soldati ucraini, più della metà del loro esercito, sulla linea di demarcazione con il Donbas, pronti a colpire e riconquistare le province ribelli da forza delle armi e anche potenzialmente minacciando la Crimea russa. Tuttavia, quando il 15 dicembre i russi hanno risposto all’invito del presidente Biden durante un vertice virtuale con Putin nove giorni prima per presentare su carta le loro preoccupazioni e motivazioni per i loro movimenti di truppe, hanno consegnato due bozze di trattati sulla revisione dell’architettura dell’architettura europea che sono stati chiamato ultimatum, ma potrebbe ugualmente essere chiamato richieste sfacciate con una portata molto più ampia della sola Ucraina.
Immediatamente dopo, la Russia ha perseguito una strategia negoziale a due binari sulla richiesta di ritirare la NATO e la simultanea escalation della sua minaccia militare all’Ucraina. Sono arrivate ulteriori unità funzionali essenziali per un’invasione come il trasporto di carburanti e le banche del sangue. Un nuovo potenziale fronte è stato creato al confine tra Ucraina e Bielorussia, a soli 100 km da Kiev, quando 30.000 truppe russe aggiuntive sono arrivate insieme ad alcuni dei loro ultimi equipaggiamenti per esercitazioni militari congiunte con le forze bielorusse. E nel Mar Nero furono annunciate esercitazioni navali che coinvolgevano mezzi da sbarco provenienti dalla flotta del Pacifico. La navigazione è stata vietata nella zona per tutta la durata, così che è stato messo in atto una sorta di blocco, che ricorda il blocco americano imposto a Cuba durante la crisi dei missili del 1962, a quelli di noi con memoria della storia all’altezza del “non dimenticare mai , mai perdonare” la mentalità del Cremlino.
L’effetto di queste misure, che potremmo chiamare il Piano A di Putin, è stato drammatico, anche se l’obiettivo della capitolazione alla richiesta russa di revocare la NATO e negare l’adesione alla NATO all’Ucraina non è stato raggiunto. Ciò che la Russia ha ottenuto puntando una pistola alla testa dell’Ucraina per sollevare le sue preoccupazioni sulla sicurezza al primo posto tra gli interlocutori occidentali è stato il riconoscimento da parte degli Stati Uniti come una grande forza militare da non sottovalutare nelle armi convenzionali e nucleari. E c’erano indicazioni nella risposta scritta degli Stati Uniti alla bozza di trattati russi che si potevano raggiungere accordi significativi sulla limitazione dei giochi di guerra in Europa, sul controllo o sul divieto di missili nucleari a raggio intermedio in Europa, sul mantenimento dei normali canali di comunicazione aperti tra i militari e leader civili di entrambe le parti. La politica di isolamento, denigrazione della Russia e licenziamento dei suoi interessi di sicurezza che risaliva alle amministrazioni Bush e Obama, e alla quale lo stesso Biden aveva partecipato come formulatore e attuatore, è stata ora abbandonata fintanto che la Russia non ha effettivamente invaso l’Ucraina.
Un effetto secondario delle azioni russe era stata la distruzione della posizione dell’Ucraina tra i suoi sostenitori occidentali. Nel mezzo della crisi crescente, Biden ha affermato con chiarezza cristallina che nessun soldato americano sarebbe stato inviato in Ucraina per difenderla in caso di attacco russo. L’insistente ripetizione da parte dell’America del messaggio che un’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina era imminente è salito a un livello isterico quando Washington ha chiesto a tutti i cittadini americani di lasciare il paese ora, su voli commerciali, perché la logistica militare non sarebbe stata dispiegata per evitare qualsiasi rischio di conflitto con i russi in arrivo.
Successivamente più di 40 paesi hanno seguito l’esempio degli Stati Uniti nella chiusura delle loro ambasciate a Kiev e nel ritiro del personale. I sogni dell’Ucraina di sostegno occidentale non erano più sostenibili e i primi suoni di resa iniziarono ad apparire quando l’ambasciatore ucraino nel Regno Unito disse che forse avrebbero ritirato la loro domanda di adesione alla NATO come prezzo per il mantenimento della pace. Sebbene quella piccola bandiera bianca sia stata successivamente ritirata, la volontà dei nazionalisti ucraini era chiaramente sottoposta a terapia d’urto.
Se possiamo fare un passo indietro nel corso degli eventi quotidiani, non c’è dubbio che il danno maggiore per l’economia ucraina e per la stabilità del suo attuale governo non è stato causato dai russi, con i loro movimenti di truppe, ma da Washington, con i suoi avvertimenti quotidiani di un attacco russo all’Ucraina.
I miei colleghi hanno cercato di dare un senso alle grida noiose e ripetitive della Casa Bianca e del Pentagono sull’imminente invasione di massa russa dell’Ucraina. La migliore spiegazione che ho sentito è che questa era un’intelligente strategia di guerra dell’informazione che equivaleva a “testa che vinco, croce che perdi”. Se Putin procedesse davvero con un’invasione, sarebbe tanto più costoso per la Russia in vite e tesori perché non ci sarebbe alcun elemento di sorpresa. Inoltre, le sanzioni morderebbero la Russia mentre fornirebbero agli Stati Uniti un maggiore controllo sui suoi alleati nominali in Europa per compensare la perdita dei suoi investimenti nel regime di Kiev. Come ha spiegato Nancy Pelosi a un giornalista, questa politica probabilmente giocherà bene al pubblico americano. Conclusione: le grida del ‘lupo’ sono state un cinico stratagemma politico dell’amministrazione Biden.
Tuttavia, gli stessi fatti possono essere letti in un modo completamente diverso: come un grande successo dell’intelligence russa. Potrebbe essere che i vaghi riferimenti dei funzionari del Dipartimento di Stato in domande e risposte con i giornalisti ai rapporti dell’intelligence sulle intenzioni russe di invadere fossero carne con le ossa. Potrebbe essere che le fonti di informazioni affidabili e senza nome sul programma dell’invasione di Putin fossero agenti doppiogiochisti che svolgevano la loro missione di disinformazione. Potrebbe essere che non solo il meno che brillante presidente americano sia stato coinvolto da questa farsa, ma anche il suo eminente consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, così come altri alti funzionari dell’amministrazione e del Congresso. La conclusione netta di questa interpretazione è che Vladimir Putin ha interpretato Biden come un violino e che i russi hanno finalmente imparato a usare le PR a proprio vantaggio, senza fare affidamento sui consulenti di Madison Avenue.
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Ieri abbiamo assistito a diversi sviluppi molto interessanti a Mosca che sono stati riportati separatamente dai nostri media quando in realtà sono tutti interconnessi e riguardano il passaggio della Russia dal suo Piano A, la paura dell’invasione, al Piano B, il possibile riconoscimento di Donetsk e Repubbliche di Lugansk come stati sovrani indipendenti da Kiev. Questo piano può anche essere concesso per diverse settimane o mesi mentre si applica ulteriore pressione psicologica sul governo Zelensky.
Alcune settimane fa abbiamo letto che alla Duma di Stato veniva presentato un disegno di legge che invitava il presidente Putin a riconoscere l’indipendenza delle due repubbliche del Donbas. Il disegno di legge, firmato da parlamentari del partito di opposizione, il Partito Comunista di Russia guidato da Gennady Zyuganov. All’epoca il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ci aveva detto che questa proposta non era stata accolta dal presidente ed era scomparsa dalla cronaca quotidiana.
Due giorni fa il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha annunciato che si sarebbero votati due progetti di legge relativi al riconoscimento delle repubbliche del Donbas, il primo disegno di legge dei comunisti e un secondo disegno di legge firmato dal Partito Russia Unita al potere. Si terrà una votazione libera e verrà presentata al Presidente la versione del disegno di legge che avrà ottenuto il maggior numero di voti. La differenza tra i due è che il disegno di legge comunista invierebbe la richiesta della Duma direttamente al presidente per l’azione, mentre la versione Russia Unita invierebbe l’appello prima al ministro degli Affari esteri e ad altri alti funzionari prima che possa essere passato al presidente. Il voto di ieri ha approvato il disegno di legge dell’opposizione, il che significa che il presidente Putin ha avuto mano libera in ogni momento opportuno per riconoscere le province ribelli.
La logica di tutto questo esercizio è che, se necessario, la Russia può in qualsiasi momento porre fine all’incubo che i residenti del Donbas hanno vissuto negli ultimi sette anni durante i quali 800.000 di loro hanno scelto di prendere i passaporti russi per la coperta di sicurezza che avevano promesso. Se la Russia riconosce le repubbliche e se le repubbliche richiedono formalmente protezione militare russa contro le forze ucraine che sono tre volte più grandi delle proprie dall’altra parte del confine, l’esercito russo potrebbe entrare legalmente nel loro territorio e salire fino al linea di demarcazione, ponendo fine ai bombardamenti e alle minacce provenienti dall’Ucraina. Questo sarebbe il caso qualunque cosa la Russia o le stesse repubbliche avrebbero altrimenti in mente riguardo all’eventuale svolgimento di un referendum sulla “riunificazione”.
Lo svantaggio del riconoscimento formale dell’indipendenza di queste repubbliche è che porrebbe fine bruscamente agli Accordi di Minsk, che tutte le parti coinvolte in Occidente considerano l’unica soluzione accettabile al problema dell’Ucraina.
Non è sicuramente un caso che il voto della Duma si sia svolto durante la visita del cancelliere tedesco Scholz a Mosca. In quanto garante degli Accordi di Minsk e partecipante al Normandy Format per risolvere il problema dell’Ucraina, la Germania sarebbe la prima a subire uno shock dal fatto che il Cremlino stia persino pensando di sabotarli in questo modo. E così, dalla gioia per la riduzione dell’escalation che domenica il ministro della Difesa russo Shoigu ha annunciato, mentre le unità delle esercitazioni militari in Crimea, lungo il confine bielorusso con l’Ucraina iniziavano a tornare alle loro basi di origine, era ora mista a angoscia per il possibile Riconoscimento russo dell’indipendenza delle province ribelli.
Mentre nelle settimane precedenti Kiev aveva pubblicamente denunciato gli Accordi di Minsk come una minaccia per il loro stato se attuati, mentre lo stesso presidente Zelensky aveva affermato davanti alle telecamere che nessuna riga degli Accordi era accettabile per lui, non prima della Duma voto è diventato noto se le autorità di Kiev hanno iniziato a inviare appelli a tutte le organizzazioni internazionali per aiutare a salvare quegli Accordi dal ritiro russo attraverso il riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche del Donbas.
È una domanda aperta su come reagirà l’élite del potere di Washington al passaggio della Russia al Piano B. Come possono evitare di sembrare sciocchi durante i loro mesi in cui hanno gridato “al lupo” per un’invasione che non è avvenuta. Tuttavia, non sottovalutiamo la loro intraprendenza.
©Gilbert Doctorow, 2022
Trattativa difficile e pericolosa_di Roberto Buffagni
Stati Uniti! Piromani in azione_con Gianfranco Campa
L’epilogo del contenzioso, qualunque esso sia, sancirà formalmente l’ingresso nella fase multipolare. Putin ha posto agli Stati Uniti due questioni in una: il limite di avvicinamento del dispositivo militare offensivo della NATO al confine russo; il riconoscimento, per meglio dire, la presa d’atto della Russia come stato sovrano indipendente con cui trattare con pari dignità. Ha posto esplicitamente i termini di un accordo al leader degli Stati Uniti, non a quello ucraino e nemmeno ai governanti europei, suoi vicini di casa. Non ha nemmeno risposto alle profferte ucraine. Sardonicamente ha offerto asilo all’ex presidente ucraino Poroshenko, evidentemente in disgrazia e a rischio della vita nella democratica Ucraina, perdonandolo dei suoi “errori”. E’ probabile che la sua magnanimità si estenda ad Artem Sytnyk, direttore dell’Ufficio Nazionale Ucraino dell’Anticorruzione, complice del tentativo di coinvolgimento di Trump in un gioco di finanziamenti ed affari americani in Ucraina e insabbiatore del ruolo di Hunter, rampollo di Biden, e di alcuni diplomatici statunitensi tornati in auge con l’insediamento della nuova amministrazione alla Casa Bianca, in corposi traffici similari; prossimo evidentemente a cadere in disgrazia con tutte le implicazioni possibili in quel paese. https://twitter.com/realsaavedra/stat… . La conversazione continua ad offrire analisi ed informazioni partendo da un punto di vista negletto da quasi tutto il sistema di informazione europeo e italiano in particolare: quello dello scontro di potere interno ai centri decisori e politici americani all’interno del quale sono sussunte e spesso forzate le scelte di politica estera. La geopolitica definisce il sistema di relazione tra i paesi; la cultura, la storia dei popoli e delle loro élites tracciano le onde lunghe e la ricorrenza della storia. Sono però i conflitti, le rivalità contingenti e quotidiane, i “capricci” e i colpi bassi dei soggetti politici e dei centri decisori a determinare la variabilità e la rottura più o meno temporanea di questi perimetri. La classe dirigente statunitense è aggrappata ad ambizioni di egemonia globale; i suoi passi sembrano il viatico migliore, per quanto involontario, al multipolarismo nella sua forma più conflittuale ed imprevedibile. Lo scontro politico in corso da anni negli Stati Uniti, ivi comprese le carte bollate
https://www.justice.gov/sco/press-release/file/1433511/download sarà un interessante caso di studio affidato ai posteri. Sempre che ci sia un futuro. Per concludere, una chiosa ai tanti sostenitori acritici della indipendenza dell’Ucraina. Un paese ha certamente tutto il diritto di scegliere la propria strada. Se decide però di affidarsi ad una classe dirigente, in gran parte aliena, piombata all’occasione nel proprio paese; se fonda la propria ragione di esistere sulla ostilità aperta e dichiarata verso la Russia e sorda verso i momentanei alleati, vicini di casa; se costruisce la propria identità sull’ostilità nei confronti di una buona metà della propria popolazione non può pretendere la benevolenza del vicinato. Rischia di essere lo strumento e la vittima stupida di scelte estranee. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
https://rumble.com/vuxqio-piromani-in-azione-negli-usa-con-g-campa.html
I nodi al pettine, di Roberto Buffagni
Europa e progresso economico: dalla luce alle tenebre! Bernard Landais Di Bernard Landais
Un articolo condivisibile nella valutazione dell’esito delle politiche europeiste, molto meno nella impostazione ideologica. Non esiste un mercato, nemmeno il più “libero”, senza una “progettazione”. Una progettazione improntata, se non addirittura imposta, dal paese solitamente in grado di dettare le regole. Il momento in cui più l’aspirazione al “libero mercato” si avvicina alla realtà corrisponde a quello dell’affermazione definitiva di una potenza nell’agone geopolitico di una economia-mondo. Tutta la retorica europeista sulla affermazione della sovranità europea, fondata sulla superiorità morale e sull’efficacia del suo diritto regolatorio e della sua giurisdizione, poggia sul nulla; meglio ancora, sulla fondamentale forza e capacità egemonica di una potenza esterna al continente. La questione chiave è questa, piuttosto che l’illusione del “libero mercato”. Una illusione che distorce e sterilizza le pulsioni “sovraniste” presenti negli ambienti conservatori; pulsioni che, a differenza del campo progressista, quantomeno hanno un loro luogo di riflessione; pulsioni che, per altro, inducono a soffermarsi sulle assurdità regolatorie presenti nei mercati di massa, ad esempio in agricoltura, frutto delle negoziazioni certosine tese a favorire o difendere specifici gruppi rispetto ad altri piuttosto che sui vincoli “liberistici” che hanno inibito la formazione di imprese di dimensioni e capacità tecnologiche e innovative in grado di sostenere il confronto internazionale. Giuseppe Germinario
Dal Trattato di Roma all’introduzione dell’euro, l’Unione Europea ha cercato di portare prosperità economica ai suoi cittadini. Se all’inizio ha funzionato bene, da allora la macchina si è bloccata.
Bernard Landais è l’autore di Réagir au declino; un’economia politica per la destra francese , edizioni VA, 2021.
Il Trattato di Roma del 1956 che istituisce il mercato comune per i sei paesi fondatori (Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) ha inaugurato un’era di grande prosperità per questi paesi e, più recentemente, per la maggior parte di coloro che hanno aderito, anche tardi. I principi economici sottostanti sono la valorizzazione dei vantaggi comparati e l’estensione dei mercati aziendali, che garantiscono loro guadagni di produttività legati alle economie di scala. L’operazione del mercato unico avviata da Jacques Delors a metà degli anni ’80 è andata nella stessa direzione, almeno in apparenza. Ma era una finzione.
Il cambiamento lo possiamo vedere già negli anni 80. Essendo la componente economica ben consolidata e la maggior parte dei vantaggi ad essa legati essendo già stati completamente acquisiti per i “vecchi paesi” che all’epoca governavano l’Europa, il momento arrivò ad una grande forchetta.
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La biforcazione era ideologica
I socialisti si convertirono in massa alle leggi del mercato pur avendo l’idea che, dopo la pianificazione nazionale, fosse necessario imporre queste leggi in modo razionale attraverso l’organizzazione ei regolamenti. In accordo con il loro dna era quindi necessario e paradossalmente “progettare il mercato”. I Commissari europei, come oligarchi orgogliosi della loro scienza nuova di zecca, iniziarono così a praticare un “socialismo di mercato” che tuttora persiste, sostenuti da circoli finanziari e organizzazioni internazionali e giudiziarie. A loro spese erano i veri liberali, loro che, come i francesi l’economista Pascal Salin, avrebbero voluto attenersi alle misure contro le barriere del libero scambio e al movimento dei fattori.
La biforcazione era anche geografica
Il Regno Unito (proprio come l’Irlanda) non ha giocato a questo gioco, solo approfittando del suo ingresso in ritardo per raccogliere i frutti dell’apertura, mentre rifiutava il socialismo di mercato che stava iniziando. Da Margaret Thatcher a Boris Johnson, c’è una vera continuità in un atteggiamento di resistenza che ha portato alla Brexit. Il Regno Unito, che nella sua storia non ha mai dominato l’Europa e che tiene gli occhi fissi sull'”alto mare”, ha subito considerato che l’ avventura politica europea non poteva che giovare alle grandi potenze continentali e soprattutto alla Germania. Con la sua semplice presenza, il Regno Unito è servito temporaneamente come polo moderatore per frenare la deriva europea verso il socialismo. In particolare ha sostenuto i paesi dell’est. Poi se n’è andato…
La biforcazione era quindi lo spostamento dell’economia verso il politico
L’arrivo della moneta unica è stata fin dall’inizio un’avventura politica intesa come tale fin quasi dagli anni 80. Il processo di integrazione economica, è stato abbandonato a favore dell’immediato e forzato passaggio alla zona monetaria. Questa, così decisa dalla Politica e per la Politica, fu comunque venduta al popolo come speranza di ulteriore crescita economica. “ Un mercato, una valuta fu allora il nuovo slogan usato per convincere gli elettori piuttosto riluttanti. Il Trattato di Maastricht è stato ratificato con difficoltà, in particolare in Francia. Il Trattato di Nizza, respinto dal referendum, è stato reintrodotto di nascosto, segnando così il disprezzo della casta politica per il popolo.
In uso, se le promesse di crescita non sono state mantenute, il peggio non è accaduto per tutti i paesi dell’Eurozona, ad eccezione di quattro di essi: Grecia, Portogallo, Spagna, Italia. Hanno pagato con una grave crisi finanziaria gli eccessi finanziari legati all’attuazione dell’unione monetaria, dal 1999 al 2008. La Francia e gli altri paesi della zona non se la sono cavata meglio e probabilmente un po’ peggio di come avevano mantenuto una moneta indipendente. Nessun paese ha registrato una crescita maggiore a causa dell’euro sin dalla sua creazione. Le scelte politiche e quindi fatalmente dirigiste dall’inizio del secolo hanno dunque portato frutti amari o quantomeno insipidi.
Nel lungo periodo e dal 1975, anche molte giurisdizioni nazionali si sono leggermente allentate! Da parte sua, l’integrazione europea ha esaurito i suoi effetti economici benefici e non promette più nulla di tangibile per rimediare alla situazione. L’Europa economica è passata dalla luce all’oscurità!
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Blinken e Lavrov incontro a Ginevra: due passi avanti e uno indietro, di Gilbert Doctorow
Un resoconto attendibile_Giuseppe Germinario
Contrariamente alle mie aspettative, l’incontro di 90 minuti di Blinken e Lavrov di ieri a Ginevra sembra aver avuto qualche giustificazione e si è concluso con una prognosi leggermente migliore per la risoluzione delle crisi, sia quelle ai confini dell’Ucraina che quelle nelle relazioni bilaterali USA-Russia oltre la soddisfazione delle richieste russe che l’architettura di sicurezza dell’Europa venga ridisegnata.
Molto sottilmente, la seconda questione si sta spostando al centro dell’attenzione, che è, di per sé, un risultato innegabile della politica dichiarata da Vladimir Putin di mantenere e intensificare la pressione sull’Occidente affinché venga ascoltato sulle sue preoccupazioni in materia di sicurezza.
Nella sua conferenza stampa dopo l’incontro, Blinken ha ripetuto la sua ormai ritualistica affermazione secondo cui ci sarà una severa punizione economica se la Russia invaderà l’Ucraina. Tuttavia, ha anche affermato che gli Stati Uniti presenteranno alla Russia una risposta scritta alla loro bozza di trattati del 15 dicembre entro la prossima settimana. A questo ha aggiunto che le parti si incontreranno di nuovo a livello ministeriale dopo tale presentazione e, cosa più significativa, che il presidente degli Stati Uniti è pronto a tenere un altro vertice con il presidente Putin se le parti lo riterranno utile.
Da quanto sopra si può trarre il messaggio che ci sarà una sostanziale controfferta da parte degli Stati Uniti al testo russo che sarà sufficientemente interessante perché i colloqui possano continuare e persino essere portati al livello presidenziale.
Nella sua conferenza stampa separata, Sergei Lavrov ha rifiutato di definire i colloqui come se procedessero bene o meno e ha insistito sul fatto che sarà chiaro solo dopo che la presentazione americana sarà stata ricevuta. Ha spiegato ai giornalisti che la sostanza dell’incontro era stata quella di fornire agli americani chiarimenti su diversi punti della bozza dei trattati. Possiamo presumere che uno di questi chiarimenti riguardasse il significato della richiesta russa che la NATO tornasse allo status quo del 1997 prima dell’adesione degli ex paesi membri del Patto di Varsavia. Ora ci è stato detto che nel caso della Bulgaria e della Romania, ad esempio, tutte le truppe e le installazioni della NATO avrebbero dovuto essere rimosse.
A margine dei colloqui, una notizia interessante e rilevante che la televisione di stato russa ha riportato ma che non ho visto nei media occidentali. Il viceministro degli Affari esteri russo Sergei Ryabkov ha detto a un giornalista che lo ha incontrato nel guardaroba mentre si stava recando alla riunione: “Non abbiamo paura di nessuno, compresi gli Stati Uniti!”
Questa è un’affermazione che solo una manciata di nazioni nel mondo può fare. Riflette la ritrovata fiducia in se stessi che sta spingendo i russi in avanti nella loro attuale ricerca di un trattamento alla pari da parte dell’Occidente collettivo e di mutate disposizioni di sicurezza in Europa.
Questo ci porta all’altro lato dell’equazione: il passo indietro. Sia la Russia da un lato che gli Stati Uniti con i paesi membri della NATO dall’altro stanno procedendo a ritmo sostenuto con il tintinnio della sciabola.
L’ambasciata americana a Kiev ha annunciato ieri l’arrivo in aereo di nuove sostanziali “armi letali” in Ucraina, a quanto pare munizioni. Nel frattempo, il giorno prima, il Regno Unito aveva effettuato numerosi voli su Kiev per portare armi e addestratori/consiglieri militari d’élite.
Da parte sua, la Russia ha annunciato ieri l’inizio immediato di un esercitazione generale di potenza navale che include lo sbarco di navi d’assalto nel Mar Nero. La Russia ha anche aggiunto negli ultimi giorni altri 6.000 soldati alle sue 100.000 forze ai confini dell’Ucraina e ha portato i lanciamissili Iskander in grado di effettuare attacchi precisi e altamente distruttivi su Kiev. Inoltre, la Russia ha portato in teatro i suoi missili di difesa aerea S-400, che le consentirebbero di imporre una “no fly zone” sull’Ucraina in qualsiasi momento a sua scelta, negando così l’accesso agli Stati Uniti e ad altri aerei alleati per la consegna di ulteriori armi o per l’esecuzione di ricognizioni aeree.
Tutte le precedenti misure russe si adattano perfettamente alla descrizione delle “misure tecniche militari” che Vladimir Putin aveva affermato che la Russia applicherà se i colloqui con gli Stati Uniti sulle sue richieste di sicurezza dovessero raggiungere un vicolo cieco.
Finora non è stato sparato un solo colpo. C’è una tensione accresciuta ma nessuna guerra. È lecito ritenere che questa linea di guerra psicologica sia proprio la strategia preferita dal presidente russo per raggiungere il suo obiettivo di rivedere l’architettura di sicurezza europea.
Già si stanno acuendo le divergenze all’interno dell’Europa su come rispondere alle richieste russe. In un lungo discorso al Parlamento europeo riunito a Strasburgo, il presidente francese Emanuel Macron ha parlato della necessità di un approccio per soli europei alla Russia su questa questione, mostrando più di una certa misura di scetticismo se non di disprezzo per l’amministrazione Biden. E il cancelliere tedesco Scholz ha domato la sua inesperta e chiacchierona ministro degli esteri del Partito dei Verdi, Annalena Baerbock, e ha preso lui stesso l’iniziativa di separarsi dagli Stati Uniti e dai membri della NATO su come trattare con Mosca. Anche il reportage della BBC di ieri sui voli degli aerei britannici che trasportavano rifornimenti militari in Ucraina ha mostrato l’ampio arco con cui hanno aggirato lo spazio aereo tedesco, viaggiando invece a nord attraverso la Danimarca per evitare conflitti con la politica del governo tedesco contro l’invio di armi in Ucraina nelle condizioni attuali .
Allo stesso modo, il Financial Times e l’altra stampa occidentale mainstream stanno ora prestando molta più attenzione alle richieste di sicurezza russe che erano state precedentemente sepolte nella copertura dello stallo al confine tra Ucraina e Russia.
Il compito davanti a Vladimir Putin è convertire quella che la leadership russa ritiene essere la loro attuale “finestra di opportunità”, quando hanno un vantaggio militare strategico e tattico sugli Stati Uniti e la NATO, in un guadagno politico. Chiedono modifiche all’architettura di sicurezza che normalmente arrivano solo dopo che una parte ha vinto una guerra. È diabolicamente difficile da raggiungere senza “spezzare qualche porcellana”, anche se questo è il vincolo a cui sta lavorando il sempre cauto Putin.
A parte gli sciocchi ideologicamente accecati negli Stati Uniti, tra cui noti ex diplomatici come Ivo Daalder (ambasciatore presso la NATO 2009-2013) che ha pubblicato la sua opinione su come vincolare Putin sul Financial Times due giorni fa, i politici e gli statisti realistici negli Stati Uniti, di cui ce n’erano sempre parecchi, ora sono seduti con la schiena dritta e prestano attenzione a Putin. Da tempo non sentiamo le parole ‘thug’ o ‘killer’ applicate al suo nome. Il peggio che sentiamo da persone come Daalder è che è un “dittatore” e quindi per definizione è il nostro avversario nella lotta globale tra i paesi democratici che amano la libertà e le dittature. Ma tali assurdità ideologiche neocon sono sempre state una maschera per il consumo popolare sull’amara pillola del dominio militare americano. Ora la fiducia in quel dominio viene messa a dura prova dai russi.
Tutto ciò mi porta oggi al punto finale, fino a che punto la fiducia russa nella sua posizione negoziale è aiutata dalla crescente alleanza del Paese con la Cina.
Negli Stati Uniti, negli ultimi anni in cui la Cina è stata identificata dal presidente degli Stati Uniti Trump come il potenziale nemico pubblico numero uno che doveva essere contenuto a tutti i costi, c’è stato un colpo di batteria sulla stampa americana che ci diceva che la RPC è impegnata a sviluppare quelle che presto saranno le forze armate più potenti del mondo.
Nell’agosto 2021, quando i cinesi hanno condotto i primi test sui propri missili ipersonici, i giornali occidentali hanno citato tutti un funzionario del Pentagono che ha affermato che si trattava di un nuovo “momento Sputnik”, il che significa che i cinesi erano avanzati tecnologicamente con un nuovo fantastico sistema d’arma. Hanno tutti ignorato il fatto che i russi avevano fatto lo stesso tre anni prima e ora avevano missili plananti ipersonici pronti per la produzione in serie.
In breve, i media occidentali e, presumibilmente, la maggior parte dei politici occidentali sono stati ingannati dalla loro stessa propaganda prevalente sul fatto che la Russia fosse una potenza in declino con la capacità solo di agire come “spoiler” e hanno ignorato la realtà che i russi stanno dicendo ad alta voce e chiaramente oggi: che hanno le forze armate più moderne del mondo e sono seconde per forza a livello globale solo agli Stati Uniti.
Ciò significa che il fattore cinese nelle azioni strategiche russe esiste solo nell’ambito economico, dove la cooperazione con la Cina in caso di drastiche sanzioni statunitensi ed europee come l’interruzione di SWIFT sarà molto importante per la stabilità dell’economia russa e potenziale militare. Tuttavia, sotto tutti gli altri aspetti, il fattore Cina è utile alla Russia solo come spaventapasseri, per sollevare i timori degli Stati Uniti di un attacco cinese simultaneo su Taiwan quando i russi invadono l’Ucraina. È probabile che nessuno dei due eventi accada, ma la possibilità è un’altra caratteristica della guerra psicologica in corso della Russia per raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza.
©Gilbert Doctorow, 2022