GLI STATI GENERALI, LO STATO DELLA POCHETTE, di Giuseppe Germinario

Capita raramente di assistere ad un assoluto “non sense” delle dimensioni degli Stati Generali convocati a giugno scorso da Giuseppe Conte. Il nostro Presidente del Consiglio è riuscito in questa impresa del nulla costruendo la parodia grottesca di un consesso che ha assunto ubiquamente la veste di un convegno declamato da interventi dal contenuto letteralmente inaccessibile e di un seminario dagli interventi dovuti e scontati. Ha finito ovviamente per non essere né l’uno, né l’altro, non avendo lanciato nessuna incisiva indicazione necessaria a motivare, né avendo tracciato almeno le linee base che consentissero di canalizzare analisi e proposte; ha finito quindi per spegnersi quindi nelle sue conclusioni senza avere brillato di una qualche fiammella. Più che un buco nero inquietante per la sua potenza attrattiva, una nebulosa impercettibile. L’unico ad apparire con certosina costanza è solo Lui, Giuseppe Conte, ma nelle esclusive vesti di dimesso cerimoniere di una seduta spiritica tutta particolare. La riuscita anodina dell’iniziativa sarà stata pure la conseguenza delle pressioni del PD tese a smorzare gli ardori del premier per una iniziativa propagandistica raffazzonata che rischiava di rivelare il vuoto pneumatico più che “le magnifiche sorti e progressive”. Un barlume di superstite buon senso piddino, frutto di antiche reminiscenze non del tutto sopite. Il vuoto in politica però non esiste; la sua apparenza assume comunque il significato e il peso di movimenti carsici per quanto inconsapevole possa essere. Non sarà certo un caso che gli unici ad essere evocati e ad apparire legittimamente, sia pure nella forma di ologrammi, in quella seduta per proferire il verbo siano stati Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, Paolo Gentiloni, commissario europeo, Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo. Il messaggio è chiaro: gli indirizzi e i vincoli proverranno da quella sede e in quella sede si dovrà trattare, in realtà attendere a regime di cottura lenta. http://www.governo.it/it/progettiamoilrilancio

Qualcun altro si è visto riconoscere tutt’al più un posto in seconda fila: il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il Segretario Generale dell’OCSE, Ángel Gurría, la Direttrice Operativa del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva ma solo per il tramite, in gentile concessione, della pubblicazione della rispettiva trascrizione degli interventi. Un chiaro indice delle graduatorie di credito ed autorevolezza riconosciute dal nostro Giuseppi. Per il resto un asfittico elenco degli invitati, privo di ogni merito dei vari contenuti. Lo stesso Colao, pur a capo della nutrita e roboante squadra di esperti di quistioni socio-economiche messa in piedi dallo stesso Conte, ha paradossalmente vissuto l’onta censoria dell’anonimato senza alcun apparente motivo; una sorta di silenzioso ripudio. Alcuni visibilmente non hanno gradito il trattamento e hanno reagito sgomitando, sfruttando però i propri spazi in mancanza di quelli pubblici del Governo. Lo hanno fatto i leader di alcuni sindacati autonomi e di base; lo ha fatto soprattutto e con veemenza il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi , di fresca nomina.

https://www.confindustria.it/notizie/dettaglio-notizie/confindustria-agli-stati-generali-economia-intervento-presidente-bonomi . Tutti gli altri, a cominciare dai Segretari dei tre Sindacati Confederali per passare alle varie associazioni professionali e umanitarie, hanno accettato senza colpo ferire e senza il minimo amor proprio il bavaglio imposto.

Si direbbe una pesante e inopinata caduta di stile dell’apprezzato maestro di buone maniere insediato a Palazzo Chigi.

L’affettata e curiale furbizia del nostro lascia sospettare che non si tratti di una semplice distrazione da parvenu.

Sarà per il suo irrefrenabile narcisismo, sarà per la sua propensione a rifulgere spegnendo la luce di possibili pericolosi comprimari, sarà che la sua caratura non gli consente un ruolo più significativo di quello del cerimoniere, sta di fatto che il nostro è riuscito pienamente nell’impresa.

Quello che sorprende è la pressoché generale accondiscendenza di gran parte dei convitati al proprio ruolo di muti etcoplasmi. Un po’ perché i più avveduti hanno compreso la vacuità dell’evento e l’opportunità di non contrariare il possibile elargitore delle future prebende e di non compromettere la partecipazione ad un futuro banchetto pur privo al momento del necessario menu; un po’ per la cautela di dover dissimulare, come nel caso dei tre segretari confederali, il proprio vergognoso e imbarazzante sostegno politico ad un Governo in gran parte responsabile del pesante fardello autunnale e del tutto incapace di offrire una qualche prospettiva realistica e politicamente autonoma, sta di fatto che la quasi totalità dei convitati ha accettato l’invito dalla porta di servizio in cambio di qualche convenevole. Come già sottolineato solo gli esponenti di alcuni sindacati di base hanno ardito contestare, ma solo da un punto di vista rivendicativo e senza alcuna prospettiva di difesa dell’interesse nazionale. Qualche sorpresa l’ha destata invece la veemenza delle critiche del Presidente di Confindustria. Le ragioni contingenti di tanta animosità ci sono tutte: dalle anticipazioni di cassa integrazione ancora lungi dall’essere compensate da INPS e Governo alla esiguità di agevolazioni e contributi rispetto alla miriade di bonus e biscottini che Presidente e Ministri, colti da indomito furore, stanno elargendo a piene mani, quasi fosse il presagio dell’Ultima Cena. Qualche perplessità e sorpresa suscita il fervore della critica alle strategie di politica economica del povero Conte. Non dovrebbe rientrare alcun caso di risentimento personale. L’imprenditore Carlo Bonomi appare già molto ben inserito in cariche ed incarichi pubblici di gestione. A ben vedere le sue critiche hanno il sapore e la bonomia dei realisti più realisti del re. La sua massima preoccupazione è che la pubblica amministrazione acquisisca gli standard di qualità operativa e di progettazione richiesti dall’utilizzo dei fondi strutturali europei. Dal punto di vista funzionale una sacrosanta rivendicazione viste la di gran lunga migliore efficienza e trasparenza di quei criteri rispetto alla farraginosa amministrazione italica. Il nostro ovviamente non si pone, o finge di non conoscere il motivo di tanta degenerazione della macchina amministrativa, non a caso proceduta paradossalmente a passi più spediti a partire dagli anni ‘90. Quel che gli preme, a nome della categoria, è di poter attingere all’integralità dei futuri fondi europei, sia quelli a fondo perduto (perduto a beneficio dei fruitori privati, non delle casse statali e della collettività) che quelli a credito. Bonomi, a nome di Confindustria, confessa con la compulsione di questo atteggiamento due orientamenti chiarissimi: la bontà e l’utilità dei prossimi finanziamenti europei nonché la loro scontata deliberazione nella loro modalità a fondo perduto; l’adesione acritica e fideistica, oltranzista al disegno corrente di integrazione europea. Sulla loro bontà e utilità tutto dipende dal punto di vista e di partenza da cui si parte (tra i tanti testi http://italiaeilmondo.com/2020/06/02/attenti-a-quei-due-di-giuseppe-germinario/ ); sull’esito scontato della trattativa in corso, Carlo Bonomi, pur in buona compagnia, sembra dotato di capacità predittive sconosciute a gran parte degli osservatori ma tali da consentirgli di vendere la pelle dell’orso prima dell’abbattimento. Quanto alla adesione fideistica, sino alla declamazione della propria totale assonanza con le associazioni europee sorelle, al disegno europeista non c’è da meravigliarsi più di tanto. Confindustria costitutivamente non può assolvere, proprio per i suoi assetti di potere e per la composizione prevalente degli associati, ad un ruolo di difesa dell’interesse nazionale, ad una funzione di trasformazione dell’economia industriale verso la produzione di prodotti finiti piuttosto che di componentistica e verso attività più strategiche. Costitutivamente deve trattare di criteri, di condizioni e di regole generali di conduzione delle aziende. Non è in grado quindi di partecipare fattivamente alle trattative, ai maneggi e alle azioni lobbistiche tese alla fusione in grandi gruppi e all’avvio di attività strategiche. Tutt’al più può servire da trampolino surrettizio e per vie traverse di singoli gruppi e personaggi. La storia stessa di Confindustria è tutta lì a recitare della sua ostilità al processo di costruzione dell’industria pesante di base nel dopoguerra, a personaggi della statura di Mattei e Olivetti e della sua connivenza ai processi di trasformazione di buona parte degli imprenditori e dei manager italiani in appendici e portavoce di gruppi esteri e in percettori di rendite da concessioni anche a costo di sacrificare e cedere le proprie attività originarie ben avviate. Del resto è lo stesso Colao a confermare indirettamente questa prevalente tendenza conservatrice e a volte liquidatoria. Tra il centinaio di schede elaborate buone a tanti usi ve ne sono alcune particolarmente significative. In una propone di superare le difficoltà di accesso a finanziamenti e crediti delle aziende italiane mediamente troppo piccole assegnando alle aziende leader della catena di valore il ruolo di garanti ed eventualmente di redistributori del credito. Con una struttura produttiva sempre più vocata alla componentistica piuttosto che al prodotto finito e con aziende leader sempre più situate all’estero non si farebbe che accentuare ulteriormente la dipendenza della nostra economia dalle scelte di prodotto e dagli indirizzi politico-economici di altri paesi. Lo stesso dicasi riguardo allo snellimento delle procedure di fallimento e liquidazione delle aziende proposto dall’ex manager di Vodafone. Tutto sembra congiurare quindi perché la terribile mistura di attendismo fideistico di un intervento europeo risolutivo, di fiducia cieca nelle virtù e nella prospettiva europeista, nel mantenimento conservativo di un apparato industriale magari appena ammodernato, di galleggiamento ed immobilismo governativo aggrappato alle momentanee prebende assistenzialistiche trascini ormai irreversibilmente il paese verso il declino e la polverizzazione, sempre più alla mercè non solo della grande potenza ma anche delle insolenze di forze minori. Giusto per completare la disposizione dei tasselli che hanno composto la kermesse giuseppina non si riesce a comprendere il motivo della fredda e sorda ostilità intercorsa tra Colao e Conte. Nelle schede prodotte dal manager c’è un perfetto equilibrio, in sintonia con il sentimento europeista e politicamente corretto prevalente nel Governo. L’emancipazione femminile, il peso della Cultura e del turismo, la svolta ecologica e la digitalizzazione; un pot pourri informe buono per tutti i palati e adatto alle varie circostanze. A ciascuno degli spettatori è riservato un coniglio; l’impegno di spesa corrisponde, guarda caso, al contributo europeo evidentemente dato per certo. Gli stessi imprenditori vengono lasciati nel loro cortile allettati al massimo da incentivi fiscali. Per il resto devono essere loro a districarsi e decidere la collocazione geoeconomica del paese. A dire il vero ci sarebbero un paio di cosette che potrebbero aver turbato gli animi nella compagine governativa: la proposta di accentrare e riorganizzare le centrali di acquisto dei beni necessari alle amministrazioni e il cambiamento dei criteri di selezione dei quadri dirigenziali intermedi. Due ambiti nevralgici che hanno contribuito alla ripartizione dei centri di potere, alla creazione di sistemi di consenso e di drenaggio di risorse, alla definizione del rapporto delicato e cruciale tra ceto politico-amministrativo e macchina operativa dello Stato centrale e periferico. Due nervi scoperti, sufficienti a mettere in discussione le dinamiche profonde di potere e la potenziale armonia tra i due.

Tutta l’operazione in realtà affoga in questa sommatoria di pie intenzioni e di attese ingiustificate i nodi essenziali da sciogliere: la necessità in tempi rapidi di un piano B nel caso più che probabile di fallimento o di condizioni sfavorevoli di accordo in sede europea; le modalità con le quali l’imprenditoria nostrana, al di là della retorica del libero mercato, deve trovare una diversa collocazione e partecipare ai processi di concentrazione, di fusione e di sviluppo di nuovi settori, la capacità di leadership dell’imprenditoria privata nazionale, tenuto conto che nei momenti cruciali di svolta questa si è rivelata un fattore frenante piuttosto che propulsivo. Per non parlare degli appuntamenti mancati nelle dinamiche e nei conflitti geopolitici, così determinanti ormai nel favorire ed indirizzare le scelte economiche. Le velleità geopolitiche di autonomia della Germania, poste alla sua maniera, rientrano a pieno titolo nella gamma di interrogativi fondamentali a cui rispondere. Ma è veramente chiedere troppo a questo ceto politico.

Una cosa è certa. Una svolta positiva nel paese non può passare attraverso il rapporto istituzionale con le associazioni e i rituali stantii che ne conseguono. Un ceto politico ambizioso e capace deve riuscire ad individuare singole figure e precisi settori suscettibili di aggregarsi e di fungere da traino. Altre vie per formare una classe dirigente all’altezza della situazione non se ne vedono. Persino Conte deve averlo subodorato, se durante la kermesse aveva previsto una giornata di incontri con singole personalità rappresentative della loro attività. È riuscito malauguratamente a trasformare anche questa fugace occasione in una innocua e frivola passerella. Una leggerezza dell’essere ormai insostenibile per il paese. Intanto aspettiamo di conoscere il   frutto documentale degli stati generali. Che siano resi pubblici almeno questi.

L’OGGI GUARDA A IERI PER PENSARE IL DOMANI, di Pierluigi Fagan

L’intervista di Putin apparsa significativamente sulla rivista americana National Interest e da noi recentemente pubblicata http://italiaeilmondo.com/2020/06/19/vladimir-putin-le-vere-lezioni-del-75-anniversario-della-seconda-guerra-mondiale/ non ha suscitato particolare attenzione. Segno del provincialismo nel quale annaspano le nostre classi dirigenti e il nostro ceto intellettuale. Con qualche eccezione_Buona lettura_Giuseppe Germinario

L’OGGI GUARDA A IERI PER PENSARE IL DOMANI. Nell’articolo scritto da V. Putin sulla IIWW e pubblicato da una rivista americana oggetto di un precedente post, c’è un invito a costituire una convenzione di storici che riesaminino la storia anche in base a molti nuovi documenti desegretati dal Cremlino che invita le cancellerie occidentali a fare altrettanto, supponendo che forse nei cassetti ci siano ancora cose da tirar fuori. Ma al di là della revisione documentale, Putin sostiene che la causa della IIWW fu nella cattiva pace della IWW e questa è ormai idea ampiamente diffusa presso gli storici. Molti ormai, parlano di una Guerra dei trent’anni (format ben conosciuto nella storia europea) tra 1915 e 1945 con una lunga pausa interna. Del resto, la stessa Guerra dei Trent’anni e quella dei Cent’anni, ebbero lunghe pause interne. Queste “durate” si leggono quando si prende una certa distanza dagli eventi che a livello granulare mostrano significati di un certo tipo mentre quando li si osservano da più lontano, ne prendono un altro. E’ un po’ la differenza che c’è tra grana grossa e grana fine, quella che fa di una macedonia incoerente di pixel, una immagine, come da esempio allegato.

Dal punto di vista storico, stante che non si può pensare che la IIWW sia capitata per caso appena venti anni dopo la IWW, rimane però da spiegare da dove viene questa Prima guerra mondiale. E qui non c’è dialettica tra grana fine e grossa, qui c’è un punto cieco, nessuno sa dire con precisione perché scoppiò la IWW. Quindi l’intero conflitto trentennale, rimane lì appeso ad un punto interrogativo.

Nei miei studi, da tempo mi sono convinto che noi, quel conflitto trentennale, ancora non l’abbiamo ben capito, collocato, spiegato nella cause. Mi si aprì una posizione di distacco epistemico da cui osservare le cose con sguardo nuovo, quando lessi un libricino di un intellettuale asiatico, il quale, pur avendo forti interessi per la filosofia occidentale ed amando molto alcuni pensatori europei, tra cui il Machiavelli, anzi forse proprio per questo, mostrava sincero sconcerto per quello che era successo in quel del primo Novecento in Europa. Essendo asiatico, era immune dalla distorsione etnica ed in fondo anche ideologica, era un vero osservatore (quasi) disinteressato ed in più abbastanza simpatetico con la cultura occidentale nel suo complesso e mi colpì il suo sguardo che in sostanza diceva: come ha potuto la più complessa ed articolata forma di civiltà degli ultimi cinque secoli, suicidarsi ed inghiottirsi da sé in un tale primitivo massacro?

A grana fine, tra libri, documentari, film, noi l’argomento l’abbiamo “normalizzato” anche quando ne abbiamo evidenziato l’immane tragedia. Ma a grana grossa credo che noi l’argomento non lo abbiamo spiegato e capito davvero, proprio per niente. Il che sarebbe anche ovvio visto che solo oggi siamo a settanta anni di distanza dalla fine della Seconda ed ad un secolo dalla fine della Prima.

Volendo accennare oltre, credo che il problema europeo abbia ovviamente lunghi natali ed un clinamen, uno di quegli eventi che disturbano il solito fluire accendendo la scintilla di una carambola impazzita, nel 1870, con la unificazione dei germani. Ma questo ci porterebbe a dover parlare di molte altre cose che non sono nell’oggetto del post. L’oggetto del post era -l’insidioso- invito di Putin a ragionare assieme sulla memoria perché non si può costruire futuro assieme se non si ha una memoria assieme e se non ci si mette nella condizione di voler costruire assieme un futuro, si rischia di ripetere il passato.

Per via di una mia distrazione nella breve ricerca fatta per scrivere quel post sull’articolo di Putin, sono finito su molte riviste americane da American Interest a Foreign Affairs o Policy, in cui non si parlava di questo ultimo articolo del russo, ma della sua ambizione revisionista, basata poi su un presuntuoso atteggiamento da storico “amatoriale” con una davvero sprezzante sequenza di unanime vero “odio umano” nei suoi confronti. Colpiva tale sentimento e chiariva anche quanta nebbia di guerra ancora alberghi nei cervelli che pure vantano qualche cattedra di storia nella Ivy League. Alla faccia dell’avalutatività weberiana! Ora, Putin o Xi Jinping o Modi possono piacere o dispiacere, ma è abbastanza ininfluente il nostro sentimento, visto che sono “fatti”, fatti coi quali si dovrebbe trovare regime di convivenza planetaria, poiché tra le poche cose certe del futuro c’è il piccolo particolare che non possiamo più regolare i problemi di convivenza nello spazio comune con la guerra. Una bella discontinuità sul piano della dinamica storica degli ultimi cinquemila anni, regalataci per sbaglio dalla fisica tedesca del Novecento, che ci converrebbe tener tutti più a mente.

L’argomento del post ha oggi anche una ulteriore attualità nel fenomeno delle statue. Simboli di un certo tipo di memoria, sono oggi in molti casi oggetto di violento revisionismo e violento contro-revisionismo. Certo, fare revisione storica dell’immagine di mondo a colpi di statua sì e statua no è deprimente, ma rivedere la storia di per sé non è sbagliato ove il nostro presente si trovi ad un certo punto su traiettorie diverse da quelle generate ai tempi in cui si eresse una statua. Non è tanto l’aggiornamento del nostro presente il punto, è questo in funzione del futuro. Lì dove vogliamo portare il futuro, implica darci una passato a cui vogliamo dar compiti di fondazione.

In tutto ciò, una cosa pare certa: il nostro futuro occidentale implica fare i conti con i lunghi cinque secoli del moderno perché il futuro sarà qualcosa di molto verso dal moderno, sarà un’altra epoca storica. Ancora non sappiamo dire, ovviamente, che caratteristiche avrà. Ma l’invito di Putin e il movimento delle statue, sembrano almeno invocare l’inclusività.

Fare i conti col colonialismo e l’imperialismo, con le varie oppressioni di etnia, sesso, genere, anagrafe e perché no, di classe o ceto (sebbene il pallino del movimento culturale essendo in mani anglosassoni preferisce le categorie orizzontali diritto-civiliste del progressismo liberale a quelle verticali dell’analisi sociale), non è molto diverso dall’invito del russo a ricostruire un passato comune in Europa per darci un futuro competitivo ma non conflittuale. Non si tratta di far pace nel pensiero, si tratta di condividere i requisiti minimi di una immagine di mondo dentro cui poi ognuno riprenderà le sue posizioni seguendo la sua ideologia nel nuovo contesto. Si sa, il contesto cambia il testo. Ormai nessuno è più dentro la foga delle posizioni che dividevano i medioevali, siamo tutti transitati al moderno, pur poi all’interno di questo assumere nuove posizioni diverse. Si tratta forse di far la stessa cosa, chiudere il capitolo passato per passare a quello nuovo.

Se mentre qualcuno butta giù ed imbratta statue che altri vogliono pulire e restaurare e qualcun altro tira fuori carte d’archivio che raccontano storie meno nobili di quelle che ci siamo raccontati per la buonanotte, qualcun altro provasse ad aprire capitoli di riflessione, potremmo almeno tranquillizzarci sul fatto che questa volta ci sarà un pensiero ad accompagnare la transizione storica. Fossi un intellettuale ne vedrei della opportunità, il problema è semmai esserne all’altezza è in quel “il proprio tempo appreso con il pensiero” che oggi facciamo fatica a coltivare, pare …

PER UNA SEPARAZIONE DEGLI OCCIDENTI, di Pier Luigi Fagan

Penso che la domanda giusta sia: ma noi, gente europea, popoli europei con questa gente quanto ci abbiamo a che fare? Potremmo scoprire che gli OCCIDENTI sono più di due e che solo negli Stati Uniti hanno trovato modo di convivere, ma in quella maniera; almeno sino ad ora. Forse lì hanno trovato un primo denominatore comune_Giuseppe Germinario

PER UNA SEPARAZIONE DEGLI OCCIDENTI. (Dedicato a mia moglie, texana del confine quindi “quasi latina”, ma italiana da quasi quaranta anni). La potente dinamica storica nella quale siamo capitati, impone una riflessione sull’aggregato che chiamiamo “Occidente”. Il termine è un relativo, c’è sempre qualcuno alla tua destra o sinistra stando su un meridiano della Terra, tutto sta a stabilire dove poni il tuo punto. Dalla fine dell’ultima guerra, l’unica potenza superstite vincitrice e per altro l’unico grande stato rimasto intatto, anzi cresciuto e potenziato, furono gli Stati Uniti d’America. Gli USA decisero allora di formare un blocco occidentale organizzato, il cui centro era posto in un punto imprecisato dell’Atlantico.

Sebbene oggi ai più paia naturale ed oggettiva questa partizione, sarà bene ricordare che nella prima parte del ‘900 ed ovviamente prima ancor di più, Occidente era limitato all’Europa centro-occidentale. Il resto era ritenuta una appendice anglofona dei britannici (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda) ed una appendice latina centro-sud americana, residuo del colonialismo iberico con una spruzzata di francese ed una goccia di olandese, più qualche migrante italiano.

L’Occidente recente, è stato un sistema a baricentro americano, ordinato dal principio economico, ordinato dal mercato ed ordinativo del politico espresso in un parlamento da un popolo di produttori-consumatori soggiacente una élite dotata di capitale. La vis bellica del sistema è stata delegata interamente a gli americani. Dalla fondazione nel 1776, gli USA hanno fatto guerre per il 93% del loro tempo storico, unica pausa: i cinque anni della Grande depressione. Ora, le guerre si fanno per procura, si proteggono gruppi armati salafiti, si vendono armi a gli amici, si impongono dazi, si combatte su tutte le trincee finanziarie, economiche, diplomatiche, energetiche, digitali, spaziali. Adattivamente, gli americani contemplano una variabile da lungo tempo espulsa dai principali sistemi di civiltà: la violenza.

La contemplano esternamente dove il militare traina il complesso produttivo secondo auspici e condizioni di possibilità creati dal politico. Il complesso militare-industriale individuato dal presidente uscente D. Einsenhower, un generale repubblicano e non certo un yippie pacifista, nel celebre discorso radio il giorno del suo commiato nel 1961, venne poi reso concetto dal sociologo C. Wright Mills e da allora usato in letteratura da molti. La velina originaria del discorso del presidente contiene la dicitura “complesso militare-industriale-congressuale” con l’ultimo termine barrato in correzione. Già ai tempi di Einsehower, il complesso volgeva le sue mire non più solo o tanto alla produzione materiale industriale. Da lì a poco infatti nasceva Arpanet, la rete militare da cui proviene Internet. Il mondo digitale-informatico nel quale alcuni di noi sono nati, non è nato spontaneamente, è stato il frutto voluto di intense ricerche e sviluppi governato dalla RAND Corporation (ARPA-DARPA) sin dai primi anni ‘60 e molte altre istituzioni pubblico-private americane irrorate da capitali pubblici nella fase di messa a punto e poi privati nella fese di sfruttamento commerciale. Quando ancora non c’era quasi niente di tutto ciò da quotare, gli americani -previdenti- lanciano il NASDAQ, era il 1971, l’anno del Nixon shock. Il computer è fisicamente figlio di questo impegno (con capitali della Marina Militare), tutti gli sforzi sull’Artificial Intelligence e Life, la bioingegneria, le nanotecnologie, che già nel 2002, convergono in un piano promosso dalla Natonal Science Foundation e Dipartimento al Commercio USA in quella che venne chiamata: “convergenza NANO – BIO – INFO – COGNO” ovvero quel misto di post-umanesimo tecno-distopico atto a sviluppare potenziamento post-umano per chi se lo può permettere con ampie ricadute commerciali e strutture per il ferreo controllo psico-comportamentale delle popolazioni.

Ma lo sviluppo del principio di violenza che fa degli americani di gran lunga maggiori investitori pubblici in armi al mondo al grido di “più Stato per il mercato!” (dati SIPRI ’19: USA hanno la stessa spesa militare della somma dei successivi 11 stati ovvero Cina. India, Russia, Saudi Arabia, Francia, Germania, UK, Japan, South Corea, Brasile ed Italia), tenuto conto che loro da soli sono il 4,5% della popolazione mondiale e gli altri 11 sono poco meno del 50%, ha ovviamente il suo lato interno, un primato indiscusso anch’esso.

Il II° emendamento alla loro Costituzione, sancisce il diritto inviolabile di libertà individuale di occuparsi della difesa personale, cioè portare armi, 40 milioni in più dei suoi abitanti, il 42% delle armi personali del mondo. La National Rifle Association è la potente lobby che finanziando con 30 milioni di dollari (il doppio di quanto NRA investiva di solito in finanziamenti al candidato repubblicano) la campagna 2016 di Trump e con altri 24 milioni US$ altri sei senatori repubblicani tutti eletti, promuove gli interessi del comparto. Di contro, poiché gli USA hanno col 4,4% della popolazione il 22% della popolazione carceraria del mondo, (in Europa c’è un settimo della popolazione carceraria americana per 100.000 abitanti), la domanda di difesa personale è alta.

Oltre alle armi, c’è un complesso sistema di supporto alla libera espressione della violenza, assistenti sociali che riempiono gli svantaggiati di pillole per la devastazione psichica, giudici ed avvocati, carceri pubbliche ma soprattutto carceri private, le quali sono “imprese” al cui interno si lavora con paghe da schiavi (ma “Arbeit”, si sa, “macht frei” e del resto quella tedesca è l’etnia maggioritaria in USA) e che secondo non pochi studiosi, fanno a loro volta “pressioni” su i giudici distrettuali per ottenere condannati senza i quali l’impresa deperisce. Infatti, sebbene i tassi di criminalità siano diminuiti di un po’ negli ultimi decenni, quelli di incarcerazione sono aumentati del 500%.

Col solo 13% di popolazione totale, i neri sono ben più del 50% della popolazione carceraria ed un terzo di ragazzi sotto i 20 anni neri, sono tra carcere o libertà vigilata. Molto è dovuto allo spaccio di droga pulita consumata dai giovani rampolli bianchi, mentre quella chimicamente sporca è di conforto ai giovani neri. La mano d’opera di riserva, nel caso, è ispanica. Il consumo di droga americano è anche il maggior contributo dell’economia alla sviluppo per il Sud America. I cartelli della droga poi tiranneggiano i politici locali così che l’élite politica locale sia debole e manipolabile dalle multinazionali americane che vanno a rapinare le risorse indigene. A massaggiare le opinioni pubbliche latine poi c’è l’esercito degli evangelici.

Gli americani sono anche di gran lunga i maggiori consumatori al mondo di antidepressivi, ansiolitici ed ipnotici con ricetta e non, hanno la più alta percentuale al mondo di malati mentali e rispetto a tutti paesi occidentali, sono di gran lunga quello che i più alti indici di diseguaglianza. Un terzo della popolazione nel paese in cui vivono il 41% dei più ricchi del pianeta, è povero, ma gli homeless non sono ammessi perché la sola loro vista produce un reato perseguibile penalmente: “reato contro la qualità della vita”.

Adesso dilettatevi a tifare contro o per Trump, Biden, Soros, Gates, Bezos, Zuckerberg, Bannon, questo o quel articolista che vi spiegherà cosa c’è sotto questo o quello, qualche economista che vi spiega come si rende felice la scienza triste, o quello che vi terrorizzerà col pericolo cinese, sputerà contro qualche istituzione internazionale e vi imbambolerà con qualche cazzata di giornata a cui abboccherete con la passione tipica dei colonizzati mentali, i pretoriani dell’Impero che non mancano mai nei paesi ridotti ormai a colonie di fatto, felici di esserlo. E non dimenticate di ribellarvi ad Immuni stando su facebook ed usando google, mi raccomando …

Ma noi europei, con questa gente, cosa abbiamo a che fare?

Attenti a quei due, di Giuseppe Germinario

La videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione della von der Leyen al Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione Europea, almeno nelle intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità. Lo stile adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente. Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto alla ricorrente tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole e rozza retorica intrisa di lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del clamore di tanti precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una battaglia politica vera tra i vari paesi europei e all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle classi dirigenti più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha confermato una volta di più l’attendismo e la passività del ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli uni hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli altri hanno mostrato scetticismo sulla sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle procedure e ai canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per credere!

Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo. L’urgenza espressa dal nostro paese rientra nell’ordine dei mesi colti dalle dita di una mano o poco più. La crisi di liquidità delle imprese, l’interruzione istantanea della rete di relazioni economiche in un contesto in cui la fluidità dei circuiti era già compromessa dagli sconvolgimenti geopolitici e dalle innovazioni tecnologiche stanno compromettendo l’esistenza di un numero enorme di aziende non necessariamente decotte. Il tempo richiesto dall’impegno finanziario del “recovery fund”, del “sure”, dei finanziamenti della BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l’eccezione non casuale del MES, rientra nell’ordine degli anni (sei) con elargizioni per di più rateizzate e legate al rispetto e verifica dei protocolli. Un criterio quest’ultimo, per altro, particolarmente virtuoso nelle procedure rispetto a quelle di concessione ed esecuzione dei lavori adottate dalle amministrazioni pubbliche italiane così come illustrate in particolare a suo tempo da Fabrizio Barca.

Lo è anche per i centri decisionali europei di quei paesi che detengono il pallino della definizione e del controllo dei meccanismi europei. Il fattore tempo è uno strumento fondamentale nel confronto geopolitico e geoeconomico, nella ridefinizione quindi delle gerarchie e delle posizioni. Lo è anche per un altro motivo, probabilmente ancora più importante. La sopravvivenza della Unione Europea nella sua attuale conformazione e progressione dipende in gran parte dall’esito del confronto politico negli Stati Uniti con i suoi riverberi in Europa; in subordine dall’acceso confronto politico interno agli stessi paesi motori del processo di integrazione, Francia e Germania.

Agli occhi dei critici più o meno istituzionali assume per la verità importanza sostanziale un altra caratteristica dell’intervento europeo: la grave insufficienza degli stanziamenti rispetto alle necessità, solo in parte mitigata dagli interventi provvidenziali ma circoscritti sulla liquidità corrente della BCE.

Sarebbero due ambiti di critica realmente dirimenti se fossero fondati i presupposti sui quali poggiano. Che la finalità dell’Unione Europea sia quella di garantire la coesione e lo sviluppo equilibrato delle economie e delle regioni in un ambito di cosiddetto libero mercato; che gli strumenti normativi, procedurali ed amministrativi di cui dispone la UE siano idonei al perseguimento di quegli obbiettivi.

La finalità ultima e dirimente della UE è in realtà il processo di integrazione all’interno del quale si predeterminano gerarchie, controlli e controllori sulla base di scontri, confronti, occupazione ed infiltrazione nei posti di comando che vedono regolarmente gli stessi deus ex-machina, attori principali e comparse. Le compensazioni previste sono solo una forma di redistribuzione parziale che non intaccano minimamente le dinamiche. Le rendono in realtà più tollerabili ed agevolano la fluidità del circuito domanda/offerta del mercato; le istituzionalizzano e le perpetuano con l’indebitamento.

Gli strumenti, compresi i fondi strutturali, sono stati tutti indistintamente costruiti in funzione di quella dinamica principale.

Il duo Merkel-Macron, da comprimari quali sono, a differenza di gran parte della nostra classe dirigente e del nostro ceto politico che le ignora o finge di ignorale, conoscono benissimo questa narrazione e le susseguenti implicazioni.

Sanno benissimo che passano attraverso un indebolimento progressivo delle prerogative e delle capacità di controllo e di intervento degli stati nazionali di cui sono essi stessi vittime rispetto agli altri attori geoeconomicopolitici; ma in misura molto minore, è questo infatti il loro ambito di azione prioritario, rispetto ad altri quali la Spagna e l’Italia. Di fatto l’UE agisce strutturalmente per garantire la libera circolazione finanziaria e per impedire la formazione di grandi imprese paragonabili in dimensioni e qualità a quelle americane ed ora cinesi, specie nei settori strategici dell’alta tecnologia e della difesa. I pochissimi settori nei quali Francia e Germania si sono ritagliati uno spazio, come nell’aereonautica (Consorzio AIRBUS), lo hanno acquisito a dispetto della UE e ora rischiano di perderlo grazie al mercimonio dei tedeschi i quali, forti della loro supposta “integrità morale”, dopo aver acquisito il controllo di una tecnologia francese a loro estranea, hanno recentemente cercato si svenderla agli americani in cambio di un loro benestare nell’acquisizione nel campo della chimica. Acquisizioni in cui sono compresi fardelli legali e risarcitori talmente pesanti da rivelarsi fatali per il colosso tedesco della Bayer. Il riferimento è alla ex-americana Monsanto. Altri, come il progetto Galileo, hanno goduto di un sostegno europeo parziale ma con pesanti limitazioni legate all’uso esclusivamente civile di una tecnologia di fatto superiore a quella americana. La conferma ulteriore di come i vincoli politici dai quali è legata la costruzione europea determinano le dinamiche e le scelte economiche.

Se il duo ha tanto insistito nel loro discorso sul carattere a fondo perduto di buona parte del “recovery fund”e sul “sure” e sull’interlocuzione diretta della UE con i beneficiari e le regioni, ma glissando elegantemente sulle necessarie garanzie pubbliche, è perché conoscono benissimo la frammentazione del panorama politico, lo scarso attaccamento alla nazione e allo stato nazionale di buona parte dello zoccolo duro dell’elettorato leghista e la propensione assistenzialista della componente grillina e progressista. Come le sirene con Ulisse, il loro di fatto è un richiamo alle origini di una Lega, possibilmente dimentica delle sue ambizioni di partito nazionale e nuovamente attratta dalle suggestioni di un polo eurobavarese, proprio nel momento in cui tra l’altro questo avrebbe meno da offrire.

Non è un caso altresì che il duo, accompagnato dieci giorni dopo dalla loro ventriloqua, abbia insistito sull’uso del canale dei fondi strutturali nella gestione del fondo. Non ostante l’ampia letteratura a disposizione, in Italia non riesce ad insinuarsi nemmeno il sospetto che quei fondi possano costituire il principale veicolo dell’integrazione, piuttosto che della coesione. Potenzialmente un veicolo di ulteriore esposizione alle dinamiche di squilibrio e di dipendenza delle zone depresse o a sviluppo intermedio rispetto ai centri politicoeconomici. Con il criterio del cofinanziamento vincolano, se non tutti, almeno la gran parte dei fondi statali al rispetto dei criteri europeistici, di quelle regole di concorrenza che impediscono il sorgere, con il necessario sostegno e la copertura pubblica in qualche maniera protezionistica, di realtà imprenditoriali autoctone. Una dinamica tanto più consolidata quanto meno sono disponibili risorse nazionali aggiuntive ed autonome per gli investimenti, quanto meno è presente l’ambizione a scelte autonome di una classe dirigente. Una ulteriore spinta al regionalismo, vecchio cavallo di battaglia della UE e di tante forze politiche non farebbe che accentuare tale predisposizione. È una tendenza fattiva che ha trovato tanto spazio e compromesso, nelle modalità di esercizio, paesi come l’Italia e la Spagna con i risultati ormai evidenti, ha intaccato la solidità della Francia, ha assunto una maschera simile ad una finzione nei paesi dell’Europa Orientale, indossata con il solo scopo di poter accedere ai fondi europei. La lezione degli anni ‘90 che ha portato, contestualmente al trasferimento all’Europa Orientale di gran parte dei fondi europei, allo smantellamento repentino in Italia delle agenzie nazionali e di tutto il relativo apparato tecnico-amministrativo in grado di progettare opere strategiche e processi di industrializzazione, nonché del sistema di incentivi non è stata appresa, pur considerando le grandi pecche di quel sistema. Solo la Germania è sembrata immune dalle conseguente di tali scelte, ma solo perché, risorta sotto impulso americano con una impronta federalista, esentata in quanto paese occupato da scelte di politica estera dirimenti e perché in possesso di una rete associativa e corporativa, direttamente coinvolta nelle scelte, tale da garantire sufficiente omogeneità politica tra i laender della federazione; soprattutto perché, grazie al suo progressivo e certosino controllo diretto ed indiretto delle leve politiche e burocratiche della UE, in questo ben avvallato dalla paterna accondiscendenza degli USA sino ad un paio di anni fa, ha saputo prepararsi e predeterminare gli indirizzi e la gestione di essa.

È arrivato il momento di chiarire un altro aspetto della natura particolare dell’azione delle strutture della UE in funzione dei due interventi oggetto di attenzione. Si parla costantemente di leggi e giurisprudenza europea. La produzione della Commissione Europea è fatta in realtà di norme frutto di trattative e pressioni degli Stati Nazionali ed espressione della immane attività lobbistica di aziende ed associazioni accettata e riconosciuta dagli organismi comunitari senza nemmeno i bilanciamenti che l’analoga legislazione americana, alla quale si è ispirata, ha creato a tutela dei cittadini e delle decisioni politiche; suscettibile quindi delle più svariate pressioni, interpretazioni e modifiche. Una dinamica che penalizza fortemente gli attori del panorama economico italiano. Che la UE non goda di uno statuto internazionale particolare è dimostrato dal fatto che organizzazioni internazionali come l’OMC non la riconoscano. Due aspetti che mettono all’angolo una volta per tutto il lirismo europeista della nostra classe dirigente utile a nascondere la propria assenza di protagonismo ed autorevolezza e il proprio fallimento; l’assenza di sagacia nelle continue contrattazioni in sede europea.

Alla luce di quanto detto le due novità più importanti degli interventi del duo e del commissario europeo assumono una luce particolare. La prima è che, almeno nelle intenzioni, la Unione Europea potrà diventare soggetto di imposta e quindi esattore diretto. La seconda è che comincia a farsi strada il concetto di tutela ed autonomia della produzione industriale. Due tabù cominciano ad essere messi in discussione. Il primo è l’acquisizione di una prima prerogativa statuale della UE, la riscossione delle tasse. Saremmo ben lontani dall’acquisizione della massa critica di risorse, stimata in un 20% del PIL, tale da dare corpo alla prerogativa; ma è un principio che comincia ad insinuarsi. La seconda appare una messa in discussione della verità assoluta del dogma del libero mercato. In quanto dogma, ben lungi ed impossibile da essere praticato coerentemente nell’azione quotidiana, quando si tratta in effetti di tradurlo in norme, comportamenti e sanzioni. Ma un’arma comunque necessaria da brandire alla bisogna in mano al censore investito e abilitato. Apparentemente parrebbe finalmente un sussulto di ambizione verso i potenti del globo. Non bisogna dimenticare però che uno dei protagonisti, Macron, è stato il cofautore della crisi del complesso nucleare francese, della cessione del settore delle turbine alla americana GE, strategico nel settore navale e nucleare, della produzione dei treni alla Siemens e di pericolosi tentennamenti nella vicenda AIRBUS. La seconda appare come la paladina di un primato industriale su prodotti maturi disposta a mantenere questa posizione sacrificando settori strategici altrui. Di una esposizione rischiosissima ai venti speculativi della finanza. Per non parlare della permeabilità esterna del proprio apparato istituzionale. Una coppia quindi molto poco credibile. Tanto più che l’obbiettivo strategico dell’economia verde può risolversi tranquillamente in un paravento per nascondere la residualità e la subordinazione nelle scelte strategiche, quello più corposo del 5G allo stato appare del tutto velleitario.

Allo stato l’iniziativa potrebbe assumere due significati non necessariamente alternativi.

Il primo potrebbe essere quello di gettare il cuore oltre l’ostacolo visto l’incalzare degli avversari interni ed esterni al progetto europeo e i punti fermi ormai stabiliti dalla Corte Federale tedesca che inibiscono ulteriori traccheggiamenti. Il secondo è che il vero obbiettivo è un riassetto definitivo degli equilibri interni che prevedono l’annichilimento definitivo di alcuni stati europei, l’Italia in primis; la definizione della Francia come partner politico-economico sostitutivo dell’Italia, come fornitore quindi dell’indotto, vista la crisi della sua grande industria. Un progetto però ancora tutto da definire e da costruire con parecchi terzi incomodi all’interno, soprattutto tra i paesi dell’Europa Orientale, legati del tutto strumentalmente ed opportunisticamente alla costruzione europea e molto più sensibili politicamente alle sirene americane; con numerosi e particolarmente influenti osservatori esterni, in primis gli Stati Uniti. I due potrebbero coltivare l’illusione, con la sconfitta di Trump, ad un ritorno al passato. Speranza mal riposta. Con il direttore d’orchestra che comincia a perdere colpi, il loro appare certamente un progetto foriero di conflitti distruttivi nel continenti piuttosto che un sussulto capace di costruire un nucleo politico di paesi europei in grado di partecipare attivamente alle dinamiche geopolitiche. Più che un oggetto di contesa, il nostro paese, con la sua attuale classe dirigente, appare in proposito, in questo contesto, una pallina da ping pong sballottata a piacimento senza alcuna considerazione. Dal punto di vista storico, in Europa ogni tentativo interno di posizione egemonica o di dominio continentale diretto si è risolto in catastrofi foriere di nuovi equilibri sempre precari. Non è detto che la storia si ripeta pedissequamente, ma gli ingredienti per una nuova disfatta si intravedono tutti.

https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2020/05/18/initiative-franco-allemande-pour-la-relance-europeenne-face-a-la-crise-du-coronavirus

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/about_the_european_commission/eu_budget/2020.2139_it_04.pdf

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it#documents

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

Hans-Werner Sinn, “La costituzione tedesca e la sovranità europea”. Cronache del crollo., di Alessandro Visalli

Hans-Werner Sinn, “La costituzione tedesca e la sovranità europea”. Cronache del crollo.

Avevo chiuso l’ultimo post[1] individuando come via di uscita dalla ordalia[2] chiamata dalla Germania un’uscita unilaterale della stessa, o la resa latina (con conseguente aggressione finale dei mercati ai più deboli). Certo ci sono anche una serie di possibilità di mezzo e di rinvii, ma rimandano solo l’inevitabile definizione della battaglia finale per l’Europa che è stata avviata.

Per rendere più chiaro il terreno di gioco e le poste designate interviene una delle voci più autorevoli della destra economica tedesca, ovvero Hans-Werner Sinn. In un breve articolo[3] su “Project Syndacate” diffida la Commissione dall’avanzare una procedura di infrazione verso la Germania, conferma la natura eminentemente politico-istituzionale dello scontro, e indica quale unica via di uscita la creazione di un’unione politica realmente indipendente, nella quale si parta dalla protezione militare e nucleare autoctona. Ovvero propone uno scambio di unione fiscale verso condivisione della capacità nucleare, e dei relativi eserciti, alla Francia.

Bisognerà richiamare un lontano antefatto. Quando terminò la Seconda guerra mondiale la Germania era distrutta fisicamente, umiliata moralmente, ed occupata militarmente da tutte le potenze alleate. Si avviò un lungo gioco egemonico e di confronto militare nel quale, fino al crollo sovietico, la posta principale era il controllo dell’Europa, per impedire che potesse passare nel campo avverso. Cruciale in questo gioco è sempre stato il controllo delle due potenze sconfitte, sia militarmente sia ideologicamente. Ovvero di Germania e Italia. Ma, ovviamente, soprattutto della prima. Non è affatto un caso che la “guerra fredda” abbia coinciso con la pace europea e con l’occupazione militare perdurante dei paesi di cui sopra citati. Ci sono alcuni corollari: l’Europa non è più da considerare il centro del mondo, dopo il “suicidio” determinato dalle due grandi guerre questo si è spostato fuori (inizialmente Usa e Urss, ed ora Usa e Cina, con la Russia a fare da terzo ballerino). La Germania, inizialmente divisa in due paesi contrapposti, è sempre stata il centro della partita. La dimensione militare del confronto è stata egemonizzata dalla presenza della dissuasione nucleare, senza la quale l’intera questione si spenderebbe in modo del tutto diverso. La presenza della dissuasione nucleare, e l’accordo di spartizione del mondo noto come “equilibrio del terrore” per un quarantennio ha indotto esclusivamente guerre frizionali esterne. A fare da suggello a questo status quo intervennero almeno tre fattori decisivi: l’occupazione militare asimmetrica; l’istituzione presso le Nazioni Unite di un organismo permanente come il Consiglio di Sicurezza nel quale solo le cinque potenze vincitrici siedono in modo permanente e dispongono di un decisivo potere di veto; la concessione alla Francia, dal 1958, e il Regno Unito, dal 1952[4], di poter sviluppare autonomamente armi nucleari, cosa aspramente interdetta a tutte le altre nazioni[5], fanno informalmente eccezione solo altre quattro nazioni[6].

Quando terminò l’Urss ricominciarono quasi subito le guerre in Europa, nel drammatico teatro jugoslavo, e si svuotò repentinamente il senso geopolitico della costruzione europea antecedente. Mentre gli Stati Uniti perdevano interesse, spostandolo in medio ed estremo oriente, la riunificazione tedesca ricreò un potente blocco storicamente refrattario all’idea di essere dominato da altri. I due paesi europei vincitori, dotati sia della legittimazione storica sia delle basi di forza geopolitica e istituzionale, rappresentate dal seggio permanente all’Onu e da potenti eserciti dotati di mezzi nucleari, Gran Bretagna e Francia, hanno visto subito come una minaccia il nuovo assetto ed hanno cercato, la seconda, di imbrigliarla in una nuova costruzione economica rafforzata che, però, evitasse accuratamente di condividere i fattori di forza sopradetti.

Il progetto asimmetrico europeo è quindi nato da compromessi ibridi, ambigui e di essenziale natura politica e intessuti di proiezione strategica. È stato realizzato attraverso la condivisione guidata dal mercato degli spazi di circolazione dei capitali privati, ma confermando l’assoluta regimentazione nazionale di quelli pubblici. Una costruzione semi-confederale, nella quale i fattori identificativi della sovranità statuale sono stati ambiguamente messi in comune o trattenuti gelosamente. Stante l’inibizione militare e l’esclusione istituzionale della Germania, la sua tutela geopolitica, si è inteso porre in comune solo i fattori di potenza economici, e la moneta in primis, sperando che questa struttura riuscisse a quadrare un cerchio davvero complesso.

Ma come è evidente non funziona e non può funzionare.

Il compromesso si basa sull’ipocrisia e sul tacito accordo di non tentare di andare oltre, di non porre la questione del potere politico e geopolitico, e di non dire il vero.

È questa ipocrisia che è saltata con la sentenza della Corte Costituzionale tedesca.

Tutto ciò che segue è esito naturale della reale posta in gioco.

Il 5 maggio i leader della Spd hanno chiesto[7] che le armi nucleari americane siano ritirate dal paese. Due giorni fa c’era stata una risposta[8] insolitamente aspra di parte americana, espressa al massimo livello locale dall’Ambasciatore e sulla testata ufficiale: l’ombrello nucleare Nato è indispensabile. Tradotto, al di là delle questioni contingenti come la sostituzione dei Tornado con capacità nucleare, la richiesta tedesca è che il dispositivo di uscita dalla Seconda guerra mondiale venga dichiarato finito e sia smantellato. La Germania, utilizzando lo schermo europeo, vuole tornare ad esercitare una capacità di influenza mondiale ed indipendente. Il cavallo di troia previsto è il ritiro delle forze americane, in primis nucleari, e l’estensione dell’ombrello alternativo costituito dalla ‘force de dissuasion nucléaire française’, un complesso di dispositivi che costano alla Francia circa tre miliardi di euro di costi di manutenzione all’anno e complessivamente sono in grado di lanciare circa 350 vettori nucleari tramite sottomarini ed aerei[9]. Una “forza d’urto” la cui dottrina è di affermare una capacità di difesa indipendente, premessa dell’effettiva indipendenza politica (ed anche, in ultima istanza, economica), sulla base della capacità di infliggere significativi danni alla controparte in modo da dissuaderla. La dottrina è anche detta della “dissuasione del debole sul forte (dissuasion du faible au fort), formulata dal generale Pierre Gallois.

In questa congiuntura, si incrociano, rafforzandosi, due correnti diverse del sentimento politico tedesco: da una parte la destra ha fisso al centro del suo pensiero strategico la potenza perduta, dall’altro la sinistra reagisce allo stesso sentimento di umiliazione e subalternità politica attaccandone i simboli. Ma politicamente ciò assume un unico significato: la Germania vuole tornare.

Vediamo dunque, dopo questo preambolo necessario, cosa ha scritto Hans-Werner Sinn. La situazione, nell’incipit del pezzo è qualificata come una “crisi costituzionale” nella quale combattono da una parte la Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE), dall’altra la Corte Costituzionale federale (CCG) per influenzare le politiche europee della Banca Centrale. Per come la riassume, “La CCG ha accusato la CGUE di aver oltrepassato il suo mandato, sviluppando un ragionamento arbitrario in una sentenza del dicembre 2018 a favore della Bce”. Le serrate e diffuse proteste, anche nella Germania stessa, per le conseguenze economiche e geo-politiche della sentenza, sarebbero espressione di quella che Sinn chiama “una disconnessione tra ciò che molti commentatori potrebbero desiderare e la realtà legale”.

La “realtà legale” è che il re europeo è nudo. La gerarchia tra le autorità europee (e per esse la CGUE) e quelle nazionali è asimmetrica. Mentre esiste chiaramente nella politica monetaria (per i paesi che hanno aderito all’Euro, perdendo il controllo delle loro Banche Centrali e dell’emissione di moneta), non esiste in generale “in altri settori politici”. Ovvero, è la tesi di Sinn, non esiste per le complessive politiche fiscali. E queste sono chiamate inesorabilmente ed inevitabilmente in campo dalle politiche di salvataggio non convenzionali che la Bce ha sviluppato utilizzando il suo potere di generazione di moneta. Nello specifico la tesi è che “La BCE avrebbe dovuto essere specificamente autorizzata ad attuare tali misure ai sensi dell’articolo 5 del trattato UE. Ma questa autorizzazione non è stata concessa”.

Dunque, la Bce è ultra vires, oltre i propri poteri, e agisce in modo illegale, quando li compie.

La questione inerisce direttamente l’ambigua costituzione del progetto europeo post caduta del muro, nelle condizioni date dall’equilibrio di potere mondiale. Con i termini esattamente individuati da Hans-Werner Sinn: “l’Ue e le sue istituzioni non hanno lo status di sovrano assoluto”, ma “in base ai suoi Trattati attuali, l’Europa è molto distante dalla statualità forse desiderabile che conferirebbe alla Bce e alla CGUE poteri paragonabili a quelli di istituzioni simili in stati-nazione o confederazioni”.

Data l’essenziale asimmetria che interessa gli stati europei, dopo il citato ‘suicidio’, ciò non è affatto casuale. Gli stati-nazione, tra i quali sul piano geopolitico e di legittimazione la Gran Bretagna e la Francia non sono affatto pari a Germania e Italia, restano “padroni dei trattati”. Dunque, i tribunali costituzionali, come hanno già fatto quelli di Danimarca e Repubblica Ceca, possono pronunciare ed applicare sentenze contro la CGUE. La questione posta da Sinn si applica agli acquisti di titoli di stato ma è tanto più larga.

La Germania rivendica la propria indipendenza.

A supporto di questa linea l’economista tedesco porta un esempio americano incongruo e fuorviante[10], ma probabilmente scelto per evocare la vera posta in gioco senza doverla nominare: la costruzione di un centro di potere indipendente e dominante che sfidi e si contrapponga agli Usa. Centro che, con la condivisione simultanea della capacità fiscale e militare, li vedrebbe a loro volta dominanti nella dinamica a quel punto interna.

L’acquisto, sui mercati secondari, del debito degli stati avrebbe infatti creato effetti diffusi e rilevanti, proteggendoli dalle perdite e impedendo ai tassi di interesse di salire, con ciò rischiando l’azzardo morale e minando i patti fiscali e di debito dell’Ue. Patti che, dal punto di vista tedesco, sin dall’inizio “mirano a prevenire l’escalation del debito nazionale”.

In Germania, sostiene Sinn, c’è un chiaro impedimento costituzionale che di fatto impedisce di avviare politiche di salvataggio fiscale a vantaggio di terzi. Quindi, per farlo sarebbe necessario rifondare lo Stato e darsi una nuova costituzione[11].

Anche qui c’è, a ben vedere, in gioco la stessa eredità. La Costituzione federale è il guardiano che gli alleati vollero porre a tutela del rischio di risorgenza delle mire egemoniche ed imperiali tedesche. Cosa fa, infatti e necessariamente, un egemone imperiale? Sopporta, anche a lungo, deficit per rendere i paesi colonizzati dipendenti da sé e, se del caso, si fa carico di costi per sostenerli. Istituisce, in altre parole, una relazione servo-padrone. Egli rischia, ed assume su di sé i costi della difesa comune, ma per questo legittima il servizio che riceve dai subalterni. Tra i servi ed il padrone si istituisce una relazione di reciproca dipendenza ed una divisione del lavoro.

Ora, la doppia proibizione di armarsi in modo autonomo, ed in primis dell’arma delle armi (il nucleare), e di spendere per il ‘bene’ altrui, ovvero per creare dipendenza economica, è il cardine sul quale è stato creato e mantenuto il rapporto gerarchico tra l’unico egemone dell’occidente, gli Usa, in quanto vincitore della guerra, e i suoi satelliti.

Quando la destra economica tedesca, tramite Sinn, pone la questione di liberarsi in un colpo e sintetico, come vedremo, dei due vincoli e caratteristiche del non poter condividere risorse e di non essere armati, sta ponendo finalmente la questione di diventare indipendente. Cioè di tornare ad essere dominante.

Si arriva alla fine.

Il blocco è chiaramente descritto dall’economista tedesco: se nessuno ha il potere sovrano di trasferire risorse surrettiziamente, non si può neppure aggirare la cosa ponendo in procedura di infrazione la Germania (come ha ipotizzato la Commissione Europea), perché comunque la trappola costituzionale si è ormai chiusa. Se la Ue comminasse un’ammenda perché il governo tedesco ha disobbedito ad una sentenza della CGUE, questi non la potrebbe pagare perché la propria corte CCG la ritiene illegale. Le conseguenze di un simile scontro sarebbero “devastanti per l’Ue”.

Se non si vuole costringere la Germania ad uscire resta, in altre ed ultime parole, solo la strada di sviluppare ulteriormente la Ue in direzione chiaramente federale (e chiaramente “imperiale”). Non c’è altra via. “Non può essere sviluppato arbitrariamente espandendo la giurisdizione della CGUE o attraverso le decisioni di un organo tecnocratico come il Consiglio direttivo della BCE”.

Qualora si volesse proseguire in questa direzione, e qui l’invito è rivolto alla Francia, la strada dovrebbe essere di aumentare il bilancio europeo, e, se non bastasse, di introdurre una moratoria sul debito pubblico italiano[12], con tutte le condizionalità e le regole stringenti dei creditori (ovvero con commissariamento del paese), e bloccare la fuga di capitali.

Ma il colpo è alla fine.

“Ciononostante, gli Stati membri dell’UE dovrebbero riunirsi per formare un’unione politica che consentirà di fatto al blocco di raggiungere la sovranità desiderata. Una tale unione dovrebbe principalmente comportare la creazione di un esercito europeo, con tutto ciò che ciò comporta. Una semplice unione fiscale, infatti, bloccherebbe la strada verso l’unione politica, perché alcuni Stati membri avrebbero fornito i soldi mentre altri avrebbero le carte vincenti militari”.

Bisogna giungere ad un’Unione Politica in grado di essere effettivamente sovrana. Ma ciò significa che se si mette insieme la cassaforte, ovvero si attiva una qualche forma di unione fiscale, diretta e non surrettizia, bisogna anche condividere le armi. Tutte, ovvero “un esercito europeo con tutto ciò che ciò comporta”.

Insieme ai soldi bisogna mettere insieme “le carte vincenti militari”.

Si può scrivere in modo più secco: la destra tedesca intende bloccare la strada all’integrazione europea asimmetrica, ‘a la carte’, come fino ad ora sviluppata, sfruttando il momento di acuta necessità, perché vuole tornare al gioco di dominio imperiale del mondo che per due volte ha fallito nel novecento. Lo scambio è chiaro e semplice: se volete i nostri soldi e le nostre garanzie allora la Seconda guerra mondiale è veramente finita.

Noi siamo tornati[13].

[1] – Ovvero “Verso lo scontro finale? Germania, Ue e cronache del crollo”.
[2] – Duello sacro per definire chi ha il favore degli dei e dunque ha ragione.
[3] – Hans-Werner Sinn, “Germany’s constitution ande european sovereignty”, 15 marzo 2020.
[4] – Il Regno Unito dispone di ca 160 testate operative e si giova di una stretta collaborazione avviata già negli anni sessanta.
[5] – Il Nuclear non-proliferation treaty, siglato nel 1968, designa solo cinque nazioni (NWS) autorizzate a disporre legittimamente di armamento nucleare. Si tratta di Usa, Russia, Regno Unito, Francia e Cina. Che sono non a caso anche i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e i vincitori ufficiali della Seconda guerra mondiale.
[6] – Che sono India, Pakistan, Corea del Nord e Israele. Di queste, come noto, la Corea del Nord è presente solo in quanto si è fatta strada letteralmente a forza.
[7] – Si veda questo link.
[8] – Richard A. Grenell “A credible nuclear deterrent remais needed”, U.S. Embassy   Consulate in Germany, 14 maggio 2020.[9] – Al momento si tratta di quattro sottomarini nucleari con 16 missili M51 ciascuno, 2 squadriglie di Rafale con 54 missili ASMP-A, e 2 di Rafale-M imbarcati sulla portaerei Charles de Gaulle.
[10] – “Per quanto riguarda la controversia relativa agli acquisti di titoli di stato da parte della BCE, considerate questo: anche negli Stati Uniti, la Federal Reserve non ha acquistato il debito pubblico dei singoli stati, una questione che è diventata un osso della contesa in Europa. Quando la California, il Minnesota e l’Illinois erano sull’orlo della bancarotta, la Fed non è venuta in soccorso di questi stati acquistando le loro obbligazioni”. È evidente che l’assetto costituzionale americano, nel quale i titoli di stato sono emessi a livello federale, e gli stati federati sono tenuti al pareggio di bilancio, ma nel contesto di significative spese federali diffuse, non è comparabile. L’esempio è mal portato. Peraltro l’atto di fondazione della capacità finanziaria dello stato federale è stato proprio l’assorbimento del debito degli stati federati dopo la guerra di indipendenza.
[11] – “Anche con una maggioranza di due terzi a favore, il Bundestag tedesco non ha potuto approvare le disposizioni del trattato UE che consentirebbero alla BCE di perseguire una politica di salvataggi statali che comportasse gravi rischi prevedibili per i contribuenti della zona euro. Invece, la Repubblica federale dovrebbe prima essere rifondata e una nuova costituzione adottata con referendum.”
[12] – “A dire il vero, gli stati sovrani dell’UE dovrebbero stare insieme e aiutare quelli più colpiti dalla crisi – soprattutto l’Italia, che è stata la prima nazione europea a essere colpita dalla pandemia e ha subito 31.000 morti COVID-19, il numero più alto nella UNIONE EUROPEA. Oltre ai trasferimenti unilaterali, che ogni governo nazionale può decidere liberamente, gli Stati membri dovrebbero aumentare il bilancio dell’UE per fornire aiuti speciali alle persone e agli ospedali italiani.
Se ciò non bastasse, allora potrebbe essere introdotta una moratoria del debito per l’Italia secondo le regole del Club dei paesi creditori di Parigi. Ciò dovrebbe essere combinato, come nel caso della Grecia, con controlli di capitale per fermare l’enorme fuga di capitali dall’Italia alla Germania e agli Stati Uniti che si sta verificando da marzo.”[13] – Certo ci sarebbe da capire cosa pensano di questi i cinque paesi che quella guerra la vinsero, pagando un immane tributo di sangue e di dolore. In primo piano cosa ne pensa la Francia, che talvolta percorre terreni simili, e poi, soprattutto, che ne pensano gli Usa. Ma questo, penso, lo capiremo presto.

CRISI PANDEMICA, MODELLO SVEDESE e non solo. Una conversazione con Max Bonelli

Esiste un modello svedese, ancor più un modello scandinavo nell’affrontare la crisi epidemica del coronavirus? La rappresentazione che viene offerta in Italia dal sistema mediatico si avvicina alla realtà o è frutto soprattutto di pregiudizi e di manipolazione ad uso politico interno? Sono due quesiti ai quali cerca di rispondere in questa interessante intervista Max Bonelli, forte della sua esperienza professionale e della frequentazione sul campo di quei paesi. Scopriremo che in realtà le linee guida adottate dal governo svedese sono molto più articolate e denotano una conoscenza ed una autorevolezza di quella classe dirigente nonché una coesione di quella formazione sociale sconosciute nel nostro paese. In altre due interviste e in alcuni articoli precedenti Max Bonelli ci ha svelato in maniera inedita le crepe e i lati oscuri di quella società e della corrispondente classe dirigente. Con questa intervista ci offre un’altra preziosa pennellata. Ci offre inoltre due osservazioni valide per leggere le vicende dei vari paesi coinvolti nella crisi, in particolare quelli occidentali. La prima è che la crisi epidemica mette a nudo il valore, la capacità, l’autorevolezza e l’autonomia di ciascuna classe dirigente, proprio perché la diffusione dell’epidemia è in gran parte indipendente dalle gerarchie delle dinamiche geopolitiche e le classi dirigenti, comprese quelle abituate ad attendersi e obbedire ad imput esterni, sono costrette a misurarsi più autonomamente sul problema. La seconda è che nei sistemi politici occidentali a democrazia rappresentativa l’adozione di provvedimenti generalizzanti, nominalmente draconiani e indiscriminatamente restrittivi rivelano, più che una forza ed una volontà ed un consapevole disegno autoritari, una scarsa conoscenza del proprio paese e della propria popolazione, un deficit di autorevolezza che conducono ad una incapacità di articolare gli interventi sulla base delle differenze e delle esigenze specifiche dei vari settori ed ambiti della formazione sociale e ad una disabitudine a decisioni appropriate. In un contesto obbiettivamente ostico e inedito, la classe dirigente italiana, in particolare il suo ceto politico, dedito ormai da decenni alla contingenza quotidiana e all’attesa di lumi, ha rivelato tutti i suoi limiti e la sua pochezza. Non sono mancati, né mancheranno, esempi luminosi e gratificanti, vedi l’esempio del Veneto e della Campania, di un ceto politico dotato di fermezza e buon senso. Hanno rivelato in sovrappiù l’esistenza e l’utilità di professionisti preparati e competenti sui quali l’intero paese potrebbe contare. Altri, tra questi, continuano ad operare eroicamente nell’oscurità quotidiana in altre realtà territoriali meno fortunate. Entrambi stanno evidenziando paradossalmente le potenzialità grandissime del nostro popolo, ma anche le enormi disfunzioni istituzionali e la sistematica repressione delle energie positive che stanno affossando il paese. Una contraddizione già paralizzante nella fase relativamente semplice da affrontare quale quella del contenimento costrittivo della diffusione pandemica; figuriamoci quanto pietrificante nella fase prossima ventura della ricostruzione economica e sociale. Un dramma per un ceto politico perennemente in attesa di lumi e sostegni dall’esterno, tanto più se dai versanti sbagliati e più ostili.

Nell’ultima parte dell’intervista Max Bonelli indugia sulla possibile origine artificiale del virus, ipotizzando una responsabilità statunitense diretta nella accensione dei focolai in Cina. La guerra batteriologica in effetti non è una novità nella storia. Con mezzi e tecnologie diverse e più approssimative l’hanno già utilizzata gli americani stesi contro i nativi, i turchi contro i genovesi in Crimea agli albori della modernità e tanti altri nei vari contesti conflittuali nel mondo. Nell’attuale contesto di conflitto e confronto militare ancora latente tra superpotenze l’arma batteriologica assume più, a parere dello scrivente, un valore di deterrenza considerate anche le controindicazioni e la scarsa selettività e capacità di controllo dello strumento. Rimangono per altro le ipotesi di un’origine naturale delle mutazioni del virus, legate alle condizioni ambientali di quell’area come di una manipolazione sfuggita al controllo dei cinesi da quel laboratorio P4, frutto di una collaborazione sino-francese e sino-americana ma localizzata in un paese ansioso e frenetico nell’acquisire le capacità tecnologiche e scientifiche anche in quel campo. La verità, probabilmente non la conosceremo mai seno tra molti anni; se dovesse emergere ora, non fosse che per un ulteriore repentino inasprimento del conflitto geopolitico e soprattutto interno alla dirigenza americana, rimarrebbe sommersa nelle mille diverse versioni della propaganda propinata da tutti gli attori. Non è dopotutto un aspetto essenziale, se non per valutare il livello dello scontro. Molto più importante è prendere atto dell’esistenza della pandemia e dell’uso politico e geopolitico che si fa e sempre più si farà del virus e della pandemia. Contribuirà a ridefinire in geopolitica e in geoeconomia le gerarchie, a disegnare le sfere di influenza politiche e a conformare ad essa le future sfere di influenza economica. Diventerà l’arma per una guerra sui titoli di debito sovrani. Sarà il terreno di coltivazione di enormi interessi economici, di primato scientifico e tecnologico e di dissesti, disarticolazione e riarticolazione delle varie formazioni sociali. In Cina lo percepiremo con qualche ritardo, come pure in Russia dove il problema sta esplodendo con qualche settimana di ritardo e con qualche disfunzione di troppo successiva al primo impatto; negli Stati Uniti potrebbe diventare l’occasione e lo strumento definitivo di un regolamento di conti fra due ceti politici e decisionali ormai in contrasto mortale da anni. Il conflitto, inizialmente sordo ma ormai sempre più manifesto, tra il Presidente Trump e Fauci, il consulente scientifico dalle acclarate connessioni finanziarie e di indirizzo scientifico con il laboratorio cinese di Wuhan, potrebbero essere la miccia per la deflagrazione definitiva dello scontro politico negli Stati Uniti e per una definizione più lineare della politica estera in funzione più anticinese e meno antirussa. https://www.facebook.com/groups/ilgreg/permalink/863677510782498/Un conflitto che dietro le relazioni apparentemente lineari tra gli stati, nasconde un intreccio di conflitti e connivenze tra i vari centri strategici presenti in essi, Cina compresa. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

TRA CONSIGLIO EUROPEO e CORTE COSTITUZIONALE TEDESCA, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto una piccola raccolta di note e considerazioni di FF e Giuseppe Masala_Giuseppe Germinario

GIUSEPPE MASALA

Davvero ma come fa qualcuno a credere che le norme del trattato istitutivo del Mes possano essere sospese/abrogate con la letterina di due commissari europei? E magari una legge dello stato italiano o direttamente una norma di rango costituzionale possono essere abrogate con una dichiarazione di Conte scritta da Casilino. Ma per favore, levate la scolarizzazione di massa, dite che all’Università possono andare solo coloro che hanno conto in banca in Svizzera, ditta con domicidio fiscale in Olanda e possibilmente doppio cognome nobiliare. Dite che dobbiamo andare a zappare e non fate più studiare nessuno. Però non provate a prenderci per il culo così. PS L’Unione Europea va abbattuta.

<<The ESM will also implement its Early Warning System to ensure timely repayment of the Pandemic Crisis Support.>> (Punto 5 Eurogrup Statement). Post sorveglianza. Ecco, l’ombrello di Altan

https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/05/08/eurogroup-statement-on-the-pandemic-crisis-support/?fbclid=IwAR1pBZr0RTe3QNKjLgoCdNxG89xfMfuI12lsQtdmEOgVBJcFzPO4efNybYI

traduzione (con traduttore):

Dichiarazione dell’Eurogruppo sul sostegno alla crisi pandemica

1. Il 23 aprile 2020, Leaders ha approvato l’accordo dell’Eurogruppo in formato inclusivo del 9 aprile 2020 sulle tre importanti reti di sicurezza per lavoratori, imprese e sovrani, pari a un pacchetto del valore di 540 miliardi di EUR, e ha chiesto la loro attuazione da parte del 1 ° giugno 2020. I leader hanno anche convenuto di lavorare per istituire un fondo di risanamento e hanno incaricato la Commissione di analizzare le esigenze esatte e di presentare urgentemente una proposta commisurata alla sfida. L’Eurogruppo in un formato inclusivo continuerà a monitorare attentamente la situazione economica e preparerà il terreno per una solida ripresa.

2. L’Eurogruppo accoglie con favore gli sforzi ben avviati in seno al Consiglio sulla proposta SURE e negli organi direttivi della BEI sull’istituzione del fondo di garanzia paneuropeo a sostegno dei lavoratori e delle imprese europee e conferma l’accordo per l’istituzione di ESM Pandemic Crisis Support per sovrani.

3. Oggi abbiamo concordato le caratteristiche e le condizioni standardizzate del sostegno alla crisi pandemica, disponibili per tutti gli Stati membri dell’area dell’euro per importi del 2% del PIL dei rispettivi membri alla fine del 2019, come parametro di riferimento, per sostenere il finanziamento interno di e i costi indiretti dell’assistenza sanitaria, della cura e della prevenzione dovuti alla crisi COVID-19. Abbiamo inoltre accolto con favore le valutazioni preliminari delle istituzioni sulla sostenibilità del debito, le esigenze di finanziamento, i rischi di stabilità finanziaria, nonché sui criteri di ammissibilità per l’accesso a questo strumento. Concordiamo con l’opinione delle istituzioni che tutti i membri ESM soddisfano i requisiti di idoneità per ricevere supporto nell’ambito del supporto per crisi pandemiche. Con riserva del completamento delle procedure nazionali, prevediamo che il consiglio dei governatori del MES adotti una risoluzione che confermi questo ben prima del 1 ° giugno 2020. Seguiranno le disposizioni del Trattato MES.

4. L’Eurogruppo ricorda che l’unico requisito per accedere alla linea di credito sarà che gli Stati membri dell’area dell’euro che richiedono assistenza si impegnino a utilizzare questa linea di credito per sostenere il finanziamento interno dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta, i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti al COVID 19 crisi. Questo impegno sarà dettagliato in un singolo piano di risposta pandemica da preparare sulla base di un modello, per qualsiasi struttura concessa nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica.

5. Concordiamo sul fatto che il monitoraggio e la sorveglianza dovrebbero essere commisurati alla natura dello shock simmetrico causato da COVID-19 e proporzionati alle caratteristiche e all’utilizzo del sostegno per la crisi pandemica, in linea con il quadro dell’UE [1] e le pertinenti linee guida ESM . Accogliamo con favore l’intenzione della Commissione di applicare un quadro di monitoraggio e monitoraggio semplificato, limitato agli impegni dettagliati nel piano di risposta pandemica, come indicato nella lettera del vice presidente esecutivo Valdis Dombrovskis del 7 maggio e del commissario Paolo Gentiloni indirizzata al presidente dell’Eurogruppo . L’ESM implementerà inoltre il suo sistema di allarme rapido per garantire il rimborso tempestivo del sostegno alla crisi pandemica.

6. Concordiamo con la proposta ESM sui termini e le condizioni finanziarie comuni applicabili a qualsiasi struttura concessa nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica. Ciò include una scadenza media massima di 10 anni per i prestiti e modalità di prezzo favorevoli adattate alla natura eccezionale di questa crisi [2].

7. L’Eurogruppo conferma che il sostegno alla crisi pandemica è unico, dato il diffuso impatto della crisi COVID-19 su tutti i membri del MES. Le richieste di sostegno alla crisi pandemica possono essere presentate fino al 31 dicembre 2022. Su proposta del direttore generale dell’ESM, il consiglio dei governatori dell’ESM può decidere di comune accordo di adeguare tale termine. La proposta dell’amministratore delegato si baserebbe su prove oggettive sull’andamento della crisi. Successivamente, gli Stati membri dell’area dell’euro rimarrebbero impegnati a rafforzare i fondamenti economici e finanziari, coerentemente con i quadri di coordinamento e sorveglianza economica e fiscale dell’UE, compresa l’eventuale flessibilità applicata dalle competenti istituzioni dell’UE.

8. Il periodo di disponibilità iniziale per ciascuna struttura concessa nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica sarà di 12 mesi, che potrebbe essere prorogato due volte per 6 mesi, conformemente al quadro ESM standard per gli strumenti precauzionali.

9. A seguito di una richiesta nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica, le istituzioni dovrebbero confermare le valutazioni con il minor preavviso possibile e preparare, insieme alle autorità, il singolo piano di risposta pandemica, basato sul modello concordato.

10. Fatte salve le procedure nazionali relative a ciascuna richiesta, gli organi direttivi del MES approveranno i singoli piani di risposta pandemica, le singole decisioni di concessione dell’assistenza finanziaria e gli accordi relativi alle strutture di assistenza finanziaria, in conformità dell’articolo 13 del trattato MES.

[1] In particolare il considerando 4 del regolamento (UE) n. 472/2013: “l’intensità della sorveglianza economica e di bilancio

FF

Molti si chiedono che avrebbe da guadagnare la Germania a sfasciare l’UE.
Per rispondere a questa domanda si dovrebbe tener presente che gli strateghi tedeschi del capitale ragionano in modo simile ai generali tedeschi della I e della II guerra mondiale, ossia nessuna autentica strategia ma solo efficienza tattico-operativa. Perfino Erich von Manstein, considerato il miglior generale tedesco della II guerra mondiale, nelle sue memorie, “Vittorie Perdute”, e che pure ambiva a dirigere tutte le operazioni sul Fronte orientale, si occupa solo del settore del Fronte di cui era responsabile. Di strategia e dei complessi problemi, non solo militari, di un Paese che combatteva pure nell’Atlantico, nel Mediterraneo e nel Nord Europa contro gli anglo-americani, non vi è traccia nel suo libro.
Certo, sotto il profilo tattico-operativo i tedeschi furono sempre superiori agli Alleati (ma a partire dal 1944 non ai russi, anche se questo aspetto della II guerra mondiale è poco conosciuto) in entrambe le guerre mondiali.
Anche sotto l’aspetto economico ragionano quindi soprattutto in termini di organizzazione, di efficienza e di dominio, anziché in termini di egemonia, di intelligence e perfino di mero interesse (nel senso di business).
Da qui si dovrebbe dunque partire per capire il comportamento della Germania.

GIUSEPPE MASALA

Le linee di credito sanitarie del Mes soprannominate Mes Light stanno diventando un caos completo.

Conte dice che non ne abbiamo bisogno (Renzi sì così come tutto l’apparato piddin-confindustriale) ma che lo approveremo per non far dispetto alla Spagna che lo vuole.
La Spagna oggi risponde che manco per nulla lo vuole.
La Francia oggi fa sapere che manco loro sono interessati.
Ma ieri Gentiloni ha detto che non c’è condizionalità.
Però oggi Donbrovskis dice che c’è condizionalità ma light.
Alla fine parla il Direttore Generale del Mes che dice che c’è una novità: un Meccanismo di Allerta Rapido per la restituzione tempestiva del prestito. Tasso al 0,115%. E se uno non caccia i soldi gli mandano la Banda della Magliana.

Insomma, a me pare che siamo in pieno caos. Al di là delle battute caustiche, secondo voi come potrà agire un qualsiasi governo a Roma se avrà sopra la testa una mannaia che ti impone la restituzione dei trentasei miliardi del Mes a semplice chiamata da Bruxelles e dunque con la necessità di fare a tamburo battente una manovra aggiuntiva che copra la cifra da restituire? E’ chiaro che qualsiasi governo sarà eterodiretto da Bruxelles indipendentemente da quello che sarà il voto degli italiani. E temo che tutta questa tarantella del Mes presunto Light (ma molto hard) abbia proprio quello di ingabbiare qualsiasi maggioranza che possa formarsi a Roma e renderla docile rispetto ai voleri di Bruxelles.

FF

La Germania ha chiaramente rinunciato a sfruttare la pandemia per rifondare l’UE secondo una prospettiva geopolitica ed economica autenticamente europea, preferendo invece, come sempre, una politica fondata sulla sottomissione degli altri Paesi europei anziché sulla cooperazione tra i diversi Paesi europei.
In questo contesto, il futuro del nostro Paese appare disastroso. Si prevede difatti un crollo del PIL di quasi il 10% e un debito pubblico superiore al 150% del PIL, ma nel malaugurato caso di una nuova ondata di Covid-19 la situazione potrebbe essere perfino peggiore.
E’ evidente, pertanto, che se l’Italia dovesse cercare di porre rimedio a questa recessione con gli strumenti attualmente messi a disposizione della UE, ossia eseguendo le direttive di Berlino, le conseguenze per il nostro Paese sarebbero catastrofiche.
Una classe dirigente che accettasse questi diktat non sarebbe dunque diversa da una classe dirigente che dichiara guerra al proprio Paese. Del resto, le guerre oggi non si combattono solo con le armi da fuoco. Si possono impiegare altre armi, ma gli effetti, nella sostanza, sono analoghi a quelli delle guerre in cui si impiegano le armi da fuoco.
Tuttavia, le guerre si sa come iniziano ma non come finiscano.
Di questo dovrebbe comunque essere consapevole perfino una classe dirigente di infimo livello come quella italiana notoriamente incapace di agire strategicamente, giacché da decenni si limita ad eseguire le direttive di centri di potenza stranieri, pur di difendere i propri privilegi.

In realtà la Corte Costituzionale tedesca ha posto dei limiti precisi all’acquisto dei titoli di Stato da parte della BCE lanciando a quest’ultima un ultimatum. Pertanto, perfino Repubblica ammette che “la Bce ha tre mesi di tempo per dimostrare che ‘gli obiettivi di politica monetaria perseguiti dal programma di acquisto di titoli pubblici non sono sproporzionati rispetto agli effetti di politica fiscale ed economica derivanti dal programma’. Al momento, questo il cuore del verdetto, quegli acquisti sono sproporzionati”.
In sostanza, nessuna “monetizzazione” del debito da parte della BCE o se si preferisce nessun “whatever it takes”.
In altri termini, ossia in termini politici, comanda la CC tedesca, cioè la Germania, e la BCE deve eseguire quel che Berlino ordina.

GIUSEPPE MASALA

La Frankfurter Allgemeine Zeitung ci informa che il Servizio Studi del Bundestag ha chiarito che il Governo federale e lo stesso Bundestag (che sarebbe la camera bassa del parlamento tedesco, come la nostra Camera) in ottemperanza a quanto sentenziato dalla Corte di Karlsruhe dovranno adoperarsi per controllare che la Bce si attenga a quanto stabilito. A partire dal rispetto del principio di proporzionalità negli acquisti di assets (Capital Key). Come se non bastasse il controllo – sempre per l’Ufficio Studi del Bundestag – non sarà relativo solo al piano ordinario di acquisti di assets (Pspp) ma anche a quelli straordinari dovuti all’emergenza pandemica (Pepp).

Tutto questo significa che la Politica Monetaria dell’Euro sarà fatta secondo i principi stabiliti dalla Corte di Karlsruhe e verrà controllata dal Senato tedesco. Voi avete votato i vostri rappresentanti al Senato tedesco? No? Allora avete cittadinanza presso una colonia tedesca. Tipo la Namibia e il Camerun dei tempi di Guglielmo II. Era già così da prima ma ora la condizione è cristallizzata giuridicamente.

Rimane da parte mia la stima per la Corte di Karlsruhe che ha indicato chiaramente la via d’uscita. Gli stati sono padroni dei trattati e non i trattati padroni degli stati. Ergo, chi non accetta la condizione di colonia tedesca può tranquillamente stracciare i trattati.

PS Chiaro e palese che in Italia sarebbero pronti ad accettare la condizione di colonia. Altri paesi io non credo. Traete voi la conclusione del tutto.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-faz_bce_sotto_osservazione_rafforzata/11_34811/?fbclid=IwAR3sXHL84pA0s4Dq7JKwlOQlyWrYwdx_LdXcAyHs_ttS_ROAeSiQgbgIE1s

Il vice Presidente della Bce, lo spagnolo Luis de Guindos dice che la Banca Centrale Europea è sotto la giurisdizione della Corte di Giustizia Europea e non della Corte di Karlsruhe e che entro fine anno il programma di acquisto di titoli arriverà a 1000 mld di euro. Bene, vanno allo scontro frontale con Karlsruhe fino al punto di continuare anche se la Bundesbank decidesse di interrompere il programma. Del resto la sentenza di Karlsruhe ha prescrizioni talmente stringenti tali da rendere impossibili i soliti trucchi per aggirare trattati e sentenze varie. Sembra che Parigi sia disposta a prendersi il rischio della rottura dell’Euro nel medio periodo

Scusate se ci ritorno ancora, ma lascia abbastanza stupefatti il coro di critiche degli europeisti alla sentenza della Corte di Karlsruhe. Credo sia emblematica di come in Italia e in Europa sia completamente saltato il sistema di valori e dunque di valutazione dei fatti. Secondo i dettrattori di Karlsruhe saremmo di fronte ad una “sentenza nazionalista”. Niente di più sbagliato. Siamo di fronte ad una sentenza che ristabilisce i più elementari principi di democrazia. E che ridà ai miei occhi la massima stima dovuta al popolo tedesco e alle sue istituzioni. Se la Cancelleria ormai da qualche lustro occupata dalla Merkel ha accarezzato grazie all’Euro e all’Unione Europea di ridare vita sotto mentite spoglie al Septemberprogramm di Theobald von Bethmann-Hollweg se non direttamente al funesto piano di Walther Funk dell’epoca del Terzo Reich con una sentenza coraggiosissima la severa Corte di Karlsruhe tiene il punto. I beni primari del Popolo tedesco sono la Democrazia e la Sovranità. Beni primari da tutelare ad ogni costo. Anche a costo di perdere danaro se questo significa ricadere nell’errore secolare dell’Imperialismo tedesco di sottomettere gli altri popoli europei.

La Corte lo dice chiaramente, l’Eu non è uno stato federale conseguentemente la Corte stessa fa da guardia alla Sovranità dello Stato tedesco democratico e alle regole sancite nella sua Legge Fondamentale, di fatto, ingabbiando i demoni di epoche che speriamo siano per sempre passate alla Storia. Ogni qualvolta che le istituzioni europee non rispetteranno quanto scritto tassativamente nei trattati e porranno in essere politiche Ultra Vires la Corte interverrà con un fuoco di sbarramento. Anche se si tratta della Banca Centrale Europea. Anche se la Corte di Giustizia Europea la pensa diversamente. Karlsruhe richiamerà le istituzioni tedesche al rispetto dell’ordine costituzionale, qualunque sia il costo economico e politico.

E’ vera, nella concretezza delle cose a noi ci dice male quello che ha stabilito la Corte. Ma il rispetto della Costituzione è fondamentale: nessuno ha dato alle istituzioni UE potere di porre in essere politiche fiscali. Le politiche fiscali sono in capo ai singoli stati e la Corte lo ribadisce. Certo, dicevo, ci dice male sotto l’aspetto pratico: significa che l’Italia (ma non solo l’Italia) per sostenere la crisi in corso nell’ambito della Ue dovrà accedere al Mes, firmare un Memorandum, svendere la democrazia, e sottoporsi a sacrifici speventosi. Ma quelle sono le regole dei Trattati liberamente accettati dai contraenti. Non c’è via di scampo. La Corte forse sa che le regole dei trattati in materia di finanza pubblica sono state scritte male, o più probabilmente nascondono un patto faustiano tendente a demolire gli stati e il welfare in una logica neoliberista? Probabilmente sì. Lo sanno. Sanno anche che ciò che è stato fatto alla Grecia è un crimine. E hanno posto un punto. Un punto storico e dirimente. La Corte sottolinea con forza – lanciando di fatto un appello a tutti gli stati e popoli europei – che gli stati sono i padroni dei Trattati (testuali parole) e non i Trattati padroni degli stati e della democrazia e della libertà dei popoli. La Corte tedesca ha detto chiaro e tondo ciò che con forza finalmente qualcuno doveva avere il coraggio di dire: ogni stato è libero di uscire dalla Ue rompendo i trattati e riconquistando la libertà da una organizzazione tecnocratica, fondata sulla menzogna e sull’inganno. Questo è il punto storico. La Corte di Karlsrhue non ha emesso una sentenza nazionalista, ma una sentenza che ristabilisce la democrazia e il diritto di ogni popolo di essere artefice del proprio destino. Bello o brutto che sia, ma il proprio.

FF

Da ascoltare attentamente l’intervista al prof. Pastrello, che spiega bene la sentenza della CC tedesca e le disastrose conseguenze che può avere per l’Italia

GIUSEPPE MASALA

Davvero è stucchevole questa polemica sul Mes. Non se ne può più. Eppure è giusto controbattere con le povere armi che abbiamo al profluvio ignobile di menzogne da parte di chi vuole a tutti i costi rinchiuderci in questa gabbia.
Ricapitoliamo:

➡️La cifra di 37 miliardi è sovradimensionata per le spese sanitarie, ed è buona solo per consentire ad una banda di malfattori di prodursi in una operazione di saccheggio. Allo stesso tempo è una cifra risibile per rimettere in carreggiata un’economia da 1800 mld di euro di pil.

➡️Tema delle condizionalità ovvero di come ti fregano con le parole. I gerarchi del regime dicono che non ci sono condizionalità tranne quella banale di spendere i soldi nel settore sanitario. Vero e falso contemporaneamente. L’Eu intende per “condizionalità” una richiesta di “aggiustamenti preventivi” all’erogazione della cifra richiesta. Bene questi aggiustamenti preventivi non sono richiesti perchè ieri l’Eurogruppo ha sancito che tutti i debiti dei paesi europei sono sostenibili. Dove sta il trucco? Il trucco sta nel fatto che sono previste azioni correttive ovvero aggiustamenti su deviazioni future che per ora non ci sono ma che sicuramente ci saranno. Secondo voi ci saranno scostamenti rispetto a quanto ad oggi previsto in un’economia che crolla del -9,5% del pil (stima Commissione Europea)? Si andrà molto peggio, per esempio Uk prevede un -14% e i dati che escono sono terrificanti e -9,5% per noi sarà un miracolo irrealizzabile.

➡️Cosa succederà quando ci saranno queste deviazioni rispetto alle previsioni ottimistiche (si, per quanto possa sembrare strano un -9,5% è ottimistico)? Si attiverà (come da comunicato di ieri dell’Eurogruppo) un Early Warning System ovvero un meccanismo di controllo stringente delle politiche fiscali del nostro Governo da parte del Mes (che è una società di diritto privato lussemburghese). In pratica le scelte di governo saranno dettate non dalla volontà democraticamente espressa dal popolo ma da questo Moloch lussemburghese.

➡️Non basta, tenete anche conto che dopo la sentenza della Corte di Karlsruhe la possibilità della Bce di chiudere gli spread e calmierare i tassi sui titoli del debito pubblico di paesi come l’Italia, nella migliore delle ipotesi, si riduce notevolmente.Quindi entreremo in crisi finanziaria netta.

➡️Entrare in crisi finanziaria significa che dovremmo fare una scelta: rimanere appesi all’Unione Europea che ci condannano alla fame pur avendo fondamentali sanissimi (Niip, Saldo partite correnti, Bilancia Commerciale) per dover rispettare regole ideologiche ormai fuori tempo massimo e condannate dalla storia e avendo come unica colpa quella di esserci indebitati in Euro, una moneta straniera che ha i principi di politica monetaria dettati dalla Corte Costituzionale tedesca e controllati dal Bundestag tedesco, oppure dire – una volta per tutte – leviamo il disturbo e magari accettiamo la il Memorandum propostoci dagli Usa.

➡️Ecco, questo bocconcino da 37 miliardi che tanto ingolosisce i nostri politici serve a legarci una volta per tutte al Moloch Europoide.

➡️Evito di ironizzare peraltro sul fatto che 14 miliardi di questi 37 li abbiamo dati noi al Mes qualche anno fa. In realtà si stanno comprando (conncedendoci un prestito netto da 23 miliardi da restituire in comode rate decennali) giusto il tempo per farci ingoiare la riduzione a Romania post caduta del comunismo.

➡️Faccio infine notare che da questa crisi sono in arrivo altri 5 milioni di poveri assoluti che si aggiungono ai 5 milioni creatisi dopo la manovra di aggiustamento strutturale del governo Monti. Bene, si tenga conto che a questi 10 milioni di persone nessuno potrà chiedere di farsi espiantare un rene da vendere al mercato degli organi per risanare (sic) i conti dello stato. A questo giro l’onere dell’aggiustamento non ricade sui disgraziati ma sull’eletta schiera delle classi medie generalmente benpensanti e garantite.

Per quel poco che vale questo è quanto.

Ipoteche, di Giuseppe Masala

Diciamocela tutta siamo di fronte ad un bivio in questo disastro epocale. O continuare in Eu sapendo che ogni stato usa i suoi margini fiscali per far ripartire la propria economia o uscire dall’Eu perchè noi, margini fiscali non ne abbiamo e abbiamo urgente necessità di attingere ai margini monetari che la Banca d’Italia può garantirci e diciamocelo pure, anche grazie agli aiuti che Trump (certo, lo ha fatto guardando agli interessi geostrategici americani non certo perchè è un francescano) compresa l’opportunità che ha la Banca d’Italia di accendere uno swap con la Federal Reserve.
Badate, fa davvero rabbia andare nel sito della Bce (pagina “Open Market Operations”) e vedere il continuo profluvio di operazioni in dollari che fanno con la Banca d’Italia che garantisce tutto per salvare le banche tedesche e olandesi in piena dollar trap mentre non può far nulla per dare una mano al suo popolo. Uno schifo immenso. Ma cosa volete, questa è la situazione: la bce garantisce il debito privato sull’unghia ma sul debito pubblico fa troppo poco favorendo dunque le nazioni con forte debito privato.

Qualunque scelta comporta sacrifici ed è piena di rischi. Ma quella di rimanere nell’Eu porta ad un esito fatale per noi. Io mi chiedo che diritto hanno le persone della mia generazione, o della generazione precedente a ipotecare la vita di figli e nipoti sull’altare dell’idea piccolo borghese e provincialotta di “sentirsi europei”? Che diritto si ha di dare un futuro alle prossime generazioni da rumeno o da polacco post caduta del Muro di Berlino? Io credo nessun diritto.

Certo, lo so, è difficilissimo da comprendere, le persone sono state educate a considerare l’Europa come il non plus ultra delle magnifiche sorti e progressive. Decine di esperti e di tecnici appaiono in tv a farci la paternale sulla giustezza del destino europeo. Ma lo fanno per voi? Lo fanno in piena coscienza? Oppure parlano pensando alla loro reputazione, alle loro entrate ed al loro personale futuro? Cioè, secondo voi, Prodi può apparire in tv a chiedere scusa e dire che non sa nulla di economia e che ci ha buttato nel baratro? Chiaro che non può dirlo, ne vale anche della sua sicurezza fisica. E così vale per i tanti gerarchi che in trenta anni non hanno fatto altro che chiederci sacrifici per le nuove generazioni che avrebbero beneficiato del paradiso europeo. Se va bene ora sarà un paradiso da camierere magari con una laurea in ingegneria presa in un’inutile università italiana ormai di terza fascia. A voi in questi 20 anni ve n’è fottuto qualcosa della laurea in ingegneria del rumeno che vedevate impegnato nella raccolta di pomodori? Sarà uguale per la nuova generazione di italiani. E forse questa è la Nemesi.

Chi vuole continuare in questa follia sappia che sta ipotecando la vita di figli e nipoti.

 

I dati ferali del mercato automotive in Italia (ma nel resto del mondo non cambia poi molto), dovrebbe indurre a profonde riflessioni i decisori politici. La cosiddetta ripartenza non è una vera ripartenza se si inizia dalle aziende che hanno un enorme peso politico come appunto quella dei produttori di automobili. In questo momento non c’è domanda e riaprire questo settore significa farli lavorare un mese e poi assistere alla richiesta di cassa integrazione straordinaria da parte delle aziende. Bisogna ripartire da quelle aziende che si ha certezza abbiano una domanda sicura. Può sembrare una scemenza, ma barbieri e parrucchieri hanno una domanda certa inevasa che viene soddisfatta costringendoli a farli lavorare in nero a domicilio (non li biasimo, fanno bene, in tempo di guerra ognuno s’arrangia). Si potrebbe farli aprire su prenotazione, almeno riprendono a fatturare e possono garantire Iva all’Erario e stipendi ai propri dipendenti, butta via di questi temi maledetti! Idem il calcio. Si lo so, voi dite che sono un appassionato e lo dico per quello. Ma non è così, il settore è la decima industria del paese, i diritti tv sono già pagati ed è giusto che i contratti siano rispettati, a porte chiuse certamente, facendo i tamponi ai calciatori certamente. Ma devono ripartire per non perdere fatturato. Uguale i negozi d’abbigliamento, devono ripartire, magari anche qui su prenotazione, magari consentendo di fare saldi per svuotare i magazzini non perdendo così la stagione (si tenga conto che se perdono la stagione poi l’anno prossimo le nuove collezioni le comprano in quantità minore rallentando la ripartenza del settore tessile).
Per paradosso è il minuto che può consentire un minimo di ripartenza. E’ inutile far lavorare gli operai dell’alluminio e dell’acciaio se poi l’automotive non chiede alluminio e acciaio per le sue carrozzerie e i suoi motori perchè nessuno compra auto. Ripartire dal tetto dei grandi produttori, lasciando chiusa la base del commercio minuto e dei servizi necessari ci porterà solo ad un doom loop per assenza di domanda.

E’ altrettanto evidente che per riattivare il commercio minuto, le spese di tutti i giorni, è poi necessario mettere in tasca soldi alle persone. Anche con politiche monetarie non convenzionali come sta facendo la Banca del Giappone che sta accreditando soldi freschi sui c/c dei giapponesi. A crisi non convenzionale devono esserci risposte non convenzionali. Qui si sta sbagliando tutto. Mi pare che questa commissione di economari diretta dal Manager Colao sia troppo incentrata sul Big Business ma non riesce a comprendere che le case non si riedificano dal tetto. Bisogna partire dalle fondamenta.

tratti da facebook: https://www.facebook.com/bud.fox.58?epa=SEARCH_BOX

Io speriamo che me la cavo, del dr Giuseppe Imbalzano

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi. Oggi consulente della Federazione Russa per la gestione dell’epidemia di Covid19

http://CVBreveImbalzano

Io speriamo che me la cavo

Grazie a Marcello d’Orta che ci ha dato una speranza, per il presente e per il futuro.

E speriamo che anche per noi ci sia un modo per uscire, con sicurezza e rapidamente, da questa epidemia che ha determinato danni come una guerra, in un periodo tanto limitato, sovvertendo le nostre abitudini, i nostri comportamenti, i nostri affetti e le nostre speranze.

Ormai abbiamo superato i 200 mila casi certificati che, nella realtà, sono molti di più. I decessi sono circa 30 mila secondo l’Istat. Il personale sanitario infettato è ben oltre i 20 mila casi anche qui riconosciuti, con centinaia di morti.

Un disastro unico.

Non è chiaro come, dopo 2 mesi dall’inizio dell’infezione, ci siano ancora oltre 2600 operatori sanitari colpiti dall’infezione in una settimana, che ci siano 18 mila nuovi casi, come da una relazione dell’ISS e che non si veda una netta riduzione di crescita della curva, come nella analisi effettuata dal Gimbe

In Cina, con il lockdown, la curva si è appiattita dopo circa 2 settimane di crescita mentre in Italia non è accaduto mantenendo un incremento dei casi importante. Il lockdown non è stato particolarmente efficace ed è certamente stato determinato dai focolai di infezione che sono rimasti numerosi ed ampiamente distribuiti, in particolare nel Nord Italia.,

E allora ci chiediamo cosa non vada nella situazione italiana, quali siano le criticità che si ripetono, poiché è evidente che le azioni messe in atto per ridurre le infezioni non sono efficaci. O almeno non sono efficaci in alcune regioni.

I dati di mortalità, di prevalenza e di incidenza della infezione sono, e restano, comunque elevati e significativi, certamente non sono ancora azzerati, come si dovrebbe, per operare in sicurezza nella quotidianità, per il lavoro, i rapporti comunitari e la vita sociale.

In medicina, quando dobbiamo curare un malato, dobbiamo determinare quale sia la diagnosi corretta. Non è possibile, e ancora meno utile per il paziente, fare una valutazione generica e intervenire in modo inadeguato.

Ma, nella scelta tra più diagnosi e conseguenti terapie, è possibile che qualche volta la prima scelta non sia adeguata.

A questo punto si fa una rapida rivalutazione in considerazione dei risultati e delle conseguenze per il paziente. Se la diagnosi non è corretta si approfondisce il caso e si decide una nuova terapia. Se il fallimento è terapeutico allora si modifica la terapia che non ha dato i risultati sperati, o perché il farmaco non è efficace per quel paziente o perché la terapia non è adatta al caso che stiamo assistendo.

Una analisi dell’Istituto Superiore di Sanità ha identificato i luoghi di esposizione delle nuove infezioni e su 4500 casi valutati abbiamo il 44% che è avvenuto nelle strutture per anziani o nelle comunità per disabili, il 25% al proprio domicilio e l’11% in ambiente sanitario.

Se non vengono individuate le cause, qualsiasi terapia potrebbe essere inefficace.

Fermo restando che chi si ammala è abbisognevole di cure, nel nostro caso è indispensabile che le fonti di infezione vengano neutralizzate oltre alle necessarie cure ed assistenza dei pazienti. È necessario che i diversi settori clinici abbiano la necessaria competenza e sicurezza per poter operare con tempestività e continuità. Ed è essenziale proteggere e rafforzare il sistema sanitario che attualmente ha subito danni considerevoli.

In Cina hanno riaperto quando i casi si sono azzerati.

Perché?

Perché così si possono evitare nuovi casi

Noi riapriamo con due elementi di grande criticità

Il numero dei nuovi casi e gli operatori sanitari infettati

La soluzione che riteniamo preferibile è quella di individuare le aree virusfree e in quelle avviare una apertura totale delle attività. Considerato che l’avvio della fase 2 non valuta questa opzione è comunque necessario verificare se siano garantiti alcuni parametri organizzativi e gestionali che diano garanzie per una corretta gestione dell’epidemia.

 

Cosa dobbiamo fare

Siamo arrivati a tracciare e a interrompere la catena di trasmissione del virus?

Riusciamo a testare i sintomatici e rintracciare i loro contatti?

I sistemi proposti per il tracciamento dei contatti sono efficaci?

O rischiano di creare confusione ulteriore nel sistema per l’elevato numero di contatti che possono essere registrati?

Riusciamo ad assistere in modo adeguato i malati non ricoverati garantendo un rientro in famiglia quando il paziente è completamente guarito?

Gli ospedali e la case di riposo sono stati messi in sicurezza?

Il personale sanitario è garantito nella sua attività quotidiana?

Cosa stiamo facendo per la prevenzione?

Le regole che sono state indicate sono sufficienti?

Cosa dobbiamo fare in attesa che sia reso disponibile, e dispensato a tutta la popolazione, un vaccino efficace e terapie adeguate?

La popolazione a rischio è sufficientemente protetta e garantita?

Considerato che dobbiamo attenderci nuove recrudescenze del virus, come dobbiamo operare per garantire l’intera popolazione e quella più suscettibile a subire i danni più gravi determinati dal virus?

 

Come fare?

Esistono tre modelli di base per riavviare la vita sociale ed economica: l’approccio di riavvio completo; un approccio incentrato sul mantenimento delle restrizioni per le popolazioni vulnerabili; e l’approccio graduale adottato da paesi come la Cina.

Con il modello di riavvio completo, il governo attende che i nuovi casi Covid-19 siano a zero e quindi riavvia l’attività sociale ed economica con misure restrittive minime ma con viaggi internazionali limitati. Questa strategia richiede numerose condizioni che potrebbero non essere fattibili per la maggior parte dei paesi, tra cui controlli rigorosi alle frontiere, elevati volumi di test e tracciabilità dei contatti e la capacità di imporre un lungo periodo iniziale di blocco.

Il secondo approccio consente il diffuso riavvio dell’attività sociale ed economica, ma con il rigoroso isolamento per le popolazioni vulnerabili come gli anziani. Un simile approccio potrebbe non essere fattibile in molti paesi, dato il gran numero di persone che dovrebbero rimanere in isolamento fino a quando non sarà disponibile un vaccino o una cura.

Il terzo approccio è probabilmente il più ampiamente adottato. Secondo questo modello, i governi eliminano le restrizioni in modo deliberato, graduale e incrementale basato sulla progressione della malattia, sulla prontezza del sistema sanitario pubblico e sulla preparazione della comunità. Questo approccio è in varie fasi di introduzione in tutto il mondo, con paesi in Asia ed Europa all’avanguardia.

Entrare nel merito di ognuno dei tre modelli dipende dalle condizioni di avvio del sistema, che deve essere considerato un prerequisito.

In due mesi non sono stati risolti molti dei problemi che abbiamo elencato precedentemente e che sono alla base delle criticità attuali che, se dovessero permanere, non possono determinare le condizioni di sicurezza che noi ci attendiamo per poter proseguire e riprendere una quotidianità quasi normale o con limitazioni molto modeste.

Giuseppe Imbalzano – Medico

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