Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini, di Massimo Morigi

Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini. Elementi contro  la pandemia del  Cthulhu morbus  dello  spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative

 Di Massimo Morigi

«Se vi ricorda bene, Cosimo, voi mi dicesti che, essendo io dall’uno canto esaltatore della antichità e biasimatore di quegli che nelle cose gravi non la imitano, e, dall’altro, non la avendo io nelle cose della guerra, dove io mi sono affaticato, imitata, non ne potevi ritrovare la cagione; a che io risposi come gli uomini che vogliono fare una cosa, conviene prima si preparino a saperla fare, per potere poi operarla quando l’occasione lo permetta. Se io saprei ridurre la milizia ne’ modi antichi o no, io ne voglio per giudici voi che mi avete sentito sopra questa materia lungamente disputare; donde voi avete potuto conoscere quanto tempo io abbia consumato in questi pensieri, e ancora credo possiate immaginare quanto disiderio sia in me di mandargli ad effetto. Il che se io ho potuto fare, o se mai me ne è stata data occasione, facilmente potete conietturarlo. Pure per farvene più certi, e per più mia giustificazione, voglio ancora addurne le cagioni; e parte vi osserverò quanto promissi di dimostrarvi: le difficultà e le facilità che sono al presente in tali imitazioni. Dico pertanto come niuna azione che si faccia oggi tra gli uomini, è più facile a ridurre ne’ modi antichi che la milizia, ma per coloro soli che sono principi di tanto stato, che potessero almeno di loro suggetti mettere insieme quindici o ventimila giovani. Dall’altra parte, niuna cosa è più difficile che questa a coloro che non hanno tale commodità. E perché voi intendiate meglio questa parte, voi avete a sapere come e’ sono di due ragioni capitani lodati. L’una è quegli che con uno esercito ordinato per sua naturale disciplina hanno fatto grandi cose, come furono la maggior parte de’ cittadini romani e altri che hanno guidati eserciti; i quali non hanno avuto altra fatica che mantenergli buoni e vedere di guidargli sicuramente. L’altra è quegli che non solamente hanno avuto a superare il nimico, ma, prima ch’egli arrivino a quello, sono stati necessitati fare buono e bene ordinato l’esercito loro, i quali sanza dubbio meritono più lode assai che non hanno meritato quegli che con gli eserciti antichi e buoni hanno virtuosamente operato. Di questi tali fu Pelopida ed Epaminonda, Tullo Ostilio, Filippo di Macedonia padre d’Alessandro, Ciro re de’ Persi, Gracco romano. Costoro tutti ebbero prima a fare l’esercito buono, e poi combattere con quello. Costoro tutti lo poterono fare, sì per la prudenza loro, sì per avere suggetti da potergli in simile esercizio indirizzare. Né mai sarebbe stato possibile che alcuno di loro, ancora che uomo pieno d’ogni eccellenza, avesse potuto in una provincia aliena, piena di uomini corrotti, non usi ad alcuna onesta ubbidienza, fare alcuna opera lodevole. Non basta adunque in Italia il sapere governare uno esercito fatto, ma prima è necessario saperlo fare e poi saperlo comandare. E di questi bisogna sieno quegli principi che, per avere molto stato e assai suggetti, hanno commodità di farlo. De’ quali non posso essere io che non comandai mai, né posso comandare se non a eserciti forestieri e a uomini obligati ad altri e non a me. Ne’ quali s’egli è possibile o no introdurre alcuna di quelle cose da me oggi ragionate, lo voglio lasciare nel giudicio vostro. Quando potrei io fare portare a uno di questi soldati che oggi si praticano, più armi che le consuete, e, oltra alle armi, il cibo per due o tre giorni e la zappa? Quando potrei io farlo zappare o tenerlo ogni giorno molte ore sotto l’armi negli esercizi finti, per potere poi ne’ veri valermene? Quando si asterrebbe egli da’ giuochi, dalle lascivie, dalle bestemmie, dalle insolenze che ogni dì fanno? Quando si ridurrebbero eglino in tanta disciplina e in tanta ubbidienza e reverenza, che uno arbore pieno di pomi nel mezzo degli alloggiamenti vi si trovasse e lasciasse intatto come si legge che negli eserciti antichi molte volte intervenne? Che cosa posso io promettere loro, mediante la quale e’ mi abbiano con reverenza ad amare o temere, quando, finita la guerra, e’ non hanno più alcuna cosa a convenire meco? Di che gli ho io a fare vergognare, che sono nati e allevati sanza vergogna? Perché mi hanno eglino ad osservare che non mi conoscono? Per quale Iddio, o per quali santi gli ho io a fare giurare? Per quei ch’egli adorano, o per quei che bestemmiano? Che ne adorino non so io alcuno, ma so bene che li bestemmiano tutti. Come ho io a credere ch’egli osservino le promesse a coloro che ad ogni ora essi dispregiano? Come possono coloro che dispregiano Iddio, riverire gli uomini? Quale dunque buona forma sarebbe quella che si potesse imprimere in questa materia? E se voi mi allegassi che i Svizzeri e gli Spagnuoli sono buoni, io vi confesserei come eglino sono di gran lunga migliori che gli Italiani; ma se voi noterete il ragionamento mio e il modo del procedere d’ambidue, vedrete come e’ manca loro di molte cose ad aggiugnere alla perfezione degli antichi. E i Svizzeri sono fatti buoni da uno loro naturale uso causato da quello che oggi vi dissi, quegli altri da una necessità; perché, militando in una provincia forestiera e parendo loro essere costretti o morire o vincere, per non parere loro avere luogo alla fuga, sono diventati buoni. Ma è una bontà in molte parti defettiva, perché in quella non è altro di buono, se non che si sono assuefatti ad aspettare il nimico infino alla punta della picca e della spada. Né quello che manca loro, sarebbe alcuno atto ad insegnarlo, e tanto meno chi non fusse della loro lingua. Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcuno ordine buono, e, per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli, non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati, e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene perdendo ignominiosamente lo stato, e sanza alcuno esemplo virtuoso. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sono state grandi e fiere, tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra e a’ capi suoi. Questo conviene che nasca che gli ordini consueti non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne. Né crediate mai che si renda riputazione alle armi italiane, se non per quella via che io ho dimostra e mediante coloro che tengono stati grossi in Italia; perché questa forma si può imprimere negli uomini semplici, rozzi e proprii, non ne’ maligni, male custoditi e forestieri. Né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare una bella statua d’un pezzo di marmo male abbozzato, ma sì bene d’uno rozzo. Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, è che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine, e non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a’ disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomini e principi eccellenti, erano i primi tra’ combattitori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo stato, e’ volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro, o in parte di loro, si poteva dannare troppa ambizione di regnare, mai non si troverrà che in loro si danni alcuna mollizie o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati e imbelli. Le quali cose, se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna. E perché voi, nel principio di questo nostro ragionamento, vi dolesti della vostra ordinanza, io vi dico che, se voi la avete ordinata come io ho di sopra ragionato ed ella abbia dato di sé non buona esperienza, voi ragionevolmente ve ne potete dolere; ma s’ella non è così ordinata ed esercitata come ho detto, ella può dolersi di voi che avete fatto uno abortivo, non una figura perfetta. I Viniziani ancora e il duca di Ferrara la cominciarono e non la seguirono, il che è stato per difetto loro, non degli uomini loro. E io vi affermo che qualunque di quelli che tengono oggi stati in Italia prima entrerrà per questa via, fia, prima che alcuno altro, signore di questa provincia; e interverrà allo stato suo come al regno de’ Macedoni, il quale, venendo sotto a Filippo che aveva imparato il modo dello ordinare gli eserciti da Epaminonda tebano, diventò, con questo ordine e con questi esercizi, mentre che l’altra Grecia stava in ozio e attendeva a recitare commedie, tanto potente che potette in pochi anni tutta occuparla, e al figliuolo lasciare tale fondamento, che potéo farsi principe di tutto il mondo. Colui adunque che dispregia questi pensieri, s’egli è principe, dispregia il principato suo; s’egli è cittadino, la sua città. E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai debiti tempi, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là con gli anni, me ne diffido. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»: Niccolò Machiavelli, Dell’arte della guerra, libro VII, in   Mario Martelli (a cura di), Niccolò Machiavelli. Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 387-389. Se nel Principe il rapporto fra virtù e fortuna era risolta in un sempre instabile e dinamico equilibrio, con le amare parole dell’anziano condottiero Fabrizio Colonna davanti ai suoi giovani uditori che chiudono L’Arte della guerra («E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»), suggello finale di tutto un ragionamento   dove sì si afferma che sarebbe possibile ripetere, anche se aggiornandole alle moderne esigenze, le virtù e le forme di combattimento dei romani solo se i principi lo volessero, ma i principi non vogliono o non ne sono capaci, Machiavelli ha ormai  risolto in favore della fortuna il dinamico ed instabile rapporto e L’arte della guerra può quindi essere considerata non solo un trattato polemologico (fra poco vedremo, al contrario di quanto ha detto parte della critica moderna, non viziato dal tarlo dell’imitazione dei modelli classici ma di pressante attualità) ma anche il resoconto di un’esistenza, quella del Segretario fiorentino, dove la  grande dottrina sull’arte dello Stato non era stata accompagnata da ugual fortuna nella vita e carriera personali. E veramente ascoltando le due videointerviste e gli interventi che del generale a riposo Marco Bertolini sono pubblicate sull’ “Italia e il Mondo” (le due videointerviste: Istituzioni e sovranità. La funzione dell’esercito italiano. Ne discutiamo con il generale Marco Bertolini ( videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’ Italia e il Mondo”,  19 aprile 2020, agli URL http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/ e                                                                                                            https://www.youtube.com/watch?time_continue=4138&v=U2r8nvufsss&feature=emb_logo, e vista l’importanza del documento  successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge  e https://ia601405.us.archive.org/32/items/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge/y2mate.com%20-%20esercito%2C%20identit%C3%A0%20e%20interesse%20nazionali.%20Una%20conversazione%20con%20il%20Generale%20Marco%20Bertolini_U2r8nvufsss_360p.mp4Intervista al generale Marco Bertolini. Il concetto di sovranità e la sua declinazione in politica (videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il Mondo”, 23 maggio 2019, agli URL originari  http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale                                                                          e https://www.youtube.com/watch?time_continue=694&v=65AUs7rdmZM&feature=emb_logo; successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive, generando gli URL  https://archive.org/details/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina                                                                                                                   e                                      https://ia801504.us.archive.org/15/items/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina/y2mate.com%20-%20intervista%20al%20Generale%20Marco%20Bertolini_La%20sovranit%C3%A0%20e%20la%20sua%20declinazione%20in%20politica_65AUs7rdmZM_360p.mp4. Mentre per quanto riguarda i documenti scritti, all’ URL dell’ “Italia e il Mondo” http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, congelamento Wayback Machine  https://web.archive.org/web/20200429143150/http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, si può prendere visione di Marco Bertolini,  Considerazioni in tema di Forze Armate, in “L’Italia e il Mondo”, 15 aprile 2020;   Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini ( intervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il mondo”, 25 gennaio 2020;  Marco Bertolini, Salvate il soldato  Esposito,  in  “L’Italia e il Mondo” 25 febbraio 2019; Caos migranti. Politica in Africa e caos in Libia. Tutte le colpe della Francia (intervista al generale Marco Bertolini a cura di Paolo Vites), in “L’Italia e il Mondo” 25 giugno 2018 ma originariamente su “Il sussidiario.net. il quotidiano approfondito” 23 giugno 2018, all’URL https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503184858/https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/ e  Marco Bertolini, Ripristino della leva, in “L’Italia e il Mondo” 6 settembre 2018; Idem, Geopolitica spietata, in “L’ Italia e il Mondo” 31 dicembre 2016. N. B. : anche presso  http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini è possibile raggiungere le due videointerviste consultabili presso http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/  e http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale) le assonanze fra la Stimmung (ed anche fra i contenuti) dell’ Arte della guerra con questo corpus pubblicato sul presente blog sono veramente suggestive andando, in entrambi i casi, ben al di là delle indicazioni tecnico-operative necessarie a comandare un apparato militare, ma affermando l’inscindibile legame fra la tecnicalità operativa nell’organizzare lo strumento militare e/o dispiegarlo sul campo di battaglia con il fattore politico, morale e psicologico che ne è il necessario presupposto. Riassunte compendiosamente le idee espresse nel succitato corpus dal generale Marco Bertolini (e che trovano una sorta di loro summa nell’ultima succitata recente  intervista magistralmente condotta da Giuseppe Germinario) sono le seguenti: 1) contrariamente a quanto si è voluto far credere da parte dell’italica – e politicamente  interessata – incultura militare un esercito costituito solo da un piccolo numero di professionisti (come quello che si voluto far diventare l’esercito italiano) è una totale assurdità. La guerra non può essere fatta solo da ristrette élite di corpi ultraspecializzati, dietro (o meglio: davanti) a loro ci deve essere sempre un’ingente massa d’urto; e se va da sé che se questa massa d’urto non può più essere la classica indistinta “carne da cannone” modello guerre napoleoniche o prima guerra mondiale, è ancora più assurdo che la guerra possa essere un affare riservato a qualche corpo ultraspecializzato e/o ultratecnologizzato; 2) conseguentemente a questo primo indiscutibile assunto, con l’abolizione nel nostro paese della servizio militare di leva, nell’esercito italiano è iniziato un inarrestabile declino caratterizzato da A) assoluta impossibilità di essere una reale e credibile difesa dei confini nazionali ma anche di fungere da strumento operativo per supportare, anche se solo a livello di deterrenza e come risorsa di ultima istanza,  la politica estera del nostro paese, B) visti gli esigui numeri conseguiti attraverso la “professionalizzazione” dell’esercito, impossibilità di effettuare un efficace turnover e quindi, in ultima istanza, con conseguente  graduale ed inarrestabile degrado professionale di questi professionisti per una professione, quella delle armi, che tutte le qualità umane richiederebbe, tranne quella di avere uomini da impiegare sul campo con la pancetta dell’impiegato e con gli acciacchi dell’età (con altrettanto conseguente deleteria tendenza da parte di costoro a sindacalizzarsi, il che confligge col più elementare concetto di gerarchia militare), C) vista la reale ed effettiva de professionalizzazione di questi “professionisti”, loro impiego improprio in funzioni di supporto alle forze dell’ordine, cosa in sé non sbagliata in linea di principio ma assolutamente sbagliata nei modi con cui vi si è massicciamente ricorsi in Italia perché, così facendo, si riducono ancor di più i momenti addestrativi di questi professionisti; 3) importanza assoluta nel mestiere delle armi, dal più umile fante alle più alte gerarchie, del fattore etico-morale di coloro che vi si dedicano. Torniamo all’Arte della guerra. I due snodi  sui cui ruota tutto il trattato polemologico machiavelliano sono la ordinanza e il deletto, vale a dire la leva obbligatoria e la scelta e/o addestramento di questi uomini  provenienti dalla leva obbligatoria nei diversi compiti, dove nell’Arte della guerra viene cristallinamente sottolineato che la successiva cernita da questa originaria massa umana proveniente dalla leva obbligatoria deve tenere nel massimo conto la componente etica-morale del combattente, cosa che viene altrettanto cristallinamente sottolineata e ripetuta ad ogni piè sospinto anche nel corpus del generale Bartolini pubblicato sull’  “Italia e il Mondo” e che costituisce, come è di tutta evidenza, il vero e proprio endoscheletro di tutta l’argomentazione illustrata nei precedenti punti. Orti Oricellari, l’accademia filosofico-politica di Palazzo Ruccellai nata nel clima  di un tardo Rinascimento che ha intrapreso la via di inarrestabile decadenza politica e civile e che a questa decadenza cercava di reagire  e in cui il protagonista indiscusso di questo tentativo di reazione fu  Machiavelli e dove il Segretario fiorentino aveva ambientato il suo trattato sull’Arte della guerra che ha  la forma letteraria di un dialogo svolto, appunto, nell’ameno giardino di Palazzo Ruccellai fra Fabrizio Colonna (capitano di ventura dell’epoca realmente esistito ma che, nella realtà, dietro il quale si celava la figura reale di Niccolò Machiavelli, che proprio negli incontri negli Orti Oricellari con i suoi giovani discepoli aveva concepito il suo trattato) e i suoi giovani ascoltatori, e un blog di geopolitica del XXI secolo, “L’italia e il Mondo” dove, nonostante le incommensurabili differenze nelle tecniche comunicative e di  sociabilità fra questi due luoghi di elaborazione politica distanziati da cinque secoli si cerca di far rivivere quella tradizione di realismo politico repubblicano che fiorito in quel tardo Rinascimento diede inizio alla nostra modernità politica, che idealmente ed operativamente ebbe il suo terminus a quo da Machiavelli e non da Hobbes e/o Locke come vorrebbe la vulgata liberale. La giustificazione di questo impegnativo assunto viene anche dalle parole del generale Bertolini, il cui potere iconoclastico rispetto alle attuali “pappe del cuore” del paradigma politico e culturale (e mitologico) democraticisitico-liberal-liberista ci piace vedere riassunto nella seguente sua  affermazione tratta da Geopolitica spietata, pubblicata sull’ “Italia e il Mondo” in data 31 dicembre 2018: «L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici.» e che nella rude parresia di un vigoroso (e combattivo e conflittualistico) repubblicanesimo civile di stampo machiavelliano sembrano quasi fare da contraltare  ai mesti (e totalmente giustificati) scambi di battute dell’ultima intervista di Giuseppe Germinario a Marco Bertolini, nei quali si dispera sulla possibilità di invertire la triste situazione del nostro paese. Ma come Fabrizio Colonna (cioè Machiavelli) disperava nell Arte della guerra di compiere questo revirement, la composizione dellopera avvenuta attraverso i colloqui degli ameni giardini Orti Oricellari ed anche, si parva licet compenere magnis, il nostro continuamente proporre le ragioni di un repubblicano realismo politico, una comunicazione ed elaborazione in cui i qualificati interventi del generale Bertolini costituiscono una preziosa componente, smentiscono questo pessimismo, che può essere sì della ragione ma solo se si premetta, come fa Bertolini, che la ragione non è mai una gelida analisi avulsa dai valori ma un processo dinamico e creatore in cui i valori morali (e quindi anche politici, se per politica si intende unazione pubblica guidata dalla più profonda morale machiavelliana sempre animata alledificazione e rafforzamento, a differenza e con segno polarmente contrario dalle attuali democrazie rappresentative, di una vitale e non retorica Res Publica) rivestono massima ed unica importanza.  Di questo era consapevole Machiavelli, di questo era consapevole Clausewitz (profondo conoscitore del Segretario fiorentino: sullimportanza nel riconoscimento  nel pensiero clausewitziano dello strettissimo legame fra guerra e politica,  cfr. Peter Paret, Machiavelli, Fichte, and Clausewitz in the Labyrinth of German Idealism, “Ethics & Politics”, Vol. XVII(3), 2015,  pp. 78-95, all’ URL  https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E%26P_2015_3_PARET.pdf, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503220857/https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E&P_2015_3_PARET.pdf/) e di questo è assolutamente consapevole anche Bertolini. Fosse sole per questo gli dobbiamo grande gratitudine e, assieme a questo riconoscente sentimento, una profonda fiducia su un comune e fattivo cammino contro la la pandemia da  Cthulhu morbus  dello  spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative e   di cui le ultime vicende epidemiologiche ma soprattutto politiche e giuridiche del coronavirus non sono che lultima e più importante manifestazione e sintomo.  Ma di questo, ed anche sempre sostenuti da un retto pensiero polemologico (e quindi politico) che fu di Machiavelli, di Clausewitz e oggi rivive in Bertolini, fra non molto riparleremo.

Massimo Morigi – 4 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

Istituzioni e sovranità! La funzione dell’Esercito Italiano. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini

Da troppi decenni l’Esercito Italiano fatica a godere di quella considerazione indispensabile a garantire nel migliore dei modi l’esercizio della sovranità nazionale, la cura degli interessi nazionali stessi e la costruzione di una identità e coesione più solida del popolo italiano. Sempre presente nelle ricorrenti situazioni di emergenza interna al paese e costantemente impegnato in numerosi teatri operativi internazionali, questi ultimi a volte giustificati dalla presenza di interessi nazionali, a volte trascinato da strategie estranee, spesso viene relegato al riconoscimento di una funzione ausiliaria. Un atteggiamento che inibisce il peso politico di una istituzione fondamentale nella costruzione di una coesione nazionale lungi dall’essere ancora compiuta. La crisi dell’ideologia globalista sta riproponendo nella giusta dimensione il ruolo degli stati nazionali e la affermazione delle prerogative loro proprie. Le classi dirigenti italiane non sembrano ancora consapevoli delle implicazioni di questo cambio di paradigma. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini_Giuseppe Germinario

*Il Generale di Corpo d’Armata (ris.), Marco Bertolini, è nato a Parma il 21 giugno 1953. Figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein, dal 1972 al 1976, Marco Bertolini ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, è stato assegnato al il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle Forze Armate italiane – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate. Attualmente è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.

L’intervista ha preso spunto dall’articolo apparso sul sito www.ordinefuturo.it , link https://www.ordinefuturo.it/2020/04/14/considerazioni-in-tema-di-forze-armate/?fbclid=IwAR1-mMCh4_OTj74yS8-gPHsw7oYi9qHcsfmTY3iVCmX_dpwd0N9CbGnDYcY , a sua volta ripreso dal nostro sito il 15 aprile scorso

Intervista a Gérald Olivier – Make America Great Again: tempesta alla Casa Bianca

Una interessante intervista sulla figura di Donald Trump, pur con qualche approssimazione soprattutto nella valutazione di Obama_Giuseppe Germinario

Tra qualche mese, gli americani torneranno alle urne per eleggere il loro nuovo presidente. Donald Trump potrebbe essere quello. Riflessioni su una personalità, un viaggio e un mandato molto insolito.

Intervista di Étienne de Floirac.

 

Qual è stata la carriera professionale e politica di Donald Trump? 

Donald Trump è un imprenditore americano che ha fatto fortuna nel settore immobiliare e nella costruzione di casinò. Cresciuto a Brooklyn, è figlio di un ricco imprenditore immobiliare. Non è partito dal nulla, ma è riuscito a far crescere questa fortuna. Si distinse costruendo edifici con una certa originalità, queste famose torri (le Trump Towers ). Negli anni ’90 e 2000, divenne una star dei reality grazie a un programma chiamato ”  L’apprendista  “, l’Apprenti in francese, in cui interpretava il proprio ruolo di dirigente d’azienda.

 

Quindi è noto al pubblico da diversi anni?

È una personalità negli Stati Uniti, un personaggio pubblico dal 1970. In un primo momento cicoscritto al mercato di New York dove apparteneva a un’élite sociale ed economica, divenne noto in tutto il territorio Americano, grazie alla televisione. La sua trasmissione ebbe molto successo nella America profonda.

Ma Trump è principalmente qualcuno che era fuori dal mondo politico, sebbene osservasse la scena politica. È un americano nutrito del latte americano, con un’identità profondamente americana, ancorato in questo spazio di New York e con l’idea che guadagnare denaro sia un obiettivo legittimo. E che quelli che hanno più di altri hanno fatto di meglio. È un bon vivant, un uomo sessuato, diciamo, di una generazione che forse ha comportamenti che le persone oggi non riconoscono più. Ha sempre visto l’America come un paese generoso nei confronti dei propri cittadini e del resto del mondo.

Perché è stato coinvolto in politica?

Notò, già alla fine degli anni ’70, che l’America si sentiva in colpa per il suo posto nel mondo e che non stava ottenendo i benefici che il suo potere economico avrebbe dovuto giustificare. La molla fu la presidenza di Jimmy Carter dal 1976 al 1980, che fu una delle peggiori della storia americana. È arrivato subito dopo lo scandalo Watergate , il fallimento politico della presidenza di Richard Nixon e anche, dopo la sconfitta in Vietnam , la prima guerra che gli Stati Uniti abbiano mai perso. Il paese stava attraversando un vera situazione di malessere.

Gli Stati Uniti emersero vittoriosi dalla seconda guerra mondiale e come l’unica superpotenza in grado di prendere il posto delle grandi potenze coloniali, Francia e Inghilterra, per stabilire un nuovo ordine mondiale. Questo ordine prevedeva che la macchina economica americana funzionasse alla massima velocità grazie all’energia a basso costo, fornita all’epoca dall’Arabia Saudita e dall’Iran, che i suoi prodotti vendevano in tutto il mondo ad alleati che erano anche partner commerciali; in cambio, gli Stati Uniti difendevano quello che allora veniva chiamato il mondo libero, vale a dire i paesi occidentali, contro la minaccia sovietica.

 

Quindi fu la perdita di potere degli Stati Uniti a spingere Donald Trump a rivolgersi agli affari di stato

Donald Trump osservò che il potere americano imponeva dazi sugli Stati Uniti nei confronti dei suoi alleati, grandi o piccoli, e nei confronti del resto del mondo, in particolare attraverso l’aiuto allo sviluppo. In cambio, i paesi che hanno approfittato di questa generosità erano spesso ingrati e si opponevano agli Stati Uniti nelle grandi organizzazioni internazionali. New York era la sede delle Nazioni Unite e alle Nazioni Unite, in particolare all’interno della sua Assemblea Generale, il nome dell’America veniva sbeffeggiato ogni giorno. A Trump non piaceva. Quindi iniziò a ribellarsi e pensò sempre di più a entrare in politica.

Nel 2000 ha corso per il partito della riforma , ma non ha funzionato. È tornato nel 2016, dopo aver esitato nel 2012 . Il 2016 è stato il momento giusto. L’America stava uscendo da otto anni di presidenza di Obama e molti americani, specialmente nella profonda America, non avevano affatto apprezzato la politica di questo presidente, troppo internazionalista e troppo a sinistra ai loro occhi.

Donald Trump si presenta come anti-Obama

Questo grande momento liberatorio del 2008, quando un afroamericano divenne presidente degli Stati Uniti, si trasformò in una grande delusione . Per quelli che avevano votato per lui e speravano in qualcuno che “cambia il mondo”, cosa che non ha fatto affatto. Una delusione anche per tutti coloro che non avevano votato per lui, ma che erano pronti a riconoscere in lui il presidente di tutti gli americani, e che vedevano un personaggio che non aveva a cuore ciò che avrebbero definito l’interesse primario del loro paese.

Obama era un globalista e un anti- eccezionalista . Era convinto dell’inevitabile declino economico degli Stati Uniti e voleva gestire questo declino riportando l’America in linea. Obama ha creato un doppio shock, sia tra democratici che avversari, e Donald Trump è giunto tra quelli che hanno maggiormente attaccato Obama.

 

Si propone dunque come essere quello che vuole ripristinare l’autorevolezza degli Stati Uniti, dopo un periodo travagliato 

Donald Trump ha inseguito Obama per annullare ciò che aveva messo in atto. Ammira Ronald Reagan e condivide molto di lui, sia nella sua visione del mondo che nel modo di fare politica. Attraverso la prima presidenza Bush , poi Clinton , poi il figlio Bush e infine Obama, aveva visto l’America perdere il suo potere, perdere il suo prestigio e la classe media americana perdere il potere d’acquisto e si presentò per cambiare tutto.

 

Perché, durante le elezioni del 2016, la classe media francese è cresciuta come un uomo contro Donald Trump?

In primo luogo, nessun candidato repubblicano alle elezioni presidenziali americane per quarant’anni ha ricevuto un trattamento favorevole o addirittura imparziale dalla stampa francese. Torniamo a Ronald Reagan. Se leggi Le Monde dagli anni 76 a 79 e guardi gli articoli a lui dedicati, è stato ritratto come un pazzo, un cowboy, un uomo pericoloso. Era quindi la sua visione, quella all’epoca del primo quotidiano in Francia.

 

Ma è vero che Donald Trump, in quanto presunto provocatore, non attira naturalmente le simpatie dei media 

Trump è un anti politicamente corretto , sotto tutti gli aspetti, e più sulla forma che sulla sostanza. Siamo in un mondo in cui i discorsi sono molto controllati e il comportamento codificato in nome della protezione delle minoranze. Questo mondo è nuovo per un’intera generazione, inclusa quella di Trump. Quindi continua ad agire con i codici che hanno preceduto questo mondo. E inevitabilmente scioccante, perché usa un vocabolario che non è più considerato tollerabile.

Quindi, siamo in un mondo globalizzato, perché il commercio e l’immigrazione colpiscono tutti i continenti, l’apertura di un certo numero di frontiere e il concetto stesso di “rifugiato” a livello internazionale, fanno sì che le popolazioni possano muoversi rapidamente. , in un mondo in cui il ravvicinamento reciproco richiede rispetto per gli altri e il famoso “vivere insieme”. Nella globalizzazione tutte le persone e tutte le culture sono uguali. L’ideologia dei diritti umani applica i concetti filosofici occidentali a tutto il mondo, attraverso una forma di standardizzazione egualitaria. Donald Trump non la vede così. Per lui, ci sono paesi ricchi e paesi poveri, paesi liberi e paesi in cui le persone non lo sono, paesi che contribuiscono al benessere generale e paesi che beneficiano della generosità degli altri. Per Donald Trump, esiste una gerarchia economica che funge anche da gerarchia politica. Gli adulti parlano, li ascoltiamo. I più piccoli possono parlare, ma soprattutto devono ascoltare quelli più grandi. La visione “umanista” e internazionalista “rivendica esattamente il contrario e Trump si oppone a questa visione . Non smette mai di imporre il diritto che la sua forza gli concede mentre gli internazionalisti credono solo nella forza del diritto internazionale.

 

Trump è tutt’altro che un “uomo del suo tempo” 

Trump non appartiene al mondo della globalizzazione e quindi avrà questo mondo contro di lui. Il suo modo di presentare gli interessi dell’America va prima contro il pensiero dominante. Trump è un anti-globalista . È nazionalista . Crede nei confini nazionali, crede nelle nazioni e crede che la nazione americana sia una nazione eccezionale, quindi superiore alle altre. Questa gerarchia di popoli è contraria ai dogmi universalistici, relativisti ed egualitari dell’ideologia dei diritti umani.

Come si qualificano e analizzano la politica economica di Donald Trump?

Esiste una dottrina di Trump in economia, ma anche nelle relazioni internazionali. Due slogan hanno consentito all’elezione di Trump: ”  America first  ” e ”  Make America Great Again (Restituire la sua grandezza all’America). Cosa significa questo? Che per Trump, la responsabilità di un politico americano è di prendersi cura dell’America prima di occuparsi del resto del mondo. La politica di Barack Obama era, al contrario, estremamente altruistica. Ha beneficiato il resto del mondo più dell’America. Nella visione di Obama, l’America, essendo il paese più ricco del mondo, ha il dovere di aiutare i più poveri. Trump lo nega. Vede il mondo come conflitto, persino caotico, un mondo di rivalità, in cui domina l’interesse istintivo per la conservazione della specie e di se stesso. La sua visione delle relazioni di potere è “hobbesiana”, si potrebbe dire. Da lì, il ruolo di un politico negli Stati Uniti è di lavorare nell’interesse del suo paese,

 

Donald Trump sembra anche essere nostalgico di un passato defunto che avrebbe dato la sua grandezza agli Stati Uniti

Trump è nato nel 1946, aveva 20 anni nel 1966 e quindi trascorse la sua adolescenza in un periodo in cui l’America era molto prospera. Era il tempo di Elvis Presley , della nascita del rock’n’roll, che segnava la liberazione di tutta questa esuberante, energica giovinezza, che voleva e poteva godersi la vita. All’epoca, sei andato all’università a 18 anni, sei partito a 22 anni, poi una società ti ha assunto senza nemmeno dover inviare un CV e hai ricevuto uno stipendio che ti ha permesso di acquistare una casa dopo sei mesi. Non ti sei preoccupato per il futuro, perché il denaro non era un problema. Alla fine degli anni ’60, entrammo in una fase di sovrapproduzione e crisi culturale.

Donald Trump conobbe l’influenza e l’abbondanza americana e gli Stati Uniti erano un paese che era in grado di far rispettare la sua legge. Guarda la crisi di Suez in cui le vecchie potenze coloniali, Francia e Inghilterra intendono impadronirsi del canale di Suez. Ma il presidente americano Dwight Eisenhower (è un repubblicano, non un democratico) mette fine a questo.

 

A quel tempo, anche gli Stati Uniti erano coinvolti nella guerra fredda. Questo ha segnato il giovane Trump?

Il potere americano è sfidato da un solo paese, l’Unione Sovietica. Ma dalla crisi missilistica cubana del 1962 , il mondo capì o avvertì che i sovietici avevano perso. L’America, con il suo programma spaziale Apollo montato da Kennedy, è in grado di mandare sulla luna un uomo, e persino diversi, in meno di dieci anni. La sensazione generata da questa impresa è che nulla è impossibile per l’America.

Trump è cresciuto in questa America e vorrebbe rianimare questa epoca d’oro. Tuttavia, quando guarda oggi all’America, osserva problemi di droga, armi, disoccupazione, famiglie distrutte, pensioni insufficienti, cure sanitarie troppo costose, integrazione e invecchiamento e infrastrutture insufficienti per una popolazione di 330 milioni. Scopre anche problemi legati all’emergere di minoranze sessuali di cui non eravamo a conoscenza prima. E vede un’America che ha perso la sua lucentezza. Quello che Donald Trump sta cercando di fare è semplicemente ritrovare l’America della sua giovinezza. Essendo un uomo d’affari, non ha alcun freno politico o ideologico. È un capitalista e sa che se liberiamo l’economia, ad esempio attraverso regolamenti più flessibili, diventa un creatore di posti di lavoro e quindi una fonte di crescita … In effetti, le persone avviano attività perché non devono più preoccuparsi di tali standard, restrizioni o limiti. La macchina economica è qualcosa di molto semplice per Trump e, come uomo d’affari, sa come farlo funzionare.

 

Sul fronte ambientale, perché gli Stati Uniti decidono di non giocare al gioco dell’ecologia, che è, per molti paesi, il problema principale negli anni a venire?

Ci sono due ragioni. La prima ragione è che Trump non è convinto della realtà del riscaldamento globale . Il secondo è che l’accordo di Parigi era molto svantaggioso per l’economia americana. È andato contro gli obiettivi di Donald Trump.

Ma cos’è il riscaldamento globale? Abbiamo osservato per un certo numero di anni che nel Nord e nell’Artico si sta verificando lo scioglimento della banchisa e possiamo vedere che qua e là le temperature sono più alte. Molti affermano che questo riscaldamento globale è il risultato delle emissioni di CO2, che sono il prodotto dei paesi industriali. Questi stati devono quindi smettere di essere paesi industrializzati.

Trump mette in discussione questo ragionamento, perché parlare del clima quando si guarda a tre o quattro decenni non ha senso. Siamo in un universo che ha quattro miliardi di anni. Ci sono stati periodi più caldi e più freddi in passato, anche in periodi in cui la Terra non era popolata. Quindi dire che è colpa delle industrie e delle emissioni di CO2 è, per lui, demenziale.

Quindi il tema del riscaldamento globale sarebbe puramente ideologico

Quando emerge questa tesi? Nel 1992, al vertice di Rio . E il 1992 è il primo anno dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che era la potenza nucleare in grado di resistere agli Stati Uniti e trascinare il mondo in una guerra apocalittica, un “armageddon termo-nucleare”. Questa minaccia è scomparsa con la fine dell’Unione Sovietica e la Guerra Fredda? Ma dobbiamo credere che le persone devono sentire una minaccia, perché immediatamente questa paura è stata sostituita da un’altra paura millenaria, quella del riscaldamento globale che ci assicura che la nostra terra sarà invivibile entro pochi decenni se non facciamo nulla.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti sono emersi come i grandi vincitori della guerra fredda e per un certo periodo sono diventati, secondo il neologismo di Hubert Védrine, un ”  iperpotere  “. Per tutti i seguaci dell’internazionalismo, era importante contenere questo potere e favorire l’emergere di paesi che potrebbero competere con esso. La tesi sul riscaldamento globale è tempestiva, perché richiede ai paesi ricchi di ridurre le loro emissioni di CO2 e quindi la loro crescita, ma lascia i paesi poveri ed emergenti liberi di agire in nome del loro diritto allo sviluppo.

 

Trump si oppone quindi alla riduzione delle emissioni di CO2, che sono un mezzo per indebolire economicamente gli Stati Uniti

Per Trump, il riscaldamento globale è solo un concetto ideologico pratico per contenere il potere e la crescita dei paesi industriali, con in testa l’America e favorire quelli dei paesi più poveri. Come presidente degli Stati Uniti con a cuore gli interessi del suo paese, non è naturalmente propenso a seguire le ingiunzioni di coloro che difendono questa tesi.

In secondo luogo, se il riscaldamento globale è un problema globale, richiede soluzioni globali. Che cosa è stato osservato dal 1997 e il famoso protocollo di Kyoto , di cui è erede quello di Parigi? Osserviamo che il primo paese che emette CO2, la Cina , è esente da obblighi. Secondo l’accordo di Parigi, la Cina non ha nessun obbligo prima del 2030 e da allora in poi i suoi impegni saranno puramente volontari … D’altra parte, gli Stati Uniti, un paese ricco e industriale, sono i primi a essere colpiti da restrizioni di ogni tipo . Quindi Trump ha visto nell’accordo di Parigi come un modo per “spennare” l’America. Ha avvertito nella sua campagna elettorale che sarebbe uscito da questo accordo e lo ha fatto. Ha mantenuto la sua promessa, per la quale non possiamo biasimarlo.

 

Passiamo alla politica estera. Trump sembra meno “andare in guerra” rispetto al suo predecessore. È questo un punto di svolta nella politica estera americana?

Trump non andrà in guerra. Ha spesso affermato di essere contro la guerra in Iraq lanciata nel 2003 da George W. Bush. Ma è pronto a fare la guerra se è nell’interesse dell’America. Esiste una dottrina di Trump, quella della pace con la forza, vale a dire che l’unico modo per evitare la guerra è mettere al passo i paesi pericolosi. Questo si chiama dissuasione.

 

Donald Trump desidera mantenere la presenza americana nei tradizionali teatri delle operazioni?

Ci sono ottocento basi militari americane nel mondo e non si pone di chiuderle. Tuttavia, Trump ritiene che gli Stati Uniti si siano impegnati in numerosi teatri per proteggere paesi o risorse e che tali impegni costino più di quanto dichiarino. I paesi protetti a volte sono ingrati, il che lo contraria. Ma è pronto a mantenere questo sistema in atto, perché protegge anche gli Stati Uniti, la cui difesa inizia ben oltre i suoi confini.

A differenza dei neo-conservatori che credono che la democrazia sia un sistema esportabile che pacificherebbe il mondo, Trump crede che ci siano paesi che sono semplicemente impermeabili agli ideali democratici. Non rischierà mai la vita americana per costruire la felicità di alcune persone contro la loro volontà. D’altra parte, andrà sempre a difendere gli interessi americani.

 

Qual è il lato coperto delle carte della sua politica in Iran?

L’Iran è un regime islamico emerso da una rivoluzione avvenuta nel 1979 e che ha cercato di estendere il suo modello all’intera regione, diventando la principale forza destabilizzante in Medio Oriente. Trump ritiene che l’Iran costituisca una minaccia e che dobbiamo affrontarla e contenerla. A differenza di Obama, non vuole venire a patti con l’Iran. Non si fida dei suoi leader e non vuole che un tale regime diventi una potenza nucleare. Non andrà in guerra contro l’Iran, ma proverà a soffocarlo dall’interno con sanzioni. Se è costretto a condurre operazioni militari ad hoc contro l’Iran, le eseguirà senza ulteriori motivi.

L’assassinio di Souleimani va in questa direzione o segna l’inizio di un vero conflitto armato?

L’ assassinio di Souleimani è un atto fondamentale, perché la persona designata è una personalità di spicco nel suo paese. Il modo in cui è stato effettuato l’attacco mostra ai leader iraniani che non sono al sicuro da nessuna parte. Se gli Stati Uniti vorranno mai sbarazzarsi di questo o quello, sarà fatto. Ciò che gli iraniani non sono in grado di fare in cambio. Tuttavia, questo omicidio è arrivato in risposta alle molteplici provocazioni di cui gli iraniani sono stati colpevoli per due anni nella regione, nonché agli attacchi organizzati contro l’ambasciata americana a Baghdad e alla morte di un cittadino americano durante un di questi attacchi. Trump voleva inviare un messaggio chiaro agli iraniani, così come agli americani. Un altro Bengasi sotto il suo mandato non sarebbe possibile.

 

Andiamo in Francia. Alla luce della storia e in particolare della guerra d’indipendenza, Francia e Stati Uniti intrattengono relazioni amichevoli?

Esistono legami storici tra Francia e Stati Uniti. Gli americani hanno partecipato alla rivoluzione francese, in particolare con Thomas Paine, entrambi eletti alla camera dei rappresentanti e deputati alla Convenzione. Al contrario, Lafayette e Rochambeau aiutarono le truppe di Washington . Esistono anche legami ideologici: la Francia, come gli Stati Uniti, è un paese rivoluzionario con un’ideologia universalista. Entrambi credono di essere alla radice della democrazia moderna. Gli Stati Uniti sono venuti due volte per liberare la Francia dall’aggressione tedesca. Vai in Normandia per vedere il sacrificio di migliaia di americani per salvare la Francia e l’Europa. Quindi abbiamo un passato storico ricco e onorevole, di cui entrambe le parti sono orgogliose.

 

Ma le dottrine politiche di Trump e Macron sembrano essere l’opposto dell’altra

Tutto si oppone a loro, in effetti. C’è un’opposizione di generazione e cultura. Macron è un globalista ed è stato educato in un’altra epoca, con altri valori. Macron è un relativista. È qualcuno che è pronto a negare la propria cultura per accettare quella dell’altro. Trump è un nazionalista, orgoglioso della sua cultura, che non cercherà di imporlo agli altri, ma che chiederà a chiunque voglia diventare membro della sua nazione, quindi immigrati, di adottare la sua cultura. Crede nell’assimilazione, la vecchia dottrina francese ora abbandonata con le deplorevoli conseguenze che osserviamo. Quindi tutto si oppone a loro, ma da un punto di vista strategico, c’è una lotta comune contro il terrorismo islamico. L’Europa è molto più minacciata degli Stati Uniti, ma abbiamo uno spazio comune, perché l’islamismo radicale ha dichiarato guerra all’Occidente, senza alcun limite geografico, ideologico o religioso. L’America e la Francia appartengono a questo spazio giudeo-cristiano e hanno interessi comuni nel limitare questo terrorismo e la sua espansione, specialmente in Africa.

Oggi il Sahel è molto importante, perché è l’ultimo baluardo contro il territorio sub-sahariano che potrebbe essere sommerso dall’islamismo. La sola Francia in questo teatro può fare poco e Macron ha un bisogno maggiore di Trump che viceversa. Da un punto di vista economico e commerciale, gli Stati Uniti hanno capito che il potere economico del XXI  secolo sarà la Cina. I blocchi di potere si sono spostati e Trump sembra essere più preoccupato della Cina che per l’Europa.

 

Che dire delle relazioni russo-americane, specialmente dopo i sospetti di hacking delle elezioni americane da parte dei russi, quindi indirettamente, di Vladimir Poutine?

Ci sono punti in comune tra Putin e Trump . Il sistema russo è un sistema autoritario in cui il potere è centralizzato nelle mani del Presidente. Chi crede che le elezioni americane avrebbero potuto essere violate, deviate e influenzate da Mosca, deve essere molto generoso riguardo le capacità di Mosca di influenzare il gioco politico americano. È anche una scusa facile per coloro che hanno perso. Ci siamo avvicinati alle elezioni del 2016 come se fossero state vinte in anticipo. Donald Trump non aveva la possibilità di vincere. Quindi non ci aspettavamo che fosse in grado di farlo. Da lì, quando accade l’improbabile, può essere solo il risultato di imbrogli e interferenze esterne, rimane facile cercare un capro espiatorio, un ruolo che Putin ha svolto. Ma la spiegazione è più fantasia che realtà.

Putin è un personaggio che crede nel realismo nelle relazioni internazionali e che si rende conto che i due paesi, sebbene non si combatteranno più fisicamente, rimangono rivali economici e strategici. Il suo interesse è avere un avversario il più debole possibile. Mettere in dubbio la mente del tuo avversario, mettere qualcuno a capo del paese che è debole o che ha politiche a suo vantaggio è nell’interesse della Russia. Alla fine, Trump è stato legittimamente eletto da un particolare sistema elettorale ed è stato in grado di beneficiare delle peculiarità di questo sistema.

 

Ci sono reminiscenze della guerra fredda tra questi due paesi?

La guerra fredda si concluse nel dicembre 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica e la nascita della Federazione Russa. Trent’anni dopo, siamo ancora in un clima di guerra fredda negli Stati Uniti. Non vogliamo spostare le linee, e molti non vogliono che cambiamo il nemico, perché quel nemico è, se oso dire, pratico. Trump si rende conto che quello che Eisenhower ha definito il ”  complesso militare-industriale  “, un sistema in cui i due partiti, democratico e repubblicano, sono ugualmente coinvolti, farà di tutto per distruggere le speranze di riavvicinamento con la Russia.

In realtà, tuttavia, c’è molto da ammettere che questi paesi si avvicinino perché hanno punti di vista complementari.

Per quanto riguarda le imminenti elezioni presidenziali, cosa puoi fare per il mandato di Trump?

Trump vuole essere rieletto, è un candidato e può essere rieletto. Parte in una posizione favorevole, perché il suo bilancio è eccezionale. Nel 2016 non lo conoscevamo, non avevamo idea di cosa avrebbe fatto. Si potrebbero legittimamente porre domande. Alcuni avevano previsto un disastro ecologico e strategico, ma non è successo nulla di catastrofico. Al contrario, l’ America sta andando molto bene da un punto di vista economico. La disoccupazione non è mai stata così bassa. Gli americani, che sono persone sensibili e pragmatiche, sanno benissimo che la migliore politica sociale è, in realtà, una politica economica che genera una forte crescita. Hanno capito che non era nel loro interesse dipendere da un’amministrazione che ti dà l’elemosina, ma avere un vero lavoro, che ti permette di avere una famiglia, vederla prosperare e investire. Negli ultimi quattro anni, questa macchina economica ha funzionato a tutta velocità.

Donald Trump ha liberato il settore energetico , ha autorizzato nuovamente la ricerca di una serie di cose e ha tagliato i regolamenti. Usa la sua forza economica per costringere altri giocatori a venire e investire negli Stati Uniti. È qualcosa che solo lui può fare. Ha un record economico che, per il momento, è quindi estremamente brillante, soprattutto perché il mercato azionario non è mai stato così effervescente. Nel 2019 è cresciuto del 27%.

 

E il mercato azionario?

L’aumento degli indici di borsa rappresenta un considerevole potenziale arricchimento per l’americano medio. Bisogna rendersi conto che gli Stati Uniti hanno 330 milioni di abitanti e 130 milioni di portafogli. Un americano su tre ha investito nel mercato azionario. Questi portafogli azionari sono costituiti principalmente da piani di previdenza. Gli americani hanno il diritto di aprire un conto pensionistico individuale esente da imposta a condizione che non lo tocchi prima dei 60 anni. Alcuni di questi piani beneficiano della partecipazione del datore di lavoro. Se risparmi $ 50 al mese per la pensione, il tuo datore di lavoro deve depositare di tasca propria $ 50 al mese. Per un lungo periodo, questo può produrre molti soldi. Nonostante gli alti e bassi economici a lungo termine, il mercato azionario non scende. Oggi è al suo massimo e un aumento del 25% all’anno può rappresentare un guadagno di decine di migliaia di dollari per i risparmiatori americani.

Il mercato azionario è ai massimi livelli , la disoccupazione è al minimo, l’economia corre a tutta velocità. Gli americani vogliono che duri e sanno che se si scopre, è grazie a Donald Trump. Quindi sarà, per me, un incentivo per le persone a votare per lui.

 

Pensi che Donald Trump sarà di nuovo presidente l’anno prossimo? 

Distinguiamo. Quando osserviamo le cifre, vediamo che la demografia è favorevole ai democratici. Numericamente parlando, ci sono più americani che si identificano con il Partito Democratico che con il Partito Repubblicano. Ma Trump non è il partito repubblicano perché l’ha trasformato. Dietro Trump c’è una base che rimane motivata e mobilitata. La domanda è se Donald Trump è in grado di espandere questa base. Nel 2016, su quasi 130 milioni di voti, ci sono stati meno di centomila voti davvero decisivi. È molto poco Quindi le elezioni saranno nuovamente serrate. Perché Trump vinca, deve mobilitare le sue truppe e alcuni elettori democratici devono unirsi di nuovo a lui. È possibile e verosimilmente probabile. Ma nulla è deciso in anticipo.

Trump ha tutti i media mainstream contro di lui e non è riuscito a convincere le donne, specialmente le periferie e le giovani madri, o le minoranze etniche che continuano a votare per i democratici. Ma penso che ci sarà una defezione in questi due campi. Riuscirà a essere rieletto, ma sarà una battaglia molto difficile, focalizzata sulla mobilitazione che è, inoltre, un punto di forza dei repubblicani.

 

Chi sono i candidati che lo affrontano?

Per il momento, ci sono molti candidati democratici che contendono la nomination; Bernie Sanders , già candidato nel 2016, Joe Biden , ex vicepresidente ed ex senatore che è un democratico centrista, Elisabeth Warren , senatrice del Connecticut e radicale di sinistra, Amy Klobuchar , senatrice del Minnesota, Pete Buttigieg , un giovane sorto dal nulla sindaco di South Bend, Indiana, l’uomo d’affari Tom Steyer e, soprattutto, Michael Bloomberg , ex sindaco di New York. Al momento, non è chiaro quale di questi personaggi dovrà affrontare Trump.

 

Secondo te, quale sarebbe il risultato delle primarie democratiche?

Se è un personaggio di sinistra che vince, Bernie Sanders o Elisabeth Warren, Trump sarà rieletto a mani basse, perché l’America non è così di sinistra come questa gente. Se ha un democratico centrista, unificatore, con soldi e mezzi di comunicazione alle spalle, la battaglia sarà più dura, perché Trump è un personaggio divisivo. Per quanto il suo elettorato adori questa lotta, tanti elettori vorrebbero un’America pacifica.

 

La procedura di impeachment e il recente caso Biden l’hanno indebolita?

La rimozione avrà un impatto minimo. Gli americani capiscono che era un teatrino politico e che si trattava di un approccio destinato a fallire. Assolto dal Senato , Trump ora può tranquillamente dedicarsi alle elezioni. Sebbene il processo si sia svolto dopo il discorso sullo stato dell’Unione , che ha avuto luogo il 4 febbraio, il Presidente è comparso davanti al Congresso e alla nazione trionfante.

tratto da https://www.revueconflits.com/etats-unis-donald-trump-gerald-olivier/

Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini

Lo scenario libico e le condizioni che potrebbero rendere praticabile l’ipotesi di una forza militare di interposizione secondo l’autorevole punto di vista del generale Marco Bertolini, in una intervista tratta dal sito https://formiche.net/2020/01/libia-missione-pacificazione-bertolini/?fbclid=IwAR3AzgqDQQe6g9PS2BBufcJm2of0Hk9O3MAafHrqtkfIML5xkWmOru7Ojrc

Generale, dalla Conferenza di Berlino è arrivato il via libera per un comitato congiunto di supervisione sulla tregua. Basterà per evitare l’inasprimento del confronto sul campo?

È sicuramente un punto di partenza. Per ora ci dobbiamo accontentare. Haftar si sente militarmente forte per adesso, e il fatto che abbia accettato un comitato congiunto con il suo competitor per vigilare sulla tregua è di per sé positivo. Bisogna però vedere cosa accadrà nei prossimi giorni.

Non crede alla tregua?

Sul processo generale permangono molti dubbi. La situazione è fluida. Haftar è a un passo da Tripoli, nella periferia sud della città. Non vorrei che la tentazione di risolvere la questione prima che i turchi rafforzino il sostegno a Serraj giochi brutti scherzi.

C’è poi l’ipotesi di mandare degli osservatori dell’Onu. Cosa significa?

Onestamente credo che in una situazione come quella attuale gli osservatori non otterrebbero grandi risultati. Ci sono osservatori delle Nazioni Unite nel Sahara occidentale, a Cipro tra turchi e greci, nel Kashmir tra Pakistan e India. Sono situazioni in cui non è in corso una guerra combattuta, ma in cui c’è uno stato di non belligeranza abbastanza stabile. Per la Libia, sempre che le parti lo accettino, sarebbe più funzionale un modello tipo Libano, fatte chiaramente le dovute differenze.

È stato il ministro Di Maio a proporre un “modello Libano”. Ma quali sono le differenze?

Prima di tutto in Libano c’è una linea di confronto definita, la cosiddetta blue line al confine con Israele, marcata dai “blue barrel”, materialmente chiusa da una recinzione che corre in zone disabitate o scarsamente abitate. Vigilare su di essa è relativamente semplice. Se per “modello Libano” intendiamo la replicazione di Unifil, da un punto di vista operativo siamo fuori strada. In Libia la situazione è ben diversa: la linea di confronto è molto frastagliata, si inserisce negli abitati e persino in grandi città come Tripoli e Sirte, attualmente occupata dalle milizie di Haftar. Servirebbero dunque forze di diverso tipo e di diversa entità rispetto a quelle impiegate in Libano.

Intende più equipaggiate?

Senza dubbio. Si tratterebbe di un contingente internazionale con parecchi partecipanti. Ammesso e non concesso che i contendenti accettino il nostro Paese (credo e spero di sì), dovremmo avere il comando e controllo, presumibilmente a Tripoli, che però è già zona di confronto.

E poi?

Poi servirebbe una componente per controllare materialmente una linea di confronto che spesso è difficile da individuare. In Libano si fa con i pattugliamenti. In Libia servirebbe invece anche una presenza fissa, e dunque delle unità di fanteria in un numero cospicuo.

Si è fatto un’idea?

La missione Onu in Libano conta circa undicimila militari, di cui 1.100 italiani. In una prima approssimazione, procedendo per pennellate, direi che non si potrebbe risolvere la questione libica senza quantomeno raddoppiare questi numeri.

È la famosa “forza di interposizione”?

Esatto. Attualmente esiste solo in Libano con la missione Unifil. Il concetto andrebbe adattato alla Libia. Oltre alle unità di fanteria per presidiare il territorio lungo la frastagliatissima linea di contatto, ci sarebbe bisogno di una componente di riserva, la cosiddetta Quick reaction force, una forza di pronto intervento in grado di intervenire laddove sorgano problemi di carattere tattico. Dovrebbe inoltre avere una sua pesantezza.

Che intende?

Le forze che si confrontano in Libia hanno a disposizione unità pesanti e corazzate. Con il solo intervento di uomini appiedati non sarebbe possibile garantire la tregua. Sarebbe difatti necessaria anche la componente eliportata, basata su un aeroporto che potrebbe essere quello di Tripoli o di Misurata, o addirittura entrambi. Servirebbe a proiettare rapidamente le forze, uomini e fuoco, ad esempio i nostri elicotteri AW129 che si sono dimostrati risolutivi in Afghanistan in moltissime occasioni. Va infatti considerato che c’è anche un terzo incomodo sul campo.

Quale?

L’Isis. Troppo spesso ci concentriamo solo su Haftar e Serraj, ma le forze jihadiste restano radicate in molte zone del Paese, con una presenza ancora forte nell’entroterra. È questo un motivo per cui non ci si potrà limitare a un pattugliamento o a una presenza leggera. Servirà una capacità di risposta importante anche nell’eventualità di azioni dell’Isis che approfittino della situazione. A tutto questo va aggiunta la componente logistica, a partire dal supporto sanitario.

Si potrebbe sfruttare l’ospedale da campo che l’Italia ha stabilito a Misurata?

Certo. Tra l’altro si trova all’interno dell’aeroporto, cioè una zona facilmente accessibile da cui potrebbero partire gli elicotteri per l’evacuazione sanitaria di eventuali feriti. Si consideri inoltre che l’Italia è in una condizione particolare. Qualora partecipi a tale ipotetico impegno, potrebbe sfruttare il proprio territorio metropolitano, ad esempio con l’aeroporto di Lampedusa, a circa 300 chilometri dalle coste libiche, in cui potrebbe essere schierata la componente elicotteristica. Quest’ultima potrebbe poi utilizzare le piattaforme navali di cui disponiamo, non solo le portaerei, ma anche le Lpd, navi anfibie come la San Marco o la San Giorgio, per i rifornimenti. Alla base di tutto resta però una valutazione strategica.

Ci spieghi meglio.

Per l’Italia sarebbe importante avere una presenza a Tripoli in caso di missione. Abbiamo investito per anni con la presenza militare e con il contatto costante con le autorità locali. Abbiamo conoscenza della situazione, e la città è favorevole nei nostri confronti. Qualora partisse un impegno internazionale, dovremmo essere in grado di farci assegnare come settore non una parte desertica, ma la linea di costa che da Tripoli arriva fino alla frontiera tunisina. A metà strada c’è lo snodo di Mellitah da cui parte il Greenstream, un gasdotto da cui in passato arrivava il 25% del nostro rifornimento energetico, ora ridotto all’8%. È importante inoltre essere presenti dove sono gli impianti dell’Eni, compreso nel Fezzan. Tra l’altro, la linea di costa tra Tripoli e la Tunisia è quella utilizzata dai trafficanti di esseri umani. La presenza nella zona garantirebbe deterrenza e repressione di tale attività.

Per l’embargo delle armi, pare ormai probabile prima di tutto il rilancio della missione europea Sophia. Potrebbe funzionare?

Nella sua terza e quarta fase, la missione Sophia doveva proiettare la sua presenza nelle acque territoriali libiche e sulla costa del Paese nordafricano, proprio al fine di intervenire contro i trafficanti. Si è però fermata alla sua seconda fase, cioè al controllo in alto mare. Se messa a sistema con una presenza di forze sul terreno, ora potrebbe riuscire ad avanzare come non è riuscita a fare in passato.

In ogni caso, un intervento militare richiede il consenso delle forze libiche e il mandato dell’Onu. Giusto?

Non c’è ombra di dubbio. Serve l’egida delle Nazioni Unite. Non sono mai state eseguite operazioni di questo tipo senza il mandato dell’Onu. Solo in Libano nel 1981 si è utilizzata la formula dalla coalizione di volenterosi dopo l’operazione Pace in Galilea, ma era una situazione profondamente diversa. All’epoca, l’Onu non aveva maturato l’esperienza che ora ha acquisito grazie a Unifil in Libano.

E una missione con il cappello dell’Ue?

All’Unione europea farebbe molto comodo poter condurre un’operazione del genere. Permetterebbe di presentarsi come entità capace di condurre operazioni di pacificazione, ma non credo che possa farlo senza il mandato dell’Onu. Inoltre, per ragioni di prossimità, l’Ue ha troppi interessi in campo per ritagliarsi il ruolo di attore terzo. Diverso il caso in cui decidesse di imporre la pace e di intervenire senza il consenso delle parti in campo, ma è un’ipotesi remota e non si tratterebbe di interposizione ma di vera e propria guerra. Una politica poco credibile, tra l’altro ammesso che esista una politica estera e militare dell’Unione europea.

Perché all’inizio della nostra conversazione ha detto che “spera” che l’Italia partecipi a un’eventuale missione in Libia?

L’Italia è purtroppo stata cacciata dalla Libia. L’interventismo turco l’ha resa marginale, ed è un peccato alla luce dei rapporti importanti che il nostro Paese ha con i libici. Il nostro interesse andrebbe tutelato. Per questo, se si presentasse l’opportunità di un accordo tra Haftar e Serraj, non vedrei male un intervento italiano. In questo caso, l’Italia dovrebbe avere la forza di fare in modo che gli interessi nazionali siano condivisi dalla comunità internazionale, che sia l’Onu o l’Unione europea. Che non partano flussi incontrollati di migranti o che venga assicurato il rifornimento energetico non è un problema solo italiano.

I margini per farsi valere sembrano però pochi.

È vero. Bisogna vedere se gli interlocutori libici accetteranno una maggiore presenza italiana. Serraj ha già preferito i turchi a noi, mentre con Haftar abbiamo sempre avuto un rapporto altalenante avendo deciso di seguire la linea Onu. Eppure, abbiamo ora il dovere di non appoggiarci semplicemente alla comunità internazionale. L’Italia ha già pagato tanto per una guerra fatta contro i suoi interessi e sta continuando a pagare con una migrazione mal ripartita. Deve chiarire il suo diritto sacrosanto a far valere i suoi interessi prioritari.

 

Affidamenti di minori! Psichiatria, psicologia e tribunali_ Intervista a Paolo Di Remigio

Paolo Di Remigio è professore di storia e filosofia e studioso di Hegel. Questa conversazione trae spunto da un suo articolo intitolato ‘Le scienze umane a Bibbiano’. Bibbiano è il luogo dell’Emilia dove è emerso lo scandalo degli affidamenti dei bambini strappati dalle famiglie e affidati o a persone o a case-famiglia, a cui sono stati riservati maltrattamenti, sia psicologici che fisici, da regime totalitario. Sono vicende che hanno impressionato le coscienze. Mi interessa molto il modo in cui nell’articolo hai considerato questi fenomeni. Ora, se si collegano i vari fatti accaduti e che sono per la verità molto frequenti, sembra di intravvedere una sorta di cupola che avrebbe immaginato e costruito tutto questo. È una scorciatoia un po’ deviante per spiegare questi fatti. In realtà sappiamo che dietro ogni azione umana c’è una rappresentazione, c’è una cultura, c’è una ideologia nel senso generale del termine, in base alla quale gli uomini, i gruppi agiscono. In questo caso è accaduto qualcosa del genere. Che cosa è successo secondo te?

 

Rispetto a ogni avvenimento c’è la possibilità di essere complottisti, cioè di cercare spiegazioni in intenzioni segrete, inconfessabili, non rilevabili nell’esperienza quotidiana. Invece le intenzioni di quanto è successo negli ultimi trenta, quaranta anni non soltanto sono chiare, ma divulgate da una propaganda ossessiva. Per questo non abbiamo bisogno di spiegazioni aggiuntive rispetto a quelle offerte dall’esperienza. Abbiamo visto che il capitalismo si è trasformato da capitalismo keynesiano che affida allo Stato il compito di creare la piena occupazione a capitalismo finanziario. E questo ha portato a profonde trasformazioni: a livello ideologico, il consumismo è stato sostituito dall’ecologia; a livello economico lo Stato è stato reso impotente. Sono state imposte cioè non solo le liberalizzazioni, ma la privatizzazione dei servizi pubblici, perfino delle istituzioni, ossia la loro cessione a privati perché li facessero funzionare in modo da accumulare profitto. Mi spiego gli avvenimenti di Bibbiano come un caso particolare di questa trasformazione che ha riguardato tutti gli ambiti della nostra vita. Ciò che prima era dello Stato e non era gestito secondo criteri di profitto, perché per sua natura non poteva esserlo, è stato privatizzato; la nuova gestione ha portato con sé la possibilità di scatenare comportamenti cinici, tali da violare la natura intima del servizio e dell’istituzione acquisiti. Se si guardano le cifre, mi sembra che la spiegazione possa tenere: 200 € al giorno per l’affidamento di un bambino rappresentano una somma notevole. Questo motivo di fondo trova alleanze in passioni, in ideologie, in deliri di onnipotenza; però credo che senza l’interesse economico passioni, ideologie, abusi di posizioni di potere non avrebbero raggiunto la soglia per organizzare un sistema totalitario quale l’assistenza sociale sembra essere diventata in alcune regioni d’Italia. Tutto ciò deve rammentarci che ci sono vasti ambiti della società che non possono essere gestiti dai privati, non possono essere gestiti secondo il principio del profitto, perché sono composti da soggetti deboli, indifesi, come le famiglie in difficoltà economica, i malati, i bambini, i giovani, rispetto ai quali il perseguimento del profitto, legittimo in altri ambiti, si degrada in un approfittare senza scrupoli.

 

Ridurre tutto a un fatto di interesse economico, di guadagno, quindi di vantaggio, serve a spiegare fino a un certo punto la questione. Anche chi trae profitto, chi instaura dinamiche tese al guadagno, cerca quanto meno di giustificare la propria attività e di trarre delle motivazioni che lo portano a quel tipo particolare di attività. Qui subentra il ruolo delle scienze umane, di fatto. Sono stati introdotti dei protocolli indiscutibili in base ai quali venivano catalogati i comportamenti dei bambini e in base ai quali si arrivava a decisioni insidacabili degli operatori – assistenti sociali, psichiatri e poi anche giudici. Com’è che viene giustificata questa dinamica?

 

Il puro interesse è qualcosa di mortalmente arido. La capacità di trasformare ogni cosa, ogni circostanza in un’occasione per fare soldi è un talento che è al tempo stesso una maledizione. La saggezza greca ha rappresentato la potenza letale di questo talento nel mito di re Mida, che con la sua mano trasforma tutto in oro, ma proprio per questo si condanna a vivere nell’inorganico, nell’inanimato. Chi agisce secondo il puro interesse ha necessità di intrecciare la sua azione con motivi ulteriori. Pensiamo ai monopolisti, ai finanzieri che in genere si danno anche il vestito di filantropi. La grande finanza internazionale va sempre a braccetto con la filantropia. È vero che questa filantropia è così pelosa da suscitare in noi normali una ripugnanza superiore a quella suscitata da un comportamento esclusivamente affaristico. Ma è una nostra illusione; dobbiamo fare lo sforzo di fantasia per comprendere che ridurre tutto a valore di scambio è il massimo peccato contro lo spirito; conduce infatti alla legittimità dello schiavismo, che ha deturpato le società antiche e dal cui rifiuto nascono il cristianesimo e il nostro diritto. Nei giorni passati stavo riflettendo su quello che è accaduto nella scuola. I vari ministeri dell’istruzione che si sono succeduti negli ultimi trent’anni hanno profuso uno sforzo spasmodico per imporre la cosiddetta didattica digitale. Non c’era nessuno studio scientifico che ne mostrasse la fecondità. Poi, quando sono cominciati gli studi – essi seguono sempre l’innovazione invece di precederla, come sarebbe auspicabile – si è scoperto il contrario, che l’uso didattico di supporti digitali ostacola l’apprendimento. La precedente mancanza di studi scientifici, anziché suggerire prudenza nell’applicazione delle novità, è stata compensata da un diluvio di piani, di convegni, di citazioni, di rappresentazioni ideologiche della realtà storica, che per incoraggiare il nuovo non aveva altro argomento che diffamare il tradizionale. In chi la subiva, la pressione ossessiva incoraggiava l’ipotesi di un grande complotto contro la scuola ordito da incappucciati per realizzare piani innominabili. Ora che gli studi scientifici esistono, si capisce bene che non occorreva l’ipotesi degli incappucciati, che tutto si spiega con il fatto che i produttori di software scolastico devono vendere la loro merce, e per venderla devono pubblicizzarla; la pubblicità genera discorsi ideologici, sgangherati, ma usati dai decisori politici, spesso in mala fede, ma a volte anche in buona fede, per giustificare le loro iniziative. Che qualcuno creda in questi discorsi che ripetono le bugie del marketing è importante per la sua riuscita, perché chi vi si oppone, si oppone innanzitutto a coloro che credono, quindi il suo buon senso assume esso stesso l’apparenza di una credenza, e così è facile farla passare per una predilizione personale dettata dalla pigrizia. Nel caso di Bibbiano, ciò che è stato fatto implica un disprezzo profondo per la famiglia; ma io penso che questo disprezzo in certi ambienti ci sia sempre stato; se questo disprezzo in un certo momento storico è diventato un sistema e ha prodotto quelle situazioni spaventose, la spiegazione storica non può che partire dall’interesse materiale di un capitalismo che rifiuta la crescita economica e aumenta i margini di profitto a scapito del reddito dei lavoratori, impoveriti e precarizzati da una studiata disoccupazione. La forza abnorme acquisita oggi dalle ideologie che condannano la famiglia è una conseguenza diretta della precarizzazione subita dai lavoratori.

 

Nel tuo articolo parti dalla differenza di fondamento tra le scienze naturali e le scienze umane e affronti il tema della debolezza intrinseca del carattere scientifico delle scienze umane, legata all’impossibilità del riscontro oggettivo, all’impossibilità di falsificazione, come si dice in gergo, della propria teoria, della propria ipotesi.

 

La distinzione tra filosofia teoretica che ha per oggetto la natura, che non è fatta dall’uomo, e filosofia pratica, che non mira soltanto alla conoscenza di ciò che è fatto dall’uomo ma lo aiuta a realizzare il suo bene, è molto antica, è di Aristotele. Aristotele non dice che le scienze etiche siano meno importati; dal punto di vista teoretico sono più deboli, ma dal punto di vista dell’utilità complessiva sono anche più interessanti delle scienze teoretiche. Le scienze umane tendono a violare la distinzione aristotelica: esse vogliono conoscere l’uomo, ma vogliono conoscerlo oggettivamente, come gli scienziati della natura conoscono la natura. Nelle scienze umane il dato oggettivo è però l’intenzione. Lo psicanalista ascolta il paziente e dietro le intenzioni evidenti, dietro il contenuto esplicito, riscontra delle intenzioni più profonde, nascoste allo stesso paziente, che soffre le conseguenze di questa sua inconsapevolezza. Dall’analisi che ho fatto dello scritto di Freud si evince però che queste intenzioni nascoste, più che pura realtà oggettiva, sono in parte costruzioni del paziente che parla, in parte costruzioni dell’analista che ascolta, solo in parte realtà oggettiva. Non solo: la terapia guarisce a prescindere dalla verità della ricostruzione delle intenzioni inconsapevoli; ai suoi fini è sufficiente raggiungere il convincimento. Se una scienza non raggiunge la piena oggettività, ma si ferma alla probabilità, come fa per lo più la medicina, o addirittura al convincimento, questa scienza non può farsi portavoce di necessità assolute, anzi, nel suo operare deve rispettare un codice deontologico. Lo psicologo non può dunque affermare la sua teoria, e tanto meno il giudice può assumerla, come se fosse infallibile; la teoria deve essere applicata nel rispetto del diritto del paziente. E qui diritto è determinabile con precisione: la capacità dell’uomo di provvedere a sé stesso, l’autosufficienza della persona. Se il paziente è una famiglia, l’intervento dell’assistente sociale, dello psicologo e del giudice, non può che essere finalizzato al diritto della famiglia, al suo conservarsi come persona, alla sua coesione, alla sua compattezza, alla soluzione dei conflitti diventati troppo esasperati. Se pretende di derivare da una millantata onniscienza che gli consente di porsi al di là del bene e del male, l’operare dell’assistente sociale, dello psicologo, del giudice si trasforma in violenza contro ciò che dovrebbe sanare. Il rifiuto della finitezza di una scienza che non potendo arrivare al dato oggettivo si accontenta del convincimento, equivale all’esercizio di una prassi arbitraria e onnipotente. E questa è storia. Parenti di Freud sono stati protagonisti nell’applicare tecniche di manipolazione di massa negli Stati Uniti. Conosciamo l’applicazione delle tecniche psicologiche da parte dei servizi segreti. È terribile il fatto che una professione che dipende innanzitutto dall’atteggiamento morale di chi la pratica può assumere una pretesa di onniscienza di fronte alla quale lo stesso giudice, che deve far valere il principio etico contenuto nella legge, si arrende. Uno dei giudici implicati in queste vicende si costituisce parte civile perché si sente ingannato dai referti degli psicologi e degli psichiatri. Doveva però essergli chiaro che lo psicologo dà soltanto un parere e che la decisione doveva essere presa sulla base di un’ampia raccolta di altri pareri e secondo il principio etico fissato nelle leggi. Ho letto del caso di una madre a cui è stato strappato il bambino perché secondo una psichiatra gli sarebbe stata troppo legata, e non c’è stato verso di piegare il giudice perché ha ritenuto le testimonianze portate contro il parere della psichiatra testimonianze di persone non esperte; ma nel campo del conoscersi degli uomini tutte le persone normali, cioè le persone che sanno badare a sé stesse, che sanno affrontare e risolvere i loro problemi, sono esperte. Come scrivevo nell’articolo, l’uomo è trasparente a sé stesso, e normalmente gli uomini si capiscono guardandosi, ascoltandosi, perfino annusandosi. Io non capisco le equazioni della fisica nucleare e le formule chimiche guardandole, ma capisco subito, in quanto docente, che cosa significhi veramente un’espressione di un mio studente, e gli studenti capiscono a primo sguardo cosa possono permettersi con il docente; capisco subito, in quanto genitore, che cosa significhi un’espressione di mio figlio, magari con maggiore sicurezza di quanto possa capirlo uno psicologo che lo vede per la prima volta. È quella trasparenza per cui gli uomini riescono a vivere insieme. Succede tra marito e moglie: all’inizio si litiga, poi ci si adatta, alla fine, senza una parola, si sa benissimo cosa pensi e come reagisca il proprio coniuge. È quella trasparenza nei rapporti normali tra gli uomini di cui il giudice deve tener conto non meno che dei referti psichiatrici.

 

Facciamo un passo avanti rispetto a questo discorso. Un ruolo fondamentale sembrano averlo gli psicologi e gli psichiatri e gli assistenti sociali, che sono una sorta di psicologi. Una delle caratteristiche della psichiatria è quella di vedere la realtà come sommatoria di patologie. Questa visione contrasta con un criterio scientifico che tende a fissare la normalità, la regola dei fenomeni. È possibile attribuire un carattere scientifico e insindacabile a una prassi di questo genere?

 

Tu mi chiedi del pericolo legato alle scienze dell’uomo di vedere ovunque malattia. La tendenza a generalizzare la diffusione della malattia è la grande tentazione dei terapeuti. L’individualità è negazione del riferimento all’altro, direbbe Hegel; l’essere dei viventi non è inerte, ma è una attività e anche una lotta. Siamo dotati di un apparato immunitario che ci protegge dalle aggressioni dei microorganismi, di un apparato scheletrico e muscolare che ci protegge permettendoci la fuga o la lotta. Certo, non siamo soltanto individui in lotta. Possiamo superare la nostra individualità, stringere alleanze, allacciare rapporti positivi, rapporti di solidarietà, di amore. In ogni caso la vita ha la sua durezza; essa comporta sconfitte, disagi che possono infliggere ferite, provocare malattia. Come distinguere salute e malattia? Come determinare la salute? Come ho già detto, non è difficile: è la capacità, l’onore di provvedere a sé stessi, di non dover chiedere aiuto, anzi di poter aiutare i figli, la moglie, il prossimo, le persone incontrate nella professione. Davanti a una persona che sa provvedere a sé stessa non dovrebbero scattare categorie che vengono dall’ambito del patologico. È vero, però, che le scienze umane più fortunate, per esempio la psicoanalisi che deborda spesso dai suoi confini,  sono scienze che nascono da terapie, cioè i loro concetti principali sono concetti che hanno funzionato all’interno del rapporto tra medico e paziente. Estendere questi concetti di origine terapeutica dal rapporto con il paziente all’intera realtà non soltanto le applica un punto di vista interpretativo ma vi trasporta la malattia. L’ultimo Freud è molto apprezzato e lodato: è il Freud che si interessa non solo e non tanto di terapia, ma soprattutto di estendere i concetti della psicanalisi alla letteratura, all’arte, alla storia, alla civiltà, in particolare alla religione. Ma fatalmente i nuovi fenomeni a cui sono estesi i concetti di origine terapeutica diventano tutti più o meno patologici; quindi la religione è marchiata come nevrosi collettiva, la stessa civiltà appare definitivamente contrassegnata da un disagio derivante dal dover barattare la pulsione sessuale e quella aggressiva, quindi la felicità, con la sicurezza – come se l’essenza dell’uomo fosse la felicità e non la libertà, e la felicità fosse la soddisfazione delle pulsioni sessuali e aggressive. Si tratta di ipotesi rese interessanti dalle grandi capacità letterarie di Freud, che però si riducono spesso a miti privi di consapevolezza filosofica. Quando poi manca l’accuratezza analitica di Freud, a volte si finisce nel delirio interpretativo.

 

Non è un caso quindi che quando la funzione dello scienziato sociale si unisce al potere decisionale rischi di sfociare in un fenomeno di totalitarismo e di giudizio insindacabile nei confronti di persone, più che essere un supporto di decisioni.

 

Il principio dell’agire degli uomini rispetto agli uomini è interno all’etica. E non occorre fare chissà quali studi: essa è esposta nella Costituzione. Nella Costituzione è scritto che la legge garantisce l’unità familiare e che la Repubblica protegge non soltanto l’infanzia e la gioventù, ma innanzitutto la maternità. È la Costituzione il principio a partire dal quale il giudice emette le sue sentenze, non il parere di uno psicologo o di uno psichiatra che, per quanto esperto, non dispone di una conoscenza per principio più sicura di quella di cui dispongono i non psicologi. Nel caso della madre privata del figlio perché troppo affettuosa, le persone senza titoli professionali che hanno testimoniato contro la valutazione della psichiatra conoscevano meglio il bambino e la madre.

 

Abbiamo visto invece che sono gli stessi professionisti ad assumere il ruolo di giudici come giudici onorari, con un peso decisionale determinante, insindacabile; mentre la famiglia, i genitori, il parentado, il vicinato non assumevano più un ruolo positivo.

 

Quando la specializzazione professionale consiste nello scovare malattie occulte allo stesso malato, ogni comportamento diventa un sintomo. Quando poi chi ha questa competenza così invasiva è anche giudice, il comportamento interpretato come patologico si connette, per la natura stessa della professione di giudice, alla presunzione di colpevolezza – del genitore, ma perfino del bambino. Nel giudice onorario, nello psichiatra-giudice la malattia universale è nello stesso tempo colpa universale. Si ripropongono allora situazioni terrificanti, analoghe ai processi di stregoneria, in cui la colpa era così identica all’essere dell’imputato da essere dimostrata sia dal suo cedere che dal suo resistere alle torture.

 

Questo potrebbe spiegare come le procedure burocratiche abbiano potuto consolidarsi nel corso degli anni fino ad arrivare allo scempio a cui stiamo assistendo nelle cronache attuali. Questa rappresentazione del ruolo dello scienziato, del ruolo della scienza sociale, ha aperto le strade e fornito giustificazioni.

 

C’è un interesse economico molto forte; è incautamente concessa a certe figure professionali, che onniscienti non sono per la natura stessa dell’oggetto su cui affermano la loro competenza, la possibilità di attribuirsi l’onniscienza e di esercitare un potere assoluto; da questa confluenza è chiaro che nasce l’abuso.

 

Stiamo assistendo all’affermazione delle teorie LGBT che rivendicano il diritto di famiglie non tradizionali ad allevare, educare e anche a creare bambini. Mi sembrano teorie interessate a denigrare la funzione della famiglia tradizionale, predestinata alla procreazione, all’educazione degli affetti. Questo approccio alla scienza, questa relativizzazione è un ulteriore passo destinato ad ampliare lo spazio di queste teorie?

 

Qui direi che si verifica il caso contrario a quello di prima. Prima avevamo una scienza che è presunta totale e definitiva, che quindi abilita all’onnipotenza; qui invece si presenta una tendenza a non tener conto dei dati scientifici. Premetto che gli atteggiamenti omofobici sono sempre vergognosi. Se si guarda alla storia, in Italia non ci sono state, almeno dal Novecento, esplicite persecuzioni giudiziarie nei confronti delle persone per la loro omosessualità; invece negli altri Stati, in particolare nell’Europa luterana e calvinista, c’erano leggi che la punivano – i casi dolorosi di Oscar Wilde, di Alan Turing sono tra i più eclatanti. Anche in Italia erano però normali manifestazioni di omofobia; se capita di guardare spezzoni dei film spazzatura degli anni ’70, degli anni ’80, spesso vi compare la figura dell’omosessuale affinché faccia ridere, affinché sia umiliato. Che simili atteggiamenti in sé ignobili e pericolosi dal punto di vista educativo dovessero essere superati, che a ogni essere umano a prescindere dai suoi gusti sessuali debba essere garantito rispetto, su questo non può esserci nessuna riserva. D’altra parte, però, ci si imbatte a volte in discorsi forzati. Mi è capitato per esempio di assistere a un video, una conversazione tra Piero Angela e uno scienziato qualificato tra l’altro come sessuologo, in cui il conduttore tendeva ad esporre la questione della differenza sessuale in modo piuttosto distorsivo. Per quello che ne so – ma qui si tratta di conoscenze minime acquisibili a livello di scuole medie – la sessualità si gioca su quattro livelli: innanzitutto su quello del codice genetico; nel momento in cui i due gameti si uniscono, lo zigote ha nel suo codice genetico la determinazione sessuale, è già maschio oppure femmina, senza possibilità intermedie; è il codice genetico che, in misura sempre meno determinante, provvede al secondo livello, cioè alla differenziazione ormonale, poi al terzo, alla differenziazione anatomica, e infine al quarto, alla differenziazione psicologica. In questo sviluppo l’alternativa netta maschio/femmina propria del livello genetico può dunque stemperarsi in una pluralità di differenze. Ora in quella intervista il livello genetico, l’unico a presentare l’alternativa sessuale netta tra maschio e femmina, era presentato in modo così sfumato che sembrava inesistente. È vero che il professore aggiungeva che si nasce definitivamente maschi o femmine, ma se si trascura di menzionare che a livello genetico tertium non datur, si rischia di trascurare una differenza importante, quella tra sessualità ed erotismo, su cui lo stesso linguaggio quotidiano, che risente di una lunga tradizione di pruderie, è ambiguo. La sessualità è una forma di riproduzione dei viventi e come tale implica la differenziazione genetica tra maschio e femmina. Per questo motivo il termine ‘omosessualità’ non ha senso biologico: la congiunzione maschio-maschio, quella femmina-femmina, a cui si riferisce il prefisso ‘omo-’, non hanno carattere sessuale perché non possono svolgere alcuna funzione riproduttiva. Invece, la possibilità che i quattro livelli della sessualità si sviluppino in modo particolare determina forme intermedie di erotismo, cioè di attrazione e di piacere, oltre quello maschile e quello femminile. Il termine più esatto per molte di queste forme intermedie potrebbe essere ‘omoerotismo’. Tutto questo ha importanti conseguenze. Innanzitutto l’omoerotismo, essendo fondato sulla natura complessa dello sviluppo sessuale, è in sé stesso innocente quanto lo è l’eterosessualità, quindi l’omofobia che presuppone che l’omoerotismo derivi da una perversione della volontà è per principio ingiustificabile. La seconda conseguenza è però la differenza di dignità tra sessualità ed erotismo. Piacere e sentimento erotico non sono la sessualità, anche se di solito l’accompagnano. Si tratta del motivo esposto in modo magistrale da Platone nel Simposio. Il sesso è l’arma della fecondità con cui il vivente vince la morte, la sua ontologia, dalla cui sublimazione nell’uomo nasce tutto ciò che c’è in lui di grande; in quanto tale esso non è piacevole, ma penoso: il parto comporta pericolo e dolore, l’allevamento è sfibrante, l’educazione difficile. Proprio perché il sesso è penoso, la natura ha provveduto ad addolcirlo con il piacere erotico e con la bellezza. Il piacere erotico è per lo più un invito alla fecondità sessuale; ma può rendersene indipendente, addirittura fino all’incompatibilità. Se si tengono fermi i significati che ho attribuito ai termini, risulta evidente che il primo scopo, non l’unico, certo, della famiglia è sessuale, non erotico: la famiglia è innanzitutto la solidarietà dei sessi di fronte a un compito essenziale e difficile quale quello della riproduzione, ed è per questa difficoltà ed essenzialità del suo compito che essa va appoggiata e difesa. Ma è altrettanto evidente che il progetto di rendere biologicamente feconde le forme di omoerotismo incompatibili con la sessualità è artificiale e volontaristico. Che sia artificiale permette l’irruzione dell’interesse economico; credo che proprio questo interesse economico, nel contesto dell’attuale capitalismo teso a superare ogni vincolo che immobilizzi la forza-lavoro, renda attualmente influenti le opinioni più esagerate degli LGBT. Che sia volontaristico apre le porte alla violenza: le procedure che permettono alle coppie cosiddette omosessuali di ottenere figli, implicano sempre la rottura dei legami umani più profondi, quelli tra genitori biologici e figli biologici, e costituiscono una indubbia violazione dei loro diritti.

 

Quindi la novità rispetto alle prime fasi di questo processo, iniziato nel ’95 con le case-famiglia e quindi  con gli allontanamenti, è che allora c’era una corrente scientifica dogmatica, legata a determinati ambienti della psichiatria, della psicologia con connessioni dirette agli apparati giudiziari che portavano avanti questa ipotesi e vedevano tendenzialmente la famiglia come l’origine del male, adesso a questa tendenza si sovrappongono queste correnti che, per affermare una loro identità, una loro efficacia anche di tipo lobbistico, hanno interesse a denigrare il ruolo della famiglia tradizionale. È una loro affermazione.

 

La critica della famiglia, in genere di una superficialità irresponsabile, è un motivo fiorito negli anni ’60 e che si radica in tanti autori precedenti. Neanche occorre aspettare Freud per trovare un atteggiamento di estremo sospetto nei suoi confronti. Si può pensare a Schopenhauer, per esempio; egli rifiuta l’erotismo non tanto per un’esigenza ascetica di liberarsi dalla schiavitù dei piaceri, ma per una posizione opposta a quella di Platone, sulla base dell’odio della sessualità, in quanto l’erotismo sarebbe l’inganno con cui l’essenza maligna della natura, che Schopenhauer chiama volontà, ci alletta a riprodurci con lo scopo di perpetuare sé stessa. Se vogliamo tornare ancora più dietro la preferenza per la vita asessuata rispetto alla vita sessuata è già accordata dal cristianesimo. È vero che nelle prime comunità i presbiteri, i vescovi non solo erano sposati ma erano tenuti a sposarsi, in quanto l’amministrazione familiare era l’indispensabile tirocinio per l’amministrazione della comunità; già per San Paolo, però, il matrimonio è un ripiego per chi non ha la forza di dominare la propria sensualità ed è quindi esposto all’irregolarità erotica, più che la via privilegiata verso la santità. In seguito si sono affermati l’obbligo della castità per gli ecclesiastici e una posizione definitivamente subordinata dei laici, cioè delle famiglie, nei confronti del clero. Così, all’interno della Chiesa cattolica il matrimonio è certo un sacramento, dunque un’unione sigillata da Dio, ma la scelta matrimoniale è inferiore alla vocazione sacerdotale, l’agape è superiore al sesso.

 

In queste dinamiche c’è un rapporto molto squilibrato. La logica vorrebbe che dal punto di vista istituzionale, nelle procedure, negli affidamenti ecc., questo equilibrio si ricrei dando voce a chi non ce l’ha, tipo i genitori, tipo il bambino che in qualche maniera deve essere rappresentato in questi processi che rischiano di portarlo all’allontanamento. Quindi si tratta di ripristinare un equilibrio anche a livello istituzionale.

 

Si tratta di attenersi alla Costituzione, che nel Titolo II considera la famiglia società naturale fondata sul matrimonio, che riconosce ai genitori il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli e consente l’intervento della legge solo nel caso di loro incapacità. Nessuno può rompere alla leggera una famiglia, può strappare sulla base di impressioni paludate da un gergo psicologistico i figli ai genitori; tutto deve essere fatto per tenere insieme la famiglia e soltanto in caso di situazioni estreme si può ricorrere a misure estreme.

 

Per concludere, lo sforzo che dobbiamo fare non è tanto indugiare sull’aspetto kafkiano, mostruoso della situazione, ma reagire al pericolo che possa diventare una normalità perché legata a certe logiche, siano esse economiche, di interesse, ma anche legate a rappresentazioni ideologiche e culturali. È lì che bisogna battere per ripristinare una situazione più equilibrata. Superare dunque l’approccio scandalistico a quello che sta emergendo.

 

Riassumi bene le mie opinioni. La grande trasformazione del capitalismo della piena occupazione in capitalismo della finanza che deve controllare tutta la società attraverso la disoccupazione, comporta innanzitutto la fluidità di ogni legame umano, l’estraneazione dalla patria e dalla famiglia; comporta poi l’impotenza economica dello Stato: la sua incapacità di porre limiti all’affarismo, la gestione privatistica dei servizi più legati alla fragilità umana: il servizio sanitario, l’assistenza sociale, la scuola; e quando in questi ambiti entrano gli interessi, per quanto si mascherino con passioni, sogni, ideologie, entra l’aridità, la smania di trasformare tutto in denaro.

 

Non può essere che sotto ci sia qualcosa di più profondo che, più che al capitalismo, all’attività legata al profitto, sia legato a una logica di affermazione di élite che tendono ad acquisire sempre più potere, che non trovano contrasto e quindi attraverso questo vincolo anche ideologico tendono ad affermarsi senza alternative? Entriamo così nella discussione tra il marxismo che vede il motore della storia nelle forze produttive e Weber, Carl Schmitt che concepiscono il politico come dominante, come logica delle dinamiche e dei conflitti.

 

Forse le due prospettive non si escludono; forse la supremazia dell’economico non è eterna, ma la forma di dominio propria dell’impero anglosassone. Finché ne siamo però sudditi conviene fare della supremazia dell’economico la principale chiave interpretativa. Penso che la banca centrale indipendente che favorisce le élite finanziarie lesinando la moneta in modo da farne una merce scarsa, e quindi impedisce gli investimenti, provoca sottosviluppo, crisi, disoccupazione, migrazioni, la distruzione delle famiglie, sia il principio non segreto, anzi proclamato e difeso come un dogma religioso, sufficiente a spiegare perché attualmente l’uomo resti schiavo dei suoi bisogni quando potrebbe esserne libero.

 

La religione del progetto europeo_Intervista a Régis Debray

http://www.lefigaro.fr/vox/societe/2019/03/29/31003-20190329ARTFIG00111-regis-debray-a-force-de-vouloir-accueillir-toutes-les-identites-l-europe-n-a-plus-d-identite.php

Il progetto europeo è, secondo Régis Debray, una religione prima ancora che un’impresa politica. Per questo motivo, sostiene, nonostante il fallimento politico dell’Unione Europea, i nostri leader continuano a crederci. Come infestato dall’Europa fantasma.

Le Figaro.- il tuo libro, l’Europa fantasma *, sotto la collana “Tracts”, esce a tre mesi dalle elezioni europee. È un caso?

Régis Debray.- No, ma l’attualità è solo un aggancio; Antoine gallimard e Alban Cerisier hanno ripreso il titolo di una collezione degli anni ‘ 1930, che ha pubblicato gide, Thomas Mann, giono e altri. L’ idea è di richiedere a scrittori  testi brevi, senza gergo e senza ingiurie, sul momento storico. Per tanto non è l’elezione europea, con le sue pie intenzioni, che mi ha interessato, ma le basi spirituali di un’utopia politica. Non dimentichiamo che la sua bandiera blu cielo procede dall’apocalisse di San Giovanni. Le Dodici stelle sono quelle di Notre Dame.

Cosa significa questo titolo, l’Europa fantasma?

E’ un occhiolino all’Africa fantasma di Michel Leiris dove rivela la sua delusione di occidentale che sperava con il raid Dakar-Gibuti, nel 1932, di diventare un altro uomo al contatto di un’altra civiltà, e che finisce con ” Rifiutare la pienezza di esistenza a questa Africa in cui avevo trovato molto ma non il rilascio “. Anche noi aspettavamo di essere rilasciati dal nostro pesante passato, dai nostri egoismi, dalle nostre passioni assassine, da un’Europa serenamente unita ed ecco che tornano in forza, questi egoismi e che questa costruzione ideale si rivela in realtà evasiva, randagia e senza corpo. Una non-persona. Questo non ha solo svantaggi. Un essere galleggiante e sfocato può continuare a perseguitare gli spiriti, come un ritorno. E di fatto, da lontano, in lontananza arriva il rilancio, il piano miracoloso, l’annuncio di Rinascimento, per resuscitare la fiamma e i cuori. Il ritmo è decennale.

Stai paragonando il progetto europeo a un messianismo, a una religione. In che modo lo è?

Da molti lati, l’europeismo è l’oppio delle nostre elite, espressione del loro sconforto politico e protesta contro questo sconforto. Io faccio una parodia della formula marxiana, ma accanto al comunismo e al nazionalismo, il supplemento d’anima del techno fa una religione laica molto debole, che non mobilita nessuna influenza, non ricorda nessun passato e non definisce alcun futuro. “in nazionalità è proprio come in geologia, il calore è giù”, diceva Michelet. Per L’ Unione Europea il calore è in alto e non scende. È una locomotiva senza carri, constata proprio Védrine. A Pechino non importa, e le elezioni europee sono in realtà un sondaggio di opinione a grandezza naturale, ad uso domestico, e che interessa solo professionisti, politici e media.

Detto questo, c’è stato in partenza, all’indomani della guerra, un fervore, uno slancio grazie alla convergenza di due messianismi, il cristiano e il progressista – una giunzione miracolosa tra l’impero della grazia, per un ritorno di Cristianesimo, e l’impero della ragione, come vuoto unificante e pacificatore. Jacques Delors è servito da ponte tra questi due versanti, da cui il consenso sul suo nome. Purtroppo, i due pilastri del tempio, il democratico cristiano e il socialdemocratico, sono crollati, e non resta altro che un neoliberalismo secco e crudo. Non molto motivante. Ma alla fine, religione viene dal latino religare, collegare, raccogliere. Questo pone una base comune agli eletti, come testimonia l’ultima conversazione del presidente con i suoi consiglieri e gli intellettuali del suo cenacolo. La Fede è sparita, ma l’autostima rimane. È un narcisismo al più. Umiliante per il gregge delle grandi menti allineate dall’Eliseo, ma gratificante per il maestro d’opera.

Se è una religione, il numero dei suoi fedeli appare oggi in declino?

Il piccolo numero di fedeli, e la debolezza delle adesioni sempre più titubanti, mi sembra abbiano diverse cause. Il mondo è cambiato dal trattato di Roma, nel 1957. Si è globalizzato nella sua dimensione e saccheggiato nella sua composizione – questo spiega quello. Che la globalizzazione techno-economica sfoci in una balcanizzazione culturale e politica, con una crescente frammentazione dei set organizzati, è una prova. Ne parlo ripetendolo da quarant’anni, e tutto ciò finisce per imporsi alla vista di tutti. Poi non siamo più all’età dei blocchi politico-militari, e non ne esistono più, a parte la Nato. C’ era un nemico, una cortina di ferro, una nicchia da tenere. Di fronte a Stalin, fare blocco è giustificato. Oggi l’Unione Europea è un anacronismo: troppo piccolo per le sfide mondiali, economiche, ecologiche e altri, e troppo grande, a 27, per una qualsiasi coerenza. È diventato un giogo, non un trampolino di lancio.

L’ Europa attuale è tedesca o americana?

Entrambi non sono incompatibili. L’ Europa dei fondatori è iniziata a matrice americana, nella sua ispirazione e nel suo finanziamento più o meno segreto; è diventata a preponderanza tedesca, dopo l’allargamento che ha spostato ad est il centro di gravità. È normale che un’Europa fondata sul primato dell’homo oeconomicus sia dominata dalla prima economia del continente.

L’ homo oeconomicus americano si è unito a una fede in Dio, “in Dio noi confidiamo”. E da noi si vuole autosufficiente. Confronta un biglietto da 10 dollari, che articola una metafisica su una storia concreta e una geografia precisa, con un biglietto di 10 euro, che è un biglietto di monopoli senza valuta, senza volto e senza luogo, e capirai tutto … Non una silhouette sotto questi archi in sospensione tra cielo e terra, come apparizioni spettrali. Da un lato, un popolo, quindi una storia. Dall’altro, un aggregato, fuori terra e fuori dalla storia.

Cosa ne pensa dell’idea che l’Europa avrebbe portato la pace?

Non è l’Europa di Bruxelles che ha fatto la pace, è la pace mondiale che ha fatto questa Europa, quando la dissuasione nucleare ha congelato da una parte e dall’altra i conflitti in ogni campo, ogni signore, Stati Uniti e URSS , non avendo alcun interesse a vedere i suoi protetti dvidersi. E questa Europa ha dovuto chiamare gli Stati Uniti per riportare la pace nell’ex Jugoslavia, incapace di restaurarla da sola. Non può né fare guerra né fare pace. Che peccato.

Lei dice che istituzionalizzandosi, l’Europa si è sconfitta…

La vostra domanda mi fa sovvenire una risposta di de De Gaulle a Malraux nelle querce che si abbatte: ” L’ Europa le cui nazioni si odiavano aveva più realtà di oggi.” bisogna rileggere questa intervista del 1969, premonitrice, come tutti I PRONOSTICI GAULLIANI. ” senza dubbio assistiamo, disse, alla fine dell’Europa. Buona fortuna a questa federazione senza soggetto federativo.” potrebbe essere l'” Anglobal ” il grande e unico federativo. La famosa parola apocrifo di Jean Monnet, “se avessi saputo avrei iniziato con la cultura”, non ha senso, visto che la cultura è prima la lingua! Se vai a Bruxelles, vedrai che è diventata una città inglese, mentre Ginevra è rimasta francofona. A forza di voler accogliere tutte le identità, l’Europa non ha più identità. Il nostro grande promulgatore di allarmi ha lanciato nei suoi ultimi giorni un avviso sul quale i nostri responsabili nella loro fuga in avanti avrebbero interesse a meditare: ” non ho mai creduto bene di affidare il destino di un paese a ciò che svanisce.”

A domani de Gaulle?

Non facciamone un nazionalista. E’ lui che ha assicurato e formalizzato la riconciliazione franco-tedesca, con Adenauer; instaurato l’ufficio Franco-tedesco della gioventù. E ha sinceramente voluto un’Europa europea con il trattato dell’Eliseo e il piano Fouche. Purtroppo il Bundestag, consigliato da Jean Monnet, l’ha inviato sulle rose. Da qui la sua battuta: ” i trattati sono come le ragazze e le rose. Dura quello che dura.” uscire dal protettorato americano è sembrato sacrilego ai nostri amici tedeschi. Speriamo che questa paura non durerà per sempre. Possiamo dubitarne.

Non vi riconoscete nell’opposizione tra nazionalisti e progressisti concettualizzata da Emmanuel Macron?

No, affatto. Questa opposizione è stata concettualizzata, non molto tempo fa, da Drieu la Rochelle, eminente progressista che chiedeva a “L’ Europa nuova” di trascendere i vecchi nazionalismi mortiferi.

Ecco perché, disse, lui così come un numero di intellettuali e accademici di questo periodo, per liberarsi degli sciovinismi che ci hanno fatto tanto male, bisognava difendere tutti insieme la fortezza Europa contro le orde bolsceviche, ciò di cui si sono caricati nel 1944 le waffen ss della divisione Carlo Magno, con i suoi 7000 volontari. Dovremmo riaprire i nostri libri di storia, ma non è mai troppo tardi per fare bene. Non c’è solo l’economia nella vita.

Questa opposizione, Ariel contro Calibano, un imperium economico e giuridico contro le culture locali maltrattate, l’ovest contro l’est, fa ovviamente il profitto dei nazionalisti. Per resistere agli imperi, l’Europa centrale e balcanica non ha mai potuto riposare su uno stato, ma sulla sua cultura ancestrale, e la resistenza passa sempre lì attraverso la lingua e la religione. Perché riaccendere questa brutta tradizione?

Andiamo verso il ritorno delle nazioni o l’Europa delle tribù?

Fai la domanda chiave. Bisogna assicurare un futuro alla Nazione civica, la nostra, fondata sul “è francese chi lo vuole”, e impedire a tutti i costi che la nazione etnica, fondata sulla legge del sangue, non venga a sostituirla. Questo è il grande pericolo. La tribù, contrariamente a ciò che si crede, è una forma di organizzazione ahimè sempre più moderna, e l’Europa, che doveva federare, diminuisce e frammenta gli stati nazioni, accelera i separatismi, vedi la Spagna, il Belgio, la Gran Bretagna, la Padania italiana. Auguriamo che la Repubblica dei cittadini resista al grande ritorno del feudalesimo, a cosa porta, paradossalmente, il sovranazionale.

Come si fa a fare questo insieme?

Non ne ho idea. Bisogna lasciare tempo al tempo. Ci saranno soprassalti, effetti di traino e senza dubbio un’unione doganale mantenuta, e alcune giurisprudenze. Ma i popoli rischiano di stancarsi di vedere giudici non più servi della legge, ma medici di norme che dimenticano che la legge repubblicana è l’espressione di una volontà generale, deliberata dai rappresentanti del popolo e applicata nel suo nome. La giuridizzazione di tutti i crini della vita pubblica, sono già le dimissioni della politica.

Esiste un popolo europeo?

Purtroppo no, anche se si mette l’aratro prima dei buoi, pensando che un parlamento possa provocare un popolo. Un popolo, non è solo una comunità di interessi economici ma una comunità immaginaria. Questa suscita una comuni societatis, una solidarietà affettiva, intima e istintiva. Un calaisien è interessato a ciò che sta accadendo a Marsiglia. Un francese non è interessato a ciò che sta accadendo in Polonia o in Estonia.

C’ è un cinema americano ma non c’è cinema europeo, colpa di una lingua comune e di star che parlano a tutti i paesi. “gli unici attori che si hanno in comune in Europa sono americani”, nota Jean-Jacques Annaud. E’ un sintomo interessante, anche se un po’ triste.

Sei un euroscettico?

In nessun modo. La domanda non è sapere se si è pro o contro l’Europa ma di quale Europa si parla. È come se ti chiedessero: sei pro o contro la Francia? Ma quale Francia, quella di Michelet o quella di Maurras? Di Jean  Moulin o di Le pen? Quale Europa? Ce ne sono diverse. C’ è l’Europa medievale del cattolico nostalgico, l’Europa dei lumi cara a Valéry, l’Europa carolingia del tempo dell’occupazione e l’Europa tecnocratica della Commissione. Perdonami, ma io opto per quella di Valéry.

Aborto negli Stati Uniti. Una questione controversa, ma poco conosciuta. Intervista al Dottor Clenard H Childress Jr. _a cura di Gianfranco Campa

 “Il posto più pericoloso per un bambino afro-americano è nel grembo materno”

Il 1973 è stato l’anno della storica decisione presa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti sulla questione della costituzionalità delle leggi che criminalizzavano o limitavano gli aborti con la quale essa liberalizzava e rendeva legale l’accesso e il diritto della donna all’aborto (Roe Vs Wade). Da allora, nonostante il dibattito sulla questione morale e medica intorno all’aborto non si sia mai spento, la divisione e il confronto fra i due schieramenti pro e contro l’aborto si è incanalato su linee ben delineate. Per anni, politicamente parlando, il partito democratico ha sostenuto la causa pro aborto e quello repubblicano la causa contro l’aborto e per la vita.

I dogmi accettati da ambo le parti erano i seguenti: Per i democratici aborto libero con qualche limitazione, per i repubblicani niente aborto eccetto in caso di violenza carnale, relazioni incestuose, pericolo di vita per la donna. Negli ultimi tempi il dibattito pro o contro l’aborto si è inasprito; è diventato piu militante, più intransigente, più radicale, meno accondiscendente. Le ragioni di questa svolta sono da ricercare in molteplici fattori: l’avvento dell’ecografia, l’attivismo dei gruppi anti-aborto nelle università e di fronte alle cliniche dove si eseguono gli aborti. La visualizzazione degli orrori dell’aborto attraverso i social media e la testimonianza di donne che si sono sottomesse  ad una procedura di aborto e come conseguenza hanno subito traumi, soffrendo e mostrando segni da disturbo da stress post-traumatico.

Nel 2002 il Congresso Americano passò all’unanimità una proposta di legge, firmata poi dall’allora presidente Bush, che proteggeva un neonato che sopravviveva ad un tentativo di aborto (H.R.2175 – Born-Alive Infants Protection Act of 2002). La legge obbliga il medico che effettua l’aborto, in caso di sopravvivenza accidentale dell’infante all’intervento, di provvedere a tutte le cure mediche necessarie a garantire la sua sopravvivenza. La legge fu votata all’unanimità dal congresso americano, inclusa la senatrice Hillary Clinton. Nonostante le diverse posizioni ideologiche sull’aborto, quella legge chiariva quello che avrebbe dovuto essere per natura logico e cioè che un bambino destinato all’aborto ma estratto vivo, per quanto minuscolo fosse, doveva considerarsi a quel punto, a tutti gli effetti, una persona con gli stessi diritti di ogni altro essere umano. La legge si riferiva più che altro a casi in cui si conduceva un aborto su un feto di oltre 20 settimane di gestazione, poiché più tardi avviene l’aborto piu` aumentano le possibilità di sopravvivenza del feto. Non mi dilungo troppo sugli aspetti medici e scientifici della questione perché non mi considero un esperto, ma lo spirito della legge era chiaro. Sebbene sia da considerarsi un caso raro, a volte le donne partoriscono nonostante un tentativo di aborto. Secondo il Born-Alive Protection Act del 2002, “il personale medico deve considerare il neonato vivo se osserva respirazione, battito del cuore, pulsazioni del cordone ombelicale o movimenti muscolari volontari confermati, indipendentemente dall’età gestazionale.”

L’attuazione della legge si era resa necessaria per aiutare a chiarire a chi non riconosceva, per ignoranza o per malizia, la differenza fra una creatura nata viva e una morta; questo indipendentemente dalle ragioni del parto, fossero esse naturali oppure forzate da un aborto volontario. Una scelta logica per i legislatori americani; votare per prevenire quello che si poteva considerare un infanticidio. Quella unità di intenti nel riconoscere un atto intrinsecamente malvagio, nonostante le differenze ideologiche, non esiste piu. Il partito democratico di oggi non e piu quello del 2002. Il partito democratico di oggi e retaggio di un individuo che ha dispensato per otto anni bombe e guerre attraverso il globo, mettendo a fiamme e fuoco intere nazioni.

L’anno successivo, nel 2003, un allora sconosciuto senatore locale, eletto al parlamento dello stato dell’Illinois, il signor Barack Obama votava contro un disegno di legge dell’Illinois chiamato Born Alive Infants Protection Act, modellato sulla legislazione federale emanata nell’anno precedente. Il significato di quel no era semplice; Obama trovava assolutamente accettabile che quei bambini sopravvissuti ad un tentativo di aborto venissero semplicemente lasciati morire. Quel semplice gesto ha segnato il giro di boa per il partito democratico verso posizioni più radicali sull’aborto; da lì la conseguente reazione dei repubblicani i quali spinti dalle organizzazioni anti-aborto hanno spinto verso una profonda incolmabile divisione fra le parti e verso un’alzata di scudi degli schieramenti a protezione delle rispettive posizioni. Negli ultimi anni gli stati conservatori, quelli cioè in mano a legislatori repubblicani, hanno proposto e avanzato disegni di leggi statali volti a regolare l’accesso all’aborto. Come reazione, negli stati a maggioranza democratica c’è stata una corsa alla ulteriore liberalizzazione delle leggi sull’aborto.

Lo scorso anno con la nomina del giudice Bret Kavanaugh alla Corte Suprema di Giustizia, l’equilibrio si e` spostato decisamente a destra e con esso il timore da parte dei democratici e delle forze pro aborto che la Corte Suprema Americana potrebbe decidere di rivisitare l’orientamento di liberalizzazione adottato nel 1973. Ecco spiegata anche la ragione della resistenza democratica alla nomina di Kavanaugh. Nomina conseguita nella più disputata, litigiosa, procedura di conferma di un giudice mai vista al Senato Americano. Il panico del movimento pro aborto timoroso di perdere i diritti acquisiti negli anni si riflette nel partito democratico stesso. Questo senso di scoramento e allarme ha portato negli ultimi tempi ad una più radicale posizione dei politici democratici, fino a spingersi a condonare e legalizzare l’infanticidio. Da qui l’epilogo dell’orrenda legge varata dallo Stato di New York e il tentativo, fallito di far passare una legge analoga nello stato della Virginia. Tutto questo mentre altri stati sotto il controllo del partito Democratico contemplano la stessa legge attuata dallo stato di New York; Rhode Island, Vermont, New Mexico.  Il partito democratico si è trasformato a tutti gli effetti in una macchina di distruzione di massa.

C’è un altro aspetto importante da considerare; quello forse  più importante ,ma meno conosciuto in questo interminabile dibattito sull’aborto; l’impatto dell’aborto nelle popolazioni minoritarie, in particolare nelle comunità afroamericane. Il dramma dell’aborto nelle comunità afroamericane è immane. L’aborto è il killer numero uno nella comunità nera. Uccide più dell’HIV, del diabete, delle malattie cardiache e del cancro messi insieme. Utilizzando le statistiche rilasciate nel 2008 dal CDC (il 2008 è l’anno più recente disponibile che fornisce statistiche sull’aborto a livello nazionale), ci sono stati 317.547 aborti nella comunità nera. Secondo l’istituto pro-aborto di Guttmacher, questo numero rappresenta il 30% (la percentuale di aborti neri) del 1.058.490 aborti della nazione nel 2011. Tutte le altre cause di morte ammontano a 286.797.  Nella comunità nera i morti superano il numero dei nati. La ragione è da ricercare principalmente nell’alto numero di aborti.

Le voci di protesta nella comunità nera contro questo vero e proprio genocidio, sono ancora poche ma forti e coraggiose. Una persona su tutte si è elevata in questi anni a guerriero nella crociata anti-aborto: il Reverendo Dottor Clenard H Childress Jr. Fondatore del movimento blackgenocide.org (http://blackgenocide.org/director.html). Ho avuto il piacere di conoscere qualche anno fa molto brevemente il Dottor Childress, durante un evento a San Francisco. In questi giorni di pura follia omicida, dove molti stati dell’Unione contemplano la regolarizzazione dell’infanticidio, mi sono sentito in dovere di contattare il Dottor Childress per porgli alcune domande.  Ringraziamo il Dottor Childress per la disponibilità e la premura nel dedicarci un po’ di tempo della sua impegnatissima giornata.

Grazie per aver accettato questa intervista per il nostro blog italiano, l’Italia e il mondo. Ci sono alcune domande che vorrei porre e alle quali rispondere sul sito web.

 

 1) Come è partito il suo coinvolgimento nel dibattito sul tema dell’aborto?

Sono  stato reclutato da un attivista locale che lavorava per l’organizzazione Life Net . Organizzazione che entra nelle scuole per insegnare il messaggio di astinenza e i pericoli dell’aborto. Durante uno di questi incontri, Chris Flaherty si è avvicinato ad un adolescente che frequentava la mia chiesa ed è rimasto positivamente sorpreso dalla sua conoscenza sulle questioni dell’aborto e dei suoi effetti dannosi.

 

2) La maggior parte dei media e dei cittadini italiani sono in qualche modo consapevoli del dibattito in corso sull’aborto in questo paese. Ciò di cui non sono a conoscenza è l’impatto che l’aborto ha avuto sulla comunità nera. Puoi darci qualche dato su quanto l’aborto abbia trasformato la comunità nera negli ultimi decenni da quando è passata la Roe V Wade?

Dal momento in cui la Corte Suprema ha approvato la Roe Vs Wade, si contano 20 milioni di bambini afroamericani uccisi dall’aborto. Ogni giorno 1786 Bambini afroamericani vengono uccisi dall’aborto.

 Il 52% di tutte le gravidanze afroamericane finisce con l’aborto

 A New York, Philadelphia, Los Angeles ci sono più bambini abortiti che nati.

 

3) Puoi spiegarci brevemente cosa hanno attuato i legislatori di New York sull’aborto e cosa hanno tentato di fare i legislatori della Virginia sull’aborto?

Il Governatore Cuomo ha promosso un disegno di legge per assicurarsi che un bambino possa essere abortito fino al nono mese di gravidanza (le leggi dello stato del New Jersey già lo consentono). La Virginia ha tentato di rimuovere le restrizioni sugli aborti tardivi che rispecchiano sostanzialmente la legislazione di New York. Molti Stati pro-aborto (stati sotto il controllo democratico) anticipano la caduta del Roe Vs Wade, prendendo la decisione come singolo stato. Quindi stanno cercando di proteggere le loro leggi che favoriscono l’aborto.

 

4) Puoi farci una breve storia su come il Partito Democratico abbia conquistato i cuori e le menti della comunità nera e come questa totale resa sia stata deleteria per la comunità nera?

 Nel 1960 i democratici John F Kennedy e Lyndon Johnson, nonostante le obiezioni del loro stesso partito, hanno collaborato con Martin Luther King (repubblicano) nel passaggio della legislazione sui diritti civili, sostanzialmente sostenuta dai repubblicani. La promessa data a Kennedy e Johnson era il sostegno di un blocco di voto più ampio per le loro candidature personali.

 

5) A suo parere pensa che ci sia speranza che i leader neri e la comunità nera in generale acquisiscano consapevoleza sul dannoso rapporto che hanno con il partito democratico e sulla funesta conseguenza che  l’industria dell’aborto ha sulla comunità nera?

SÌ, incrementalmente la comunità afroamericana attraverso l’educazione di base sta iniziando a recepire il messaggio. È stata la mancanza di conoscenza e la deliberata disinformazione e censura che ha permesso all’aborto e alla sua industria di diventare una roccaforte nella comunità afroamericana. Ci sono molti che assumono ora il ruolo di “emancipazione” e chiedono giustizia sociale per quel segmento della nostra comunità cui è stato negato il sogno americano e il diritto alla vita stessa.

 

 

 

 

 

http://blackgenocide.org/home.html

 

http://www.toomanyaborted.com/wp-content/uploads/2013/02/nvsr62_01-2.pdf

 

http://www.toomanyaborted.com/wp-content/uploads/2013/02/fb_induced_abortion.pdf

 

http://www.toomanyaborted.com/wp-content/uploads/2013/02/nvsr63_03.pdf

 

GLI STATI UNITI NEL VICINO ORIENTE. ORDINI E CONTRORDINI_intervista ad Antonio de Martini

Trump ha annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria e dall’Afghanistan. Putin ha sostenuto la scelta dell’amico Donald “sempre che riesca a darvi corso”. Un annuncio che ha innescato un ulteriore conflitto all’interno dello staff presidenziale, con le dimissioni del generale Mattis e certamente accelererà le dinamiche già convulse nel Vicino Oriente. Al provvedimento, sempre che abbia seguito, farà certamente da contrappeso qualche compensazione alle vittime designate di questa scelta: parte dei curdi sul campo di battaglia, l’Arabia Saudita di Ben Salman nel contesto geopolitico di quell’area. Non di meno la scelta assume un carattere dirompente. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://www.youtube.com/watch?v=-BUnvgcHFR4&feature=youtu.be

 

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico_Intervista su “scenari economici”

Gianfranco La Grassa ripropone in questa intervista la sua chiave di lettura delle dinamiche sociopolitiche in corso: la teoria del conflitto tra centri strategici. In Italia uno dei tentativi più riusciti di superamento delle categorie di pensiero politico dominanti nel XX secolo_Giuseppe Germinario

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico

https://scenarieconomici.it/intervista-esclusiva-a-gianfranco-la-grassa-crisi-economica-mutamenti-geopolitici-conflitto-strategico/

Per Scenari Economici, un’intervista esclusiva a Gianfranco La Grassa, già docente di economia politica nelle Università di Pisa e Venezia, studioso di marxismo e di strutture della società capitalistica. Autore di decine di saggi pubblicati con le più importanti case editrici italiane (Editori, Feltrinelli, Dedalo, ManifestoLibri, Mimesis) avendo traduzioni in varie lingue. Fra gli ultimi lavori pubblicati: Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli (2015), Tarzan vs Robinson. Il rapporto sociale come conflitto e squilibrio (2016), L’illusione perduta. Dal modello marxiano verso il futuro (2017), In Cammino – Verso una Nuova Epoca (2018). Qui la sua bibiografia completa.

1. Nel nuovo anno uscirà il suo libro su “Crisi economiche e i mutamenti geo(politici)” per l’editrice Mimesis. La sua interpretazione dei fenomeni finanziari e di quelli economici in generale è molto differente da quella delle scuole di pensiero dominanti. Lei propone un diverso livello teorico per interpretare la crisi delle società capitalistiche, parlando di terremoti di superficie che interessano la sfera economico-finanziaria e di scontri in profondità che interessano quella (geo)politica-militare. Quest’ultimi sarebbero più decisivi perché attinenti alla “potenza”. Di cosa si tratta?

R. Di quello di cui si dice appunto nella domanda. Bisognerebbe certo partire da molto lontano. Con la fine dei rapporti di tipo schiavistico o servile (com’erano nel mondo antico e in quello feudale), nella società moderna – detta fin troppo genericamente capitalistica – si afferma sempre più nettamente la libertà ed eguaglianza dei diversi individui, fra i quali si generalizzano progressivamente delle relazioni basate sullo scambio di merci, considerato appunto il fondamento ultimo e decisivo di detta libertà ed uguaglianza. E’ questo processo (storicamente abbastanza lungo) a portare in evidenza la sfera produttiva (le merci si devono produrre), che nelle formazioni sociali precedenti era decisamente subordinata a quelle del potere politico (e militare) e ideologico-culturale. Non viene preso in attenta considerazione il fatto che la stragrande maggioranza dei componenti la società possiede una sola merce da scambiare: la propria capacità lavorativa (di vario genere), la cui “produzione” implica particolari processi d’ordine biologico, socio-culturale, ecc. abbisognanti d’altre merci fornite da chi controlla i mezzi tecnici (e organizzativi) della loro produzione. Ripeto che qui il discorso dovrebbe diventare molto lungo e impossibile in questa sede. Sintetizzando, diciamo che la particolare libertà ed uguaglianza, fondamento del sistema dei rapporti sociali capitalistici, porta nella sfera produttiva quel conflitto (detto, con eccessiva bonarietà, concorrenza) che nelle precedenti società era specifico delle altre sfere sociali già prima nominate. E tale tipo di conflitto – e lo si constata appunto benissimo nelle società in cui esso era concentrato soprattutto nella sfera politica (e bellica) – alterna fasi in cui un dato potere predomina, almeno in una determinata area territoriale e sociale, il complesso dei rapporti tra gruppi sociali, con altre fasi in cui s’indebolisce tale predominio (definiamolo “centrale”) di una parte sulle altre; da qui inizia il periodo di crescente “disordine globale” che esige uno scontro, più o meno lungo e con l’impiego di svariati mezzi, fino ad arrivare a quello decisivo e “d’ultima istanza” (bellico), che potrà condurre ad una nuova fase di preminenza di una parte (in genere diversa dalla precedente). Nella società capitalistica, tenuto conto di quanto detto molto sommariamente in merito al tipo di affermazione (mercantile e “concorrenziale”) della libertà ed eguaglianza degli individui (in genere raggruppati in date associazioni di “unione e alleanza”, ma sempre per libera scelta), la tipologia di conflitto appena considerata – con l’alternanza tra fasi di predominio di una parte e dunque di relativo “ordine” e “pace” e altre di esplosione del conflitto aperto con disordine globale – si estende alla sfera produttiva. Proprio per questo, ho sempre aderito alle tesi secondo cui le crisi economiche dipendono soprattutto dalla cosiddetta “anarchia mercantile”, che si afferma periodicamente con netta evidenza. Di conseguenza, mai mi ha convinto la tesi che le crisi si attenuassero con il formarsi di imprese oligopolistiche; anzi, più sono grandi e potenti i contendenti e più, alla fin fine, si arriverà a scontri di accentuata violenza e portatori di ampio disordine. Inoltre – ma questo l’ho potuto spiegare solo in numerosi libri e non posso sintetizzarlo qui – ritengo che le crisi economiche di notevole portata dipendano alla fine dall’indebolimento di un potere predominante “centrale” (cioè posto all’apice di una piramide che si allarga al controllo di un’ampia sfera territoriale e sociale, al limite il mondo nella sua globalità) con crescita di tanti altri poteri. Ma questo potere “centrale”, o invece l’insorgere di altri con l’acutizzarsi del reciproco conflitto, sono fenomeni che si manifestano, con principale e netta influenza sul resto, nella sfera politica (con le sue “diramazioni” belliche) e semmai, ma in subordine, in quella dell’egemonia ideologico-culturale.

2. La sua critica all’economicismo, che si erge a chiave di lettura esclusiva dei fenomeni sociali, è radicale. Lei, infatti, porta in primo piano la conflittualità tra gruppi dominanti in ogni sfera dell’agire umano: economica, politica e ideologica. Lei sostiene che la Politica, intesa come sapere strategico, serie di mosse per primeggiare e conquistare il potere, è prevalente in ogni ambito sociale. L’utilizzo di questo paradigma apre nuovi scenari interpretativi, anche rispetto alla vecchia analisi marxista. Dove conduce il suo pensiero?

R. Dove lo conduca non saprei dirlo, anche perché non sono Marx, in grado di condurre ad una teoria abbastanza conchiusa con una buona coerenza interna nei suoi passaggi tra premesse, argomentazioni intermedie e conclusioni. So che in effetti io – pur avendo letto moltissimo nei più svariati campi: scientifici, storici, filosofici – ho fatto una scelta marxista che quindi condiziona il mio pensiero anche nel momento in cui mi sono allontanato da quel pensiero, che resta il punto d’orientamento generale. Ho discusso il modello marxiano in dieci video-puntate che credo siano ben riuscite, e ho già approntato ben tre ridiscussioni critiche dello stesso. La premessa centrale di Marx credo si possa così sintetizzare. Senza produzione di una varietà di beni, storicamente sempre più ricca e mutevole, la nostra specie umana non potrebbe né saprebbe sopravvivere (cosa fin troppo ovvia). La sfera produttiva è caratterizzata da sistemi di rapporti, anche questi storicamente mutati (a volte lentamente, in dati momento in modo rapido e “rivoluzionario”); si tratta appunto dei rapporti sociali di produzione che costituiscono in un certo senso lo “scheletro” del “corpo” delle diverse società succedutesi nel tempo e che quindi hanno una loro forma “storicamente specifica”. Tale “scheletro” condiziona anche la collocazione (e perfino il funzionamento) dei diversi organi collocati in quel “corpo”. Qui sono cominciati i miei dubbi perché in definitiva è in quello “scheletro” che vengono poste le due grandi “classi” decisive per i mutamenti subiti dalle diverse formazioni sociali (sintetizzando: schiavista, feudale, capitalistica e quella che si sarebbe dovuta formare per gestazione interna a quest’ultima: socialista in quanto fase di transizione al comunismo, che NESSUN marxista ha mai dato per nato in una qualsiasi area del globo). In effetti, per Marx, le due grandi “classi” antagonistiche – con cui infatti egli inizia il “Manifesto” del 1848 scrivendo che tutta la storia è storia di lotte di classi: proprietari di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia (capitalisti) e proletariato (gli operai); in sintesi e generalizzando, tra i gruppi sociali dominanti e quelli dominati – si formano nella sfera produttiva (cioè nello “scheletro”) e sono costituite dai proprietari dei mezzi di produzione e dai produttori privi di quella proprietà. E sarebbe appunto la lotta tra queste due classi a marcare la storia umana e il succedersi delle varie forme di società. In effetti, ho pensato invece che il conflitto, causa delle trasformazioni dei rapporti sociali, non avvenga principalmente nella sfera produttiva. Non posso certo sintetizzare tutto l’arco del mio ragionare. Diciamo semplicemente (e con mancanza di molti passaggi intermedi, che si trovano soltanto nei miei libri, soprattutto da metà anni ’90 in poi) che il “conflitto è vita”, non esiste alcun tipo di esistenza vitale senza lo scontro, l’urto di “elementi contrapposti” tra cui scorrono più o meno violente cariche energetiche. D’altra parte, soprattutto nella nostra società umana, il conflitto è guidato dall’obiettivo della conquista della supremazia. E questa non si conquista senza lo studio e poi l’applicazione di una strategia, di una serie di mosse concatenate miranti a quell’obiettivo supremo. Ma le strategie appartengono a più parti in conflitto e dunque ognuna deve tener conto anche delle mosse delle altre. Inoltre, è assai importante l’analisi del “terreno”, del “campo”, in cui si svolge lo scontro. Allora, quello che indico come “conflitto strategico” riguarda ovviamente tutte le sfere sociali, anche quella economica (produttiva e finanziaria) e ideologico-culturale; e i soggetti in queste implicati perseguiranno i loro specifici interessi e stabiliranno alleanze e connubi con soggetti delle altre sfere. Tuttavia, a me sembra evidente che quella politica (con annessi apparati bellici e i vari Servizi, ecc.) sia quella di maggiore impatto per la vittoria nel confronto per la preminenza. E inoltre, mi sembra un po’ forzata l’idea che il conflitto avvenga direttamente tra dominanti e dominati. Credo che la storia veda assai più lotte tra dominanti (e quella moderna proprio tra Stati, tra vari paesi/nazione). Anche quando scoppia il malcontento delle cosiddette masse popolari si va al completo disordine e disgregazione se non vi sono gruppi dirigenti (anche tra i dominati) che guidano “strategicamente” l’urto tra fazioni. Le più grandi rivoluzioni finiscono sempre con l’emergere di nuovi gruppi dirigenti che, in definitiva, promuovono nuove stratificazioni sociali. E si torna ai dominanti e dominati. La stessa cosa avviene nell’arena internazionale, mondiale. Si alternano periodi di relativa calma (e sedicente pace) quando una parte (un paese ad es.) predomina e assicura un certo coordinamento generale, quello che i liberisti cantano come armonica globalizzazione mercantile e fine degli Stati nazionali (altro che il sedicente economicismo dei marxisti). Poi il predominante entra in declino, entriamo progressivamente nel cosiddetto multipolarismo e tutto inizia a scombinarsi investendo infine, nel mondo moderno (“capitalistico”) la sfera economica. Ecco allora le crisi in quest’ultima, che si risolveranno quando avverrà un nuovo decisivo scontro per la predominanza (“coordinatrice”).

3. Lei parla spesso di solidarietà antitetico-polare tra (neo)liberismo e (neo)keynesismo che propongono formule ormai ineffettuali, benché dirimenti, per affrontare le crisi. Mercato e Stato rappresentano i loro totem, anche se con qualche minimo aggiornamento. Considera questi due approcci persino più inadatti del marxismo (il cui totem fu invece la classe operaia) per rispondere ai problemi odierni. Ci può spiegare perché?

R. Anche questa risposta è un po’ complicata. Comunque, non ho mai creduto ad una vera teoria marxista delle crisi. I seguaci di Marx, quelli a mio avviso che più hanno impoverito la sua teoria di ben altra apertura, hanno inseguito visioni economicistiche particolarmente rozze e povere di contenuto, anche quando ben rivestite di formule matematiche (troppo spesso usate nelle scienze sociali per nascondere la propria pochezza d’intelletto). Mi sono dovuto sorbire i dibattiti sul “sottoconsumo” (alla Luxemburg) conditi con le tesi dell’“impoverimento assoluto” della classe operaia; anche questa ridotta dalla definizione marxiana del III libro de “Il Capitale” (cap. XXVII: “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”) alle semplici “tute blu”. Altri si sono dilettati con la “caduta tendenziale del saggio di profitto” dovuta ad un progresso tecnologico con capitale “fisso” in crescita e aumento quindi della “composizione organica del capitale” (C/V): capitale impiegato nei mezzi di produzione diviso per quello impiegato in salari, cioè per pagare i produttori di “valore” e “plusvalore” (dovuto al pluslavoro), che è il profitto capitalistico (e proprio per questo il capitale con cui si pagano i lavoratori è detto variabile, mentre l’altro è detto costante perché può solo riprodurre il suo valore). Chi sa qualcosa di marxismo ha capito ciò che sto dicendo, ma si tratta di cose noiose che è meglio dimenticare. Per me sta bene che si dibatta sulle crisi economiche tra liberisti e keynesiani; entrambi partono dalla teoria del valore come utilità e non come lavoro, che era la tesi dei “classici”, seguiti da Marx ma con un intento preciso che ho chiarito in mille altre occasioni (e certo non mi ripeto qui). Resto allibito dalle discussioni che sento in TV e nella stampa, dove è totalmente ignorato quanto mi avevano insegnato fin dal primo anno di Università sessant’anni fa. Tutti addosso a chi è contro l’“austerità” (necessaria per liberisti di scarsa levatura a salvarci dal debito pubblico, a ridurre il rapporto deficit/Pil), causa non ultima della caduta della domanda (globale: consumi più investimenti) con effetti di crisi. Ma su questo mi sembra si basi quanto mi viene chiesto nella domanda successiva.

4. Nei suoi interventi dice che la crisi del ‘29 non fu definitivamente superata grazie alle politiche espansive del New Deal ma solo in seguito alla guerra,  dalla quale il mondo uscì diviso in due campi contrapposti, ciascuno con un paese egemone a capo. In questa fase, Lei vede principiare lo stesso tipo di scollamento con il declino relativo degli Usa e l’emergere sulla scena mondiale di alcune potenze concorrenti ad est. Quali saranno i risvolti di questa nascente disputa?

R. Qui il discorso dovrebbe essere veramente lungo. Partiamo dal fatto che il New Deal del 1933 attenuò la crisi iniziata con crollo di Borsa nell’ottobre del ’29 e che raggiunse il suo acume (produttivo e non più semplicemente finanziario) nel ’32 con forte calo del Pil e con disoccupazione indicata a più del 30% della forza lavoro. Di fronte ai “superficiali” (diciamo così), che ancor oggi parlano di austerità e di necessità di contenere il debito e che trattano un paese (e lo Stato che lo rappresenta) come fosse un singolo soggetto, un “buon padre” che deve risparmiare per il bene della “famiglia”, si prese atto che le crisi capitalistiche non sono certo le carestie del Medioevo, ma sono invece caratterizzate da sovrapproduzione, in definitiva da carenza di domanda dei cittadini (dei “privati”, diciamo) non in grado di assorbire tutto quanto può essere prodotto in una situazione di piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro in primo piano). Si ovvia a tale carenza con la spesa (domanda) statale e in deficit di bilancio; altrimenti, se si cerca il pareggio, si dà con una mano e si toglie con l’altra. Comunque, sarebbe certo interessante seguire la polemica tra il liberista Pigou (che attribuiva la crisi alle eccessive richieste sindacali comportanti un salario superiore alla produttività marginale del lavoro, tesi tipica della teoria neoclassica tradizionale) e Keynes, che insisteva appunto sulla carenza di domanda complessiva (consumi più investimenti) in un sistema capitalisticamente avanzato dove si manifesta un relativo eccesso di risparmio, non richiesto dai privati investitori anche a bassissimi tassi di interesse; per cui cade uno dei “pilastri” del neoclassicismo, cioè la “legge di Say”, secondo cui, in ogni caso, l’offerta (cioè la produzione) crea sempre la sua domanda, il che impedisce di afferrare i motivi della sovrapproduzione, caratteristica fondamentale della crisi economica dei sistemi di tipo capitalistico. Comunque dobbiamo sorvolare su tutto ciò e sulla fondamentale opera di Keynes del 1936 “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”). Diciamo solo che il New Deal (fortemente negletto da coloro che dibattono sulla crisi iniziata nel 2008 e non affatto superata come pensano tanti sciocchi odierni) ebbe effetti benefici e ridusse l’impatto della crisi per alcuni anni successivi al 1933. Indubbiamente però, direi già con il ’37, si manifestarono sintomi di “appesantimento” e ristagno con nuova preoccupante crescita della disoccupazione del lavoro. La situazione rimase, diciamo così, incerta fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che risolse completamente quella crisi. Autori keynesiani (alcuni divenuti poi anche marxisti: penso a Baran e Sweezy e anche a Magdoff) ne diedero una interpretazione conseguente: eccezionale spesa per armamenti, prodotti che non vanno a “ingombrare” il mercato, dando però vita a profitti e salari con accrescimento della domanda complessiva, che imprime il rilancio della produzione non bellica, quella propriamente mercantile. Dopo la guerra e per un lungo periodo di tempo, nel campo detto capitalistico sembrò superata la crisi “classica” e si parlò al massimo di “recessioni”. La tesi, che mi sono permesso di pensare (e anche qualche altro, di cui non ricordo il nome, ne ha formulato una simile), è che ancora una volta si è data eccessiva rilevanza alla sfera economica, tralasciando quella a mio avviso più decisiva. Nel polo capitalistico del sistema detto bipolare, vi è stato il predominio netto degli Usa, di cui quel polo era la specifica sfera d’influenza. Non posso adesso diffondermi sull’argomento, ma quel predominio ha creato un intero sistema di paesi relativamente coordinato tramite generali influssi (anche economici quindi) promananti dal centro. Questo mi ha portato a ripensare il relativo monocentrismo inglese tra il Congresso di Vienna (1814-15) e la seconda metà di quel secolo, quando avanzano come nuove forti potenze gli Stati Uniti (dopo la decisiva guerra civile con schiacciamento dei cotonieri e forte sviluppo industriale) e la Germania (dopo lo scontro fondamentale con la Francia nel 1870-71). Inizia il periodo del crescente multipolarismo (nell’età detta dell’imperialismo, cioè dello scontro tra potenze per la supremazia). Si verifica un lungo periodo di stagnazione (non generale e non priva di modesti aumenti del Pil; 1873-95 all’incirca), nel mentre si è in piena seconda rivoluzione industriale. Ho assimilato a quel periodo quello iniziato nel 2008; ci si accorgerà prossimamente che la relativa stagnazione odierna (malgrado ci si bei dei tassi di crescita degli Usa e di quelli cinesi; in rallentamento come quelli giapponesi e, mi sembra, indiani) non è ancora superata. Il multipolarismo andrà avanti, crescerà la disarticolazione del sistema a causa di spinte ora centrifughe. A questo punto mi arresto e rinvio a miei testi teorici, che si susseguono già da tempo e che cercherò ancora di approfondire.

5. Lei critica aspramente l’ideologia statalista, al pari di quella del libero mercato. Spesso ha sostenuto che tra pubblico e privato non vi è molta differenza e che molto dipende, non dalla forma giuridica della proprietà, ma dalla visione dei gruppi strategici che guidano gli apparati di vertice istituzionali o imprenditoriali, di una determinata area o Paese. Quelli italiani ed europei, in particolare, come sono messi?

R. Diciamo, più specificamente, che non vi è sostanziale differenza tra impresa pubblica e privata. Nel senso che la prima non è certo dedita a interessi di carattere generale, riguardanti una intera collettività nazionale. Ogni gruppo dirigente di una qualsiasi iniziativa, avente il carattere dell’impresa di tipo capitalistico, deve utilizzare i metodi e perseguire le finalità proprie di tale iniziativa. Certamente, appare assai limitativo rifarsi al semplice scopo del “massimo profitto” (come sostenuto anche da parte di certo marxismo, a mio avviso abbastanza lontano dal pensiero di Marx). Tuttavia, è ovvio che una simile impresa deve puntare al suo rafforzamento; anche se può a volte accettare – per limitati periodi di tempo – di soffrire di perdite, questo deve avvenire in funzione di un indebolimento dei suoi competitori per riprendere poi in mano la situazione da posizioni di preminenza. L’impresa pubblica è importante in Italia perché si diffonde in settori strategici per motivi storici particolari. Nel 1933, proprio a causa della violenta crisi iniziata quattro anni prima, fu necessario il salvataggio di grandi banche come il Credito Italiano, la Commerciale, ecc.; nasce così l’IRI, che poi diventa controllore pure di industrie come AnsaldoTerniIlvaSIPSMEAlfa RomeoNavigazione Generale ItalianaLloyd Triestino di NavigazioneCantieri Riuniti dell’Adriatico e molte altre. IRI significa infatti “Istituto per la ricostruzione industriale”. Esso doveva essere transitorio, ma poi invece divenne definitivo; nel dopoguerra al settore imprenditoriale pubblico si aggiunsero Finmeccanica (1948), Eni (1953) ed Enel (1962). E nel 1962 quel settore giunse a controllare una buona metà dell’industria italiana. Proprio in quell’anno, con l’incidente/assassinio di Mattei, si può dire che parte l’attacco all’imprenditoria pubblica, che si accelera in particolare dopo la “distruzione” (via giudiziaria) della prima Repubblica. Una parte resiste ancora, ma l’indebolimento è stato forte. E quando si sente anche il nuovo governo parlare dell’importanza delle PMI (piccolo-medie imprese), del “made in Italy” (soprattutto moda e prodotti culinari), del turismo, ecc. si capisce che non ci rimetteremo in sesto tanto presto. E allora, ancora una volta, ci si rende conto come il problema centrale per il rafforzamento di un paese – anche della sua sfera economica – è essenzialmente politico; cioè riguarda quella strategia fatta di mosse mediante le quali si tenta di assumere la preminenza in una data area territoriale, diciamo geografico-sociale, più o meno estesa a seconda dei mezzi a disposizione dei diversi paesi. La politica, intesa in questo senso di “conflitto strategico”, riguarda tutte le sfere della società, anche quella economica (caratterizzata dall’impresa e mercato). Tuttavia, la potenza massima della politica (come strategia) si esprime negli apparati ad essa specificamente “dedicati”, al cui vertice c’è lo Stato. Ed è qui che si apre un discorso d’impossibile esaurimento in una intervista. Vi è la questione della politica (cioè del conflitto strategico) in campo internazionale e in quello interno; i collegamenti tra i due e la loro articolazione in termini di principale e secondario in differenti fasi storiche, tra cui molto importante è quella del crescente multipolarismo, com’è quella attuale. Concludo semplicemente manifestando il massimo disappunto (termine molto “morbido”) per come si sta sviluppando il dibattito in questo paese in merito al contrasto con la UE (parte di un confronto/scontro ben più vasto e di grande rilevanza). Tutto un arzigogolare intorno alle misure economiche governative (il tutto condito con menzogne spudorate dalla parte ancora prevalente in Europa e negli Usa, che sente il suo potere in forte crisi) senza alcun coraggio di dire: il problema è POLITICO, e se deve permanere un assetto internazionale ancora predominato da un paese (con i suoi servi privilegiati in Europa; Germania e Francia) o se bisogna “rovesciare il tavolo” con violenza e spostare gli assi delle varie alleanze. E qui mi fermo.

 


Il prossimo libro di Gianfranco La Grassa:

CRISI ECONOMICHE E MUTAMENTI (GEO)POLITICI

  • Editore: Mimesis
  • Collana: Eterotopie
  • Data di Pubblicazione: febbraio 2019

Descrizione

Questo libro nasce dall’esigenza di chiarire alcuni aspetti fondamentali delle crisi economiche mondiali, troppo spesso trascurati dai sedicenti esperti. Già il titolo contiene un intendimento ben preciso, che punta a tenere insieme due piani, quello economico e quello (geo)politico, da non separarsi perché, in verità, essi sono connessi quasi da un rapporto di causa ed effetto. Tuttavia, questa relazione appare rovesciata, in quanto non si utilizzano lenti teoriche ben calibrate per interpretarla, con l’economia che prende impropriamente il davanti della scena, nelle narrazioni ufficiali, rispetto alla politica. Si tratta di un errore, come quello commesso da chi guardando ad occhio nudo il sole crede che esso giri intorno alla terra. Ci vogliono strumenti analitici più raffinati per scoprire che è l’esatto contrario. I fenomeni finanziari vanno trattati come meri elementi segnalatori di sconquassi ben più sostanziali e profondi che avvengono a livello delle strutture sociali internazionali e nell’articolazione dei rapporti di forza tra aree di paesi, egemonizzate da poli di potenza in crescente attrito. La crisi sistemica si manifesta, epidermicamente, con le cadute in borsa, la volatilità dei titoli azionari, lo scoppio delle bolle speculative per poi riversarsi sui fattori reali quali l’arretramento della produzione, la crescita della disoccupazione, il fallimento degli operatori industriali. Ma questo è solo l’inizio di trasformazioni più vaste che toccano inevitabilmente l’architettura geopolitica del mondo. Il libero mercato, a maggior ragione in fasi di trapasso epocale come quella presente, è una esiziale ideologia di distorsione della realtà; ma lo è anche quella mistificazione dei fondamentalisti keynesiani che ritengono di poter superare la débâcle con un altro New Deal. Non fu quest’ultimo a risolvere il ’29, fu la II Guerra Mondiale dalla quale gli Usa emersero quale paese predominate dell’Occidente e l’Urss come il loro contraltare ad Est. La crisi non dipende dalla domanda, tanto meno dal sottoconsumo (in Keynes almeno si tiene conto dell’investimento nella domanda effettiva). La crisi, quando non è mera recessione, si sviluppa per processi storici inevitabili che riguardano la lotta per la supremazia tra agenti strategici in campo (geo)politico. Allorché questo conflitto si fa più acuto saltano le regole del gioco in ogni sfera sociale, a cominciare proprio da quella economico-finanziaria che rappresenta l’esteriorità del capitalismo. Ma chi si ferma a questa apparenza non coglie ciò che ci aspetta e non troverà soluzioni alle attuali difficoltà.

LA DEMOCRAZIA VALE SE SI VOTA GIUSTO; Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk, a cura di Max Bonelli

Questa volta ci troviamo in Donbass (Ucraina), grazie al prezioso contributo di Max Bonelli. Il Donbass è uno dei tanti focolai di guerra pronti a riesplodere in funzione delle strategie conflittuali ai danni della Russia. Ha la peculiarità di essere a poche centinaia di chilometri da Mosca. L’occasione del conflitto scatta con il colpo di mano in Ucraina di quattro anni fa con il quale si è voluto spostare quel paese da una condizione di neutralità e di forte legame con la Russia ad una di vera e propria sudditanza occidentale e nel contempo si è proceduto ad una politica di forte discriminazione della popolazione russa e russofona, ancora più accentuata e violenta di quella dei paesi baltici. Sull’Ucraina si sono concentrate, oltre a quelle strategiche e più prosaiche americane, anche le ambizioni egemoniche dei paesi europei centrali e nordorientali sino a creare un guazzabuglio dal quale è scaturito un regime fantoccio nemmeno in grado di attingere dal proprio paese i componenti del governo. Su tutto ha brillato l’Unione Europea, pronta ad accettare nel proprio seno, un paese in piena guerra civile contrariamente alla prassi ultradecennale. La massima aspirazione possibile, al momento, risulta un congelamento delle posizioni acquisite_ Germinario Giuseppe

Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

Mi trovo al museo della Grande Guerra Patriottica di Donetsk, appena di fianco all’enorme stadio dello Shakhtar Donetsk, che doveva ospitare i successi della squadra del miliardario Rinat Akhmetov. L’uomo che più di tutti in Donbass aveva saputo sfruttare la rottamazione dell’URSS e che in venti anni aveva costruito un impero finanziario con capitale Donetsk. Accanto a questo simbolo oggi nazionalizzato dalla Repubblica, lavora Vladimir Vladimirovic Savelov veterano dell’Afganistan e dell’ultima guerra in Est ucraina. Un età indefinita tra i 50 ed i 60 bruno dal volto affilato, la tradizionale maglietta a righe dei fanti di marina, si intona con un busto sorprendentemente atletico per la sua età.

Un uomo simbolo che aveva  perduto una patria, ideali in quella rottamazione ma che nella ribellione del 2014 ha ridato corpo ad una speranza di un ritorno alla Russia ed ad una società più giusta.

 

D: Prima della guerra in Donbass, che attività lavorativa svolgevi?

 

R:Ho iniziato a servire il mio paese in Afganistan, ho ancora in ricordo parecchie schegge in entrambe le gambe, ero giovane al ritorno ho fatto tanti lavori. Minatore, metalmeccanico, prima della fine dell’Urss ero responsabile dell’educazione ideologica dei giovani di un grande quartiere Kievski di Donetsk. Poi dopo la caduta dell’Unione Sovietica è caduto tutto un mondo ed anche qui a Donetsk i dollari hanno comprato l’anima della gente.

 

D:Quindi la sua collocazione politica era ben chiara prima della guerra?

 

R: Si certo, ero membro del partito.

 

D: L’unione delle repubbliche sovietiche è caduta con uno strano voto democratico, possiamo dire che la prima votazione veramente democratica in Unione sovietica (il referendum del 1991), vede la volontà popolare della maggioranza dei cittadini esprimersi a favore dell’unione ed invece i vertici politici (Eltsin, Kravciuk) decidono di non rispettare questa volontà popolare e lo stato si divide in tante repubbliche, il Donbass a maggioranza russa finisce sotto l’Ucraina. Come ha vissuto personalmente questi 20 anni di indipendenza ucraina?

 

R:

Vorrei fare una premessa partendo dalla fine della guerra patriottica. L’Urss con tutti i paesi con cui collaborava od aveva alleanze non si comportava come un alleato che depredava le nazioni ma anzi le aiutava in maniera tangibile. Faccio l’esempio di Cuba e del Vietnam che hanno avuto più volte i loro debiti condonati. A differenza degli Usa che  ha saccheggiato con le sue multinazionali ed i governi fantoccio l’Africa ed il Medio Oriente. Questa e’ stata una delle concause della cattiva situazione economica dell’URSS negli anni anni 80. Inoltre sono stati sempre fomentati e foraggiati i nazionalismi all’interno dell’Urss dai servizi segreti occidentali per mettere in atto un processo di disgregazione.

Nonostante questo  votammo a favore per tenere l’URSS unita oltre il 60% complessivo della popolazione, ma i dirigenti politici se ne fregarono ed preferirono seguire i desideri delle minoranze nazionalistiche dividendo la Russia dalla Ucraina. Riscontrammo con i fatti che proprio le persone che sventolavano la bandiera della democrazia erano i primi ad ignorarla quando non gli faceva comodo.

Una manovra che ebbe sicuramente come regia la CIA e l’ambasciata americana. Io come  tutto l’Est ucraina da Karkov ad Odessa che aveva votato per rimanere uniti mi ritrovai in uno stato non mio sotto una bandiera che non mi apparteneva.

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D: Trovo molto interessante questa tua riflessione. Nello specifico il Donbass vede la sua volontà democratica violentata non solo in quella occasione, ma anche con il golpe a Maidan. Yanukovych era stato eletto nel 2012 con la stragrande maggioranza dei voti della Crimea e del Donbass. Cosi come non venne rispettato il voto  dei Crimeani per annettersi alla Russia e quello interno dell’11 maggio 2014 a Donetsk e Lugansk con lo stesso proposito.

Concorda con questa mia analisi?

 

R: Certo la volontà del popolo di Donetsk è stata calpestata sistematicamente, con il golpe di maidan dove un legittimo governo è stato rovesciato e l’11 maggio 2014 quando  volevamo rispondere con un atto democratico al golpe pagato dagli americani.  Ma la SBU i servizi speciali ucraini fecero male i loro calcoli quando attuarono il massacro del 2 maggio 2014 ad  Odessa e quello del 9 maggio a Mariupoli dove nel giorno della vittoria spararono alla gente che manifestava pacificamente. Cinquanta morti ad Odessa e venti a Mariupoli. La faccia della democrazia americana venne allo scoperto per tutti e l’11 maggio l’80% voto per l’annessione alla Russia.

Eravamo gente che non aveva votato giusto, da reprimere con la violenza più brutale esattamente come facevano i nazisti tedeschi. Per questo in questo museo abbiamo aperto una sezione dedicata agli eroi morti nella guerra in Donbass Givi, Motorola e tanti altra gente nata qui, russi da tutte le Russie ma anche ucraini che non si riconoscevano nel nazismo di Kiev. In tanti sono morti in questa ribellione. Non potevamo fare altro che ribellarci al sistematico sopruso della nostra volontà.

 

D:Parliamo dell’inizio della guerra civile, possiamo dire che è partita da Slaviansk?

 

R: No,tutto è partito dalla strage di Odessa e Mariupoli, intendo la mobilitazione generale. Io penso che questi processi storici avvengono come una reazione a catena. Il golpe a maidan è stato preparato con un lavoro di anni, sia  e livello di addestramento che sul piano della propaganda antirussa. Poi i servizi Nato-ucraini preparano le stragi Odessa e Mariupoli, stragi che soprattutto ad Odessa possono essere sfuggite di mano anche a loro e che si sono presentate in una brutalità imbarazzante.

Tutto ciò ha portato ad una reazione ancora più forte e da li la guerra civile.

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D: Nel mio libro Antimaidan riporto un video apparso su You

Tube dove cittadini di Donetsk che vivevano al confine con l’aeroporto vedevano arrivare un centinaio di soldati con uniformi ed equipaggiamento non ucraino. Parliamo di marzo, aprile 2014

Cosa ricordi dei combattimenti a cui hai partecipato nel 2014?

Hai avuto la sensazione che l’aeroporto a Donetsk fosse

tenuto da militari non ucraini, intendo uomini di paesi Nato nella primavera di quell’anno?

 

R: Ho partecipato al primo attacco all’aeroporto il 26 maggio eravamo divisi in tre gruppi. Due coprivano dai grandi magazzini Metro e dall’edificio Volvo ed il terzo penetrò nel nuovo terminale. Li e sul perimetro trovammo una resistenza ben organizzata, erano professionisti non sembravano ucraini, certo la sicurezza al 100% non la ho.

Erano ben vestiti ed addestrati, interagivano bene con gli elicotteri di attacco che fecero il grosso delle nostre vittime.

Noi invece eravamo armati di AK con tre  caricatori a testa una autonomia di cinque minuti di fuoco, qualche mitragliatrice e qualche RPG7. Nulla avevamo contro gli elicotteri, abbiamo avuto molti morti al nuovo terminale, una settantina almeno. Mi ricordo che arrivò un cittadino, un camionista, che aveva sentito dei combattimenti con tanti morti e feriti e venne in pantofole con il suo camion ad evacuare i feriti ed i corpi dei morti, sotto il fuoco degli elicotteri. Noi che coprivamo provammo ad attirare il fuoco degli avversari su di noi. Ma alla fine anche dopo l’evacuazione del nuovo terminale la situazione era difficile anche per i gruppi di copertura. Arrivò un anziano, forse accompagnato con la macchina non so, gli mancava una parte di gamba era un veterano della Guerra Patriottica. Ci disse “andate, vi copro io con la mitragliatrice”, non ci fu verso di levargli la mitragliatrice e noi andammo. Fu trovato il giorno dopo morto accanto alla mitragliatrice. Ecco questo ho visto dei combattimenti a maggio. Eravamo quasi tutti di Donetsk, qualche volontario russo ma non erano professionisti, gente normale.

 

Il momento è umanamente pesante, cade il silenzio, mi viene in mente che alla prima tregua quella fatta per le feste natalizie del dicembre 2014, si affrettarono gli ucraini ad avvicendare gli uomini. Ufficialmente il motivo era che non avevano equipaggiamento adatto all’inverno ma tanti osservatori ritenevano che l’avvicendamento riguardava mercenari stranieri sostituiti da reparti scelti ucraini, quelli che persero l’aeroporto nel febbraio del 2015. Chiudo l’intervista con una domanda più leggera.

 

D: Come vedi da cittadino della Repubblica, lo sviluppo economico dell’ultimo anno? La gente ritorna , si riaprono attività produttive, le strade vengono riparate, qual’è la tua opinione?

 

R: Tutto sta andando per il meglio, Zakarchenko il nostro presidente, lavora bene, incomincia la gente a tornare. A fine 2014 questa era una città fantasma abitata da 200.000 persone ma adesso stanno tornando, si parla di 600.000 che risiedono stabilmente, si arriva a 900.000 compresi quelli che  fanno lavori negli altri paesi. I cannoni sparano raramente e la gente  torna alle proprie attività, non possiamo condannare la paura della gente. In guerra tutti hanno paura, non credere a chi dice il contrario.

 

Saluto Vladimir con una stretta di mano ed il dono del mio libro Antimaidan al museo con una piccola dedica. Capisce che il libro è stato scritto per amore di verità, ed oggi in questo momento storico basta raccontare i semplici fatti per essere considerato un amico della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

 

Max Bonelli

 

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