LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…

C’è un segnale inconfutabile che il governo Conte-bis sta per istituire nuove imposte o alzare qualche aliquota: e non è solo la proposta (di deputati del PD) dal nome buonisolidarista di “Contributo di solidarietà” sui redditi superiori a € 80.000,00, ma è che già i corifei delle élite decadenti hanno intonato di nuovo il ritornello ripetuto tante (purtroppo) volte negli ultimi 50 anni: lotta all’evasione! paghiamone meno paghiamole tutti! Dopo che è stato gorgheggiato a lungo, l’esperienza insegna,  segue, puntuale come la morte, uno o più aumenti (o istituzioni) d’imposta che, avrebbero lo scopo esternato di combattere l’evasione”, ma invece hanno quello praticato, di far pagare di più quelli che non evadono (i soliti). Risultato esternato che è peraltro poco (o punto) raggiunto . Facciamo un esempio. L’IVA, l’imposta che ha il maggior gettito dopo l’IRPEF, fu istituita nel 1972 e vige dal 1973; l’aliquota ordinaria nel 1973 era del 12%. Nel tempo tale aliquota ha avuto 9 variazioni: 7 al rialzo (ne dubitavate?) e 2 al ribasso. Con gli ultimi rialzi dei governi Berlusconi (sul piede di partenza) e Letta siamo arrivati al 22%.

Ossia l’aliquota è quasi raddoppiata. A che è servito il (quasi) costante rialzo? Sicuramente ad aumentare la predazione dei contribuenti i quali pagano per ogni cessione di beni e servizi soggetti all’aliquota ordinaria (quasi tutti) il 10% in più a Pantalone (obiettivo colto ma occultato). Quanto al fine esternato il calcolo è più difficile, per il carattere presuntivo e/o parziale dei dati. Comunque da dati (relativamente) affidabili si sostiene che dal 1980 al 2009 l’evasione dell’IVA è calata dal 20% al 14%; valutazioni diffuse alla CGIA di Mestre danno un’evasione stimata (totale, cioè di tutte le imposte e contributi) di circa euro 100 miliardi l’anno dal 2010 al 2015 (relativamente stabile) e per l’IVA, nello stesso periodo di circa 35 miliardi annui. I due aumenti, nello stesso periodo 2010-2015 che l’avevano portata dal 20% al 22% non sembra abbiano inciso affatto sull’evasione.

D’altra parte è noto come le sciagure – come la pandemia – stimolino l’appetito fiscale dei governanti. Amilcare Puviani scriveva che “il sopraggiungere di sventure pubbliche, il minacciare di pericoli nazionali e perfino l’esagerazione o addirittura l’invenzione di quelle o di questi, danno luogo ad attenuazioni degli effetti penosi immediati di imposte, opportunamente collegate a quegli eventi”; ghiotta occasione, quindi, per aumentarle. Pertanto è difficile per il governo PD-M5S resistere alla tentazione, specie per il PD ch’è abituato a cedervi.

Piuttosto è interessante notare come, da quasi cinquant’anni, tale argomento-principe per tosare i cittadini sia un asserto così poco ragionevole e smentito dai fatti.

Gli è che “pagare meno, pagare tutti” è affermazione che ha una qualche base: è vero ad esempio che un’imposta spalmata su un maggior numero di contribuenti, incide meno pro-capite. Se si aggiunge a ciò la proporzionalità dell’imposizione, il carico appare equamente ripartito, Ma se, come avviene (ed avveniva) spesso, non incide (di fatto o di diritto) su tutti e/o non lo fa proporzionalmente, indubbiamente la situazione si deteriora. Al punto che l’esenzione (totale o parziale) della nobiltà e del clero da molti oneri tributari fu una delle cause, forse la principale, della rivoluzione francese.

Scriveva Salvemini che nell’ancien régime le imposte “fuggivano quelli che avrebbero potuto pagare e si abbattevano su chi non era in grado di difendersi”. Possedendo gli ordini privilegiati circa un terzo delle terre francesi (in un paese agricolo!) la conseguenza era che i restanti due terzi dovevano soddisfare quasi integralmente i bisogni crescenti dell’amministrazione statale. Se l’affermazione è vera e si fonda su una semplice divisione da scuola elementare (il dividendo è il fabbisogno delle finanze pubbliche, il divisore il numero dei contribuenti, il quoziente il carico fiscale pro-capite) altri fattori, non puramente quantitativi e forse più determinanti, la condizionano.

Il primo dei quali è l’aumento del dividendo: se il carico fiscale aumenta, il quoziente è sempre più gravoso, anche se equamente ripartito. Altro è dividere un carico fiscale che, nell’Italia di un secolo fa, si aggirava intorno al 20% del PIL, altro oggi, che è oltre il 40%. Anche se equo è comunque troppo.

Il secondo è la destinazione del prelevato: se va a favore di certi ceti o classi, la disuguaglianza, cacciata dal prelievo, si riproduce nella spesa. Tutti pagano in modo uguale, ma alcuni ricevono disegualmente (i tax-consommers).

Il terzo, che il vertice impositore è un complesso politico-amministrativo che, come tutte le classi dirigenti, vive non solo per la politica, ma altrettanto di politica, come scriveva Max Weber. E quindi si appropria di parte della ricchezza prelevata. Quando peraltro la classe dirigente gode di poca considerazione, ha un consenso minoritario e un’autorità (non il potere, autorità) prossima allo zero, come quella italiana attuale, il problema è grave. E diventa gravissimo in un’epoca in cui il risultato economico (in termini di crescita del benessere individuale e collettivo) è decisivo. I governanti attuali, e quasi tutti i precedenti, hanno aumentato il prelievo e non hanno ottenuto altro che una venticinquennale stagnazione, la peggiore d’Europa. E tralasciamo altri rilevanti aspetti del “quadro” complessivo per esigenze di “redazione”.

Perciò è razionalmente superficiale e quindi poco o nulla “comprendente” ridurre a un solo aspetto, forse neppure il principale (ancorché importante) il complesso rapporto tra esigenze pubbliche e giustizia, autorità e consenso, doveri e diritti.

A furia di ripetere il ritornello suddetto, ormai da quasi mezzo secolo e dopo tali penosi risultati significa quindi solo contare sul presupposto che tutti gli italiani siano (detto in politicamente corretto) “diversamente intelligenti”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

AQUIS-GRANA, di Pierluigi Fagan

AQUIS-GRANA. Come va la trattativa europea sul fare fronte all’emergenza economica e poi sociale procurata dal virus? Per i dettagli tecnici che tanto appassionano i lettori del mondo con occhiali economici, avrete di che saziarvi altrove. Mi permetto solo di aggiungere una lettura fatta da chi segue quello che succede nei vari paesi europei e nei vari principali giornali di quei paesi. Quindi niente MES, SURE, Conte, Salvini-Bagnai, condizionalità, Grillo folgorato sulla via di Bruxelles et similia. Segnalo solo che:

A. L’asse Parigi, Madrid, Roma esiste. Credo che, contrariamente a quanto detto da Conte, l’idea sia stata di Macron. E credo che sia stato fissato dati i rapporti tra Macron e Sanchez che sono ottimi da lunga data e dato il viaggio che Macron ha fatto in Italia, il c.d. “Patto di Napoli” del 27 febbraio. L’asse era pensato anche precedentemente la pandemia e rispondeva ad un semplice logica di peso nella relazione di Aquisgrana. La Francia ha molto meno peso della Germania in quella relazione e così come oltretutto la Germania si presenta con dietro il codazzo nordico, la Francia ha pensato opportuno presentarsi con un proprio codazzo che in via naturale è quello latino-mediterraneo.

B. Qualche giorno fa, Macron ha rilasciato una intervista a FT, in cui la buttava giù dura “o si risolvono i problemi di Spagna ed Italia o l’UE è finita”, naturalmente in linguaggio trasversale. Ma solo uno sprovveduto da facebook, può immaginare davvero le cose stiano così in termini di amicizia disinteressata e fronti, la faccenda è immancabilmente “più complessa”.

C. Il punto che a molti sfugge è che Macron non sta messo per niente bene. Le previsioni di punti persi di Pil francese fatte da IMF, non sono poi molto migliori di quelle fatte per l’Italia. Alcuni avranno letto di prime “sommosse” qui e lì in Francia e sappiamo che i gilet gialli sono pronti a “tamponare” l’esecutivo nella fase 2 che inizierà, forse, una settimana dopo la nostra.I francesi, che si sa sono piuttosto nazionalisti, pare non stiano prendendo per niente bene le frizioni al confine tra Alsazia-Lorena e Saarland-Renania. Nei sondaggi, dopo un primo momento di “stringiamoci a coorte” di cui hanno beneficiato tutti leader, Macron ora sembra al’inizio di una discesa libera e ricordo che il giovane ha preso poco più del 20% al primo turno. Solo la nostra italica mania di auto-svalutazione può spiegare il fatto che nessuno qui sappia delle polemiche sul disastro logistico francese. La Francia ha 3500 morti meno di noi ma, ammesso li abbia contati tutti e per bene, sopratutto quelli delle RSA, ha una settimana di ritardo nello sviluppo del’epidemia. Ha ancora 5000 persone in TI (di cui “in genere” un terzo muore) e noi la metà. in più proprio perché aveva una settimana di anticipo rispetto a noi, ci si domanda perché non si sia organizzata meglio e per tempo. Segnalo che la Francia ha fatto ad oggi 7.000 tamponi per milione di abitanti, noi 26.000. La Spagna sta messa anche peggio.

D. Il gioco delle parti, ha previsto che Conte facesse “Ivan il pazzo” ovvero “coronabond o morte!”. Nel mentre, è toccato a Sanchez avanzare l’idea di un fondo molto simile al Recovery bond di cui ora si tratta, in cui si noti la clausola di “debito perpetuo” su cui ci sarebbe da scendere in dettaglio ma qui non possiamo. Ieri su le Monde c’era un elogio di Conte. Macron, ha parlato di alta strategia al FT, in quanto caposquadra e mediatore ultimo non può esporsi su i particolari, ovvio.

E. Segnalo che i ben informati transalpini, dicono che il nuovo consigliere speciale dell’inquilino dell’Eliseo, sia Strauss Khan e chissà che la giravolta copernicana di M.me Lagarde alla guida della BCE non sia un nuovo “usami come vuoi” a cui la signora parigina pare sia stata dedita anche in passato.

F. Infine, chi s’immagina che la Merkel voglia finire nei libri di storia come colei che ha distrutto l’euro e l’UE, mi sa che farebbe bene a sospendere un attimo la sua attività di commentatore politico su facebook. Come saprete il prossimo 5 maggio, giorno triste per i napoleonici e gli interisti, si pronuncia verdetto a Karlsruhe sull’ipotetico conflitto tra Grundgesetz e QE tra cui la novità BCE di accettare anche la spazzatura.

Quindi, non so come andrà a finire, chi tratterà più di qui e chi più di là. Sia Parigi che Madrid potrebbero nel frattempo finanziarsi sul mercato ma sopratutto Parigi potrebbe veder lievitare oltre il desiderato il rapporto deficit/Pil, non bello per una aspirante potenza, magari perdendo una A per strad … . In più, “perdere Roma” non conviene a nessuno. Di contro, ognun penserà a sé e non regalerà niente e cercando di “fare il massimo” in realtà cercherà di imporrà condizioni sottilmente capestro all’altro, a seconda dei rapporti di forza.

La “grana” alla fine si troverà il modo di tirarla fuori, ma quanta ed a che condizioni sarà tutto da vedere, la partita è ancora lunga. Infine, appunto, la partita è ancora lunga nel senso che i danni della questione virus non si esauriscono con le cifre di cui oggi si sta parlando.

tratto da facebook

38° podcast_Il bersaglio grosso, di Gianfranco Campa

Quando, ormai quattro anni fa, apparve sulla scena politica statunitense un personaggio politico apparentemente estraneo ai circoli che ci avevano assuefatti ormai per decenni, le sue filippiche contro il multilateralismo, il globalismo e il principale beneficiario degli assetti mondiali ad essi conseguenti, la Cina, apparivano ancora come fastidiose e rozze dissonanze. Eppure già allo scadere della presidenza Obama qualche disorientamento e la crescente situazione di stallo già spingevano per un cambio di paradigma. Quelle affermazioni apparentemente estemporanee avevano però un limite nella loro vulgata o sottintendevano qualcosa di più essenziale. Puntavano l’attenzione sul dito piuttosto che sulla luna; probabilmente nascondevano la luna dietro il dito; ancora meglio, il lato luminoso della luna impediva di conoscere quello più oscuro e intrigante. Il problema di fondo non era l’emersione di un rivale temibile, la Cina, quanto il fallimento del progetto egemonico mondiale americano e gli enormi scompensi nelle formazioni sociali, nella fattispecie quella americana, creati dai processi di globalizzazione ad esso connessi. Il successo duraturo di Trump, a prescindere dalla stessa eventualità di una sua rielezione, non è altro che la constatazione dell’avanzare di un mondo multipolare, dell’emersione quindi di più potenze. “L’America prima di tutto” comporta quindi la rinnovata capacità di una nuova classe dirigente statunitense di giostrare tra queste contraddizioni e tra le logiche e gli interessi di questi paesi emergenti per riaffermare e mantenere la propria potenza e, soprattutto, consolidare la propria coesione sociale e politica. L’esito positivo non è ancora scritto nel finale di spartito, ma la posta in palio inizia ad essere più definita e circoscritta. Il podcast di Gianfranco Campa si presta a due interpretazioni. Uno più emotivo e forse semplicistico, tende a ridurre il confronto ai due giganti riservando al resto il ruolo di comparse o figuranti. L’altra, di più difficile lettura, è che, comunque, l’emersione di nuovi soggetti crea situazioni di rivalità, di conflitto e di affinità mutevoli tra tutti i protagonisti prima che il processo arrivi a consolidarsi e cristallizzarsi in sodalizi più stabili. Gli scompensi, i dissesti, le tragedie e le riconformazioni riguarderanno tutte le formazioni sociali, non solo quella americana. La Cina, quindi, oltre ad essere un soggetto assoluto di competizione, inizia ad apparire anch’essa un oggetto. Il prevalere di una o dell’altra interpretazione non dipende dall’autore ma dall’atteggiamento manicheo, dogmatico o pragmatico del lettore. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Le turbolenze della vita continuano, di Giuseppe Germinario

La crisi pandemica del coronavirus ha portato ad una netta accelerazione ed intensificazione del confronto geopolitico e delle trasformazioni politiche ed economiche delle formazioni sociali. Ha conquistato, però, la pressoché totale esclusiva attenzione dell’opinione pubblica sia istituzionale che informale. Passano in secondo piano o vengono del tutto ignorate notizie come questa del Presidente statunitense Trump il quale, attraverso due tweet, annuncia di aver dato ordine alla flotta presente nel Golfo Persico di aprire il fuoco e colpire le imbarcazioni e i barchini che dovessero avvicinarsi alle navi americane.

 

La attività di controllo e spesso di provocazione dei navigli iraniani non è in realtà mai cessata, anche se ultimamente sta registrando una relativa intensificazione. Quali possono essere, quindi, i motivi che hanno spinto Trump ad una decisione così allarmante? Non tutto è riconducibile direttamente a l’asprezza del confronto iraniano-statunitense. Corrono voci di un crescente distacco e insofferenza tra le gerarchie dell’esercito iraniano e la suprema autorità politico-religioso Khamenei. Un più alto livello di allarme potrebbe servire a rinserrare i legami. Nel versante statunitense l’azione potrebbe servire a destabilizzare l’area petrolifera del Medio Oriente e bloccare la corsa al ribasso dei prezzi del petrolio, particolarmente nefasta per le sorti della produzione petrolifera americana, resa già precaria dalla esposizione debitoria di gran parte dei produttori di petrolio da “fracking”. I timori e le inquietudini americani circa la possibilità di un accordo tacito tra sauditi e russi mirante a destabilizzare l’industria petrolifera americana, ormai loro diretta concorrente e a rendere nuovamente dipendente la potenza statunitense dalle importazioni, senza averne peraltro più il totale controllo dei flussi, sono sempre più manifesti. Emergono addirittura voci di un possibile blocco del greggio saudita ai porti texani a esso esclusivamente dedicati. In sostanza due conferme: gli Stati Uniti sono sempre meno il deus exmachina delle dinamiche geopolitiche e geoeconomiche, ma ne rimangono ancora il principale attore; da questa dinamica di relativizzazione della potenza ci sarà da aspettarsi una reazione sempre più vivace piuttosto che una rassegnata constatazione. Una vastissima gamma di opzioni del resto è ancora disponibile e non è detto che il fronte degli avversari sia in realtà così solido e compatto.

Giuseppe Germinario

 

uomini piccoli in momenti tragici. Una conversazione con il professor Augusto Sinagra

I momenti drammatici mettono in luce inevitabilmente i pregi e i difetti di un paese. La crisi epidemica e la paralisi economica hanno evidenziato l’abnegazione di tanti cittadini, ma soprattutto la mediocrità del ceto politico e di gran parte della classe dirigente, la precarietà degli assetti istituzionali. L’emergere di alcune figure politiche e di un buon numero di validi professionisti non riesce a compensare la sensazione di inadeguatezza. Il fatto di essere in buona compagnia in altre parti del mondo non è motivo di consolazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Peculiarità, di Antonio de Martini

m’aggio accattat’ a jurnata

Ieri ho liquidato in maniera scortese un lettore che mi chiedeva di spiegare perché a Napoli il Coronavirus è stato contenuto e nella meglio attrezzata Milano, no.

Succede quando devi rispondere a due/trecento notifiche e messaggi personali in un giorno e sei arrivato a sera.

Ora che é mattina, cerco di spiegare questa differenza tra Milano e Napoli che negli ultimi quattro giorni ha registrato un numero di decessi uguale a zero.

1) i partiti. A Milano le differenze politiche tra sindaco, regione e governo hanno occupato politici e giornalisti che hanno trascurato le esigenze reali.facevano interviste.

A Napoli, un sindaco ( e anche un presidente di regione) battitore libero hanno prestato immediatamente orecchio ai medici, tra i quali lo “ scopritore del vibrione” di cui ora non ricordo il nome.
Gli ordini non sono stati contestati da oppositori preconcetti. La quarantena qui é una tradizione.

2) l’intelligenza critica e vivace dei napoletani abituati ad arrangiarsi e a vedere con garbato scetticismo le “ linee guida” di enti distanti, ha fatto si che ci si industriasse a trovare una cura e non a sperare in un vaccino. La Magna Grecia ha reagito come la Grecia: immediatamente.

3) Napoli e la zona vesuviana hanno la densità di popolazione di Hong Kong o quasi. Il distanziamento e stato attuato semplicemente accentuando di poco le distanze e alcune profilassi erano gia in voga. Mentre la Confindustria ha visto nella Pandemia una occasione per bussare a cassa, la Camorra ha collaborato con le forze dell’ordine perché non poteva sperare in indennizzi.

4)il primo segnale nazionale di lotta contro il virus è venuto dall’ospedale Cutugno con l’uso di farmaci antiartrite. In contrasto con le direttive nazionali e internazionali che bandivano gli antinfiammatori.
Il medico napoletano come curatore del malato e non della malattia.

5) lo spirito ironico e tollerante e la naturale empatia partenopea, il fatalismo esistenziale, hanno certo contribuito più di altre caratteristiche a mantenere forte l’animo e predisporlo psicologicamente a reagire al male. Sia i malati che gli operatori.

6) l’essere resilienti a espellere nonni e genitori dal nucleo familiare ha limitato il numero dei focolai che hanno falcidiato il nord.
E ogni mediocre intelligenza medica ha capito che i malati « infettivi » non andavano mischiati con gli altri.

7) Sole e Mare hanno certamente aiutato a sintetizzare la vitamina D di cui tutti i morenti sono risultati carenti.

8.) Nel Napoletano famiglia e amici precedono il lavoro nelle priorità dell’individuo.
Il motto partenopeo é « m’aggio accattato a jurnata » : ho di che sfamare la famiglia per oggi; smetto e mi dedico ai miei affetti e hobbies o al riposo. Fiducia nella provvidenza e sistema immunitario al meglio.

Per capire appieno quel che vorrei esprimere, ma sento di non riuscirvi appieno, consiglio di leggere le pagine dedicate a Napoli da Goethe nel suo viaggio in Italia.

Lui scriveva meglio di me e non era intontito da 36 notti di galera.

Insomma, i napoletani sopravvivono, perché hanno capito i valori veri dell’esistenza e per definire il lavoro hanno un termine spettacolare: a fatica.

Ditemi voi perché dovrebbero morire anzitempo. Non é questione di razza superiore caro Giacomo Crasti , ma di sapere mettere al posto giusto affetti, lavoro, amori e ambizione, perché la vita ama chi la ama.

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III

Continuano le perplessità su effetti e conseguenze istituzionali del Coronavirus. Specie in relazione, (dato che grazie – al cielo – il contagio sta calando) alla cosiddetta “fase due”.

Avevo già scritto che mai Carl Schmitt era stato così citato dai media come dall’inizio della pandemia. Anche, per lo più, da intellos che conoscono il giurista per sentito dire o, al massimo, per letture sommarie. E quindi lo intendono male.

Il “nocciolo” del ragionamento schmittiano, condiviso da gran parte dei maestri del diritto pubblico, è che quando è in gioco l’esistenza comunitaria (e la vita), si devono tollerare le compressioni necessarie ai diritti, anche a quelli garantiti dalla Costituzione. Ma vale anche l’inverso: allorché la situazione emergenziale viene meno, devono cessare anche quelle limitazioni; così come queste vanno valutate in relazione non (o meno) alle restrizioni dei diritti (e dei valori) garantiti dalla Costituzione che all’effettiva attitudine (e risultato) a conseguire lo scopo prefissosi: l’eliminazione (o almeno il contenimento) dell’emergenza che le ha rese opportune. Ma non sempre il giudizio è positivo.

Come esempio (negativo) di un’emergenza strumentalizzata ad altri fini, abbiamo la crisi italiana del 2011. Il governo Monti osannato dai media come idoneo al compito di ridurre il debito italiano, proprio su questo conseguì il peggior risultato: in poco più di un anno e mezzo, a prezzo di sacrifici notevoli, riuscì a far aumentare il debito italiano dal 116,50% al 129,00% del P.I.L.

Oltretutto coniugando tale pessimo risultato a un aumento  delle imposte che ha ridotto il tenore di vita degli italiani. Peggio di così…..

Non pensiamo che il governo Conte bis otterrà un risultato simile al governo “tecnico”, non foss’altro perché le epidemie arrivano, crescono e cessano. I proclami di vittoria, soprattutto quelli confezionati dal governo  hanno quindi il limite dell’ovvietà, Più interessante è sapere il quando, il quanto e il come se ne uscirà. Ricorda Manzoni che durante la peste di Milano le autorità presero le prime misure di emergenza circa un mese dopo che le avevano deliberate cioè dopo che “la peste era già entrata in Milano”. Colla loro inerzia accrebbero i danni. Come scriveva Schmitt “conseguire un obiettivo concreto significa intervenire nella concatenazione causale degli accadimenti con mezzi la cui giustezza va misurata sulla loro adeguatezza o meno allo scopo e dipende esclusivamente dai nessi fattuali di questa concatenazione causale… significa infatti il dominio di un modo di procedere interessato unicamente a conseguire un risultato concreto”. E il bilancio – anche dell’adeguatezza dell’azione di governo – sarà possibile solo quando raggiunto il “contagio zero”.

Nello stato d’eccezione la sovranità mostra la propria superiorità rispetto alla norma: è stato Bodin il primo a definirla come summa in cives legibusque soluta potestas: quindi agli albori dell’elaborazione del concetto i connotati qualificanti già ne erano: la preminenza rispetto agli altri poteri (summa) e d’esser svincolata dalla normativa (legibusque soluta). Almeno dalle leggi, cioè dalla normativa posta dal potere e per volontà del medesimo, secondo il noto frammento di Ulpiano. La sfida affrontata dal sovrano nello stato di eccezione non è negare il diritto – e tanto meno l’ordinamento – ma di ri-creare una situazione normale in cui la norma possa tornare a poter essere applicata.

É nell’eccezione (e in modo in certo modo simile nel gouvernment de fait di Hauriou) che l’istituzione politica – cioè lo Stato (moderno) – mostra sia la propria essenza che la superiorità dell’istituzione rispetto alla norma. Dall’impossibilità o anche dall’inutilità di applicare norme in una situazione eccezionale, quindi a-normale, dimostra la necessità e la precedenza istituzionale della “creazione”, da parte dell’autorità, di una situazione in cui la norma possa avere vigore ed efficacia. Come scrive Schmitt  “Il caso di eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”.

E tale “creazione” non ha nulla a che fare con le garanzie dell’ordinamento – nel senso dei diritti individuali – affidate (per lo più) ai Tribunali, e in particolare al livello più alto, alle Corti costituzionali. La riparazione di un diritto trova proprio nel potere giudiziario il più adatto ad assicurarlo.

Ma nella situazione eccezionale il problema è garantire “la situazione come un tutto nella sua totalità”. A esser garantito non è l’interesse e la correlativa pretesa del singolo, ma la concreta applicazione di tutto il diritto attraverso il ripristino della situazione normale.

Ne consegue che è la situazione (eccezionale o normale) a determinare l’opportunità di promulgare, mantenere, far cessare le misure per fronteggiare l’emergenza. Così come è il risultato a determinare se, finita l’emergenza, l’azione delle autorità di governo sia stata congrua, e in che misura. Ora è troppo presto per formulare una valutazione definitiva.

Quanto alla fase due, ancora è da venire, e il giudizio sulla stessa anche.

Capisco la diffidenza di tanti italiani data l’esperienza che altre situazioni emergenziali (o, meglio presunte tali) sono state utilizzate dai governi per l’unico fine di sfruttare i cittadini, senza altro risultato (v. da ultimo quello “tecnico” citato) che realizzare il contrario dello scopo esternato. Ma ora è troppo presto per dare un giudizio: non lo è per avere fondati sospetti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Mettere le cose a posto, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link di un interessante servizio de La7 dedicato alla gestione della crisi epidemica. Interessante nonostante la conduttrice. Non sono così ingenuo da chiedere ad un giornalista neutralità e forse anche obbiettività. La neutralità di opinione non esiste; l’obbiettività spesso e volentieri diventa il paravento oggettivo per trasmettere tesi e punti di vista. Ancor meno lo si può pretendere dalla conduttrice della trasmissione ben nota per la sua conduzione strumentale e forzosa celata dietro un aplomb piuttosto instabile. Da notare al contrario la competenza e la compostezza con le quali il professor Grisanti, consulente della Giunta Regionale Veneta, riesce a dare equilibrio e smontare i propositi della Gruber e in parte del pied à terre, pardon parterre, di sostegno. E’ il segno che in Italia le competenze ancora esistono, ma ci si guarda bene il più delle volte dal coglierle e dal collocarle al posto giusto. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/otto-e-mezzo-sabato-18-04-2020-320173

https://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/otto-e-mezzo-sabato-18-04-2020-320173

Istituzioni e sovranità! La funzione dell’Esercito Italiano. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini

Da troppi decenni l’Esercito Italiano fatica a godere di quella considerazione indispensabile a garantire nel migliore dei modi l’esercizio della sovranità nazionale, la cura degli interessi nazionali stessi e la costruzione di una identità e coesione più solida del popolo italiano. Sempre presente nelle ricorrenti situazioni di emergenza interna al paese e costantemente impegnato in numerosi teatri operativi internazionali, questi ultimi a volte giustificati dalla presenza di interessi nazionali, a volte trascinato da strategie estranee, spesso viene relegato al riconoscimento di una funzione ausiliaria. Un atteggiamento che inibisce il peso politico di una istituzione fondamentale nella costruzione di una coesione nazionale lungi dall’essere ancora compiuta. La crisi dell’ideologia globalista sta riproponendo nella giusta dimensione il ruolo degli stati nazionali e la affermazione delle prerogative loro proprie. Le classi dirigenti italiane non sembrano ancora consapevoli delle implicazioni di questo cambio di paradigma. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini_Giuseppe Germinario

*Il Generale di Corpo d’Armata (ris.), Marco Bertolini, è nato a Parma il 21 giugno 1953. Figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein, dal 1972 al 1976, Marco Bertolini ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, è stato assegnato al il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle Forze Armate italiane – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate. Attualmente è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.

L’intervista ha preso spunto dall’articolo apparso sul sito www.ordinefuturo.it , link https://www.ordinefuturo.it/2020/04/14/considerazioni-in-tema-di-forze-armate/?fbclid=IwAR1-mMCh4_OTj74yS8-gPHsw7oYi9qHcsfmTY3iVCmX_dpwd0N9CbGnDYcY , a sua volta ripreso dal nostro sito il 15 aprile scorso

aprire o non aprire? questo è il dilemma, del dr Giuseppe Imbalzano

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi. Oggi consulente della Federazione Russa per la gestione dell’epidemia di Covid19

In tempo di Covid 19, per riaprire l’Italia, qual è la strada più breve, la più sicura, la meno rischiosa, la più veloce?

 

La situazione economica è l’elemento più critico che si sta rivelando connesso con
l’infezione da Covid 19 e che sta creando, se possibile, più danni della infezione stessa.
La modalità con cui è stata affrontata questa epidemia non sempre ha seguito la linea di
ridurre le fonti di infezione e di preservare il personale di assistenza da eventuali contagi, ma ha diffuso il virus negli ospedali e infettato un numero incredibile di operatori. Che sono certamente la causa di ulteriori infezioni tra i familiari e i pazienti. Così come la scelta di affidare ai medici di famiglia l’assistenza dei pazienti potenzialmente infetti ha costretto i primi ad affrontare, spesso senza gli strumenti di protezione necessari, situazioni del tutto critiche che dovevano esigere ben altra organizzazione. E la numerosità dei medici infetti ha creato ulteriori focolai territoriali.

In questi giorni sono fiorite proposte di riapertura delle attività lavorative che hanno posto come riferimento, tra le tante cose, le proiezioni di danno delle categorie secondo le età. Una scelta che cerca di dimostrare il basso rischio dei soggetti che devono partecipare al ciclo lavorativo in base a valutazioni che, nei fatti, appaiono assai discutibili, sia perché prive di certezza statistica, sia perché non tengono conto che non vi è una fungibilità di tutto il personale, di un possibile utilizzo di personale qualificato in tutti i settori senza la specifica competenza di chi debba gestire l’attività e il settore specifico. Dimenticando poi che i lavoratori hanno interazione anche con parenti e amici che potremmo inserire nelle categorie a rischio. E che accettare il rischio in se stesso (con quale garanzia per chi rischia?) non fa parte di una corretta valutazione e modello di attività. Sarebbe ancora più pesante che le imprese aggiungessero al peso dell’inattività il peso degli eventuali contagi correlati e dei danni immateriali e previsti dal decreto Lvo 81/08. E non credo, considerata la macchinosità del sistema, che verrebbe apprezzata dai lavoratori e quindi approvata per poter essere attivata e gestita come regola su tutto il territorio nazionale.

L’obiettivo è quindi quella di ridurre il rischio ai minimi termini, al livello più basso possibile.

Che è differente tra le diverse condizioni di rischio per differenti attività.

Tutta la nostra vita è un rischio, ma è necessario superare le condizioni di difficoltà, prevenendo, per quanto possibile, il rischio e il danno che ne possa derivare.

Se scalare una montagna è comunque rischioso, avere una attrezzatura appropriata, una condizione fisica ottimale ed una esperienza adeguata non è sufficiente se non teniamo conto delle condizioni climatiche e dei compagni di cordata. Se queste condizioni non sono garantite il rischio aumenta in modo importante.

Per arrivare in cima, comunque, ci sono mezzi alternativi, come l’elicottero o lanciarsi con il paracadute.

Possiamo immaginare lo stesso con una malattia infettiva che non ha terapie certe e non ha vaccini disponibili, che ha una mortalità significativa e necessità di servizi sanitari importanti, una infettività ragguardevole e una impossibilità ad essere identificato immediatamente e con certezza?

Arrivare in cima senza vaccino non è possibile. Essere certi di non infettarsi, senza vaccino non è possibile. Anche chi risulta positivo ad eventuali test biologici non è garantito.

Allora, in attesa di non avere neanche un caso in Italia, cosa possiamo fare?

Il primo e fondamentale punto è attivare un sistema di identificazione dei nuovi casi, molto puntuale e ben definito, come modalità e sede, la causa di esposizione e le modalità di contagio.

In carenza di un sistema di rilevazione puntuale dei nuovi casi noi rischiamo di rincorrere il virus al buio, con scarse possibilità di interrompere la catena di infezione.

Oggi la nostra attenzione prevale verso chi viene infettato e inseguiamo i casi che si moltiplicano.

I sistemi di “mitigazione” odierni non sono garantiti dalle azioni che vengono messe in atto per monitorare come il processo infettivo viene diffuso, se vi sono ambienti particolari o condizioni di rischio elevate che vengono trascurate. Se non si chiude il rubinetto, l’acqua continuerà a traboccare dal lavandino pieno.

Altra soluzione che è stata proposta è la identificazione dei “positivi”. La “mappatura” degli infetti non è necessaria con la descrizione soggettiva del proprio stato di salute poiché tutti i casi identificati di malati di covid 19 sono noti alle autorità sanitarie.

La richiesta di dare informazioni sul proprio stato di salute, che viene sollecitato da qualche sistema di monitoraggio, non solo è inutile ma rischia di far confondere una banale infezione ILI (Influenza Like Illness- malattia simile all’influenza) con la infezione da coronavirus che, quantomeno nelle fasi iniziali, ha la stessa sintomatologia e pertanto può creare maggiore (e inutile) ansia e preoccupazione nell’interessato e nella comunità.

Un monitoraggio serio è certamente un elemento di maggiore sicurezza e i luoghi di maggiore rischio sono quelli dove la presenza e la concentrazione dei malati è maggiore, e in particolare, nel nostro caso, gli ospedali e le case di cura, oltre ai domicili dei pazienti assistiti a domicilio.

È importante evitare le infezioni ed in particolare quelle prevedibili come le infezioni familiari.

La gestione dei positivi che non necessitano di assistenza ospedaliera è pericolosa perché le persone ammalate non possono vivere da sole e neanche badare a se stesse per tutte le esigenze quotidiane e le problematiche di salute che presentano.

Lasciare l’assistenza ai soli familiari ed in ambienti civili non garantisce nessuna sicurezza e ancora di meno la certezza che non ci potrà essere una trasmissione della infezione a chi accudisce queste persone. La protezione necessaria in ospedale è altrettanto indispensabile al domicilio e la preparazione del personale sanitario non è certo comparabile con la preparazione per evitare le infezioni in ambito familiare. Gli ambienti non sono adeguati e la sicurezza di protezione infettiva del tutto assente. E trascurare questi principi favorisce certamente la possibile diffusione virale domiciliare e comunitaria per l’attività sociale che comunque i familiari del malato svolgono normalmente (spesa, farmacia etc.).

Trattare questa infezione alla stregua delle altre è fortemente criticabile perché il rischio di diffusione è sicuramente molto elevato e l’assenza di strumenti terapeutici e di prevenzione non può rassicurare la comunità.

La gestione domiciliare dovrebbe consentire la separazione dei malati dal resto della comunità e lo stesso per i dimessi dagli ospedali ancora positivi.

Certamente non vanno inseriti in ambienti fortemente a rischio come le residenze per anziani ma in ambienti unicamente dedicati a malati di covid 19.

Il personale, naturalmente, deve essere adeguatamente formato e protetto.

Una attenzione particolare, più che alla vestizione, deve essere garantita per la svestizione, che diventa molto complicata in un ambiente domestico.

La separazione, nettamente definita e mantenuta sino alla eliminazione delle possibili criticità, deve essere mantenuta per i malati nei confronti dei non affetti dalla infezione.

Quando e dove aprire le attività.

Ovunque non ci siano casi di infetti può essere attivata l’intera organizzazione e possono essere garantiti tutti i servizi per la comunità.

Le aperture devono tenere conto della realtà territoriale e dell’impegno per garantire una totale assenza di infezioni e di nuovi infetti da almeno 20 giorni.

Noi già abbiamo, in Italia, con gli obblighi di confinamento attuali, comuni in cui le infezioni sono assenti e che possono, in piena tranquillità, riaprire tutte le proprie attività senza nessuna preoccupazione. Naturalmente con i residenti dei comuni stessi.

E questo potrà consentire di avviare due elementi fondamentali, l’attività lavorativa e l’interesse comunitario per ridurre le criticità che oggi non consentono una gestione adeguata della infezione. I sindaci in particolare avranno tutto l’interesse a mantenere o a favorire che il proprio comune diventi area virus free per riprendere le attività professionali, industriali e commerciali nella propria realtà, creando un circolo virtuoso per l’eliminazione dei fattori che favoriscono la diffusione del virus.

Solo una partecipazione attiva dell’autorità sanitaria locale, il Sindaco, e non una banale indicazione a non andare in giro o a non permettere di svolgere attività fisica possono determinare una riduzione del contagio. Una assistenza adeguata e coerente con le esigenze dei singoli malati può permettere di ridurre i contagi intra familiari e ambientali. E naturalmente una adeguata gestione della assistenza ospedaliera, con la separazione netta di ospedali per i malati infettivi e per malati non infettivi potrà, con la adeguata protezione del personale, ridurre le infezioni che sono possibili in un ambiente misto. E così per i trasporti dei malati infettivi, con una separazione dei sistemi di emergenza.

Con questo modello, con la assoluta attenzione ad evitare infezioni con alta probabilità di sopravvenire, possiamo immaginare di ampliare rapidamente le aree virus free e riprendere, in modo composto e sicuro, le attività in tutti i nostri comuni e poi i distretti che man mano si libereranno dall’infezione.

La domiciliazione senza la revisione dei comportamenti e delle azioni che oggi determinano nuovi casi è poco funzionale e creano forti tensioni tra i bisogni economici e quelli di salute.

Con questo modello il 30% abbondante dei nostri territori è in condizione di riprendere l’attività senza limitazioni e successivamente, nella espressione di questi comportamenti sicuri, le aree virus free si amplieranno rapidamente, senza dover decidere che cosa sia possibile fare.

La scelta di testare milioni di soggetti per verificare se gli stessi sono stati infettati porterà, oltre a costi non indifferenti, alla considerazione che la maggior parte della comunità ancora non lo è, ed in particolare non è certa l’immunità da una eventuale nuova infezione. Oltretutto questo modello, di copresenza dell’infezione endemica, mantiene in circolazione il virus e può, senza difficoltà, creare ulteriori focolai difficili da contrastare.

Una scelta “scorciatoia” non da garanzia di nulla e certamente non è possibile favorire il turismo e la mobilità comunitaria in sicurezza nelle nostre realtà.

Sino ad oggi è regnata molta confusione ma è indispensabile agire con grande rigore e modificare le linee di intervento sulle linee grigie che sono l’assistenza in ospedale e al domicilio di pazienti positivi o in attesa di valutazione in caso di contatto.

È indispensabile ridurre la semplificazione che si è fatta sino ad oggi per l’assistenza ed attivare tutti i servizi necessari per favorire una certificazione di area virus free sia nei singoli comuni che per tutta la comunità.

In questo modo, dal giorno di avvio della nuova organizzazione, saranno sufficienti poche settimane per giungere all’azzeramento dei nuovi casi e l’attività sociale potrà riprendere in modo completo e totale.

Giuseppe Imbalzano

http://CVBreveImbalzano

 

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