LA DEMOCRAZIA CHE SOGNÒ LE FATE (STATO DI ECCEZIONE, TEORIA DELL’ALIENO E DEL TERRORISTA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO)*, di Massimo Morigi

 

*A pagina 8,  Miracolo della neve di Masolino da Panicale

 

Triste l’uomo che vide in sogno le fate!

Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.

 

Po-Chu-i, L’uomo che sognò le fate (da Liriche cinesi, Einuadi, p.170)

 

Scrive Walter Benjamin nella tesi n.8 di Tesi di filosofia della storia: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.”  (1)  Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione (2) pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana di katechon ultimo cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo iperdecisionismo  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, è vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state  basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma ( che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che anche se disvelati si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica democratiche hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società liberaldemocratiche. A chiunque sia onesto e non voglia ragliare le scemenze sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è, per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina, per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. (3) Se i ragli ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali, che è meglio definire per la loro intima somaraggine ceti semicolti, la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura dei rapporti di dominio ma nel loro caso per celare la presenza stessa di questi rapporti. Tralasciando in questa sede i risaputi discorsi sul Panem et circenses (per la verità, man mano che le democrazie elettoralistiche tradiscono le loro promesse, sempre meno panem e sempre più circenses), è un su un particolare aspetto della società dello spettacolo che vogliamo focalizzare la nostra attenzione, un aspetto che come vedremo è intimamente legato, per quanto in maniera deviata e degradata, con la percezione benjaminiana che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola. In breve: riservata fino a non molto tempo fa ai racconti e ai film di fantascienza, è ora in corso attraverso documentari televisivi che trattano l’argomento con un taglio apparentemente scientifico, una imponente invasione di alieni. E se alcuni di questi prodotti televisivi riescono, nonostante tutto, a non sbragare completamente e a trattare la questione quasi unicamente dal punto di vista della esobiologia, la maggior parte di questi dà l’invasione come un fatto già avvenuto e ancora non universalmente riconosciuto come vero perché le autorità, quelle militari in primis, avrebbero compiuto una costante opera di insabbiamento della verità. E, in effetti, quello della manipolazione della verità da parte delle autorità è la pura e semplice verità, solo che, per somma ironia, in senso diametralmente opposto rispetto a quello che credono gli ingenui ufologi. In altre parole, oltre che dall’esame delle fonti in merito, è di tutta evidenza che le apparizioni ufologiche sono legate allo svolgimento di esperimenti nel campo delle nuove armi e che lo smentire, da parte delle autorità militari, l’esistenza degli UFO non è altro che una loro astuta mossa per far credere in un insabbiamento dell’esistenza dell’extraterrestre   mentre quello che in realtà si vuole celare è l’esperimento militare. E dal punto di vista dei detentori del potere (siano essi militari o civili) un altro non disprezzato frutto della credenza dell’invasione aliena è che, comunque, di un potere c’è un dannato bisogno per proteggere l’umanità da una tale terribile minaccia (quello che vogliono gli ufologi non è tanto mettere in discussione le autorità ma metterle di fronte alle loro responsabilità dichiarando che siamo in presenza di una minaccia aliena e chiedendo espressamente al popolo il suo aiuto per fronteggiarla). (4) Perché, al di là di questa funzione di soggiogamento delle masse indòtte, questi prodotti intratterrebbero allora un rapporto, per quanto malato, con lo stato di eccezione benjaminiano? Molto semplicemente perché se c’è una verità che essi ci consentono di cogliere, è che, a causa della invasione degli alieni,  noi viviamo in un stato di eccezione permanente. Ovviamente per gli ingenui tremebondi dell’omino verde che si diverte a compiere esperimenti su poveretti rapiti e portati allo scopo  sull’astronave aliena, lo stato di eccezione è scatenato da una forza esterna ma noi si sarebbe altrettanto ingenui se ci si limitasse a giudicare questa psicosi unicamente o come indotta da documentari spazzatura o, se si vuole andare più a fondo, come una sorta di despiritualizzazione delle forme della religione tradizionale dove il diavolo viene sostituito dall’omino verde. Al fondo c’è anche la percezione che i cosiddetti doni della liberaldemocrazia non sono per sempre e che il baratro è lì che ci aspetta ad un solo passo. Se almeno a livello di coscienza degli strati meno acculturati delle popolazioni appartenenti alle democrazie elettoralistiche occidentali esiste effettivamente la percezione di un disastro incombente ( i bassi livello di reddito se non generano una consapevolezza sui rapporti di forza che vigono nelle democrazie, sono comunque ben propedeutici a profondi stati d’ansia),  a livello di scienza e di filosofia politica questa percezione è stata definitivamente rimossa. Per farla breve. Il pensiero marxista, nonostante negli ultimi anni si dica che assistiamo ad una sua rinascita, non è riuscito nemmeno  a sviluppare una coerente analisi perché l’esperienza del socialismo realizzato sia miseramente franata. Alcune frange lunatiche che pretendono essere gli eredi del grande pensatore di Treviri continuano a farfugliare di imminenti e terrificanti crisi del sistema capitalistico, ignorando i poverini che, come insegna Schumpeter,  la crisi è il motore stesso del sistema capitalistico (distruzione creatrice et similia). Sul cosiddetto pensiero liberaldemocratico meglio stendere un velo pietoso, perché se storicamente dopo il secondo dopoguerra è servito nella sfera geopolitica di influenza statunitense a svolgere il ruolo di occultamento dei rapporti di dominio, oggi è totalmente incapace di svolgere addirittura questa funzione. È un fenomeno riservato al dibattito accademico, per promuovere più o meno qualche carrieruzza in quest’ambito o, tuttalpiù per essere preso di rimbalzo da qualche giornalista trombone che diffondendo questa menzogna si vuole cucire qualche spallina da intellettuale per vantarsi di fronte ai colleghi che trattano la cronaca nera, ma per tenere dominate le masse, molto meglio una informazione di livello cavernicolo e totalmente etero guidata , (5) qualche quiz, qualche film, pornografia internettiana a volontà e per i più ansiosi e percettivi dello stato di eccezione permanente con le sue potenzialità catastrofiche, molto meglio le invasioni aliene. Peccheremmo però di falso per omissione se considerassimo il pensiero politico di questo inizio di terzo millennio come un immenso campo di macerie. In primo luogo – primo solo perché la responsabilità di questo indirizzo è direttamente e unicamente a noi ascrivibile – il ‘repubblicanesimo geopolitico’ (6) pur riconoscendo al neorepubblicanesimo alla Philip Pettit o alla Quentin Skinner il merito storico di aver iniziato un’operazione di progressivo distacco dal mainstream liberaldemocratico, da questo si allontana nettamente per aver messo l’accento sul problema del potere, dei conseguenti rapporti di dominio e su come democrazia non significhi, come nel neorepubblicanesimo, una difesa dal potere ma la suddivisione molecolare – e felicemente conflittuale – del potere stesso. Nel campo del pensiero marxista, fondamentale, per mettere in evidenza lo stato di eccezione permanente che informa tutta la vita politica e sociale, è il lavoro teorico svolto da Gianfranco la Grassa e le sue illuminanti riflessioni sulla razionalità strategica versus razionalità strumentale, sugli agenti strategici e sugli strateghi del capitale . (7) Sia il repubblicanesimo geopolitico sia il lavoro teorico di La Grassa sono quindi basati sul tentativo di svolgere un’analisi puntuale del potere, sia che questo si manifesti nei rapporti sociali sia nelle sue espressioni istituzionali, e dalla consapevolezza che ogni pratica politica volta ad aumentare il tasso di libertà all’interno della società non sia un fatto di enunciazione di eterni principi (enunciazioni che invece sono dissimulazioni di pratiche di dominio) ma di continui e pratici tentativi per effettuare una effettiva diffusione e parcellizzazione di questo potere. Inoltre sia in  La Grassa che nel  ‘repubblicanesimo geopolitico’, è centrale la consapevolezza, tratta dall’evidenza storica, che il capitale è solo un strumento attraverso il quale si svolgono le lotte di potere (il ‘repubblicanesimo geopolitico’ sostiene che la libertà, sia individuale che dei gruppi sociali, per essere esercitata necessita di un suo spazio vitale di esercizio ed espansione conflittuale e quindi, il repubblicanesimo geopolitico, ispirandosi alla terminologia della geopolitica tedesca, può essere definito, ‘Lebensraum repubblicanesimo’; (8) mentre in La Grassa fondamentale è il ruolo svolto dagli agenti strategici che lottano continuamente per espandere la loro sfera di influenza servendosi anche, ma non solo, degli strumenti finanziari e della produzione capitalistica). Detto sinteticamente: se con La Grassa il marxismo esce definitivamente, per individuare gli strumenti di riproduzione del potere, dalla mitologia marxiana dei rapporti di produzione capitalistici, il ‘repubblicanesimo geopolitico’ fa piazza pulita della mitologia liberaldemocratica che la libertà sia una questione di norme e di regole del gioco. In entrambi centrale è la benjaminiana consapevolezza che la vera norma che regola il gioco sociale e politico è lo stato di eccezione. L’uomo che sognò le fate era stato condotto da uno svolazzare di fate davanti all’imperatore di giada  che gli aveva assicurato che dopo quindici anni di sacrifici sarebbe stato ammesso al regno degli immortali. Ma gli anni passarano e tutto quello che accadde fu che quest’uomo, come tutti, invecchiò e poi morì (non aveva capito, in altri termini, che ogni esistenza, sia sociale che individuale, è intessuta in uno stato di eccezione che non ammette utopiche attese). La poesia di Po-Chu-i si conclude con “Triste l’uomo che vide in sogno le fate!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” Parafrasando possiamo concludere con “Triste l’uomo che vide in sogno la democrazia!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” A meno che la consapevolezza dello stato di eccezione non sia lasciata solo agli agenti strategici continuamente lottanti per un loro lebensraum e la sua oscura percezione ai credenti della nuova demonologia aliena e/o terroristica, c’est tout.

 

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Note

 

1)  W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, introduzione a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri, Torino, Einuadi, 1995, p. 79.

 

2) Nella precedente citazione dell’ottava tesi di Benjamin la locuzione impiegata è “stato di emergenza”. Tuttavia la traduzione più corretta è “stato di eccezione”, locuzione che da adesso in poi manterremo nel corso della presente comunicazione.

 

3) Su cosa sia realmente la democrazia nessuno meglio di Gianfranco La Grassa ha saputo cogliere nel segno: “In linea teorica, poiché la sedicente “democrazia” non è certo mai stata il “governo del popolo” (una bugia invereconda), si potrebbe sostenere che la tendenza migliore (o meno peggiore), riguardo alla (molto) futura evoluzione dei rapporti sociali, sarebbe quella  in cui apparisse infine alla luce del Sole – e senza condensazione e concentrazione di potere nei “macrocorpi” esistenti nelle sfere politica o economica o ideologico-culturale – la politica, quale rete di strategie conflittuali tra vari centri di elaborazione delle stesse, centri rappresentanti i diversi gruppi sociali. Non un “Repubblica dei Saggi” (ideologia in quanto “falsa coscienza”, che predica invano la possibilità di equilibrio sociale nel dialogo), ma una rete di scoperto, luminoso conflitto tra visibili strategie, apprestate da questi centri di elaborazione in difesa degli interessi di differenti gruppi sociali componenti una complessa formazione sociale.” (Gianfranco  La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi, Nardò, Besa Editrice, 2011, p.169).

 

4) Lo stile retorico e comunicativo  dei documentari televisivi sugli UFO segue, nella maggior parte dei casi, schemi pesantamente paratattici che più a trasmissioni vagamente informative li fa assomigliare a  comunicazioni di tipo religioso – preghiere e funzioni religiose –   con iterazioni ad nauseam degli stessi concetti, immagini e suggestioni senza che fra questi elementi vengano mai stabiliti legami logici significativi. Ma qui non ci vogliamo soffermare sul fenomeno UFO inteso come una sorta di religione sostitutiva (dove gli alieni, a seconda dei gusti, possono assumere il ruolo degli angeli o dei demoni) ma sul fatto che questo fenomeno è arrivato ad interessare, e fin qui nulla di strano, anche il massimo esponente vivente della teoria delle relazioni internazionali, il costruttivista  Alexander Wendt. In Sovereignty and the UFO,  agli URL http://ptx.sagepub.com/content/36/4/607.full.pdf (WebCite: http://www.webcitation.org/6dt6pJRsx e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fptx.sagepub.com%2Fcontent%2F36%2F4%2F607.full.pdf&date=2015-12-19), Alexander Wendt afferma che il fenomeno UFO, si creda o no nell’esistenza effettiva degli extraterrestri, ha l’effetto di provocare una diminutio di sovranità delle vecchie autorità terrestri a favore di quelle ipotetiche provenienti da altri mondi. In linea di principio potremmo anche concordare su questa fenomenologia dei rapporti di dominio di fronte al fenomeno UFO ma Wendt ignora completamente che, all’atto pratico, la gran massa degli ufologi e dei credenti negli omini verdi, sono dei patrioti fedeli alle autorità costituite che chiedono una sola cosa: che le autorità prendano il toro per le corna stabilendo un contatto con queste entità e all’occorrenza, dove queste dovessero risultare ostili, per combatterle più efficacemente denunciando pubblicamente il pericolo  e chiedendo l’aiuto e la collaborazione del popolo precedentemente tenuto avventatamente all’oscuro. In pratica, quindi, contrariamente a quanto sostiene Wendt, il fenomeno UFO consolida le autorità costituite e la translatio della sovranità verso gli extraterrestri rimane un fatto più virtuale che reale. Questo sul piano delle istituzioni diciamo secolari. Per non parlare poi del fenomeno UFO come una sorta di religione sostitutiva. In questo caso vale il caso di ripristinare la marxiana religione oppio dei popoli … e quando l’oppio viene percepito di scarsa qualità (crisi delle religioni tradizionali), ci si rivolge ad altri fornitori, con massima soddisfazione dei consumatori e degli agenti strategici che non chiedono nulla di meglio di dominati tranquilli (anche se un po’ troppo allucinati).

 

5) Vedi il caso di come viene trattato il fenomeno del cosiddetto terrorismo, prescindendo dal fondamentale aspetto geopolitico della questione. A questo proposito rimandiamo ai nostri interventi svolti sul blog “Il Corriere della Collera”, dove a titolo di esempio, trattando all’URL  http://corrieredellacollera.com/2015/01/19/antiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini/#comment-51015 (WebCite: http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F19%2Fantiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini%2F%23comment-51015&date=2015-04-19 e http://www.webcitation.org/6Xuok31dj) della recente isteria antiterroristica, il terrorista svolge il ruolo che in passato era affidato al diavolo (ed oggi, in gran parte, al suo valido compagno di merende, l’alieno: “Ad un livello immensamente più degradato di come l’intendeva Carl Schmitt, verrebbe voglia di citare, in relazione all’odierna isteria antiterroristica, la Politische Theologie, quando il giuspubblicista di Plettenberg affermava che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”: tradotto, per comprendere il ruolo dell’odierna disinformatia, quando il terrorista prende, nell’immaginario secolarizzato, il ruolo del diavolo. [Concludiamo] con un ulteriore rinvio a Carl Schmitt e al suo Theorie des Partisanen, dove il ‘partigiano’ è portatore di un’inimicizia assoluta ma un’inimicizia assoluta, di tipo veramente demoniaco, che ha la sua origine nella moderna guerra totale che ha distrutto la vecchia concezione di justus hostis. E così torniamo ai tagliagole mediorientali, figli non solo di una caotica strategia del caos statunitense che ha foraggiato per i suoi interessi geostrategici i demoni più distruttori presenti nell’area ma anche della nostra modernità politica che non può ammettere, pena la perdita totale della sua legittimità, l’esistenza di un justus hostis, ma solo l’esistenza, appunto, del nemico totale dell’umanità, il terrorista.”

 

6) Sul repubblicanesimo geopolitico, oltre a quanto apparso sul blog “Il Corriere della Collera”, vista la sua consolidata presenza nel Web, si rimanda  genericamente all’aiuto dei benemeriti ed efficienti browser – Google in primis, ça va sans dire, con un’unica ulteriore precisazione: consigliamo caldamente di visitare il sito di file sharing Internet Archive (all’URL https://archive.org/index.php).

 

 

 

7) Sugli strateghi del capitale si rimanda alla  esaustiva trattazione fattane in G. La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Roma, Manifestolibri, 2005. A dimostrazione di quanto, pur non nominandolo espressamente, il concetto di stato di eccezione svolga un ruolo fondamentale in La Grassa possiamo leggere: “Inoltre, la razionalità strumentale  del minimo mezzo è subordinata a quella strategica. La prima consente la generalizzazione di alcune “leggi” dell’efficienza e la minuta analisi delle condizioni che rendono possibile il conseguimento di quest’ultima. La seconda non ha leggi,  forse qualche principio, ma sempre da adattare poi alla situazione concreta, che è appunto quella che ho indicato quale singolarità. La ricchezza di mezzi è certo importante per l’attuazione delle categorie vincenti; e nel sistema capitalistico, in cui tutti i prodotti sono merci, i mezzi sono essenzialmente quelli monetari (nelle diverse forme). Tuttavia, la potenza non è solo questione di disponibilità  di mezzi, né bastano – per il loro impiego – le semplici regole dell’efficienza.” (G. La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, 2008,  p. 150).

 

8) Il concetto di Lebensraum fu coniato da  Friedrich Ratzel  e, soprattutto attraverso l’altro geopolitico tedesco Karl Haushofer entrò a far parte a pieno titolo dell’ideologia nazista (Karl Haushofer, tramite Rudolf Hess, si recò più volte nella prigione di Landsberg am Lech dove era detenuto Hitler in seguito al fallito putsch di Monaco per dare lezioni di geopolitica al futuro Führer). Quindi damnatio memoriae per tutta la geopolitica e per il termine Lebensraum centrale nella geopolitica stessa. È giunto il momento di rimuovere questa damnatio. Senza tanto dilungarci sull’ammissibilità di rispolverare concetti che il politically correct vorrebbe morti e sepolti, in queste sede diciamo una sola cosa. Al netto dell’uso scopertamente criminale ed ideologico che il nazismo ha fatto della geopolitica e dei suoi ammaestramenti, basti sapere che gli agenti strategici del capitale e i loro centri studi agiscono e programmano la loro azione alla luce del concetto di spazio vitale. E per essere fino in fondo politicamente scorretti, ricordiamo che l’economista austriaco Kurt W. Rothschild affermò che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith o i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege. Speriamo che per questo di non essere tacciati di guerrafondismo e/o criptico neonazismo.

 

L’ASCESA E LA CADUTA DI FLYNN, di Gianfranco Campa

Il pathos che traspare dal testo rivela non solo lo stato d’animo dell’autore, cittadino americano, ma la drammaticità stessa dello scontro politico, in atto negli Stati Uniti ma dalle profonde implicazioni nel resto del mondo (nota editoriale)


L’ASCESA E LA CADUTA DI FLYNN

In queste ore di profonda incertezza sul futuro dei rapporti Occidente-Russia, osserviamo i soliti media, ambasciatori asserviti ai poteri forti, che trasudano odio e rincorrono elaborati esercizi mentali nel tentativo di interpretare e far coniugare le dimissioni di Michael Flynn, il consigliere della sicurezza nazionale appena nominato dall’Amministrazione Trump, con la loro agenda ideologica, cercando nel contempo anche di screditare tutto l’apparato dello striminzito Governo Trump e infliggergli di conseguenza il colpo mortale. Queste gimcane servono in questo contesto solo al tavolo degli idioti di turno; non tutti però sono imbecilli da credere alla propaganda divulgata dai poteri anti-Trump.

Le “accuse” sono semplici: Flynn si è reso responsabile, secondo loro, di alto tradimento quando ha parlato al telefono più volte con l’Ambasciatore di Mosca a Washington; in particolare la telefonata più incriminata è quella del 29 Dicembre, giorno in cui l’amministrazione Obama prese la decisione di espellere i diplomatici russi dal suolo nazionale.

Procediamo con ordine. Da tempo Flynn era marcato stretto, bersaglio primario dei nemici mortali di Trump. Come avevo già scritto precedentemente, la situazione di Flynn era già apparsa, negli ultimi giorni, molto precaria. Flynn si è ritrovato strattonato da più parti sugli indirizzi di politica estera da perseguire. Flynn era dibattuto fra il suo desiderio, in linea con Trump, di attuare una nuova distensione con la Russia e la sua insofferenza verso l’Iran. Questa insofferenza insieme ai suoi rapporti più o meno amichevoli con i Russi sono stati usati come cuneo, prima per indebolire e poi per neutralizzare il Generale Flynn. Questi personaggi, come avvoltoi, hanno annusato la preda ferita e si sono avventati contro per straziarla. Il pretesto usato è stato una probabile serie di telefonate intercorse lo scorso dicembre fra Flynn e l’Ambascitore russo a Washington, Sergey Kislyak. Telefonate che secondo le accuse si incentravano sulle sanzioni imposte da Obama alla Russia e sulla possibilità di rimuoverle una volta Trump subentrato alla Casa Bianca. L’arma usata contro Flynn è stata la riesumazione  del cosiddetto  Logan Act del 1799 che recita: “Si impone una multa e/o l’imprigionamento di ogni cittadino il quale negozi, non autorizzato,  con governi stranieri con un contezioso in corso con il Governo attuale degli Stati Uniti.” Essendo le telefonate fra Flynn e Kislyak tenutesi a Dicembre, quando Obama era ancora alla Casa Bianca, allora queste telefonate possono considerarsi una violazione del Logan Act.

Questa è l’accusa, ma in sostanza non c’è niente di criminale nelle telefonate tra Flynn e Kislyak. Non c’è nessuna violazione del Logan Act per il semplice motivo che Flynn, letteralmente parlando, non era un privato cittadino nel momento in cui ha condotto la telefonata, bensì un funzionario di un governo, non ancora insediato, ma già eletto democraticamente dal popolo. L’unica accusa che gli si può imputare è il fatto che non abbia dichiarato integralmente tutta la natura delle conversazioni fra lui e Kislyak.  In aggiunta voglio fare presente che in tutta la storia Americana, mai nessuno era stato accusato di violare il Logan Act. Inoltre è provato che i Democratici come il compianto Ted Kennedy, John Kerry, Nancy Pelosi e altri hanno commesso atti di gran lunga peggiori di quello portato avanti da Flynn. In particolare mi viene in mente un episodio di qualche anno fa quando Michael McFaul, nel 2008,  prima  ancora che Obama fosse eletto, andò a incontrarsi direttamente con in funzionari Russi a Mosca per trattare linee diplomatiche da perseguire fra i due governi. McFaul dopo la vittoria di Obama divenne ambasciatore a Mosca. Se c’è stato uno che ha violato il Logan Act, questo è appunto McFaul il quale prese l’iniziativa di recarsi, da cittadino comune, in Russia (sicuramente con il beneplacito di Obama) per rappresentare un presidente non ancora ufficialmente eletto.  Andatelo a spiegare voi a questi quattro pagliacci di giornalisti che si stracciano pubblicamente le vesti, la differenza fra una accusa finta e una vera.

Un altro punto importante; queste telefonate erano già state trattate da Flynn con il vice presidente Mike Pence in dettaglio e già allora si era chiarita la situazione. Flynn aveva negato che la natura delle telefonate fosse stata esclusivamente incentrata sulle sanzioni. Ora si è trovata la scusa che Flynn non sia stato del tutto sincero e nasconda una sinistra attrazione verso la Russia. Non c’è nessuna prova che Flynn sia un personaggio compromesso. Le accuse che arrivano a Flynn provengono dalla stessa melma che da anni batte i tamburi di una guerra fredda con la Russia e usano i contatti con la Russia per screditare Trump.

La formula e già colludata; infiltrati, usualmente di estrazione del Dipartimento di Giustizia o del Dipartimento di Stato, rimanenze delle falangi Obamiane, rappresentanti di quel governo ombra, inquinato di neocons, i quali imperversano indisturbati nelle stanze del potere, fanno trapelare informazioni sull’ amministrazione Trump consegnando questi “sensazionali scoop” ai portavoce di regime come il Washington Post o il New York Times, giornali screditati, diventati ormai da spazzatura, neanche buoni da usare al bagno. Una volta che queste notizie vengono rese pubbliche, i soliti cecchini ormai ben noti, tipo l’ex direttore della National Intelligence James Clapper (uno che ha mentito sotto giuramento) e l’ex direttore della CIA John Brennan , alimentano questa caccia alle streghe. Una volta che uno come Clapper , Brennan, Sally, Yates o MacCain (tanto per fare dei nomi conosciuti), ufficializzano  le accuse, la melma raccoglie la palla al balzo giocandoci con impunità.

Flynn paga inoltre il dazio della sua dura critica ai servizi di Intelligence sui vari dossier anti Trump divulgati durante la campagna elettorale. L’assassinio politico di Flynn ci consegna più domande che risposte. Chi sono i traditori spia, inflitrati nei vari sistemi di governo che impunemente rilasciano ai media informazioni considerate riservate se non segrete? Chi ha dato l’ok a NSA, CIA e FBI di intercettare le telefonate di Flynn? Quanti altri tabulati di intercettazioni  sono in mano a questi terroristi domestici? Chi sarà il prossimo bersaglio?

Trump deve stare molto attento; già i collaboratori fidati sono pochi, ma con la perdita di Flynn si assottigliano ancora di più. La tattica è chiara; prendere uno alla volta i colaboratori più fedeli e demolire la Casa Trump un pezzo alla volta. Flynn è solo l’inizio. Sono in serio pericolo anche i vari Bannon, Conway, Spicer, Miller e via dicendo. Il guru Roger Stone ha oggi dichiarato, in una intervista a Newsmax TV, che la decisione di Trump di non erigere un muro di sbarramento in difesa di Flynn, costi quel che costi, equivale a una “Pearl Harbor” di chi ha sostenuto il Presidente fino a questo momento. Secondo Stone, Trump sente la pressione e avendo incaricato Flynn di tessere relazioni con i Russi prima ancora della sua entrata alla Casa Bianca, ha deciso di spingerlo alle dimissioni per coprire quella tessitura di rapporti che era stata pianificata da tempo, mirante ad una relazione più amichevole con la Russia. Venuto meno il supporto a tale rapporto e sentendo il montare della pressione, Trump si è tirato indietro e ha lasciato Flynn in pasto ai lupi. Così si spiega, secondo Stone, la dichiarazione fatta oggi dalla Casa Bianca di ritenere la Crimea un territorio Ucraino.

Tornando a Flynn, ci sono uomini che nonostante tutto, anche sbagliando, non perdono la loro integrità. Sono fedeli alle loro convinzioni e valori, qualunque essi siano e promuovono queste convinzioni e questi valori al di là di ogni calcolo di interesse personale. Vengono descritti in gergo comune come uomini tutti di un pezzo. Il generale Michael Flynn appartiene a questa categoria di uomini che, nella melma del mondo occidentale, si rarefanno. Uomini in via di estinzione, spianati dal rullo compressore di interessi e poteri avversi a chi, come Flynn, non si ribassano a compromessi per questione di calcoli politici miserabili o economici.

Flynn apparteneva al gruppo più vicino a Trump, quello storico, quello che ha creato il fenomeno Trump. Senza Flynn e pochi altri non ci sarebbe stato un Trump. Flynn e il suo amico Sebastian Gorka, sono stati i primi veri personaggi di estrazione militare ad appoggiare la candidatura di Trump, apertamente, senza se e senza ma, mettendosi in prima fila, senza vergogna, al servizio stesso dell’attuale Presidente. Per questo supporto, Flynn si sottometteva con stoicità alle critiche che gli piovevano da tutte le parti. Venendo anche attaccato sulla sua stessa integrità morale, una cosa che sicuramente non gli è mai mancata. Le sue dimissioni da consigliere sulla sicurezza dell’amministrazione Trump ne sono la prova; piuttosto che continuare a sottoporsi alle vessazioni di una stampa meschina e di nemici potenti, Flynn ha preferito ritirarsi dalla scena, scegliendo la via più a lui consona, quella dell’orgoglio e della dignità personale.

Questa marmaglia può solo pulire le scarpe a Flynn, un uomo che ha pagato con la sua onorata carriera l’opposizione prima allo stesso Clapper e poi a Obama definendolo un “ presidente bugiardo” e denunciando il sistema corrotto non solo dei servizi di intelligence ma anche della giustizia della vecchia amministrazione. Un’altra dura critica di Flynn era rivolta contro quella che riteneva una posizione troppo debole nei confronti del Terrorismo Islamico, e aveva più volte fatto sottintendere che il connubio fra l’amministrazione Obama e i terroristi usati come strumento di destabilizzazione e caos nel Medio Oriente era inaccettabile e distruttivo.

Dopo la chiara presa di posizione contro Obama e James Clapper, Flynn fu spinto a dimettersi dal suo incarico di direttore della Defense Intelligence Agency. In trentatre anni di carriera militare Flynn non è mai stato accusato di nessun reato. Un patriota di vecchia generazione che non si è mai ribassato a giochi politici di convenienza.

Michael Flynn si ritira nell’oblio, la sua partenza rappresenta un colpo durissimo a chi cercava una nuova distensione con la Russia. L’ultima speranza rimane Rex Tillerson; ma è come scalare l’Everest senza ossigeno.

 

Sotto trovate la lettera di dimissioni di Flynn:

 

February 13, 2017

In the course of my duties as the incoming National Security Advisor, I held numerous phone calls with foreign counterparts, ministers, and ambassadors. These calls were to facilitate a smooth transition and begin to build the necessary relationships between the President, his advisors and foreign leaders. Such calls are standard practice in any transition of this magnitude.

Unfortunately, because of the fast pace of events, I inadvertently briefed the Vice President Elect and others with incomplete information regarding my phone calls with the Russian Ambassador. I have sincerely apologized to the President and the Vice President, and they have accepted my apology.

Throughout my over thirty three years of honorable military service, and my tenure as the National Security Advisor, I have always performed my duties with the utmost of integrity and honesty to those I have served, to include the President of the United States.

I am tendering my resignation, honored to have served our nation and the American people in such a distinguished way.

I am also extremely honored to have served President Trump, who in just three weeks, has reoriented American foreign policy in fundamental ways to restore America’s leadership position in the world.

As I step away once again from serving my nation in this current capacity, I wish to thank President Trump for his personal loyalty, the friendship of those who I worked with throughout the hard fought campaign, the challenging period of transition, and during the early days of his presidency.

I know with the strong leadership of President Donald J. Trump and Vice President Mike Pence and the superb team they are assembling, this team will go down in history as one of the greatest presidencies in U.S. history, and I firmly believe the American people will be well served as they all work together to help Make America Great Again.

 

Michael T. Flynn, LTG (Ret)

 

I FALCHI E LE COLOMBE, di Gianfranco Campa

I FALCHI E LE COLOMBE

 

In questi giorni si susseguono i messaggi criptati e confusi che arrivano dall’amministrazione Trump sulla Russia di Putin. Dal di fuori sembra che ci sia mancanza di coordinamento e di allineamento sulla politica estera da seguire, specialmente nel quadro dei giochi geopolitici USA-Russia.

È chiaro che la confusione per molti regna sovrana, ma in realtà l’apparente disfunzione è riconducibile a due cause:

  • il ritardo ostruzionistico che i senatori democratici hanno determinato nei confronti delle nomine di Trump contribuendo a rendere ingestibile la situazione politica interna e di riflesso quella esterna.
  • La seconda causa, la piu` importante; la penuria di personaggi di fiducia da inserire nei posti chiave dell’ Amministrazione. Persone di fiducia che, data l’entità dell’assedio sotto cui Trump si ritrova, sarebbero fondamentali per gestire gli attacchi meschini, costanti e incessanti che provengono da tutti i fronti, non ultimo quello previsto e puntualmente arrivato dalla Magistratura. Sappiamo d’altronde come funziona il meccanismo; quando il potere chiama, i giudici rispondono elevandosi a paladini della giustizia e dei diritti. Questa penuria di personaggi di fiducia competenti vicini a Trump, incoraggia i falchi neocons presenti nel Partito Repubblicano a far deragliare il proposito di Trump di attuare una nuova distensione con la Russia. Ironicamente in questo desiderio di sovvertire il tentativo di Trump e Putin ad esplorare una timida collaborazione si ritrovano insieme, alleati, i Neocons, i democratici, i media, i politici e gran parte dei capi di governo stranieri, multinazionali e via dicendo. Tutti insieme appassionatamente uniti dall’odio profondo verso Trump e dalla minaccia che Trump rappresenta all’ordine mondiale. D’altronde Il nemico del mio nemico è mio alleato…

A testimoniare di questo campo minato in cui Trump si ritrova a camminare, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, i due Neocons per eccellenza, Lindsay Graham and John McCain, si sono ritrovati in Ucraina per promettere suppporto a Poroshenko e rappresentare di fatto, non il governo Trump, ma tutta quella melma che si aizza contro di lui.

Trump su una cosa è stato consistente durante tutta la sua campagna elettorale e non ha mai cambiato orientamento anche quando messo alle corde: il desiderio di avviare una distensione tra la Russia e gli Stati Uniti attraverso un rapporto cordiale con Putin. Trump è stato sempre chiaro su questo desiderio al punto tale da sbugiardare, in diretta, durante la campagna presidenziale, il suo stesso vice presidente Mike Pence. L’unica cosa che gli si può contestare e` la mancanza di esperienza politica nel gestire anche solo un accenno di distensione con la Russia, grazie anche all’avversita` che Trump ha mostrato, fin dal suo concepimento, sull’accordo del nucleare firmato da Obama con gli Iraniani. Avversione, quella di Trump, che era più rivolta all’aspetto finanziario dell’accordo che a quello politico. Trump ha sempre ritenuto svantaggioso l’accordo raggiunto con gli Iraniani nei suoi termini economici, non fondato a suo parere su basi eque. Questa avversione verso l’Iran è stata uno degli orientamenti strumentalizzati dai neocons per dirottare Trump lontano da Putin, ben sapendo dello stretto rapporto esistente tra la Russia e l’Iran.

La visita di MacCain in Ucraina ha anticipato di qualche giorno la telefonata che Trump e Putin hanno programmato per il 28 di Gennaio. Il resoconto della telefonata parla di una conversazione sobria e amichevole fra i due leader, con la promessa di arrivare a un summit da condurre a Ginevra nel prossimo luglio.

Dopo la telefonata tra Putin e Trump, come da copione, sono cominciati i fuochi di artificio. Se la visita di McCain e Graham non è sufficientemente servita a rendere chiaro il messaggio, ci hanno pensato, immediatamete dopo quella telefonata, personaggi più o meno importanti e conosciuti a far deragliare sul nascere ogni tentativo di scardinare il blocco antirusso, aprendo un fuoco di sbarramento tale da  costringere Trump con le spalle al muro.  In Ucraina la situazione e` immediatamente deteriorata. L’ex governatore del Sud Carolina, Nikki Haley, appena nominata da Trump ambasciatrice all’ONU e amica di McCain, ha duramente condannato la Russia per il suo ruolo in Ucraina dichiarando fra l’altro che non ci sarà mai pace senza la restituzione della Crimea a Kiev. Vai a spiegare alla Haley la storia di quella regione. Anche l’Iran ci ha messo del suo testando nello stesso giorno del discorso di Haley un missile balistico Khorramshahr, violando così i termini della Risoluzione ONU 1929. Non sono nato ieri e quindi non credo che la tempistica iraniana sia un caso. I Mullahs hanno le loro ragioni per mettere i bastoni fra le ruote a un rapporto amichevole fra Putin e Trump.

Non ostante tutto, tre giorni fa durante un intervista alla FOX News, Trump, rispondendo alla accusa che Putin è un assassino, dichiarava che anche gli Americani sono stati degli assassini e “neanche noi siamo così innocenti”

Inutile dire che la reazione in America è stata viscerale; il commento  di Trump è stato denunciato e condannato su tutti i network televisivi, un disastro di capacità di relazioni pubblicche che ha messo Trump ancora più sotto assedio. Un esempio evidente dell’inesperienza politica di Trump; certe cose puoi pensarle ma non le puoi dire, soprattutto quando sei già sotto pressione.

Due giorni fa, nel tentativo di allentare la morsa e coordinare una strategia più efficacce di difesa contro i costanti attacchi, Trump si è chiuso nell’ufficio ovale della Casa Bianca con i suoi più fedeli collaboratori, di fatto sono solo cinque: Stephen Bannon, Jared Kushner, Peter Navarro, Kellyann Conway, Reince Priebus, più un fedele a metà; Michael Flynn. Dico mezzo perchè Flynn, fra  l’avversione di una larga parte di suoi colleghi militari, i quali non vedono di buon occhio una distensione con la Russia e la sua “devozione” a Trump si ritrova in un limbo, in quella terra di mezzo dove tutto è offuscato. Per un Flynn che perde colpi c’è un Priebus che avanza. Di estrazione establishment repubblicano, Priebus si è elevato a componente più fedele a Trump, rinnegando quei vertici repubblicani che lo avevano messo lì per “tenere d’occhio” il Presidente. Ma è lampante che anche con un Priebus in più, il numero di collaborator leali è risicato e costringe Trump a una costante difesa. Alla fine questo animato ritiro tra fedeli di Trump, ha portato a delle decisioni importanti: Concentrarsi sul fronte interno, per meglio impostare una strategia di difesa da condurre contro i costanti attacchi. Le limitate risorse vanno quindi concentrate tutte lì, mentre la politica estera è stata per il momento messa da parte e lasciata in mano ai falchi che operano impuniti e  indisturbati nelle stanze di Washington.

La speranza rimane che una volta prese le misure  del Dipartimento di Stato, Tillerson riesca a smussare un pò gli angoli  a livello geopolitico.

L’altra speranza è guadagnare un po’ di tempo aspettando le elezioni europee, soprattutto in Francia e Olanda, dove la vittoria della destra “populista” aprirebbe più fronti e porterebbe a distogliere un po’ la attenzione e gli attacchi morbosi di cui Trump è ora il solo e unico bersaglio.

Sarò sincero;  vedo una matassa estremamente difficile da sbrogliare; tutto sarà possibile, ma al momento attuale Trump non è in condizioni di perseguire e conseguire una distensione con la Russia.

Un altra cosa vorrei  fare presente per chi non e` ancora convinto delle difficoltà in cui Trump si ritrova ad operare. Storicamente una distensione con la Russia è stata sempre ostacolata in modo maniacale. Voglio ricordare alcuni episodi storici a sostegno di questa tesi. Deragliamento della distensione da parte della CIA durante la presidenza di Dwight Eisenhower . Qualche mese prima dell’incontro programmato fra Eisenhower e  Nikita Khrushchev  avviene l’abbattimento dell’U-2 sopra l’Unione Sovietica con a bordo il pilota CIA Gary Powers. L’opinione di certi ambienti è che Eisenhower non fosse stato messo al corrente dell’operazione da parte della CIA. Operazione che di fatto inibì qualsiasi tentativo di iniziare una distensione i due paesi. Da rilevare la stessa morte di Gary Powers nel 1977, dovuto ad un incidente di elicottero  dalle dinamiche avvolte nel mistero; voci insistenti davano un Power particolarmente irrequieto pronto, 17 anni dopo, a vuotare il sacco sulla operazione U-2.

Il secondo tenativo di distensione  avviene quando il presidente Richard Nixon incontra in visita il Segretario Generale del partito comunista sovietico, Leonid Brezhnev a Mosca, nel  maggio 1972 . Quell’incontro porterà il frutto del trattato SALT e la visita verrà ricambiata da Brezhnev   con altri due summit che però porteranno a ben poco seguiti come furono dallo scandalo Watergate e dale conseguenti dimissioni di Nixon.

Anche qui è da sottolineare un probabile convolgimento della CIA nello scandalo Watergate. Non per giustificare la superficialità di Nixon nella gestione Watergate, ma quello scandalo segnò effettivamente  la fine della presidenza Nixon e di conseguenza  la fine della distensione avviata appena due anni prima. Lo stesso Carter ha fatto timidi tentativi di salvare almeno in parte quell’opera di distensione con la Mosca. Carter fallì per vari motivi, uno di questo fu la debolezza interna in cui la sua amministrazione versava. Credetemi, Trump è messo molto ma molto peggio di Carter.

Voglio infine chiarire che lo stesso Reagan ha avuto durante il suo primo mandato presidenziale una posizione antagonistica verso l’Unione Sovietica definendola l’Impero del Male, per cambiare poi orientamento durante il suo secondo mandato per ragioni troppo lunghe da discutere ora. Resta il fatto che Reagan operava in una posizione di forza avendo vinto il secondo mandato, nelle elezioni del 1984, con un voto storico; una valanga di 49 stati  contro il solo stato vinto da Walter Mondale, il Minnesota, stato da cui Mondale proveniva .

È chiaro che Trump non occupa nessuna posizione tale da dettare la linea geopolitica; basta che qualcuno faccia una pernacchia e Trump si ritrova ad annaspare. La sua è una posizione troppo debole. Non ci resta che sperare nella vittoria di Marine Le Pen in Francia per sbloccare la situazione e alleviare i dolori di Trump. Prevedo molto presto attacchi contro Le Pen usando le stesse tecniche usate contro Trump; poniamo, i servizi segreti Francesi che “smascherano”, tutto di un colpo, i Russi nel tentativo di manipolare le elezioni.

Per il momento rassegnamoci, cinque colombe e mezzo non fanno primavera.

 

 

LA NUOVA STRATEGIA ARABA DI TRUMP, di Antonio De Martini

Più che un articolo è un appunto. Breve ma molto efficace; soprattutto, corroborato da numerosi indizi

LA NUOVA STRATEGIA ARABA DI TRUMP

Comincia a filtrare l’orientamento verso il mondo arabo della nuova amministrazione USA.
Il nemico principale indicato non sarà più ISIS-DAESCH , bensì al Kaida.

Questo significa che l’idea di considerare ISIS il nemico, viene azzerata.
Non facendo ammissioni imbarazzanti per la passata amministrazione, nasconde il fatto che si è trattato di una creazione israeloamericana.

L’obbiettivo era dirottare il reclutamento dei volontari jihadisti da al Kaida verso sigle ispirate se non addirittura create dai servizi di intelligence – inizialmente con la collaborazione europea- quindi monitorabili e indirettamente indicando obiettivi non americani in cambio di strategie di comunicazione atte a mettere in ombra al Kaida e in luce Al Bagdadi e i suoi adepti.

Adesso, si torna alla realtà e il nemico torna ad essere al Kaida. Ecco perché i confini americani, finora protetti dalla precedente strategia, sono stati messi in sicurezza.
Questo significa inequivocabilmente una prospettiva di scontro , nemmeno a lungo termine, con la casa reale saudita e un miglioramento dei rapporti con l’Europa che era stata di fatto, sia pure indirettamente, indicata come obiettivo per i killer di Al Bagdadi.

L’idea iniziale americana era che sarebbero stati attaccati di preferenza obiettivi nella Russia mussulmana.

Una grave sottovalutazione del fattore anti colonialista e nazionalista arabo e una discreta ignoranza della politica di riconoscimento dei valori del Caucaso praticata dai russi fin dal tempo degli Zar, quando, arresosi dopo trenta anni di lotta l’Imam del Daghestan Sciamil, lo Zar gli assegnò una dignitosa residenza con seguito, gli lascio le sue armi, accolse a corte uno dei figli e gli permise di andare il pellegrinaggio alla Mecca.

Morì a Medina mentre era in viaggio ed è un raro caso di un non arabo sepolto nella città di Maometto.

Ancor oggi la residenza di Sciamil a Kaluga è un museo e meta di visitatori.

La recente ” fatwa di Grozny” che ha decretato la messa fuori da ogni legge islamica dei jihadisti da parte di trecento Imam riuniti a Congresso, ha completato la debacle del piano americano di poter deviare gli attentati a piacimento.

La scelta di Trump è audace, ma consente di migliorare i rapporti che contano di più : quelli con l’Europa. Il problema è che al Kaida ha reclutato principalmente tra sauditi e yemeniti dove la guerra subirà una accelerazione.

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO), di Massimo Morigi

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO)

Polemos è di tutte le cose padre, di tutte re, e gli uni rivela dei e gli altri uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi. Eraclito, Frammento 53

La ‘Teoria della Distruzione del Valore’, pur inserendosi direttamente e a pieno titolo nella tradizione della critica marxiana e marxista all’economia politica classica e neoclassica e all’individualismo metodologico a queste inerente, intende rovesciare la teoria marxiana del plusvalore – viziata alla radice dall’economicismo dell’economia classica di Adam Smith e David Ricardo, economicismo che pur Marx intendeva respingere –, sostenendo, contrariamente alla teoria del plusvalore, che il modo di produzione capitalistico non si caratterizza per una sottrazione del plusvalore generato dal pluslavoro erogato dal lavoratore e di cui si appropria il capitale ma che, bensì, attraverso il nuovo rapporto sociale materializzatosi con l’avvento del capitalismo (“Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.”: Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200; “Ma il capitale non è una cosa, bensì un certo rapporto di produzione sociale che rientra in una determinata formazione storica della società. Questo rapporto si presenta in un oggetto e conferisce ad esso uno specifico carattere sociale. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti. Esso è formato dai mezzi di produzione che sono divenuti capitale, che in se stessi non sono capitale, come oro e argento non sono in se stessi denaro. Il capitale è formato dai mezzi di produzione monopolizzati da una certa porzione della società, dai prodotti e dalle condizioni in cui agisce la forza lavorativa, resisi indipendenti nei confronti della viva forza lavorativa che tramite questa contrapposizione si incorporano nel capitale.”: Idem, III, pp.1086-1087), si opera una distruzione reale e concreta del valore del lavoro richiesto al dipendente operaio dell’impresa capitalista. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ si colloca nell’ambito della dottrina filosofico-politica denominata ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ (o ‘Lebensraum Repubblicanesimo’) ed è complementare, specialmente per le epoche storiche ed i rapporti sociali precedenti o non riconducibili al primo capitalismo industriale e successive sue evoluzioni, ad una più generale ‘Teoria della Predazione/Distruzione/Equilibrio/Incremento del Valore’, a sua volta afferente alla ‘Teoria Polemodinamica Evolutiva dei Cicli di Creazione/Conservazione/Trasformazione del Conflitto’, teorie anche quest’ultime due costitutive del ‘Repubblicanesimo Geopolitico’. Fondamentale corollario. Alla luce della decisiva categoria di Gianfranco La Grassa degli ‘agenti strategici’, la distruzione del valore del lavoro – distruzione consustanziale alla nascita dell’impresa capitalista che dà forma al nuovo rapporto sociale che vede l’incontro sul mercato, su un piano di formale libertà per entrambi, del lavoratore salariato e dell’agente capitalista, in realtà in un rapporto totalmente Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.2 di 3 20 marzo 2015 squilibrato a favore del secondo, il quale proprio per la disparità di forze a suo vantaggio acquista un lavoro ‘svalorizzato’ – deve anche intendersi parallela, concomitante e complementare alla distruzione agente in quell’altro versante del potere, distruzione, cioè, della capacità di agire – seppur in senso lato – politicamente dei ‘non agenti strategicioperai/lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ (da adesso in poi definiti ‘decisori omegastrategici’ o ‘omega-strategic decisors’). In questo modo, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’, affine per molti versi al concetto di Joseph Schumpeter di ‘distruzione creatrice’, è lo strumento fondamentale per completare la messa a fuoco e l’inquadramento teorico dell’operato degli ‘agenti strategici’ lagrassiani (da adesso in poi definiti ‘decisori alfastrategici’ o ‘alpha-strategic decisors’), che agiscono (o, meglio, decidono) costantemente per accrescere il loro potere attraverso mosse strategiche indirizzate sia sul versante – apparentemente solo – economico e mosse – apparentemente solo – politiche, entrambi ambiti che però, se guardati attraverso l’univoca ed unica finalità di conquista della supremazia tipica dei ‘decisori alfa-strategici’, rivelano il loro consustanziale legame, cementato dalla loro comune politicità. Nella presente situazione postdemocratica che accomuna tutte le democrazie occidentali elettoralistico-rappresentative, siamo in presenza di una reale estensione formale dei diritti politici e civili a fronte di una reale distruzione sostanziale della loro efficacia e vigenza politica (l’Italia – more solito – è un caso a parte: in questo paese, l’arretratezza politica è di un tale livello che anche dal punto di vista formale assistiamo ad una contrazione/distruzione non dissimulata, esplicita e smaccata, dello spazio politico di azione dei ‘decisori omega-strategici-lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’). Per tornare alle maggiori “democrazie” occidentali, questo significa, per i ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’, un’estensione formale dei diritti politici e, soprattutto, dei diritti civili (esemplare, a tal proposito, l’ideologia del “politicamente corretto” e dei “diritti alla diversità” – di genere o culturali che siano – , che trovano la loro massima realizzazione – e simbolo – nel diritto al matrimonio fra omosessuali), una estensione formale del loro ambito di decisione/azione a fronte, però, di una sostanziale distruzione del valore dei loro diritti e tutele lavorativi per opera dei ‘decisori alfa-strategici’, distruzione del valore il cui unico effetto è un’ulteriore contrazione/distruzione dei già miseri ambiti di azione politica reale dei ‘decisori omega-strategici’, fatti salvi, ovviamente, gli “importantissimi” diritti afferenti al “politicamente corretto”, al “diritto alla diversità” – comunque lo si voglia declinare – e alla sfera dell’orientamento sessuale. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ consente così di ripercorrere un filo rosso continuo fra la nascita in Occidente delle prime società industriali/capitaliste (con il contemporaneo affermarsi del summenzionato rapporto sociale, plasmato dal capitalismo, di formale libertà sul mercato e conseguente ingannevole vicendevole autonomia fra capitalisti e ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ afferenti all’ impresa capitalista, formalmente liberi nello scambiare con i ‘decisori alfa strategici-imprenditori capitalisti’ la loro forza lavoro ma con un’incommensurabile disparità di forza contrattuale in questo mercato a causa della distruzione del valore operata dal nuovo rapporto sociale ingenerato dal capitalismo, una distruzione del valore del tutto simile a quella che avviene fra i combattenti nelle guerre armate, dove, per giungere al risultato strategico voluto, la vittoria o la non sconfitta, si distrugge non solo la vita del nemico ma anche di quella carne da cannone che per convenzione si suole chiamare amico: non a caso l’economista austriaco Kurt. W. Rotschild ha affermato che se si vuole comprendere l’economia, piuttosto che studiare Adam Smith e tutti gli altri allegri studiosi della triste scienza, meglio è concentrarsi nella lettura del Vom Kriege di Carl von Clausewitz… e viene facile notare la profonda analogia e legame fra la prima fase del capitalismo e la nascita della guerra assoluta analizzata da Clausewitz, dove in entrambe la distruttività veniva portata a livelli mai prima conosciuti dall’umanità, fino a giungere ai giorni nostri, nei quali le possibilità di annientamento manu militari e manu scientifica, con la nuova generazione di armi sempre più basate sulla cibernetica – fino ad Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.3 di 3 20 marzo 2015 arrivare al computer quantistico e alle sue potenzialmente numinose capacità computazionali e di conseguente produzione/riproduzione/creazione di un potere un tempo solo riservato agli dei olimpici, e alle forme sempre più evolute di intelligenza artificiale e alla possibilità di manipolazioni della pubblica opinione e della natura fisica e biologica, “un lavoro che, lungi dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla dalle creature che dormono latenti nel suo grembo”–, rendono persino la guerra totale di settanta anni fa, compresa la stessa arma atomica, un gioco da ragazzi e dove il capitalismo del XXI secolo non solo ha eliminato, almeno in tempi commensurabili con l’umana esistenza, ogni realistica possibilità di poter costruire un diverso rapporto sociale ma ha ormai addirittura annientato la stessa memoria storica dei tentativi portati avanti dai ‘decisori omega-strategici’ – o, meglio, dalle burocrazie socialistiche che sostenevano, in parte in buona e in parte in cattiva fede, di agire in nome e per conto del proletariato e per instaurarne l’ossimorica dittatura ma che, a tutti gli effetti, altro non erano che una diversa forma di ‘decisori alfa-strategici’ – per costruire un’alternativa al capitalismo) e le odierne società industriali/capitaliste, caratterizzate quest’ultime – come le prime società industriali/capitaliste – da ‘decisori alfa-strategici’ che costantemente agiscono – e per ora, nonostante tutta la dissimulativa retorica democratica, con grande ed inarrestabile successo e senza alcun reale avversario – per una distruzione del valore del lavoro sull’apparentemente libero mercato e dei diritti dello stesso a livello giuridico dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori alfa-strategici’ che – oggi come sempre ed in particolare, per quanto riguarda l’epoca moderna, dall’inizio della rivoluzione industriale, in altre epoche storiche possono essere state prevalenti modalità predatorie, e.g. la schiavitù antica e la servitù della gleba – operano, in definitiva, per annichilire – sfrontatamente o più o meno nascostamente ma sempre con modalità distruttivamente del tutto analoghe a quella dei summenzionati conflitti armati, per una critica dei quali è quindi fondamentale, oltre che per l’economia, la politica e la cultura, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’ – i già infimi ed unicamente consolatori spazi di decisione/azione dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori omega-strategici’ per i quali, ne siano consapevoli o meno, vale sempre, indipendentemente dall’epoca storica e predazione o distruzione del valore che sia, la condizione vitale ed esistenziale – “dove anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”– descritta dall’iperdecisionista Walter Benjamin – l’Angelus Novus per un rinnovamento ab imis della geopolitica e del repubblicanesimo, soteriologicamente ben più radicale e realista del “timido” e katechontico decisionista giuspubblicista nazifascista Carl Schmitt – alla ottava tesi di Tesi di filosofia della storia: la terribile e mortale condizione di ‘stato di eccezione permanente’. Massimo Morigi – Ravenna, 20 marzo 2015 “Massimo Morigi”; “Karl Marx”; “Marx”; “Ant ropos St rategikon”; “Hom o St rategicus”; “Homo S trategicvs”; “Gianf ranco La Grassa”; “Gianfranco la G rassa”; “La Grassa”; “Joseph Alois Schumpeter”; “distruzio ne creatrice”; “ Teoria del plus valore”; “ Teoria del plusvalore”; Teoria del plus-valo re”; “Teo ria del valo re”; “Teo ria marx iana del valo re”; “Theor y of plus value”; Theory o f plus-val ue”; “théorie de plus-value”; “ Theorie des Mehrwerts”; “teor ia do mais- valor”; “teo ria do mais valor”; “théo rie de plus value”; “teoria de p lusvalor”; “plusvalore”; “Theor ien über den Mehrwert”; “ Teorie su l plusvalore”

IL TEATRO DELL’OLOCAUSTO, di Max Bonelli

Cronaca di una serata culturale, dove il genocidio degli ebrei viene usato come strumento per produrre consenso per una pseudo sinistra liberista e mondialista.

 

Mi trovavo a trascorrere un paio di giorni presso il luogo di origine della mia famiglia. Un tipico paese dell’appennino laziale, per sua fortuna non toccato dalle tristi vicende dei continui terremoti. Una parente, dopo una piacevole chiacchierata, m’invita a seguirla ad un evento culturale locale tenuto da un politico del luogo esponente della sinistra mondialista  e docente in un  liceo, conosciuto per ricorrenti iniziative culturali su temi di attualità. Il tutto sponsorizzato dalla municipalità  che pur avendo un colore politico teoricamente opposto acconsente alla sponsorizzazione di questi eventi in nome di una apartiticità della cultura.

La serata è la seconda di un ciclo di due che ha per tema l’Olocausto, con relatore un giovane professore universitario di filosofia che solo casualmente ha il cognome coincidente con quello di un ministro della repubblica di uno dei primi governi Berlusconi.

Il giovane intellettuale presenta il suo libro sul genocidio ebraico e ne illustra i suoi punti salienti, partendo dall’assioma  che il genocidio degli ebrei perpetrato dal nazismo sia fenomeno unico nel corso della storia per dei motivi che il bravo professore partenopeo si dimentica simpaticamente di dimostrare.

Gli spettatori della riunione pur essendo in media di cultura superiore non riescono onestamente ad afferrare perché il 27 gennaio, in tutto il mondo dobbiamo ricordare il genocidio degli ebrei e non quello degli zingari che morirono nello stesso modo e negli stessi luoghi. In silenzio non assertivo afferrano il concetto che questa ricorrenza è unica per la coniugazione di un movimento politico che dopo la presa al potere di Hitler nel 1933 pianifica a tavolino la pulizia etnica dell’area geografica a predominanza culturale tedesca. Dopo di che è un continuo di immagini verbali e mediatiche di atti di violenza bestiale e testimonianze toccanti che non possono che scuotere la coscienza umana dell’ascoltatore.

Ma la mia coscienza critica è in rivolta. Come si può affermare impunemente l’unicità di questo genocidio rispetto agli altri genocidi che la storia con ricorrenza cadenzata ci vomita addosso?

Cosa differenzia sul piano della componente razziale, l’olocausto ebraico rispetto al genocidio degli indiani di America perpetrato dai coloni americani i quali affermavano con franchezza tutta anglosassone che: “l’unico indiano buono era quello morto”? Cosa differenzia in metodicità la distribuzione delle coperte infettate di vaiolo, rispetto ai tentativi sperimentali teutonici di genocidio tramite le camere a gas?

Dove si distingue l’efferatezza del genocidio degli ebrei polacchi e russi da quello messo in pratica dalle milizie turche e curde nei confronti degli armeni?

Pecca di capacità tecnologica il monito di genocidio dato al Giappone ormai inerme con le due bombe di Hiroshima e Nagasaki rispetto ai forni crematori dei campi di concentramento?

Mi sovviene il sospetto che l’unicità dell’olocausto è che per un caso raro nella storia dei genocidi, il colpevole ha perso la guerra e viene processato dal vincitore.

 

Sono certo che il giovane professore il quale per sicuro merito ha occupato una prestigiosa cattedra con il corrispondente buon stipendio saprà illuminare il mio innato spirito critico. D’altronde come potrà mancare una sessione interattiva di domande e robuste risposte in una serata culturale patrocinata da locali esponenti di partiti con salde tradizioni democratiche?

Ma i miei interrogativi rimarranno tali e irrisolti da un frettoloso “Tutti a casa” prontamente lanciato dal rampante esponente politico globalista dal look da moderno sessantottino. La perplessità nella platea è visibile negli occhi delle persone e questa può generare inopportune domande; d’altronde lo scopo d’informazione è raggiunto, l’impegno culturale è compiuto, la ricaduta politica per futuri impegni elettorali conseguita, l’amicizia con il giovane professore universitario consolidata e con essa la rete di sue conoscenze ed influenze.

La mia rabbia cresce per questo teatrino umano che uccide per la seconda volta quegli uomini, donne, bambini vittime di una pazzia razziale collettiva che ebbe luogo nei campi di concentramento. Il loro sacrificio viene usato per il fine di una grande lobby finanziaria che deve nascondere un altro genocidio che si potrebbe fermare oggi, quello dei palestinesi rinchiusi nella striscia di Gaza. Il grande ghetto palestinese con i bambini denutriti che crescono in un esasperante vita se non quando deturpati ed uccisi dalle pallottole israeliane. La memoria degli ebrei di Treblinka, Auschwitz usata come velo per oscurare gli odierni genocidi, dimostrazione giornaliera che non esistono popoli eletti e razze superiori, bensì un animale a due gambe capace di qualsiasi ferocia chiamato uomo.

Ma i peggiori sono loro; quelli che si pensano giusti, portatori di verità che in realtà usano per i loro fini, piccoli uomini senza etica.

L’etica suggerirebbe: stabiliamo il giorno della memoria per tutti i genocidi, grandi e piccoli che sono avvenuti, tutti paritetici nella dimostrazione della pazzia umana.

 

 

Max Bonelli

 

Autore del libro

Antimaidan

(le ragioni del genocidio del popolo dell’Est Ucraina)

Esperto di Scandinavia ed Ucraina

LA NUOVA AMERICA O LA DEMOCRAZIA IN AZIONE, di Antonio De Martini

Riprendo da facebook: https://www.facebook.com/antonio.demartini.589/posts/1074074962738294

Mi pare che parli da solo

LA NUOVA AMERICA O LA DEMOCRAZIA IN AZIONE, di Antonio De Martini

Per scaramanzia, non farò notare che Trump sta mantenendo le sue promesse elettorali, perché dopo la delusione di Hollande, che mantenne le prime tre e poi scivolò nel nulla ( cosa che l’amico Ceccarelli mi rimprovera costantemente) non vorrei addentrarmi in un nuovo ginepraio.

Però, dopo anni di comportamento schizofrenico della politica statunitense, non posso onestamente fingere che non sia accaduto nulla e che tutto riprenda as usual.

Se andate sul sito dell’ambasciata USA a Roma, vedrete che il proconsole Philips è stato salutato il 18 gennaio e sostituito da una “chargé d’affaires” proveniente dalla carriera diplomatica. Segno che la disposizione del neo presidente è stata obbedita alla lettera.

Se date un’occhiata alle nomine del nuovo governo, noterete come un cospicuo numero di membri del Congresso e governatori di Stati siano diventati membri dell’esecutivo federale, segno di un nuovo rapporto interattivo tra Congresso e governo.

Tra i diretti collaboratori del presidente ci sono cinque generali in evidente contrasto con la precedente amministrazione.

È un segnale di inversione del rapporto tra Pentagono e Dipartimento di Stato che viene ridimensionato dopo la sequela disastrosa di scemenze che hanno danneggiato seriamente l’immagine dell’America nel mondo.

I funzionari apicali del Dipartimento di stato, non si sono soltanto dimessi, ma hanno chiesto il pensionamento. Segno che giudicano essi stessi il movimento come irreversibile.

Il primo incontro internazionale è stato con la premier inglese. Segnale questo, potrei sbagliarmi, della ripresa di una vecchia idea di strategia continentale che vedrà anche maggiore attenzione alla Spagna e al bastione dei Pirenei, invece di schieramenti ai confini russi. La NATO odierna ha le settimane contate.

L’incontro con i capi della industria automobilistica, allineati come scolaretti davanti alle telecamere, ha mostrato plasticamente il ritorno del giusto rapporto tra politica e mondo degli affari.

L’azzittirsi del cicaleccio europeo sulla multipolarità e la ricerca per analizzare la nuova situazione ci dà un momento di pausa.

Cominciamo a vedere che gli unici momenti di diplomazia multipolare sono stati l’accordo con l’Iran sul nucleare e l’accordo di Parigi sul clima. Due invenzioni propagandistiche prive di contenuti reali.

Il finanziamento USA dell’ONU, dove Obama sperava di annidarsi, sarà ridotto del 40% e viste le promesse finora mantenute, non c’è ragione di dubitarne.

La diplomazia bilaterale tornerà a prevalere e chi ha più filo da tessere lo dimostrerà. Europa e Italia dovranno cambiare classe dirigente e adeguarsi.

Stiamo assistendo alla celebrazione della democrazia. Il popolo ha votato e adesso il cambiamento, giusto o sbagliato che sia, SI VERIFICA PER DAVVERO.

È giunto finalmente il momento per dar vita a un nuovo movimento politico in Europa e in Italia senza ostacoli esteri.

Obama disse che il cambiamento era possibile, ma in realtà era un gattopardo infido rivelatosi incapace perfino di chiudere un carcere illegale.

Trump, senza tante chiacchiere, sta cambiando l’America e, con essa, il mondo. Possiamo approfittarne anche noi.

Adesso è il momento di organizzarci.
Per i servi sciocchi nostrani, una prece.

Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Scrive Francis Fukuyama nel più famoso passaggio della Fine della Storia e l’Ultimo Uomo: «The end of history would mean the end of wars and bloody revolutions. Agreeing on ends, men would have no large causes for which to fight. They would satisfy their needs through economic activity, but they would no longer have to risk their lives in battle. They would, in other words, become animals again, as they were before the bloody battle that began history. A dog is content to sleep in the sun all day provided he is fed, because he is not dissatisfied with what he is. He does not worry that other dogs are doing better than him, or that his career as a dog has stagnated, or that dogs are being oppressed in a distant part of the world. If man reaches a society in which he has succeeded in abolishing injustice, his life will come to resemble that of the dog. Human life, then, involves a curious paradox: it seems to require injustice, for the struggle against injustice is what calls forth what is highest in man.» (Fukuyama 1992: 311). Nell’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump” l’analista, soffermandosi su un importante aspetto della nuova amministrazione Trump, la nomina a Segretario di Stato di Rex Tillerson, va oltre la rappresentazione dei dati biografici e del probabile modus operandi del neonominato segretario di stato ma fornisce anche importanti spunti sia su quella che possiamo definire la stimmung della nuova amministrazione Trump sia sul vero motivo per cui questa nuova amministrazione entra nel pieno dei poteri dovendo affrontare all’interno un vero e proprio clima di guerra civile (e al livello internazione una palese e feroce ostilità il cui unico obiettivo è di allearsi con i facitori della guerra civile interna americana al fine di rovesciare la nuova amministrazione). Quali sono le caratteristiche di Rex Tillerson? Rex Tillerson non è un politico nel senso peggiorativo della parola, Rex Tillerson non è cioè un politico uso a vellicare il popolo in nome di principi universalistici ma nonostante ciò (cioè nonostante la pesante e negativa semantica che si trascina il termine in questione) è un politico perché sa da grande responsabile e dirigente della massima multinazionale petrolifera statunitense che un accordo e/o una decisione non è mai frutto né di un puro calcolo tecnico né del rigido attenersi ad astratti parametri tecnici (in politica i principi universalistici dei diritti dell’uomo o simili, in economia le mitologiche leggi dell’economia, come vorrebbe il liberalismo) ma del sapiente bilanciamento di tutti questi fattori (illusioni politiche universalistiche comprese) al fine di comporre una linea politica e/o di azione/conflitto strategico coerente, razionale e, in ultima istanza, intimamente pacifici perché presuppone non un interlocutore demonizzato ma una controparte in possesso dei medesimi orientamenti e strumenti di analisi realistici. Ora essendo queste caratteristiche/modus operandi di Tillerson profondamente rappresentativi dell’amministrazione Trump, si spiega così da un lato il feroce clima di guerra civile scatenato all’interno degli Stati uniti da quegli agenti strategici, prima dell’amministrazione Trump totalmente prevalenti, che sotto il ridicolo vestito dei diritti universalistici liberal-liberisti avevano dichiarato guerra a tutti coloro che al di fuori degli Stati uniti si opponevano alla truffa democraticistica e al totalitarismo della globalizzazione mercatistica sia il fatto che in questa guerra civile le truppe d’assalto siano costituite dal tipo umano-politico che Fukuyama (non si capisce bene se con disprezzo e fatalismo o vedendoli come un fenomeno in sé positivo) definisce cane al sole, dove con cane “content to sleep in the sun” Fukuyama delinea l’idealtipo dell’uomo democratico, un incrocio fra indolenza fisica, pigrizia intellettuale e finte alte idealità che gli dovrebbero essere garantite dai politici democratici (a tutto disposti nelle loro concessioni demagogiche) e a livello di costruzione sistemica dello stato, dagli universalistici diritti politici formalmente garantiti dalle carte costituzionali liberal-liberiste. Ora Trump (e tutta la sua amministrazione) sono il più esplicito proclama che le cose non stanno per niente così, sono la dimostrazione che è iniziata una “vera rivoluzione” dove al posto dei fantasmagorici diritti universalistici e della loro ultima miserrima traduzione politically correct del diritto alle varie diversità più o meno di genere si cerca di costruire e di mettere in azione l’unico vero diritto che veramente conta (e che, in ultima istanza, è il motore del lagrassiano conflitto strategico), e cioè il diritto ad avere la possibilità di essere protagonisti ed efficaci all’interno del conflitto strategico stesso (detto in altri termini: quello che veramente conta è il diritto/dovere, se non si vuole essere scippati del proprio futuro, a non essere presi per i fondelli dai turiferari dei diritti umani e politici universalistici). E da qui la rivolta di piazza dei poveri pasdaran mossi dai grandi agenti strategici del vecchio sistema di potere, la rivolta, cioè dei cani al sole, povere anime eterodirette e che nel loro irrazionale terrore verso la nuova amministrazione Trump non sono che il sintomo di un più razionale terrore da parte del vecchio sistema di potere che non risparmierà alcun mezzo lecito od illecito per fermare questa rivoluzione (aizzare i cani al sole è solo uno stadio di una guerra che potrà essere combattuta anche con ben altri mezzi…). E, molto più modestamente per quanto riguarda le vicende di un paese periferico come l’Italia, anche da acuti osservatori come Gianfranco Campa, il compito di tenerci accuratamente e scientificamente informati su questa importantissima – e lo ripetiamo, autenticamente rivoluzionaria – vicenda americana nella speranza chi i nostrani “cani al sole” scoprano che i conti non tornano (il riferimento al movimento stellare è puramente non casuale) e che in un giorno fausto per noi e per loro riescano veramente a vedere (e quindi a realizzare) la loro vera natura di Zoon Politikon (animale notoriamente che non si scalda pigramente al sole ma trova conforto in una comunità politica che gli garantisca dialetticamente, cioè realmente e conflittualmente, tutti quei diritti e possibilità che le retoriche universalistiche proclamano truffaldinamente solo sotto forma di mito).

I BUOI OLTRE LA STALLA, di Giuseppe Germinario

Nell’attuale compagine governativa pare finalmente emergere il paladino di un protezionismo mirato, il fautore della “messa in sicurezza del paese”: Carlo Calenda. Il ministro aveva evidenziato al pubblico le proprie doti di chiarezza e determinazione (https://www.youtube.com/watch?v=MW0ERHOqqr4 ) già nel suo primo intervento da ministro del Governo Renzi all’assemblea di Confindustria. L’intervista al Corriere della Sera del 1° gennaio (  http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_01/calenda-una-rete-protezione-difendere-interessi-nazionali-2ecfb74e-d05c-11e6-a287-5b1c5604d8ca.shtml  ) sembra infine tracciare chiaramente il nuovo orientamento  delle forze dette progressiste, della possibile grande coalizione che si va profilando con le prossime elezioni o quantomeno del perpetuarsi dell’attuale gioco politico nelle mutate condizioni del contesto interno e internazionale. Più che i punti salienti dell’intervista, facilmente desumibili dal testo, mi paiono significative piuttosto quelle espressioni che delimitano l’orizzonte culturale e politico, quindi la sostanziale inadeguatezza della attuale classe dirigente, della quale Calenda mi pare uno dei migliori esponenti, ad affrontare le sfide in atto. L’Italia anello debole dell’Europa “rischia di esserlo se si interrompe il percorso che ha iniziato a portarci fuori dalla crisi, e mettere in sicurezza il Paese, dopo la sconfitta sulle riforme istituzionali, richiede un cambiamento di strategia“; “entriamo in una stagione dove il nazionalismo economico si rafforzerà in tutto il mondo. Non dobbiamo abbracciarlo, ma neanche essere impreparati ad affrontarlo”; “questo non vuol dire limitare gli spazi di mercato, ma essere in grado di reagire quando viene distorto o manipolato, anche con regole scritte ad hoc, per indebolire il nostro tessuto economico”; “dovremmo da subito lavorare al progetto di una nuova Europa con i Paesi fondatori, ma oggi la priorità è vincere i populismi”; i settori prioritari sono “L’industria, dando supporto solo a chi investe in innovazione e internazionalizzazione con strumenti automatici che eliminino l’intermediazione politica e burocratica, come abbiamo fatto con il piano Industria 4.0. Analogo lavoro va fatto nei settori del turismo, della cultura, dove moltissimo è già stato realizzato, e delle scienze della vita”; “Nessuna forza politica, da sola, potrà portare il fardello delle scelte che si renderanno necessarie. La stessa legge elettorale va disegnata tenendo presente questo scenario, che “chiamerà” probabilmente una grande coalizione.”; “Questo esecutivo assolverà al suo compito se sarà il ponte tra la stagione importantissima di rottura del governo Renzi e quella di messa in sicurezza del Paese che dovrà portare avanti il prossimo esecutivo, mi auguro sempre con Renzi alla guida”.

Alla luce di queste dichiarazioni l’intenzione di “fare sistema” e l’obbiettivo di “ricostruire una rete fatta di grandi aziende, pubbliche e private, e di istituzioni finanziarie capaci di muoversi all’occorrenza in modo coordinato, tra di loro e insieme al governo” appaiono rispettivamente meno realistica e poco coerente.

Appaiono più che altro un ripiego legato al soprassalto di nazionalismo economico e all’ondata di populismo; esauritosi il primo e sconfitto il secondo non resterebbe che riprendere coerentemente le politiche comunitarie di creazione di un mercato unico nel rispetto delle regole stesse di mercato.

Da dirigente e manager, più spesso da politico e da ministro, abbiamo ascoltato Calenda difendere il liberismo dal suo peggior nemico: il dogmatismo liberista. Critica giustamente, anche se tardivamente, l’assunzione pedissequa di un modello economico astratto, associato negli ultimi venti anni alla retorica magnifica e progressiva della globalizzazione, ma ritiene l’intervento politico di regolamentazione e l’intervento pubblico diretto nelle scelte gestionali e di investimento un evento straordinario, un espediente o uno strumento temporaneo teso a ripristinare il mercato. Di fatto quel dogma che cerca di cacciare dalla porta rientra surrettiziamente dalla finestra. Un dogma che impedisce di vedere il mercato come una combinazione infinita e variabile di dirigismo e di libertà di iniziativa, di protezioni e di spontaneità, di regolamentazione della circolazione e delle caratteristiche dei prodotti e delle merci, di tutela della proprietà e del patrimonio la cui particolare peculiarità dipende da determinati rapporti di forza politici/economici che delimitano la formazione di una o più aree di influenza. Paradossalmente la “libertà” e la “spontaneità” di scelta e circolazione individuale si liberano con la vittoria egemonica di centri strategici, di un paese e di una formazione sociale in grado di stabilire un perimetro di influenza, le regole di funzionamento e le necessarie trasgressioni, il grado e gli ambiti di liberismo e dirigismo.

In base a questa dinamica fondamentale i paladini del dogma liberista e della globalizzazione, sia gli oltranzisti che i pragmatici, solitamente diventano i sostenitori della politica di potenza nei paesi egemoni e della sudditanza nella periferia della sfera di influenza.

Può sembrare una diatriba puramente accademica; spesso assume le vesti di una discussione riguardante la mera correttezza o i meri errori, l’irrazionalità di scelte ed indirizzi. In realtà è un paradigma la cui ostinata adozione comporta delle profonde implicazioni, tutte negative, in termini di adeguata analisi politica e di perseguimento di strategie e di obbiettivi altrettanto adeguati all’attuale lunga congiuntura che stiamo attraversando; una adeguatezza che si deve misurare rispetto al livello di autorevolezza, di forza, di benessere e coesione che una classe dirigente degna di questo nome intende realisticamente raggiungere per sé e per il proprio paese.

Il nazionalismo economico appare quindi un incidente e un accidente della storia da rimuovere al più presto per riprendere il cammino verso la costruzione di una comunità globale quando in realtà pervade le vicende politiche e il conflitto economico sin dalla prima formazione degli stati nazionali sia nella forma a prevalenza liberista propugnata dalle formazioni dominanti, sia a quella a prevalenza protezionistica delle formazioni in ascesa o in posizione difensiva nell’agone internazionale. Nella fattispecie dell’Unione Europea il nazionalismo economico appare solo oggi agli occhi dei liberisti dogmatici, ma solo perché è finalmente caduta la maschera della retorica europeista basata sulla distruzione degli stati nazionali che celava sotto mentite spoglie il dominio politico dello stato nazionale americano frutto di una schiacciante vittoria militare e il conflitto e la regolazione continua di esso tra gli stati nazionali componenti l’Unione. Una retorica nefasta che ha illuso e neutralizzato le ambizioni delle formazioni più fragili; che ha bloccato sul nascere, con la retorica della costruzione del mercato comune dei consumatori propedeutica alla unione politica, l’opzione di De Gaulle, negli anni ’60, di una concomitante costruzione europea fondata sugli stati nazionali, sulla creazione concordata di grandi aziende, frutto di accordi, compartecipazioni, integrazioni paragonabili a quelle americane, sulla fondazione di una politica estera autonoma. Una retorica che interpreta come contingente ciò che in realtà sarà strutturale e pervicace ancora per lungo tempo.

Se il nazionalismo economico va contenuto e neutralizzato, l’avversario da battere in questo frangente è il populismo o sedicente tale. Anche in questo caso si assiste ad una sorta di dissociazione dell’azione politica strategica dall’attuale contingenza quasi che la lotta al populismo debba comportare una sospensione del programma di integrazione europea.

Il “reddito d’inclusione” come gli altri singoli e parziali provvedimenti redistributivi assumono la caratteristica di un rozzo strattagemma dal sapore assistenziale teso a fronteggiare la deriva politica.

Gli investimenti, per altro radi, sono proposti come semplice volano per rilanciare la domanda. L’aspetto strategico di questi ultimi e la loro possibilità di realizzazione ottimale sono sicuramente inficiati dal tramonto del progetto di riorganizzazione istituzionale ed amministrativo legato all’esito referendario. È la stessa loro natura, però, legata quasi esclusivamente all’ammodernamento delle infrastrutture che potrà certamente migliorare l’efficienza del sistema ma che non determinerà di per sé una direzione di sviluppo che interrompa l’attuale processo di declassamento.

Si arriva quindi al cuore degli argomenti e degli indirizzi posti da Calenda.

Ricostruire una rete” solo per contrastare “distorsioni e manipolazioni del mercato” significa di per sé precludersi una gamma di interventi “assertivi” più volte utilizzati in passato nei momenti di costruzione e di crisi dell’economia del paese.

TRE QUESITI AL NOSTRO MINISTRO

Il proclama, però, glissa clamorosamente su tre importanti questioni alla mancata o erronea risposta delle quali corrisponde esattamente la velleità del progetto.

  1. Quali strumenti si intende utilizzare per trattenere in Italia il risparmio e le riserve che con l’attuale struttura finanziaria continuano a migrare massicciamente all’estero e a rientrare parzialmente, in mano però a gestori estranei al controllo nazionale? Il collocamento azionario di Poste Italiane, la sua sempre più marcata scissione dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), l’ingresso di fondi esteri nella stessa CDP, il fallimento della costituzione di una banca per il Mezzogiorno, il fantasma di una banca di credito alle piccole e medie imprese, l’utilizzo della CDP per indebolire la forza ed il controllo delle grandi aziende strategiche residue piuttosto che il loro rafforzamento, l’attività di raccolta delle banche ormai largamente legata al collocamento di titoli di terzi e al ruolo di collettori sono scelte in netto contrasto con il proclama.
  2. Come si intende esercitare il necessario controllo e condizionamento sulle scelte di quelle aziende strategiche e leader nei vari settori che dovrebbero partecipare alla rete? L’indifferenza se non la compiaciuta e reiterata connivenza che Calenda, così come Renzi, Monti e la quasi totalità della classe dirigente degli ultimi trenta anni hanno ostentato nella inesorabile cessione all’estero della proprietà e controllo non solo delle aziende strategiche del settore finanziario, energetico, delle infrastrutture e dell’alta tecnologia ma ultimamente anche delle aziende leader di numerosi distretti industriali e della rete commerciale e logistica mi sembra faccia a pugni con il sussulto di sovranismo verbale ed estemporaneo del nostro ministro. In alcuni casi queste cessioni hanno determinato uno sviluppo dell’attività produttiva, nella grande maggioranza di casi un rapido ridimensionamento ed impoverimento; comunque un incremento di spese di risorse pregiate, comprese le attività di ricerca, utilizzate come incentivi e destinate ad essere valorizzate altrove e una subordinazione a strategie decise altrove. Le vicende della FIAT, della TELECOM, dell’industria degli elettrodomestici tra le tante parlano da sole.
  3. Come si intende costruire quella necessaria rete di agenzie funzionali ai grandi progetti di intervento infrastrutturale e di investimento diretto un tempo presenti, pur tra innumerevoli carenze, e smantellata sciaguratamente a partire dalla metà degli anni ’80 in concomitanza con il processo di regionalizzazione delle competenze?

Nell’intervista non troviamo né le giuste domande e questo va a scapito dei professionisti dell’informazione, né tantomeno le risposte adeguate e convincenti.

IL CAVALLO DI BATTAGLIA. L’INDUSTRIA 4.0

Il limite dell’orizzonte interpretativo di Calenda si svela proprio nel progetto fondativo della sua azione: il programma di sviluppo dell’industria 4.0.

L’enfasi e le aspettative sono del tutto giustificate.

L’implementazione dell’industria 4.0 è iniziata ormai da parecchi anni prima negli USA poi in alcuni paesi dell’Europa Centrale.

È un processo che si realizzerà ancora attraverso lunghi anni; che segnerà in maniera diversa i vari settori produttivi; che cambierà i modelli di organizzazione aziendale; che porterà ad una maggiore integrazione delle attività sia nella verticale che nell’orizzontale delle relazioni gestionali; che sconvolgerà una delle basi sulle quali si forma la stratificazione sociale, in particolare la formazione degli strati intermedi professionali e di quelli con competenze elementari.

È un modello operativo concepito per le grandi imprese e le grandi unità amministrative e gestionali.

Manca sino ad ora una definizione rigorosa di industria 4.0; riguarda comunque un processo di digitalizzazione ed informatizzazione che preveda la costruzione di reti informatiche e telematiche, l’acquisizione ed elaborazione dati e la conseguente trasmissione digitale di comandi operativi e adattivi nelle varie fasi comprese quelle produttive (internet delle cose) secondo processi modulari predeterminati ed introiettati nei software applicativi.

Il controllo e l’elaborazione nei primi due ambiti sono appannaggio pressoché esclusivo dell’impresa americana e senza una integrazione e concentrazione dell’industria e della ricerca europea, tutt’altro che promossa dalle istituzioni comunitarie e dai suoi governi nazionali costitutivi, difficilmente potrà essere scalfita seriamente. Rimangono gli ultimi due ambiti; in questi il nostro paese soffre di ulteriori handicap legati alla dimensione ridotta delle aziende, alla perdita di controllo dei distretti industriali, alla merceologia dei prodotti legati soprattutto alla componentistica specie meccanica piuttosto che al prodotto finito, a settori tradizionali di produzione piuttosto che innovativi.

Un contesto quindi che rende se non impossibile più problematica e costosa l’implementazione dei processi, che tende a concentrarla nei settori dedicati all’esportazione.

Una condizione che richiederebbe un intervento politico ancora più assertivo (un termine ormai ricorrente nel linguaggio di Calenda) rispetto ad altri paesi nella ricerca, nella creazione di piattaforme industriali adeguate, nel coordinamento del processo di integrazione, nella trasmissione delle competenze informali  nelle piccole aziende, nel sostegno delle necessarie figure professionali che in altri contesti sono le stesse grandi aziende a creare e tutelare.

Su quest’ultimo aspetto, ad esempio, il Governo Renzi pur avendo ancora una volta centrato il problema, lo ha ridotto ad una mera tutela assistenziale e normativa di alcune categorie professionali autonome esterne agli attuali ordini.

Affermare al contrario il carattere indifferenziato del processo di informatizzazione, l’irrilevanza quindi di settori strategici; supportare genericamente l’industria attraverso “sistemi automatici” e neutri di incentivazione nei processi di innovazione ed internazionalizzazione; celare dietro l’importanza dei settori complementari nel garantire la coesione della formazione sociale la necessità dello sviluppo dei settori strategici comporta di conseguenza assecondare la tendenza “spontanea” al declassamento dell’economia italiana, alla concentrazione degli investimenti, nel migliore dei casi, nel mero ammodernamento tecnologico degli impianti produttivi digitalizzati secondo standard stabiliti dalle aziende leader e da quelle in grado di progettare e collocare i prodotti finiti, alla drammatica concentrazione degli investimenti in un numero limitato di aziende. Tale scelta, altrettanto unilaterale di quella delle elargizioni ad personam può contribuire nel migliore dei casi all’ammodernamento dell’apparato produttivo residuo, almeno di quelle aziende che dispongono dei capitali necessari ad anticipare l’investimento. I quattro competence center al contrario sono pressoché irrilevanti nel qualificare almeno alcuni dei settori di punta, come del resto ben evidenziato dall’economista Mariana Mazzucato.

IL RITORNO ALL’OVILE

Il Ministro sembra quindi assecondare la tendenza storica dell’industria italiana a coprire i settori e le tecnologie mature e complementari e a scoraggiare sul nascere quei sussulti di leadership che in alcuni frangenti sono emersi ma che sono stati prontamente soffocati con la complicità dei settori più retrivi dell’imprenditoria. Il declino dell’Olivetti, dell’industria nucleare, della chimica fine sono lì a testimoniare la ricorrenza di questi sussulti ma anche la mancanza di autorità e maturità politica necessarie a stabilizzarli. Calenda sembra voler in realtà stroncare sul nascere la loro possibilità di emersione. La sua ritrosia ad abbandonare gli stereotipi del dogmatismo liberista lo porta ad esaltare le ambizioni di un progetto velleitario che comporterà la dilapidazione e la dispersione delle poche risorse nei vari meandri dei settori economici e nelle mani di centri strategici concorrenti ed avversari; diventa patetica se confrontata con la capacità organizzativa americana, avviata già dagli anni ’90 ad integrare strettamente il ruolo pubblico e privato nel settore dell’innovazione attraverso numerose agenzie, con la guasconeria francese che da oltre sei anni ha creato addirittura il Ministero della Guerra Economica, con il carattere tetragono dell’organizzazione industriale tedesca già in corsa da oltre dieci anni su questi processi.

Ho accennato all’inizio di inadeguatezza di questa classe dirigente, ma il termine è sin troppo giustificativo ed assolutorio. Si tratta, piuttosto, di una incapacità che trova alimento, forza e giustificazione in quei centri e settori che non trovano di meglio che trarre potere e profitto da quei settori ed interstizi sempre più ristretti concessi dai centri e dalle formazioni dominanti. Il predominio americano ed il bipolarismo imperante sino agli anni ’80 ha consentito una certa benevolenza del predominante ed una rarefazione dei competitori. Il multipolarismo incipiente può aprire teoricamente nuove opportunità e nuove libertà; rischia al contrario di attirare un maggior numero di predatori sulle prede magari ancora pasciute ma disarmate rispetto al livello di conflitto raggiunto.

Calenda anche su questo sembra avere le idee chiare. Nell’intervento citato all’inizio prende atto della fine della visione idealistica del processo di globalizzazione. Invita quindi gli imprenditori ad essere selettivi ed oculati nel cogliere le opportunità; suggerisce loro di voltare gli occhi verso gli Stati Uniti, glissa elegantemente sugli ingenti danni subiti per la sciagurata subordinazione nel sostegno alle sanzioni contro la Russia, all’intervento in Libia, alla destabilizzazione della Siria e all’ostracismo all’Iran, tutti principali partner economici del nostro paese ovviamente nel rispetto di quelle regole diplomatiche e di mercato che hanno consentito alla inglese BP di sostituire l’ENI nella partecipazione allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, alle aziende meccaniche tedesche la Breda-Ansaldo italiana nella ristrutturazione delle ferrovie regionali, all’americana FCA la FIAT nella produzione di automobili.

Viva Farinetti, abbasso Mattei. Viva il mercato, abbasso il paese. Tanta nobiltà d’animo comporta sacrifici ma va certamente ricompensata. Ci stanno pensando i nuovi benefattori d’oltre alpe, offrendo presidenze, consulenze e titoli onorifici. Montezemolo, il mentore di Calenda e Tronchetti-Provera ne sono fulgido esempio tra tanti.

Desta meraviglia quindi l’improvvida esaltazione della conversione del Ministro da parte di uno studioso accorto come Giulio Sapelli (  http://www.ilfoglio.it/politica/2017/01/04/news/calenda-economia-premier-subito-113597/ ). Spero che si ravveda prima che Calenda rischi davvero di diventare Premier

 

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