Libia! Sul palcoscenico e dietro le quinte_di Giuseppe Germinario

L’intervento militare in Libia del 2011 è stato un’onta, una macchia tra le più ignobili nella politica estera solitamente non brillante condotta dalla nostra classe dirigente. Un atto paragonabile ad altre rese che hanno caratterizzato la nostra storia del ‘900 ma con una aggravante: l’essere un atto proditorio, di puro servilismo e platealmente contrario agli interessi del paese. Gli artefici di quella scelta cercarono di minimizzare ipocritamente il ruolo svolto nell’intervento bellico di fatto paragonabile a quello di Francia e Gran Bretagna. Il prezzo che l’Italia ha rischiato di pagare avrebbe potuto essere enorme dal punto di vista della compromissione della credibilità acquisita in decenni nel mondo arabo e nell’Africa Mediterranea. L’eventuale successo di quella impresa, coronata con la tragica e infamante uccisione del colonnello Gheddafi, avrebbe dovuto sancire il cambio di consegne dall’Italia alla Francia  della tessitura delle relazioni in quell’area e della gestione degli interessi geoeconomici per conto del dominus atlantista.

Al prezzo tragico di una destabilizzazione e di una frammentazione del paese quel disegno è clamorosamente e fortunatamente in fase di stallo se non fallito. Ha provocato, con la migrazione di truppe una volta fedeli al colonnello, la destabilizzazione di paesi vicini, in particolare il Mali e il Ciad. Nuovi e vecchi attori, una volta attivi dietro le quinte, si sono nel frattempo ostentatamente inseriti nelle rivalità, una volta controllate dal colonnello secondo le modalità di una confederazione tra tribù e clan e diventate poi ingovernabili con la sua morte. Dalla Turchia, inizialmente ostile all’intervento, ai regimi della penisola araba equamente impegnati nelle varie fazioni, all’Egitto dei militari, alla Russia. L’unico risultato politico evidente è stato la formazione di un Governo di transizione a Tripoli, sostenuto dalla coalizione militare occidentale e inizialmente tollerato dalle varie fazioni, impegnate alternativamente ad acquisire il ruolo di garanti e patrocinatori, ma con l’eccezione determinante del colonnello Haftar, in Cirenaica, sostenuto da Egiziani, Emirati Arabi e Russi e avallato dalla Francia degli ultimi tre presidenti. Poco alla volta il colonnello Haftar è riuscito a ripulire quasi completamente la Cirenaica dai movimenti islamisti, ad impadronirsi dei pozzi petroliferi prossimi alla costa ed ora ad acquisire il controllo del Fezzan, nell’area desertica a sud ricca di giacimenti. Il clan di Misurata, sostenuto dalla Turchia, è ormai indebolito e prossimo ad un compromesso con Haftar. Il Governo di Al Serraji ha perso il sostegno delle tribù filo-Gheddafi, le più numerose di quel paese; è ostaggio ormai delle milizie islamiche insediatesi a Tripoli. Ormai praticamente circondato dal colonnello Haftar. Tanto è bastato per far urlare alla fine della influenza italiana in Libia e al trionfo della Francia di Macron. Il sostegno militare del Presidente Francese, grazie all’intervento dell’aviazione, è stato in effetti importante anche per la conquista del Fezzan.

Ma non è la prima volta, però, che ad un intervento militare impegnativo e massiccio della Francia e ad una azione diplomatica ostentata sia seguito un bottino decisamente magro in termini di vantaggi geopolitici ed economici. Lo si è visto in Siria, in Arabia Saudita e nella stessa Libia. Con esso, tra l’altro, la Francia ha compromesso pesantemente la possibilità di un ruolo di mediazione tra le fazioni. I veri artefici del successo di Haftar sono i Russi e gli egiziani con gli Stati Uniti, nella componente trumpiana, i quali vigilano sornioni.

È il contesto che può consentire all’Italia di riassumere un ruolo di mediazione efficace, in buona parte legittimato dalla recente conferenza di Palermo e di salvaguardare sotto mutate spoglie il nocciolo dei propri interessi strategici in quell’area. I detrattori dalla pesante coda di paglia, come sempre interessati a piegare gli interessi strategici a quelli di bottega, come sempre non mancano all’interno del Belpaese. Li si è visti all’opera anche nel pieno della conferenza di Palermo. Non mancano nemmeno i pessimisti a prescindere i quali vedono un destino irrimediabilmente segnato. Le ostentate scenografie e la frenesia interventista transalpine riescono ad ingannare facilmente questi adepti. In realtà i circa quattromila militari francesi presenti in Africa subsahariana riescono a tamponare i sommovimenti, ma non riescono a costruire alternative politiche in quell’area. Logisticamente sono fragili e poco dinamici; risultano sempre più invisi alle popolazioni. Devono confrontarsi con circa diecimila militari statunitensi, con una capacità logistica e strategica incomparabilmente superiore e con una presenza cinese, civilmente ed economicamente, massiccia, tesa a costruire reti infrastrutturali imponenti; un dato ormai riconosciuto. Ma anche ormai con una presenza militare, di base a Dgjbuti, suscettibile di raggiungere rapidamente le diecimila unità. L’erosione definitiva dell’area francofona appare ormai una possibilità sempre meno remota; il recente patto franco-tedesco, impegnativo anche per quell’area, appare tardivo ed inadeguato a sostenere il confronto geopolitico. Tanto più che le recenti sparate dell’enfant Macron in terra d’Africa, indirizzate ai giovani di quell’area, rappresentano la classica destrezza di un elefante in una cristalleria; hanno solo messo in allarme le stesse élites rimaste a lui fedeli. Si tratta di dinamiche che stanno coinvolgendo ormai altri paesi sino ad ora al riparo, come l’Algeria e la Tunisia, scarsamente controllabili da un paese in declino come la Francia. La prosopopea Jupiteriana che accompagna il velleitarismo di quella classe dirigente non farà che esporla al pubblico ludibrio a differenza dei compagni di avventura più discreti e meno rumorosi di Oltremanica. Le congiunzioni astrali favorevoli, legate all’avvento di Trump e all’insorgenza cinese e russa, non saranno certo eterne. Non per questo sarà possibile un mero ritorno allo statu quo ante agognato dall’enfant prodige e dai suoi mentori statunitensi di sponda avversa a Trump. Il nostro presuntuoso ed arrogante, eletto dai progressisti nostrani addirittura a leader europeista nel continente, in realtà sta offrendo più o meno consapevolmente le risorse e i residui punti di forza del proprio paese come merce di scambio utilizzata dai maggiordomi teutonici ben più gretti e astuti. Abbiamo conosciuto il servilismo ossequioso e dimesso delle vecchie classi dirigenti italiche; ci toccherà adesso assaporare il fiele di quello transalpino, ammantato di vanagloria. A meno che, qualcosa di serio stia maturando dietro le quinte dell’esagono. L’ostinazione e la persistenza del movimento dei gilet gialli lascia presagire sommovimenti dietro le quinte più strutturati che in Italia.