Italia e il mondo

LA DECADENZA ITALIANA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA DECADENZA ITALIANA(*)

  1. La decadenza non è tra i temi più frequentati dalle elites politiche e culturali italiane. In un contesto culturale propenso a credere che l’economia sia il destino e che fatti e processi storici siano da valutare preferibilmente sotto l’aspetto numerico-quantitativo, dovrebbe suscitare stupore che il dato della decrescita del PIL italiano (del sette per cento dal 2008 ad oggi) non abbia suscitato quasi nessuna discussione; questo in un paese che ama parlare diffusamente e pubblicamente anche di fatti minimi e irrilevanti.

L’unica spiegazione che si può dare – oltre a quella che parlarne porterebbe alla ricerca dei responsabili (se ve ne sono), prospettiva pericolosa per chi esercita il potere – è che la decadenza è, per sua natura, opposta all’idea di progresso, e in particolare a quell’idea di progresso nota e assai coltivata negli ultimi due secoli (anche se in modi diversi), per cui il progresso è “legge” della storia, (e ancor più una forma di legittimazione per chi se ne proclama fautore); e l’umanità in ogni epoca si trova progredita rispetto all’epoca antecedente, e questo processo non avrà mai termine. Solo che i fatti cui far riferimento sono diversi e decisivo, per capire l’andamento, è la collocazione temporale di riferimento. Se si paragona la situazione dell’uomo moderno con quella dell’uomo del neolitico, il progresso è chiaro: in 8-10 millenni è enormemente aumentato il benessere, la durata della vita, le chances di vita. Ma se il periodo di riferimento è diverso, ad esempio tra gli ultimi secoli dell’Impero romano  d’occidente e l’epoca carolingia(circa cinque o sei secoli) parlare di progresso tra l’una e l’altra epoca appare bizzarro. Un servo della gleba carolingio avrebbe considerato con invidia l’antenato, colono di un latifondista: malgrado le vessazioni e le fiscalità della burocrazia del dominato, godeva di edifici pubblici e privati meglio costruiti; di ponti e strade mantenuti, poteva viaggiare anche per mare senza temere pirati e saraceni, e aveva una durata della vita di circa quindici anni più lunga (che è l’indice principale di benessere). Parlargli quindi di progresso – nel senso suddetto – sarebbe sembrata una boutade di cattivo gusto.

La diversità tra il punto d’osservazione e l’osservato ha prodotto pertanto una serie di concezioni dell’ “andamento” della storia, che possono così sintetizzarsi.

L’umanità è in progresso: è quella prima sintetizzata. Nello spazio cartesiano se l’ascissa indica il tempo e l’ordinata la “felicità”, è rappresentata da una retta che cresce verso l’alto.

L’umanità regredisce: è la tesi del pensiero più antico per cui l’umanità ha conosciuto all’inizio della storia l’era più felice (l’età dell’oro, il paradiso terrestre, e così via) ed è andata peggiorando: è, una retta che procede verso il basso.

La storia (le vicende umane) si ripete, in cicli più o meno uguali: concezione cara a gran parte del pensiero antico, meno del moderno: nello spazio cartesiano è una sinusoide con andamento medio  – grossolanamente – parallelo all’asse delle ordinate.

  1. Tale ultima ipotesi (in varie versioni) è stata la più frequentata e condivisa: dagli stoici a Nietzsche passando per Vico. Ha dalla sua un argomento forte: quello della costanza (la regolarità) della natura umana, al di là delle varie vicende storiche. Nella sua applicazione “politica”, cioè prendendo in esame le vicende politico-istituzionali, inizia con Polibio di Megalopoli, il quale tuttavia ricorda di non essere il primo: “Forse con maggiore diligenza da Platone e da alcuni altri filosofi fu trattata la teoria della naturale trasformazione delle varie forme di governo”[1]. Secondo lo storico greco ogni forma politica conosce fasi di progresso e di decadenza, al termine della quale si trasforma in altra. E passando all’esposizione della successione delle forme di governo scrive che prima è la monarchia; ma quando al primo re (“intronizzato” da una crisi – à la Girard) succedono altri, con i privilegi dei re, ma senza le sue qualità e la necessità che lo aveva favorito, “a causa dei soprusi si accesero odio ed ostilità: il regno si mutò in tirannide. Cominciò la rovina di quella forma di governo, si tramarono insidie contro i re”. Coloro che guidano la rivolta costituiscono l’elite del nuovo regime; ovvero l’aristocrazia[2]; ma succedendo loro i figli “ fanno sorgere di nuovo nel popolo uno stato d’animo simile a quello di cui abbiamo prima parlato, e perciò tocca anche a loro una caduta finale simile a quella toccata ai tiranni”. Quindi, altro rivolgimento e istituzione di un regime democratico; al quale, una volta degenerato, succede un nuovo regime monarchico. E il cerchio si chiude.

Machiavelli, nei Discorsi (Lib. I, cap. 2) riprende la concezione di Polibio delle tre forme di governo che degenerano e succedono l’una all’altra “Alcuni altri e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delle quali tre ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi che vengono ancora essi a essere perniciosi” e data la facilità delle forme “buone” a convertirsi nelle “perniziose” “se uno ordinatore di republica  ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. E succedendo le forme di governo l’una all’altra Machiavelli conferma che “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano né governi medesimi, perché quasi nessuna republica  può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede[3]”.

Tale concezione dell’avvicendamento ciclico delle forme di governo, e della loro decadenza, ritorna, tra gli altri, in Mosca e Pareto. Il primo scrive che questa s’accompagna alla “mancanza di energia nelle classi superiori, che divengono deficienti di caratteri arditi e pugnaci e ricche di individui molli e passivi… quando la classe dirigente è degenerata nel modo che abbiamo accennato, perde l’attitudine a provvedere ai casi suoi ed a quelli della società, che ha la disgrazia di essere da essa guidata”[4].

Il secondo vi ritorna più volte, enumerando (come fa anche Mosca) i sintomi della decadenza: attenuazione della mobilità sociale (“cristallizzazione”) soprattutto chiusura della classe dirigente; uso da parte di questa dell’astuzia più che della forza; la classe governante tende a diventare “un ceto d’impiegati, colla ristrettezza di mente che è propria di tal gente”[5], aumentano, nella classe dirigente, i residui della classe II e scemano quelli della classe I. Quando, nell’impero romano d’Occidente, i barbari lo fanno cadere, invertono le tendenze ricordate[6]. E comincia un nuovo ciclo (o nuova era).

Per Pareto, com’è noto, la regola dei fenomeni sociali è l’andamento ritmico-ondulatorio, per cui ad un periodo ascendente  segue immancabilmente uno discendente, e inversamente[7]. Le “onde” cambiano secondo la durata del fenomeno, e vi sono “vari generi di queste oscillazioni, secondo il tempo in cui si compiono. Questo tempo può essere brevissimo, breve, lungo, lunghissimo”[8]. Scrive Pareto: “Si può dire che in ogni tempo gli uomini hanno avuto qualche idea della forma ritmica, periodica, oscillatoria, ondulata, dei fenomeni  naturali compresi i fenomeni sociali”[9]; nota peraltro che mentre nel passato  prevaleva la convinzione del carattere ciclico, ora prevale quella favorevole all’idea di progresso della società, di un benessere crescente[10].

Tuttavia, rispetto al pensiero classico, in quello degli “elitisti” italiani a decadere non sono (tanto) le forme politiche, quanto le classi dirigenti. Ad essere più precisi è la decadenza di queste a determinare – per lo più – la sorte delle prime: l’insistenza con cui Mosca e Pareto sottolineano l’importanza delle qualità intellettuali e di carattere (in specie il coraggio) delle elite  sia nella fase ascendente che nella discendente, lo dimostra.

Il che non comporta – anche se spesso accade – che una classe dirigente coincida con una determinata organizzazione del potere, né che le due vicende siano sempre sovrapponibili[11].

Peraltro a decadere può essere anche la società civile, e a determinare così quella dell’istituzione politica, almeno a co-determinarla. Tra le cause della decadenza (e poi del crollo) dell’Impero romano d’occidente gli storici hanno indicato più fattori che con le degenerazioni istituzionali e con quelli “politici” avevano poco a che fare: a partire da mutamenti del sentire religioso-spirituale, ovvero il trionfo del cristianesimo sul paganesimo, la caduta del “senso civico” e dei valori tradizionali;  per arrivare a fattori di carattere “materiale” come il calo demografico e la decadenza economica.

  1. Il carattere ciclico non è limitato, ovviamente, ai regimi o alle “forme” politiche. Accanto a questo c’è altro. Quello del chi decade è un altro problema. Essendo ogni comunità umana un aggregato di esseri viventi, e quindi mortali, le sintesi sociali da questi costruite sono soggette allo stesso ciclo: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.

Spengler e Toynbec considerano specificamente  l’aspetto della decadenza delle civiltà anche in funzione (di filosofia della storia) anti-eurocentrica. Per cui è la civiltà occidentale (o faustiana o anche del cristianesimo occidentale) oggi a decadere. Della quale è parte, e non poca, l’Italia.

Altri, tra cui occorre ricordare Ernst Nolte, (ma l’elenco di quanti sostengono tale constatazione è assai esteso), ritengono che ad essere nella fase discendente  è l’Europa, detronizzata dalle due guerre mondiali – e successive guerre coloniali – dalla funzione di “guida” del mondo[12].

Anche al processo di decadenza europeo non è estranea – per motivi sia storici che geografici – l’Italia.

Però a decadere può essere anche – e principalmente –  a seguire i pensatori sopra citati – tra i tanti – anche una comunità e, più precisamente, la sua forma politica e classe dirigente.

E qua, di converso, l’Italia si trova da sola – almeno nel contesto sia geografico che di civiltà. É a tale specifica “classe” di decadenza che occorre dedicarsi.

  1. In Italia non piace parlare di decadenza sia perché falsifica – o almeno relativizza – l’idea di progresso, sia perché sminuisce il consenso alle elites al governo.

Queste, come tutte le classi dirigenti, necessitano di “miti” (derivazioni, idee – forza, tavole di valori e così via), atte a legittimarle. Le quali come tutte le cose ed opere umane (comprese le istituzioni) hanno una nascita ed una morte. Al contrario ciò che si vuole di durata eterna – o almeno lunghissima, con termine in saecula saeculorum, – non ha nascita né morte (o, quanto meno, sono ignote ambedue o una delle due)[13].

Parlare di decadenza, di idee e realizzazioni obsolete o anche solo rapportate ad una determinata situazione storica e non aventi validità al di fuori di quella, ormai esaurita – e ancor più se la si pretende eterne ed universali – ha lo stesso senso (e gradimento) di un coro che faccia le prove del requiem per il proprio direttore.

Ciò non toglie che la decadenza vi sia; ed alcuni dati ce la confermano, e servono a chiarirne – per somme linee – la natura. Occorre ricordare che nel 1945 si apriva un nuovo ciclo, dopo una guerra persa e l’occupazione militare, con l’intronizzazione, da parte dei vincitori, di una nuova classe politica, che provvedeva, come da dichiarazione di Yalta, a dare all’Italia una nuova costituzione (peraltro la volontà costituente era anche nella volontà del popolo italiano – v. nota 15, a1); per circa trent’anni durava la fase ascendente; seguita – dopo qualche anno – da quella discendente.

Questa – anche se non esclusivamente – è prevalentemente  decadimento di istituzioni e attività pubbliche (e del relativo personale dirigente). Un dato tra i tanti disponibili, lo sintetizza il PIL italiano è, secondo i dati – il 6° nel mondo – il reddito pro-capite il 14°; mentre il Primo presidente della Corte di Cassazione (quindi non Berlusconi o Dell’Utri) anni fa disse che il funzionamento della giustizia civile italiana la collocava al 156° posto tra gli Stati (che sono, sul pianeta, 181)[14].

Ciò stante è evidente che la decadenza – o meglio questo fattore principale della decadenza italiana ossia del “pubblico” – s’iscrive precisamente nel modello “classico” del ciclo delle istituzioni e dei regimi politici pensato più in relazione a questo che alla comunità cui davano forma. Comunità che continuavano ad esistere (in suo esse perseverare), anche cambiando regime, istituzioni ed elites dirigente, il ciclo delle quali non coincide con quello dell’esistenza comunitaria.

La decadenza delle istituzioni è quindi il fattore principale – anche se non esclusivo – della decadenza italiana, che appare chiaro dal precedente peggioramento delle attività e funzioni pubbliche rispetto a quello delle private (in primis i sette punti di PIL persi negli ultimi cinque anni): gli indici di decadenza pubblica erano già preoccupanti quando quelli non pubblici andavano discretamente: la fase discendente degli apparati istituzionali ha preceduto – di almeno vent’anni – quella delle attività private. Il che non vuol dire che quella è necessariamente ed esclusivamente causa di questa; ma che lo è  in misura rilevante.

E che da almeno trent’anni s’intravedessero dei robusti indici “politologici” di decadenza, a partire da quello della divaricazione tra governati e governanti e di calo del consenso di questi è un dato evidente[15]. Dall’inizio poi degli anni ’90 ancora di più, perché il crollo del comunismo e la “fine” dell’ordine di Yalta hanno concluso il periodo storico in cui le élites attualmente dirigenti hanno conseguito e mantenuto il potere.

Il tutto con evidenti e vistosi effetti sulla legittimazione e sulla reale capacità d’integrazione dell’ordinamento (v. nota precedente). Nella dottrina politica più antica la crisi (cioè il passaggio da un regime ad un altro e da una fase discendente  ad una ascendente)[16], era denotata dalla circostanza eccezionale (nel senso schmittiano o anche à la Girard) e dalla consunzione della vecchia classe dirigente (v. per tutti Polibio e Machiavelli). A partire dalla rivoluzione francese l’accento è stato posto sulla legittimità (e sul venir meno di questa). In realtà i due criteri non si elidono, né sono in opposizione; anzi la categoria (moderna) della legittimità può includere la consunzione, attribuita prevalentemente dai più antichi all’aumento del “divario” tra merito e consenso (ambedue decrescenti) della classe dirigente, col conseguente venir meno della “riverenzia” (scrive Machiavelli) dei governati.

D’ altra parte anche il diritto mostra i segni di decadenza. L’applicazione del quale è lenta, spesso occasionale e ormai assoggettata a crescenti difficoltà ed impedimenti  dissuasivi. A leggere le pagine di Jhering nel  “Kampf’ un’s recht” su come fosse frustrata l’attuazione del diritto sia nel tardo diritto romano e in quello – a lui contemporaneo – dell’età bismarckiana, si ricava l’impressione di quanto la situazione odierna sia ulteriormente peggiorata (e per scopi ancor meno encomiabili)[17] .

Non risulta esservi una trattazione esauriente su come si manifesti la decadenza di un ordinamento giuridico. La difficoltà principale è nel delimitarla da quella politica, da cui manifesta una larga dipendenza. Tuttavia presupposto fondamentale del “giuridico” è la distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato (diritto-torto)[18]; distinzione che, per essere tale, dev’essere, almeno in (larga) misura, osservata. Ma se, di converso, sviluppando quanto scriveva Tocqueville sulla legislazione dell’ancien régime (decadente, proprio perché pre-rivoluzionaria) la distinzione è tale in astratto e nei testi giuridici, ma non è osservata concretamente (e cioè come scriveva il pensatore normanno, connotata da norme rigide e da pratiche fiacche) o lo è poco, quel sistema giuridico appare decadente, (come, appunto, l’ancien régime). Che questo sia il caso dell’Italia lo dimostrano tanti indici[19]. Non è il numero delle regole o l’asprezza delle sanzioni a connotare un diritto concretamente vigente, ma che il comando del legislatore (la legge) sia tendenzialmente confortato dall’obbedienza dei cittadini (e dei collaboratori del potere) e quindi applicato realmente. Ove ciò non avvenga – o capiti poco –  significa che si è aperto uno iato tra chi ha il diritto di comandare e chi ha il dovere di obbedire. Fatto essenzialmente politico, ma che si riflette sull’ordinamento giuridico, caratterizzandone la decadenza. Come scriveva Max Weber la potenza è la possibilità di far valere con successo i comandi; il calare – o il venir meno – di questa è il (principale) sintomo della decadenza (e poi del crollo) di un regime e del suo sistema giuridico.

5.Una particolare – anche se succinta- attenzione è da dedicare a quelle teorie italiane apparentemente vicine all’idea di progresso, specificamente rivolte a considerare l’assetto costituzionale del 1948 come il migliore possibile.

Scriviamo apparentemente vicine perché, intrinseca alle varie concezioni del progresso umano è che la società è sempre perfettibile e migliorabile, e non c’è quindi un compimento, un punto finale dello stesso (progresso). In altre parole è loro connaturale l’idea del cambiamento; e in questo, nella concezione dinamica dell’ordine sociale, non si differenziano da altre, anche opposte, teorie.. Mentre a quelle italiane è connaturale una staticità socio-politica per cui l’ordine è quello e non dev’essere cambiato (il che presuppone che sia possibile non cambiarlo). Più che a teorie del progresso somigliano a quelle sulla “fine della storia”, connotate da un evidente utopismo (più manifesto lì, meno in queste).

Ma chi sostiene ciò non si accorge che c’è altrettanta possibilità di  fermare il cambiamento (talvolta lo si può rallentare) che di violare qualsiasi altra legge o  “regolarità” (anche solo) dell’agire sociale (v. su questo ciò che ne pensava Pareto, in nota 10). A proposito di Pareto, probabilmente avrebbe ricondotto tali concezioni a derivazioni (prevalentemente) della classe III, in particolare a quelle argomentate su entità giuridiche o metafisiche.

Altra cosa che lascia stupiti è come manchi a queste teorie alcun confronto con i dati storici e con le concezioni contrarie, condivise dalla melior pars del pensiero occidentale.

Non è dato che si ricordi una società in ordine statico, cioè rimasta, almeno per qualche secolo sostanzialmente immutata: e in effetti lo stesso Impero romano d’occidente, che ebbe la (ragguardevole) durata di circa cinque secoli, passò attraverso tanti cambiamenti politici; in particolare è distinzione universale quella (considerata principale) tra “principato” e “dominato”[20].

Del pari non è affatto considerato che una simile concezione è in contrasto con quelle di pensatori citati (da Platone a Pareto) e sarebbe il caso di confrontarvisi e di capire perché quanto ritenuto da quelli irreale, diventa possibile, oltre che preferibile. E se non vi siano, nell’ordine comunitario, parti tendenzialmente più stabili ed altre più soggette alle inondazioni, scriverebbe Machiavelli, della fortuna[21].  Le quali fanno in genere parte dell’ordinamento  del potere ossia della forma di governo.

 

  1. Diversamente dalle crisi di civiltà descritte da Spengler e Toynbee, l’alternarsi di fasi ascendenti e discendenti dei cicli politici non comporta distruzioni (o rinnovamenti) epocali: non è la caduta dell’impero romano d’occidente o delle civiltà precolombiane, ma solo il rinnovarsi dell’ordine politico. Indubbiamente una crisi, ma in un certo senso “normale” (perché rientrante nell’ordine naturale delle opere e vicende umane). Il pensiero “orientato all’eccezione” moderno, quello giuridico in particolare (da Schmitt ad Hauriou, da Jhering a Santi Romano)[22] non vi vede alcuna “novità”: è la normalità del movimento della storia che comporta il cambiamento (anche) delle istituzioni. Nel pensiero politico realista, soprattutto in Mosca e Pareto, la sostituzione di èlite e regimi consunti, fiacchi e decadenti con elite nuove e vigorose, per lo più produce benefici, anche sociali, rilevanti.

Il cambiamento quindi non è demonizzato; da un canto è considerato come un dato, dall’altro per lo più positivo, almeno nel lungo periodo. E sicuramente appare frutto di visione miope pensare che una situazione, un equilibrio o un regime politico possa essere “cristallizzato” non solo in eterno, ma anche nel breve-medio periodo. Le istituzioni (e le comunità) umane, scriveva Hauriou, sono sempre in movimento e l’ordine che presentano è quello di “un esercito che marcia”; e non, si può aggiungere, quello di un organigramma o di un trattato di geometria. Dietro e dopo la decadenza di un’istituzione si vede un nuovo ordine che è generato; e siccome l’accadere dell’una e dell’altro è regolarità storica, occorre tenerne debito conto.

E per farlo e per non sprecare le occasioni che un rinnovamento dell’ordine politico – in primis quale nuova fase ascendente – offre, vi sono cose da  evitare.

In primo luogo negare che esista la decadenza o sottovalutarla o anche – come capita – attivare la disinformazione nella forma preferita di non discuterne. È proprio quello che si pratica oggi in Italia dove si tenta di esorcizzare la decadenza con formule magiche tratte dall’armamentario verbale del progresso “senza se e senza ma”. Delle quali la storia non si preoccupa, come i terremoti degli autodafè.

La seconda cosa da non praticare è tentare di tirare la storia – sempre lei – per la giacchetta. Come? Paretianamente facendo leva sulle derivazioni e sul  tentativo di ri-legittimazione di classi dirigenti e di regimi esausti.

L’argomento all’uopo più impiegato è esaltare la bontà/bellezza/santità delle (asserite) idee delle elite discendenti. Occorrendo contrapponendole alla cattiveria/bruttezza/peccaminosità di quelle dei loro avversari. Ma il limite dell’ (adusata) operazione è che, specie in tempi di crisi e ancor più se le fasi discendenti si prolungano, i governati sono più attenti ai risultati che alle intenzioni dei governanti, alle (di essi) opere più che alle idee. Per cui, certi discorsi si svelano in breve per quel che sono: espedienti per occultare pratiche (e risultati) di segno contrario. Qualche volta (ma è cosa assai rara) prediche di profeti disarmati[23].

Il presupposto su cui si basa quest’armamentario di giustificazioni è che sia possibile cristallizzare una comunità umana, fermare o anche rallentare per lungo tempo il movimento della storia e delle istituzioni. Come prima cennato, all’inverso, Hauriou vede l’ordine sociale come movimento lento e uniforme, che richiede necessariamente adattamenti e innovazioni[24].

E questa consapevolezza appartiene al giurista francese come a tanti altri, tra cui quelli sopra citati, ai quali c’è da aggiungere (tra i molti) Smend e la sua teoria dell’integrazione che Schmitt riteneva uno dei significati del concetto (assoluto) di costituzione e cioè “il principio del divenire dinamico dell’unità politica”.

Che un ordine sociale possa “cristallizzarsi” è contrario non solo a quella dottrina del diritto ma a gran parte del pensiero filosofico, a cominciare dal panta rei di Eraclito.[25] Oltre che, ciò che più conta, ad un’osservazione, anche non particolarmente profonda, dei mutamenti storici.

In definitiva la concezione criticata trascura che nei fatti sociali vi sono – come in tutti i fatti – sia regolarità (che non si possono cambiare) che variabili (che è nella possibilità della comunità umana innovare): cosa ben nota anche nel pensiero teologico-politico[26]; e ancor più in quello filosofico, politico e giuridico.

  1. Prima di concludere occorre fare due postille. La prima: è da rifiutare la concezione economicista – e quindi, anche marxiana – che le “cause” delle decadenze (e anche delle ascendenze) siano economiche. Indubbiamente l’economia ha la sua parte, ma concorrente, non determinante o almeno (quasi mai) determinante.

Piuttosto è preferibile la tesi weberiana (e non solo) che sia la cultura e in particolare la religione a muovere le file: sia delle fasi di decadenza che di ascendenza.

In tal senso, ancora una volta in questa giornata, è il caso di ricordare cosa ne pensava Hauriou.

Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e dell’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”. Alcune di tali spiegazioni sono note: è almeno dal pensiero antico che è stata rilevata (e da sempre ripetuta) la capacità del denaro e dello spirito economicista di corrodere le istituzioni. Ma è meno ripetuto quanto avverti il giurista francese: che alla fine lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale – è cronaca di questi anni).

Lo spirito critico (oggi si direbbe relativismo): anche qui, come nelle notazioni sul carattere fondante (le istituzioni) tipico della religione, Hauriou anticipa considerazioni  che avrebbe fatto (anche) Arnold Gehlen. Ma soprattutto demistifica  anticipatamente, e a ben vedere, in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che lo spirito critico possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, come scriveva Vico, queste esistono per dare certezze e non verità.

Come fattori di rigenerazione indicava la migrazione dei popoli e il rinnovamento dello spirito religioso.

Argomento su cui ritornò più volte[27]: considerava la teologia il fond di ogni assetto politico che nei governements de fait (quelli generati dalle crisi) tiene unita le comunità anche nel dissolversi delle istituzioni e da modo di ricostruirne delle nuove.

La crisi attuale è connotata proprio dal “disordine” economico-finanziario, che ha, come scriveva il giurista francese un secolo fa, inceppato la stessa macchina capitalista (cioè, in un certo senso, se stesso)[28]; e dallo spirito critico (prevalentemente chiamato “relativismo”)[29], che corrode i “fattori di coesione”, cioè quelli – principale quello religioso – unificanti. Anche in questo non è difficile notare la stretta affinità tra il giudizio del giurista francese e la situazione concreta, anche se spesso – incoerentemente – contorta nelle contraddizioni del di chi vorrebbe giustificarla. Basti ricordare la bizzarria di una “Costituzione” europea (che non è costituzione), ma era spacciata come tale, che è stata privata del riferimento alle “radici giudaico-cristiane” rifiutandone così esplicitamente i caratteri unificanti (oltre che dimenticando più di un millennio di storia): in vista di un qualcosa (un “melting pot” tra culture) e che non si sa come e se avverrà e soprattutto se potrà unificare veramente popoli diversi.

Teodoro Klitsche de la Grange

(relazione tenuta il 21/02/2014 al convegno del Movimento “Per una Nuova

oggettività” su la “Decadenza”, all’ “Universale” in Roma)

(*) Questo lavoro è la rielaborazione di una relazione ad un Convegno già pubblicata su “Politicamente”, “Civium Libertas” e, in forma ridotta, sul “Borghese”.

[1] E, in effetti, Platone scrive “E’ difficile scuotere uno stato così conformato; ma poiché ogni cosa che nasce è soggetta  a corruzione, nemmeno una simile conformazione resisterà per sempre e finirà col dissolversi. E la dissoluzione consiste in questo: non solamente per le piante radicate al terreno, ma anche negli animali che vivono sulla terra si producono fertilità e sterilità, d’anima e di corpi, quando per i singoli esseri periodiche rivoluzioni congiungono e concludono i rispettivi moti ciclici” La Repubblica, lib. VIII 545.

[2] “A quelli che lo hanno liberato dai monarchi, infatti, quasi a dimostrare la sua gratitudine, esso concede il potere e affida se stesso. Costoro da principio, soddisfatti dell’incarico avuto, nulla stimano più importante dell’utilità pubblica e curano con grande zelo e attenzione gli interessi privati e quelli dello Stato” v. Polibio Le storie, libro VI, cap. VIII.

[3] E di seguito scrive “Ma bene interviene che per travagliare una  republica, mancandole sempre consiglio e forze diventa suddita d’uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei; ma posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per malignità che è ne’ tre rei” (i corsivi sono nostri) op. loc. cit.

[4] v. La classe politica, Bari 1965, p.  120. V. anche Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 68 ss., 86 ss.

[5] v. Pareto, Trattato di sociologia generale, § 2549, Milano1981, vol. V.

[6] “Allora i Barbari rompono la cristallizzazione della società, ed è questo il principale beneficio che ad essa fanno… in grazia della loro ignoranza, spezzano la macchina dell’ordinamento dell’Impero, che pure avrebbero voluto conservare, ma che sono incapaci di maneggiare. Così depongono il seme che fruttificherà una nuova civiltà”. Col tempo “appaiono qua e là dei punti, ove, in stato di interdipendenza, crescono i residui della classe I e l’attività commerciale” op. cit., § 2551.

[7] Op. cit., § 2330.

[8] Op. cit., § 2338.

[9] E prosegue “Negli individui si nota una successione ininterrotta, col subentrare di nuove persone al posto di quelle fatte sparire dalla morte, col succedersi indefinito dell’età, infanzia, virilità, vecchiaia. Il concetto di una successione simile per le famiglie, le città, i popoli, le nazioni, l’umanità intera, nasce spontaneo” anche se rifiuta considerazioni metafisiche e pseudo-sperimentali cui ritiene preferibile “Uno studio un po’ diffuso di queste teorie non sarebbe di alcuna utilità pratica per la conoscenza dei fenomeni che dovrebbero essere rappresentati dalle teorie. Il tempo necessario per questo lavoro può essere più utilmente consacrato allo studio obiettivo dei fenomeni o, se si ama meglio, delle testimonianze dirette che vi si riferiscono, come pure alla ricerca degli indici misurabili dei fenomeni e alla classificazione delle oscillazioni per ordine d’intensità”  op. cit., § 2330.

[10] “Le oscillazioni che non si possono negare, sono supposte anormali, accessorie, accidentali; ciascuna ha una causa che si potrebbe e si dovrebbe togliere, col che sparirebbe anche l’oscillazione” e la qualifica come “derivazioni” (§2334); nel successivo nota che “Si possono disgiungere le oscillazioni, mantenere le favorevoli, levar via le sfavorevoli, rimuovendone la causa. Quasi tutti gli storici ammettono, almeno implicitamente, questo teorema, e si danno un gran da fare per insegnarci come avrebbero dovuto operare i popoli per rimanere sempre nei periodi favorevoli e non trapassar mai negli sfavorevoli. Anche non pochi economisti sanno e benignamente  insegnano come si potrebbero scansare le crisi; col qual nome indicano esclusivamente il periodo discendente delle oscillazioni”; ma sono considerazioni a fondamento non scientifico; “I profeti israeliti trovavano la causa dei periodi discendenti della prosperità di Israele nell’ira di Dio; i Romani erano persuasi che ogni male sofferto dalla città loro aveva per causa una qualche trasgressione al culto degli dei” (§2337) ma “se si vuole proprio fare uso del termine ingannevole di causa, si può dire che il periodo discendente è causa del periodo ascendente che ad esso fa seguito, e viceversa; ma ciò deve intendersi solo nel senso che il periodo ascendente è indissolubilmente congiunto al periodo  discendente che lo precede, e viceversa; dunque in generale: che i diversi periodi sono solo manifestazioni di un unico stato di cose e che l’osservazione ce li mostra succedentisi l’uno all’altro, per modo che il seguire tale successione è un’uniformità sperimentale” (§ 2338).

[11] Anche guerre civili – come quelle che tormentarono in varie epoche l’Impero romano e le monarchie feudali europee – e che, servendosi dei concetti e del lessico degli elitisti, sono per lo più, riconducibile a lotte tra fazioni della stessa “classe politica” –  non vertevano su come si dovesse organizzare il potere ma su chi doveva esercitarlo. Onde la vittoria di una frazione significava solo una radicale modificazione dell’organigramma e non dell’organizzazione (né della “formula politica”). Viceversa a Filippi si posero le basi di una durevole “trasformazione costituzionale”: quella di Roma da repubblica ad Impero, nell’aria già da decenni.

Anche se più raramente, capita che una classe dirigente abbia la capacità di cambiare l’ordinamento, pur senza mutare – o senza cambiare in toto – il personale politico. Il caso recente del crollo del comunismo lo conferma: gran parte delle classi dirigenti post-comuniste sono formate da personale – di primo e più spesso di secondo piano – delle vecchie. La dissoluzione in circa venti nuovi Stati dell’URSS e della Iugoslavia  – cioè il cambiamento costituzionale più radicale,  la nascita di nuovi Stati dai due dissolti  – è stato voluto, e gestito, prevalentemente da componenti della rispettiva “nomenklatura”.

 

[12] Una sintesi breve ma intensa di tale tesi può leggersi in Ernst Nolte I diversi volti dell’Europa, conferenza tenuta in Salerno il 17 ottobre 2005.

[13] In fondo vale per il “tipo ideale” del mito quanto sosteneva Antigone nel famoso dialogo con Creonte, per la legge voluta dagli Dei “Non ho pensato che i tuoi decreti avessero il potere di far sì che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte dagli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre, e nessuno sa da quando”.

[14] Ancor peggiore la situazione è a leggere i dati diffusi dalla stampa (un po’ meno dalla televisione) sui records negativi di quasi tutte le amministrazioni italiane, dal livello di corruzione (anche se è dubbio come lo si possa quantificare) ai ritardi dei pagamenti delle PP.AA. – sui quali è in corso una pluriennale polemica.

 

[15] Qualcuno – tra cui chi scrive – ne ha indicati alcuni che ricordiamo:

  1. a) in primo luogo quelli “quantitativi”;

a1) Il 18/04/1948 il complesso dei partiti che aveva votato la costituzione conseguì oltre l’80% dei suffragi del corpo elettorale italiano; alle ultime elezioni – dopo che gran parte di quei partiti erano scomparsi e spezzoni delle vecchie classi dirigenti di quelli sopravvivono in altre formazioni – i partiti che si dichiarano favorevoli al mantenimento della costituzione rappresentano poco più del 20% del corpo elettorale;

a2) i votanti alle elezioni politiche, che fino agli anni ’80 erano circa il 90% del corpo elettorale, sono poco più del 70%; ancor più significativo è il calo dei votanti alle elezioni amministrative;

a3) mentre fino a metà degli anni ’80 nei referendum abrogativi il “SI” vinceva (cioè vinceva l’assenso popolare al Parlamento che aveva elaborato o mantenuto le leggi sottoposte alla consultazione), dopo ha vinto quasi sempre il “NO” (il cui senso politico è l’inverso). In alcuni referendum (quelli sul finanziamento pubblico ai partiti) nei due periodi considerati il risultato si è invertito.

  1. b) Quelli “qualitativi”:

b1) L’ordine di Yalta è venuto meno col crollo del comunismo;

b2) una campagna giudiziario-mediatica (“mani pulite”) è riuscita a demolire gran parte del sistema partitico della Repubblica “nata dalla Resistenza”. Questo dopo il decisivo evento sub b1);

b3) lo spazio politico dei partiti variamente “antagonisti” è cresciuto dal 10/15% fino agli anni ’80 al 35% delle ultime elezioni;

b4) altra circostanza significativa: è cresciuto il ruolo pubblico del personale non-politico (burocratico e tecnocratico). Nel 2000 il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei Ministtri (cioè i vertici dell’ordinamento costituzionale) avevano fatto “carriera” prevalentemente od esclusivamente fuori dalle assemblee elettive. Nel 2011 era varato un governo composto tutto da personale non politico. Ciò ha portato a parlare diffusamente di “antipolitica”, ma dato che alla politica non c’è alternativa (e si sa da quando Aristotele definì l’uomo zoon politikon), meglio sarebbe inquadrare il fenomeno quale segno, profondo anche se confuso, della transizione tra diverse elites e regimi, nel solco della tradizione “ciclica” e “ritmica”.

[16] Crisi è sempre il cambio di regime: le fasi ascendente e discendente non caratterizzano tutti i cambiamenti di regime.

[17] Scrive Jhering distinguendo tra il diritto romano e quello a lui contemporaneo che questo non teneva conto della riparazione del torto, quanto dell’interesse materiale da tutelare Non rimane che il puro e nudo interesse materiale, come oggetto unico del processo. Che la bilancia di Temi nel diritto privato stesso come nel  punitivo debba pesare non il solo interesse pecuniario, ma anche il torto, è pensiero così lontano dalle nostre odierne rappresentazioni giuristiche, che, mentre oso esprimerlo, devo aspettare a sentirmi opporre che in ciò appunto consiste la differenza tra il diritto punitivo ed il privato…..Bisognerebbe prima potermi dimostrare che v’è una sfera del Diritto, nella quale l’idea della giustizia  non debba attuarsi in tutta la pienezza e realtà sua. Il fatto è invece che l’idea di giustizia  è inseparabile dalla esplicazione del concetto della colpabilità  “Kampf un’s recht, trad. it. 1935 Bari,  pp. 115-116. La conclusione che se ne trae è che i sudditi del Reich godevano di una tutela giuridica comunque attenta all’interesse materiale; mentre i cittadini della Repubblica italiana trovano crescenti (e volute) difficoltà a far tutelare anche questo.

[18] Ed è un presupposto indefettibile: una società dove tutto fosse permesso, non vi sarebbe perciò un diritto; e dove tutto fosse vietato, s’estinguerebbe la vita sociale.

[19] A cominciare dal fatto che quasi il 90% delle notitiae criminis sono archiviate su richiesta dei P.M..

[20] Ovviamente i cambiamenti costituzionali non sono limitati a quello, ma riguardarono tanti  altri elementi importanti della forma di governo, dalla regola di successione (adozione? proclamazione da parte delle Legioni? elezione del Senato?) e dell’unità del potere supremo (tetrarchia, associazione di parenti al potere imperiale), fino alla “reggenza” e al governo “occulto”, ma tollerato.

[21] Principe XXV.

[22] Spesso la crisi non comporta (neanche) il cambiamento di regime, come nella dittatura commissaria di Schmitt.

[23] Cosa non frequente, perché non appare in generale che le classi dirigenti decadenti esprimano dei Savonarola o dei S. Giovanni (Battista); tanto meno le elites italiane con le loro carriere, pensioni d’oro, e così via. Acutamente Pareto notava che, in fase discendente queste si servono dell’astuzia più che della forza. E dell’astuzia fanno parte i “paternostri”.

[24] “Senza dubbio, il movimento lento ed uniforme di questa organizzazione (ordonnen cement) di quadri non procede neanche essa senza modificazioni nei quadri” (è il corrispondente della “mobilità” interna dell’elites di governo in Pareto – n.d.r.) … “nell’insieme, l’ordine sociale, nel suo movimento ordinato, con il suo sistema di istituzioni e il suo governo, procede nelle regioni ignote del tempo nelle stese condizioni di un esercito in marcia in un territorio nemico. Gli Stati sono delle armate civili in movimento che, come l’agmen, sono tenute a conservare con cura  il proprio ordine … Non abbiamo da tempo l’illusione (che stabilità sia immobilità – n.d.r.) … siamo più realisti, sappiamo che nulla è immobile, che tutto si trasforma. V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 74-76.

[25] Interpretando il quale Spengler scriveva sul Panta Rei “L’idea fondamentale su cui Eraclito basò la sua intuizione del mondo è già interamente contenuta nel famoso panta rei. Il mero concetto dello scorrere (del mutamento) è però troppo indeterminato per far riconoscere le più fini e profonde sfumature di tale idea, il cui valore non sta nell’affermare – cosa di cui nessuno dubita – la semplice diversità degli stati successivi del mondo visibile e tangibile” piuttosto il cosmo è in continuo movimento e “il fondo dell’apparire è piuttosto da pensare come puro agire; se si vuole, come somma di tensioni” (v. Oswald Spengler, Eraclito, ed. Settimo Sigillo, Roma s.d.). In definitiva il cambiamento è la normalità (almeno) della vita e dei processi vitali.

[26] In sintesi, essendo un tema che chi scrive ha affrontato più volte, la nota espressione di S. Paolo “Non est enim potestas…nisi a Deo”, è stata interpretata da una parte dei teologi cristiani nel senso che se l’ordine politico è necessario per volontà divina, le forme di esso e dei regimi politici sono “per populum” ossia rimessi alla volontà e (decisione) della comunità.

[27] Dalla Science sociale traditionnel al Précis del droit constitutionnel..

[28] Scriveva Hauriou: “Cosa ancora più sconcertante è che il denaro sta provocando la dissoluzione anche dell’organizzazione capitalista, ovvero dopo aver distrutto il feudalesimo e fondato un mondo nuovo il  denaro, continuando nell’azione distruttiva  manda in rovina perino la propria opera. Ciò è causato dal fatto che la moneta che era soltanto un segno di ricchezza diventa fine a se stessa. Si è creata dunque un classe importante di speculatori e di aggiotatori la cui sola occupazione è quella di fare alzare e abbassare il valore del denaro. Speculando sugli alti e bassi producono pesanti alterazioni sul commercio e l’industria volatilizzandone le riserve” ne La Science sociale traditionnelle, trad. it. di Federica Katte Klitsche de la Grange in Rinascita 22/11/2012.

[29] E Hauriou sosteneva che: “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente[29]. Dal momento in cui l’epoca rinascimentale si organizza su base razionale, in virtù dell’amministrazione e della legislazione dello Stato, esso stesso diviene principio di conservazione e di salvezza, a maggior ragione perché convive pacificamente con la società religiosa. Nondimeno verso la fine del rinascimento si inorgoglisce sempre di più fino a promuovere guerra nei confronti della religione; infine neutralizza completamente la propria influenza volgendo verso se stesso l’arma dell’analisi filosofica degradata a livelli di scetticismo pratico e dilettantismo. Contemporaneamente critica i fondamenti dello Stato di cui lo stesso è fondatore, li perturba a piacimento dei sistemi stessi, sia individualisti , sia collettivisti e infine lo fa traviare.” op. loc. cit.

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA 2a parte, a cura di Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA 2a parte

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta, già ribadita nella prima parte, è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

L’ECCEZIONE TEDESCA NEL COLLOCAMENTO DEI TITOLI DI STATO

di Manfredi De Leo

 

  1. L’esito della recente asta dei titoli pubblici tedeschi ha sollevato un interessante dibattito intorno alle specificità del meccanismo di collocamento dei titoli pubblici che sembrano distinguere la Germania dagli altri paesi dell’eurozona. Il dibattito prende spunto dai dettagli presenti nel resoconto ufficiale della procedura d’asta, laddove si comunica che sono stati emessi tutti i 6 miliardi di euro di titoli inizialmente previsti dal governo, ma al contempo si afferma che – di questi – solamente 3,6 sono stati collocati presso investitori privati. Si tratta dunque di capire esattamente cosa è successo a quei 2,4 miliardi di euro di titoli residui, che sono stati dichiarati emessi, ma non sono stati sottoscritti dai partecipanti all’asta.

Il resoconto ufficiale dell’asta definisce quella particolare quota dell’emissione come “Ammontare messo da parte per operazioni sul mercato secondario”. Dunque il 40% dei titoli emessi è stato trattenuto con lo scopo di essere successivamente venduto sul mercato secondario: una quota consistente dei titoli è stata, in altri termini, emessa ma non collocata presso gli investitori privati. Una simile operazione sembra possibile solamente qualora si ammetta l’intervento della Bundesbank, che avrebbe sottoscritto una parte della nuova emissione – come suggeriscono numerosi commentatori[1]. Ciò significherebbe che la Germania opera al di fuori delle regole comuni dell’eurozona[2], ossia in deroga a quegli stessi principi che hanno impedito, ad esempio, alla Banca Centrale Greca di intervenire a sostegno dei titoli pubblici ellenici tra il Dicembre 2009 ed il Maggio 2010, quando la spirale nei tassi di interesse pretesi dai mercati finanziari internazionali in sede d’asta ha di fatto costretto Atene a ricorrere ad un prestito istituzionale, vincolato all’adozione delle cosiddette misure di austerità. L’“eccezione tedesca” alle regole europee sull’emissione di titoli del debito pubblico appare ancora più significativa se si considera che la pratica di trattenere una quota (anche consistente) dell’emissione “per operazioni sul mercato secondario” non costituisce affatto un’anomalia nelle ordinarie operazioni di collocamento dei bund, ma ne rappresenta piuttosto il regolare funzionamento: come illustrato dal seguente grafico, la Germania trattiene regolarmente una quota delle emissioni, esattamente come accaduto in quest’ultima, discussa, asta di bund decennali.

Cercheremo di dimostrare che la Bundesbank sostiene attivamente il collocamento dei titoli pubblici tedeschi, esercitando un’influenza dominante sul prezzo dei titoli di nuova emissione, senza però ricorrere alla sottoscrizione degli stessi sul mercato primario, ma articolando il proprio intervento in modo tale da aggirare i divieti imposti dal Trattato di Maastricht, e praticare di fatto il finanziamento diretto del debito pubblico tedesco.

 

  1. Iniziamo col dire che il dibattito sull’asta dei titoli tedeschi ha il grande pregio di restituire il meccanismo di emissione dei titoli pubblici – fatto di regolamenti, prassi e rapporti di forza tra governi, banche private nazionali e internazionali – ad un contesto istituzionale più complesso di quella ‘forma di mercato’ che gli viene attribuita dalle istituzioni europee, e che giustifica il divieto di acquisto dei titoli pubblici imposto alle banche centrali, chiamate appunto a non interferire con il regolare funzionamento del mercato del credito.

Vogliamo capire come sia possibile che un titolo pubblico venga emesso, ma non collocato. Precisiamo innanzitutto cosa si intende per collocamento: un titolo si definisce collocato quando viene sottoscritto per la prima volta. L’ufficio governativo responsabile dell’emissione dei titoli del debito pubblico tedesco è l’Agenzia per il debito (Finanzagentur), la quale gestisce le procedure d’asta e poi trattiene i titoli non collocati presso quella platea di investitori privati che hanno l’accesso riservato al mercato primario, platea costituita da una quarantina di banche e società finanziarie tedesche ed internazionali. L’idea, suggerita da molti commentatori, che i titoli non collocati vengano di fatto sottoscritti dalla banca centrale tedesca è stata immediatamente contestata, poiché sembra scaturire da una errata interpretazione del particolare ruolo svolto da quest’ultima all’interno del processo di emissione dei titoli. Come vedremo, sebbene sia effettivamente possibile confutare la tesi secondo cui la Bundesbank sottoscrive i titoli pubblici tedeschi direttamente sul mercato primario, la banca centrale tedesca può contare su altri e diversi canali per intervenire sui titoli di nuova emissione, con risultati assolutamente equivalenti all’azione diretta sul mercato primario.

La Bundesbank agisce per conto dell’Agenzia per il debito tedesca in qualità di “banca custode e non di prestatore di ultima istanza”, come sostiene Isabella Bufacchi sul Sole 24 Ore del 26 Novembre 2011: i titoli trattenuti risultano in sostanza congelati presso la banca centrale tedesca, senza che questa corrisponda al governo alcuna somma di denaro in cambio, ossia senza che quei titoli risultino effettivamente sottoscritti. Spiega ancora la Bufacchi: “L`agenzia del debito tedesco riprende poi quei titoli invenduti e li ricolloca in tranche sul secondario, nell`arco di qualche giorno o in casi di mercati ostici di qualche settimana.” Dunque sembra, a prima vista, che la Germania non stia procedendo alla cosiddetta ‘monetizzazione’ del debito pubblico. A confermare questa interpretazione interviene anche la prestigiosa rivista The Economist, pubblicando sul proprio sito l’articolo Fun with bunds in cui, “per evitare che i bloggers passino molto tempo immersi nei meccanismi d’asta delle obbligazioni europee”, si affida la soluzione al dilemma alle parole di un rappresentate della PIMCO, una delle più importanti società private di investimento a livello internazionale: “La Finanzagentur ha emesso solamente 3,6 miliardi in cambio di liquidità. Loro hanno collocato 3,6 miliardi sul mercato ed hanno trattenuto 2,4 miliardi sui loro libri contabili. In futuro potranno vendere l’ammontare trattenuto sul mercato secondario, ottenendo la corrispondente liquidità. Potreste aver letto che la Bundesbank ha acquistato la quota dell’emissione che non è stata collocata in asta; ciò non è corretto. La Bundesbank non sta finanziando la Germania; opera semplicemente come un’agenzia per la Finanzagentur.”

La pratica dell’Agenzia tedesca per il debito, consistente nel trattenere una quota dell’emissione, viene dunque presentata, molto semplicemente, come un metodo per procrastinare il collocamento di quei titoli, in attesa di più favorevoli condizioni sui mercati finanziari: una mera questione di tempo, poiché i titoli emessi ma non anche collocati saranno, prima o poi, effettivamente collocati.

 

 

  1. Dopo aver “passato molto tempo immersi nei meccanismi d’asta delle obbligazioni europee”, è forse possibile mettere in discussione la validità di questa lettura del problema, ed incentrare l’interpretazione del particolare meccanismo di emissione dei titoli pubblici tedeschi non tanto sul ‘quando’ i titoli trattenuti verranno sottoscritti, quanto piuttosto sul ‘dove’ quei titoli verranno poi, effettivamente, collocati.

La struttura istituzionale conferita generalmente agli odierni processi di emissione dei titoli del debito pubblico si fonda su una netta distinzione tra il mercato primario, dove i governi collocano i titoli di nuova emissione, ed il mercato secondario, dove i titoli già emessi possono essere liberamente scambiati. Tale distinzione è rilevante, all’interno della cornice istituzionale dell’eurozona, poiché il Trattato di Maastricht (comma 1 art. 101[2]) vieta esplicitamente alle banche centrali dell’eurozona l’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi membri solamente sul mercato primario: la BCE e le banche centrali dei paesi membri sono dunque lasciate libere di acquistare titoli del debito pubblico dei paesi membri dell’eurozona sul mercato secondario, e siamo certi che stiano operando in questo senso quantomeno a partire dal Maggio 2010, nel contesto del Securities Markets Programme[4]. Si noti come la chiara distinzione tra mercato primario e mercato secondario, ovvero la regola per cui sul mercato secondario possono essere scambiati solamente titoli già emessi sul mercato primario, sia il presupposto della logica seguita dalle istituzioni europee, le quali prevedono contemporaneamente il divieto imposto da Maastricht, che si riferisce al mercato primario, ed il Securities Markets Programme, che limita al mercato secondario la libertà di intervento delle banche centrali. Nelle parole dell’allora Governatore della BCE Trichet: “le nostre azioni sono pienamente conformi al divieto di finanziamento monetario [del debito pubblico] e dunque alla nostra indipendenza finanziaria. Il Trattato vieta l’acquisto diretto, da parte della BCE, dei titoli del debito emessi dai governi. Noi stiamo acquistando quei titoli solamente sul mercato secondario, e dunque restiamo ancorati ai principi del Trattato”.[5]

Alla luce di quanto detto circa la pratica – operata negli anni dalla Germania – di destinare una quota rilevante delle emissione ad operazioni sul mercato secondario, risulta evidente che, quando consideriamo il mercato dei titoli pubblici tedeschi, la distinzione tra mercato primario e mercato secondario si fa quantomeno labile: tramite la quota di titoli di nuova emissione regolarmente trattenuta dall’Agenzia del debito, infatti, la Germania è in grado di collocare i propri titoli del debito pubblico direttamente sul mercato secondario. Ciò è rilevante perché se il mercato primario dei titoli pubblici è esplicitamente riservato, in tutti i paesi dell’eurozona, ad un gruppo di investitori privati, sul mercato secondario operano – accanto agli investitori privati – anche le banche centrali dei paesi membri. Questo significa che il tasso di interesse che si determina sul mercato primario può essere spinto al rialzo da una carenza di domanda di titoli che non ha ragione di esistere sul mercato secondario, laddove l’azione della banca centrale implica una domanda potenzialmente infinita per i titoli pubblici: sul mercato primario, dove non operano le banche centrali, può sussistere una situazione di eccesso di offerta di titoli che conduce ad un rialzo nei tassi di interesse, quale quello osservato in Grecia nei primi mesi del 2010, ed in Italia a partire dall’Agosto 2011, mentre sul mercato secondario l’intervento della banca centrale ha il potere di creare tutta la domanda necessaria a spingere al ribasso il rendimento dei titoli pubblici. Pertanto, il semplice fatto che il collocamento dei bund di nuova emissione avvenga, in parte, direttamente sul mercato secondario ha un impatto significativo sul tasso di interesse dei titoli pubblici tedeschi, garantendo alla Germania un minor costo dell’indebitamento pubblico, a prescindere dalla possibilità (pure presente) che i titoli di nuova emissione collocati sul mercato secondario vengano sottoscritti direttamente dalla Bundesbank. La particolare struttura istituzionale del processo di emissione dei titoli pubblici tedeschi sopprime di fatto la distinzione tra mercato primario e mercato secondario, aprendo lo spazio per il finanziamento del debito pubblico tramite la banca centrale – spazio negato agli altri paesi membri dell’eurozona.

Il complesso meccanismo di emissione dei titoli pubblici appena descritto consente alla Germania di proporre, in asta, un tasso dell’interesse molto basso, come avvenuto il 23 Novembre: se gli investitori privati si rifiutano di sottoscrivere i titoli del debito pubblico tedeschi a quei tassi, giudicati poco remunerativi, lo Stato trattiene la quota dell’emissione non collocata e procede, successivamente, al collocamento di quei titoli sul mercato secondario, dove l’azione della banca centrale è in grado di orientare i livelli del tasso dell’interesse vigente, o addirittura di tradursi in un intervento diretto, con la Bundesbank che sottoscrive i titoli del debito non collocati sul mercato primario. In assenza di un simile meccanismo, i governi sono costretti ad accettare il tasso di interesse che gli investitori privati pretendono sul mercato primario, laddove la loro disponibilità a sottoscrivere i titoli pubblici rappresenta l’unica possibilità che lo stato ha di finanziare il proprio debito. L’“eccezione tedesca” può essere concepita come un metodo che permette di aggirare i divieti imposti dal Trattato di Maastricht, e viene da chiedersi per quale motivo gli altri paesi dell’eurozona non si siano dotati di un simile dispositivo, capace di arginare le pretese dei mercati finanziari internazionali sui rendimenti dei propri titoli pubblici.

 

 

NOTE

 

[1] Alesina e Giavazzi sul Corriere dela Sera del 24 Novembre 2011 affermano che “l’asta dei Bund è stata sottoscritta solo grazie alla Bundesbank che ha acquistato il 40% dei titoli offerti da Berlino.”. Lo stesso giorno, simili affermazioni compaiono sui più importanti quotidiani. Sul Sole 24 Ore Bufacchi sostiene che: “va scartata la maxi-quota, pari al 39% dei 6 miliardi, che è stata sottoscritta dalla Buba [Bundesbank] per essere rivenduta sul secondario per via del peculiare meccanismo usato fin dagli anni 70 nelle aste dei titoli di Stato tedeschi.”; Quadrio Curzio commenta che “senza l’intervento della Bundesbank poteva andare anche peggio” sul Messaggero; Tabellini afferma, sul Sole 24 Ore, che: “la Bundesbank di fatto continua ad agire come prestatore di ultima istanza quanto meno in via temporanea nei confronti dello Stato tedesco. I titoli non venduti in asta infatti sono stati assorbiti dalla Bundesbank, che da sempre svolge questo ruolo per garantire la liquidità dei titoli tedeschi.”
[2] “La banca centrale tedesca ha subito assorbito tutti i titoli invenduti. È esattamente ciò che la Bundesbank stessa non vuole che la BCE faccia con Italia e Spagna. […] ha comprato direttamente dal governo, un comportamento in apparenza illegale ai termini del trattato: finanziamento monetario del deficit.” Fubini, Corriere della Sera del 24 Novembre 2011.
[3] “È vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della BCE o da parte delle Banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche centrali nazionali”), a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle banche centrali nazionali.” (Cfr. Versione consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, 24/12/2002, corsivo nostro).
[4] “Nei termini definiti in questa Decisione, le banche centrali dell’Eurosistema possono acquistare […] sul mercato secondario titoli di debito […] emessi dai governi centrali o da enti pubblici dei Paesi Membri e denominati in euro.” (Cfr. Decision of the European Central Bank of 14 May 2010 establishing a securities markets programme, Official Journal of the European Union, 20/05/2010, corsivo nostro).
[5] Cfr. Speech by Jean-Claude Trichet, President of the ECB, at the 38th Economic Conference of the Oesterreichische Nationalbank, Vienna, 31 May 2010.

 

Momenti della verità, di Roberto Buffagni

Momenti della verità

Che cos’ho imparato in questi giorni di crisi

 

In questi giorni di crisi politica e istituzionale abbiamo vissuto alcuni momenti della verità. Ne capitano pochi, nella vita: facciamone tesoro.

Momento della verità 1: all’Unione Europea la verità fa male, conforme la celebre sentenza della pensatrice italiana Caterina Caselli.[1] L’UE è un ferro di legno politico[2] privo di legittimità; in altri termini, non può dire in nome di che cosa comanda, eppure comanda e vuole continuare a comandare. Questo vizio di nascita, o, nel linguaggio preferito dalla UE, questa fragilità strutturale, la rende insieme fragilissima e rigidissima. Non appena la questione della legittimità viene in luce e si sposta al centro della scena, la sua resilienza e il suo spazio di manovra politica tendono allo zero. Quando il riflettore si spegne, quando la questione delle legittimità ritorna nel backstage politico, la UE ritrova la sua flessibilità, il suo spazio di manovra politico, il suo consenso, in breve la sua forza.

Momento della verità 2: le classi dirigenti italiane proUE (cioè praticamente tutte le classi dirigenti italiane) hanno avuto molta paura. L’enorme errore politico del Presidente Mattarella (la bocciatura del governo esplicitamente motivata con la presenza di Paolo Savona, reo di aver predisposto il “piano B” di uscita dall’euro) ha spostato al centro della scena politica la questione della legittimità, provocando le conseguenze di cui al punto 1 e aprendo la strada a una crisi istituzionale che poteva propagarsi all’intero edificio UE. La classi dirigenti italiane proUE hanno sperimentato anche emotivamente il trauma di due verità: a) che il loro predominio si fonda, letteralmente, sul nulla: il Re UE non è nudo, ma proprio non esiste: esiste solo per generale consenso a un’impostura b) che fondarsi su un’impostura li espone a un rischio esistenziale permanente. La paura che li ha scossi fin nelle viscere muove l’ondata d’ odio scriteriato che vediamo manifestarsi sui media proUE, dove leggiamo, anche scritte da persone intelligenti, moderate, colte, esortazioni a prendere provvedimenti folli quali la messa fuori legge di Lega e 5*, vale a dire incitamenti alla guerra civile e al terrore di Stato. La paura e l’odio formano uno dei composti psicologici più difficili da sciogliere e più pericolosi che esistano. Dalle classi dirigenti italiane proUE, chi sta nel campo avverso deve aspettarsi una guerra condotta con qualunque mezzo (peso le parole). Con questa affermazione non esorto a togliersi i guanti ma all’esatto contrario: esorto a stare in guardia, e a non permettere assolutamente che il conflitto politico trascenda nell’illegalità e nella violenza.

Momento della verità 3: il popolo italiano non è stupido. Nonostante quel che pensano e sperano le classi dirigenti italiane proUE, e nonostante un paio di generazioni di diseducazione politica, dissoluzione sociale, perfusione mentale d’una sciacquatura di piatti culturale altamente tossica, il popolo italiano, nel suo insieme, ha capito all’ingrosso che cosa c’era in ballo, non appena il Presidente Mattarella ha alzato il fondale ed è apparso coram populo quel che c’è nel backstage. Non ha capito tutto, ma ha capito l’essenziale: ha capito che chi lo comanda, lo comanda in nome e per conto altrui. Chi sono di preciso questi altri non l’ha capito, ma che sono altri, figli di altro padre e altra madre, con altri interessi, altre speranze, altri progetti, altre visioni del mondo, questo l’ha capito.

Momento della verità 4: il popolo italiano ha paura. Il popolo italiano non è stupido, ma ha paura. Da un canto, questa paura è indice di saggezza, perché è giusto e ragionevole aver paura, quando i rapporti di forza sono sfavorevoli: ed effettivamente i rapporti di forza gli sono sfavorevoli. Che i rapporti di forza gli siano sfavorevoli, il popolo italiano l’ha imparato nel modo più difficile, cioè per esperienza: una dura maestra che prima ti fa l’esame e solo dopo ti illustra il programma su cui dovevi prepararti. Disoccupazione, salari da fame, risparmi che si erodono, famiglie che si frantumano, figli senza prospettive di vita ordinata che reagiscono disordinandosela in proprio, accuse infamanti e derisioni umilianti sbattute in faccia 24/7 dalle istanze autorevoli sono un’esperienza che non si scorda facilmente. Alla paura si può reagire in due modi: con la prudenza e il coraggio che affrontano il pericolo, con la confusione e la deriva mentale che lo negano e lo rimuovono. Purtroppo, negare e rimuovere il pericolo è più facile.

Momento della verità 5: il popolo italiano ha bisogno di disciplina. Il popolo italiano ha bisogno di disciplina perché non ce l’ha, e senza disciplina un popolo non è un popolo ma una plebe che si lascia attraversare e scuotere dalle emozioni e dai desideri come un feto nel grembo materno. Il professor Giulio Sapelli ha trovato una formula efficace, per definire la base sociale del Movimento 5*: il popolo degli abissi. L’ha ripresa da un vecchio libro di Jack London, Il tallone di ferro, che non a caso fu una delle letture più popolari nel movimento socialista tra Otto e Novecento. Il popolo degli abissi è quello che più direttamente sperimenta di persona il tremendo, dissolvente disordine materiale e morale a cui accenno al punto precedente. Il suo grido di battaglia, “uno vale uno”, la sua rivendicazione di democrazia diretta, sono reclami più che comprensibili e scusabili di fronte all’umiliazione, alla paura di affogare, di essere schiacciati e aboliti dalla macchina sociale senza lasciare memoria di sé: manco una lapide e una tomba, gli eredi ti fanno cremare perché costa meno. Però sono anche trappole, trappole inesorabili: perché non è vero che uno vale uno, e non è vero che si può prendere il potere e raddrizzare un mondo storto prendendo il 51% dei voti.

Momento della verità 6: il Movimento 5* deve scegliere il suo nemico. Il Movimento 5* deve scegliere il suo nemico, e non l’ha ancora fatto. Non l’ha ancora fatto per due ragioni: a) perché non vuole credere di avere un nemico, un nemico disposto a impiegare tutti i mezzi per vincere, e preferisce negare o rimuovere il pericolo. Trova più facile indicare come nemico qualità prepolitiche quali la disonestà, la corruzione, etc. Ma non è così che si agisce politicamente. La disonestà, la corruzione, in genere il male morale sono nemici interiori di ciascuno, perché sono possibilità sempre presenti nel cuore di tutti gli esseri umani, quale che sia la loro posizione politica e sociale. Per agire politicamente, dobbiamo designare un nemico politico, che sarà un uomo o un gruppo di uomini, buoni e cattivi insieme come siamo anche noi, dal quale ci dividono volontà, interessi, progetti, etc. b) perché ha paura di quel che implica designare un nemico politico. Designare un nemico politico comporta diventare adulti. Comporta smettere di pensare di essere i buoni che combattono contro i cattivi. Comporta smettere di pensare che il conflitto possa cessare nella concordia universale. Comporta infine darsi una disciplina e una struttura, agire razionalmente subordinando la tattica alla strategia, e smettere di credere al momento magico in cui il mondo intero sarà costretto a riconoscere che abbiamo ragione. Esempio concreto: nel momento culminante della crisi istituzionale, dopo il veto del Presidente Mattarella a Savona, quando per l’alleanza Lega – 5* si apriva uno spazio di manovra immenso, i 5* hanno commesso due errori politici non meno colossali di quello compiuto da Mattarella. Prima, hanno rivendicato d’impulso, a caldo, la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. Si è trattato di un errore politico immenso perché a) la rivendicazione è stata fatta senza sincerarsi di avere la necessaria maggioranza parlamentare b) anche qualora la si fosse trovata, persino qualora la messa in stato d’accusa avesse portato alla deposizione del presidente Mattarella, nessuno aveva avuto neppure il tempo materiale di pensare alle conseguenze politiche immani che ne sarebbero scaturite, e al modo di sfruttarle costruttivamente, senza precipitare la nazione nel caos c) di conseguenza ci si autodesignava come politicamente irresponsabili, confermando le valutazioni correnti nel campo avverso. Poi, ritirata senza motivazioni plausibili la proposta di messa in stato d’accusa, Di Maio ha invitato Savona a ritirare la sua candidatura per consentire la formazione del governo, errore politico immenso perché a) trasformava lo scontro politico-istituzionale sulla legittimità in dissidio interno intorno a un capriccio egocentrico di Savona e/o a un’astuzia interessata dell’alleato leghista b) forniva una comoda via d’uscita all’avversario in grave difficoltà c) manifestava un opportunismo politico e una fragilità psicologica esiziali, incapacitanti. Savona non casca nella trappola, e a questo punto la deputata Laura Castelli lancia la proposta di spostarlo ad altro ministero, altro errore politico immenso, perché a) soccorre l’avversario in grave difficoltà b) non si rende conto che la questione “piano B” e Savona al MEF fanno tutt’uno, e hanno spaventato l’avversario perché avere nel governo un Ministro dell’Economia munito dell’ “opzione nucleare” è l’unica garanzia di una trattativa non cosmetica e non traumatica con l’Unione Europea[3] c) trasforma insomma una battaglia strategica in uno scontro tattico nel quale si possono fare compromessi e accettare mezze vittorie o mezze sconfitte. N.B.: sul piano tattico le mezze vittorie/mezze sconfitte esistono: si può pareggiare una battaglia. Sul piano strategico, le mezze vittorie e le mezze sconfitte non esistono proprio: le guerre o si vincono o si perdono.

Momento della verità 7: il difficile viene adesso. Il difficile viene adesso perché i presupposti sui quali è nato questo governo – realizzare una politica anticiclica in economia, dare lavoro, ridurre drasticamente l’immigrazione, mettere “prima gli italiani” – sono tutti irrealizzabili senza una trattativa con la UE che ne metta in questione i meccanismi strutturali. Una trattativa con la UE che ne metta in questione i meccanismi strutturali rappresenta un rischio esistenziale non soltanto per la UE come entità politico-economica, ma per tutte le classi dirigenti proUE non solo italiane, che sulla UE fondano il proprio dominio. L’unico, ripeto unico modo per trattare una modifica dei meccanismi strutturali della UE senza giungere molto presto al punto decisivo in cui si è costretti all’alternativa secca “cedere e subordinarsi in permanenza modello Tsipras/ andare in default, uscire dall’euro unilateralmente, impiantare un’economia di guerra per un periodo di transizione di alcuni anni” è avere il piano B, la capacità e la volontà di usarlo se necessario, e avvalersene come deterrente per prevenire lo scontro decisivo e l’alternativa tutto/nulla (v. la nota 3). La mezza vittoria/mezza sconfitta, insomma il compromesso tattico che ha condotto all’insediamento del governo può innescare due catene di conseguenze. Prima catena: il governo fa annunci, introduce alcuni provvedimenti secondari propagandisticamente efficaci ma che non importano lo scontro con la UE, e sostanzialmente non consegna la merce promessa agli elettori, o meglio al popolo italiano. Risultato finale: la mezza vittoria/mezza sconfitta tattica si trasforma in sconfitta strategica (perdiamo la guerra, e la perdiamo molto male, perché la perdiamo per colpa nostra). Seconda catena: il governo consolida le sue posizioni in patria e trova alleati all’estero, l’alleanza tra Lega e 5* si rafforza trovando concordia sull’obiettivo strategico e sulla designazione del nemico, il tema “modifica strutturale della UE, suoi costi/benefici e metodi per ottenerla” viene ampiamente dibattuto diffondendo vasta consapevolezza e appoggio tra la popolazione; e una volta costruite le condizioni di possibilità di uno scontro diretto con la UE, lo si implementa, probabilmente dopo uno scioglimento delle Camere e una nuova campagna elettorale, che guadagni al nostro fronte una larga maggioranza elettorale e un governo fortemente coeso e competente. Poi, si passa “allo scontro con il grosso dell’esercito nemico”, e se la fortuna assiste, la mezza vittoria/mezza sconfitta tattica si trasforma in vittoria strategica: vinciamo la guerra, cioè otteniamo una modifica strutturale della UE che apre la via a una sua trasformazione, in forme per ora imprevedibili. La prima catena di conseguenze è la più probabile (il fallimento è sempre più facile del successo), la seconda resta possibile, se ci diamo da fare e non ci perdiamo d’animo. La terza proprio non c’è.

[1] https://youtu.be/DOVGmoQpOaA

[2] V. il mio scritto qui ospitato: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[3]V. https://italiaeilmondo.com/2018/05/29/che-cose-e-come-funziona-il-piano-b-per-luscita-dalleurodi-roberto-buffagni/

TRE CONSIGLI GRATUITI, di Antonio de Martini ma … PER ANDARE DOVE?, di Pierluigi Fagan

TRE CONSIGLI GRATUITI

( e leggete le tre frasi che scrisse Bovio ai piemontesi che calavano a Roma)

Con la fine del fascismo, nel 1943, si bruciò la classe dirigente monarco-piemontese di origini nobiliari e alto borghesi, che, per durare, si era alleata sul finale con una classe pseudo-militar-borghese sorta dallo scontento provocato dai risultati non ottenuti con i sacrifici della prima guerra mondiale.

Nel secondo dopoguerra, è subentrata la classe dirigente cattolica, allevata dalle organizzazioni ecclesiali nei residui spazi di libertà lasciati dal regime precedente.

La sua indulgenza verso la corruzione – forse stimolata dal sacramento della confessione che ha inculcato il principio che tutto può essere perdonato – l’ha spinta con gli anni a emarginare il fondatore don Sturzo e ogni elemento motivato da afflato etico ed infine a cooptare nell’area del potere – sempre per durare- la classe dirigente alternativa sorta in seno al proletariato, emasculandola. ( nell’ordine: prima i socialisti, poi il sindacato, comunisti e infine persino i fascisti residuali).

Con l’arrivo delle crisi petrolifere che richiedevano competenze estranee alla cultura cattolica, siamo anche andati alla ricerca di una qualche forma di commissariamento affidandoci alla scuola economica sorta dagli uffici studi di Bankitalia. ( Ciampi, Dini, Draghi ).

Poi l’imprenditoria grande e piccola con Berlusconi, De Benedetti e imitatori minori.

Il passaggio dell’affidarsi alla magistratura e ai cosiddetti ” professori” è stato il più recente tentativo e di gran lunga il peggiore.( da Di Pietro a Monti a Grasso).

Con questo ultimo tentativo di ieri, abbiamo fatto ricorso ai borghesi piccoli piccoli di Monicelliana memoria.
Lo scontento per i risultati non ottenuti coi sacrifici del decennio scorso è stato il motore della nuova ondata.

Permeata di buon senso pratico, questa nuova ondata di governanti si è presentata con un fritto misto in cui sono rappresentate schegge di tutte le precedenti esperienze.

Questo fenomeno inusitato, ha provocato un moto di sorpresa che ha, in qualche senso, placato la pubblica opinione che ha visto con favore il cadere di alcuni steccati ideologici, sociali e di età che avevano condizionato le precedenti esperienze di selezione.

C’è una sola certezza: porteranno al vertice istanze e i malumori popolari dato che provengono dagli strati più bassi della popolazione.

Che riescano a dominare la situazione, identificare e risolvere i problemi, è tutto un altro argomento e dipenderà in larga parte dalla insensibilità al fascino dell’arricchimento personale.

Ai nuovi arrivati, tre consigli: evitate di farvi cooptare dalle vecchie classi dirigenti. Se fossero stati bravi, non sareste dove siete.
Guardatevi dalla arroganza e circondatevi di individui competenti, sostituendoli senza pietà al minimo sospetto di mala fede.

Se comincerete con udienze papali e cene nelle terrazze romane, finirete molto peggio di coloro che state sostituendo perché sarete giudicati usurpatori.

Abbiamo tutti una sola speranza. Fare peggio dei predecessori è praticamente impossibile.
Dimostratecelo.

PER ANDARE DOVE DOBBIAMO ANDARE, PER DOVE DOBBIAMO ANDARE?

Negli spostamenti progressivi della inquadratura del “problema”, stiamo piano-piano scoprendo che nel mondo grande e terribile (Gramsci), ci sono almeno due variabili di cui tenere conto. Lo si vede nelle oscillazioni tra economisti e geopolitici, entrambi -diciamo così- “critici”.

I primi giustamente intenzionati ad alzare il livello di frizione con la Germania, a costo di far finta di non vedere l’interessata amicizia americana (e britannica) sempre pronta col divide et impera a rompere la sfera di potenza tedesca che è l’euro-UE ed usarci così per giochi geopolitici. I secondi giustamente allarmati dal fatto che scappar da Berlino per mettersi nella mani di Washington, fa un po’ trama di film di Romero tipo “La notte dei morti viventi”, lì dove scappi da uno zombie per finire in braccio a quello che pensi un amico e che poi si rivela un mostro ben peggiore del primo.

Il punto è la sovranità. Non quella elementare e spezzettata nei vetri triangolari del caleidoscopio della nostra immagine di mondo che o parla di economia o parla di geopolitica, ma quella che riunisce in sé l’economia, la geopolitica, la cultura, la demografia ed ogni altro aspetto del tutt’uno di cui è fatta una società: la sovranità politica. Abbiamo scoperto che non abbiamo sovranità economica ma se è per questo non l’abbiamo neanche militare e tasse ed esercito sono i presupposti per fare Stato, quindi non abbiamo sovranità politica o quantomeno ne abbiamo una molto debole.

La cosa non solo dovrebbe preoccuparci per il senso di minorità oggettiva che ciò comporta, cosa di per sé grave, ma anche per il fatto che se invece che dal presente andare al passato (ah, non dovevamo firmare Maastricht, ah non dovevamo diventare una colonia americana dal dopoguerra in poi) andiamo al futuro, il nuovo mondo denso, complesso e multipolare con 10 miliardi di individui, darà carte da gioco viepiù peggiori tanto meno “potenza” (in senso completo, quindi politico come somma di tutti gli altri aspetti) si avrà. Lo studio PWC The Long View prevede che, nel 2050, noi italiani saremo la 21° economia la mondo. Va un po’ meglio ai francesi (12°) ma non tanto da potersi ancora definire una potenza e difendere il seggio al Consiglio di Sicurezza ONU, ma va anche peggio a gli spagnoli (26°), per non parlare di greci e portoghesi.

Servirebbe allora un piano, non solo un Piano B tattico per districarci nei rapporti di forza all’interno della gabbia del sistema euro-UE, ma un piano forte per districarci all’interno dell’affollato cortile-mondo di cui diventeremo una frazione trascurabile che sulla sovranità potrà al massimo scrivere libricini lamentosi su quanto era bello quando c’era Giulio Cesare o il Rinascimento, lira più o lira meno.

Trattandosi di un problema non semplice, mi dispiace non potervi offrire soluzioni a slogan facili, immediati, intuitivi e confortanti. Così è quando si deve passare dalla tattica alla strategia, dall’oggi alla prospettiva, dalla mono-variabile al gomitolo di variabili intrecciate tipi fili delle cuffiette dell’I-pod che sembrano studiate apposta per intrecciarsi tra loro (intrecciate-plexus, assieme-cum = cum-plexus).

In breve, sembrerebbe consigliabile cominciare a prendere in serio esame il fatto che c’è un unico modo di scavallare il problema del nanismo delle tanti parti, cominciare a pensare di metterci assieme per fare un totale maggiore della somma delle parti.

Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia, siamo 200 milioni e saremmo la terza economia del mondo, il bilanciere perno tra USA e Cina, l’arbitro giocatore del mondo multipolare. Avremmo atout non disprezzabili in molti campi produttivi e finalmente potremmo fare investimenti di ricerca significativi per darci un futuro. Avremmo l’atomica ma anche tanto soft power ed anche il papa di una credenza che scalda i cuori di 2 miliardi di con-terranei. Potremmo lanciare una Dottrina Monroe su Mediterraneo ed Africa e fare affari con i parlanti ispano-portoghesi del Sud e Centro America. Anche a quelli del Vicino Oriente potremmo dare qualche bacchettata per farli smettere di incasinarci la vita ogni tre per due. Amici di tutti ma servi di nessuno. Sovrani sì ed anche eccitati del poter decidere in autonomia finalmente un bel mucchio di cose. Con quel sistema politico anticamente fondato dagli amici greci che i cugini anglosassoni hanno trasformato in un nobile paravento dietro a cui si fanno i più sporchi affari (loro hanno fatto “società” secoli fa e con molta fatica, solo per quello, per fare affari, è la loro antropologia).

Utopia è il non luogo [οὐ (“non”) e τόπος (“luogo”)], chissà mai se potrà esistere, quando, a quali condizioni questa idea. Sta di fatto che se non hai una meta nel cammino, come fai a capire verso cosa stai camminando? A meno non preferiate rimanere nel flipper dell’indecidibile a rimbalzare tra “ma in fondo la Merkel è meglio di Trump” o mettere like nella pagina degli “amici di Putin” o rivalutare la simpatica sbruffoneria stelle e strisce o la massoneria britannica (lei sì che sa “costruire il mondo”) o iscrivervi ad un corso di mandarino. Fate voi

Post-democrazia e crisi italiana: Mattarella e il “governo del cambiamento”, di Alessandro Visalli

Tratto dal blog https://tempofertile.blogspot.com/

Post-democrazia e crisi italiana: Mattarella e il “governo del cambiamento”.

Il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha oggi chiuso una lunga crisi istituzionale con una decisione drastica che fa fare alla crisi politica italiana un salto di qualità di enormi proporzioni.

È davvero difficile immaginare come la crisi istituzionale evolverà: probabilmente avremo un presidente del consiglio incaricato del tutto privo di legittimazione elettorale, direttamente designato dal Presidente della Repubblica con la quasi certezza che non potrà avere i necessari voti di fiducia; quindi questi, dopo rituali consultazioni e il probabile appoggio del PD e FI (magari di LeU), formerà la sua lista dei ministri e probabilmente giurerà. A questo punto un governo senza appoggio politico adeguato in Parlamento (un “governo di minoranza”, si dice, ma senza l’astensione delle altre forze) andrà a chiedere la fiducia e non la otterrà. Il Presidente potrebbe o dovrebbe nominare un altro presidente per verificare se c’è un’altra maggioranza, ma lui sa già che c’è. Dunque lo farà entrare in esercizio e si riserverà di sciogliere le camere, io credo.

Di qui il terreno si farà ancora più scivoloso, perché un governo senza alcuna legittimazione elettorale, di minoranza, ma contro una maggioranza politica alla quale è stato impedito di esprimere un suo governo, si troverà a prendere decisioni di grandissimo momento in Europa e in Italia. Proverà, magari, ad arrivare alla legge finanziaria di fine anno, quindi non sciogliendo un Parlamento ostile che gli boccerà aspramente tutte le leggi che passano. Questo governo si esprimerà solo attraverso decretazioni di urgenza.

Ma la crisi politica è più grave della crisi istituzionale.

Già da tempo, in tutto l’occidente, è in corso un riorientamento degli assi politici dal tradizione asse sinistra/destra, che appare ai più sempre più obsoleto, ad un asse élite/popolo la cui definizione è oggetto dei più aspri scontri. Questo riorientamento ha visto nelle elezioni di marzo italiane un enorme acceleratore e contemporaneamente una plastica rappresentazione. Per la prima volta da decenni la maggioranza dei votanti (sia pure di misura) ha garantito consenso a Partiti contrari all’establishment percepito (ovvero ai duellanti della seconda Repubblica: PD e FI).

Spinge questa crisi un insieme di fattori economici, tecnologici e sociali che rendono instabili e altamente confusi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni. Come avevamo già scritto, probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.

Ma certamente in questa crisi viene rimesso in questione, e sempre più profondamente, anche se incoerentemente l’assetto soffocante per troppi che aveva trovato forma dalle ‘riforme’ avviate negli anni ottanta e poi rinforzate con una piega imperiale (e neocoloniale) negli anni novanta. Questa è la dimensione di crisi della politica, ovvero di una democrazia politica incapace da tempo di svolgere la propria funzione di ottenere giustizia per i più deboli (i forti se la ottengono da sé). Precisamente per coloro che sono deboli a causa della posizione strutturale in cui si ritrovano nel sistema globale dei rapporti produttivi e quindi nell’accesso alle risorse che questi consentono (risorse economiche, sociali, culturali e quindi anche politiche).

Nel corso degli anni ottanta, e poi novanta, c’è stata una inavvertita rotazione dell’asse istituzionale: da orientato ad un compromesso, premessa di pace sociale e lealtà, si è trovato ad essere indirizzato a proteggere i profitti e le rendite. Tutto il sistema istituzionale contro il quale si è espresso il voto di marzo, anche quando non se ne accorge, vede il mondo dal punto di vista di chi ottiene i profitti e di chi detiene i risparmi (ovvero i capitali) e ne vuole trarre rendite. Ovvero di chi dispone del denaro nella forma del capitale (poco o tanto) e ‘compra’ lavoro. Il lavoro, peraltro, è inquadrato essenzialmente come una merce come ogni altra, della quale fare economia, da ridurre al suo minor prezzo. Dimenticando, tra le altre cose, che è il lavoro che consente di comprare le altre merci, di dare il loro valore. Lo sguardo miope del capitale scava sotto le proprie fondamenta.

Nel 2003 tutto questo viene messo sotto accusa da un fortunato libro del politologo Colin Crouch: “Postdemocrazia”. La crescente influenza di sempre più piccole lobbies economiche e di élite politiche sempre più autoreferenti ed il riferimento costante alla capacità di azione libera degli agenti, ma anche il sistematico depotenziamento del sistema di regole volto ad impedire che il mero potere economico si traduca in politico produce una forma politica nella quale si comincia ad andare oltre l’idea del governo del popolo. Ovvero oltre la sovranità popolare.

Ascoltiamo ora il discorso di Mattarella.

https://www.youtube.com/watch?time_continue=3&v=tx4TEKC6ni4

Ne riprendo alcuni stralci:

Come del resto è mio dovere” … “avevo fatto presente che per alcuni ministeri avrei esercitato un’attenzione particolarmente ampia sulle scelte da compiere”. Infatti, “il Presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia”.

Fin qui si può dire poco, ma subito continua:

la designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari. Ho chiesto per quel ministero un autorevole esponente politico di maggioranza, coerente con l’accordo di programma, un esponente che, al di là della stima e della considerazione della persona non sia visto come portatore di una linea più volte manifestata che possa portare probabilmente, o addirittura inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia dall’Euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso nell’ambio della UE dal punto di vista italiano”.

Il Presidente della Repubblica, nella non rituale ma essenziale presentazione alla sfera pubblica delle ragioni per le quali ha inteso respingere la lista dei Ministri che ai sensi della costituzione il Presidente del Consiglio incaricato, nell’esercizio delle sue prerogative, gli aveva sottoposto per la ratifica, porta un solo argomento: può allarmare gli operatori economici e finanziari.

Di per sé potrebbe anche non essere trovato gravissimo se il Presidente della Repubblica, che, come dice la Costituzione “nomina i ministri” su “proposta” del Presidente del Consiglio, come in altri casi è successo, avesse solo consigliato di cambiare un nome. Ma di fronte all’irrigidimento del Presidente incaricato, pienamente appoggiato dalle forze politiche che hanno la maggioranza in Parlamento, avendo vinto le elezioni su chiaro mandato, e considerando le conseguenze su cui ci siamo soffermati in avvio, è grave e pericoloso decida di procedere alla rottura. Bocciano quindi un “Governo del cambiamento” che aveva il certificato consenso della maggioranza del paese.

Scrive Habermas nel 1990 in “La rivoluzione recuperante” (in ‘La rivoluzione in corso’, p.197): il problema lasciato dal crollo del sistema del socialismo reale, e delle sue speranze di governo amministrativo, può essere affrontato attraverso un “contenimento protettivo” ed una “guida indiretta” della crescita capitalistica. Un problema che può trovare soluzione “solo in un nuovo rapporto tra sfere pubbliche autonome da un lato e campi di azione mediati dal denaro e dal potere amministrativo dall’altro”. Il potere sovrano, “connotato in senso comunicativo”, si deve a questo punto (almeno) far sentire attraverso la capacità di influire senza intenti egemonici sulle premesse dei processi di valutazione e di decisione dell’amministrazione. Insomma, il potere comunicativo “gestisce il pool di motivazioni con cui il potere amministrativo può operare in modo strumentale ma che non può ignorare nella misura in cui si richiama allo stato di diritto”.

L’unica ragione di non allarmare gli operatori economici, quando a fronte di questa considerazione, pur dotata di una sua qualche forza, c’è l’enormità di mandare inespressa la volontà sovrana appena manifestata dagli elettori, non credo proprio passi il test di Habermas.

Continua il Presidente:

l’incertezza sulla nostra posizione sull’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatosi, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di stato, italiani e stranieri. L’impennata dello spred, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi ha investito, e configurano rischi concreti per i risparmi le nostre famiglie e per i cittadini italiani, con pericoli per gli interessi per i mutui e per le aziende. In tanti ricordiamo come prima dell’unione europea gli interessi bancari sfioravano il 20%”.

In questa compatta spiegazione, che funge da esplicazione dell’allarme degli operatori, si trovano diverse affermazioni di fatto e l’esplicazione di diversi meccanismi tecnici causali di cui si chiede implicitamente la correttezza:

  1. l’allarme è ricondotto, tra i molti possibili fattori (non ultimo la vittoria di forze inattese e mai provate), alla sola posizione sull’euro;
  2. l’impennata dello spread (peraltro già molte volte verificatasi e sempre ricondotta) è accusata di “aumentare il debito pubblico” e di “ridurre la capacità di spesa dello Stato”, questa relazione causale sarebbe possibile se lo spread restasse alto a lungo, trascinandosi sui tassi e quindi impattando nel tempo sul servizio del debito che va alimentato da risorse fiscali. Ma sarebbe possibile che nel caso temuto di uscita dall’Euro questi effetti possano essere neutralizzati, ma non senza costi, da una nuova Banca d’Italia sotto controllo del Tesoro (ovvero revocando la più strutturale delle riforme degli anni ottanta, che ha generato il debito);
  3. allargando il discorso si passa alle oscillazioni delle quotazioni della borsa, qualificate come “perdite” (quando sono solo valori nominali che si determinano in perdite per qualcuno e guadagno per qualcun altro solo se sono vendute) e che addirittura, con linguaggio giornalistico fuorviante in bocca ad un Presidente che sta svolgendo l’alto ufficio di fornire motivazioni alla sfera pubblica politica su una decisione così grave, vengono descritte attraverso la metafora del “bruciare”;
  4. Allargando ancora queste perdite potenziali si potrebbero riverberare, in un successivo anello, addirittura in “rischi concreti” per i risparmi delle famiglie e in innalzamenti dei tassi di mutui ed aziende (evidentemente in caso di crisi generalizzata);
  5. Da ultimo viene ricordato che gli interessi bancari senza euro erano al 20% (ma questo accadeva quando l’inflazione era alta quasi altrettanto e dunque gli interessi reali erano bassi come ora, o comunque vicini).

Insomma, il Presidente ha esercitato un crescendo retorico il cui vero obiettivo era illustrare i rischi che immagina per l’uscita dall’Euro.

Ma il ministro in pectore non minacciava affatto l’uscita, intendeva solo assumere una posizione forte di tipo negoziale (impossibile se ci si preclude in via definitiva il piano “B”).

La chiusa è interessante:

È mio dovere nello svolgere il compito di nomina dei ministri che mi affida la costituzione essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani. In questo modo si riafferma concretamente la sovranità italiana, mentre vanno respinte al mittente inaccettabili e grotteschi giudizi sull’Italia.” … “Quella dell’adesione all’euro è una scelta di importanza fondamentale per le prospettive del nostro paese e dei nostri giovani, se si vuole discutere va fatto apertamente e con il necessario approfondimento, anche perché non è stato al centro della recente campagna elettorale”.

È dovere del Presidente essere attento alla tutela dei capitali (ovvero dei “risparmi”), in questo poggia la sovranità italiana.

Facciamo un passo indietro: scrive Guido Carli nel 1993 che quello che chiama “il significato sociale e politico del debito pubblico”, a causa della sua ‘capillare diffusione nel pubblico’ (ovvero, vale la pena ricordarlo subito, nella media e alta borghesia), ipocritamente attribuito anche agli strati sociali meno abbienti (come se avere, eventualmente, uno o due bot sia la stessa cosa di averne migliaia), è che questo viene trasformato nella democrazia stessa. Dice, infatti, Carli: “la sintesi politica di tutto ciò è evidente: il permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (in ‘Cinquant’anni di vita italiana’, p.387). Ne segue, incredibilmente, che per Carli “chi mira ad intaccare quella fiducia, quella libera scelta, mira in ultima analisi ad interrompere la continuità democratica”. Infatti il debito pubblico è niente di meno che la connessione delle “famiglie”, ed “intima”, con il “grande” ed “efficiente” (due parole che non possono certo essere sottovalutate nella loro potenza simbolica) “mercato”. Il debito pubblico, continua Carli, è il tramite della scelta culturale dell’apertura delle frontiere.

A chi propone (all’epoca Visentini) forme di ristrutturazione forzosa (che oggi sarebbe implicita in una fuoriuscita dalla gabbia europea, ma anche in una sua forte messa in discussione, attraverso operazioni di “monetizzazione”), Carli risponde che “oggi le strade della coercizione finanziaria sono precluse a qualsiasi classe dirigente che non voglia far correre al Paese antistoriche avventure autoritarie”. Insomma, risponde che al debito non si può sfuggire, e nemmeno si deve.

In conseguenza di ciò, e dell’apertura dei mercati, “non è più possibile tornare indietro”. Come dice espressamente: “il Trattato di Maastricht è incompatibile con l’idea stessa della ‘programmazione economica’. Ad essa si vengono a sostituire la politica dei redditi, la stabilità della moneta e il principio del pareggio di bilancio” (p.389).

Il Banchiere che altrove dice apertamente “io stavo dalla parte dei capitalisti” nei conflitti distributivi, (p.269) e che ha rappresentato l’Italia nel negoziato di Maastricht, mostra, cioè, in modo del tutto chiaro chi è il sovrano.

Il sovrano è chi decide, e sono i risparmiatori, ovvero i detentori dei capitali e quindi dei debiti.

Oggi ne abbiamo avuta un’altra prova: a fronte di due forze politiche che non apprezzo, ma che hanno la maggioranza sia in Parlamento sia nei voti degli italiani, e che proponevano attraverso la corretta procedura un ministro sgradito perché foriero di mettere in questione il debito, il Presidente ha argomentato il suo rifiuto proprio in questi termini. Ha sostenuto che la scelta avrebbe danneggiato i risparmi e spaventato i mercati.

Dunque non sono sovrani i cittadini attraverso la procedura del voto (ovvero attraverso l’esercizio di quel suffragio universale, sostituitosi nel corso del novecento al voto limitato a chi dispone di capitale), ma i risparmiatori e il loro oracolo: i “mercati”.

In effetti “post-democrazia”, da oggi, è termine modesto. Bisognerà riflettere bene su questo passaggio epocale: di nuovo l’Italia apre la strada.

PRESIDENTE ZERO TITULI, di Massimo Morigi ovvero: introduzione alla guerra civile, di Antonio de Martini

PRESIDENTE ZERO TITULI

Di Massimo Morigi

Come scriveva Karl Marx nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, la storia si ripete sempre due volte: “la prima come tragedia, la seconda volta come farsa”. Nell’attuale crisi di sistema ed istituzionale iniziata il 27 maggio 2018 dall’avventurismo politico del Presidente della Repubblica italiana, la vicenda in questione, del tutto inedita nella storia passata dell’umanità per la tragica insipienza del suo altissimo scatenatore (se non andando alla tragica e goffa vicenda della fuga a Varenne di Luigi XVI che decretò la sua uscita violenta dalla scena della storia e del demente comportamento di Nicola II che fece da innesco alla rivoluzione russa e alla sua e della sua famiglia tragica fine e andando, volendo essere un attimo più leggeri, al falso storico dell’incendio di Roma da parte di Nerone, immortalato in un registro alto della memoria collettiva da un Petrolini che sulle ceneri della Città Eterna arringa un popolo tumultuoso ed avverso che lo ritiene responsabile di tanta rovina esprimendo di voler ricostruire Roma “più bella e più superba che pria” e con una vocina surreale e stridente di un astante davanti a tanta ridicola enfasi che risponde “bravo”, alla quale Nerone replica con “grazie”, in un esilarantissimo botta e risposta nel quale al “grazie” si risponde ogni volta con un “bravo”: ci permettiamo questa nota surreal-teatrale per dire che auguriamo al nostro beneamato presidente della Repubblica di essere ricordato ai posteri non come un protagonista tragico della storia ma come un’immagine in fondo affettuosa e appartenente alla cultura popolare simile al Nerone petroliniano, che proprio come personaggio si fa amare per la sua buffonesca, istrionica, e quanto divertente, abissale incompetenza), non ha, questa vicenda, contraddicendo quello che diceva Marx, alcuna analogia con le passate catastrofi storiche perché essa è contemporaneamente tragica ma anche farsesca ( non v’è mai stato nulla di simile se non ricorrendo all’esempio del Nerone petroliniano, il quale però fu tratto  da una letteraria finzione storica). Il fatto farsesco alla sera del 29 maggio 2018 è il seguente: Cottarelli è sul punto di rinunciare all’incarico perché c’è la verosimile possibilità che il nuovo Governo al Senato non ottenga nemmeno un voto di fiducia. Riferendosi ad un suo avversario allenatore calcio, un allenatore portoghese non molti anni fa ebbe modo di dire: “Zero tituli”. Pensiamo che anche a   noi, in veste di modesti commentatori politici, visto il grande successo che la sua iniziativa rischia di correre al Senato, riferendoci al Presidente della Repubblica, ci sia consentito di esprimerci riguardo alla massima carica della Stato come “Presidente zero tituli”. Ma visto che la storia del nostro paese ci consente anche citazioni ben più illustri che non il calcio, si ricorda per ultimo la storiella di Caligola che nominò senatore il suo cavallo. Con tutti gli absit iniuria verbis del caso –  sia verso il “Presidente zero tituli” che verso Caligola: in ogni caso non si mai… –  e con ancora ripetuto rispetto parlando del  “Presidente zero tituli”, abbiamo così trovato alla fine un altro caso in cui la tragedia è abbinato alla farsa, e contribuito, alla fine, a non smentire Marx. Con il tetro e poco tranquillizzante sospetto, però, che dopotutto il cavallo abbia fatto meno danni dell’attuale impazzimento istituzionale e con la certezza, anche, che per non cadere nelle lugubri immagini evocate dalla fuga a Varenne e dall’orrida fine della famiglia imperiale russa ad Ekaterimburg, l’unica rimedio sia ricorrere alle surreali ed anche allegre immagini evocate dal Nerone petroliniano.

 

Massimo Morigi – 29 maggio 2018

 

P.S. Ultimissime delle ore 22.30 di martedì 28 maggio. Il “Presidente zero tituli” sta pensando seriamente di fare marcia indietro e di richiamare Conte accettando anche Paolo Savona come ministro dell’economia. Siamo all’ “indietro tutta”. Ma come la presente farsa non lo rende, ahilui, né un Caligola né un Nerone (anche se glielo auguriamo in prospettiva di diventarlo, perché questi, se non altro, sono caldi ricordi scolastici di una lontana gioventù), questa ultima “indietro tutta” non riesce a renderlo popolare ed amato come quel simpatico ed anche geniale (e molto serio nel suo mestiere) comico che vestiva buffoneschi panni d’ammiraglio.

 

INTRODUZIONE ALLA GUERRA CIVILE, di Antonio de Martini

Tutti presi dagli aspetti formali della Batracomiomachia in corso stiamo trascurando quelli essenziali.

a) preservare la libertà
b) preservare il benessere
c) preservare l’Unità Nazionale

Fino a pochi anni fa e per troppi anni, abbiamo tollerato il regime democristiano e la sua corruttela perché , in fondo, era come Maradona coi napoletani.

“Con Maradona s’azzuppa ” dicevano i compaesani cui il campione permetteva di violare la legge sul “trademark” delle magliette che consentiva loro di cenare a latte e profumato con la fantasia.

Questo regime di preti in borghese ha gradatamente corrotto tutti cooptandoli al potere – impedendo quindi la nascita di alternative politiche democraticamente elette – prima i socialisti, poi i comunisti , infine i fascisti.

Nel frattempo, un numero crescente di italiani più consapevoli, si allontanava dalla politica e dal voto, dai risultati sempre più taroccati, mentre le distrazioni di massa fioccavano leggère.

Adesso che, per ragioni che andranno indagate dal controspionaggio, è nata una alternativa nuova che ha coagulato i fermenti ribellistici del Nord e del sud in una inedita “coalizione dei velleitari”, i padroni del vapore hanno perso il controllo dei nervi.

Gridano che non vogliamo l’Europa.
È falso, noi non vogliamo loro e in Europa vogliamo contare per quello che siamo veramente.

Preparano un altra “fake election” su un altro tema da guerra civile.

Intendiamoci, in questa crisi ministeriale Mattarella ha rispettato la forma, ma la sostanza del discorso ė che il sistema dei ladri che munge le mammelle dell’Italia da decenni, non vuole più spartire con nessuno.

La crisi economica e il controllo sociale hanno ridotto le disponibilità, le liti interne al PD, moltiplicato il numero di parti da fare, hanno sottovalutato Masaniello e sopravvalutato il cardinal Bassetti e i suoi belati tardivi.

Il sistema dei preti in borghese e in uniforme non vuole correre il rischio di un mutamento costituzionale che metta in forse anche il blindaggio del concordato con il Vaticano e vede il pericolo concretizzarsi a ogni giorno che passa.

Al rischio di perdere il potere e il denaro, preferiscono quello del conflitto civile.

Berlusconi che era sceso in politica ansioso di cambiare il mondo, adesso ha paura che cambi davvero e si offre insistentemente per difendere il palazzo che aveva aggredito – mi tornano a mente le parole del comunicato della vittoria- con orgogliosa sicurezza.

Hanno perso tutti la testa.

Il Presidente della Repubblica che scende nella polemica politica e si meraviglia che ” due partiti che si sono presentati divisi alle elezioni” ora provino a collaborare. Salvini che vuole imporsi pubblicamente al Presidente della Repubblica. de Maio che improvvisa “impeachement” in palcoscenico.

Il connubio tra avversari elettorali lo hanno fatto anche i suoi amici Merkel e Schultz in cinque mesi di trattative senza suscitare scandali ne critiche.
Il loro governo regge. Il suo cemento è l’interesse nazionale.

Mattarella si è anche presentato come un campione di tolleranza per aver accettato un candidato non eletto ( Conte) per poi presentare lui stesso un quidam de populo, tale Cottarelli da Velletri.
Finge di voler varare la finanziaria, ma punta a gestire le elezioni in proprio con un ” governo neutrale”. La scorsa settimana aveva detto pubblicamente che la neutralità non esiste….

Per impedire manifestazioni ” a caldo” dei 5 stelle, il PD ne ha già indetto una per il 1 giugno.
De Maio, ha risposto convocandola per il 2 giugno.

La conta delle presenze sarà da ridere, ma c’è da piangere: è già una prova generale di guerra civile.

Il tradimento della Costituzione italiana da parte di Sergio Mattarella c’è e coinvolge anche il suo predecessore Giorgio Napolitano e quel povero cretino di Ciampi. Ma vediamoli uno alla volta prima che muoiano e vengano santificati.

L’articolo 11 della Costituzione è stato violentato più volte e in entrambi i comma.
L’Italia nel ventennio scorso ha fatto più guerre che nel ventennio fascista ( Balcani, Afganistan Libia), tutte in posizione subordinata rispetto alle potenze straniere interessate e – nel caso balcanico e in quello libico- in stridente contrasto con gli interessi nazionali. I responsabili devono risponderne e Mattarella tra loro.

Napolitano ha obbedito al diktat straniero di cacciare Berlusconi nel 2011 e Mattarella oggi di rifiutare il nuovo governo giallo verde che personalmente considero velleitario e inadatto, ma che ha diritto di governare quanto la signorina Madia o Ignazio Larussa. Di certo, faranno meno danni.

Fingono di voler fare le elezioni, ma tra legge finanziaria, manovra di aggiustamento, nuova legge elettorale e, prassi – non si fanno contemporaneamente le elezioni europee e quelle italiane – se va bene se ne parlerà nell’autunno del 2019 previa “stabilizzazione” della situazione.

Le elezioni nazionali le vogliono fare all’insegna di EUROPA SI, EUROPA NO per deviare ancora una volta l’attenzione dai loro loschi affari.

UNA ALTRA RAGIONE DI MESSA IN STATO DI ACCUSA è il fatto di aver consentito che la RISERVA AUREA NAZIONALE, depositata presso la Banca d’Italia e da questa affidata fiduciariamente alle allora Banche d’interesse nazionale, sia stata ” dimenticata” lì quando le banche furono privatizzate e le si autorizzò – con protesta della BCE- ad iscriverle a patrimonio di queste ultime.
Una ennesima truffa anche ai danni della “caraeuropa”.
Cacciamo Mattarella e saremo rispettati dal mondo intero. Teniamocelo e finiremo come la Grecia.

 

 

Dalla mia Palla di Cristallo: Governo Ombra!, di Roberto Buffagni

Dalla mia Palla di Cristallo: Governo Ombra!

 

Stamani, in un fortunoso collegamento con il Regno Sovratemporale, tra le linee dei possibili ne ho scorto una molto interessante: il Governo Ombra.

Sarà legale il governo Mattarella – pardon, il governo Cottarelli? Certo che sarà legale, e dunque gli si dovrà tributare il rispetto e l’obbedienza che la legge impone. Non avrà la fiducia della maggioranza parlamentare, ma sono dettagli. E allora perché Lega e 5*, che saranno  all’opposizione anche se la maggioranza parlamentare ce l’hanno – ma, ripeto, sono dettagli – non riprendono un bella istituzione della più antica democrazia parlamentare del mondo, la britannica?

A Westminster, il Governo Ombra o Shadow Cabinet[1] consiste di un gruppo di rispettati portavoce dell’opposizione, i quali, guidati dal leader dell’Opposizione di Sua Maestà, formano un gabinetto dei ministri alternativo a quello in carica, i cui membri sono l’ombra o il riflesso speculare di ciascun membro del governo.

A Roma, avremmo il vantaggio che la lista dei ministri del Governo Ombra è già pronta, con il suo bel programma di governo già laboriosamente concordato tra i partiti. Purtroppo, il Governo Ombra italiano non potrebbe essere guidato dal prof. Conte, che non è un parlamentare. Ma potrebbero guidarlo, magari a turno, i due leader della maggioranza parlamentare, Salvini e Di Maio: e per ogni iniziativa del governo Mattarella – pardon, Cottarelli – proporre al parlamento e agli italiani una critica, e una controproposta costruttiva.

Certo, il Governo Ombra italiano non sarebbe identico allo Shadow Government britannico: perché nella Perfida Albione, c’è la radicata abitudine di far governare solo chi ha la maggioranza parlamentare, e di mettere all’opposizione chi non ce l’ha. D’altronde, negli ultimi 66 anni l’Inquilina di Buckingham Palace non risulta aver posto il veto su alcun ministro propostoLe dal premier, neanche quando il ministro era di fede repubblicana o socialista. L’attuale Inquilino del Quirinale, invece, sì: chissà, forse la residenza nell’antica sede del Papa Re, un monarca assoluto per diritto divino (anche se eletto), suggerisce interpretazioni più misticamente sfumate del proprio ruolo.

A me sembra una buona idea. Piuttosto che organizzare manifestazioni oceaniche che si risolvono in gigantesche scampagnate, magari funestate da qualche incidente che può inquietare gli italiani più prudenti e sedentari, perché non far vedere agli italiani che cosa avrebbe potuto fare il governo Lega – 5*? O meglio: che cosa potrebbe fare anche oggi, anche domani, se il Presidente della Repubblica italiana sobriamente si ispirasse all’esempio di Sua Maestà britannica Elisabetta II, regina per grazia di Dio del Regno Unito e dei quindici realms del Commonwealth, e Difensora della Fede?

Formare un Governo Ombra non impegnerebbe a una riedizione dell’alleanza Lega e 5*. Mentre il governo Mattarella – ahem, Cottarelli – resta in carica, il Governo Ombra si limiterebbe a presentare agli italiani un test su strada senza impegno di acquisto di quel che poteva essere ma chissà come non è il governo italiano. Gli italiani, parlamentari e cittadini, giudicherebbero con calma nel merito, e si farebbero un’idea: per esempio, potrebbero valutare serenamente se davvero il professor Paolo Savona è un pericoloso babau che mette in pericolo i loro risparmi, come si sostiene dalle parti del Quirinale, dei partiti di minoranza, di quasi tutti i giornali, della Cancelleria di Berlino e della Banca Centrale di Francoforte.

Nel frattempo, in attesa di nuove elezioni, liberi tutti i partiti, di maggioranza e minoranza, di ridiscutere programmi e alleanze: chi da dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, e con le immortali parole di Rossella O’Hara, domani è un altro giorno e via col vento.

Certo: il governo Mattare…- scusate: il Governo Cottarelli sarebbe il governo legale, mentre il Governo Ombra sarebbe legittimo. E’ un po’ imbarazzante, quando legalità e legittimità non coincidono: ma sono dettagli. In caso di dubbi e confusioni ci si può sempre rivolgere, per l’interpretazione autentica, al Presidente della Repubblica, che ha dimostrato di non esserne avaro.

That’s All, Folks.

[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Shadow_Cabinet

Che cos’è e come funziona il “Piano B” per l’uscita dall’euro,di Roberto Buffagni

 

Che cos’è e come funziona il “Piano B” per l’uscita dall’euro

 

Il piano B per l’uscita dall’euro funziona esattamente come la strategia du faible au fort elaborata dal generale Pierre Gallois su incarico di De Gaulle, che condusse alla costruzione della force de frappe nucleare francese. Semplificando: si tratta di una strategia difensiva e DISSUASIVA, che rende impervio il rapporto costi/benefici per l’aggressore, anche molto più forte, che volesse attaccare la Francia. In caso sia minacciato un interesse vitale della nazione, essa dispone di un’arma che può causare danni politicamente insostenibili all’aggressore. Lo scopo della strategia du faible au fort è dissuasivo, vale a dire che è rivolto a EVITARE il conflitto, prevenendolo. Logicamente, perché la deterrenza e la dissuasione si verifichino è indispensabile che a) tutti sappiano che la force de frappe nucleare esiste sul serio b) tutti sappiano che il responsabile politico, in questo caso il Presidente francese, ha il potere e la volontà di usarla in caso di necessità.

Il “piano B” per l’uscita unilaterale dall’euro funziona allo stesso identico modo. Averlo rappresenta certamente una minaccia per l’avversario, e quindi non istituisce con lui un rapporto di amichevole cordialità. Non ha senso averlo clandestinamente, a meno che il piano B non sia in effetti il piano A, cioè a meno che non si sia deciso in via preliminare che qualsiasi trattativa è inutile e controproducente, e dunque non si voglia senz’altro uscire dall’euro nei tempi più brevi possibili e nel modo più netto e brutale compatibile con le esigenze operative. Chi ha chiesto al prof. Savona di abiurare pubblicamente ogni ipotesi di “piano B” gli ha chiesto, magari senza accorgersene, di rinunciare a ogni alternativa tranne a) nelle trattative con la Ue, non chiedere nulla più che briciole octroyèes b) uscire unilateralmente senza trattativa alcuna (o solo fingendo di trattare in attesa dell’ora X).

Un  “piano B” pubblicamente annunciato rappresenta dunque un elemento decisivo e DISSUASIVO essenziale in ogni progetto inteso a una modifica NON COSMETICA E NON TRAUMATICA dei rapporti tra uno Stato membro dell’eurozona e la UE. Paradossalmente  – ma la strategia si fonda su paradossi sin da quando la saggezza romana sentenziò “si vis pacem para bellum” –  la possibilità di una trattativa, aspra quanto si voglia, ma con possibilità concrete di giungere a un compromesso accettabile per tutte le parti, si fonda proprio sulla presenza effettuale e a tutti nota del “piano B”, che né a caso né a torto anche il linguaggio giornalistico chiama “opzione nucleare”.

In rapporto alla UE, l’Italia si trova nella situazione in cui si trovarono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi in rapporto agli USA. Lusingandoli con promesse, minacce e prebende, gli USA persuasero i due oggi defunti Capi di Stato a rinunciare ai propri programmi nucleari, e persino ai loro arsenali di “bombe atomiche dei poveri”, le armi biologiche. Il ragionamento proposto dagli USA fu, terra terra: “Se non rinunciate ai vostri programmi di dissuasione militare, escalate il conflitto, e dato che noi siamo infinitamente più forti, non vi conviene”. S’è visto com’è finita. Se Gheddafi e Saddam non ci fossero cascati, oggi si troverebbero nella situazione del dittatore Nord Coreano, certo non invidiabile ma direi migliore della morte per impiccagione o per linciaggio.

Esemplare, nel contesto UE, il caso di Tsipras, non defunto fisicamente ma zombificato politicamente. Egli fu incastrato da due fattori: 1) NON aveva il piano B (e anzi nel Ministero dell’Economia c’era fior di gente che lavorava proUE dietro alle spalle di Varoufakis) 2) Pensava che la trattativa con la UE avrebbe avuto migliori prospettive NON avendo il piano B, appunto perché  averlo costituisce una minaccia che escala il conflitto. Come si vede, si sbagliava.

That’s all, folks: stiamo in campana.

POT POURRI PRESIDENZIALI, di Antonio de Martini e Roberto Buffagni

ROBERTO BUFFAGNI

Mattarella e chi lo consiglia non hanno capito la cosa essenziale: che il ferro di legno Ue funziona solo se nessuno lo sottopone mai a esame chimico (“E’ ferro? E’ legno? Che caspita è?”). E invece di stendere il mantello di Noè sulle vergogne del Padre Euro, questa moneta senza Stato di uno Stato che fa finta di esistere e per trent’anni aveva dignitosamente retto l’onerosa impostura, il Presidente della Repubblica (quale? italiana? europea? francofortese?dell’Isola Che Non C’è?) ha illuminato con un riflettore da tremila il Re, e, sorpresa! Il Re non è neanche nudo (per essere nudi bisogna esistere), il Re proprio non esiste! Non ha lo scettro del comando, perchè può dire solo di no; non ha la corona, perchè nessuno l’ha incoronato; non ha la giustizia, perchè dove sono i suoi magistrati, dove la sua polizia, dove le sue prigioni, dove il suo codice europeo; non ha la forza, perchè dov’è il suo esercito? Il Re UE è il Re del Regno di Domani, il Domani In Cui Si Fa Credito (ma oggi solo Debito), il Domani in cui Alle Menschen Werden Bruder (ma intanto vengono trattati come cosi superflui, pagati da schifo, sbeffeggiati da signorini che gli fanno anche la morale).
Nei primi tempi beati della rivoluzione sansa larmes, in servizio d’ordine alle Tuileries, il tenente Bonaparte guardava il povero Luigi XVI, che sul balcone, salutato dalla folla osannante, sorrideva e calzava il berretto frigio. Il tenente Bonaparte commentò, in italiano: “Che coglione!”

 

ANTONIO de MARTINI

SEGRETI E SEGRETARI, UCCELLI RARI.

“Assegnare alla BCE le funzioni svolte dalle principali banche centrali del mondo per perseguire il duplice obiettivo della stabilità”

Paolo Savona oggi alle 13.32 ( vedi post precedente)

Attualmente la Banca Centrale Europea ha come unica missione quella di mantenere stabili i prezzi.
Dire ” assegnare le funzioni che hanno le principali banche centrali del mondo” significa attribuire alla BCE il potere di manovrare la moneta ( leggi svalutare) oltre che di sorvegliare i prezzi, funzione unica a cui è ingabbiata oggi.

Ovvio che la dichiarazione, incautamente fatta dai nuovi capi, di 250 miliardi di sconto significava chiedere una svalutazione del 10% dell’Euro che avrebbe alleggerito e riequilibrato il debito e svalutati i crediti di Francia e Germania verso Italia, Grecia e tutti gli altri paesi della UE. Il dollaro si sarebbe rafforzato…

Sarebbe bastato cambiare un solo articolo dello Statuto della BCE senza stravolgere i trattati.
Probabilmente Draghi sarebbe stato dalla sua parte.

Ovvio che tedeschi e francesi si siano infuriati. Macron ha telefonato a Conte per conferma, magari indiretta, e il coglione ha fatto chicchiricchì.

L’arte del governo richiede negoziati silenti e non fornire preziose anteprime agli interessati.

La fica in mano ai ragazzini dicono a Napoli.
Di Maio, quasi napoletano, avrebbe dovuto ricordarsene, se non fosse un ragazzino.

Bertoldo-Salvini ha invece indicato l’albero cui essere impiccato. Altra bambinata.
Conte si accontenterà di mettere nel curriculum ” ex primo ministro”.

A F…. ‘N MANO ‘E CRIATURE

Ma se nominassero ministro dell’Economia Teresina dei Baracconi, questa prenderebbe Savona come vice capo di gabinetto e realizzerebbe i lavori mentre Teresina resta ai Baracconi per godersi le ferie.

Quindi il problema non sono le idee di Savona.

Hanno fatto giocare i ragazzini per evitare le elezioni a breve termine e far decantare la situazione. Hanno fatto i capricci, come previsto, e faranno saltare tutto.

La scusa ufficiale di stasera è surreale.

Il Presidente della Repubblica teme che i partiti realizzino quel che avevano promesso di fare in campagna elettorale.

Intanto rinnovano i vertici RAI – blindano il controllo- e le elezioni nazionali si faranno dopo le elezioni europee del 2019. Forse.

IL SOLO MARGINE CHE RESTA È CHIEDERE L’INCARICO PER SAVONA.

TARANTO, DA POLO SIDERURGICO A POLO STRATEGICO DELLA NATO, DI LUIGI LONGO

Qui sotto un saggio di Luigi Longo sugli interessi geopolitici che in qualche maniera stanno contribuendo a determinare, in maniera determinante, assieme al conflitto intracomunitario sulla ripartizione delle quote di produzione di acciaio, il destino infausto dello stabilimento ILVA di Taranto. Il testo è apparso nel 2013 su www.conflittiestrategie.com, sito con il quale sia lo scrivente che l’autore collaboravano.Giuseppe Germinario

Taranto, da polo siderurgico a polo strategico della NATO

di Luigi Longo

 

 

Quando si giunge ai beni della terra, allora

                                                                       il bene più grande si nomina inganno e pazzia.

                                                                       Quelle passioni alte che ci hanno dato la vita,

                                                                       di pietra si fanno nel caos del mondo.[…]

\                   Johann Wolfgang Goethe*

 

Colui che disse che la vita dell’uomo è una guerra,

                                                           disse almeno tanto gran verità nel senso profano

                                                           quanto nel sacro. Tutti noi combattiamo l’uno

                                                           contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato,

                                                           senza tregua, senza patto, senza quartiere. Ciascuno

                                                           è nemico di ciascuno, e dalla sua parte non ha altri che

                                                           se stesso.[…] Del resto o vinto o vincitore, non bisogna

                                                           stancarsi mai di combattere, e lottare, e insultare e calpestare

                                                           chiunque ci ceda anche per un momento. Il mondo è

                                                           fatto così, e non come ce lo dipingevano a noi poveri

                                                           fanciulli.[…]

.                                                                                                                      Giacomo Leopardi*

 

Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in

                                                           generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che

                                                           accadrà […]. La situazione politica in Italia è grave ma

                                                           non è seria[…].

Ennio Flaiano*

 

 

1.Il conflitto strategico all’Ilva di Taranto.Nel mio precedente scritto sulla questione dell’Ilva di Taranto ho avanzato l’ipotesi della trasformazione di questo polo siderurgico in polo strategico della NATO (1). Oggi, con il commissariamento dell’Ilva, questa ipotesi diventa più fondata, soprattutto se analizziamo le seguenti fasi: a) il decreto di commissariamento ( nomina di Enrico Bondi a commissario straordinario e di Edo Ronchi a sub commissario per la tutela ambientale ); b) il programma di intervento finalizzato nei fatti alla chimera della bonifica ambientale e della tutela della salute degli operai e della popolazione; c) la configurazione di blocchi di potere economico-portuale ( uso e riuso del porto ), economico-ambientale ( bonifica e risanamento ) e economico-territoriale ( rigenerazione urbana e nuovo ruolo della città ); d) la trasformazione, di fatto, a comando NATO della seconda base navale nel Mar Grande ( ubicata nella zona “Chiapparo”) e la costruzione della terza base navale NATO nel Mar Grande ( localizzata nel molo polisettoriale vicino al Molo Ovest del porto utilizzato dall’Ilva) (2); e) la nuova strategia USA nel mediterraneo ( soprattutto nei paesi del Nord Africa) e nel Medio Oriente (soprattutto in Siria e Iran).

La nuova strategia USA, che fa riferimento a Barak Obama e agli agenti dominanti che lo esprimono, assegna un ruolo importante all’Italia considerata uno spazio geografico asservito con infrastrutture militari strategiche ( armi e sistemi di comunicazioni), ovviamente, per questioni di sicurezza legate all’Europa, al Medio Oriente e all’Africa e già mai per costruire con tutta l’Europa [si veda il costruendo accordo di libero scambio USA-UE ( la NATO economica)] << la testa di ponte americana sul continente euroasiatico >> (Zbigniew Brzezinski) per l’accerchiamento militare della Russia (una potenza ri-emergente), temuta sopratutto per il suo arsenale militare nucleare (3), nella fase multipolare lagrassiana che si sta facendo sempre più vivace e incalzante.

Si può affermare che la nuova strategia USA di ri-orientamento, dopo il tramonto della illusione di essere diventata l’unico centro di ordine mondiale a seguito dell’implosione dell’ex URSS ( 2001-2003, la sconfitta del Nuovo ordine mondiale o del secondo secolo americano), porta a un conflitto per l’egemonia mondiale che può sfociare in un dominio meno unilaterale ( un assestamento della fase multipolare) o in una guerra mondiale ( fase policentrica) come la storia dimostra (4).

Gianfranco La Grassa sostiene che << Si deve partire dalla configurazione che sono andati assumendo i rapporti internazionali nella nostra area, e in quella vicina africana e mediorientale, per meglio valutare che cosa stia accadendo in Italia. Sembra di poter constatare che il mutamento strategico statunitense, precisatosi soprattutto negli ultimi anni, ha ormai bisogno di accelerare date trasformazioni nella subordinazione italiana >> (5); Gianfranco La Grassa ha ragione, soprattutto in considerazione del fatto che << Le strutture statunitensi in Italia permettono una capacita’ di azione unica e sono fondamentali per la nostra possibilità di promuovere la stabilita’ nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Abbiamo quindicimila uomini nelle sei basi italiane e questi insediamenti presentano alcune delle nostre più avanzate risorse schierate fuori dagli Stati Uniti [ corsivo mio] >> (6).

I segnali della suddetta accelerazione sono: 1) lo «Strategic Dialogue», una revisione complessiva della collaborazione tra Italia e Stati Uniti, che non avveniva da circa due anni, si è tenuta di recente a Roma. L’invito viene da Derek Chollet, Assistant Secretary of Defense for International Security Affairs, ossia il principale consigliere del capo del Pentagono Hagel per le questioni di sicurezza legate all’Europa, al Medio Oriente e all’Africa, che così afferma << Discutere il nostro rapporto strategico e le cose che possiamo fare insieme nel mondo. E’ un appuntamento che arriva in un momento cruciale: il quadro della sicurezza nella regione mediorientale e nordafricana sta cambiando velocemente, e l’Italia è un partner indispensabile per portare cambiamenti positivi ( corsivo mio)…L’Italia è un partner molto stretto su questa vicenda. Ha ospitato almeno un incontro degli Amici della Siria, i segretari Kerry e Panetta sono venuti da voi a parlare in varie occasioni. State dando un contributo importante con l’assistenza umanitaria, lavorando con paesi tipo la Giordania per rafforzare le loro difese, e aiutando a costruire un’opposizione coerente e capace di favorire i cambiamenti che vorremmo vedere in Siria [ corsivo mio] >> (7); 2) la nomina del nuovo ambasciatore USA in Italia, John Phillips e, soprattutto, la presenza della moglie Linda Douglass, ex portavoce della Casa Bianca sulla riforma della Sanità e una delle più quotate strateghe di Barak Obama, i quali aiuteranno il Presidente della Repubblica che garantisce la costituzione italiana fondata sulla sovranità popolare e non sulla servitù volontaria, a mettere ordine tra gli agenti sub-dominati italiani ( i cotonieri di Gianfranco La Grassa) in modo da gestire, senza eccesso di disordine, attraverso le istituzioni, l’asservimento del territorio italiano alla strategia degli agenti dominanti USA, in una fase molto delicata e in continua mutazione, soprattutto, come indica Derek Chollet, nella regione mediorientale e nordafricana (8).

Leggerò i fatti di Taranto secondo lo schema proposto per il conflitto strategico dell’Ilva.

2.Le città NATO. La città di Taranto è diventata una città importante per la strategia USA-NATO. Una città NATO. Gli agenti dominanti USA hanno bisogno della piena disponibilità del porto di Taranto (9), con i suoi Mar Piccolo e Mar Grande, per le loro infrastrutture militari strategiche ( sommergibili nucleari, armi, sistemi di sorveglianza). E’ da un decennio ( il tempo non è da leggere in maniera lineare e deterministico) che stanno lavorando a questa trasformazione che si innerva con quelle trasformazioni messe in atto in altre basi militari USA-NATO ( Napoli, Sigonella, Niscemi, Vicenza) e alla trasformazione del ruolo della NATO (10).

Nel porto di Taranto è localizzata, dalla prima metà degli anni sessanta del secolo scorso, l’Ilva che è evidentemente incompatibile con la strategia della trasformazione delle basi NATO.

Noto una certa analogia, da prendere con cautela e calarla storicamente, con la storia industriale della più grande acciaieria di Napoli, l’Ilva di Bagnoli. Anche qui gli obiettivi erano le esigenze strategiche e territoriali della base NATO della città di Napoli ( quartier generale della NATO, sede di vari comandi di unità di servizi USA, grande centro per le telecomunicazioni del Mediterraneo dell’US Navy che coordina tutta l’attività di comunicazione, comando e controllo del Mediterraneo, eccetera). In quegli anni si svolgevano fatti di importanza mondiale per il nuovo equilibrio che si andava configurando con la caduta del muro di Berlino e con la successiva implosione dell’ex URSS. Si aprivano nuovi scenari per gli USA come possibilità di un unico centro di coordinamento mondiale e un nuovo ruolo della NATO. La chiusura dell’Ilva di Napoli per le esigenze territoriali della base del quartiere generale della NATO non poteva essere detta. Tutto fu velato dietro un fumoso progetto per il risanamento e il rilancio dello sviluppo della città di Napoli che passava attraverso il conflitto tra i settori economici (industriale, edilizio, turistico) : il progetto Fiat-Partecipazioni Statali degli anni ’80, l’idea della NeoNapoli di Paolo Cirino Pomicino, la fase di Tangentopoli, le lotte di blocchi di potere per i finanziamenti della bonifica di Bagnoli, non realizzata ( dal 2003 sono stati presentati ben 6 progetti di bonifica), gli indirizzi per la pianificazione urbanistica ( impianti di eccellenza per il turismo legato al sistema congressuale alberghiero, grande parco pubblico, rete di attività produttive connesse con la ricerca scientifica, eccetera).

L’Ilva di Bagnoli, una impresa in piena salute, fu chiusa e venduta ai cinesi (11).

Un sindaco, Antonio Bassolino, e un urbanista, Vezio De Lucia (i nomi sono l’espressione di gruppi di potere in riferimento agli agenti sub-dominanti), gestirono la fase di velamento culturale e ideologico della grande trasformazione della città di Napoli.

Anche qui occorse un decennio per preparare la trasformazione.

 

3.Il ruolo della magistratura. L’inizio della fine ( che avrà i suoi tempi) dell’Ilva di Taranto è datato dall’azione della magistratura che il 26 luglio 2012 dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva. L’azione è intrapresa per tutelare, con mezzo secolo di ritardo, i sacri principi costituzionali di tutela della salute dei lavoratori, della popolazione e del territorio. E’ logico pensare, considerato che la magistratura agisce sull’intero territorio nazionale, che tutti i poli siderurgici e petrolchimici abbiano lo stesso interessamento, se così non fosse rimarrebbe sempre la domanda in sospeso: perché l’Ilva di Taranto?.

Se dovessimo tutelare i suddetti sacri principi costituzionali (12) dovremmo chiudere qualsiasi impresa di produzione di merce, ma a questo punto non saremmo più nella società capitalistica. E non credo che la magistratura pensasse ad un’altra società. Infatti la sua azione sembra quella di difendere i sacri principi costituzionali elevandoli su un edificio sociale costruito con fondamenta di ingiustizie, di sperequazioni, di privilegi, di inganni, di ruberie, di pazzie e di guerre.

Giorgio Nebbia, che è un noto merceologo, ha scritto di recente che <<… la produzione dell’acciaio, come di qualsiasi altra merce, è accompagnata, inevitabilmente [corsivo mio], da scorie, rifiuti e nocività: la natura non dà niente gratis [ lui essendo un merceologo si ferma alla natura e non pensa ai rapporti sociali che determinano la forma, lo sviluppo della produzione e l’uso della natura, mia critica] >> (13). Ha sostenuto un grande medico e scienziato, Giulio Maccacaro, che << …c’è un solo MAC [Massima Concentrazione Accettabile di una sostanza, mia precisazione] accettabile ed è quello zero…>> (14). Nella società a modo di produzione capitalistico non esiste un processo produttivo a MAC zero.

La magistratura sa che non ci sono le risorse finanziare per risanare e bonificare il territorio, ammesso e non concesso che ciò sia possibile!, e per questo dà la caccia al tesoro finanziario della famiglia Riva la quale metterà in campo, visto il potere che le deriva dal condurre un’impresa di livello mondiale ( il gruppo Riva nel 2011 è il primo nel settore in Italia, quarto in Europa e ventitreesimo nel mondo), tutte le sue relazioni economiche, politiche, finanziarie, istituzionali ( la grande impresa non è solo ciclo economico), per contrastare il sequestro delle sue risorse finanziarie.

La storia economica reale dei poli siderurgici e petrolchimici dimostra che c’è la privatizzazione dei benefici e la socializzazione delle perdite ( umane, ambientali e territoriali).

Le risorse finanziarie che la magistratura intende confiscare alla famiglia Riva, tramite la capogruppo Riva Fire (15), sono pari a 8 miliardi e 100 milioni di euro. La somma stabilita equivale, secondo la magistratura, ad << …un indebito vantaggio economico all’Ilva ai danni della popolazione e dell’ambiente >> e sarebbero destinate agli interventi di risanamento e bonifica territoriale. Dalle risorse finanziarie da confiscare sono esclusi i costi per la bonifica di acqua e suolo ai parchi minerali, oltre al profitto necessario per continuare la produzione. E’ evidente che con queste condizioni l’impresa Ilva non è in grado di pianificare il piano industriale 2013-2018. Ed è evidente che il peso per contrattare a livello europeo, in una fase competitiva sempre più agguerrita [ francesi, tedeschi e turchi stanno già beneficiando della crisi dell’ILVA](16), gli aiuti del piano siderurgico predisposto dalla Commissione Europea sarà pari a zero, per non parlare del ruolo, nella sostanza assente, dello Stato italiano. Ricordo che l’Ilva è stata decapitata del gruppo dirigente strategico e tecnico.

A Napoli fu la sfera economica, intrecciata alla sfera ideologica, la teste di ariete per la base NATO, a Taranto è la sfera della magistratura, innervata alla sfera ideologica, ad essere la testa di ariete della NATO.

 

4.Il ruolo del governo. L’Ilva, è utile ricordarlo, è una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, che produce acciaio, una merce base dell’economia italiana e mondiale. E’ un’impresa strategica per l’economia italiana. Ha una occupazione diretta di circa 12 mila lavoratori, a cui deve aggiungersi un indotto strettamente collegato sul piano verticale che porta l’occupazione diretta a oltre 15 mila unità. A questo dato devono sommarsi 9.200 unità legate all’indotto, per un totale complessivo di occupazione pari a oltre 24 mila occupati (17).

L’intervento del governo si concentra in tre direzioni: a) l’esproprio di una grande impresa (con la beffa del richiamo agli articoli 32, 41 e 43 della Costituzione, mai vista nella storia dell’industria italiana); b) la bonifica dell’ambiente, la tutela della salute e la salvaguardia del territorio; c) l’applicazione dell’ AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) al processo produttivo dell’Ilva, anticipata e integrata con le migliori tecnologie disponibili da impiegare nel settore della siderurgia a livello europeo per assicurare la protezione dell’ambiente e la protezione della salute così come da decisione della Commissione Europea 2012/135/UE ( la Commissione Europea dà tempo fino 2016 per uniformarsi).

La domanda viene spontanea: perché anticipare di tre anni il recepimento della suddetta decisione della Commissione UE creando uno squilibrio nel mercato della concorrenza tra le imprese del settore siderurgico ( scusate il linguaggio neoclassico)? E il recepimento della suddetta decisione della Commissione Europea nell’AIA non significa non rendere competitiva l’Ilva e avviarla alla chiusura?. E’ questo il modo di difendere un’industria strategica da parte del governo italiano?

Andiamo avanti nel ragionamento.

Tutto questo, ovviamente, avverrà di pari passo con la elaborazione del piano industriale per il rilancio dell’Ilva e del piano ambientale per la tutela del territorio ( città, mare e territorio rurale) e della salute dei lavoratori e della popolazione.

Così ragiona il ministro dello sviluppo economico Flavio Zanonato: << Il costo di un’eventuale chiusura dell’impianto avrebbe conseguenze negative gravi sul piano economico e, comunque, determinerebbe il consolidamento di una situazione che, secondo i magistrati di Taranto, è da considerarsi di disastro ambientale. L’impatto economico negativo è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui, imputabili per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato. In una fase di calo globale del mercato, è evidente che l’eventuale uscita dello stabilimento di Taranto sarebbe guardata con estrema soddisfazione dai maggiori competitor europei e mondiali, che vedrebbero aumentare le proprie prospettive di mercato a tutto danno del sistema produttivo italiano. Anche un’eventuale vendita ad operatori internazionali esporrebbe il nostro Paese al rischio di un forte impoverimento della capacità tecnologica e di innovazione. L’importanza strategica di questo complesso industriale non può, però, far venir meno gli obblighi di tutela ambientale da cui dipende la qualità della vita dei cittadini di Taranto. La crescita economica e la salvaguardia della salute non sono, in particolare in questo caso, due diritti contrapposti e la prima non si può certo perseguire facendo soccombere la seconda [ corsivo mio]. Il Governo, quindi, tende ad adottare tutte le azioni utili a tutelare l’ambiente e la vivibilità della città di Taranto nella consapevolezza che un’interruzione della produzione peggiorerebbe ulteriormente la situazione rendendo impossibile la bonifica dei siti inquinati. La sopravvivenza dello stabilimento è, oggi, dunque, legata alla capacità dell’azienda di mettere in atto gli investimenti necessari a rendere compatibile l’impianto con le norme ambientali e di sicurezza sulla salute dei cittadini  [ corsivo mio]>> (18).

La priorità del governo nella questione Ilva è tutta incentrata sulla questione ambientale, sulla tutela della salute e sul risanamento della città. Basta avere la pazienza di leggere i dibattiti parlamentari, gli atti delle Commissioni Parlamentari (VIII e X), i decreti legge, i disegni di legge di conversione dei decreti, per rendersene conto direttamente. Anche il Vice presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, privilegia l’aspetto ambientale della questione Ilva anche perché nel piano siderurgico dell’Unione Europea, che illustra uno scenario di grande crisi, non c’è spazio per una grande impresa come l’Ilva, tra l’altro impossibilitata ad agire perchè in fase di esproprio temporaneo, e le condizioni di rilancio del settore siderurgico previste nel suddetto piano necessitano di una forte presenza dello Stato che abbia un minimo di strategia di politica economica sovrana e che sappia difendere le sue industrie strategiche e, in una logica di sviluppo economico, sappia ridurre i costi eccessivi dell’energia che <<… pesa fino al 40% sui costi di produzione di un impianto siderurgico, per cui il settore risente fortemente del trend dei costi energetici che, in Europa, sono tra i più alti al mondo >> e rilanciare i due settori di maggior consumo di acciaio (le costruzioni e la produzione di auto) così come fanno la Germania e la Francia (19).

L’Unione Europea sta indagando sull’Ilva di Taranto e vuole sapere dal Governo italiano, dalla regione Puglia e dall’Arpa/Puglia, come si sta combattendo l’inquinamento, come si gestiscono le discariche, i rifiuti e le acque reflue. Chiede inoltre di sapere se sono stati violati il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare (articolo 2 e 7 della Carta dei diritti fondamentali della UE) (20).

Il governo italiano sta chiudendo tutte le imprese strategiche appartenenti ai settori innovativi ( inutile fare l’elenco); è in forte crisi anche il tanto lodato e non strategico made in Italy; la Banca d’Italia è preoccupata per la tenuta dell’intero sistema industriale (si vedano gli ultimi bollettini economici della Banca d’Italia). Stiamo in una crisi profonda di portata epocale per la quale l’80% della popolazione non vive bene.

A chi pensate che la UE taglierà la produzione, per ridurre la propria sovraccapacità, che ammonta a 80 milioni e rappresenta oltre 1/3 della produzione complessiva ?

Il governo italiano, mentre chiude le sue imprese strategiche, per assecondare gli agenti strategici americani, con grandi perdite nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche, diventando sempre più un territorio dove << i gabinetti stranieri [sono] a decidere la sorte della nazione >> , decide per decreto (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207) di trasformare l’Ilva in impresa strategica ed espropriarla per affidarla alla gestione pubblica per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Come se i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, fossero luoghi dove si espleta la politica dell’interesse generale del Paese e non invece, luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici ( pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio (21).

Non solo, ma la difesa ambientale e la salute delle popolazioni, per cui è stata espropriata l’Ilva, è ideologica ( nell’accezione negativa del termine) e strumentale da parte del governo italiano, tant’è che all’articolo 41, comma 1, del decreto legge n.69/2013[ il cosiddetto decreto del fare (sic)], si legge  <<…nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile…>>. E’ ovvio che l’economicamente sostenibile si riferisce alle imprese. E, allora, i tanto decantati articoli 41 e 43 della Costituzione italiana si applicano soltanto all’Ilva? Se interpreto bene il citato articolo, mi ritorna di nuovo la domanda: perché L’Ilva? E i giuslavoristi, i costituzionalisti, i difensori estremi della Costituzione non hanno niente da dire sulla incostituzionalità del citato comma?

Se fosse vivente il grande storico Carlo Maria Cipolla certamente avrebbe aggiornato il suo magnifico saggio ( Allegro ma non troppo) sulle leggi fondamentali della stupidità umana.

5.Il ruolo dei Commissari. Per realizzare questo grande disegno di rilancio dell’Ilva e di risanamento ambientale e territoriale vengono nominati un Commissario Straordinario, nella persona di Enrico Bondi, già amministratore delegato dell’Ilva nominato dalla famiglia Riva, e un sub Commissario all’ambiente nella persona di Edo Ronchi ( un confusionario della generazione “sessantottopersa” nel distorto benessere capitalistico, che ha scambiato una rivoluzione di costume e di consumo per una rivoluzione sociale nell’accezione marxiana e leniniana, esperto di sviluppo sostenibile, stimato dagli ambientalisti e dai radicali di sinistra, in quota nel PD). Entrambi traghetteranno, in un continuo gioco delle parti, se le cose dette hanno un minimo di sensatezza, l’Ilva alla chiusura. Sono gli esecutori, insieme ai loro gruppi di potere, degli ordini degli agenti strategici sub dominanti italiani alla mercè dei desiderata dei predominanti USA via NATO. A ciò è servito l’applicazione del citato artico 1 del D.L. n.207/2012, altro che interesse pubblico o interesse generale o bene del Paese.

Enrico Bondi, con il suo gruppo di potere di riferimento, medierà con la proprietà una chiusura dignitosa dal punto di vista economico-finanziario magari aiutando l’Ilva a de-localizzare nei Balcani.

Edo Ronchi, con il suo gruppo di potere di riferimento, lavorerà ad un grande piano di risanamento dell’ambiente, della città e del territorio rendendo << … gli stabilimenti Ilva un punto di riferimento in Europa, anticipando di tre anni le migliori tecnologie disponibili (Best Available Technologies, BAT) che saranno applicate in ambito europeo a partire dal 2016. Nella consapevolezza di una situazione di assoluta emergenza, il Governo intende tuttavia giungere alla realizzazione dello stabilimento più avanzato in Europa in termini di compatibilità ambientale…>> (22).

La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo) (23), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO.

I sindacati, i partiti convergeranno, per gestire la fase di passaggio dal polo siderurgico al polo NATO, le loro azioni per difendere il lavoro (intanto ci saranno a luglio i primi 2 mila esuberi per crisi di mercato) (24) e la dignità della popolazione con i meccanismi di difesa sociale, ridotti all’osso, del fu stato sociale.

I lavoratori e le lavoratrici si chiederanno, come Vincenzo Buonocore dell’Ilva di Bagnoli, perché l’Ilva è stata chiusa ?

La popolazione di Taranto continuerà a credere che nella società capitalistica è possibile un modo di produzione rispettoso della salute, dell’ambiente e del territorio e dorme tranquilla perché sa che ha come Presidente della Repubblica un garante intransigente della Costituzione italiana.

La sfera ideologica è già al lavoro.

Non è la marxiana storia che si ripete diventando farsa, ma è la lagrassiana storia che torna in maniera diversa.

 

 

*Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:

 

  • Johann Wolfang Goethe, Faust, a cura di Franco Fortini, Mondadori, Milano, 1970, pag.53;
  • Giacomo Leopardi, Con pieno spargimento di cuore, L’Orma editore, 2012,pp.43-44;
  • Ennio Flaiano, Diario notturno, Adelphi, Milano, 2012, pp. 114 e 165.

 

 

NOTE

 

1.In Italia esistono ufficialmente 120 basi dichiarate, oltre a 20 basi militari USA totalmente segrete e ad un numero variabile ( al momento sono una sessantina) di insediamenti militari o semplicemente residenziali con la presenza di militari USA. Per quanto riguarda le basi segrete, non si sa ovviamente dove siano, né che armi e che mezzi vi si trovino. Cfr Le basi militari Usa e Nato in Italia in www.neoingegneria.com

2.La prima base navale della Marina Militare Italiana è ubicata nel Mar Piccolo. Il Mar Piccolo è un’area militarizzata se consideriamo la presenza dell’Aeronautica Militare con un deposito sotterraneo di rifornimento più grande del Sud- Italia. Oltre ad infrastrutture e servitù militari. Il Mar Grande è lo specchio d’acqua della parte settentrionale del Golfo di Taranto ( con profondità massima di 36 m), compreso tra il continente e le isole Cheradi; comunica con il Mar Piccolo per mezzo di due canali, che isolano il centro storico di Taranto. Il Mar Piccolo è lo specchio d’acqua delle coste pugliesi ( 20 Km2, perimetro 26,5 Km), che comunica con il Golfo per mezzo di due canali stretti, uno naturale, l’altro artificiale e navigabile; è diviso in due bacini dalla penisola di Punta Penna ed è poco profondo (10 m). Numerose sorgenti subacquee (citri) rendono l’acqua meno salata rispetto al mare aperto, creando condizioni favorevoli per la mitilicoltura.

3.Peter Dale Scott, Droga, petrolio e guerra in www.eurasia-rivista.org , luglio 2013.

4.Per approfondimenti si rimanda a Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008; Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010; Henry Kissinger, Cina, Mondadori, Milano, 2011.

5.Gianfranco La Grassa, Situazione pericolosa e instabile inwww.conflittiestrategie.it, giugno 2013.

6.Si rimanda al Rapporto del 2009, redatto dall’incaricata d’affari dell’ambasciata USA Elizabeth Dibble per Barak Obama, pubblicato a cura di Giuseppe Germinario in www.conflittiestrategie.it, 2013.

7.Paolo Mastrolilli, L’Italia è decisiva in Siria per costruire l’opposizione, intervista a Derek Chollet, in La Stampa del 22 giugno 2013.

8.Negli USA i diplomatici importanti, come Thomas Pickering ambasciatore in Russia, India, Israele, hanno criticato Barak Obama perché ha affidato le migliori ambasciate agli uomini che hanno abbondantemente finanziato la sua campagna elettorale. Beh, che si aspettavano? Fa parte del gioco della lotta tra agenti dominanti con orientamenti e strategie diverse. Ma il problema non è solo semplicemente utilitaristico, Barak Obama sta mettendo uomini e donne fidati e “capaci” nelle nazioni importanti per la sua strategia. L’Italia è una nazione-territorio importante. Per la cronaca John Phillips e Linda Douglass sono proprietari del borgo Finocchieto vicino a Buonconvento in provincia di Siena (Toscana). Hanno deciso di gestire direttamente il proprio giardino perché non si fidano dei giardinieri italiani. Sta finendo anche il nostro made in Italy di nazione-giardino più bella del mondo!

9.Lo smantellamento, nel breve-medio periodo, della storica impresa dell’Arsenale della Marina Militare Italiana, con perdita di 1.200 posti di lavoro, il trasferimento del 70% dei traffici al porto Pireo (Atene) dei due giganti asiatici del trasporto marittimo, la taiwanese Evergreen Maritime Corporation e la cinese Hutchison Whampoa che controllano al 90% la società terminalistica dello scalo pugliese ( la Taranto Container Terminal), rientra nella logica della piena disponibilità del porto di Taranto alla Nato. Infatti nella strategia Usa-Nato è prevista la messa in comune di spazi e infrastrutture militari e civili localizzati per aree europee per superare le difficoltà connesse a) alle installazioni militari, b) al controllo del territorio, c) alla contribuzione finanziaria dei paesi Nato, d) al coordinamento delle politiche di difesa, e) alla prevenzione dei conflitti, f) al sostegno della ricostruzione post-conflitto delle aree di intervento, g) alle strategie di integrazione della ricostruzione economica e istituzionale, h) alla militarizzazione delle grandi città.

10.Sulla trasformazione del ruolo della Nato mi permetto di rinviare al mio scritto “Tav, corridoio V, Nato e Usa. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico” in www.conflittiestrategie.it, 2012.

11.L’Ilva di Bagnoli contava a partire dal 1973 più di 7698 posti di lavoro. Fu chiusa nel 1991. Si veda il romanzo industriale di Ermanno Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano, 2002; per una ricostruzione della mancata bonifica dell’area dell’Ilva si rimanda a Dario Del Porto, Napoli, sequestrata area ex Italsider. La procura: disastro ambientale in www.napoli.repubblica.it, 11 aprile 2013; Redazione, Colpo di genio su Bagnoli: la bonifica è in ritardo? Riduciamo il perimetro! in www.lanottata.it, 2013.

12.Il convegno organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza di Taranto, il 14 giugno 2013, su << Sviluppo economico e tutela dell’ambiente nel rispetto dei diritti contrapposti. Il caso Ilva a Taranto >>, è stato tutto un appiattimento sui principi vuoti della tutela della salute, dell’inquinamento, sui limiti dell’utilità sociale delle imprese, eccetera, principi sanciti dagli artt. 32, 41 e 43 della Costituzione italiana. Cfr L’intervento della giuslavorista Angelica Riccardi, docente di Diritto del lavoro dell’Università degli Studi di Bari in www.peacelink.it, giugno 2013.

  1. Giorgio Nebbia, L’acciaieria non è un salotto in www.ecologiapolitica.org., luglio 2013.

14.Giulio Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, pag. 314; Lorenzo Tomatis, Riflessioni su Giulio Maccacaro e i rischi attribuiti ad agenti chimici in << Epidemiologia & Salute >>, luglio-ottobre 2004.

15.La Riva Fire ( acronimo di Finanziaria Industriale Riva Emilio), che ha sede a Milano, ha come principali società: Riva acciaio SpA, che controlla anche le principali consociate estere, che raggruppa le attività nell’acciaio da forno elettrico (produzione di semiprodotti e prodotti lunghi) e nel recupero del rottame di ferro; Ilva SpA, che produce acciaio da ciclo integrale ( prodotti piani).

16.Commissione Europea, Piano d’azione per una siderurgia europea competitiva e sostenibile in www.europa,eu , giugno 2013; Antonio Tajani, Piano d’azione Acciaio, conferenza stampa, Strasburgo, giugno 2013 in www.europa.eu.

17.I dati occupazionali sono di fonte governativa. Essi si trovano nella introduzione al disegno di legge di conversione del decreto legge n.61/2013, camera dei deputati, atti parlamentari in www.camera.it . Sul sito web della camera è possibile leggere tutto il dibattito parlamentare, il lavoro delle Commissioni, i decreti leggi e l’ultimo disegno di legge approvato alla Camera e mandato al Senato per l’approvazione definitiva ( si suppone).

  1. Intervento del Ministro dello sviluppo economico alla Camera dei deputati del 4 giugno 2013, seduta n.28, in www.camera.it .
  2. 19. Antonio Tajani, Piano d’azione Acciaio, op.cit.

20.Mimmo Mazza, “ Violato diritto alla vita”, l’Europa indaga sull’Ilva in << La Gazzetta del Mezzogiorno >> del 17 luglio 2013.

21.Per un approfondimento si rinvia a Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorico, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2012; Idem, Un pot-pourri, che spero interessi in www.conflittiestrategie.it , maggio 2013; Idem, Quali prospettive ( al momento pessime?) in www.conflittiestrategie.it , luglio 2013.

 

  1. Intervento del Sottosegretario allo sviluppo economico alle Commissioni riunite ( VIII, ambiente, territorio e lavori pubblici e X, attività produttive, commercio e turismo), 11 giugno 2013, in www.camera.it .
  2. 23. Per un’idea della gravità della crisi del Porto di Taranto riporto quanto dichiarato in sede di << Accordo per lo sviluppo dei traffici containerizzati nel porto di Taranto e il superamento dello stato d’emergenza socio-economico ambientale >> presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti << La nuova grande portualità commerciale del Mezzogiorno d’Italia è nata in tempi relativamente recenti fondandosi su due HUB: Gioia Tauro e Taranto. Nell’ultimo quinquennio il Mediterraneo è diventato un mare ad alta competitività a causa di ulteriori offerte di servizi portuali di transshipment, prima inesistenti: da Porto Said a Tangeri, sulla sponda Africana; dal Pireo ad Algesiras, nel Sud Europa. A causa della concorrenza di tali porti, dei ritardi infrastrutturali ed al lungo periodo di crisi internazionale tutt’ora in corso, il porto di Taranto sta vivendo un periodo di forte crisi con conseguenze estremamente negative che potrebbero ulteriormente aggravarsi in assenza di azioni che consentano una rapida realizzazione delle esistenti progettualità. Per questi motivi, gli eventi degli ultimi anni hanno generato aggravi economici agli operatori, oltre al gravissimo danno d’immagine del porto verso il mercato internazionale >>. Il suddetto Accordo è pubblicato sul BURP n.100 del 10 luglio 2012 della regione Puglia ( regione.puglia.it ); Ferruccio Pinotti, Taranto dal porto arriva la speranza in << il Corriere della Sera >> del 30 agosto 2012.

24.Domenico Palmiotti, Ilva Taranto l’alto forno 2 e l’acciaieria 1: 2 mila a casa da luglio in << Il Sole 24 Ore >> del 12 giugno 2013.

 

 

 

 

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