logica capitalistica e logica geopolitica, di Roberto Buffagni

Spunto di riflessione: logica capitalistica e logica geopolitica, loro compatibilità e incompatibilità.
Secondo me: a) dopo la sconfitta del socialismo realmente esistente, oggi nessuno, ripeto nessuno ha un’idea complessiva, coerente e praticabile di come uscire, con un salto di paradigma, dalla logica sistemica capitalista. b) dunque, oggi la logica sistemica capitalista si identifica con la società industriale avanzata (se vuoi “la gabbia d’acciaio” weberiana, o la Tecnica heideggeriana). Da questa logica nessuna potenza statuale può prescindere, per il semplice motivo che essa sviluppa una potenza tecnologico-scientifica incomparabile, senza la quale tu vieni spazzato via da chi invece ne dispone c) la logica sistemica capitalista, però, è sotto alcuni aspetti confliggente e incompatibile con altre logiche, non meno cogenti, quali anzitutto la logica geopolitica, che guida il conflitto tra le potenze. d) la logica geopolitica, infatti, ha come suoi principali criteri elementi, quali la posizione geografica, la demografia, la cultura, la coesione sociale, etc., che esistevano prima della logica sistemica capitalista ed esisteranno anche dopo la sua fine (niente è eterno). La logica sistemica capitalista, invece, dopo l’implosione dell’URSS e la conseguente globalizzazione economica, che è solo un aspetto dell’egemonia mondiale USA, si globalizza anch’essa, tende ad esplicarsi globalmente, e a non tener conto delle differenze tra Stati, culture, popoli, etc.: la sua conclusione logica sarebbe il governo mondiale, che però non si verifica mai perché le differenze continuano ad esistere, e il conflitto è la caratteristica permanente della dimensione politica, la quale a sua volta è insita nella costituzione antropologica dell’uomo (la concordia universale non si darà mai, è un obiettivo escatologico, non storico) e) il conflitto tra logica sistemica capitalista e logica geopolitica, e la loro reciproca parziale incompatibilità, si vede chiarissimo nel fatto storico macroscopico della massiccia delocalizzazione delle manifatture USA in Cina seguito all’implosione dell’URSS. Dal pdv della logica capitalista è una mossa razionale (teoria dei costi comparati di Ricardo), dal pdv della logica geopolitica è una follia, perché così gli USA hanno fornito alla Cina, una potenza del loro stesso ordine di grandezza, i fattori di potenza economici, scientifici, tecnologici di cui mancava: fattori necessari perché essa potesse divenire il loro nemico principale, e minacciare la loro egemonia mondiale f) quindi le potenze anti-egemoniche, Cina e Russia, per resistere all’egemonia USA e contrastarla, che cosa devono fare? Devono da un canto obbedire alla logica sistemica capitalistica, ossia sviluppare la potenza economica, accettare il mercato, etc.; dall’altro devono obbedire alla logica geopolitica, ossia dare al Politico la supremazia sull’Economico. Ecco perché sono entrambi, in forme diverse, Stati autoritari (nel senso di non liberali) ed ecco perché e come limitano la logica sistemica capitalistica. Per concludere: né Cina né Russia superano il capitalismo, impiantando un sistema sociale qualitativamente diverso; ma entrambe vi pongono limiti politici e culturali, perché vogliono e devono seguire la logica geopolitica per difendersi dagli USA e, in prospettiva, soppiantarli.
Emiliano Laurenzi

Roberto Buffagni grazie a te. Diventa sempre più difficile individuare uno spazio di riflessione e critica: la bolla mediale all’interno della quale esistiamo pare voler “tatuare sugli occhi e sulla coscienza” delle persone un’unica visione, un’unica verità. Ed a questa pretesa dal chiaro sentore religioso – che però della religione non ha né teologia, né escatologia, ma solo la dimensione culturale del consumo, un dimensione, per altro, radicalmente nichilista – è difficile rispondere con le armi del pensiero perché ci si ritrova davanti a persone indottrinate, sia per essersi nutrite ed imbevute di certe credenze tanto da scambiarle per “la” realtà, sia per il continuo e radicato formarsi di lobbies e di interessi professionali ed economici mirato ad escludere chiunque la pensi diversamente.
Giampaolo Zanaboni

Il presupposto a) andrebbe rivisto: da «nessuno» a “quasi nessuno”. Infatti esiste una proposta del sottoscritto, che si declina nel documento “Cenni di un Nuovo Sistema Economico, Monetario, Fiscale e di Giustizia”, a disposizione sul mio profilo FB. Tale documento costituisce un passo avanti, che si pone trasversalmente rispetto al capitalismo, al socialismo e al comunismo, e in generale a ogni “ismo” apparso finora sul pianeta.
Massimo Manassero

Bravissimo Roberto Buffagni… inizi l’anno con un post egregio, da quale si potrebbero trarre spunti, più che per un saggio, per una intera biblioteca. Il punto e) è quello che mi affascina da una 10na di anni, ossia l’apparente autolesionismo della scelta Usa di delocalizzare ecc. ecc., con successive ridicole lacrime -di coccodrillo- sulla Cina cattiva che si impadronisce dei brevetti – servitile su un piatto di platino, manco argento! Se la Cina fosse comunista (non solo nominalmente) verrebbe da citare Lenin ‘i capitalisti ci venderanno anche la corda con cui li impiccheremo’, ma sappiamo che non è così che funziona. In realtà la scelta Usa fu una scelta del capitalismo Usa, o della nazione Usa? Entrambe, perchè la nazione Usa è occupata dai capitalisti Usa; e il capitalismo sostanzialmente se ne frega delle nazionalità, perchè è una (pessima ed economicistica) forma di universalismo, e nei suoi esponenti più sinceri lo dice chiaramente – il famoso ‘flat world’ di Thomas Friedman. Inutile aggiungere che discorsi simili in un Paese come il nostro, accucciato su un atlantismo servile, con piccole eccezioni di antiamericanismo ridicolo alla 68, risultano comprensibili come l’etrusco arcaico.
Roberto Buffagni

Massimo Manassero Grazie. Sì, l’idea di traslocare in Cina una quantità enorme di manifatture, comprese industrie indispensabili per la sicurezza militare, lascia a bocca aperta. Non mi è noto un episodio autolesionista di queste proporzioni, nella storia umana. Si può spiegare con la marea di hybris che ha ubriacato la classe dirigente USA dopo l’implosione dell’URSS, con tanto di proclami accademici sulla fine della storia e altre amenità. Certo che l’hanno fatta grossa.
Massimo Manassero

Roberto Buffagni non grossa, enorme. Alla base ci fu, secondo me, la presunzione sborona texana unita al disprezzo verso tutto ciò che è ‘non americano’ : ‘Ma sì, dai, diamo pure un po’ di tecnologia ai musi gialli, tanto, prima che arrivino al nostro livello, hai voglia! 😊 ‘ Pensavano di poterli sfruttare come confezionatori di smartphone per chissà quanti anni ancora. Imbecilli. Hanno creato un mostro che creerà guai grossi a loro ma ancor più a noi, eterno vaso d’argilla.
Persio Flacco

L’intervento merita una lettura approfondita, però in prima battuta mi permetto di contestare questa tua affermazione:
“nessuno ha un’idea complessiva, coerente e praticabile di come uscire, con un salto di paradigma, dalla logica sistemica capitalista. “
Penso invece se ne possa uscire in diversi modi, dei quali tutti in primo luogo richiedono il forte impegno nella (ri)affermazione del metodo democratico. Ci siamo adagiati troppo a lungo nella comoda tolleranza della delega.
Nicolò Bragazza

Roberto Buffagni Severino articola il suo ragionamento per arrivare a concludere che la potenza tecnica soppianterà tutte le altre. Nel farlo mette a confronto le grandi forze della storia occidentale (Cristianesimo, Comunismo, Capitalismo e Democrazia) e ne evidenzia gli obiettivi costitutivi. Per esempio, se il capitaliamo ha come obiettivo la crescita indefinita del profitto, il comunismo ha invece quella dell’uguaglianza degli uomini (indifferente se ciò si sia realizzato o meno). Queste forze competono per la supremazia e per affermarsi dato che i loro obiettivi sono confliggenti. Tutte queste forze tuttavia si servono della tecnica per affermarsi (vedere guerra fredda, che e stata sostanzialmente una corsa decennale alla tecnologia che conferisse la supremazia definitiva). Severino dice che queste forze credono di servirsi della tecnica perchè considerano la tecnica un semplice mezzo (da notare secondo me come questa idea di tecnica come mezzo sia il luogo comune di molti intellettuali oggigiorno) senza rendersi conto che è anche la tecnica una delle potenze di cui sopra. La tecnica persegue l’espansione indefinita della nostra capacità di generare scopi. Dovendo ricorrere alla tecnica per affermarsi, le altre potenze ricorrono alla tecnica rendendosi dipendenti da essa. L’unico argine all’espansione della tecnica sono quei limiti assoluti che da secoli vengono rimossi (qui Severino fa un discorso sull’uomo etico che secondo me è potentissimo e descrive perfettamente l’uomo etico contemporaneo).
Perciò le potenze ricorrono alla tecnica per affermare la loro supremazia e nel farlo non si rendono conto che la tecnica si serve di esse per perseguire i propri scopi. In questo senso tutti i paesi sono tra loro indistinguibili nel lungo periodo: essi diventeranno meri gestori della potenza tecnica e la loro esistenza si giustificherà in base a quanto saranno efficaci nel promuoverne lo scopo. Se l’obiettivo della geopolitica è la supremazia delle nazioni, esse si servono della tecnica per perseguirla.
Nicolò Bragazza

Nello specifico perchè capitalismo e tecnica sono in contrasto? Perchè capitalismo ha come obiettivo crescira indefinita del profitto. E questo dipende in ultima analisi dal mantenimento di una certa scarsità. La tecnica mantiene la scarsità solo fintantochè essa è funzionale al perseguimento del suo scopo (che ha come corollario l’eliminazione della scarsità).
Nicolò Bragazza

Sulle radici antropologiche della questione tecnica, credo che sia Heidegger che Anders abbiano scritto della natura intrinsecamente tecnica dell’uomo.
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Grazie della sintesi. Nei limiti della mia ignoranza (totale) degli scritti di Severino, un piccolo commento. In questa visione, l’eventuale punto di arresto o di contraddizione non superabile è la natura umana. Se non esiste, la dinamica da lei sintetizzata non ha punto d’arresto. Se esiste, come è costituita? In particolare, è costituita anche in rapporto alla trascendenza, o no?
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Allora articolo meglio la domanda, così lei può rispondere più precisamente. Se la natura umana non esiste, e l’uomo è indefinitamente trasformabile (dalla storia, dalla tecnica, dall’ingegneria sociale, dai marziani, etc.) salvo i limiti (ignoti) che gli impone la biologia, allora l’estensione totale della Tecnica e della logica che la informa non incontra limiti. Se la natura umana esiste, e non esiste in forma di dato ad esempio biologico, ma in forma di rapporto – per esempio, di rapporto con il trascendente comunque inteso, o di rapporto con il mistero, inteso come quanto non è conosciuto e non è conoscibile mai – allora la Tecnica intesa come la intende Severino incontra un limite assoluto. Il limite assoluto è il conflitto tra una logica che si pretende totale, e un’altra logica che con essa è incompatibile e che le è, in linea di principio, sovraordinata, perché è la logica dell’uomo. Così che si giunge all’alternativa: o logica dell’uomo, o logica della Tecnica.
Nicolò Bragazza

La questione sul punto d’arrivo ha a che fare con l’ontologia di Severino, cioè sul fatto che tutto è eterno e il divenire non è altro che un illusione. La tecnica ci condurrà a questa “scoperta”, cioè che tutti gli enti sono eterni. In questo scenario la nostra dimensione esistenziale perde di significato perchè se siamo eterni non esiste più la paura della morte ecc ecc. A quel punto immagino si arresterà anche la nostra necessità di generare scopi. Perchè bisogna ricordare che in Severino la tecnica non è altro che la manifestazione più autentica della nostra follia, cioè la pretesa di condurre le cose dall’essere al non essere o viceversa. Se questa è un’illusione allora la tecnica è folle.
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Ah ecco. Mi sembra un po’ tanto ma magari ha ragione lui, chissà. In effetti con questo presupposto tutto fila logicamente, l’apocalissi è il risveglio alla realtà che non ce n’era bisogno, la Gerusalemme celeste era già qui.
Nicolò Bragazza

A livello più “basso”, venendo alla tua ultima domanda, direi che la questione sulla natura umana è la vera questione dei prossimi decenni. E questo perchè le tecnologie oggi (in particolare quelle genetiche) rendono impellente un ragionamento su ciò che ci rende “umani”. La tecnica ci umanizza o ci disumanizza? Questa è la vera questione. Perchè se l’uomo è un essere intrinsecamente tecnico, allora la tecnica è “umanizzante”. Come mai sentiamo che questo stride con la nostra intuizione (cioe che la tecnica disumanizza)? Beh, credo che qui sia il punto di partenza di una riflessione politica nuova, che lasci indietro gli schemi novecenteschi
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Qui concordo al 100%. Ti faccio notare che persino il presidente cinese, nel suo ultimo discorso al Plenum del partitone, ha rilevato un paio di fatterelli importanti, su questo tema: che l’espansione della ricchezza è una buona cosa ma compromette la formazione della personalità, specie nei giovani, e la coesione sociale: e ha predisposto alcuni rimedi (campagna pedagogica di massa alla cinese). Al di là della ricetta del dott. XI, è notevole che abbia diagnosticato il morbo così in fretta.
Nicolò Bragazza

Roberto Buffagni interessante. In ogni caso in questo vedo una preoccupazione mediata dal punto di vista di essere “classe dirigente”. In un certo senso è la stessa delle nostre classi dirigenti occidentali. Il timore non mi sembra essere sulla direzione di marcia, ma sugli ostacoli che si possono trovare nel tragitto. Di qui il fondamento emergenziale della politica neoautoritaria odierna: abbiamo moltissimo da perdere, sia nel presente che nel futuro, e per evitare imprevisti dobbiamo aumentare il controllo. Lo sviluppo tecnico ha dato troppo potere ai singoli: dobbiamo bilanciare con maggiore controllo.
Claudio Valisi

Nicolò Bragazza direi che Tolkien ha intuito artisticamente (anche se non solo, essendo uomo di grande cultura) questo dilemma. Il centro di tutto è il potere indefinito, il cui simbolo (l’anello) va distrutto, perché la potenza, come tale, è nulla e nullifica. A ciò si aggiunga che, in maniera secondo me corretta, Tolkien sa che l’uomo non è eterno, ha il dono della morte e, quindi, del limite: se riesce a porlo anche alla realtà, dando cioè un ordine ad essa, sopravvive, altrimenti viene sopraffatto. La sua eternità deriva da altro da sé, da Qualcuno che lo trascende. Certo in una prospettiva immanentistica quale quella di Severino ciò cade e la stessa potenza coincide con l’atto, nullificandolo. Spero di non aver detto stupidate, ma il tema è centrale e volevo aggiungere qualcosina. Buon anno!
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Sì. E contemporaneamente, più si aumenta il controllo, più aumenta la complessità sistemica, che a sua volta esige maggior controllo, e così via.
Nicolò Bragazza

Roberto Buffagni secondo principio della termodinamica
Stefano Vaj

Per questo io penso che sistema occidentale e “tecnocrazia” siano fondamentalmente tecnofobi ed antitecnologici, perché la tecnica ha intrinsecamente la capacità di destabilizzarne potere e valori, così che l’unico mezzo per esso di autoperpetuarsi è l’utilizzo della tecnologia stessa per impedire e prevenire il cambiamento. Ma Huxley nel Brave New World, libro poco capito, offre già una ricostruzione abbastanza realistica del processo, che richiede un controllo sociale *e* internazionale sempre più assoluto. http://www.biopolitica.it/biop-xiii.html
Stefano Vaj

L’uomo è sì indefinitamente trasformabile, e rappresenta solo un fotogramma arbitrario di un processo, non una “essenza” in qualche modo speciale. Non lo è d’altronde *infinitamente*, nel senso che in ogni fase i tratti costitutivi della sua storia evolutiva, della sua etologia e della sua dotazione organica rappresentano il materiale con cui abbiamo inevitabilmente a che fare, e che tentano automaticamente a frustrare il tentativo di ignorarli da parte di cose come il marxismo o il cristianesimo…
Nicolò Bragazza

Stefano Vaj si, la tecnica è una forza contrapoosta alla democrazia o ai sistemi politici occidentali. Quello che secondo me è il punto di debole di Huxley (non è una critica al libro, fantastico e consigliatissimo) è che sostanzialmente assume che lo sviluppo tecnico sia prevedibile e predicibile e come tale esso possa essere scoraggiato o stoppato quando minaccia la stabilità. Questa mi sembra un’ipotesi abbastanza inverosimile. Gli ultimi decenni dimostrano che il progresso tecnico è sostanzialmente imprevedibile ed impredicibile. L’unico sistema “robusto” rispetto al progresso tecnico è quello che ne abbraccia l’ideologia sottostante. Qualsiasi altro sistema dovrà ricorrere alla tecnica per stoppare la tecnica. È la grande contraddizione del nostro tempo. Le nostre società sono già fondate sulla tecnica e la dimostrazione è che l’uomo tecnico, cioè quello che vuole superare i limiti, è anche uomo etico (ethos, alleanza) perchè si è alleato con la potenza dominante (vedere come gli uomini progressisti vengano rappresentati come persone esemplari, buone…). Semplicemente, al momento, non vi è ancora consapevolezza di questo fatto sia negli intellettuali che nella popolazione.
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Mi accorgo adesso che quanto dici a proposito dell’alleanza uomo-tecnica, con l’uomo progressista e buono in quanto alleato della Tecnica, è la stessa identica conclusione a cui giunge, sebbene in tono emotivo opposto, Oswald Spengler nel suo celebre “Tramonto dell’Occidente”. Dove, dopo aver lamentato per centinaia di pagine la decadenza dei valori tradizionali e dell’uomo occidentale proprio a cagione della tecnica (più altro) conclude con l’ esortazione ai giovani a dedicarsi interamente alla tecnica, e alla politica come tecnica della potenza. Curioso.
Emiliano Laurenzi

Roberto Buffagni grazie a te. Diventa sempre più difficile individuare uno spazio di riflessione e critica: la bolla mediale all’interno della quale esistiamo pare voler “tatuare sugli occhi e sulla coscienza” delle persone un’unica visione, un’unica verità. Ed a questa pretesa dal chiaro sentore religioso – che però della religione non ha né teologia, né escatologia, ma solo la dimensione culturale del consumo, un dimensione, per altro, radicalmente nichilista – è difficile rispondere con le armi del pensiero perché ci si ritrova davanti a persone indottrinate, sia per essersi nutrite ed imbevute di certe credenze tanto da scambiarle per “la” realtà, sia per il continuo e radicato formarsi di lobbies e di interessi professionali ed economici mirato ad escludere chiunque la pensi diversamente.
Giampaolo Zanaboni

Il presupposto a) andrebbe rivisto: da «nessuno» a “quasi nessuno”. Infatti esiste una proposta del sottoscritto, che si declina nel documento “Cenni di un Nuovo Sistema Economico, Monetario, Fiscale e di Giustizia”, a disposizione sul mio profilo FB. Tale documento costituisce un passo avanti, che si pone trasversalmente rispetto al capitalismo, al socialismo e al comunismo, e in generale a ogni “ismo” apparso finora sul pianeta.
Massimo Manassero

Bravissimo Roberto Buffagni… inizi l’anno con un post egregio, da quale si potrebbero trarre spunti, più che per un saggio, per una intera biblioteca. Il punto e) è quello che mi affascina da una 10na di anni, ossia l’apparente autolesionismo della scelta Usa di delocalizzare ecc. ecc., con successive ridicole lacrime -di coccodrillo- sulla Cina cattiva che si impadronisce dei brevetti – servitile su un piatto di platino, manco argento! Se la Cina fosse comunista (non solo nominalmente) verrebbe da citare Lenin ‘i capitalisti ci venderanno anche la corda con cui li impiccheremo’, ma sappiamo che non è così che funziona. In realtà la scelta Usa fu una scelta del capitalismo Usa, o della nazione Usa? Entrambe, perchè la nazione Usa è occupata dai capitalisti Usa; e il capitalismo sostanzialmente se ne frega delle nazionalità, perchè è una (pessima ed economicistica) forma di universalismo, e nei suoi esponenti più sinceri lo dice chiaramente – il famoso ‘flat world’ di Thomas Friedman. Inutile aggiungere che discorsi simili in un Paese come il nostro, accucciato su un atlantismo servile, con piccole eccezioni di antiamericanismo ridicolo alla 68, risultano comprensibili come l’etrusco arcaico.
Roberto Buffagni

Massimo Manassero Grazie. Sì, l’idea di traslocare in Cina una quantità enorme di manifatture, comprese industrie indispensabili per la sicurezza militare, lascia a bocca aperta. Non mi è noto un episodio autolesionista di queste proporzioni, nella storia umana. Si può spiegare con la marea di hybris che ha ubriacato la classe dirigente USA dopo l’implosione dell’URSS, con tanto di proclami accademici sulla fine della storia e altre amenità. Certo che l’hanno fatta grossa.
Massimo Manassero

Roberto Buffagni non grossa, enorme. Alla base ci fu, secondo me, la presunzione sborona texana unita al disprezzo verso tutto ciò che è ‘non americano’ : ‘Ma sì, dai, diamo pure un po’ di tecnologia ai musi gialli, tanto, prima che arrivino al nostro livello, hai voglia! 😊 ‘ Pensavano di poterli sfruttare come confezionatori di smartphone per chissà quanti anni ancora. Imbecilli. Hanno creato un mostro che creerà guai grossi a loro ma ancor più a noi, eterno vaso d’argilla.

Buon Anno a modo nostro dalla redazione e da TKG

Anche il 2021 è andato. Auguriamo un 2022 migliore del precedente. Sarà un anno intrigante e inquietante nel mondo; dal destino segnato, ahimé, per il nostro paese. Sappiamo però che i destini privati non coincidono necessariamente con quelli di una comunità. E’, comunque, nostro dovere e nel nostro piccolo far emergere le risorse vitali che pur esistono nel nostro paese. Come con gli auguri natalizi intendiamo affermare lo spirito che alimenta l’impegno nel nostro sito con la pubblicazione di un contributo di una figura esterna, ma ormai affezionatissima_Giuseppe Germinario

PANDEMIA DOCET, di Teodoro Klitsche de la Grange

A detta di tanti, la pandemia – ormai biennale – ha insegnato molte cose, e altrettante ne cambierà. Perciò m’intruppo anch’io in questa (folta) compagnia, onde esporre quale ammaestramento – a mio avviso – se ne può trovare.

Il pensiero prevalente a livello di comunicazione mainstream prima della pandemia trovava il proprio nocciolo duro nelle credenze che: a) il mondo viaggiasse sul binario di un progresso lineare ed irreversibile dal più povero al più ricco, dal più violento al meno violento, dal più malato al più sano (e così via) b) all’orizzonte, ma già in larga misura in atto, c’era un ordinamento sociale privo d’eccezioni e quindi puramente normativo ed essenzialmente statico.

Nell’utopismo marxista (finito) era la società senza classi; nel successivo pensiero unico (e anche debole) ha assunto forme e nomi (parzialmente) diversi, dalla “fine della storia” alla “governance globale”. Tutte accumunate dal fatto che le emergenze, in tutte le loro manifestazioni, erano sostanzialmente finite, quali stroncate (il più delle volte) dal progresso, e ridotte in altre – più limitate (dal terremoto all’incidente aereo)- dalla capacità di contenerne e ridimensionarne gli effetti negativi.

La pandemia ha mostrato il carattere illusorio, anzi affabulatorio di certe credenze: è stata l’irruzione della realtà in un mondo di favole.

Il fatto che ci sia già costata oltre cinque milioni di morti e danni enormi (economici e sociali); e perfino che abbia limitato al minimo i consumi voluttuari (con scorno delle élite), rende impossibile ricondurla alla prima o alla seconda categoria: quanto alla seconda, per le dimensioni (non è un terremoto appenninico); quanto alla prima perché è evidente che il progresso non ci protegge da certi eventi. Anzi, una verosimile spiegazione della nascita e diffusione del Covid lo ascrive ad un errore nel laboratorio di Wu-Han, costruito – si dice – per lo studio delle malattie virali. Un classico caso di eterogenesi dei fini, scriverebbe Max Weber (a non fare ipotesi più maligne).

Resta il fatto che il progresso non produce solo il bene, ma anche il male: e in ogni caso, ci aiuta, ma non elimina i rovesci della fortuna.

Uso il termine impiegato da Machiavelli nel XXV capitolo del Principe, perché il genio fiorentino contrappone alla fortuna la virtù (dei governanti). La fortuna assomiglia a un fiume che allaga e distrugge edifici e colture; ciononostante gli uomini possono limitarlo con argini e ripari “Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta a sua impeti, dove ella sa che non sono fatti gli argini né ripari a tenerla”. In Italia trova una campagna senza argini, ossia manca virtù nei governanti. Cosa che non succede nella “Magna, la Spagna e la Francia”.

Ad applicarla alla situazione italiana nelle crisi di questo secolo (quella finanziaria del 2008 e la pandemica), abbiamo la conferma di quanto sosteneva il segretario fiorentino: le due crisi sono state affrontate da governanti carenti di virtù. Tant’è che la prima si è trascinata in Italia per oltre un decennio, e in Europa (in Magna….) è durata assai di meno e provocato danni inferiori.

Quanto alla seconda, per trovare una risposta organizzativa non scadente in misure da “parata” (primule, banchi a rotelle, ecc. ecc.) abbiamo dovuto cambiare governo. Non so se questo basterà. Ma qualche miglioramento sicuramente l’abbiamo visto. Resta il fatto che la pandemia ci ha insegnato che i paternostri dispensati a piene mani dalla classe dirigente erano inutili; che tale inutilità era data essenzialmente dal non comprendere che la virtù consiste nella capacità di dare una risposta efficace a situazioni improvvise; che norme e progresso servono a poco se non adatte ad affrontare l’emergenza. E che la vita non è un viaggio in treno dove comunque, senza fatica, si arriva a destinazione. Ma soprattutto che per affrontare le crisi occorre la virtù, ossia la capacità prima di prevederle e prepararsi, poi di gestirle. Cioè tutto il contrario di quanto ci hanno propinato da decenni. Non so se l’anno prossimo vedremo il capitolo XXVI del Principe, ossia il riscatto generato proprio dall’aggravarsi della crisi. Non si vede il Principe adatto, né moderno né antico; d’altra parte la stessa sorte toccò a Machiavelli e all’Italia del XVI secolo, che trovò il proprio Principe solo nel XIX.

Teodoro Klitsche de la Grange

Buon Natale da tutta la redazione

Quest’anno auguriamo il nostro Buon Natale con lo scritto di due autori esterni al sito, ma dai quali abbiamo attinto a piene mani. Rappresentano bene alcuni dei principi informatori e lo spirito che guidano faticosamente la conduzione della nostra realtà editoriale.

Andrea Zhok

Spero che un giorno guarderemo a questo periodo come un incubo superato, un periodo di follia collettiva come ogni tanto la storia riserva.
Ma in attesa di quel momento, se mai verrà, una cosa, alla vigilia del Natale più mesto di sempre, voglio dirla.
Questa vicenda, se da un lato ha distrutto molte illusioni, dall’altro ha aperto anche una dimensione umana insperata e inattesa.
Si sono scoperte affinità e solidarietà ideologicamente trasversali, si è riusciti a trovare conforto nella parola e nell’atto di persone fino a poco tempo prima sconosciute, con cui si è stabilita una connessione umana fondata su un primario senso di libertà, rispetto della persona e giustizia.
Questa connessione è “prepolitica”, o forse meglio, è originariamente politica nel senso primitivo del termine: è fiducia umana nella capacità di cooperare.
L’abbandono definitivo delle categorie politiche del passato, a partire da “destra” e “sinistra”, abbandono per alcuni maturato da tempo, ha ricevuto la definitiva consacrazione.
Il mondo che ci aspetta a valle di questo tornante della storia è un mondo politicamente da ricostruire da zero, perché del vecchio mondo non è rimasta pietra su pietra (per quanto molti non se ne siano ancora accorti).
Per quanto possibile, Buon Natale.
Pierluigi Fagan
ERMENEUTICA DEL NATALE. Com’è noto, il gatto è irresistibilmente attratto dall’albero di Natale che per lui è un semplice albero, oltretutto a portata di scalabilità. Così lo scala ma, arrivato in alto, il suo peso lo fa oscillare di qui e di là fino a farlo cadere per terra. Il gatto, infatti, non tiene conto che noi umani amiamo sradicare gli alberi per metterceli a casa a simbolo di una narrazione di mito generale, per lui l’albero è sempre ben piantato e quindi non è rischioso. Così un semplice istinto alla scalabilità dal punto di vista del gatto, per noi si trasforma in una gratuita cattiveria iconoclasta o una critica radicale al mito umano del Natale nell’ambito di una cultura occidentale che ha trasformato più antichi miti legati alle segnature stagionali.
Ieri ho sentito M. Cacciari in una intervista ripetere con sorriso sarcastico che “i fatti non esistono” come cosa ovvia e nota. A chiusura di questo secondo anno di società in pandemia, molti sono convinti che i fatti non esistono perché esistono solo le interpretazioni. Ma se qualcuno interpreta cosa sta interpretando se non ci sono i fatti e loro effetti in forma di fenomeno? Il pensiero si metterebbe in moto di suo elaborando complesse argomentazioni così, moto proprio?
I fatti esistono ma la loro natura e significato varia a seconda dell’impianto interpretativo, quello del gatto non è il nostro e viceversa. Sta il fatto che un gattone di dieci chili che arriva in cima ad un albero di Natale in precario equilibrio e senza le sue naturali radici, cade. Qualsiasi impianto interpretativo usiate.
In molte accese discussioni nel dibattito pubblico che hanno animato e suppongo continueranno ad animare i tempi che corrono, alcuni discutono la propria interpretazione contro quella dell’interlocutore, ma senza passare dai fatti. I fatti, a loro volta, sono diversamente definiti a seconda dei diversi impianti interpretativi. La faccenda è complicata, ma mi auguro che piano piano si evolva la convenzione pubblica di discutere anche animatamente le interpretazioni, includendo però il fatto pur nella sua problematica comune definizione. Il come definiamo i fatti ha conseguenze e la peggiore e non farci i conti dedicandosi solo alle interpretazioni.
E con ciò, i miei migliori auguri a lettori, lettrici e variamente dibattenti, ognuno dalla sua prospettiva, della pagina.

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE

Una dozzina d’anni fa Berlusconi – o meglio i suoi seguaci – contrapposero alla Costituzione formale la Costituzione materiale, suscitando la consueta raffica di anatemi ed esorcismi degli intellos di sinistra, che della costituzionale formale, o meglio della loro interpretazione del testo normativo, avevano fatto il proprio shibboleth. E avvertivano che il richiamo a quella materiale rischiava di rovinargli il giocattolo.

È appena il caso di ricordare che il termine (non il concetto) di costituzione materiale era opera di un acuto giurista come Costantino Mortati, membro dell’assemblea costituente della Repubblica, in buona parte sviluppando quanto espresso quasi un secolo prima da Ferdinand Lasalle nella nota conferenza “Über Verfassungswesen”, ove il rivoluzionario riconduceva la costituzione agli “effettivi rapporti di potere che sussistono in una data società”, alla forza attiva “che determina le leggi e le istituzioni giuridiche”. Scriveva Lassalle che “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” (il corsivo è mio); ed elencava i relativi “pezzi di costituzione”: il potere del re, quello dell’aristocrazia, della borghesia che comunque assicuravano un ordine, effettivo e concreto, e con ciò la coesione sociale. Così la costituzione è l’insieme – dei rapporti di forza reali – ed organizzati – di una comunità politica. E cos’è la Costituzione formale? Rispondeva Lassalle “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito”.

Riprendendo e sviluppando la concezione di Lassalle, Mortati scriveva “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare «costituzione materiale» per distinguerla da quella cui si dà nome di «formale»”. A questo è affidata una “funzione di rafforzamento delle garanzie di conservazione della sottostante compagine sociale, non è tuttavia da dimenticare che è in quest’ultima, nell’effettivo rapporto delle forze da cui è sostenuta che deve trovarsi il vero supporto dell’ordine legale”1 (il corsivo è mio).

La Costituzione materiale consiste essenzialmente nelle forze politiche e sociali che hanno voluto e sostengono l’assetto fondamentale di poteri delineato da quella formale in norme collocate “al sommo della gerarchia delle fonti”.

Ma cosa succede se l’assetto delle forze politiche e sociali (cioè la costituzione materiale) cambia (com’è naturale) e quella formale (cioè la regolamentazione normativa) rimane la stessa? Il problema è ricorrente, dato che, come scriveva Hauriou, un ordinamento giuridico è un agmen, un esercito in marcia che adatta sempre la propria formazione alla situazione storica, pur conservando un assetto ordinato. Se però il divario tra regole e assetto delle forze diverge, si apre un dualismo che, nei casi estremi, conduce alla guerra civile, cioè all’“appello a Dio” di Locke. Il quale così significava che non c’è potere (superiore) sulla terra in grado di decidere un tale conflitto. Nella tarda modernità, nostra contemporanea, è stato notato più volte – in tutt’altro contesto da quello giuridico – che il divario tra élite e popolo si è allargato (da Lasch a Laclau, a tanti altri). Così si costituisce una situazione che prelude ad un nuovo insieme di rapporti di potere, che riarmonizzi le due costituzioni: sostanziale e formale.

Qualcuno dirà che non è vero che lo iato si sta allargando, che tutti vogliono la costituzione più bella del mondo, e via salmodiando. Ma ad un pensiero realista occorre riscontrare non tanto se quello iato è frutto di manipolazione (potrebbe esserlo, almeno in parte) ma se esiste realmente un modo più sicuro o se preferite, meno insicuro per accertare se esiste in una democrazia il consenso soprattutto elettorale che aveva il sistema nel complesso e ancor più le “forze politiche e sociali” che sostenevano il vecchio ordine e quello che hanno coloro che sostengono il nuovo.

Applicando questo criterio occorre ricordare che la Costituzione formale fu approvata dei partiti del CLN, che avevano circa il 90% dei seggi alla costituente. Le successive elezioni politiche del 18/04/1948 diedero al complesso dei partiti ciellenisti oltre il 90% dei suffragi popolari. Con ciò la costituzione – e quello che sarebbe stato poi l’arco costituzionale – otteneva un consenso “bulgaro”. Bella o brutta che fosse il consenso c’era e non lo si può negare.

Fino agli anni 80 la situazione, pur nella divaricazione tra comunisti e non comunisti, confermava un consenso ampio ai partiti dell’“arco costituzionale”. Ma il crollo del comunismo incrinava prima e dissolveva poi il sistema dei partiti della “prima Repubblica” e con esso il maggior sostegno della costituzione formale. Uscivano dal Parlamento tutti i partiti laici, la DC si riduceva ad un quarto di quel che era e si spezzava in (almeno) due tronconi, i comunisti perdevano buona parte del loro elettorato ed erano costretti a cambiare nome. Diventavano forze maggioritarie partiti che non facevano parte del CLN o ne erano stati esclusi. Dal 1994 in poi quelli eredi dell’arco costituzionale ottengono suffragi di una minoranza, ma la Costituzione formale è rimasta sostanzialmente la stessa (tranne per le modifiche al titolo V e qualche altro ritocco, apparente).

Negli ultimi dieci anni poi, il divario si è allargato: crescita dei partiti anti-establishment ma che ha prima raggiunto e poi passato regolarmente la maggioranza dei suffragi (v. elezioni dal 2018 in poi).

La novità degli ultimi mesi è che i tre maggiori partiti italiani (Lega, FdI e PD, a leggere i sondaggi) sono in un testa a testa intorno al 20%, e pochi decimi di percentuale (al massimo un punto pieno), indicano quale primo partito FdI, ossia il partito erede degli esclusi dall’arco costituzionale, mentre il PD, il partito (residuo) dell’arco, è più o meno sullo stesso livello di consensi.

Quasi tutti i suffragi non attribuiti ai due partiti epigoni (dell’arco e non dell’arco) sono espressi a partiti che ne stavano fuori per l’ovvia ragione che non esistevano (Lega, 5Stelle, FI e vari minori); né sono credibili le dichiarazioni ad usum delphini di lealismo alla costituzione formale di qualche dirigente, e dall’altro perché spesso i partiti suddetti caldeggiano riforme costituzionali incisive, un po’ perché quelle professioni d’intenti sono strumentali ad obiettivi tattici (di lotta tra, ma ancor più, nei partiti).

Resta il fatto che da un consenso al 90%, l’ “arco costituzionale” è attualmente tra il 20 e, tutt’al più (con minori vari) il 30% dell’elettorato.

Oltretutto tra le forze non riconducibili all’arco/non arco, sono prevalenti quelle che includono nella futura maggioranza (a quanto risulta dai sondaggi) proprio gli eredi del ventennio; altri sono critici verso la Costituzione formale, al punto di aver proposto vasti rimaneggiamenti della medesima.

Da questo deriva che l’ “antifascismo” in particolare inteso come conventio ad excludendum dalla maggioranza elettorale ha un consenso di una minoranza, ragguardevole ma pur sempre minoranza. In conclusione abbiamo un dato reale (la Costituzione materiale) che non corrisponde da tempo a quella formale. Resta da capire quanto possa durare una Costituzione formale non sostenuta da “forze politiche e sociali” coerenti alla stessa.

Emerge così un conflitto tra legittimità e legalità che è la principale causa della debolezza, interna e ancor più internazionale, della Repubblica.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 E proseguiva sottolineando l’intrinseca giuridicità, onde realizzare “un sistema di rapporti gerarchizzati secondo criteri di dominio e di soggezione”, v. Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Milano 1976, pp. 30-31

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA, di Pierluigi Fagan

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA. [Post di studio relativo a questioni di fotografia sociale per basi di teorie politiche. Non perdete tempo se non vi interessa, saltatelo] Qui riprendiamo i ragionamenti portati avanti nel post del 14.12 del nostro “ragionar con Gramsci”. Si faceva accenno al fatto che rispetto al panorama ideologico del suo tempo, a noi oggi mancano tre presupposti: 1) una chiara e conosciuta fotografia delle partizioni sociali, ma forse dovremmo dire le forme stesse della partizione sociale; 2) una ben confusa situazione nei concetti di partito e democrazia; 3) la mancanza di una teoria generale politica, una teoria mondo quale quella che al suo tempo rappresentava l’alternativa allo stato di cose ovvero il pensiero di Marx/marxismo. Vorrei riprendere ed approfondire un po’ il primo punto.
Sebbene centrale in quell’impianto di pensiero, il concetto di “classe sociale” e sue partizioni, non sono mai chiaramente espresse da Marx. Di base, l’intende come una classificazione in base alle condizioni economiche. Altresì, queste sezioni della piramide sociale, produrrebbero una loro precipua ideologia che ne riflette condizione ed aspettative. Gramsci aggiungerà che questo “riflettere” è però condizionato da egemonie per le quali non sempre vi è allineamento tra condizione sociale e condizione ideologica. Tant’è che, in effetti, sia Marx che Engels, che Lenin, non erano proletari, né avevano origini in tal senso. Quali sono dunque i rapporti tra condizione sociale ed ideologia?
Dieci anni fa, uno spontaneo movimento di opposizione sociale, negli Stati Uniti d’America, comincia l’occupazione del distretto finanziario di Wall Street, rivendicando il conflitto tra un presunto 99% della società ed un 1% che condenserebbe in sé una scandalosa concentrazione di ricchezza, quindi potere. Tale teoria non si sa bene dove nasca di preciso, chi indica la redazione del giornale di critica pubblicitaria canadese Adbusters, chi l’antropologo David Graeber, chi l’economista Joseph Stiglitz, chi un anonimo articolista sul web. Il concetto che, come tutti i concetti, presuppone una teoria di cui è sintesi, punta alla critica del risultato sociale della svolta finanziaria che inizia tra anni ’80 e ’90 ed ha un sapore più comunicativo (slogan) che analitico (analisi). Dato questo presupposto semplificante ed indignante, ha molto successo e diventa una sorta di nuovo consenso socio-politico, ci si convince davvero che si tratta di una questione tra una percentuale infinitesima ed una massa enorme. È possibile le cose stiano così?
Decisamente no, non è assolutamente credibile in termini di “fisica dei sistemi sociali” che qualcosa di così piccolo, domini del tutto un così grande, è una semplificazione. Del resto, tra pubblicitari (Adbusters) ed americani (Graeber-Stiglitz), che la semplificazione sia privilegiata rispetto alla complessità del reale, è fatto noto e proprio di quei tipi di immagini di mondo. Di contro, che ci sia un 1% che effettivamente condensa in sé una porzione scandalosamente asimmetrica di ricchezza e quindi potere, è un fatto. Fatto riverificato da decine di statistiche quantificanti e pure peggiorato in questi dieci anni.
Questa versione semplificatoria dell’indagine sociale (mai basarsi su principi di analisi sociale americani espressi dopo gli anni ’60, quindi da dopo C. W. Mills) però ha successo e la ritroviamo in background in una sorta di rinnovata “teoria delle élite”, teoria tra l’altro di origine italiana dei primi Novecento. Le nostre società quindi si sono semplificate quanto a partizioni sociali? Davvero è tutto così semplice per cui l’1% conduce il restante 99% dove vuole lui? Pare di no, ci sono almeno due problemi oltre la logica della fisica sociale, che complicano parecchio la faccenda.
Il primo problema deriva dal fatto che quel 1% beneficiato dall’imporsi del paradigma finanziario, non è solo. Né lui come composizione sociale, né in quanto paradigma. Come paradigma è assieme ad una costruzione paradigmatica fatta altresì di globalizzazione e informatizzazione dentro un più ampio paradigma di teoria economica detto “neo-liberista”. A sua volta questo costrutto non è di origine occidentale ma prettamente americana. Il tutto corrisponde ad una più ampia partizione sociale rispetto alla numerica dell’1%. Ha più a che fare con il concetto di “classe agiata” di T. Veblen, categoria sociologica del primo Novecento. La “classe agiata” è fatta da coloro che hanno tornaconti e benefici, primariamente dal fatto che le nostre società sono ordinate dai fatti economici e non politici, quindi dal mercato e non dalla democrazia, dall’assetto atlantista che struttura l’occidentalismo e dalla teoria neo-liberista che per quanto ritenuta di origine economica è in realtà di origine socio-economica, quindi politica ed infine più ampiamente “culturale”. La loro agiatezza è data dall’appartenere al cluster che beneficia direttamente della finanziarizzazione e/o della globalizzazione e/o dell’informatizzazione e se di origine europea, della funzionale connessione col centro motore del sistema che è in US o UK. Direttamente o indirettamente.
Per fare un esempio stupido dell’indirettamente, anche un ristorantino fast-lunch nei pressi di un distretto finanziario beneficia di quel flusso di ricchezza, anche il suo cameriere, piuttosto che il portuale di uno snodo di traffico merci, la segretaria di una azienda che produce container, il programmatore di algoritmo, se assunti e retribuiti di conseguenza. Certo, direttamente il beneficio è più intenso che indirettamente, ma è pur sempre una rete di cointeressenze formata da nodi (hub) di innovazione, logistica, scambio internazionale, favore del mercato quanto più libero ed incondizionato, lavoro sul denaro altrui. In più, non è che sparisca una classe agiata tale sorretta da redditi da attività più “tradizionali”, anche qui direttamente o indirettamente. Quanto si può quantificare questa classe che sta bene dentro lo stato di cose, lo sorregge, lo difende, lo amplia, lo promuove positivamente nel giudizio condiviso?
Prendendo la quantificazione a grana grossa, quindi senza formalizzarsi sulla sua precisione esatta, sociologi stimano in circa un 40% questa che non è “una” classe, ma una alleanza di classi o di tipi sociali, che ruotano intorno agli interessi di un certo funzionamento economico che poi si riflette nel politico e nel culturale sebbene divisi tra trainanti e trainati, classi attive o di servizio a queste. A me pare un po’ alta, forse. Con i benefici del potere economico, politico, sociale e soprattutto culturale, appare però più credibile questa fotografia in cui una minoranza coarta una maggioranza, piuttosto che quella semplificata dell’1% maligno e totalitario. Certo, questo ipotetico 40% ha gradi diversi di beneficio e quindi convinzione, nonché di potere, però ad “alone”, conta e pesa almeno per un terzo sociale. Se pure fosse un più prudente 30% la cosa cambierebbe non di molto e comunque è proprio queste sotto-analisi a grana meno grossa che andrebbero fatte. Questi beneficiati, li possiamo definire gli “integrati” ricorrendo ad una partizione data da Eco in una sua analisi culturale anni ’60. Essi sono sia oggetto che soggetti attivi di promozione dell’egemonia di una immagine di mondo, tanto quanto i più tradizionali soggetti attivi come i fatidici “media mainstream”.
Sin qui, quanto a definizioni di classe diciamo “tradizionale” ovvero reddito + ricchezza + prospettive su aspettative = stato sociale. Ma davvero l’ideologia individuale e di gruppo corrisponde sempre allo stato sociale? Decisamente direi di no. Non v’è un intellettuale che si esprima in libri, articoli, pamphlet o quant’altro anti-capitalistici o anti-neoliberalistici o anti-atlantisti o anti-economicisti che non sia in fondo e per lo più (quindi salvo eccezioni che ci sono sempre) socio-economicamente parte di quel 40% o lì vicino nei fatti, mentre guarda al 60% nel campo dei sistemi di idee politiche. E viceversa, una grande parte di quel 60% non si sogna minimamente di rifiutare l’attrazione verso il mondo degli integrati, vorrebbe solo esserne invitato o poter coltivare la speranza di poterlo essere. E non si tratta solo di mancanza di coscienza di classe, sono proprio tipi sociali le cui radici di immagine di mondo è del tutto integrata in quel sistema di valori e modi, convintamente.
Ci sono dunque defezioni di allineamento tra classe sociale ed ideologia, da una parte e dall’altra, che consiglierebbero indagini ed analisi più complesse per capire meglio, a grandi linee, la composizione del fatidico “blocco storico” che potrebbe sfidare lo stato di cose. Noto che gli schemi semplificati sono talmente egemonici che ad esempio, il problema politico Italia oggi è condensato in Draghi. Non sulle forze politiche che lo sorreggono. Ma soprattutto non su tutti coloro che quelle forze politiche le votano. Quindi ci si convince che il 65% di gradimento a Draghi censito da un sondaggio ancora a novembre è ovviamente falso, quando forse non lo è o non lo è del tutto. Capita quando la fotografia sociale è fatta “sentendo” le opinioni di qualche centinaio al massimo di contatti sui social media. Fa scandalo quando qualcuno ci ricorda che il 50% degli italiani ha dalla licenza media in giù, forse perché si pensa che questi siano tutti contro lo stato di cose quando forse, invece, è proprio l’esatto contrario, è proprio la mancanza di struttura mentale che ha socio-politicamente sorretto decenni e decenni di Democrazia Cristiana in Italia.
Infine, sfidare lo stato di cose può avere molte motivazioni. Si possono sommare in fase critica e di sfida, ma raggiunto eventualmente l’obiettivo di aprire ad un nuovo stato di cose, si dovranno dividere per tante quali sono le loro variate origini e ragioni. Un nazionalista non è un europeista per quanto critico verso l’attuale forma presa da questa istanza ed entrambi non sono degli euro-asiatisti. Un keynesiano non è un decrescista. Un tradizionalista non è un progressista. Un marxista non è un socio-destrista. Un perplesso verso la politica sanitaria in atto non è un no vax, che non è un no pass, che non è un no-covid-è-tutta-una-montatura-del-grande-reset, per quanto, scendendo assieme in piazza finiscono con l’esserlo. Se una alleanza tattica va pensata per ripristinare il valore dei pesi percentuali effettivi del sociale totale, occorre chiarirsi su cosa e questa cosa non potrà essere una forma di mondo che è obiettivamente pensata in modi assai diversi, ma forse solo sul modo con cui i pesi dei vari tipi sociali si riflettono nei processi decisionali politici. Qui, “tipi sociali” che sommano condizione sociale e condizione ideologica, sostituiscono il concetto di “classe”.
In fondo, il panorama sociale in cui pensava Marx, era effettivamente molto simile alla stilizzazione dell’1% degli Occupy Wall Street, ma oggi le cose, ahinoi, sono più complesse e se vogliamo politicamente chiarirci realisticamente le idee, con questa complessità tocca farci i conti. Se non miglioriamo la risoluzione delle nostre fotografie sociali, non sapremo mai in cosa dovremmo metter le mani.

Roberto Buffagni

Ottimo lavoro Pierluigi, grazie. Aggiungerei che non solo manca una teoria sociale dello stesso ordine di perspicuità del marxismo, manca una teoria filosofica dello stesso ordine di perspicuità dell’illuminismo (anche perché la critica anche sociale si deve rivolgere contro la forma attuale che ha preso l’illuminismo). Dovendo buttar lì qualche briciolina di pane, direi questo: come l’illuminismo storico ha revisionato e rieditato per via di astrazione e secolarizzazione i concetti socialmente più rilevanti del cristianesimo, così dovrebbe fare la teoria critica attuale per la forma odierna di questi concetti illuministi, revisionandoli e rieditandoli e “sostanziandoli”, ossia facendo il percorso inverso a quello di astrazione illuminista.

Filosofia e scienza, di Vincenzo Costa

Filosofia e scienza (tratto da Facebook)
La pandemia ha fatto emergere un enorme problema nel rapporto tra i saperi, e in particolare tra filosofia e scienza. Da un lato sembra esservi una filosofia che pretende di saperne più degli scienziati, dall’altro una scienza che tende a considerare la filosofia come mero discorso ideologico, da usare (quando conviene, tipo ciliegina che abbellisce la torta) o da irridere, quando non conviene, quando dice qualcosa che stona. I meccanismi mediatici diventano poi terribili, stritolano, diventano violenti verso le persone, le idee e verso un intero settore disciplinare. C’è un grosso rischio, che riguarda la razionalità, e bisogna iniziare ad affontarlo in maniera razionale e pacata.
Ora, senza entrare in un’analisi precisa della questione (che andrà fatta, ma non su FB) a me pare che si stiano confondendo molte cose. In particolare, la filosofia ha (deve avere) una funzione critica nei confronti della scienza, ma il termine “critica” va ben compreso.
“Critica” (Critica della ragione pura, per Kant, Critica dell’economia politica, per Marx) non significa che la filosofia critica asserzioni specifiche della scienza. Questo tipo di critica, per essere razionale, è interna alla scienza, è la scienza stessa che la sviluppa: Einstein critica Newton, Bohr critica Thomson. Ma Kant non critica Newton nello stesso senso in cui lo fa uno scienziato. Kant “critica” Newton nel senso che cerca di portare alla luce i presupposti (filosofici) che stanno alla base della fisica newtoniana. Hume critica la matematica nel senso di cercare di portare alla luce i presupposti della matematica, e quando invece prova a criticare la matematica in termini matematici un suo caro amico, a cui sottopone il manoscritto, gli consiglia di non pubblicarlo. E credo che quel manoscritto non ci sia neanche pervenuto, ma potrei sbagliarmi. Husserl critica la geometria, ma nel senso che si chiede: da dove derivano e che consistenza hanno i suoi concetti elementari. E pur essendo un matematico di professione non confonde mai la ricerca matematica con la filosofia della matematica.
Nel mio piccolo mi è capitato di occuparmi di filosofia della medicina, ci ho scritto un libro ed è uno dei miei ambiti di ricerca, ma filosofia della medicina significa chiedersi quali sono i presupposti ontologici della medicina moderna (lo fanno Foucault e Canguilhem tra molti altri, e gli altri sono molto meglio per la verità), quali sono le sue procedure di validificazione (per esempio la struttura dell’EBM, che cosa porta alla luce e che cosa oscura, oppure quale è la struttura epistemologica di una diagnosi, che tipo di causalità viene usata in medicina).
E tuttavia, se vi può essere una critica fenomenologica della medicina non vi può essere una medicina filosofica, che sarebbe altrettanto aberrante di una chimica fenomenologica. Né il fatto di effettuare una critica ontologica ed epistemologica della medicina abilita il filosofo a dire alcunchè sulla medicina, cioè a passare da una critica filosofica dei fondamenti a una critica interna, per esempio a dire che una certa teoria del glioblastoma è giusta o sbagliata. Occorrono due competenze del tutto differenti.
La medicina la devono fare i medici, e il filosofo deve solo (e non credo sia poco) produrre un surplus di consapevolezza relativo all’ambito concettuale entro cui lo scienziato si muove. Ma guai se il filosofo intendesse parlare di medicina. Per farlo deve avere una competenza medica, e magari un dottorato, e magari un dottorato specifico su quel campo specifico, altrimenti si espone a critiche giustificate.
SI DEVE APPOGGIARE SU DATI RACCOLTI IN GIRO MA CHE NON è IN GRADO DI VALUTARE.
Paradossalmente, in questo modo accetta proprio il principio di autorità, solo che si appella a una diversa autorità. Quale? Non all’autorità della comunità scientifica, ma all’autorità di singoli scienziati che scartano e deviano dalle linee seguite dalla comunità scientifica. E perché mai QUESTA autorità dovrebbe essere più attendibile di quella della comunità scientifica in quanto tale, che si esprime poi in istituti regolatori e di vigilanza? Alla fine ognuno si cerca gli scienziati che dicono quello che desidera sentire. E questo è irrazionalismo puro e semplice.
Un filosofo non può correggere un virologo e un epidemiologo sul suo terreno. La discussione tra punti di vista diversi deve avvenire entro un ambito di competenze determinate: due virologi che la pensano diversamente possono esporre i loro punti di vista alternativi, ed esporli non su FB, ma in primo luogo davanti alla comunità scientifica e poi di fronte all’opinione pubblica.
La scienza è democratica, è pubblica, ma questo non significa che ognuno può dire la sua: vuol dire che è basata sul dibattito, il quale presuppone conoscenze e competenze riconosciute (non la laurea su FB), e avviene in pubblico, davanti a tutti.
Questo è essenziale per ripristinare un rapporto di fiducia con la scienza, un rapporto dialettico ma di rispetto tra filosofia e scienza. Ho scritto un libro di filosofia della medicina, ma non mi curo da me, mi fido di più del mio semplice medico di base, a maggior ragione di uno specialista se c’è un problema. Mi guardo bene dal dare consigli ad altri su come curarsi, e sarebbe criminale se lo facessi: consiglio loro di recarsi da uno specialista.
Questo non è scientismo, e non è neanche mero buon senso: è il nucleo stesso del pensiero filosofico, è il modo in cui la filosofia si ritaglia un ambito di rigore, un suo campo specifico, che ha una sua dignità, una sua importanza, per me fondamentale. E’ il modo in cui dialoga con il sapere scientifico, senza confondersi con esso e senza pretendere di saperne più degli scienziati nel loro specifico campo di competenza.
Con alcuni neuroscienziati che mi onoro di avere tra i miei amici è capitato di dissentire, di fare lunghe discussioni, ma il mio dissenso era sui concetti filosofici che assumevano (per esempio, nel caso dei neuroni specchio, se adottare la nozione di empatia tratta da Lipps, da Scheler o da Husserl), ma quando parlavano del cervello, di quello che accade in esso, di come fanno i loro esperimenti, mi limitavo e mi limito ad ascoltare, ad imparare, a volte sono strabiliato dalla precisione o dall’inventività dei loro esperimenti. Sarebbe un errore se la filosofia pretendesse di insegnare loro qualcosa sulla struttura del cervello e sui nessi neurali. La filosofia si renderebbe ridicola.
Ecco, ultimamente abbiamo fatto tutti un po’ di confusione, e una discussione aperta e autocritica credo sia necessaria, in primo luogo per il bene della filosofia, e poi per la credibilità della scienza, e – perché no? – per non avvelenare la nostra sfera pubblica e la nostra vita democratica.
Comunque, domani c’è lo sciopero generale, e anche la filosofia scende in piazza con i lavoratori. Questa è un’evidenza apodittica, la roccia contro cui la vanga si piega, il punto in cui scienza e filosofia si danno la mano e convergono la dove il mondo del lavoro si mobilita
PS. Il post è il modo in cui vedo le cose, magari sbagliando. Si può non essere d’accordo, e ci sta. Non voglio essere trascinato in una di quella discussioni demenziali in cui tutti mi devono insegnare a pensare. E’ un punto di vista, se non vi piace pazienza. Nu ne famo un drama

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA, di Pierluigi Fagan

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA. [Post di teoria politica, quindi di interesse per pochi] In questo post ragioneremo con Gramsci, useremo cioè una struttura del suo pensato per pensare a nostra volta.
Questa fruttifera relazione tra strutture del pensiero venne resa immagine immortale da Giovanni di Salisbury (XII secolo), il quale però la riferiva come detto del suo maestro ovvero Bernardo di Chartres: “siamo come nani montati sulle spalle di giganti”.
L’immagine ha un implicito di “vedere più lontano” o “vedere da più in alto”. Ma al di là della formulazione che ne diede Bernardo, cattura una dinamica delle relazioni tra strutture del pensiero, una dinamica che, sempre in analogia, assomiglia a quella che in chimica si chiama “funzione catalitica”. La funzione catalica opera nelle trasformazioni chimiche (crea del nuovo dal vecchio) ed è svolta da una sostanza o complesso di sostanze che partecipano al processo, con ruolo necessario, senza però venire incluse nell’esito finale. Così, strutture di pensiero che aspirano al nuovo, usano quelle consolidate e più strutturate del vecchio, vi si appoggiano, le usano, per sottrazione o addizione o riformulazione. Il processo serve a produrre tentativi di nuovo pensato sotto due aspetti: quello della struttura del pensiero (riformulazione), quello della modifica della ricetta (addizione di nuovi elementi o sottrazione di vecchi elementi). Per addizione e/o sottrazione e/o riformulazione, si usa in modo catalitico la struttura di un pensiero consolidata, per produrne di nuove o comunque portare il processo cognitivo su altre strade da successivamente sviluppare. Chiaritaci la relazione di pensiero sottesa alla frase “ragioneremo con Gramsci”, accenniamo al suo contenuto.
Ci troviamo in quella area di pensiero dei Quaderni che somma diverse riflessioni sugli intellettuali, l’egemonia, la funzione del partito, l’ideologia, la filosofia della prassi, rapporti tra filosofia e senso comune che pare influenzò anche il Wittgenstein via Sraffa.
Far entrare questi argomenti in un post ha del temerario, ma forse ci serve come appunto del pensiero.
In forma scandalosamente ridotta, Gramsci pensa che alcune forme del pensiero di Marx vadano riformulate (al modo del nano che sale sulle spalle del gigante diventando a sua volta gigante che attrae nuovi nani scalatori), il tutto in un processo sociale dialettico ma anche gnoseologico tra “intellettuali e semplici”, seguendo partizioni di classe sociale, dentro una formazione sistemica che è il partito, al fine di promuovere l’affermazione di un nuovo panorama ideologico, che faccia da premessa ad una nuova affermazione politica.
Abbiamo qui alcuni assunti da precisare: 1) per quanto da modificare, Gramsci ha una “concezione del mondo” (IdM) di profondo riferimento, quella di Marx (non del marxismo, G. anticipa la distinzione “marxiano-marxista” usata variamente da dopo gli anni ’90 qui in Occidente); 2) G. non rinuncia alla partizione sociale di classe stante che quando pensava e scriveva, l’Italia degli anni ’20-’30 del secolo scorso, le classi erano nitide e consistenti (contadini, operai, classe media, classe alta, religiosi, industriali etc.); 3) presuppone come finalità perseguibile, il gioco politico delle democrazie occidentali, attraverso un sistema ritenuto potente quale il “partito”. L’intera storia del PCI ne discende. Dentro questi assunti perimetrali, organizza un pensiero davvero importante e dalle molteplici ricadute, relativamente ai fini che si dava con la sua filosofia della prassi, sostanzialmente la XI Tesi su Feuerbach (mai pubblicate fintanto Marx in vita).
Va notata la stranezza per la quale il G è attivamente studiato nell’accademia anglosassone (soprattutto gli USA), l’intero concetto di “soft power” vi deriva, mentre qui da noi è dimenticato nei polverosi archivi del pensato. Del resto, qui da noi, da almeno trenta anni, non si frequentano più gli archivi del pensato in quanto non si pensa, almeno a quel livello.
Prima di procedere oltre, una breve nota di commento su questo ultimo punto. Nel Q.XI il G. analizza i processi di formazione ed affermazione delle “concezioni del mondo” ovvero quelle che noi chiamiamo qui “immagini di mondo” (tutte riformulazioni del concetto di Weltanschauung che Dilthey trae in implicito dal Kant della KdRV). Come conclusioni brevi della sua analisi segna due punti. Il primo è “non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti perché la ripetizione è il mezzo didattico più efficace” consiglio assunto da Goebbels ai pubblicitari fino alla politica da televisione recente e più in generale dalle forme egemoniche liberali-anglosassoni dominanti negli ultimi trenta anni. Il secondo era “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari …”. In Italia, negli ultimi trenta anni, l’egemonia più importante l’ha esercitata un personaggio-fenomeno (ovvero un fenomeno che ha avuto vaste ragioni incarnato da un personaggio catalizzatore) che ha operato in osservanza del primo punto e nel ribaltamento simmetrico del secondo: “lavorare incessantemente per degradare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, etc.”. Sicuramente, questa idea è stata formalizzata da quell’oscuro consigliere del Principe, palermitano, oggi in carcere e le cui vicende giudiziarie hanno oscurato la sua levatura intellettuale comunque presente e sottovalutata. Questo non spiega tutto della deprimente condizione del pensiero italiano, ma ne è comunque parte consistente.
Tornando al corso principale del nostro pensare con Gramsci, rileviamo alcuni punti critici, non critici del Gramsci ma dell’usabilità della sua ricetta. Il primo punto è il problema delle classi. Al di là del liquidismo baumaniano, abbiamo oggi una teoria sociologica chiara sullo stato delle partizioni e dinamiche sociali nelle nostre società contemporanee? No. Non avendola ci troviamo in un primo pasticcio, non riusciamo ad avere una idea chiara dell’oggetto sul quale vorremmo intervenire. Impossibile modificare il “panorama ideologico” di un’epoca se non si ha conoscenza chiara dell’oggetto sociale (e quindi sul soggetto e/o soggetti promotori di un nuovo programma ideologico).
Il secondo problema è che non abbiamo possibile ricorso all’idea del partito perché l’intero sistema che chiamiamo “democrazia occidentale” si basa su un disguido concettuale: noi continuiamo a chiamare “democrazia” un sistema che non vi corrisponde. Attenzione, chi scrive, non dice che “non vi corrisponde più” come dicono alcuni “risvegliati” recenti, non vi ha mai corrisposto, è un chiaro, longevo e doloroso caso di schizofrenia tra parola e cosa. Pochi o nessuno ha posto attenzione a questo “doloroso caso” per tempo perché il “panorama ideologico” delle teorie politiche era ingombrato da una tesi che usa apposta questa falsa nominazione per confondere ed una antitesi che invece che contestargli l’abuso, farfugliava di elementi misti confusi nell’espressione “dittatura del proletariato”, accluse romanticherie rivoluzionarie, che aveva statuto teorico inconsistente, almeno qui in Occidente.
Il terzo problema chiude e riassume anche gli altri due. Al di là dei mille-ed-uno problemi inerenti la “modifica del panorama ideologico di un’epoca” (sempre Q XI) da analizzare a parte oltre quelli appena accennati, abbiamo noi una “teoria mondo” di riferimento, quale Gramsci l’aveva rispetto a Marx? No. Noi abbiamo molte tesi contro ma nessuna tesi alternativa, quantomeno non in forma di “teoria mondo”. Possiamo avere vaghe immagini di mondo critiche ma nessuna tesi sul mondo che dia alternativa egemonica a quella dominante.
Il post non conclude, è “appunto per il pensiero”. Personalmente, ho la convinzione che i tre punti siano collegati e che risolvendo il secondo (una teoria politica forte della democrazia), applicato al primo (il paesaggio sociale delle società europee occidentali al XXI secolo, a partire dalla nostra), si avrebbe soluzione del terzo. Ma è solo un’ipotesi, un appunto per i “compiti del pensiero” che però volevo condividere con chi è interessato, per provare a “pensare assieme”.

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA (pubblicato nel 2008)

1. Nella prima metà del XIX secolo due grandi pensatori europei, Hegel e Tocqueville si posero il problema di come potesse conservarsi uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, senza che l’Unione godesse di tutti quei poteri che il “centro” delle monarchie europee – cioè il governo monarchico – aveva nel proprio territorio,

Scriveva Hegel:

“Se paragoniamo poi l’America del nord con l’Europa, troviamo laggiù l’esempio costante di una costituzione repubblicana. Cioè l’unità soggettiva, perché vi è un presidente a capo dello Stato, eletto, per prevenire ogni possibile ambizione monarchica, solo per quattro anni. La protezione universale della proprietà e la quasi totale assenza d’imposte sono fatti che vengono continuamente elogiati. Ma con questo è già determinata anche la caratteristica fondamentale di questi Stati. Essa consiste nella tendenza del privato all’acquisto e al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare, che si volge all’universale solo in servigio del proprio godimento. Vi sono, naturalmente, rapporti di diritto, ed una formale organizzazione giuridica: ma questa conformità al diritto è senza dirittura, e così i commercianti americani hanno la cattiva riputazione di ingannare sotto la protezone del diritto”, e prosegue “l’America del nord non va considerata come uno Stato già formato e maturo ma come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito, da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra. I Nord-americani non poterono conquistare il Canadà, e gli Inglesi poterono bombardare Washington, perché la tensione fra le provincie impedì ogni vigorosa azione. Inoltre, gli stati liberi nordamericani non hanno nessuno stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli stati europei sono reciprocamente, uno stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canadà e il Messico non incutono loro timore, e l’Inghilterra ha fatto ormai esperienza da cinquant’anni che l’America le è più utile libera che dipendente”i.

Quindi da un lato Hegel connetteva la forma istituzionale dello Stato federale alla prevalenza, negli USA, del “privato” sul “pubblico” dall’altro, e più ancora, all’assenza di nemici “credibili” ai confini che consentiva di mantenere un governo debole. Considerazioni simili, e nello stesso periodo di tempo, faceva Tocqueville nella “Démocratie en Amérique”.

Sosteneva Tocqueville: “La più importante di tutte le azioni che possono far riconoscere la vita di un popolo è la guerra. Nella guerra un popolo agisce come un solo individuo di fronte a popoli stranieri: esso lotta per la sua stessa esistenza… Di qui deriva che tutti i popoli, che hanno dovuto sostenere grandi guerre, sono stati condotti, quasi loro malgrado, ad accrescere le forze del governo. Quelli che non sono riusciti a farlo, sono stati conquistati. Una lunga guerra pone quasi sempre le nazioni in questa triste alternativa, che la loro disfatta li consegna alla distruzione, e la loro vittoria al dispotismo.

Perciò, in genere, è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli.

Nel sistema federale, non solo non c’è affatto accentramento amministrativo o qualcosa di simile, ma lo stesso accentramento politico esiste solo in modo incompleto; e questo è sempre una grave causa di debolezza, quando ci si deve difendere contro popoli nei quali è completo”. E ad esempio ricorda lo stesso episodio storico: la guerra con l’Inghilterra bel 1812ii.

Ambedue i pensatori si sono (forse) ispirati a quanto pochi anni prima, aveva cennato De Maistre sulle istituzioni europee ed inglesi in particolareiii.

Per cui la particolare conformazione della Costituzione e del diritto pubblico inglese era ricondotto, in gran parte, alla situazione geo-politica dell’Inghilterra: in analogia con Hegel e Tocqueville per l’America.

D’altro canto il rapporto tra sovranità all’esterno ed all’interno era considerato da Hegel anche nei Grundilinieniv.

2. Peraltro Hegel sottolineava il carattere politico – in quel senso . – del rapporto tra assetto interno e esterno (nemico e guerra), e lo distingueva da un mero decentramento amministrativo. Nell’opera giovanile Verfassung Deutschlands già lo scriveva, in relazione alla “costituzione” dell’Impero tedesco. Sosteneva a dimostrazione della tesi iniziale “La Germania non è più uno Stato” che “Il potere legislativo, quello giudiziario, quello spirituale, quello militare, mescolati nella maniera più disordinata e in parti le più disuguali, sono separati e congiunti, proprio variamente come la proprietà dei privati.

Attraverso dimissioni della Dieta, trattati di pace, capitolazioni elettorali, contratti domestici, deliberazioni della Corte suprema, ecc. la proprietà politica di ciascun membro del corpo statale tedesco è determinata nel modo più accurato”v, per questo ha il diritto di andare in rovinavi. Sosteneva peraltro che l’unità dello Stato non è data dall’uniformità del dirittovii né della religioneviii; ma l’essenziale per aversi uno Stato è che “una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale” e “L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoliix.

Le argomentazioni di Hegel e Tocqueville, comuni ad altri pensatori, si possono riassumere nei seguenti punti:

Che l’assetto dei rapporti o poteri pubblici – cioè la forma politica – è condizionata dalla situazione geo-politica, e, in particolare, dai nemici e dalle guerre possibili.

Che a costituire l’unità politica non è la comune religione, la lingua, e neanche le leggi ed i costumi o i commerci (cioè fattori in se non riconducibili al politico, anche se rilevanti, e spesso assai rilevanti, sul politico), ma è l’unità del popolo sotto un governo.

Che, quindi, ciò che rende debole il governo non è tanto la diversità di legge o di religione, costumi – spesso, si può aggiungere, “superata” grazie al federalismo o al decentramento – ma la divisione del potere politico. Per definire il quale occorre distinguerlo da quello non politico, ancorché pubblico: e in entrambi il criterio di distinzione è, per l’appunto, la guerra, cioè il rapporto estremo con l’hostis. È questo che può porre in gioco l’esistenza della comunità organizzata in Stato, così costituire l’extremus necessitatis casus ed essere la cartina di tornasole della vitalità di uno Stato.

Che, potenzialmente – le diversità ed i gruppi di interesse che sussistono in ogni comunità umana possono, nelle situazioni di crisi, se prevalenti, mettere in forse l’unità politica (e la capacità di difendersi). Se queste così diventano decisive, passano dal privato al pubblico – o meglio al politico (come gli interessi dei mercanti del Massachussets e del Connecticut nella guerra con l’Inghilterra).

3. La progressiva “tecnicizzazione” del diritto pubblico, cui probabilmente ha contribuito non solo il clima generale – di “onnipotenza normativa” – ma anche la specializzazione accademica, ha fatto si che quei rapporti, sopra elencati, tra situazione concreta e forma politica, fossero smarriti e, quel che più conta espunti dalle concezioni (e trattazioni) del diritto pubblico.

Ciò è stato l’effetto di due idola theatri diffusisi negli ultimi secoli.

In primo luogo l’onnipotenza del legislatore o (meglio ancora), del potere costituente. La frase di Sieyès, ricalcata da Rousseau, che la Nazione è “tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” è stata, a dir poco, mal interpretata. Un sottile politico come Sieyès, oltretutto largamente tributario nelle sue concezioni della teologia cristianax non avrebbe mai pensato di poter prescindere nella fase “costituente” da ogni riferimento concreto e reale, a partire dalla situazione geopolitica, passando per i condizionamenti (e le determinanti) storici e naturali, per finire, in certi casi, alle leggi di “natura”, intendendole se non nel senso dell’ironia di Spinozaxi, come quelle della storia.

Ancora nell’insegnamento di Montesquieu lo “spirito” delle leggi (e a maggior ragione delle costituzioni) erano quei “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”xii, e capire le leggi, penetrarne lo “spirito”, era capire quei rapporti concreti e reali; onde, tra l’altro, scriveva che le leggi sono adatte al popolo che le ha “sviluppate” e non ad un altro.xiii Tutto il contrario quello che avvenne dopo, a partire dal tardo illuminismo fino all’età post-rivoluzionaria.

Ironizzava de Maistre che nel secolo XVIII ogni giovane acculturato, appena diplomato, aveva scritto almeno un trattato sull’educazione, una costituzione e un mondo. Incominciò a diffondersi non solo l’immagine del legislateur provvido e onnipotente, ma pure che all’onnipotenza (in diritto) del sovrano corrispondesse, in qualche misura, quella di fatto: la comunità politica era così considerata la materia da plasmare a piacimento dal legislateur. Tradizioni, costumi, condizionamenti politici, culturali e sociali erano conformabili a discrezione: la retta ragione e la bontà dei fini avrebbero creato istituzioni razionali, condivise e legittimate dal consenso generale di esseri razionali (nel senso dell’illuminismo). Gli sviluppi successivi, dalla Vandea agli insorgenti italiani ai guerrilleros spagnoli dimostrarono che la questione non era così semplice, ma il sogno utopico di costruire una società senza rispondenza alle situazioni (e ai problemi) concreti continuò; in particolare inverandosi nell’utopia radicale del marxismo collassato in pochi decennixiv.

Pertanto l’idea di poter elaborare costituzioni a tavolino (diversamente da quanto pensava Cicerone che fondava la superiorità politica di Roma sulla sua costituzione perché frutto delle esperienze e del lavoro di tante generazioni) sopravviveva e si sviluppava, anche per ragioni scientifiche, anche in un ambiente diverso: quello dei giuristi. Levatrice di ciò è stato, in gran parte, l’ideale “avalutativo” della scienza e, del pari, l’idea che, per il giurista interpretare tenendosi distante da tutto ciò che è politico (anche quando, come nel caso, l’oggetto – da studiare – è politico) è la via migliore per essere scientificamente “oggettivi”.

A leggere un manuale di diritto costituzionale o internazionale del periodo del positivismo affermato (cioè da metà del XIX secolo) i presupposti e i condizionamenti politici dell’assetto costituzionale sono di solito appena cennati; ciò che assume rilievo, pressoché esclusivo, è il dato positivo dell’elaborazione della costituzione in (un) atto organico, che il giurista può interpretare a guisa di un super codice. Come se le costituzioni fossero parti dei giuristi che contribuivano a stenderle (su carta). In questo orizzonte, largamente se non totalmente prevalente, la nota forse più stonata fu quella di Lassalle – non a caso un politico e non un giurista – che in una celebre conferenza formulava il concetto (moderno) di costituzione materiale, contrapponendolo a quel “pezzo di carta” (cioè i testi considerati dai giuristi) la cui funzione principale è, secondo Lassalle, di formulare e confermare i rapporti di forze realixv.

L’altro fatto rivelatore del mutato spirito è che se, ancora nel ‘700, si cercava lo “spirito” delle leggi, e la “forma” (in senso aristotelico-tomista, e non procedurale) dello Stato, col positivismo dalla forma – come oggetto d’interesse prevalente – si passa alle norme. Funzione del giurista è d’indagare sulle norme e su come si possa ricostruire l’unità di un sistema partendo dalle norme. Invece nel ‘700 un giurista come Vattel costruiva un sistema di diritto (interno ed internazionale) basandosi sulla forma: guerre in forma, soggetti (del diritto internazionale) in forma, rapporti formali.

Nel rapporto tra diritto interno ed internazionale il raccordo tra le due sfere (interna ed esterna) non si regge più sulla forma della struttura statale pubblica, ma si ricorre ad armamentario ed a principi e concetti propriamente giuridici. Scrive Triepel in un’opera “classica” sulle relazioni tra diritto interno e diritto internazionale: “La natura delle relazioni intercedenti fra questo diritto ed il diritto internazionale può essere molto varia. Vi possono essere norme di diritto interno la cui esistenza ovvero il cui contenuto dipende da norme di diritto internazionale; può darsi che le prime tutelino anche dalle seconde; le dette norme talora operano con concetti che si possono chiamare “di diritto internazionale”; di tutto ciò non mi è dato far qui che un semplice cenno, poiché sono appunto queste relazioni che dovremo esaminare minutamente nelle pagine che seguono”xvi. Per ricostruire queste relazioni tra norme è centrale il concetto d’ “impenetrabilità” dello Stato ( e cioè il monopolio territoriale della decisione su ciò che debba essere diritto – un elemento della forma-Stato) come di “recezione” o di “rinvio”. E’ chiaro tuttavia che impenetrabilità, rinvio, recezione presuppongono una struttura – una forma – dello Stato in grado in fatto prima che in diritto di “chiudere” il proprio territorio ad ogni potere esterno. Cioè (in primo luogo) eserciti stanziali e permanenti, flotte, efficienti difese delle frontiere e delle coste: strumenti per assicurare il monopolio della decisione politica e della forza legittima (e di conseguenza, anche se meno rilevante, del diritto applicato).

Ed è tale forma che garantisce non solo l’impenetrabilità, ma anche l’osservanza, ad esempio del diritto internazionale (cioè del diritto esterno): una tribù o anche uno Stato feudale ha probabilità assai minore di assicurare l’applicazione delle norme di un trattato internazionale di quanto ne abbia uno Stato moderno, anche un po’ malmesso come la Repubblica italiana. In uno Stato “fallito” (come ad es. la Somalia) la possibilità di far osservare il diritto internazionale (ed anche quello “interno”) è minima. Il tutto conferma l’immagine con cui Santi Romano sintetizzava il rapporto tra ordinamento e norme paragonando il primo al giocatore di scacchi, le seconde alle pedine mosse dallo stesso.

Ciò che è evidente è che quel rapporto tra norme è possibile solo se i soggetti tenuti ad applicarle hanno una forma ed esercitano un potere effettivo senza i quali il rapporto tra interno ed esterno può anche essere giuridicamente regolato e valido, ma è del tutto inutile. All’inizio del secolo scorso Schmitt, Hauriou e Santi Romano invertirono i termini del problema: è l’unità dell’ordinamento (l’istituzione) a dare unità al sistema normativo e non l’inverso.

4. Ad applicare alla situazione del mondo (contemporanea) le tesi desunte da Hegel e Tocqueville ne derivano conseguenze interessanti.

In primo luogo che a costituire una federazione, non è tanto necessaria l’omogeneità culturale delle comunità federate, ma l’unità politica. Ne deriva che la costituzione di super-Stati (differenti su tutto) sarebbe possibile ove vi fosse una effettiva unità politica. Dato che il criterio di quell’unità sono per l’appunto il monopolio della decisione sul nemico e la guerra (e la competenza a identificare il primo e dichiarare la seconda), ne consegue che occorre che la federazione per essere tale e non una mera unione di Stati anche se molto vicini culturalmente (come l’Unione europea), deve avere il monopolio dell’una e dell’altraxvii.

Pensare di realizzare un’unità di Stati, senza politico, è fermarsi all’anticamera dell’unità, senza raggiungerla mai.

Del pari l’entusiasmo politicamente corretto che accompagna ogni nuova istituzione, Ente, Tribunale purchè internazionale (Sabino Cassese ne ha contati oltre duemila) è mal speso e non vale a promuovere l’unità politica. Fin quando lo jus belli e le forze armate apparterranno agli Stati (e, in certi casi, ai movimenti di guerriglia) che vi siano Tribunali, agenzie (e monete) internazionali potrà essere edificante e spesso anche utile, ma non costituisce un fatto politico decisivo e tantomeno impedirà la guerra.

Neppure l’unità del diritto serve a produrre l’unità politica. A parte che per unificazione del diritto per lo più s’intende quello privato (o comunque non politico), è indubbio che una omogeneizzazione della normativa applicabile può essere d’aiuto agli scambi internazionali. Ciò che viene meno notato è come il diritto pubblico, e in particolare quello per essenza politico, non è oggetto di quasi nessun intervento. Si emanano norme e sottoscrivono trattati per i titoli di credito, società, strumenti finanziari e così via, ma non ci risulta che l’U.E. (ad esempio) abbia mai dato direttive sui poteri dei parlamenti, sulle competenze delle regioni degli Stati membri, sulle leggi elettorali, tanto meno sulla competenza a dichiarare la guerra. L’unico ambito del diritto pubblico su cui vi sia qualche normazione “internazionale” (oltre a quello amministrativo) è quello penale. Ma è troppo poco – e troppo evanescente – perché possa inficiare la regola che si omogeneizza il diritto privato ma non quello pubblico. Proprio perciò politicamente l’ “omogeneizzazione” giuridica è poco (o del tutto) irrilevante; per il suo carattere non-politico investe quello che Hauriou chiamava il diritto comune (Dike), contrapponendolo al diritto disciplinare (Thémis)xviii: il primo esterno ai gruppi (sociali), ai clan e alle famiglie e aggiunge “noi diremmo, oggigiorno, internazionalexix,il secondo interno a quelli.

Per cui la (comune) Dike non serve a mutarla in Themis e tantomeno a farla trasformare in qualcosa di politicamente decisivo. Piuttosto il confondere gli indubbi vantaggi che sul piano economico (degli scambi) e anche per altri ambiti dell’esistenza umana (aventi carattere privato) può avere l’omogeneità giuridica significa non percepire la peculiarità del politico e la distinzione tra pubblico e privato.

5. Un’altra considerazione occorre dedicare al problema in che modo i principi sopra ripetuti possano operare in un contesto che non è più quello “classico” degli Stati moderni (o dei di essi “tipi” come quello federale).

I “tipi” di relazioni con cui le unità politiche possono limitare la sovranità e/o l’indipendenza nella produzione ed applicazione del diritto sono diversi.

In particolare, se, come scrive Schmittxx “la federazione è un’associazione permanente, che serve al comune fine di autoconservazione politica di tutti i membri della federazione”, occorre considerare anche quei tipi di rapporti non riconducibili ad una federazione (o ad uno Stato federale).

Fatta questa premessa, occorre distinguere tra limitazioni alla sovranità, e limitazioni all’indipendenza.

Tra le limitazioni alla sovranità, tra la fine della seconda guerra mondiale a oggi, ve ne sono state (frequenti), anche a quella interna non riconducibili a quei rapporti e modelli già conosciuti e “classici” (ad esempio il protettorato). Caso clamoroso quello del quale fu “esternata” la dottrina della “sovranità limitata” degli Stati aderenti al “Patto di Varsavia”. Ma una menzione particolare (anche per gli effetti) compete alla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata dove, tra le molte limitazioni enunciate v’è la seguente “Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione”.

Il senso e gli effetti di tale dichiarazione sono chiari: i vincitori si riservavano il diritto d’intervento all’interno dei singoli Stati occupati, diritto ovviamente indefinito nei presupposti e nel contenuto (delle misure) e quindi determinabile a discrezione degli Stati vittoriosi : tale affermazione costituisce una limitazione alla sovranità interna, quella cioè che in molti Stati membri di una federazione, compete di solito ai medesimi e non alla federazionexxi.

Diversamente da una federazione le limitazioni alla sovranità come quelle sopra ricordate non comportano la garanzia dell’esistenza politica e della sicurezza degli Stati (federati), che Schmitt ritiene una delle conseguenze del “contratto federale”xxii.

Mentre nel patto costitutivo della federazione c’è ancora un “sinallagma” come garanzia di protezione (e obbedienza) che giustifica anche la forma “pattizia” o “contrattuale”, nelle dichiarazioni di Yalta tutto si risolve nella volontà dei vincitori (quindi egemoni in forza della vittoria e della conseguente occupazione militare) i quali dettano le condizioni di sviluppo politico degli Stati occupati, si riservano la facoltà di interpretarle/applicarle e di intervenire di conseguenza.

Non meraviglia che con la firma dei trattati di pace alcune limitazioni alla sovranità (interna) divenissero clausole del trattato stesso, come notò Vittorio Emanuele Orlando nel discorso alla Costituente contro l’approvazione del trattatoxxiii. Ciò non esclude che con un Trattato possano accordarsi quelle garanzie: tuttavia mentre nel caso della federazione ineriscono alla natura dello stesso e sono, come scrive Schmitt, la conseguenza dell’esistenza associata sia degli Stati membri che dello Stato federalexxiv, nel caso del trattato dipendono totalmente dalla volontà degli Stati contraenti (e sono soggette alle riserve comuni a tutti i trattati).

Spesso connesse alle limitazioni alla sovranità vi sono quelle all’indipendenza nell’esercizio del potere normativo o in quello di “polizia” e giudiziario. La recente normativa internazionale finalizzata alla lotta al terrorismo ce ne offre diversi esempi in cui taluno, non senza fondamento, ravvisa la formazione di una sorta di controllo degli Stati Uniti sugli altri Stati del pianeta, sviluppantesi – e questo è il carattere “originale” – non tramite eserciti e occupazioni militari ma con forme di dipendenza delle burocrazie giudiziarie e amministrative degli Stati “soggetti” al potere “imperiale”xxv dello Stato-guida.

Il che costituirebbe una forma di egemonia esercitata in un’epoca in cui si fa un gran parlare di governance, termine che difetta di quella chiarezza e distinzione di solito comune alla terminologia del periodo statale “classico”.

6. È difficile definire un’impero. Il termine è stato applicato a tante diverse forme politiche, dall’impero persiano achemenide a quello romano, dal Sacro romano Impero a quelli coloniali degli Stati europei dalla Rinascenza al secolo scorso, solo per citare quelli più familiari alla nostra cultura.

Trovare forme e tratti comuni tra Dario e Carlo Magno non è facile: tuttavia un primo tentativo di delinearne i caratteri si può iniziare partendo dai connotati tipici e salienti dello Stato moderno e notare le differenze: delimitando cioè l’Impero, in modo negativo, da ciò che è Stato.

In primo luogo nell’Impero non vi è il monopolio della decisione politica e della violenza legittima, invece connotati fondamentali dello Stato moderno, come sostenuto da Max Weber e Carl Schmitt. L’individuazione/designazione del nemico e l’esercizio dello jus belli è distribuito tra il centro e le periferie dell’Impero.

L’Anabasi offre una rappresentazione di ciò che avveniva nell’Impero achemenide: Artaserse non percepisce come ostili i preparativi del fratello Ciro di muovergli guerra perché crede che lo stesso volesse far guerra a (un altro satrapo) Tissaferne e ciò oltre a sembrargli normale non gli dispiaceva “affatto che si facessero guerra tra loro”xxvi (probabilmente perché così erano troppo impegnati per farla a lui). Ciro, per raggiungere il centro dell’impero e combattere col fratello attraversa territori, ottenendo aiuti da una parte e combattendo dall’altra; lo stesso aveva giustificato la spedizione militare come rivolta contro i Pisidi, altri sudditi dell’impero Persiano; tutta la posizione e la politica di Tissaferne nei confronti dei mercenari greci in ritirata è dominata dalla preoccupazione che possano fargli guerra nei suoi domini di satrapo.

In altre parole né monopolio dello jus belli né una situazione di pace all’interno e guerra all’esterno (l’aspirazione/situazione “statale”) facevano parte della normalità dell’Impero persiano. Lo stesso per altri imperi, segnatamente per il Sacro Romano Impero e in genere la società feudale, dove le guerre tra vassalli, comuni, e di questi (e del Papa) contro l’Imperatore costituivano la situazione normale. Contrariamente a quanto accade anche negli Stati federali, lo jus belli non è monopolizzato dal centro; si ha una situazione simile a quella descritta da Grozio, quando distingue le guerre pubbliche da quelle privatexxvii.

La seconda distinzione, tipica dello Stato moderno, è quella “spaziale” tra interno ed esterno, che ha un connotato del tutto specifico il quale delinea due “status” o situazioni differenti e, in molti casi, opposti: quello tra ordinamento (e quindi diritto) interno ed esterno.

Quello interno si basa sul potere-dovere (e le correlative responsabilità, interna ed internazionale) di mantenere la pace (e l’ordine) all’interno dello Stato; a tale scopo la sovranità è irresistibile (c’è una volontà prevalente) dai poteri “interni” e ha quindi il potere (e il dovere) per mantenere la pace. All’esterno coesistono più unità politiche, in principio uguali (non c’è una volontà prevalente) e il mezzo per far valere, realizzare far riconoscere (e regolare) i propri diritti ed interessi è il trattato e, in caso di disaccordo, la guerra. Questa, che all’interno è in linea di principio vietata e considerata attività criminale, all’esterno dell’unità politica è, in linea di principio, legittima se esercitata tra Stati sovrani. In molti imperi non è così: il legame pace-interno e guerra-esterno non è netto: non c’è uno spazio pacificato, qualitativamente opposto a quello d’oltre confine. La distinzione è, al massimo, quantitativa: le guerre interne sono, per le forze relative dei contendenti, meno pericolose e dannose (ma non è sempre sicuro) di quelle esterne. Il confine tra interno ed esterno consegue a questa separazione netta: diversamente dalle società feudali (dove i rapporti di vassallaggio e i conseguenti diritti e doveri attraversavano i confini per cui il Re d’Inghilterra era vassallo – ed aveva propri vassalli – nel Regno di Francia), nello Stato moderno il confine significa l’esclusività e l’irresistibilità (all’interno) del potere sovrano che ne esclude ogni altro della stessa natura.

In terzo luogo il rapporto tra comando/obbedienza e il connesso dovere di protezione (quest’ultimo costituente, secondo Hobbes, il fondamento dell’obbligazione politica)xxviii: nello Stato la sovranità esclude che vi sia un rapporto comando/obbedienza tra i sudditi ed altri poteri che possa prevalere sullo stesso rapporto con lo Stato. Nell’impero ciò non appare definito, onde vi possono essere diversi rapporti, potenzialmente (e spesso in atto) conflittuali tra loro.

Nella società feudale si poteva essere vassalli di più signori e quindi obbligati alla fedeltà ad entrambi: in caso di conflitto politico, o di guerra tra i seniores, la situazione che ne derivava era, a dir poco, confusa. Anche il rapporto di protezione/obbedienza conseguentemente ne veniva incrinato.

Quanto alla sovranità, chiave dello Stato moderno, in conseguenza di quanto sopra, negli imperi non appare dotata dei connotati costruiti da alcuni secoli di dottrina dello Stato moderno. Dei quali, i più importanti sono: l’illimitatezza (o irresistibilità)xxix e la generalità nel senso che il sovrano è competente a provvedere su tutto e “giudice” di tutto, anche della propria competenza.

Il primo peraltro, come scriveva Romagnosi, è un carattere essenziale che distingue nettamente e qualitativamente la sovranità da ogni altro potere di comando (tutti in qualche modo limitati e resistibili); mentre il potere “imperiale” appare differire dagli altri poteri pubblici essenzialmente per dimensioni (spaziali) e per collocazione (sta “sopra” agli altri, ma essenzialmente è un primus inter pares), cioè per differenze “quantitative” (è più potente, non è illimitatamente potente).

Del pari il potere imperiale, nato generalmente come sovrapposizione a precedenti poteri e organizzazioni politiche, ha una competenza non generale, né è giudice della propria competenza (come nella società feudale).

Raymond Aron distingue di conseguenza tre tipi di pacexxx, e, correlativamente tre tipi di guerrexxxi, anche in relazione alla esistenza di imperi.

7. La lezione desumibile da Hegel e Tocqueville è quindi utilmente applicabile alla situazione contemporanea.

In primo luogo né il diritto, né l’economia (e neppure altri “ambiti” dell’esistenza umana, come la morale o l’arte) possono costituire ex se il fondamento per l’unità politica. Anzi nel pensiero di Hegel il privato (nei passi sopra citati rapportato all’attività economica) è una causa di dissoluzione dell’unità politica: è l’ordinamento privatistico (e patrimonialistico) dell’Impero germanico a determinarne la rovina, sì da soccombere a Napoleone. La stessa tendenza del privato “all’acquisto ed al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare” è l’attitudine spirituale meno idonea a costituire e consolidare uno Stato; nei Grundinien des philosophie des Rechts il concetto viene ribaditoxxxii.

Neppure l’esistenza di un’amministrazione nè di una burocrazia (e di regole per il funzionamento dell’una e dell’altra) è, di per sé, decisivo per l’unità politica: l’utopia di Saint-Simon di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose si rivela fallace anche in ambito “internazionale”. Il moltiplicarsi di Enti, istituti, funzionari internazionali non ha fatto progredire affatto la pace, né eliminato e forse neppure ridotto le guerre. La spiegazione l’aveva già data Tocqueville quando nel passo sopra citato parla di debolezza dello Stato federale in relazione all’accentramento amministrativo (non all’amministrazione in genere, men che mai “autonoma”, come va di moda).

È l’amministrazione accentrata cioè l’apparato burocratico gerarchicamente organizzato e dipendente dal vertice politico a costituire fattore e garanzia di unità. In altre parole è un’amministrazione organizzata intorno al “presupposto” del politicoxxxiii del rapporto di comando/obbedienza, (cioè a servizio di un potere politico), a poter realizzare lo scopo, e non una qualsiasi amministrazione, solo perché dotata di bolli, timbri e registri. Senza “governo” la burocrazia (di un potere razionale-legale) porta in se solo l’idea di “regola”, ma non quella, necessaria, di “coazione”.

E del pari sia Hegel che Tocqueville attribuiscono carattere decisivo alla guerra (ed all’esistenza – ed alla scelta – del nemico). E’ questo, se ne desume, anticipando Schmitt (o seguendo Hobbes) a rivestire carattere decisivo per l’unità politica – e per l’esistenza della medesima. E’ il rapporto tra interno ed esterno, forma istituzionale e situazione concreta, in particolare geo-politica, a modellarla come vitale; ciò fino a determinare, in molti casi, la scelta tra rafforzamento del governo (per esistere come unità politica) e perdita (o compressione) delle libertà sociali ed individuali, con ricaduta nel dispotismo.

Ove si costruisca un’unità politica superiore non si sfugge al “criterio del politico”, il quale è decisivo: federazioni o unioni di Stati costruiti su burocrazie zelanti e regolamentazioni economiche (e sociali) non sono unità politiche, proprio perché mille funzionari non fanno un buon esercito.

Quanto all’altro aspetto – dell’impero o meglio degli imperi prossimi venturi – appare sicuro che, per esistere politicamente, devono avere anch’essi quel carattere anche se – a differenza dello Stato – distribuito tra centro e periferia, e perciò non monopolizzato.

Le conseguenze della “costituzione” di un potere imperiale, cioè di un potere non esclusivo ma prevalente, oscillante tra mera superiorità ed egemonia, si intravedono già nelle “nuove forme” di guerra, site al confine (concettuale) tra operazioni di polizia e guerra (vera e propria), e spesso caratterizzate da un confronto tra una potenza enorme e proprio perché tale molto vulnerabile e potenze minime e di conseguenza quasi invulnerabili: costituenti il tipo ideale (ed estremo) della guerra asimmetrica.

Il tutto non lascia intravedere uno sviluppo sicuramente pacifico: se lo jus publicum europeaum aveva ridotto le occasioni di justum bellum privandone gran parte dei soggetti “legittimati” alla guerra (dai grandi feudatari ai Comuni, alle compagnie di ventura), e costruendo lo Stato moderno come produttore di pace, non appare confortante l’idea di una “redistribuzione” dello jus belli tra diversi soggetti “regolari”e “irregolari”: una situazione neo-feudale.

Augusto dispose tre volte la chiusura del Tempio di Giano come simbolo della conseguita pax imperiale. Difficilmente in un’età imperiale, come quella che si profila nel futuro, si potrà procedere ad un atto analogo.

Teodoro Klitsche de la Grange

i V. LFS trad. it. Firenze 1941, p. 229-231 (i corsivi sono nostri).

ii “La costituzione dà al Congresso il diritto di chiamare in servizio attivo la milizia dei diversi Stati, quando si tratta di reprimere un’insurrezione o di respingere un’invasione; un altro articolo dice che, in questo caso, il Presidente degli Stati Uniti è il comandante in capo dell’esercito.

All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachussets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente.

La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi delle milizie territoriali in caso di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava all’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne deriva, secondo loro, che in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie, eccetto il Presidente in persona. Ora, si trattava di servire in un esercito comandato da un altro.

Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati” e prosegue “Per quale ragione, dunque, l’Unione americana, per quanto protetta dalla relativa perfezione delle sue leggi, non si dissolve in mezzo a una grande guerra? Per la semplice ragione che non ha grandi guerre da temere.

Posta al centro di un continente immenso, in cui l’industria umana può estendersi senza limiti, l’Unione è isolata dal mondo quasi come se fosse circondata da ogni parte dall’Oceano.

Il Canada non conta che un milione d’abitanti: la sua popolazione è divisa in due nazioni nemiche. I rigori del clima limitano l’estensione del suo territorio e chiudono per sei mesi i suoi porti.

Al sud l’Unione tocca l’Impero del Messico; probabilmente è di qui che, un giorno, potranno venire grandi guerre. Ma, per lungo tempo ancora, il grado poco avanzato di civiltà, la corruzione dei costumi e la miseria impediranno al Messico di occupare un posto elevato tra le nazioni. Quanto alle potenze europee, la loro lontananza le rende poco temibili” concludendo “La grande fortuna degli Stati Uniti non è, dunque, quella d’aver trovato una costituzione federale, che permetta loro di sostenere grandi guerre, ma quella di avere una posizione geografica tale da non dover temere grandi conflitti.

Nessuno saprebbe apprezzare più di me i vantaggi del sistema federale. Vi vedo una delle più valide combinazioni in favore della prosperità e della libertà umane. Invidio la sorte idi quelle nazioni alle quali è stato permesso d’adottarlo. Ma, nondimeno, mi rifiuto di credere che dei popoli confederati possano lottare a lungo, a parità di forze, contro una nazione, dove il potere di governo è centralizzato” (i corsivi sono nostri) – v. La Démocratie en Amérique, libro I, parte I, trad. it. Torino, p. 200 ss.

iii “…il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo.

Si fa presto a dire: «Ci vogliono delle leggi fondamentali, ci vuole una costituzione». Ma chi istituirà queste leggi fondamentali, e chi le farà attuare? Il gruppo o l’individuo che ne avesse la forza sarebbe sovrano, poiché sarebbe più forte del sovrano, di modo che, per l’atto stesso dell’istituzione, lo detronizzerebbe. Se la legge costituzionale è una concessione del sovrano, il problema si ripresenta. Chi impedirà che uno dei suoi successori la violi?… D’altra parte, si sa che i numerosi tentativi fatti per ridurre il potere sovrano non sono mai riusciti a far venire la voglia di imitarli. L’Inghilterra sola, favorita dall’Oceano che la circonda e da una carattere nazionale che si presta a queste esperienze, ha potuto fare qualcosa del genereDu pape, Lib. II, cap. II, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 158 (i corsivi sono nostri).

ivL’idealità che fa la sua comparsa nella guerra, venendosi così a trovare come in un rapporto accidentale con l’esterno, è in realtà identica all’idealità secondo cui i poteri statuali interni sono momenti organici del Tutto.

Sul piano dei fenomeni storici, questa identità si presenta, tra l’altro, nella figura per cui guerre fortunate hanno impedito irrequietudini interne e hanno consolidato la forza interna dello Stato.

Un fenomeno che rientra appunto in questo ordine è quello dei popoli che, non volendo oppure paventando sopportare una sovranità all’interno, sono stati soggiogati da altri popoli, e che si sono impegnati per la loro indipendenza con tanto minore successo e onore quanto meno si è potuto produrre al loro interno un primo serio assetto del potere statuale – popoli la cui libertà è morta per la paura di morire” (i corsivi sono nostri) LFD § 325 di V. Cicero, Milano 1996, p. 545.

v E proseguiva “da un lato questa legalità di mantenere ogni parte nella sua separazione dallo Stato, dall’altro le necessarie pretese dello Stato sul singolo membro di esso stanno nel più completo contrasto. Lo Stato richiede un centro comune, un monarca e degli stati in cui si riuniscano i diversi poteri, i rapporti con potenze straniere, le potenze militari, le finanze che hanno con esso relazione ecc.; un centro che avrebbe anche per la direzione, la necessaria potenza di affermare se stesso e le sue decisioni e di mantenere le singole parti in dipendenza da se. Atraverso il diritto invece è assicurato ai singoli Stati un’indipendenza quasi totale o addirittura totale… L’edificio statale tedesco non è null’altro che la somma dei diritti che le singole parti hanno sottratto al tutto; e questa legalità che veglia sollecitamente a che allo Stato non rimanga più alcun potere è l’essenza della costituzione” Op. cit. pag. 19.

vi E così prosegue “la Germania può essere saccheggiata e ingiuriata: il teorico del diritto statale saprà mostrare che tutto ciò è del tutto conforme ai diritti e alla prassi e che tutti i casi di infelicità sono piccolezze nei confronti dell’uso di questa legalità. Se il modo infelice in cui la guerra è stata condotta risiede nella condotta dei singoli stati, dei quali l’uno non inviò alcun contingente, moltissimi inviarono, invece che dei soldati, delle reclute arruolate appena ora, l’altro non pagò nessuna «mensilità romana», un terzo al tempo del più grande bisogno ritirò il suo contingente, molti conclusero trattati di pace e contratti di neutralità, la maggior parte ognuno alla sua maniera, annullò la difesa della Germania: allora il diritto statale dimostra che gli Stati hanno il diritto di una siffatta condotta, hanno il diritto di portare il tutto al più grande pericolo danno e sventura; e poiché questi sono diritti, i singoli e le comunità devono salvaguardare e difendere rigorosissimamente questi diritti di essere mandati in rovina. Per questo edificio giuridico dello Stato tedesco forse non esiste dunque nessuna insegna più adatta di questa: Fiat justitia, pereat Germania!”op. cit. trad it. in Scritti politici, Bari 1961 pp. 21.

vii Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” perché “ i più potenti degli Stati effettivi hanno leggi assolutamente non uniformi. La Francia aveva prima della Rivoluzione una tale molteplicità di leggi che, oltre al diritto romano che valeva in molte province, in altre dominava quello burgundisco, quello britannico, ecc. e quasi ogni provincia, anzi quasi ogni città aveva una particolare legge tradizionale; uno scrittore francese disse a ragione che chi viaggiasse lungo la Francia doveva cambiare leggi tanto frequentemente quanto i cavalli dei servizi postali.

Non meno fuori dal concetto dello Stato giace la circostanza dello stabilire da quale particolare potenza, o secondo quale rapporto di partecipazione dei diversi stati o dei cittadini in generale devono essere date le leggi; Op. cit. pp. 32-22 (i corsivi sono nostri).

viii Quanto poco, prima e in sguito, la somiglianza delle religioni nella separazione in popoli potè impedire le guerre e riunirli in uno Stato, altrettanto poco nei nostri tempi la diversità della religione sgretola uno Stato. Op. cit. p. 36

ix Op. cit. p. 44 (i corsivi sono nostri)

x Mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 25 ss.

xi v. Trattato politico, trad. it. Torino 1958, p. 205.

xii Montesquieu, Esprit des lois I, 1, 1

xiii Montesquieu, Esprit des lois, 1. I, 3: le leggi «doivent être tellement propres au peuple pour lequel elles sont faites, que c’est un trés grand hasard si celles d’une nation peuvent convenir à une autre».

xiv Era cioè proprio il contrario di quanto sosteneva Montesquieu. Ovvero che le leggi “devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili.

Queste leggi debbono essere in relazione col carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, col genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori: esse debbono essere in armonia col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i loro commerci, costumi, maniere. Finalmente, esse hanno relazioni reciproche; con la loro origine, col fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite. Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi vari aspetti, ed è appunto ciò che intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste relazioni: esse, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi”. Lo spirito delle leggi deriva quindi dalle relazioni con i condizionamenti concreti e reali (tra cui i nemici e le guerre possibili) che erano considerati nei libri IX e X, che costituicono una vera miniera di intuizioni sul rapporto tra fattori geo-politici e istituzionali.

xv V. Über verfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20, p. 5 ss.. E’ da notare che Lassalle muoveva una critica penetrante ai giuristi suoi contemporanei “tutte queste definizioni giuridiche formalmente simili aono altrettanto lontane quanto la precedente risposta in ordine alla costruzione di una risposta effettiva alla mia domanda. Perché tutte queste risposte contengono sempre e solo una descrizione esterna del come una costituzione viene ad esistenza e di ciò che una costituzione fa, ma non l’informazione: cosa una costituzione è. Esse indicano criteri, segni di riconoscimento, da cui si riconosce una costituzione dall’esterno e sul piano giuridico” per cui concludeva “ Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogmi società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” i corsivi sono nostri. V. op. cit. p. 5-6.

xvi H. Triepel Völkerrecht und Laudesrechts, trad. it. Torino 1913 pp. 4-5. (i corsivi sono nostri)

xvii Montesquieu considerava con favore le repubbliche federate perché federarsi è l’unico modo per dei piccoli Stati, di difendersi. “Furono queste associazioni a render fiorente per così lungo tempo la Grecia. Grazie ad esse i Romani attaccarono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della paura, che i barbari poterono resistere… Le associazioni tra città erano in altri tempi più necessaria di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa correva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali”. Poco dopo specificava che il non poter contrarre alleanza significa per l’appunto di non poter condurre una politica estera diversa dalla federazione Esprit des lois, Lib. IX, cap. 1-3.

xviii “Tutte le istituzioni generano un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza per essere gerarchico e perché, davanti ai Tribunali che lo applicano, le parti non sono in posizione d’eguaglianza” Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 98.

xix Hauriou op.loc. cit., e aggiunge “Mentre Thémis ha la propria fonte nell’organizzazione sociale, Dike trova la propria nella socievolezza umana che non perde i propri diritti neppure di fronte agli stranieri, e del pari di fronte ai nemici”.

xx Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo, p. 477, Milano 1984.

xxi v. sul punto C. Schmitt op.cit.p. 493: “Ma poiché le questioni dell’esistenza politica possono presentarsi diversamente nei diversi ambiti, specialmente in politica estera ed interna, allora è possibile che la decisione su una specie determinata di siffatte questioni, per esempio le questioni dell’esistenza in politica estera, abbia luogo nella federazione, mentre la decisione di altre questioni, per esempio il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica all’interno di uno Stato membro, rimanga nello Stato membro. Questa non è una divisione della sovranità, ma deriva dalla coesistenza della federazione con i suoi membri: non si verifica una divisione, perché il caso di un conflitto, che determina la questione della sovranità, riguarda l’esistenza politica in quanto tale e la decisione nel caso singolo spetta sempre interamente all’uno o all’altro”

xxii v. op. cit., p. 480.

xxiii V. in Palomar n. 18, pp. 49 ss.

xxiv Op. cit., p. 480-481.

xxv v. gli articoli di Jean Claude Paye in Behemoth nn. 35, 37, 38.

xxvi Anabasi, I, 2.

xxvii In effetti in tali guerre, essendo “distribuito” lo jus belli, non c’è il criterio distintivo delle auctoritas cioè il diritto di dichiarare e muovere guerra, indicato da S. Tommaso e dai teologi-giuristi della Tarda Scolastica come una delle condizioni dello justum bellum.

xxviii V. Leviathan (conclusione); scrive Hobbes “E così sono giunto alla fine del mio trattato sul governo civile ed ecclesiastico, al quale hanno data occasione i disordini del tempo presente, e che è stato composto senza parzialità, senza prevenzione e senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservaznza inviolabile”, (il corsivo è nostro) trad. it. di Mario Vinciguerraq, vol. II, Bari 1974, p. 661.

xxix V. la definizione di G. D. Romagnosi in Scienza delle costituzioni, Firenze 1850 (tra i tanti che l’hanno ripetuto) v. V.E. Orlando nel discorso sopra citato alla Costituente.

xxx “Distinguo tre tipi di pace, equilibrio, egemonia, impero: in un dato spazio storico, le forze delle unità politiche o si controbilanciano o sono dominate da quelle di una di esse, oppure infine sono superate da quelle di una di esse in modo che tutte le unità, salvo una, perdono la loro autonomia e tendono a sparire in quanto centri di decisioni politiche” Paix et guerre entre les nations, trad. it. F. Airoldi Namer, Milano 1970, p. 188 (i corsivi sono nostri).

xxxi “La classificazione ternaria delle paci ci fornisce nello stesso tempo una classificazione, la più formale e la più generica, delle guerre: le guerre «perfette», conformi alla nozione politica della guerra, sono interstatali: in esse si affrontano unità politiche che si riconoscono reciprocamente esistenza e legittimità. Chiameremo soprastatali o imperiali le guerre il cui oggetto, o rigine o conseguenza, sia l’eliminazione di certi belligeranti e la formazione di un’unità al livello superiore. Chiameremo infrastatali o infraimperiali le guerre la cui posta è il mantenimento o la decomposizione di un’unità politica, nazionale o imperiale” op. cit., p. 191; si noti che Aron attribuisce allo Stato imperiale il monopolio della violenza legittima. Si può concordare a patto di chiarire che quando c’è uno Stato imperiale, questo è più Stato che Impero, e che l’essenza “statale” può essere prevalente in certe aree, e più sfumata in altre (come in molte colonie extraeuropee degli Stati europei).

xxxii Op. cit., v. (tra gli altri) §258 “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale”, mentre “L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido”, trad. it. di V. Cicero, Milano 1996, p. 417-419.

xxxiii V. Julien Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 94 ss.

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO, di Pierluigi Fagan

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO. Ho finito ieri di leggere “Il capitalismo della sorveglianza” di S. Zuboff, eletto fondamento della tradizione critica degli ultimi decenni assieme a Primavera silenziosa, No Logo, Impero, Il Capitale del XXI secolo etc (questo ultima lista la riferisco come di altri, non è mia). La tesi del libro è condensata -in parte- nel titolo e declinata secondo quanto riportato dalle principali recensioni che troverete facilmente sui motori di ricerca.
Ma del libro mi interessa rilevare un altro aspetto. Il libro sviluppa 539 pagine nette, al netto cioè delle note. Non è né noioso, né difficile da seguire, anzi, merito dell’autrice è quello di dipanare la matassa con accorta lentezza ritornando più volte sui punti precedenti di modo da costruire nel tempo, la struttura di ciò che intendeva comunicare. Sono quindi 539 pagine “necessarie”. Necessarie all’autrice per dirci ciò che aveva da dirci, necessarie al lettore per assorbire informazioni, tesi, concetti e struttura del discorso. Discorso riferito a fatti, molti fatti, interpretati e giudicati con parziale giustificazione del sistema mentale dell’autrice quanto ad interpretazione e giudizio. L’autrice è docente di psicologia sociale ad Harvard, ma si è immersa a fondo nell’argomento riportandoci non solo analisi ma fatti con analisi. La parte della sua immagine di mondo dedicata a questo lavoro di analisi, dichiara esplicitamente il debito di conoscenza con Marx, Durkheim, Weber, Arendt, Polanyi forse più di ogni altro.
Il punto è che, in auto-analisi, debbo rilevare una differenza di conoscenza tra quello che sapevo prima di leggerlo e dopo. La tesi mi era nota, mi era nota a grandi linee la tesi specifica della Zuboff ma mi era nota la faccenda più in generale avendone letto in più di una dozzina di testi oltre la marea di articoli che turbinano nell’argomento, già da parecchio tempo. Tuttavia, solo la lettura delle 539 pagine mi ha dato tutti i livelli del discorso fatto dalla Zuboff. È un po’ come coi concetti.
Se provenite da una vasta e profonda conoscenza di un argomento, il concetto vi permette di zippare tutta la conoscenza che risiede nella vostra mente, in un sintetico. Quel sintetico agile e limitato, lo potrete usare con altri sintetici per costruire nuovi pensieri. Nella vostra mente ci sarà l’argomento vasto ed approfondito da una parte e per certi usi, la sua condensazione nel concetto che userete per costruire altri argomenti dall’altra. Tutto ciò ha base però nella conoscenza del discorso lungo.
Dopodiché potrete scrivere una recensione per chi non ha letto il libro o addirittura citarne il concetto dentro altri discorsi. L’informazione di massa, nei media moderni o in quello ultra-moderno di Internet (social, blog etc.), veicola solo i concetti. Spesso neanche quelli, si va direttamente al giudizio. Ma cosa capisce la gente dei concetti se non è stata esposta al processo di condensazione del discorso lungo in quello breve che è appunto il concetto? O peggio cosa capisce di un giudizio se non ha neanche il concetto per non dire del discorso lungo che questo vorrebbe zippare?
Prendiamo l’ultimo Rapporto Censis. Viaggiano articoli di commento e tabelline postate sui social con commenti vari. Chi usa il testo per sostenere A, chi per sostenere B, chi per invalidare quello che sostiene B e viceversa, chi per invalidare alla radice la credibilità del Censis e dei suoi dati statistici sintetici. Stamane sono andato su loro sito ed ho letto una sintesi meno sintetica di una tabellina sul tema dell’irrazionalità, che allego. Be’ la sintesi che pure è sintetica rispetto al testo del Rapporto è molto diversa nel senso e significato rispetto ai commenti che girano nell’informazione e nella suburra social.
Di nuovo, il discorso lungo io non l’ho neanche letto visto che non ho letto il Rapporto (per anni, quando lavoravo, andavo a comprare e poi leggere il Rapporto Censis perché era la fonte principale di una vasta analisi sociale, un tipo di analisi che cinquanta anni fa facevano in molti ed in molti modi ed era parte della cultura medio-alta diffusa con fonti plurali. Negli ultimi decenni s’è fatta sempre meno, comunicata ancora meno e da ultimo, per niente, senza che nessuno se ne lamentasse). Potrei dire di conoscere abbastanza l’argomento per varie ragioni di studio e di interesse, ma ciò che mi sembrava emergere esponendomi al flusso delle informazioni, non corrisponde neanche un po’ alla pur limitata sintesi dell’articolo pubblicato dallo stesso Censis che ho letto stamane. Di nuovo, quali sono i rapporti tra i nostri discorsi brevi e quelli lunghi nel dibattito pubblico?
Oggi abbiamo folle che credono alla scienza ed altri che non ci credono a priori. Cinquanta anni fa era consenso diffuso almeno nelle vaste platee critiche (che erano più vaste delle attuali) il concetto di “non neutralità della scienza e degli scienziati”. Il che però non significava pensare a priori che qualsiasi informazione scientifica fosse una bufala ideologica. Di nuovo, il discorso lungo predispone ad assorbire informazioni, schemi interpretativi, riferimenti su cui applicare la lente critica per filtrare il tutto e discernere il grano dal loglio, facendosi una opinione. Il discorso breve invece dà l’illusione di avere un concetto, quindi una conoscenza, ma in realtà dà solo un geroglifico il cui senso e significato non si ha. Tale geroglifico inserito nel giudizio dato dalla fonte a cui prestiamo credibilità a priori, determina la nostra illusione di conoscenza.
Farò un altro esempio. Tempo fa mi sono concesso qui nel mattatoio dell’intelligenza che è facebook, un cinque minuti di polemica con una signora che sosteneva l’evidenza della bufala del problematico problema climatico, rilanciando il concetto che la CO2 era la “molecola della vita”. Come poteva la molecola della vita insidiare la vita? La signora non sapeva che non è la qualità intrinseca della CO2 ma la sua quantità il problema. La signora spedita sulla superfice di Venere dove l’eccesso di CO2 crea un effetto serra tale che al suolo ci sono 400°, si sarebbe letteralmente squagliata in pochi secondi anche se prima, per sua fortuna, sarebbe morta di collasso per colpa della sua “molecola della vita”.
Quello climatico è un discorso lungo, come quello economico, ambientale, geopolitico, politico e sociale, tecno-scientifico, filosofico o qualsivoglia altro. Questi discorsi lunghi richiedono tempo, tempo per conoscere, digerire, elaborare, sintetizzare, costruire sintesi di sintesi, dibattere con altre menti. Tempo che mediamente nessuno ha poiché nel nostro ordinamento il tempo è denaro ed il denaro è la fiche del gioco, gioco sociale che non possiamo non giocare sebbene il casinò non l’abbiamo scelto noi, ci siamo stati “gettati”.
Noi viviamo in una società che si dice dell’informazione, ma il sottostante è una società dell’ignoranza. La società dell’informazione è una società dei discorsi brevi, dei concetti (se ti va bene, più spesso delle sole “asserzioni”), dell’illusione di sapere ciò su cui esprimiamo giudizi. Questa grande illusione della società dell’informazione, che scambia la conoscenza con l’informazione, il discorso lungo con quello breve, copre una società profondamente ignorante, siamo nella palese diseguaglianza della conoscenza da cui ogni altra sopravviene.
La società è profondamente ignorante per il semplice fatto che i discorsi lunghi presuppongono il tempo ed il tempo è una risorsa scarsa passibile di usi alternativi, ma non scelti in libertà perché il contratto sociale (oggi derogato sistematicamente da élite strette tra ignoranza ed irrisolvibile conflitto di interessi) impone che più della metà del tempo di veglia sia dedicato a procurarsi le fiche del gioco, che poi è la nostra stessa esistenza; quindi, un gioco “che non si può non giocare”.
Il rischio adattivo che corriamo perché siamo capitati in un mondo sempre più complesso ovvero fatto di questioni molteplici la cui conoscenza presupporrebbe molto tempo, è che questo mondo va da una parte e dall’altra va la nostra illusione di partecipare al discorso pubblico, alimentata da asserzioni senza concetto o concetti senza conoscenza nel turbinio informativo a cui ci dedichiamo quando non abbiamo altro da fare, oltretutto convincendoci che l’informazione del discorso breve possa surrogare la conoscenza del discorso lungo.
Il che ci porterebbe ad una istanza politica prioritaria: rivendicare il tempo. Le teorie politiche critiche, ma direi “alternative allo stato di cose” perché sono svariati decenni che avremmo dovuto capire che la critica è un passivo mentre il mondo è un attivo e l’attivo non viene all’essere dal passivo (dal non essere), dovrebbero avere in cima al proprio elaborato il punto: senza il tempo non c’è conoscenza, senza conoscenza non c’è democrazia, senza democrazia falliremo l’adattamento e ne patiremo lungamente e dolorosamente le conseguenze.
Con una società dell’ignoranza dentro un’era in cui aumenta vistosamente la complessità, la predizione è facile, ma non confortante. Scusate la lunghezza.
[A chi mai interessasse, il paper del Censis: https://www.censis.it/rapport…/la-societ%C3%A0-irrazionale. Una breve aggiunta sul tema del giorno: l’irrazionale. Il concetto è ingannevole, il ragionamento irrazionale non rinuncia affatto alla razionalità, solo, la applica ad una insufficiente conoscenza. Non c’è una epidemia di illogica, c’è una epidemia di ignoranza. ]

L’oceano mondiale contro il continente, di  Jacek Bartosiak

L’oceano mondiale contro il continente

La potenza marittima dominante sta acquisendo forza per una contesa con una crescente potenza terrestre.

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Per secoli, il potere che controlla i mari – il “World Ocean” – ha ostacolato con successo i rivali continentali e dettato le regole del commercio mondiale. Il geografo tedesco Friedrich Ratzel descrisse questo conflitto come uno tra il Leviatano e il Behemoth, rispettivamente. Il Behemoth cerca di fare a pezzi il Leviatano usando le corna e i denti, mentre il Leviatano cerca di soffocare il Behemoth in modo che non possa respirare, mangiare o bere. Classicamente, questo si riferisce ai blocchi navali, ma nel mondo moderno il Leviatano – gli Stati Uniti – ha altre opzioni meno rischiose, come tagliare l’accesso del Behemoth alla valuta di riserva globale. Questo era di progettazione.

Halford Mackinder credeva che nel tempo il continente avrebbe ottenuto un chiaro vantaggio sull’Oceano Mondiale perché l’Heartland eurasiatico, sebbene inaccessibile alle navi mercantili, è inaccessibile anche alle navi da guerra, ed è quindi immune all’autorità dell’Oceano Mondiale. Allo stesso tempo, le innovazioni nei trasporti ferroviari, stradali e aerei migliorerebbero notevolmente i collegamenti terrestri. La massa terrestre eurasiatica, sosteneva Mackinder, possedeva tutti gli elementi per la mobilità economica e militare (quella che oggi chiameremmo la libera proiezione del potere) su distanze molto lunghe. Come ulteriore vantaggio, il continente godrebbe di linee di comunicazione interne in tutta la massa terrestre eurasiatica, in contrasto con le inefficienti linee di comunicazione esterne del potere che controlla l’Oceano Mondiale intorno all’Eurasia.

Oggi, la Cina sta implementando le idee di Mackinder per il consolidamento eurasiatico tramite la sua Belt and Road Initiative. Autostrade, ferrovie, collegamenti aerei, porti, cavi, 5G e flussi di dati sono tutti sintomi del consolidamento eurasiatico. I decisori di Pechino non hanno dimenticato gli insegnamenti di Nicholas Spykman – anche la loro Belt and Road corre lungo la costa e attraverso i mari costieri eurasiatici – ma il continente verrà necessariamente prima.

L'iniziativa cinese Belt and Road

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La firma del patto di investimento UE-Cina nel dicembre 2020 è stato un segnale che l’unità transatlantica che ha definito gli equilibri di potere dal 1945 potrebbe scomparire molto rapidamente e che l’Eurasia potrebbe diventare un sistema per la prima volta. Il sistema eurasiatico sarebbe molto complesso e la concorrenza per i mercati e il denaro sarebbe intensa. Una tale svolta degli eventi sarebbe una minaccia per lo stato dell’Oceano Mondiale, una minaccia che gli Stati Uniti non possono tollerare.

La battaglia per la supremazia ha sempre riguardato le catene del valore e la conseguente divisione globale del lavoro. Questi determinano nuove tecnologie e cicli di investimento, che conferiscono denaro e potere a coloro che entrano nel mercato per primi o in una posizione strutturale migliore. L’arbitro ultimo è la potenza militare in grado di dominare la scala dell’escalation, che per la maggior parte è determinata dalla ricchezza.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti godettero di un dominio indiscusso (o, come preferiscono chiamarlo gli americani, leadership o primato). È stata l’unica egemone negli ultimi 30 anni di globalizzazione, sostenuta dal dollaro, dalla Marina degli Stati Uniti e dalle sue portaerei, dal GPS, dalla Silicon Valley, dalla Borsa di New York, da Hollywood, dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Gli Stati Uniti stabiliscono le regole, che gli conferiscono un’influenza massiccia sulla divisione del lavoro nella produzione, nei servizi e nelle catene del valore; prezzi e flussi strategici; la valuta in cui avvengono le transazioni; la direzione e gli obiettivi di investimento; cicli tecnologici e nuove scoperte scientifiche; e regolamenti che modellano il mercato.

La ricchezza e il potere degli Stati Uniti si basano sulle dimensioni della classe media americana, sulla sua immensa capacità di domanda e sulla forza del mercato interno degli Stati Uniti, ma tale potere non sarebbe sorto senza il commercio marittimo nell’Oceano Mondiale. Né gli americani avrebbero il primato senza il controllo dell’Oceano Mondiale, dove ha luogo la maggior parte dei flussi strategici mondiali. Le regole dell’Oceano Mondiale sono fatte in America e difese dalla US Navy, che domina i suoi nemici con la sua flotta ammiraglia di portaerei in grado di proiettare forza lontano dalle coste del Nord America.

Nel mondo moderno, la proiezione di potenza globale attraverso gli oceani e il controllo del traffico marittimo fanno sempre più uso di molti sistemi di osservazione e comunicazione spaziali che aiutano sia la navigazione che la guerra. Ciò riduce notevolmente la nebbia di guerra, che era la rovina del dominio marittimo, soprattutto in mare aperto. Ha aiutato gli Stati Uniti a controllare il corso della globalizzazione e a promuovere i principi del commercio mondiale che hanno funzionato a loro favore, il tutto mentre gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro posizione dominante nella finanza internazionale e il dollaro funge da valuta mondiale. Gli Stati Uniti sono stati in grado di diffondere la propria influenza attraverso gli investimenti e il mantenimento di alleanze militari vantaggiose per Washington, come accordi bilaterali con Giappone, Australia e Corea del Sud e accordi di sicurezza collettiva come la NATO.

Negli ultimi 500 anni, il Nord Atlantico è stato il fulcro geostrategico del mondo. Il controllo del Nord Atlantico nel XIX e XX secolo ha aiutato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a coordinare e attuare congiuntamente le politiche durante le principali guerre europee dell’epoca. Durante entrambe le guerre mondiali e la guerra fredda, la comunicazione ininterrotta dalla costa orientale degli Stati Uniti all’Europa occidentale è stata la base della forza della NATO e il fondamento della presenza avanzata dell’America nel continente, che ha reso credibili le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti in Europa contro il Vecchio Continente.

L’obiettivo fondamentale della strategia di entrambe le potenze è proteggere i loro interessi e la loro sicurezza e garantire la stabilità e la prevedibilità di un sistema internazionale che serva i loro interessi. Gli elementi chiave di questo sistema sono le linee di comunicazione, anche transfrontaliere, che garantiscono stabilità sociale ed economica e, ove necessario, assistenza militare. Esistono differenze significative tra i confini terrestri e marittimi, e quindi tra le linee di comunicazione. Le linee di comunicazione terrestri sono sempre meno sicure perché le persone vivono sulla terraferma e le loro azioni e interazioni (flussi di capitali, rimesse, migrazioni, ecc.) significano che i confini terrestri sono molto più inclini a cambiare, specialmente in assenza di barriere naturali come le montagne , paludi o foreste.

Inoltre, bilanciare i comportamenti contro la pressione dei poteri terrestri è molto più comune perché a terra ogni minaccia è più immediata. La storia dell’Europa ne è un esempio lampante. I confini terrestri generano più conflitti, che era un’altra ragione per cui l’Eurasia era strutturalmente più debole dell’Oceano Mondiale.

Alfred Thayer Mahan è famoso per aver affermato che le potenze navali che controllano le rotte marittime sono intrinsecamente più potenti delle potenze terrestri. Questo è vero, ma c’erano e ci sono ancora importanti vie di terra. In effetti, per alcuni paesi eurasiatici, come il Kazakistan, non c’è alternativa. Uno di questi percorsi era l’antica Via della Seta, che collegava la Cina all’Europa e attraversava il Medio Oriente e il Levante. Una rete di oleodotti e gasdotti, ferrovie e autostrade essenziali per il funzionamento dell’economia globale garantisce ancora la connettività tra le aree ricche di risorse.

L’Eurasia – abitata da molte nazioni, stati, imperi, gruppi etnici e persino tribù legate insieme in una rete di interessi conflittuali – è estremamente volatile, soprattutto su lunghi orizzonti. Le alleanze sono mutevoli e la fiducia è scarsa. Al contrario, la stabilità delle rotte marittime può cullarci nella falsa sensazione che la navigazione degli oceani sia libera e aperta, al di là del controllo di qualsiasi potenza. Questa percezione persiste in tempi di dominio di un’unica potenza marittima, prima la Gran Bretagna e ora gli Stati Uniti. Ma l’egemonia del mare può in qualsiasi momento negare ad altri il diritto alla navigazione libera e indisturbata, interrompendo i flussi marittimi strategici. Il commercio marittimo tedesco è stato interrotto durante la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti hanno interrotto Cuba durante la crisi missilistica cubana. Lo stesso potrebbe essere tentato in qualsiasi momento lungo gli approcci a Malacca o nel Mar Cinese Meridionale,

Jacek Bartosiak è un esperto di geopolitica e geostrategia e analista senior di Geopolitical Futures. È fondatore e proprietario di Strategy & Future. Il Dr. Bartosiak è l’autore di tre libri: Pacific and Eurasia: About the war (2016), che tratta dell’imminente rivalità delle grandi potenze in Eurasia e della potenziale guerra nel Pacifico occidentale; Il Commonwealth tra terra e mare: On war and peace (2018), sulla situazione geostrategica della Polonia e dell’Europa nell’era della rivalità tra le potenze in Eurasia; e Il passato è un prologo sui cambiamenti geopolitici nel mondo moderno. Inoltre è Direttore del Programma Giochi di Guerra e Simulazione della Fondazione Pulaski; Senior Fellow presso The Potomac Foundation a Washington, co-fondatore di “Play of Battle”, che prepara simulazioni militari; socio della Nuova Confederazione e del New Generation Warfare Center di Washington; membro del gruppo consultivo del Plenipotenziario del governo per il porto di comunicazione centrale (2017-2018), presidente del consiglio di amministrazione della società Centralny Port Komunikacyjny Sp. z oo (2018–2019). Il Dr. Bartosiak interviene a conferenze sulla situazione strategica nell’Europa centrale e orientale, nel Pacifico occidentale e in Asia. Laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza e Amministrazione dell’Università di Varsavia, è socio amministratore di uno studio legale che si occupa di servizi alle imprese dal 2004.
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