TOCQUEVILLE, LA PANDEMIA E IL DISPOTISMO (POST) MODERNO, di Teodoro Klitsche de la Grange

TOCQUEVILLE, LA PANDEMIA E IL DISPOTISMO (POST) MODERNO

Mi è capitato di scrivere che il dispotismo e/o la tirannide da temere al nostro tempo non è (tanto) quello classico, basato su un illimitato uso della forza al servizio di una volontà non opponibile, ma un altro, più che sulla violenza e la paura fondato sulla frode e il raggiro.

Se ne era accorto quasi due secoli fa Tocqueville; nella Démocratie en amerique si chiedeva “quale tipo di dispotismo debbano paventare le nazioni democratiche”. Il capitolo è quanto mai interessante e, come succede ai pensatori di valore, prevede il futuro delle società dallo sviluppo delle tendenze in atto.

In primo luogo usa il termine dispotismo, ma si affretta a precisare che quello delle nazioni europee a lui contemporanee ha poco a che spartire con quanto, a tale proposito, scriveva Montequieu: per il quale dispotico era il regime che si basava come principio di governo sulla paura e i cui esempi erano prevalentemente non europei e non cristiani.

Tocqueville scrive che “un assetto sociale democratico, simile a quello degli Americani, poteva agevolare particolarmente lo stabilirsi del dispotismo” e le monarchie europee avevano già cominciato a servirsene “per allargare la cerchia del loro potere”: “Ciò mi portò a pensare che le nazioni cristiane avrebbero forse finito col subire un’oppressione simile a quella che un tempo pesò su molti popoli dell’antichità”. Ma, meglio riflettendo sul tema, ne mutava l’oggetto. Perché il dispotismo “antico” aveva il limite di non poter controllare capillarmente tutte le articolazioni di un vasto impero “l’insufficienza delle conoscenze, l’imperfezione delle procedure amministrative, e soprattutto gli ostacoli naturali suscitati dalla disuguaglianza delle condizioni, l’avrebbero ben presto fermato nella esecuzione di un programma così vasto”.

Così che il potere degli imperatori romani “non si estendeva mai su un gran numero di persone; si attaccava a qualche grande oggetto e trascurava il resto; era violento e limitato”.

Invece il dispotismo moderno “avrebbe altre caratteristiche: sarebbe più esteso e più mite e avvilirebbe gli uomini senza tormentarli”, e ciò per due ragioni. In primo luogo perché “in secoli di lumi e d’uguaglianza quali sono i nostri, i sovrani potrebbero giungere più facilmente a riunire tutti i poteri pubblici nelle loro sole mani e a penetrare più abitualmente e più profondamente nella cerchia degli interessi privati di quanto non abbia potuto mai fare nessun sovrano dell’antichità. Ma questa stessa uguaglianza che facilita il dispotismo, lo mitiga”.

Secondariamente perché data la modestia delle passioni, la mitezza dei costumi, la purezza della religione, l’umanità della morale, il rischio non è incontrare dei tiranni al governo, ma dei tutori. L’oppressione che minaccia i popoli democratici è del tutto nuova. Dalla parte dei governati Tocqueville vede “una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo” quanto “al resto dei concittadini, (il cittadino) vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria”.

Da quella dei governanti invece “Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite”. Questo governo “lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri… perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? È così che giorno per giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo e spesso anche a considerarlo come un vantaggio”. Dopo che il sovrano stende le sue braccia sulla società “Ne ricopre la superficie di una rete di piccole regole complicate, minuziose e uniformi… non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina; raramente obbliga all’azione ma si oppone continuamente al fatto che si agisca; non distrugge, impedisce di nascere; non tiranneggia, ostacola, comprime, spegne, inebetisce e riduce infine ogni nazione a non essere più che un gregge timido e industrioso, di cui il governo è il pastore”.

E l’aspetto peggiore è che questa specie di servitù “Potrebbe combinarsi più di quanto non si immagini con qualche forma esteriore di libertà e che non le sarebbe impossibile stabilirsi all’ombra stessa della sovranità popolare”. Alla fine i governati “immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini; combinano centralizzazione e sovranità popolare… si consolano del fatto di essere sotto tutela, pensando che essi stessi hanno scelto i loro tutori”; e prosegue “Esiste ai nostri giorni molta gente che si adatta facilmente a questa specie di compromesso tra il dispotismo amministrativo e la sovranità popolare, e che pensa di avere sufficientemente garantita la libertà individuale quando l’affida al potere nazionale. Questo non mi basta. La natura del padrone mi importa molto meno del fatto di obbedire”. Scegliere i propri governanti è un rimedio, ma non decisivo: significa diminuire il male, che la centralizzazione può produrre ma non eliminarlo “Capisco bene che in questo modo si conserva l’intervento individuale negli affari più importanti, ma non per questo lo si sopprime meno nei piccoli e in quelli privati. Ci si dimentica che l’asservimento degli uomini è pericoloso soprattutto nelle minuzie. Dal mio canto sarei quasi incline a credere la libertà meno necessaria nelle grandi cose che nelle piccole, se pensassi che non si potesse mai essere sicuri dell’una senza possedere l’altra. La soggezione nei piccoli affari si manifesta ad ogni momento, ed è sentita indistintamente da tutti i cittadini. Non li porta alla disperazione, ma, contrariandoli continuamente, li induce a rinunciare a far uso della loro volontà. Spegne, poco alla volta, il loro spirito e fiacca il loro animo”, di guisa da sembrargli incapaci di esercitare anche quello che residua loro “Diventeranno comunque ben presto incapaci di esercitare questo grande ed unico privilegio che rimane loro. I popoli democratici, che hanno introdotto la libertà nella sfera politica mentre accrescevano il dispotismo nella sfera amministrativa, si sono trovati in una situazione molto strana. Allorché si tratta della gestione di piccoli affari in cui il semplice buon senso potrebbe bastare, ritengono che i cittadini ne siano incapaci; allorché invece si tratta del governo di tutto lo stato, attribuiscono a questi cittadini immense facoltà; ne fanno alternativamente lo zimbello del sovrano e i suoi padroni, più che dei Re e meno che degli uomini”. Perché “È, in effetti, difficile capire come uomini, che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigersi da soli, potrebbero riuscire a scegliere bene quelli che debbono guidarli; e nessuno riuscirà mai a far credere che un governo liberale, energico e saggio, possa mai uscire dai suffragi di un popolo di servi”.

Ho citato a lungo il pensatore francese perché penso che abbia descritto e compreso il nostro presente assai meglio di tanti contemporanei. Il dispotismo moderno (e post-moderno) non è basato sulla forza e (poco) sull’arbitrio, ma sulla frode e la manipolazione. Invece che un “tintinnar di sciabole” c’è un overdose di messaggi manifesti o subliminali, volti a creare obbedienza servendosi poco di frusta e catene. Al posto dei berretti dei generali, impongono le fake-news più improbabili. Tutte volte a magnificare un potere che si presenta come superiore, depositario della verità – oggi scientifica soprattutto – sollecito e provvido alla vita pubblica ma soprattutto privata.

La si vedeva da tempo, in particolare dalla prima crisi economica di questo secolo (quella del 2008), propalata con argomenti peraltro di una evidente improbabilità.

Ancor più ciò spicca nella crisi pandemica: non si erano mai visti condizionamenti così pervasivi della sfera del “privato”. Si replicherà – e con qualche ragione – che la causa della crisi – una malattia sconosciuta – comporta necessariamente dei limiti a diritti più “privati” che “pubblici”. Così il diritto di locomozione, di manifestazione, al lavoro; tutti comportanti correlativi divieti alla socializzazione, alle relazioni con gli altri.

Per cercare di ridurre danni ed effetti perversi occorre ricordare che l’eccezione (l’emergenza) ha un primo limite fondamentale, desumibile dal concetto, dalla ragione e dalla normativa dello Stato borghese: ossia di essere una situazione di fatto e che le limitazioni ai diritti per combatterlo durano finché dura la situazione eccezionale e non un giorno di più. Se non lo si rispetta allora significa che da una situazione (e una normativa) d’emergenza si è passati ad una situazione normale, ma con i vincoli dell’emergenza. Cioè al dispotismo, magari mite, ma pur sempre generatore di servitù.

D’altronde l’altro limite della normativa di emergenza nello Stato borghese è di non conculcare diritti che non hanno a che fare con l’efficacia delle misure di difesa. E qua il sospetto che, invece lo si voglia fare, è più che lecito. Non solo per (molte) prese di posizione – sopra le righe – contro il dissenso dalle misure governative (v. no-vax, green-pass), ma anche per un possibile sfruttamento della crisi pandemica al fine di rinviare o condizionare scelte costituzionali. Come l’elezione del Presidente della Repubblica. Nel qual caso, come ancor più nelle ripetizioni (ormai decennali) di Premier che non hanno ricevuto maggioranza elettorale (da Monti in poi), avremmo non lo scambio ineguale stigmatizzato da Tocqueville (meno libertà più democrazia) ma una sinergia, un crescere di pari passo: ossia meno libertà e meno democrazia.

Anche questo paventato dal pensatore francese come conseguenza del primo.

Teodoro Klitsche de la Grange

MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________ II PARTE

Un lavoro inattuale di Massimo Morigi, quindi molto adeguato per i tempi attuali. Dalla prefazione dell’autore stesso: «Sui motivi remoti e contingenti della non pubblicazione nel 2003 di questo piccolo lavoro, che viene ora proposto ai lettori dell’ “Italia e il Mondo” nella sua ultima fase di bozza quasi ultimata che non riuscì nel salto di diventare una pubblicazione vera e propria non sarebbe utile spendere alcuna parola se non dire che si trattava di uno scritto d’occasione che per motivi bizzarri e legati alle dinamiche personalistiche tipiche dei gruppi autoreferenziali non poté venire alla luce in forma cartacea. Più utile, invece, spiegare perché si è deciso di pubblicarlo ora seppur in forma elettronica e nemmeno corretto nella sua bozza. Nella bozza non definitivamente corretta perché un sua conclusiva stesura non avrebbe oggi senso perché una rifinitura non conferirebbe alcun ulteriore significato a questa lavoro perché se un senso questa storia ha è che proprio nel suo fallimento nel venire alla luce e quindi nella grezza incompletezza essa oggi segnala la fine di un mondo di espressività e di illusioni strategiche che già allora erano segnate ma che oggi sono definitivamente tramontate. Ma è proprio dalla forma grezza di questo masso erratico di un’altra epoca geologica della cultura e della politica che ora propongo ai lettori dell’”Italia e il Mondo” che risiede la speranza che dell’originaria espressività strategica che ispirò questo lavoro non tutto è perduto ed anzi possa essere proseguito. Penso che l’immortale esempio di Federico il Grande di Prussia (unico appunto da fare al lascito dialettico-strategico del filosofo di Sans Souci, l’aver scritto l’Anti-Machiavel ma saremmo ben indegni ammiratori del Segretario fiorentino se non fossimo generosi verso questa necessaria dissimulazione) il cui famoso ritratto dopo la sconfitta di Kolin campeggia in frontespizio possa costituire la più adeguata Leitbild a quanto ho qui affermato. Massimo Morigi – gennaio 2022.»

Buona lettura.

Giuseppe Germinario

Per chi non avessse letto, questa la prima parte http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimo-morigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-_________-i-parte/

MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________

II PARTE

*In frontespizio: Friedrich der Große nach der Schlacht bei Kolin von Julius Friedrich Anton Schrader (Federico il Grande dopo la battaglia di Kolin, di Julius Friedrich Anton Schrader, 1849)

 

Capitolo 2 LA LOGGIA MASSONICA DANTE ALIGHIERI

O luce etterna che sola in te sidi , sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ‘l mio viso in lei tutto era messo. Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle , sì come rota ch’igualmente è mossa, l’ amor che move il sole e l’altre stelle Dante, Paradiso, c. XXXIII ,vv.124-145

Uno dei danni non secondari del Luzio, dopo l’inquinamento delle coscienze e l’assai esplicito avviso ai naviganti di non incrociare le acque liberomuratorie, fu il bruciare – editorialmente parlando, ché per i roghi meno metaforici altri avevano già provveduto – l’accurato ed anche amorevole lavoro di Giuseppe Leti Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano1 , informato all’idea ,al di là di alcune puntate eccessivamente apologetiche, del forte debito di riconoscenza che l’Italia doveva alla Massoneria. Il libro del Luzio uscì una settima prima , non sappiamo dire se per caso o di proposito, ma il risultato fu che quello che doveva essere un’estrema difesa della Massoneria di fronte alla reazione montante, almeno sul campo della lotta delle idee, rubatogli il tempo dal Luzio, mancò completamente il suo obiettivo. Questo per quanto riguarda le armi della critica. Per quanto riguarda la critica delle armi, abbiamo già detto : il cave canem luziano e la coartazione di uno stato divenuto ormai dittatoriale avevano imposto una dialettica a cui nessun Leti e nessun uomo libero e di buoni costumi poteva al momento comporre in una sintesi superiore. Una sintesi che non chiameremo superiore, ma certamente più adeguata ai tempi storici, che era invece riuscita ai nostri padri risorgimentali quando divenuta inservibile ed impraticabile la massoneria speculativa( come abbiamo cercato di mostrare, non per suo difetto ma per la feroce repressione attuata dalla restaurazione ) non si erano sbarazzati dei vecchi strumenti liberomuratori ma avevano cercato di convertirli alla costruzione non di metaforici templi alla virtù ma all’edificazione di trincee e fortilizi entro cui i “refrattari” alla restaurazione avrebbero potuto rifugiarsi per poi partire immediatamente all’assalto contro i nuovi tiranni. Questo e non altro è l’interpretazione ( ma anche la moralità) della proliferazione associativo – carbonico – settaria romagnola fatta affiorare (e di questo ma solo di questo ringraziamo il Cardinal Legato ) dalla sentenza Rivarola e dei moti che precederono e seguirono l’infame giudizio.

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12 luglio 1859. Napoleone III atterrito dalle pesantissime perdite subite e nemmeno disposto a concedere un eccessivo allargamento al Regno sabaudo ,firma con l’Austria l’armistizio di Villafranca. L’indignazione in Italia è altissima. Non solo il Piemonte avrebbe dovuto permettere il ritorno del duca di Modena e del granduca di Toscana ma avrebbe dovuto permettere all’Austria il mantenimento delle fortezze di Mantova e Peschiera ( come misero premio di consolazione la Lombardia sarebbe stata data dall’Austria a Napoleone III , il quale la avrebbe a sua volta graziosamente girata al Piemonte). La confusione regna sovrana. Prima della cessazione delle ostilità, Cavour aveva inviato a Modena, con la nomina di commissario regio, Luigi Carlo Farini. Gli viene ordinato di rientrare. Ma Farini disobbedisce e anzi si fa proclamare dittatore dell’Emilia. Mentre nessuno ,in Piemonte, sembra trovare il bandolo della matassa o, perlomeno il modo di uscire onorevolmente da questa situazione, Farini così telegrafa a Cavour: “ Fate attenzione che se il duca di Modena fa qualche tentativo, io lo tratto da nemico del Re e della Patria. Io non mi lascerò cacciare da alcuno, mi dovesse costare la vita.”2 Il plebiscito per l’annessione sarà la degna conclusione di un’azione condotta con tale coraggio ed energia. La seconda guerra d’indipendenza, merito anche di questo romagnolo dagli ascendenti rivoluzionari ( suo zio Domenico Antonio era stato un leader giacobino e imperante la reazione fu assassinato nel 1834 a Russi ) non era stata un’inutile carneficina: il 2 aprile 1860 ebbe luogo a Torino la prima riunione del Parlamento italiano. 15 gennaio 1860. Il Grande Oriente Italiano ,che si era costituito a Torino il 20 dicembre 1859, conferisce l’incarico al conte Livio Zambeccari, che era stato uno dei fondatori del G.O.I ., di istituire nell’Italia centrale logge poste all’obbedienza della nuova organizzazione massonica. Anche per la Romagna si sta avvicinando l’ora in cui i fratelli, liberati dal giogo papalino, potranno tornare a riunirsi ritualmente nel nome del Grande Architetto dell ‘Universo. In seguito all’incarico conferitogli dal G. O. I. , Livio Zambeccari ritorna nella sua nativa Bologna per ricostituirvi nel gennaio 1860 “la Loggia Concordia la quale , nel 1862, per distinguersi da altre Logge portanti lo stesso titolo aggiunse al proprio nome l’aggettivo Umanitaria ed ebbe per primo capo il Fr.: Francesco Guerzi”3 che, nonostante la sua veneranda età – era nato a Bologna nel 1784 – e a dispetto del suo cursus honorum di vecchio patriota , non solo accettò l’onere del maglietto della “Concordia” ma curò pure nel 1862 la fondazione ad Imola della Loggia “ Forum Cornelii” ed accettò anche da Zambeccari la delega all’incarico conferita al Conte dal G.O.I. di formare nuove logge nell’Italia centrale. Il 9 novembre 1862 una pressante missiva del Grande Archivista del G.O.I. Angelo Piazza gli chiede conto del suo operato per quanto riguarda la città degli Esarchi: “Quando ci giungerà la domanda della Loggia di Ravenna?”4 . Un’attesa che non sarebbe durata a lungo: Il 3 gennaio il Gran Segretario poteva complimentarsi con Guerzi : Al Ven. Guerzi ,il Gr.: Or.: nella tenuta straordinaria di ieri sera mi ha ordinato di accusare ricevuta della Vostra tavola del 30 passato mese di dicembre n.70 e di notificarvi che il vostro nome [Dante Alighieri] venne registrato nel libro d’oro e ciò per approvare il lavoro Massonico che voi fate all’Or.: di Ravenna e così elevare in quella città un tempio alla virtù. Fortunato di questo incarico del Gr.: Or.: ricevete il triplo bacio fraterno. Il Gran Segretario Gallinati.5 Mancava ormai solo un ultimo passaggio per il ritorno della “Vera Luce” anche a Ravenna. Il 12 febbraio 1863 Gallinati poteva scrivere a Guerzi sulla felice conclusione della pratica: Al Ven. Guerzi, il Gr.: Or.: nella tenuta ordinaria di martedì ultimo ordinò che venisse spedita la patente di costituzione di Loggia alla Dante Alighieri Oriente di Ravenna. Nella stessa tenuta il Gr.Oratore (Avv. Carlo Fiori) propose, e il Gran Consiglio eseguì, una Triplice batteria ben sentita per salutare la fondazione di questo nuovo tempio alla virtù, e mi diede il dolce incarico di ringraziarvi carissimo Guerzi a nome dell’intero Consiglio e della Massoneria Italiana di quanto avete operato per la costruzione di questo Tempio di Ravenna. D’ordine del Gr. M. il Gran Segret. Gallinati.6

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La Romagna che mai aveva accettato la restaurazione, la Romagna che non si era piegata alla sentenza Rivarola, la Romagna la cui risposta al sopruso pontificio erano stati i moti del ’21, del ’31,del ’43 e del ’45 ,la Romagna che aveva sacrificato 96 dei suoi figli migliori per la difesa della Repubblica Romana e, non paga di questo tributo di sangue e di sofferenze anche successivamente ,nel ’67 , a Monterotondo, in questo crepuscolo del Risorgimento, vedrà cadere 32 volontari, questa Romagna assisteva ora al risorgere a Ravenna della liberomuratoria. Il nome scelto dai fratelli ravennati per la loggia attraverso la quale erano ripartiti nella città degli Esarchi gli architettonici travagli , Dante Alighieri, oltre a riallacciarsi idealmente ad uno dei momenti principali della memoria locale impregnata di spirito esoterico7 ( la vicenda della Tomba di Dante, della sua idea originaria troppo sfacciatamente simbolica e il ripiego compromissorio del Morigia dell’uroboros – alloro sul timpano è il segno – al di là della predisposizione del Morigia e del suo ambiente a ragionar per simboli – che il Divin Poeta ,oltre a venir percepito come il padre della lingua italiana , veniva già inteso come il maestro di una conoscenza sapienziale che nel Medioevo si era opposto alla dogmatica cattolica8 ), risultava assai impegnativo anche dal punto di vista dei risvolti politico-essoterici che avrebbero dovuto conseguire dai fervidi lavori fra le colonne. Risvolti essoterici anch’essi fortissimamente radicati nella storia cittadina: L’inserimento nella più ampia compagine statale [della Cisalpina ] si accompagnò ad un salto di qualità nel tentativo di elevare il tono repubblicano ed il senso di appartenenza ad un’epoca nuova. L’adozione nelle scuole dei saggi democratici del Cesarotti costituiva un primo tangibile segno di svolta; ma fu l’arrivo in città di due commissari del potere esecutivo dalla forte personalità, Vincenzo Monti e Luigi Oliva, a innalzare il tenore dell’azione politica. Con tali presenze inizia un periodo ricco di iniziative formative, volte a educare l’intera città alle nuove idee. Un periodo di conseguenza denso di tensioni, inevitabili non appena si cercava di incidere nel tessuto profondo di una società se non immobile, comunque estremamente legata ai principi tradizionali. L’azione di Monti e Oliva ebbe subito risvolti concreti e tangibili nel panorama cittadino: il 29 dicembre veniva inaugurato tra solenni discorsi il circolo costituzionale che, secondo le parole dello stesso Monti, doveva costituire “ la fucina dello spirito pubblico,[…] il libero porto degl’intelletti, ove approdano da tutte le parti i pensieri della repubblica”. La proposta avanzata in quell’occasione di celebrare Dante in un’accademia in sua lode servì all’appropriazione del poeta tra gli eroi repubblicani ante litteram , e a Vincenzo Monti a purificare le colpe al servizio del Papa ,in uno spregiudicato paragone con il grande fiorentino, colpevole come lui di aver scritto un libro inneggiante alla monarchia, ma ciononostante degno del perdono della repubblica.9 Una politica culturale dei giacobini delle ex Legazioni in cui il poeta sepolto a Ravenna costituiva quindi uno degli snodi principali nella costruzione di un immaginario pubblico e di un’identità municipale che non fossero però solo ancorati alle memorie classiche delle virtù repubblicane della Roma antica ma traessero forza e vigore da colui che la tradizione retorico-letteraria aveva indicato come il precursore dell’identità italiana e – particolare di non trascurabile importanza per i giacobini delle ex Legazioni – la sua lotta contro i soprusi temporali e spirituali del papato lo aveva portato a morire esule a Ravenna. Con questa tradizione, un vero e proprio macigno, doveva confrontarsi la Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna. La storia che ci è possibile ricostruire delle sue vicende interne e dei suoi rapporti con il mondo profano sta ad indicare una sorta di parallelismo ideale fra questa loggia con quella – si parva licet componere magnis – della Massoneria italiana postunitaria. Un grande slancio per la rettificazione delle coscienze e della società spesso non supportato da bastevoli forze per raggiungere questi nobili obiettivi. Oltre che un portato della storia nazionale – in cui le pulsioni particolaristiche ed esclusivistiche , accanto alla feroce reciproca inimicizia , hanno sempre avuto un nemico comune, la Massoneria e chi come lei ha voluto sempre esprimere un forte senso identitario che non fosse, però, che l’indissolubile risvolto di una realtà più ampia ed universale – ,la dimensione dello scacco e del rischio è sempre stata, e sempre sarà ,l’orizzonte entro il quale si sono dovute muovere quelle forze che hanno avuto la nobile ambizione di calare e far vivere nella storia principi che oltrepassino il contingente. Questo fu anche il destino di Dante Alighieri. E’ questo è stato anche il Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 27

destino della loggia massonica ravennate che prese il suo nome. Costituisce ,in un certo senso, il suo maggior titolo di nobiltà. Un iniziale rapido sguardo alle sue vicende interne. Il 14 del 3° mese dell’anno 5863 V.: L.: da Ravenna il medico chirurgo Luigi Bondoli , il primo Maestro Venerabile della Loggia “Dante Alighieri” di Ravenna , così scriveva a Francesco Guerzi, Venerabile della “Concordia Umanitaria” , deus ex machina della nascita della loggia ravennate e king maker della nomina di Bondoli a reggere il maglietto della Dante Alighieri: Caris. Fr.: Ven. Francesco Guerzi, Vi prego che mi siate gentile di mandarmi più presto che vi sarà possibile il vostro regolamento interno della Loggia e pure una copia delle cose più importanti. Noi andiamo avanti con un incremento del personale meraviglioso ,intendo dirvi non per numero ma per qualità dei FF.: , domani sera saremo 40 piacendo al G.A.D.U. , ma vi ripeto sceltissimi. Ora che ho mostrato le rose conviene pure che non vi nasconda le spine , ed eccovi l’oratore che ha sempre continuato con il solito suo sistema di venire nei dieci inviti [ alle riunioni della Loggia] una o due volte per cui mi trovai costretto di nominargli un sostituto nella persona del Fr.: Dottor Miccoli che non ho abbastanza parole per lodarlo .Se il suddetto oratore manca all’invito di domani sera, sarà la quinta volta di seguito, e non lo invito più. L’altro è il Fr.: Segretario Dovilio Della Scala ,uomo irrequieto già per sua natura e turbolento a modo che ha indispettito tutti gli altri M. col suo orgoglio ed assoluta insubordinazione, il quale mi ha già rimesso la sua rinunzia alla carica è questa cosa è gradita da tutti, tutti, tutti. Questo fanatico Mazziniano, come pure l’altro (l’oratore) non hanno contribuito all’ingrandimento del nostro Tempio certamente, perché non un solo individuo venne da loro proposto , e se il segretario ne propose uno mancò ,cioè non fu accettato , ciò vi basti. Ho già passato dei lavoranti nelle persone di avvocati, ragionieri, ingegneri e due ricchissimi possidenti nonché il conte Ghirardini, Corradini Francesco, ecc. Gli ottimi FFr.: Dottor Montanari ,Miccoli, Serra, Magri, Bianchini ed altri che non conoscete, si comportano da angeli veramente degni dell’istituzione. Rispondete quanto più presto vi sarà comodo ed abbiatevi il triplice bacio ed abbraccio fraterno dal vostro Fr.: Bondoli. Al Fr.: Segretario Gasperini il triplice bacio.10 Ad un primo sguardo siamo di fronte alle classiche dinamiche ed ai classici problemi che inevitabilmente si accompagnano a qualsiasi sodalizio – iniziatico e non – di recente costituzione: entusiasmo iniziale, rapido accrescimento numerico, prime defezioni. Più interessante è, invece, indirizzare la nostra attenzione sul conte Giovanni Ghirardini ,che il Bondoli descrive entusiasticamente a Guerzi come una delle più positive nuove speranze della loggia, un illustre esponente – come diremmo oggi mutuando il linguaggio dei partiti politici – della società civile. Ma il conte Ghirardini, qualità che viene taciuta od è ignorata da Bondoli, ha un’altra importante e peculiare qualità : egli è in ottimi rapporti con Garibaldi. Tanto buoni da poter richiedere al Generale un parere a proposito della ricostituzione della Massoneria a Ravenna e da ottenere, con una missiva spedita da Caprera in data 10 giugno 1863, la seguente risposta : Caro Ghirardini ,se la Società Massonica che si vuole stabilire in codesto Paese dipende dal Grande Oriente di Torino ,io vi esorto a sfuggirla. Essa rappresenta la Società Nazionale. Se però appartiene al rito scozzese accettato ed antico, e se è affigliata al Grande Oriente di Palermo ,allora potete liberamente accettarla ,perché è la rappresentazione della Democrazia. Ciò vi serva d’intelligenza. La mia salute migliora sempre, e spero ormai guarir presto per potervi accompagnare nelle battaglie che decideranno le sorti d’Italia. Raccomandatemi agli amici e credete all’affetto del vostro G. Garibaldi .11 Non siamo riusciti a trovare la lettera dove Ghirardini chiedeva il parere di Garibaldi. Non siamo quindi in grado di dire se l’ entrata del Conte nella loggia massonica ravennate dipendesse da una sorta di ipotetico lungo periodo trascorso fra l’invio della missiva e la risposta, che il conte avrebbe potuto interpretare come una sorta

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di silenzio- assenso , oppure dalla volontà di Ghirardini di bruciare i tempi per entrare a far parte della Loggia “Dante Alighieri”, volente o nolente il Generale , il quale in questo caso sarebbe stato solo il destinatario da parte di Ghirardini di un’informativa sulla nascita della loggia formulata sotto forma di richiesta di parere sull’opportunità di aderirvi. Domanda alla quale non siamo in grado di rispondere ma che non è l’aspetto più importante fatto emergere dalla lettera di Garibaldi. Vale a dire il problema della Società Nazionale in Romagna. Non solo il Generale aveva questa opinione negativa ma anche Aurelio Saffi e con lui tutti i democratici mazziniani. Addirittura per “l’ultimo Vescovo di Mazzini” il mazzinianesimo ravennate aveva il suo principale avversario nei “Murattiani e [nei] lafariniani insieme…, l’elemento più dissolvente in Romagna”12. Da cosa derivava questa profondissima diffidenza? E’ noto il sospetto con cui i democratici avevano accolto la costituzione della Società nazionale, accusata, fra l’altro, di essere la longa manus di Napoleone III in Italia, a tutto interessato tranne a che l’Italia compisse sul serio il suo processo unitario. Fra i democratici delle Legazioni, questi sospetti venivano pesantemente aggravati dal fatto che la corrispondenza della società venisse consegnata a Bologna al marchese Pepoli, cugino di Napoleone III e a Ravenna al conte Gioacchino Rasponi. Gioacchino Rasponi : “Era nato a Trieste ,l’8 marzo 1829 , primogenito del Conte Cav. Giulio Rasponi e della Principessa donna Luisa, figlia di Re Gioacchino Murat. Nel 1858 aveva sposato una Principessa Ghika dei principati danubiani.”13 Con Gioacchino Rasponi, quindi, non siamo solo di fronte ad un cugino di Napoleone III ma anche ad un nipote di Gioacchino Murat : non c’è proprio da sorprendersi dei sospetti dei democratici verso una politica della Società nazionale ritenuta molto sensibile agli interessi nazionali francesi. Se a questo quadro di tensioni fra democratici e moderati ,aggiungiamo l’opinione comune da parte democratica che, dopo il 1860 , dietro il formarsi della Massoneria in Romagna ,ci fossero i napoleonidi, non solo vediamo meglio esplicitata la diffidenza di Garibaldi verso una loggia all’obbedienza del G.O.I. di Torino – notoriamente vicino alla Società nazionale e voluta ,probabilmente , anche da Cavour – ma anche il gradimento del Generale nel caso che questa loggia fosse all’obbedienza del Grande Oriente di Palermo ,dove erano confluiti di preferenza i democratici mazziniani. Questa situazione fa così da naturale pendant ai comportamenti turbolenti tenuti in loggia dai due mazziniani, il Segretario Dovilio Della Scala e l’Oratore della loggia, molto verosimilmente a disagio in un ambiente che dal punto di vista profano sentivano, a dir poco, distante. Una profanità ,quella che abbiamo appena descritta, che certamente danneggia l’operato del Maestro Venerabile Bondoli ma che dall’esame del carteggio con Guerzi , siamo in grado di affermare non lo facciano desistere dai suoi sforzi per l’edificazione a Ravenna del Tempio alla Virtù. Scrive Bondoli a Guerzi il 24 gennaio 1863, poco prima della nascita ufficiale della loggia: Carissimo fratello (Guerzi), Il giorno stesso che ho ricevuto la vostra tavola mi alzai da letto dopo esservi stato obbligato dieci giorni, per cagioni di una ostinata affezione reumatica, che mi molesta di quando in quando. Ero dunque in convalescenza quando ho chiamato a me i sette amici Avv. Gaspare Bartolini, Dr. Miccoli, Saverio Serra, Dovilio Dalla Scala ,Giuseppe Magni, Gaetano Bianchini, l’altro essendo assente non poteva far parte della piccola assemblea , e tutti unanimi si convenne di battezzare la nostra Loggia col nome di Dante Alighieri ,come si convenne pure di invitarvi ad accedere quanto più presto vi piacerà , di venire in unione del rispettabile fratello Segretario, dirigendoVi alla locanda della Spada d’Oro. Quando sarete pronti mi darete un preventivo avviso, come pure se verrete per la via di Forlì o di Faenza. In quanto a L. Fabbri debbo assicurarvi che le sue qualità morali furono ottime se non si vuole fare rimarco a qualche leggerezza di prima gioventù. Vi lascio il bacio fraterno ed un affettuoso abbraccio. Il vostro fratello L. Bondoli.14 Luigi Bondoli, un uomo libero e di buoni costumi animato dalla fortissima volontà, nonostante una salute non certamente delle migliori ( nulla sappiamo sulla patologia reumatica che lo “ molesta di quando in quando” ma non

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doveva essere cosa di poco conto se lo aveva costretto a letto dieci giorni : da questo punto di vista, dalla lettera di Bondoli emerge una fortissima propensione all’understatement, uno dei segni migliori di ogni pietra ben levigata) , di edificare un tempio alla virtù. La corrispondenza Bondoli – Guerzi se non le si vuole far dire più di quanto non sia effettivamente in grado di esprimere, è quindi un interessantissimo tranche de vie di una loggia massonica romagnola e della società circostante agli albori dell’unità italiana : fortissimi entusiasmi spinti fino al limite del sacrificio, la difficoltà di trovare nella nuova compagine nazionale un senso della politica e della storia condiviso che riuscisse ad oltrepassare gli schieramenti, l’inevitabile risuonare di questi rumori metallici e stridenti all’interno delle colonne. Certamente quello di Bondoli fu una sorta di apostolato .Alla sua morte (il 27 febbraio 1870 , era nato il 10 gennaio 1803), la seguente iscrizione posta sul suo tumulo fu l’estremo omaggio di riconoscenza per l’amore e la stima che lo avevano accompagnato nella vita profana e nel suo percorso verso la “Vera Luce”: Luigi Bondoli / chirurgo/fondatore della Loggia Dante Alighieri/ di Ravenna/ Apostolo/di libertà e progresso/ per la causa nazionale/sostenne intrepido/carcere ed esilio/morì in Ravenna/ il XXVIII febbraio MDCCCLXX./All’estinto marito/al patriotta integerrimo/la vedova Marianna Mazzotti/i F.: F.: e gli amici/ questa lapide /supremo tributo/d’onoranza e d’affetto/posero.15 Nonostante l’impegno profuso da Bondoli e dalla loggia (oltre alla reggenza del maglietto nella “Dante Alighieri”, collaborazione con Guerzi per la costituzione di logge a Forlì ,Faenza ed in altri centri romagnoli, nomina di un delegato di loggia ,il dottor Giuseppe Montanari, all’assemblea massonica del G.O.I. del 1° giugno 1863, e ancora un altro impegno oneroso sulle spalle della “Dante Alighieri” ,offerta nel 1867 di 100 lire ai profughi di Candia ) ,il 28 agosto 1867- apprendiamo dalla Cronistoria della Loggia Dante Alighieri – la Loggia massonica “Dante Alighieri” viene demolita16 “per avere iniziato profani senza chiedere il nulla osta del Grande Oriente”17. Ma è assai pronta la ricostituzione “con bolla di fondazione del 29 agosto.”18 Gli iniziali protagonisti che in prima persona avevano ripreso a Ravenna gli architettonici lavori dopo i lunghi anni del ritorno nelle Legazioni del potere temporale del Papa, devono ora farsi da parte : “Nella Massoneria ravennate ,accanto a Rasponi , militava Domenico Farini. In una lettera del ’20 novembre ‘67 il nobile ravennate comunicava all’amico deputato che la loggia di Ravenna ,sciolta in giugno, si era ricostituita ‘venerabile egli Rasponi coadiutori il Guaccimanni’”19 . Siamo di fronte ad un’infornata di homines novi e le cariche di Loggia nel 1870 erano così ricoperte: Conte Gioacchino Rasponi, Venerabile Maestro Prof. Luigi Guaccimanni ,1° Sorvegliante Mara Giuseppe,2° sorvegliante Dr.Gaetano Miccoli ,Oratore Guerrini Silvio ,Segretario Calderoni Attilio,Tesoriere 20 Ma nuovi quanto? Se ci atteniamo al piedilista che possiamo ricostruire dai documenti degli atti di fondazione che abbiamo precedentemente esaminato, si tratta, in effetti, di uomini – tranne l’oratore – nuovissimi che non avevano mai varcato le colonne o non vi avevano ricoperto posizioni di responsabilità. Ma se facciamo mente locale alla nostra ricostruzione del quadro politico dei primissimi anni postunitari e delle polemiche fra mazziniani e liberali lafariniani all’interno della Società nazionale, la novità altro non sembra che la certificazione negli organigrammi della loggia delle dinamiche profane che avevano fatto da cornice alla nascita della “Dante Alighieri”. Vediamo ora di esaminare da più vicino alcune delle biografie degli esponenti più in vista della loggia della fase post ricostituzione del 1867. Del Maestro Venerabile Conte Giacchino Rasponi, cugino di Napoleone III e nipote di Gioacchino Murat abbiamo già detto come pure dell’opinione da parte

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dei mazziniani di essere la longa manus della politica dell’Imperatore della Francia e deus ex machina della rinascita ,all’indomani della caduta del potere temporale del Papa , della massoneria in Romagna. Interessantissima, inoltre, è la biografia di Domenico Farini. Pure non figurando in alcun documento ufficiale della loggia , fu sicuramente massone e la sua militanza latomistica ebbe inizio e si sviluppò nell’ambito dei suoi amici di loggia della Dante di Ravenna, il conte Gioacchino Rasponi in primis. Una stretta ed assidua frequentazione con l’illustre napoleonide che ,del resto, era una specie di eredità di famiglia. Il padre, il dittatore dell’Emilia che nella fase post Villafranca abbiamo visto battersi leoninamente per gli interessi italiani e contro la politica di Napoleone III, non si può certo dire che fosse estraneo al sistema di potere e di amicizie napoleonidi. “Luigi Carlo Farini era ben accetto a Napoleone III sia per l’amicizia con molti membri della famiglia dell’imperatore, sia perché, come molti moderati, dopo esser stato vicino a Pio IX all’indomani della concessione dello Statuto ,se ne era però andato da Roma subito dopo la fuga del papa a Gaeta , prima dunque che venise proclamata la repubblica […]. Anche se poi Farini si legò a Cavour ed alla politica piemontese, rimase viva la sua amicizia con i napoleonidi , tanto che nel ’59 ,quando fu governatore delle Romagne, chiamò presso di sé , come segretario particolare nel governo provvisorio, Achille Rasponi, il terzo dei figli della principessa Luisa Murat. Il figlio di Luigi Carlo Farini, Domenico, nonostante non militasse nel partito del padre, continuò però sempre a praticare le amicizie della sua giovinezza, mantenendo con il circolo dei Rasponi una intimità di rapporti documentata sia dalla corrispondenza epistolare tra loro intercorsa sia dalla comune milizia massonica . Sarebbe perciò difficile sostenere che l’ attività parlamentare di Domenico Farini prescindesse del tutto dalle opinioni e dalle decisioni della loggia di Ravenna, egemonizzata dai Rasponi .”21 Il grosso rilievo massonico di Farini ( “Ininterrotta fu la dimestichezza di Domenico Farini con il Gran Maestro [Frapolli] , malgrado vent’anni li separassero. Aiutato da Rasponi , nel 1867 il figlio dell’ ex Dittatore di Modena riuscì a ravvivare la Loggia del suo Collegio, la Dante Alighieri, entrata in crisi dopo anni di vita rigogliosa”22 ) e il suo sfavillante cursus honorum ( “Candidato a Ravenna, nel ’64 Domenico Farini ‘ prima delle elezioni non volle fare atto alcuno per ricercare voti ’.Si sentì meno sicuro l’anno dopo e ricorse a Frapolli.[…] Nel ’70 Domenico ricercò l’aiuto del Gran Maestro per evitare che ‘ dalle divisioni della sinistra traessero vantaggio i clericali ’.Ad ogni buon conto venne rieletto per otto legislature ed il merito fu quasi tutto suo”23) ,ci restituiscono l’immagine di un notabile politico dell’Italia postunitaria in cui le chiare qualità personali di leadership ( fu anche Presidente della Camera, succedendo a Cairoli) ben si armonizzano con un’indubbia capacità di lavoro fra le colonne e , fuori da queste, si avvaleva ,senza prevaricazione ma assai abilmente, della tradizione napoleonide inaugurata dal padre. Luigi Guaccimanni. “Il conte Luigi Guaccimanni ,nobile figura di cittadino e di patriota nazionale, fu l’attivissimo segretario della Società Nazionale di Ravenna, ufficio ch’egli[accanto a Rasponi ] potè svolgere egregiamente , anche per la sua qualità di ingegnere. Dovendosi spostare continuamente pei propri lavori, senza destare sospetti, e pure per la sua natura riservata, poteva attendere alla organizzazione , reclutare nuovi e fidi elementi, far pervenire disposizioni e comunicazioni, e raffermare sempre più e sempre meglio la Società nella bassa Romagna .”24 E ad ulteriore conferma del suo ruolo centrale nella cospirazione di segno moderato e nell’ organizzazione della Società nazionale dove si dovette contrapporre all’ ala sinistra egemonizzata dai mazziniani: Guaccimanni Luigi[…] .Nacque il 29 luglio del 1832 da Giovanni, Presidente del Tribunale di Ravenna e della Contessa Tiepolo Loredana di Venezia. Studiò ingegneria e fu ingegnere nel Corpo del Genio Civile. Divenne poi una delle figure più rappresentative e più simpatiche fra i liberali della città nostra. Ebbe costante una corrispondenza di pensiero , di sentimenti e di opere con uomini preclari. Può dirsi che dall’epoca del risorgimento anche della nostra Ravenna, la casa Guaccimanni fu il convegno di tutte le manifestazioni patriottiche e civili della frazione più avanzata del partito liberale costituzionale. Nelle lotte fra conservatori e progressisti (chi più le ricorda?) cioè fra coloro che avevano accettato, forse subito, il nuovo ordine di cose e coloro che

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l’avevano lungamente ardentemente propugnato, Guaccimanni fu costantemente con costoro. Ebbe anche a reggere per vari anni come Prosindaco ,l’Amministrazione comunale. Nel 1876 fu efficace collaboratore con Giuseppe Rava per la costituzione di una fiorente Federazione democratico-progressista della quale fecero parte Alfredo Baccarini e Domenico Farini. In casa sua sorse , e per qualche tempo fu da lui presieduta, la sezione ravennate della “Dante Alighieri”25.Ebbe rapporti coi patriotti più insigni; conobbe Felice Orsini, fu l’Amico di Aurelio e Giorgina Saffi , di Benedetto Cairoli, di Domenico Farini, di Gaspare Finali e soprattutto di Alfredo Baccarini. […] Fu per lunghi anni consigliere provinciale ,membro della commissione di assistenza e beneficienza pubblica , anche presidente della Congregazione di Carità; ed in ogni tempo propugnatore di ogni iniziativa utile al paese. Ebbe insomma una vita costantemente buona e civilmente operosa. Morì in Ravenna il 5 giugno 1917.26 In occasione della guerra franco-prussiana -che segnò la fine di Napoleone III- e della conseguente partenza delle truppe italiane per Roma, il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Ludovico Frapolli inviò a tutti i Maestri Venerabili d’ Italia e al notabilato massonico circolari perché fossero organizzate manifestazioni di sostegno popolare alla spedizione militare che in pochissimo tempo avrebbe ricongiunto la città Eterna alla Patria .Il problema principale per queste manifestazioni era che tutto si doveva svolgere nella piena legalità e che non degenerassero in atti ostili al governo e alle autorità costituite. Dopo Aspromonte, la terza guerra d’indipendenza e Mentana, il tramonto del Risorgimento aveva assunto un colore livido e la questione romana , se non maneggiata con cura, rischiava di risultare letale per la debole creazione unitaria egemonizzata dai moderati. Così i fratelli interpellati da Frapolli furono presi alla sprovvista e molti di loro indugiavano accampando come scusante o lo scarso seguito che avrebbe avuto un’iniziativa del genere ( “De Zugni prima titubò: ‘A Venezia e nel Veneto è impossibile ottenere ciò che costà si desidera. Qualunque tentativo riuscirebbe inutile. Fra due secoli forse le cose potranno cambiare ,ma oggi il clericalismo ed il servilismo sono piaghe troppo profondamente radicate negli animi ’ ”27) o ,al contrario, che, pur esistendo un sentimento popolare del tutto favorevole all’impresa , le pubbliche autorità si sarebbero opposte alle manifestazioni in ordine a timori sull’ ordine pubblico. Una delle risposte di questo genere alle circolari Frapolli , fu quella fatta pervenire al Gran Maestro da un disincantato Guaccimanni: L’opinione pubblica qui da noi è pronunciatissima , ed anche i più moderati esclamano con enfasi: che fa questo imbecille di Governo, che non prende l’occasione per andare a Roma? I più ardono di impazienza , ma nelle Romagne nostre, tutte fuoco, le dimostrazioni sono difficilissime. Tuttavia non mancherò di darmi d’attorno e spero di riuscire.28 Per la verità le preoccupazioni di Guaccimanni più per “questo imbecille di Governo” che poco avrebbe fatto per far giungere al suo naturale compimento con Roma italiana e capitale il processo unitario, erano rivolte tutte alla massa che una volta adunata e organizzata rischiava nelle Romagne di rimettere in discussione quei rapporti di forza che cristallizatasi all’inizio all’interno della Società nazionale (liberali costituzionali egemoni, ruolo ancillare per i democratici di stampo repubblicano) avevano avuto il loro definitivo suggello dai plebisciti organizzati dal dittatore dell’Emilia e che continuavano ,dieci anni dopo, ancora ad imperare. Una prudenza quella del Guaccimanni che non significava certo freddezza verso la prospettiva di Roma ricongiunta all’Italia e nemmeno indulgenza verso le prospettive clerico-moderate che vedevano come fumo negli occhi la caduta del potere temporale del Papa. Per non lasciare adito a speculazioni e far intendere la parte della barricata in cui si era scelto di combattere – e in cui la Loggia “Dante Alighieri” si schiererà sempre all’ ordine – all’indomani della breccia di porta Pia la liberomuratoria ravennate fece deporre sulla tomba del Poeta la seguente iscrizione: Esultate,ossa del divino Poeta/Dal vincitore esercito italiano/il XX settembre MDCCCCLXX/ Fu riparata la colpa /Di Costantino Cesare/Cui la grande anima/Ch’era vostra forma/Lamentava/Quando all’Inferno/Contro Niccolò Papa/ Esclamò/Ahi ,Costantin/ Di quanto mal fu matre/Non la tua conversione /Ma quella dote/Che da te prese il primo ricco patre.29

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In effetti, l’iscrizione deposta dai massoni ravennati si presta a più livelli di lettura ,tutti espressivi però di un vero e proprio progetto che la massoneria ravennate condotta da Rasponi e Guaccimani serbava per la città degli Esarchi e per il resto della Romagna. In primo luogo, sul piano della “politica culturale”, la riconferma e la riproposizione da parte della Loggia “Dante Alighieri” del più importante topos dell’immaginario esoterico cittadino, rivendicando con ciò la “Dante Alighieri” non solo la sua funzione più prettamente esoterica ma anche una più manifestamente politica imperniata sugli aspetti essoterici del mito del Poeta(operazione di “politicizzazione” di Dante che a Ravenna era stata condotta per la prima volta da Vincenzo Monti sotto la repubblica Cisalpina). In secondo luogo, la decisa accentuazione delle potenzialità di polemica anticlericale insite in una figura come quella di Dante , inserita in un disegno di egemonia delle forze popolari che individuasse nel “partito” nostalgico cattolico il nemico comune e nel contempo, proprio grazie a questa dialettica amico-nemico, riuscisse a mantenere la leadership sulle forze repubblicane di matrice mazziniana, rivoluzionarie dal punto di vista istituzionale ma certamente non contrariate dalla conclusione anticlericale che, al momento ,aveva assunto il processo unitario. Del resto, che il “progetto” della massoneria ravennate – o ancor meglio, degli uomini più rappresentativi che essa espresse – fosse quello di incanalare ed interpretare in una complessa opera di mediazione le componenti più moderate dello schieramento democratico, emerge dalle rete di relazioni e dalle posizioni politiche che questi personaggi assunsero quando rivestirono posizioni di responsabilità o in ruoli pubblici o come esponenti del notabilato massonico nazionale. Di Luigi Guaccimanni abbiamo già visto che nel “ 1876 fu efficace collaboratore di Giuseppe Rava per la costituzione di una fiorente Federazione democratico-progressista della quale fecero parte Alfredo Baccarini e Domenico Farini”30 .Di Domenico Farini abbiamo già detto. Conviene soffermarci su Alfredo Baccarini. Nato a Russi nel 1826, laureato in ingegneria, aveva combattuto valorosamente nel 1848 negli scontri di Vicenza e Treviso, una fama di intrepido patriota che gli valse l’attenzione e la protezione di Luigi Carlo Farini che, dopo Villafranca, lo fece assumere al servizio del nuovo stato :col riordino del genio civile , con Regio Decreto 1° marzo 1860, viene nominato ingegnere di II classe e sempre per iniziativa di Luigi Carlo Farini “fu chiamato nel ’60 dal dittatore dell’Emilia Romagna […] a far parte della Commissione che doveva trattare col governo toscano per la costruzione della linea ferroviaria Faenza Firenze”31 .Una vicinanza quella di Baccarini con Luigi Carlo Farini che con il figlio di questi, Domenico , si tramuterà in una vera e propria amicizia personale e politica. La sua appartenenza massonica32 , come quella di Domenico Farini, di Luigi Guaccimanni e di Gioacchino Rasponi, oltre a farne uno dei rappresentanti più illustri di quella coterie latomistica che era sorta attorno alla Società nazionale, si inalveò naturalmente in una visione politica “ che cercò di guidare l’inserimento della regione nell’Italia unita ,promuovendone l’indispensabile miglioramento economico-sociale attraverso il richiamo insistito e ribadito ai valori ed alle alleanze del Risorgimento[…]. [Ritenne cioè] che solo il mantenimento di un fronte comune di tutte le forze genericamente progressiste, deciso ad operare in concreto sui dati del reale[…] potesse avviare un cammino di progresso capace di vincere tutte le resistenze frapposte a chi si manteneva aggrappato alle immobili gerarchie di potere del passato[…] finendo così per scontrarsi con una situazione di rapporti sociali ben poco scossa dalla recente tensione unitaria ed al contrario bloccata dalla dura contrapposizione tra chi deteneva tutte le leve della proprietà economica e finanziaria e quanti ne erano brutalmente esclusi”33.Con Baccarini siamo quindi in presenza della migliore e più consapevole espressione di quel progetto politico della Massoneria postunitaria tesa ad operare nell’ ambito della compressione delle istanze più rivoluzionarie dal punto di vista istituzionale e sociale con prudenti e meditati atti che , facendo leva sulla tradizione laicista risorgimentale, fossero in grado di fornire, al fine di avviare un reale sviluppo economico e sociale, una alternativa praticabile fra conservazione pura e semplice e sterili e velleitarie rivoluzionarie fughe in avanti. Così si cercò di operare a Ravenna e in Romagna e questo fu anche il ruolo

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essoterico che cerò di interpretare la Massoneria italiana, una valorizzazione cioè di quel ceto produttivo(piccola e media borghesia dei servizi e delle professioni ma anche classe operaia) che come cemento identitario fosse imperniata sulla conseguita unità nazionale ( e nelle sue espressioni più elitarie e consapevoli dall’appartenenza massonica) e sotto l’aspetto della tutela e valorizzazione degli interessi materiali, sulla contrapposizione con le vecchie oligarchie economico finanziarie, a tutto interessate tranne a che in Italia fossero avviati volani di sviluppo economico e democratico. Questo indirizzo concretamente riformatore se sul piano economico- infrastrutturale fu al meglio interpretato da Baccarini, sul piano istituzionale fu il filo conduttore di Aurelio Saffi, pure lui ,non a caso , esponente della massoneria romagnola e che – anche se estraneo al circolo napoleonide-società nazionale-lafariniano ( “ murattiani[…] l’elemento più dissolvente in Romagna”34) ed anzi costituendo il liberalismo dei Farini e alla Baccarini l’avversario politico- elettorale col quale il repubblicanesimo si doveva costantemente scontrare – , non a caso, aveva abbandonato, anche se “ultimo Vescovo di Mazzini”, i rifiuti intransigenti e totalizzanti del Maestro verso l’assetto postunitario ed inizierà ad incoraggiare ,in contrasto col mazzinianesimo “duro e puro” , la partecipazione dei repubblicani alle lotte elettorali. Si deve soprattutto a lui e alla sua duttile ma rigorosa impostazione se i repubblicani potranno trasformarsi da “setta in partito” e cominciare a costruire sul serio, a partire dalle amministrazioni locali, quella alternativa alla monarchia, che, traendo forza dal Municipio, si allargasse fino ad investire e sommergere, in una ulteriore fase, la massima istituzione dello Stato. Ma ,nel frattempo, era necessario operare, rendere il nuovo ordine che era scaturito dall’indipendenza nazionale veramente in grado di migliorare, da subito e sul serio, le condizioni di vita morali e materiali delle masse più diseredate, ponendo all’avanguardia in questo processo la parte più fattiva e moralmente seria della borghesia produttiva. Saffi l’aveva capito, i napoleonidi dell’ex Società nazionale l’avevano capito, la massoneria romagnola e nazionale pure. Che poi questo generoso e lungimirante disegno abbia visto nella nostra storia nazionale molti nemici e solo molto parziali realizzazioni e nella fase postrisorgimentale ed anche in quella molto più celebrata – a torto a nostro parere – dell’ Italia democratica postfascista , nulla toglie al suo valore ed anche spiega perché la Massoneria ,che di questa idea dell’ Italia era sempre stata l’alfiere – in ciò e solo in questo senso gramscianamente parlando “partito della borghesia” – , sia stata considerata dai settori più retrivi come un corpo estraneo e nemico della vita nazionale, una vera e propria avversione totalitaria ed integralista che avrà il suo naturale sbocco nella soppressione decretatane dal fascismo e nelle varie ondate di demonizzazione che, al di là delle contraddizioni ed errori che possono avere attraversato questa istituzione, colpiranno la liberomuratoria italiana degli ultimi cinquant’anni di vita repubblicana. Nonostante che la massoneria ravennate, o attraverso il suo prestigioso piedilista 35 o tramite gli uomini a lei vicina, fosse, almeno essotericamente parlando, dotata dei più nobili ed alti propositi, dal punto di vista dell’organizzazione non sembra proprio che godesse di una classica salute di ferro. Prova ne sia che – apprendiamo dalla Cronistoria della Loggia Dante Alighieri- dopo la sua ricostituzione rasponiana del 1867 e una vita che pur nella secchezza di queste note si intuisce fattiva (“il Conte Gioacchino Rasponi la rappresenta all’assemblea costituente di Roma del 1872. Nel 1870 è maestro venerabile il Conte Giacchino Rasponi […]. Nel 1873 è ancora Venerabile Rasponi. Il 12 aprile viene iniziato il poeta Olindo Guerrini36, pseudonimo di Lorenzo Stecchetti. Prende parte all’Ass. Cost. di Roma del 1874. Viene Menzionata nell’almanacco del libero muratore del 1875, edito dalle logge di rito simbolico di Milano. Aderisce all’assemblea generale di Roma del 1877 […]. Nel 1878 ha indirizzo presso Domenico Babini”), nonostante, dicevamo, che la Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna sia da ritenere che in questo periodo svolga i suoi lavori con sufficiente regolarità e che sul piano dei suoi rapporti con il G.O.I. la sua fosse una vita intensa – e a suggerire ciò basti far mente locale al calibro profano e non dei suoi iscritti – ,“Con decreto n°28 del 20 giugno 1878 viene demolita per morosità”37. Cosa era accaduto? “Il fratello Cagnoni nelle sue memorie afferma – Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 34

scrive Carlo Manelli – che dopo il ’70 declinò l’attività della Massoneria in Romagna e la Dante Alighieri incontrò tempi difficili a causa delle pubbliche lotte politiche fra clerico-moderati e progressisti. Nel 1870 tutte le altre Logge della regione (Cesena, Forlì, Imola e Bologna) avevano già da qualche tempo interrotti i loro lavori, invece la Loggia Dante Alighieri continuò ancora la sua attività e se ne trovan prove nel Bollettino del Grande Oriente (anno 1875 – n. 1) nel quale si legge che era presente il suo rappresentante all’Assemblea costituente del 23 maggio 1874; nello stesso Bollettino del 1877 (n.2) è registrata l’adesione della Dante all’Assemblea che fu tenuta in detto anno tuttavia senza aggiungere se essa inviò o meno un suo rappresentante “ 38 . Al di là della tendenziosità dell’accusa mossa da Carlo Mannelli ai clerico-moderati di essere l’elemento catalizzatore della crisi della massoneria romagnola ( accusa viziata a nostro parere da una certa dose di anticlericalismo di maniera e della quale non siamo riusciti a produrre alcun riscontro ma meritevole comunque – nonostante la sua tendenziosità più nel metodo in cui viene presentata, nessun documento, che nella verosimiglianza del quadro nella quale s’inserisce , è certamente possibile che la Chiesa sia riuscita a contribuire alla crisi della massoneria romagnola : il problema è accertare concretamente come, e non solo attraverso le sue tradizionali scomuniche e contumelie contro l’Ordine- di un ulteriore approfondimento ), quello che ci sentiamo di far nostro dell’opinione di Manelli è certamente la realtà di una massoneria che , in ragione del suo forte slancio a favorire il conseguimento di nobili obiettivi nel campo economico e sociale, subiva dalla politica – che per le sue dinamiche interne ed anche per motivi meno legati al suo specifico ma allo stridore dei metalli è del tutto refrattaria ad una sorta di eterodirezione anche solo sul campo dei principi – degli inevitabili e dannosi ritorni di fiamma, il cui effetto era anche minare la regolarità dei lavori iniziatici. “ ‘Non dava ormai che raramente qualche segno di vita’ la Massoneria italiana a dieci anni da Porta Pia e a un lustro dall’ascesa della Sinistra al potere (18 marzo 1876) , avrebbe detto , rievocando i tempi del proprio ingresso nel Governo dell’Ordine ,il Gran Maestro Adriano Lemmi. ‘Per molti anni disordinata e divisa’ , aggiunse a sostegno del suo ruolo di ‘Restauratore’ , ‘quindi povera, inerte , infeconda … simile all’ inferma di Dante, non trovava pace e riposo.’ ”39 Questa a parere del “Restauratore” Adriano Lemmi la situazione della Massoneria ai tempi della demolizione della Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna e di tante altre logge, romagnole e non, sparse per tutte le Valli della Penisola. In quegli anni la Massoneria ,oltre a dovere fare i conti con il nemico di sempre, la Chiesa – lo ripetiamo: la tesi di Manelli sulla crisi della massoneria romagnola manca di una base documentale, non certo di verosimiglianza40 – e con quanti mal digerivano che “uomini liberi e di buoni costumi” uscissero dalle loro notturne adunanze credendo di recare anche per il mondo profano qualche scintilla di “Vera luce” – la storia dei “poteri forti” , arroganti ed intolleranti è una triste costante nelle vicende italiane – , doveva pur scontare il nobile velleitarismo che l’aveva portata a concepire grandi disegni ma non sostenuti da un’adeguata struttura organizzativa. Il risultato dei primi decenni di vita postunitaria era stato che la società italiana si stava avviando, pur fra mille arresti e contraddizioni e spesso anche con l’apporto degli uomini e delle idee della Massoneria, verso assetti sociopolitici più progressivi e che , comunque, tendevano a fare dell’Italia una nazione industrializzata animata da una più intensa dinamica politica e sociale , ma che da questa nuova situazione la Massoneria non traeva alcun vantaggio; anzi rischiava di rimanere stritolata dai suoi vecchi e nuovi nemici ed anche dal nascere di nuove forme di aggregazione (i partiti politici ,i sindacati) più adatti a dare rappresentanza ed ascolto alle necessità identitarie e di organizzazione degli interessi legittimi sviluppatisi nella nuova Italia in via di industrializzazione. E così la triste condizione della liberomuratoria italiana era proprio quella spietatamente diagnosticata da Lemmi: “Non dava ormai che raramente qualche segno di vita”, “ quindi povera, inerte ,infeconda” .La Gran Maestranza di Adriano Lemmi fu dedicata a porre energicamente rimedio a questa melanconica situazione . Non tanto nel segno di una conversione della massoneria italiana ai più tradizionali schemi della massoneria anglosassone imperniata sull’ andersoniana preclusione fra le colonne della politica e della religione, soluzione che per quanto

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avrebbe portato la massoneria italiana nell’ambito di una più rigorosa regolarità iniziatica era del tutto estranea alla sua storia, ma nel quadro di un irrobustimento organizzativo che dotasse l’Ordine anche di un corpo sufficientemente robusto e pugnace per affrontare i rigori di un ambiente essoterico esterno che nulla era disposto a concedere ai volenterosi figli della Vedova. Di fatto, per quanto il disegno lemmiano di impegno politico dell’Ordine volto a fargli assumere il ruolo di vero e proprio “superpartito” esponesse ancora una volta la Massoneria ai rischi di un ritorno di fiamma della profanità ( cosa che puntualmente si riproporrà con Lemmi e i suoi successori dell’Italia postunitaria), i suoi sforzi profusi a livello organizzativo, anche se il loro bilancio non fu quello trionfalistico che voleva far intendere il Gran Maestro, produssero notevoli risultati nel rianimare una massoneria che “Non dava ormai che raramente qualche segno di vita” , “quindi povera, inerte, infeconda”. Non appena assunto il supremo maglietto già assistiamo ai primi tentativi di far risorgere in Romagna le colonne e “ dalla “Rivista della Massoneria italiana” del 1885 (pag.166) si apprende :’La Massoneria tace in Romagna, si comincia a comprendere da Fratelli autorevolissimi il bisogno di rianimarla. Più tardi l’opera del Grande Oriente e dei suoi delegati speciali si rivolgerà a Ravenna, a Forlì ed a Cesena’ ”41.Un’opera che fu affrontata con molto impegno e che doveva incontrare qualche difficoltà se “Dalla stessa rivista del 1891 (pag.16) si hanno ancora le seguenti notizie: ‘si lavora attivamente per la ricostruzione della Loggia a Ravenna’ e l’anno 1893, (pag.202) ‘anche a Ravenna si lavora energicamente per mezzo del Capitolo di Bologna .Non è possibile che i vecchi e valorosi elementi dell’antica Loggia Dante Alighieri vogliano in questi tempi ,rimanersene più a lungo inattivi’ ”42.Ma i tentativi, che evidentemente hanno incontrato resistenze o perplessità sull’opportunità di rifondare la vecchia Loggia “Dante Alighieri” proseguono e già si comincia ad intravedere la (Vera) luce: “E a pag. 176 del 1894: ‘anche a Bologna il lavoro di espansione massonica nelle Romagne procede vigorosamente . Tutto ci induce a sperare che in breve risorgerà meglio ordinata la Loggia Andrea Rinuncini di Rimini ,di Lugo e che risorgeranno le vecchie Logge di Ravenna, Ferrara, Imola ,Faenza e Forlì ’ ”43. E finalmente, siamo agli ultimi scorci della Gran Maestranza lemmiana, fiat (Vera) lux : “L’anno dopo la stessa rivista scriveva: ‘la Loggia Dante Alighieri di Ravenna si ricostituisce col fior fiore dei Fratelli della gloriosa Loggia omonima che sono anche il fior fiore della democrazia ravennate ’.E qualche numero dopo (a pag.115) annunciava che era ‘pronto il Decreto per la ricostituzione della vecchia Loggia di Ravenna’ e più oltre ( a pag.309) è segnalato fra gli atti ufficiali , che è ‘ Ricostituita l’antica e gloriosa Loggia Dante Alighieri all’Or.: di Ravenna’ ”44 .Ma chi erano i protagonisti ravennati della rinascita della Loggia “Dante Alighieri”? Scomparso, il primo Maestro Venerabile Bondoli, prematuramente venuto a Mancare il napoleonide Gioacchino Rasponi (nato a Trieste nel 1829 era morto a Selvagnone presso Forlimpopoli nel 1877), non compreso nel piedilista Domenico Farini ( ma a rigore –anche se massone accertato- non lo era stato nemmeno nella rifondazione rasponiana del 1867 ed è stato da noi inserito se non fra gli iscritti alla Loggia fra i suoi numi tutelari in virtù della lettera scrittagli dal Rasponi e dal suo essere incardinato per tradizione familiare e per l’amicizia col cugino di Napoleone III nel sistema politicoamicale napoleonide; comunque, nel periodo della seconda rifondazione della loggia ravennate era Presidente del Senato e per di più afflitto da un male incurabile: del tutto impossibilitato perciò di partecipare ai lavori della Loggia “Dante Alighieri”), ritroviamo che il maglietto nella risorta loggia è tenuto da uno dei protagonisti della prima rifondazione del 1867, Luigi Guaccimanni, già Primo Sorvegliante ai tempi della rifondazione rasponiana e uno dei referenti privilegiati dell’allora Gran Maestro Frapolli. Una sorta quindi di ritorno al passato ma un passato di altissimo livello, in quanto la biografia umana e politica di Luigi Guaccimanni costituiva una garanzia insuperabile per quanto riguardava la componente liberale moderata della massoneria ravennate (alla Baccarini ,per intenderci) ma anche per la componente democratico- repubblicana più moderata che, saggiamente , e pragmaticamente, abbandonati i propositi di rivoluzionamento istituzionale, si voleva attrezzare – come vedremo – a governare la città. E se questo molto difficilmente poteva avvenire in alleanza con i liberali, anche

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se quelli di matrice più progressista, altrettanto difficilmente sarebbe potuto accadere attraverso uno scontro mortale con loro. E una sorta di composizione dello lotta politica nella sala dei passi perduti non poteva che essere di giovamento a quelle forze più schiettamente popolari – repubblicane e socialiste – , le quali ,da un lato non potevano trarre alcun utile dallo spasmodico acutizzarsi della contrapposizione con i liberali e ,dall’altro, la mediazione che poteva essere agevolata dalle colonne sarebbe risultata funzionale anche a frenare la rissosità fra i due alleati. Le elezioni amministrative del 4 novembre 1900 pongono definitivamente termine a Ravenna alle amministrazioni guidate dai liberali costituzionali e consegnano la città ad una coalizione a guida repubblicano-socialista. Per quello che riguarda il nostro discorso, è di estremo interesse rivolgere lo sguardo su due dei principali protagonisti di questa svolta politica: i fratelli Cagnoni, Pietro e Andrea . Iniziamo da Pietro Cagnoni. Massone, il suo profilo latomistico ,per quanto riguarda la realtà ravennate, è di primissimo livello. Fra i rifondatori della Loggia “Dante Alighieri” assieme a Guaccimanni nel 1895, nel 1908 e nel 1909 vi verrà eletto Maestro Venerabile. Gestore, assieme al fratello Andrea , pure lui massone nella “ Dante Alighieri”,della società “Romagnola di navigazione”, la quale società apparentemente dedita al commercio di legname , svolgeva in realtà una funzione di copertura per i contatti cospirativi dei Cagnoni con l’irredentismo: Questa società in funzione di congiungimento fra l’Italia e i paesi irredenti aveva uno scopo più spirituale che materiale, tanto è vero che la sovvenzionava lo Stato, essendo il movimento insufficiente a farla sopravvivere .Pietro Cagnoni trascorse parte della sua esistenza a Trieste , a Fiume e nell’interno dell’Impero Austriaco , essendo anche interessato al commercio dei legnami. Durante la sua permanenza in quelle terre tenne stretti rapporti col movimento degli irredenti che organizzò e diresse per lungo tempo , insieme con i fratelli Mayer, Belasic e Felice Venezian appartenenti alle Loggie di Trieste e di Fiume ( ricorderemo che la Massoneria era proibita dalle leggi austriache). Col vapore “Ravenna” il Fr.: Pietro Cagnoni curò l’espatrio degli italiani e di quanti vollero lasciare l’Austria per la guerra del 1915. A questo scopo il Cagnoni aveva creato nei sotterranei del Caffè Garibaldi in Trieste, tenuto dalla famiglia Quarantotto , una stamperia clandestina per fare i passaporti falsi. Nella imminenza della guerra, il Cagnoni venne ricevuto quattro volte dal re Vittorio Emanuele III al quale recò l’ansia degli irredenti. Nell’ ultimo colloquio portò un ultimatum dei triestini col quale rendeva noto che se non si fosse presa una decisione rapida , nel senso voluto, avrebbero suscitato una [sic] casus-belli ( Salvatore Barzzilai [sic] nel suo volume “Luce [sic] ed ombre del passato” accenna a tali propositi – pag.138). La Massoneria non fu estranea a tale iniziativa tanto è vero che venne chiesta ai Fratelli atti alle armi la loro adesione. Il giorno 24 maggio 1915, giorno in cui iniziarono le ostilità contro l’Austria, il fr.: Pietro Cagnoni si trovava a Trieste col piroscafo “Ravenna” e riuscì a svincolarsi all’ultimo momento con gli ultimi profughi. Pietro Cagnoni svolse la sua opera a favore delle terre irredente, obbedendo a precise direttive che personalmente e segretamente riceveva dal Gran Maestro Ernesto Nathan. Il fr.: Cagnoni curava i rapporti con le Logge di Trieste e di Fiume anche per via epistolare ed a tale scopo era munito di un alfabeto e di un dizionario convenzionale. Tanto fu apprezzata l’opera del Cagnoni anche da parte del Governo del nostro paese che appena dichiarata la guerra all’Austria , l’allora Ministro degli Esteri Sonnino, lo incaricò di continuare l’azione di collegamento presso gli irredenti, assegnandolo al comando della terza Armata. Il Duca d’Aosta gli conferì il grado di Maggiore, mentre quando aveva prestato servizio militare di leva aveva raggiunto il grado di Sergente. Pietro Cagnoni contribuì alla resistenza dei Legionari di Fiume, recando alimenti col vapore “Ravenna”, offerti dalla Massoneria Emiliana Romagnola e forzando il blocco sotto la sua personale responsabilità. Il comandante Gabriele D’Annunzio scrisse la seguente lettera di ringraziamento a Pietro Cagnoni (originale presso i congiunti): Città di Fiume – il comandante – Mio caro signore, so con quanta generosità ella aiuta la nostra causa. Mi giunge notizia della sua larga offerta. A nome dei cittadini e dei soldati la ringrazio. La nostra resistenza durerà sino a che non avremo domato il destino e gli avversari. I resistenti la salutano di gran cuore .Fiume 5 ottobre 1919 – f.to Gabriele D’annunzio. Si ignora la data di iniziazione di Pietro Cagnoni che dovrebbe essere avvenuta a Pesaro attorno al 1890. In Loggia fu attivissimo :coprì la carica di Venerabile , di Architetto revisore, di Consigliere dell’Ordine, nel 1914 lo troviamo rivestito del 33° grado e membro aggregato al Supremo Consiglio.

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45 Per quanto riguarda più propriamente il versante amministrativo ravennate, fondamentale risulterà la sua attività pubblicistica svolta sulle colonne della “Libertà”, l’organo dei repubblicani ravennati, propedeutica alla svolta politica del 1900 e volta a delineare un nuovo quadro economico per Ravenna, all’interno del quale la vecchia “ città del silenzio” , facendo leva sulle sue migliori potenzialità , in primis il porto, fosse riuscita a congiungersi al treno dello sviluppo industriale del Nord Italia. Ruolo diretto di amministratore, invece, per il fratello Andrea. Andrea Cagnoni presiede come primo degli eletti, l’Assemblea all’insediamento del nuovo Consiglio Comunale uscito dalle elezioni amministrative del 4 novembre 1900 e il suo discorso costituisce una sorta di manifesto per la nuova giunta e una esplicita rottura con il passato: attacca lo stato accentratore “ che ‘assume a sé tutti i poteri e le finanze ’,sottoponendo il comune ad una sorveglianza assidua ,tormentosa ,avvilente. Il problema dell’autonomia comunale ,secondo l’oratore, investe elementi politici per la sensibilizzazione del popolo al tema della democrazia e della partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica , che essa implica .Investe anche elementi economici affinché i tributi pagati dai cittadini ritornino ad essi sotto forma di servizi pubblici e non si disperdano nei mille rivoli delle spese improduttive.”46 In questo discorso, che rappresenta una sorta di biglietto da visita con cui i nuovi amministratori si presentano di fronte all’opinione pubblica della città , Andrea Cagnoni punta quindi il suo indice accusatore contro uno stato vorace di risorse e nemico dell’autonomia comunale , una autonomia comunale sul potenziamento ed estensione della quale si baserà la piattaforma amministrativa della nuova giunta :l’obiettivo verso il quale si deve tendere è la creazione di una nuova democrazia economica e sociale che veda nella macchina comunale uno dei momenti privilegiati di questa strategia riformatrice e ,conseguentemente, nell’allocazione delle risorse avvenuta in passato secondo un’ottica economicamente e socialmente conservatrice e comprimendo i bisogni delle classi popolari e dei ceti produttivi. A questo punto conviene sottolineare una precisazione metodologica. Quanto da noi riferito dei fratelli Cagnoni costituiscono le linee guida amministrative del blocco popolare socialista-repupubblicano che è uscito vincitore dalle elezioni amministrative del 1900 e non certo la traduzione di fantomatiche direttive di loggia che non sono mai esistite e che non potevano esistere perché avrebbero portato all’immediata spaccatura con l’elemento liberale costituzionale ben rappresentato in loggia ed anche perché, fra l’altro, sin dalla sua seconda rifondazione, Luigi Guaccimanni ne era il suo nume tutelare, certamente sensibile per storia personale all’ascolto e collaborazione con fratelli di diversa opinione ma nel contempo assai orgoglioso del suo illustre passato di fondatore di parte lafariniana della Società nazionale a Ravenna prima e poi di liberale “illuminato” e di larghe vedute ma pur sempre costituzionale. Molto più semplicemente, quello che si intende evidenziare è che l’afflato tipico della Massoneria italiana a fungere da lievito per la crescita della società economica e civile italiana ( la Massoneria superpartito lemmiana con la sua diffidenza verso tutti i partiti – eccezion fatta per il legame del Gran Maestro “Restauratore” verso Francesco Crispi – questo appunto significava, con l’aggiunta, è ovvio, del tentativo di dare luogo ad iniziazioni illustri per avere propri uomini nei gangli vitali economici e politici) , trovò una puntuale interpretazione attraverso l’operato profano dei fratelli Andrea e Pietro Cagnoni, esponenti di primo piano ,specialmente Pietro, della loggia massonica “Dante Alighieri” e attivamente impegnati – Pietro sul piano pubblicistico, Andrea più direttamente sul piano amministrativo – per creare e rendere operativi quegli “equilibri più avanzati” che per buona parte dei massoni ravennati – e italiani – costituivano la premessa indispensabile “ per scavare oscure e profonde prigioni al vizio ed edificare templi alla virtù”. Del resto la Cronistoria della Loggia Dante Alighieri, attesta una intensa attività latomistica della risorta loggia , un laborioso travaglio fra le colonne che non aveva certo bisogno di adagiarsi passivamente sulle scansioni della profanità politico-amministrativa esercitata da alcuni dei suoi più illustri fratelli per darsi un ruolo ed un profilo:

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Viene ricostituita, Decreto n° 65, del 19 novembre 1895 , con 20 Fratelli, con elementi della Loggia e un piccolo nucleo di giovani iniziati della Loggia “Torricelli” di Faenza: Achille Testori, Valentino Pasini, Carlo Nigrisoli, Dr.Domenico Nigrisoli, Dr. Alfredo Badiali, Avv. Alessandro Mascanzoni, Prof. Luigi Guaccimanni , rag. Pietro Cagnoni, Pietro Bagnari , Pio Poletti47, Alessandro Calderini, Michelangelo Malagola, Gaetano Ghigi, Primo Ghigi ,Luigi Palerma ,Alfredo Giardini, Andrea Vizzani, Luigi Triossi, Dionigi Loreta ,Ippolito Bellonzi, Scipione Losini ,Giuseppe Scoto ,Giuseppe Badiali, Giulio Mascanzoni, Innocenzo Fagnocchi e Raffaello Righi. Alla sua installazione presiede il F.: Romeo Boselli Donzi, Saggissimo del Sovrano Capitolo di Bologna. Partecipa con una rappresentanza alle celebrazioni in Roma del 20 settembre 1895. Dal 1895 al 1897 è Venerabile il conte Luigi Guaccimanni. Nel 1896 è presente con una rappresentanza alle onoranze a Terenzio Mamiani a Pesaro e con una delegazione alla inaugurazione della bandiera della Loggia “ Otto Agosto” di Bologna. Il 23 dicembre 1896 la Loggia inaugura la nuova sede in palazzo Borghi. Il 14 marzo 1897 la Loggia delega rappresentanti alla commemorazione del XXV anniversario della morte di Giuseppe Mazzini a Genova e il 9 maggio all’inaugurazione del monumento al Gran Maestro Giuseppe Mazzoni. Partecipa alla Conferenza Massonica per l’Alta Italia dal 18 al 20 settembre 1897 a Milano.Il 2 ottobre 1897 riceve in gran seduta solenne il Gran Maestro Ernesto Nathan. Nel 1898 il G.O.I. approva le elezioni di Loggia. Nel 1899 fonda in Ravenna le cucine economiche per il popolo. Il 4 marzo 1900 con una sua delegazione partecipa alla inaugurazione del tempio della Loggia “Nicola Fabrizi – Secura Fides” di Modena. Nel 1901 il G.O.I. approva le elezioni. Nel 1902 la Loggia devolve £ 15 ai danneggiati della Martinica. Il 16 marzo 1903 è presente con il labaro alla commemorazione di Felice Foresti a Ferrara. Il 20 settembre 1903 è presente con il labaro a Bologna per l’inaugurazione del monumento ai caduti dell’8 agosto 1849. Nel 1905 la Loggia esprime riprovazioni contro le repressioni del governo russo, contribuisce alla sottoscrizione per le feste massoniche del Centenario della nascita di Giuseppe Mazzini e offre un ricevimento in onore del fr.: Ermete Novelli all’Hotel Byron. Il 12 febbraio 1905 la Loggia partecipa nei propri locali della “E. Torricelli” di Faenza alla Conferenza Regionale per discutere il problema della scuola. Il 23 maggio 1906, una delegazione della Loggia partecipa ai funerali di Adriano Lemmi, Gran Maestro della Massoneria Italiana. Nel 1906 ,la Loggia offre £ 50 per i danneggiati del terremoto in Calabria. Il 19 ottobre dello stesso anno ,la Loggia riceve solennemente il F.: Gustavo Salvini e altri due compagni della rinomata Compagnia Teatrale. Nello stesso anno partecipa al convegno di Rimini ,per cementare i legami tra le Logge romagnole. Nel 1907 devolve £ 65 per il centenario della nascita di G. Garibaldi. Nel 1902 ,nel 1904 e nel 1907 la Loggia elegge Venerabile il conte Luigi Guaccimanni, nel 1908 e nel 1909 il rag. Pietro Cagnoni. Nel febbraio 1911 la Loggia è presente con il labaro ai solenni funerali del Fr.: Enrico Golinelli ,Luogotenente Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio. Dal 1911 al 1914 ha indirizzo presso il rag. Ardiglione Fava. Nel 1912 devolve £ 250 alle famiglie dei caduti nella guerra di Libia. Nel 1913 trasferisce la sua sede da Via S.Vitale a Via Salara. La Loggia è rappresentata ai funerali del Fr.: Achille Ballori , Sovr.: Gr.: Comm.: del Supremo Consiglio ,ucciso da un folle il 31 ottobre 1917. Nel 1918 ha indirizzo presso il rag. Ardiglione Fava. Il 7 luglio 1918 una delegazione della Loggia presenzia ad Ancona alle solenni onoranze tributate al Fr.: Luigi Rizzo che, nell’occasione , viene elevato al 33° Grado del Rito Scozzese. Nel 1919/20 è Venerabile il dott. Nullo Bendandi ,con indirizzo in Via D’Azeglio, e nel 1921/22 il rag. Ardiglione Fava, presso il dott. Umberto Grandi, Via Farini 11. E’ rappresentata ai solenni funerali del Gran Maestro Ernesto Nathan passato all’Oriente Eterno il 9 aprile 1921. In occasione del 600° anniversario della morte di Dante , il 14 settembre 1921, viene inaugurata la nuova casa massonica alla presenza del Gran Maestro e di numerose rappresentanze di Logge. Nel 1924/25 è venerabile Innocenzo Fagnocchi. Nel 1924 i fascisti distruggono in Piazza del Popolo i mobili e gli arredi dell’Officina conservati dal falegname Posati, dopo la chiusura della Loggia.48 In seguito ad un rapido deterioramento dell’alleanza fra socialisti e repubblicani ,originato da una radicale divergenza in merito alla collettivizzazione della terra che vede i repubblicani schierati contro la grande proprietà terriera ma ciò non per dare inizio ad una demagogica collettivizzazione agricola ma per favorire la nascita di una piccola proprietà coltivatrice, si arriva alle elezioni del 1902 dalle quali avrà inizio un ventennio di governo della città da parte dei repubblicani. E il nuovo Sindaco ed Assessore alle finanze della neoeletta giunta repubblicana saranno rispettivamente Ferdinando Gallina e Fortunato Buzzi. Sono entrambi massoni della Loggia “Dante Alighieri”. Al di là dell’analisi dell’operato di questi amministratori (Buzzi fra l’altro verrà nominato Sindaco nel 1914 ) , improntato ai criteri di oculata amministrazione delle risorse nell’ambito di uno sviluppo che facendo leva sulle potenzialità della città privilegiasse le nuove forze sociali e produttive contro i vecchi interessi della conservazione, quello che qui intendiamo sottolineare è che la presenza degli uomini della loggia nei posti chiave dell’amministrazione era ormai diventata di ampio dominio pubblico. Ne seguirà una polemica a stampa di cui vale la pena di dare conto, anche per gli indubbi ammaestramenti

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per l’oggi (e per il futuro). A dare inizialmente fuoco alle polveri è un ordine del giorno del Circolo “Giuseppe Mazzini “ di Ravenna , pubblicato l’8 agosto 1903 sulla “Libertà” , l’organo dei repubblicani: I soci del Circolo G. Mazzini del Sobborgo Saffi ,raccolti in adunanza generale; Considerando che i repubblicani non possono e non devono oggi appartenere a società segrete, i cui fini si sottraggono al controllo ed alla luce della critica; Considerando pure che i repubblicani non possono assolutamente far parte di associazioni alle quali sono iscritti re e ministri; DICHIARANO che ogni buon repubblicano oltre al dovere di combattere l’istituzione massonica siccome quella che col suo simbolismo mistrioso sfugge come si è detto sopra a qualsiasi controllo di sana critica, ma talvolta può prestarsi a favorire i loschi fini di camorristiche camarille, non deve assolutamente farvi parte e dove per avventura qualcuno vi sia ascritto deve rinunciare in favore ed omaggio alla chiara idea repubblicana. Nell’immediato, tuttavia, non accade nulla finché non si accende nel partito socialista il “dilemma molto cornuto della compatibolazione” come con icastica formula avrebbe detto Guido Podrecca, ovvero il problema se nel partito per antonomasia dei lavoratori fosse possibile essere illuminati contemporaneamente dal sole dell’avvenire del proletariato e dalla “Vera Luce” emessa dalle notturne adunanze dei fratelli massoni. Fra i più fanatici assertori dell’incompatibilità fra l’appartenenza massonica e quella socialista si distinse l’allora ancora proletario e rivoluzionario Benito Mussolini (al quale più che le sorti del proletariato minacciato dagli oscuri disegni massonici bruciava evidentemente maggiormente il fatto che in un non lontano passato era stato anche lui un bussante alle porte del Tempio, al quale però non si era considerato opportuno aprire), che “sin dal congresso di Bologna (1904) aveva incitato alla ‘misura eroica ’di forzare i massoni ad uscire dal partito’ ”49. In Romagna e a Ravenna , poi, la “compatibolazione” rischiava nel partito socialista di avere esiti veramente devastanti, visto l’alto numero di socialisti presenti fra le colonne, ad iniziare da Andrea Costa e per finire con Pietro ed Andrea Cagnoni della Loggia “Dante Alighieri”. La conclusione di tanto trambusto fu ,al momento, un referendum vinto a maggioranza dei votanti dagli ostili alla doppia appartenenza ma che però non riuscì a coinvolgere la maggioranza degli iscritti. E’ in campo repubblicano – che fino a quel momento ,dopo la folata antiliberomuratoria di Ravenna del Circolo Mazzini aveva taciuto – che si riaccendono le polemiche. Sulla “Libertà” del 14 ottobre 1905 viene pubblicato un articolo del repubblicano Pietro Emiliani, Pro e contro la Massoneria, dove a nome di altri iscritti pone quelle che a suo giudizio dovrebbero costituire domande assai imbarazzanti alla classe dirigente del partito repubblicano: Da un anno abbiamo fatto delle domande che rinnoviamo ,riassumiamo ,in attesa di avere risposte firmate. Cogli anonimi non discutiamo. Aspettiamo quindi di conoscere: L’utilità ,la praticità ,la convenienza, il decoro, la coerenza per i repubblicani di iscriversi nella Massoneria dei tempi nostri ,e desideriamo sapere se la Massoneria si occupa di politica; quali funzioni esercita sul paese , e siccome ogni qualvolta raccogliamo una lordura massonica ,ci si chiede di documentarla ( perché si sa che delle sue colpe la società non ne lascia a palpabilità ) saremo giustificati se noi chiederemo le prove, i documenti delle benemerenze massoniche. E fin d’ora diciamo: Difendete pure la Massoneria se lo sapete, potete e dovete; pubblicate brani di storia fatta per uso e consumo di famiglia, ricordate però che noi mai spendemmo una parola ( e lo avremmo potuto ) per ciò che fu nel passato la Massoneria; noi dobbiamo discutere di ciò che è e fa la presente Massoneria che intendiamo combattere […]. Per potere entrare e restare nella Massoneria , bisogna essere temprati allo sdoppiamento ,sapere essere di notte ciò che non si è di giorno, saper approvare la notte ciò che si condanna di giorno , ragione per cui l’ambiente massonico non è per le coscienze oneste ed ingenue degli operai. Di ciò convinti noi ci agitiamo perché i nostri amici si allontanino o ci illuminino dell’ambiente massonico. Al lavoratore è serbato il dovere di lavorare ,lavorare sempre ; pagare, pagare sempre; l’obbligo di applaudire o fischiare a seconda della volontà dei capi; gli è però lasciata in compenso la libertà di fare qualche pubblica dimostrazione a condizione che questa abbia tutte le forme e carattere delle dimostrazioni civili; può quindi in eccezionali occasioni andare

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a chiedere pane e lavoro purché lascino a casa gli attrezzi del mestiere perché completamente inermi si è in condizioni migliori per ricevere all’occasione il regio piombo.50 A questo punto non ci si poteva certo sottrarre alla sfida, ed è proprio per iniziativa del direttore della “Liberta” Umberto Serpieri , che nello stesso numero del 14 ottobre del giornale si dichiara massone ,a sollecitare che dalle colonne dell’organo del partito si apra una approfondita discussione. Si tratterà di un dibattito che si protrarrà a lungo e al quale il direttore Serpieri concederà un amplissimo spazio, fino al punto che alcuni numeri del giornale usciranno in formato doppio per ospitare gli interventi. E’ un dibattito articolato. Alcune opinioni sono decisamente a favore della Massoneria: Ora il fatto che la massoneria vi lascia liberi di essere e professarvi repubblicani ,socialisti e anarchici ,senza restrizioni o limiti alcuno all’azione vostra, non vi dice che essa è una istituzione superiore ai partiti ed informata ad un alto principio di libertà che non intendono invece coloro che, dicendosi repubblicani o socialisti, vi contrastano il diritto di poter appartenere alla Massoneria o alla Dante Alighieri sotto le minacce di scomuniche e peggio? 51 Altri mantengono un contegno più freddo e meno amichevole verso l’Ordine ma sempre nell’ambito di opinioni civilmente espresse: E difatti: nelle Loggie in cui prevale l’elemento dei cosidetti buontemponi, come a Ravenna, il compito di queste Loggie non è che pubblicare un manifesto per l’anniversario della morte di Garibaldi. E per quanto l’elemento giovane si sforzi nelle adunanze di queste Loggie, a dimostrare quale debba essere la vera missione, i buontemponi crollano il capo.52 Mentre il direttore Umberto Serpieri, vecchia conoscenza fra le colonne, cura, a guida della discussione, una breve storia della liberomuratoria , che ,con una chiarezza che farebbe invidia ai nostri odierni gazzettieri, spiega con chiare parole le origini dell’Ordine, i suoi moduli operativi (imperniati sul simbolo) , i suoi (molto presunti) segreti: In che cosa consiste questo mistero, che farebbe a pugni ,secondo alcuni, colla coscienza moderna? Forse perché non si mette in piazza l’elenco dei massoni? Ma quando si pensi che molti, per la loro qualità di massoni, potrebbero subire gravi danni morali e materiali , dato il predominio che ancora esercitano preti e moderati nella nostra società e data l’avversione che essi hanno saputo così bene suscitare contro i massoni, si vorrà far una colpa se non rivelano l’essere loro? Del resto ,è proprio il caso di dire che il segreto della Massoneria è il segreto di Pulcinella : perché tutti lo sanno , tutti lo conoscono e ci vuole solo una dose eccezionale di perfidia per volere ricamare sotto questo mistero delle recondite e disoneste ragioni. In questa discussione noi ci serviamo appunto delle pubblicazioni che sono in corso fra il pubblico italiano e che teniamo presso noi, ostensibili a chiunque voglia prenderne cognizione per sincerarsi sulla loro veridicità. “[…] Liberamente ,spontaneamente ,con pieno e profondo convincimento dell’anima ,con assoluta ed irremovibile volontà , pel venerato simbolo del Grande Architetto dell’Universo e per quelli della libertà ,fratellanza ed uguaglianza umana , per l’affetto e la memoria dei miei più cari , sul mio onore e sulla mia coscienza solennemente giuro: di non palesare ,per qualsivoglia motivo, i segreti della libera universale Massoneria; di avere sacri l’onore e la vita di tutti; di soccorrere ,confortare e difendere i miei fratelli; di non professare principii che osteggino quelli propugnati dalla Massoneria, e fin da ora, se avessi la sventura o la vergogna di mancare al mio giuramento, mi sottopongo a tutte le pene che gli Statuti dell’Ordine minacciano agli spergiuri; all’incessante rimorso della mia coscienza , al disprezzo e all’esecrazione di tutta l’Umanità”. Che cosa c’è in questo giuramento di così orribile da contrastare ai principii della onestà e della libertà? Non è desso invece una formula solenne racchiudente la morale più elevata che affratelli gli uomini in una religione superiore, senza distinzione di razze , di nazionalità ,di fede politica? E che cosa c’è di strano e d’immorale negli altri simboli? Dopo prestato il giuramento, l’iniziato è cinto di un grembiule, simbolo del “ lavoro, primo dovere e massima consolazione dell’uomo” : riceve i “ guanti di pelle bianca” che significano non doversi mai il massone deturpare con atti d’iniquità: simboli che possono sembrare strani, a chi non conosca o non ricordi la storia della Massoneria, ma che ad ogni modo sono l’espressione di sentimenti buoni ed elevati e nobili, quali ci potremmo tener orgogliosi di saper instillare nelle nostre società politiche.53

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Tuttavia le dichiarazioni di simpatia od antipatia verso l’Ordine e la sua storia , nonostante le migliori intenzioni dei partecipanti al dibattito, rischiano , su un foglio politico come “La libertà”, di peccare di eccessiva leziosità. C’è il sospetto (e questa volta assolutamente ben fondato) che l’antimassonismo di alcuni repubblicani ( ma quanti?, questo vedremo è un altro aspetto interessante della querelle) non sia ispirato dalla pur nobile, anche se del tutto fuori luogo, volontà di lasciare indenni “ le coscienze oneste ed ingenue degli operai”- una prosa più degna di un romanzetto d’appendice che ad un attivista politico e trasudante comunque un paternalismo che stride con il preteso ed ostentato progressismo del suo autore – ma che celi legittimi ma molto meno nobili propositi di lotta politica all’interno del partito: Perché infatti non confessarlo? La campagna che muove l’egregio Emiliani Pietro ora qui fra noi non è altro che il riflesso pallido e tardivo di quella che un noto Felice Albani, non disgiunto dalla Consorte, già svolse con un certa genialità e con vivace accento nella “Terza Italia” all’intento precipuo di mettere in rilievo la bontà del metodo astensionista. Ma vedete gli umili e pedestri imitatori corrispondere solo unilateralmente al concetto che si prefiggono che si rivela così monco, incomprensibile .Molto più utile e apprezzabile quindi il semplice ripetitore che, pur non esponendo cose nuove, si fosse presso a poco così espresso: non si deve annettere nessun valore ai risultati dell’urna – ergo = niente voto né per coloro che escono dalle Loggie, né per quelli che non ci sono mai entrati.54 E’ evidente che il dibattito ha ormai abbandonato le placide sponde delle dichiarazioni di principio per affrontare il cuore politico del problema. A questo punto ci sarebbe da aspettarsi da parte degli antimassoni un richiamo generale alle armi per difendere le proprie ragioni dalle accuse di strumentalità. Replicherà solo colui che aveva lanciato la sfida , una risposta francamente penosa, attraversata fra l’altro dal profondo imbarazzo del non avere alcun seguito nella sua intollerante crociata: Si sarà pensato , e so anche che è stato detto, che mi ero squagliato, come dicono i romani, ma la verità è che sono stato assente per una quarantina di giorni occupatissimo per interessi personali .Però trovavo sempre un ritaglio di tempo per leggere sulla Libertà gli articoli sulla Massoneria, e confesso che mi divertivo a rilevare gli strali acuti lanciati al mio indirizzo […]. V’ ha chi ha detto che l’Emiliani è un solitario, che non ha seguaci nelle sue idee; altri hanno detto che si capiscono e si spiegano le sue insistenze perché appoggiato dal giornale del Partito Mazziniano; mettetevi d’accordo fra Voi ,egregi nostri contradditori .55 Come incipit non c’è davvero male, ricorda molto lo scolaretto scoperto in difetto di preparazione il quale inventa le peripezie più assurde per giustificarsi di fronte all’insegnante. Ma le puerili giustificazioni lasciano il tempo che trovano : in fondo che l’Emiliani fosse stato per una quarantina di giorni in altre faccende affaccendato non poteva importare a nessuno. Ciò a cui bisogna rispondere è l’accusa che la “nobile” lotta contro la Massoneria altro non sia che un paravento dietro cui si cela l’ala astensionista del partito repubblicano, un astensionismo questo no che i fratelli repubblicani (e non ) seduti fra le colonne – non perché insufflati da misteriosi superiori incogniti ma perché intimamente convinti , da uomini liberi e di buoni costumi, che bisognava agire da subito per migliorare le condizioni dei lavoratori – non potevano assolutamente accettare: In pubblica adunanza e nella Libertà un egregio Professionista ha ripetuto che nella nostra agitazione c’è il germe astensionista. Perfettamente d’accordo .Repubblicano , per noi è sinonimo di astensionista, di antimassonico. Il Partito Mazziniano, nei suoi deliberati, ha stabilito che i suoi aderenti non debbono far parte della Massoneria e debbono attenersi alla tattica astensionista. L’una è la logica conseguenza dell’altra.56 La maschera è stata calata ma a questo punto, invece di ritirarsi in buon ordine, non contento di avere ammesso la strumentalità della battaglia antimassonica , la chiusa di Emiliani non è altro che una serqua di ingiurie e accuse deliranti, unite all’implicita confessione di essere una sorta di agente provocatore che lavorava per disgregare il partito:

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Anzi sarà bene, per non averne poi rimprovero, che vi dichiariamo sinceramente che nelle prossime lotte politiche elettorali , ci troverete preparati a combattere contro di voi , preferendo che i nostri patriotti migliori restino fra noi semplici cittadini piuttosto che deputati dello attuale parlamento[…]. Ah! Dimenticate repubblicani-massoni che i ministri, primo fra tutti Fortis, che nove decimi dei deputati, tutti i prefetti, ispettori di pubblica sicurezza, tutti gli altolocati, tutti coloro che mangiano nella greppia dello Stato, sono vostri fratelli in Massoneria?[…]. No ,amico Serpieri, chi forzò la mano fu il proletario senza distinzione di scuola, colle sue agitazioni e minacce; l’amnistia non fu data ma strappata, imposta dalla volontà popolare che non ha, non può avere nessun rapporto con la Massoneria. Se dobbiamo ammettere che questa abbia avuto , nei fatti del 1898 , qualche ingerenza , non può essere stato che nel senso di avere consigliato la repressione o lo spargimento di sangue. Emiliani Pietro57 Dopo queste parole così altamente ispirate, che nella loro patologica fobia e demonizzazione dell’Ordine avrebbero potute essere approvate e sottoscritte da un Leo Taxil e successivamente sotto il fascismo da un Giovanni Preziosi, il direttore della “Libertà” Umberto Serpieri, massone dichiarato ma che fino a quel momento aveva fatto della latomistica tolleranza la sua divisa nella conduzione della discussione , non ha alcuna difficoltà a dichiarare chiuso il dibattito e a cortesemente invitare l’Emiliani a praticare altrove, se vuole, la sua opera disgregativa : Se l’Emiliani non ne ha avuto abbastanza di cinque numeri per dare corso a tutte le sue elucubrazioni e se oggi egli annuncia che continuerà a discutere su altri giornali, è cosa che non ci riguarda. Noi non abbiamo scritto per lui e tanto meno il partito fa il giornale per lui. Quello che ci premeva fare constatare, è stato fatto: la discussione è stata più che esauriente , la confutazione principale delle tesi avversarie l’ho sempre fatta io massone e non degli anonimi e tutto quanto fu detto è stato più che sufficiente ad illuminare gli animi sullo stato vero della questione.58 Un dibattito che purtroppo, con modi anche più grevi e volgari di quelli dell’Emiliani, continua ciclicamente a riproporsi da più di un secolo sulle gazzette ed organi d’informazione italiani, costantemente colpendo – al di là delle idiote e ,perché no?, criminali demonizzazioni – quello che è l’autentico nervo scoperto della Massoneria italiana sin dalla sua nascita. E cioè la dialetticamente feconda ma anche rischiosa contraddizione fra la sua natura iniziatica e la sua costante propensione non solo a svolgere un operato genericamente filantropico ma anche un’azione più propriamente politica verso la società profana, non disponendo per incolpevole limitatezza delle risorse disponibili ( un portato della demonizzazione da parte dell’ala più retriva del cattolicesimo che ha fatto sì che sotto la mitologia dell’onnipotenza dell’Ordine si celasse una realtà dove ben pochi ardimentosi semplici cittadini e possessori di metalli trovassero conveniente bussare alle porte del Tempio ) e non essendo assolutamente disposta a dotarsi (per la sua natura intrinsecamente iniziatica) né delle strutture né delle mentalità tipiche del partito politico, le sole che potevano assicurare una relativa continuità d’azione e possibilità di successo nel mondo profano. La tragedia è stata così che confusa – il più delle volte del tutto maliziosamente – per un partito politico , del partito politico la Massoneria ha dovuto subire gli assalti ma senza averne i mezzi di difesa ( le masse , i mezzi di informazione per influenzarle e dirigerle , i capitali – ottenuti tramite un rapporto di scambio col sistema economico-finanziario e ,in misura del tutto residuale, attraverso l’autotassazione delle masse stesse – per potere sostenere un apparato così dispendioso) .E così accade che nel momento in cui a dettare legge sono le “armi della critica”, cioè in quei momenti di reale crescita democratica dove i protagonisti sono gli uomini liberi e di buoni costumi – appartengano o meno alle logge – , la Massoneria si muove assolutamente a suo agio nell’ambiente esterno, subendone magari le critiche (sarebbe veramente troppo pretendere un impegno anche nella profanità che non si trascinasse con sé il peso di qualche scoria metallica) ma rimandando con successo al mittente le eventuali demonizzazioni. E’ il caso della polemica svolta sulle colonne della “Libertà”, dove uomini della Massoneria giunti al vertice delle istituzioni locali riuscirono a dare felicemente pubblica espressione ai principi appresi fra le colonne in un quadro di profonda e reale Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 43

crescita economica e civile della città. E così non fu certo un problema rispedire al mittente e ridicolizzare le basse e meschine insinuazioni di Pietro Emiliani. Ma quando la Massoneria si trova a compiere il suo operato in una situazione “bloccata” , in un contesto dove quello che conta è la greve energia muscolare dei “poteri forti”, dove alle “armi della critica” si sostituisce la “critica delle armi”, allora la Massoneria corre rischi mortali. E’ quanto è accaduto con la fine dell’Italia liberale, dove il suo becchino Cavalier Benito Mussolini aveva ben compreso che per procederne alla definitiva sepoltura era indispensabile, in primo luogo, annientare la Massoneria, partito della borghesia gramscianamente parlando ma non nel senso denigratorio che aveva cercato di conferirgli – per la verità senza intima convinzione – il fondatore del partito comunista d’Italia – ma nel significato – intuito ma non espresso da Gramsci stesso – di momento essenziale per l’inveramento delle più alte idealità della borghesia laica e produttiva ( un forte senso identitario nazionale in un quadro di crescita – garantito da uno stato aconfessionale – delle libertà civili e di affermazione di una nuova democrazia economica) . Ed è quanto si è ripetuto in questo secondo dopoguerra dove una democrazia bloccata ha alla fine generato una inevitabile messa in corto circuito del sistema politico riguardo alle sacrosante istanze di crescita democratica ed economica, con la conseguente ricerca di un capo espiatorio che per inveterata tradizione nazionale rispondeva al nome di massoneria , temibilissima nell’immaginario collettivo ma assolutamente incapace nella realtà – proprio per la sua natura intrinsecamente inziatica e non partitico-sindacal-politica e, last but not the least, anche perché profondamente spaesata dalla morte della vecchia Italia liberale, uccisa da Benito Mussolini ma che la repubblica “fondata sul lavoro” si è ben guardata dal riesumare – di abbozzare una energica resistenza ai propositi di immolarla sugli altari di una malintesa e farisaica difesa delle libertà democratiche e di una ancor più ipocrita – visto il pulpito dal quale rimbombava questa impellente necessità, il sistema dei partiti – necessità di trasparenza. Del resto, una riprova della costante propensione della Massoneria a porsi – al di là degli aspetti amministrativi da noi esaminati – come argine ad ogni forma di integralismo ed intolleranza , lo abbiamo ancora in quegli anni di inizio Novecento allorché scoppiò la lotta per le macchine trebbiatrici con scontri sanguinosi fra socialisti e repubblicani, decisi , i primi, ad impedire con tutti i mezzi l’utilizzo di questo tipo di meccanizzazione agraria a difesa della forza lavoro bracciantile; ostili, i secondi, ad imporre un freno allo sviluppo tecnologico delle campagne che avrebbe potuto danneggiare i contadini. Ne seguì un confronto talmente violento che rischiò di portare un colpo mortale nella convivenza fra le forze popolari. “Le conseguenze di quei boicottaggi [dei socialisti contro le macchine trebbiatrici] si palesarono subito di estrema gravità , perché essi dall’ambito economico e del lavoro si ripercuotevano anche nei rapporti privati , per l’ostracismo cui venivano condannati i colpiti, per la subitanea artificiosa rottura di rapporti sino allora cordiali, per l’infrangersi di vecchie amicizie e persino talvolta dei fidanzamenti sì che gli animi ne erano profondamente esacerbati. Ogni giorno le due parti in lotta si scontravano e ogni giorno si annoveravano morti e feriti. ‘Il governo aveva inviato in tutto il ravennate un numero via via crescente di militari; alla fine del maggio 1911 essi erano circa 8000. Ravenna appariva in stato d’assedio’. La Massoneria , che non poteva restare indifferente , organizzò un convegno che si svolse nel Tempio della Loggia VIII agosto di Bologna sotto la presidenza dell’ illustrissimo Gran Maestro Ettore Ferrari. Vi intervennero i Fratelli dell’Emilia e Romagna e fra questi i maggiori esponenti dei due partiti in lotta. Ricordiamo: Genunzio Bentini, Giacomo Ferri, Armando Bussi , Pietro Cagnoni, Fortunato Buzzi ,Domenico Nigrisoli, e Olindo Guerrini. Si conseguì il duplice scopo di ravvivare l’azione delle Logge della Romagna e di concordare una direttiva ispirata ai fini della pacificazione nel conflitto agrario che imperversava in tanta parte della nobile regione. Una rappresentanza della nostra Dante Alighieri con bandiera partecipò con proprio labaro alle onoranze funebri degli illustri fratelli Giosuè Carducci( 1907), Enrico Golinelli , Luogotenente Gran Commendatore (1911) e Giovanni

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Pascoli (1912)”59 . Ravenna, settembre 1921. Sono in pieno svolgimento le celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante. Le iniziative per celebrare l’evento riempiono i giornali ma il clima che si respira non è quello che ci si dovrebbe aspettare per un momento che fa convergere sulla “ città del silenzio” l’ attenzione del mondo intero. In realtà , più che dalla cronaca culturale, l’attenzione della popolazione è già tutta concentrata sulle notizie degli attacchi squadristici “ in questa e in quella località, di ribalde e violente dimostrazioni sulle quali le forze dell’ordine sembrano tenere reazione piuttosto blande.”60 Come se non bastasse questa situazione a dare un sapore amaro alle celebrazioni ,“ All’avvicinarsi dei festeggiamenti ravennati del settembre si dà notizia di una possibile massiccia presenza di fascisti. E fu l’anteprima della marcia su Ravenna dell’anno dopo , su terre , come si disse ‘ ancora infestate da avversari crudeli’. Tremila uomini ,vestiti di camicia nera, che ‘fece la sua grande prima comparsa come divisa militare’,al comando di Italo Balbo, partirono in due colonne ,una da Bologna, l’altra da Ferrara, che si congiunsero a Lugo. Da qui mossero per Ravenna ‘sfilando coi gagliardetti in testa davanti all’urna di Dante e alzando il grido presago e superbo: a Roma’ .Furono invasi circoli socialisti, la sede della Camera del Lavoro, la Federazione delle cooperative , furono bruciati ritratti, carte , libri, bandiere.”61 La calata di Balbo su Ravenna del 12 settembre 1921 era in realtà un ben triste epilogo per delle celebrazioni che erano iniziate sotto una ben diversa insegna spirituale. “[…] [Il] bacio che don Mesini diede [in occasione della ricognizione delle ossa di Dante] al teschio del Poeta; la commozione da cui fu preso il sindaco repubblicano Buzzi che, prima di depositare accanto alle ossa di Dante un ramo di alloro, chiese in romagnolo a don Mesini una benedizione anche ad esso ‘perché Dante era cattolico’ ”62 ,erano il segno che le tragedie degli anni prima non erano passate invano e che era venuto il momento per gli uomini liberi e di buoni costumi, dell’una e dell’altra parte della barricata, di deporre le armi e di collaborare fraternamente per affrontare la marea di violenza che stava sommergendo l’Italia. Erano lontanissimi e definitivamente sepolti i tempi in cui Dante ,nell’occasione del sesto centenario della nascita, era stato usato come vessillo dell’anticlericalismo romagnolo, quando il sindaco massone Gioacchino Rasponi, in risposta alla lettera del Vicario Giovanni Arcidiacono Majoli in cui lamentava che in occasione della cerimonia di celebrazione del Poeta non era stato invitato il clero e non si era potuta disporre la benedizione delle ossa prima di ricomporle nella cassa, aveva avuto tutta l’improntitudine di affermare: “La giunta non ha ordinato esequie alle ossa perché queste già seppellite cristianamente nel 1321[e così] non fu reputato che avessero bisogno di nuova memoria religiosa”63 . Tempi di dure contrapposizioni, tempi di anatemi reciproci che la dolorosa storia d’Italia dei primi decenni postunitari e i pericoli del momento per la democrazia imponevano di cancellare per sempre. Don Mesini l’aveva capito. Il Sindaco Fortunato Buzzi ( massone e quindi scomunicato) l’aveva capito. Italo Balbo e i suoi accoliti in camicia nera procedevano per altre vie da quelle della tolleranza e dall’ “edificare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio”. C’era però il tempo per un estremo gesto riparatore alla profanazione delle camice nere. La Loggia Massonica “Dante Alighieri” “organizzò una grande manifestazione per onorare il Poeta ed un convegno massonico che riuscì imponente per il grande numero dei Fratelli intervenuti.[Il 13 settembre 1921] si svolse per le vie della città un corteo diretto alla tomba del Poeta nel quale il labaro del Grande Oriente seguito dal Gr. M. Domizio Torrigiani, dai grandi Dignitari e dai Fratelli trovò un posto d’onore. Successivamente tutte le associazioni si radunarono nella piazza del Popolo ad ascoltare il discorso commemorativo pronunciato da quel grande oratore che fu il Fr.: on. Luigi Rava. La manifestazione massonica si concluse con agape bianca .”64 Era l’estrema testimonianza prima del calare delle tenebre:

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Nel 1924 , in seguito alle distruzioni dei Templi Massonici ad opera dei fascisti, i fratelli della Dante Alighieri provvidero alla demolizione e a raccogliere ogni cosa in un magazzino a cura di un falegname, certo Posati. I fascisti venuti a conoscenza dello sgombro della sede della Loggia andarono a prelevare dal suo domicilio il Posati e con le minacce gli fecero confessare ove trovavansi i mobili e gli arredi . Dopo di chè i fascisti se ne impossessarono e li bruciarono nella Piazza del Popolo. Anche documenti e registri andarono distrutti 65 . Post fata resurgam. Il 17 gennaio 1945 la Loggia “Dante Alighieri” , per iniziativa di Giordano Gamberini, riprese i suoi architettonici lavori. Testimonianza di un antifascismo che nonostante l’impossibilità di riunirsi ritualmente aveva animato gli uomini della massoneria italiana fin dalla sua soppressione ad opera del fascismo66, dalla lettura dal registro delle presenze alle tornate di Loggia di quei primi tempi67 , ci piace qui ricordare Cesare Orioli, “Babaci” e Tonino Rossi , “Tugnaz” , due dei principali protagonisti, insieme ad Arnaldo Guerrini, di quell’antifascismo democratico non comunista che proprio qui in Romagna ebbe la sua massima espressione68 e che fece scrivere al sorpreso ed entusiasmato azionista Carlo Ludovico Ragghianti che “Era la prima volta che, nel lungo esercizio della cospirazione , mi trovavo di fronte non a sparuti gruppi e ad individui, ma a una partecipazione veramente larga e popolare. Vi fu un momento in cui le maggiori speranze del movimento rivoluzionario si appuntarono sulla Romagna”69 . Allora come nel Risorgimento gli uomini della Massoneria erano stati la punta di diamante di quelle forze il cui obiettivo era la creazione di “uomini liberi e di buoni costumi” e non l’assoggettamento integralista ed intollerante delle masse eteroguidate. La Massoneria italiana fin dalla sua nascita ha cercato , pagandone pesanti conseguenze, d’interpretare questo spirito. La Rispettabile Loggia “Dante Alighieri” n° 108 all’Oriente di Ravenna pure. Noi , nella modestia dei nostri mezzi, speriamo di aver fatto altrettanto.

In principio era il Verbo , e il verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto fu fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste. In lui era la vita , e la vita era la luce degli uomini. E la luce risplende fra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno ricevuta. Ci fu un uomo mandato da Dio ,il cui nome era Giovanni. Egli venne ,come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo suo. Non era egli la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. Era la luce vera, che illumina ogni uomo, che viene al mondo. Giovanni, 1,1-9

1 G. Leti , Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano, Genova, Libreria Editrice Moderna, 1925. 2 D. Berardi, La repubblica in Tasca, in A. Emiliani (a cura di ), Questa Romagna, vol. II, Bologna , Edizioni Alfa, 1968, p.235. 3 [C. Manelli], Cento anni della Risp.: Loggia Dante Alighieri di Ravenna. 1863-1963, s. n. tip. , [1963], pp.14-15. 4 Ibidem, p.15. 5 Ibidem. 6 Ibidem, p.16. 7 Un aspetto non strettamente legato al “genius loci” esoterico della città degli Esarchi ma che vale pure la pena menzionare perché Ravenna, comunque, ne è coinvolta , è la vicenda di padre Isidoro Bianchi dell’ ordine Camaldolese (nato a Cremona nel 1731, il suo nome secolare era Pietro Martire Bianchi) e che quindi soggiornò al convento di Classe di Ravenna. A padre Isidoro Bianchi viene oggi attribuito Dell’Instituto dei veri Liberi Muratori, (cfr. Isidoro Bianchi, [Padre, al secolo: Pietro Martire], Dell’ Instituto dei veri Liberi Muratori. Of the institute of the true Free Masons, a cura di Giordano Gamberini, Ravenna, Longo,1980) , opera con Ravenna come indicazione di pubblicazione ma probabilmente stampata a Cremona nel 1786. Dell’ Instituto dei veri Liberi Muratori ha la felice caratteristica di essere la sola opera settecentesca stampata in

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lingua italiana ad essere apertamente in favore della liberomuratoria e quindi a sfidare nei fatti – non in linea di principio perché l’autore si mostra formalmente ossequiente all’ autorità ecclesiastica asserendo che gli anatemi papali furono gettati avendo del tutto frainteso le vere finalità dell’ Ordine – gli interdetti di Clemente XII e di Benedetto XIV. Ad ogni buon conto , come misura prudenziale padre Isidoro Bianchi pensò bene ad un depistaggio sul luogo di edizione e con notevole ironia e giocando sul suo nome l’opera – come si legge nel frontespizio – si affermava essere pubblicata “ Presso Pietro Mart. Neri. Con licenza de’ superiori”. Una sola domanda .Perché la scelta di Ravenna come falso luogo di pubblicazione? (Si tratta ,in ogni caso, di un depistaggio ben strano, visto che padre Isidoro Bianchi fu ospite del Convento di Classe di Ravenna, come del resto il fantomatico Pietro Mart. Neri è una cortina molto trasparente oltre alla quale ben s’intravede Pietro Martire Bianchi). Forse un omaggio ad una città con profonde tradizioni esoteriche e con altrettanto forti fermenti liberomuratorii? Forse una specie di richiesta di solidarietà e tutela del Bianchi a tutti coloro che ravennati e non – ma specialmente ravennati – condividevano o avevano condiviso la sua appartenenza latomistica? Probabilmente non lo sapremo mai. A noi non resta che constatare che il nome di Ravenna, ancora una volta, è legato ad una vicenda non secondaria della cultura esoterica. 8 Che i “Fedeli d’amore” , di cui Dante fu uno dei protagonisti principali, non sia una vicenda ristretta ad un cenacolo di poeti ma si riallacci alla poesia islamico-persiana più o meno coeva e continui come tradizione sotterranea per tutto il Medioevo e oltre, non è un’invenzione dei patiti dell’ esoterismo d’abord alla Guenon. E’ una tesi che – come per esempio in L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei “fedeli d’ amore”, Genova, I Dioscuri, 1988 – ha trovato sostenitori anche fra coloro soliti ad impiegare una filologia assolutamente scientifica. 9 A. Varni, L’età giacobina…, cit.,p.15. 10[C. Manelli], Cento anni…, cit., pp.23-24. 11 L. Miserocchi, Ravenna e Ravennati…, cit., p.253. 12 C. B. Angelini, Gli “accoltellatori” a Ravenna (1865 – 1875). Un processo costruito, Ravenna, Longo, 1983, p. 130. 13 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit., p. 170. 14 [C. Manelli], Cento anni, …, cit., p. 17. 15 L. Miserocchi, Ravenna e Ravennati…,cit., p.254. 16 Poco prima della demolizione del 1867, la Loggia “Dante Alighieri” passa dal Rito Italiano al Rito Scozzese. 17 Apprendiamo queste notizie e citiamo dalla compendiosa cronistoria della Loggia “Dante Alighieri” – quattro fogli dattiloscritti in nostro possesso, da noi denominata Cronistoria della Loggia Dante Alighieri- che il Direttore dell’ Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia ci ha inviato in data 14 febbraio 2001. Lo ringraziamo per l’aiuto fornito in questa ricerca. 18 Citiano da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri. 19 R. Colapietra, D. Farini, deputato di Ravenna (1864 – 1878 ) , in “Critica Storica”,1965, p. 605. 20 [C. Manelli], Cento anni…, cit., p.28. 21 C. B. Angelini, Gli accoltellatori…, cit., p. 134. 22 L. P. Friz, La Massoneria italiana nel decennio post unitario. Lodovico Frapolli, Milano, Franco Angeli, pp. 325-326. 23 Ibidem, pp.214-215. 24 G. Maioli, La società nazionale italiana a Ravenna e in Romagna (da nuovi documenti ) , in “Studi Romagnoli “ , III (1952) ,pp.108-109. 25 Il comitato ravennate della Società Dante Alighieri sorse nel novembre del 1897 per iniziativa di Luigi Rava, massone, presidente Luigi Guaccimanni. Non a torto, la pubblica opinione giudicò l’iniziativa di provenienza della Loggia massonica “Dante Alighieri”di Ravenna , che dopo un lungo periodo di inattività (si era ricostituita il 19 novembre ’95) aveva deciso di manifestarsi anche sul piano culturale con un così alto profilo. 26 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit. , p.136. 27 L.P. Friz, La massoneria italiana…, cit.,pp.200-201. 28 Ibidem, p.202. 29 Ibidem, p.203 30 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit., p.136. 31 A. Varni, Alfredo Baccarini e Luigi Rava, in P. P. D’ Attorre (a cura di ) , Storia illustrata di Ravenna, vol. III, D. Bolognesi ( a cura di ) , Tra Ottocento e Novecento, Milano , Nuova Editoriale AIEP, 1990, p. 3. 32 Si può vedere nella sala consiliare di Russi il monumento in memoria ad Alfredo Baccarini scolpito dallo stesso Ettore Ferrari. Il monumento, che esibisce simboli liberomuratori, e l’autore stesso, stanno a rappresentare non solo l’invidiabile cursus honorum politico di Baccarini ma anche il suo assoluto rilievo massonico. 33 Ibidem, pp.1-2. 34 C. B. Angelini, Gli accoltellatori…, cit.,p.130 35 Ad ulteriore riprova dell’ altissimo livello degli uomini della Loggia “Dante Alighieri”(e anche a riconferma dell’esistenza di una forte lobby napoleonica facente capo a Ravenna alla Società nazionale diretta dal nipote di Gioacchino Murat ), riportiamo da L. P. Friz, La Massoneria italiana… , cit., p. 102,

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ulteriori note biografiche di Gioacchino Rasponi: “Il conte Rasponi, capo del Governo Provvisorio della sua città all’ esplodere della II guerra d’ Indipendenza , sindaco e deputato , traeva autorevolezza dall’essere nipote di Gioacchino Murat. Venerabile della Dante di Ravenna , due volte membro del Grande Oriente ,fra il ’73 e il ’74 fu lui a dover frenare alcune intemperanze di massoni come Prefetto di Palermo. Affidò i suoi pensieri a due sole frasi: ‘Temo grandemente che sia stato un funesto errore il cangiamento della capitale, pomo di discordia gettato gettato fra gli italiani. Cionullameno credo buona la Convenzione , né temo le cattive intenzioni della Francia a danno nostro’. Frapolli teneva a Rasponi. Rispose ricorrendo appieno al suo “tatto pratico” ‘La Convenzione è buonissima ed è convinzione di tutti quelli che hanno la testa sulle spalle che Napoleone ha accettato il fatto compiuto dell’ Italia unita. Però l’ Imperatore ha domandato una garanzia , la traslazione immediata della capitale a Firenze. Quest’ultima cosa è interesse di pochi italiani , i quali non hanno pensato ai grandissimi incovenienti della risoluzione; senza contare il disastro finanziario conseguente ad una improvvisa partenza da Torino. Io sono sempre stato , voi lo sapete, anti-piemontese, ma non amo lasciarmi trascinare dalle passioni del momento. Oggi mi sembra che tutti vaneggino. Gli uni gridano : “Bisogna partire immediatamente da Torino”. Gli altri esclamano : “Torino o Roma”, come se a Roma ci si potesse andare a prendere un caffè’ ”. 36 Dai Sonetti Romagnoli di Olindo Guerrini, ci piace in questa sede riportare la seguente poesia , una sorta di scanzonata versione tutta in romagnolo, nella lingua e nello spirito , del fondamentale principio massonico della tolleranza: UI DA’ E’ CLERICHEL Nó, rispetè agl’idei dagli upinion Parchè stasera an s’vlen tiré i cavell, Che a discutar d’prinzipi e d’religion Al ciacar al fines cun i curtell. Se vuietar , mitegna, a sì Masson S’an vli andè in cisa andè in t’i Calzinell Mo nó s’ dasì di purch e di coion S’lè un fatt e vera ch’a sen tott fradell. Vuietar i miracol d’e Signor A i tulì sotto gamba e a n’ì cardì, Che ,invezi, ui dà la mola a totti gli or. V’acurdev d’Gracco ch’ ui puzzeva i pi? Pr’ un vot a la Madona d’e’ Sudor Sol cun l’acqua d’è pozz ló l’è guarì. A comprensione del testo , ricordiamo che via Calcinelli, “i Calzinell”, oggi via S.Vittore, era il luogo dove si trovavano i postriboli. 37 Citiano ancora da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri. 38 [C.Manelli], Cento anni…, cit.,pp.29-30. 39 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana…, cit.,p. 179 40 La tesi di Manelli non manca di verosimiglianza, visto che l’avversione da parte clericale verso la Massoneria raggiungerà di lì a pochi anni vertici veramente parossistici. Con l’enciclica Humanum genus del 1884 Leone XIII arriverà a definire la liberomuratoria “città di Satana”, individuando in essa il nemico assoluto da battere e compiendo così nell’ ultimo scorcio dell’ Ottocento una operazione ideologica di individuazione del “male assoluto” che nel secolo successivo, il secolo dei totalitarismi, ha avuto i ben tristemente conosciuti attuatori nella prassi. “Particolarmente insidioso (e illuminante) – citiamo da A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana…,cit., p., 219 – nell’enciclica leoniana riuscì l’uso della formula ‘Sinagoga di Satana’ , che in quello scorcio di Ottocento non aveva solo suono oratorio, giacché cadeva nel bel mezzo di una ben orchestrata campagna di stampa antiebraica, nel cui ambito ai motivi tradizionali dell’ “antigiudaismo” cattolico (deicidio in testa) s’aggiungevano virulenze plebee e populistiche richieste di agire subito e a fondo contro la “plutocrazia ebraica”. Papa Pecci riecheggiò anche le invettive nazionalistiche, contro l’ “internazionalismo” sionistico; conservatrici , contro il “rivoluzionarismo” serpeggiante all’interno delle “sinagoghe” e dilagante attraverso la stampa e la nuova scienza, palesemente dominata dalla “setta giudaico massonica .” ” 41 [C.Manelli], Cento anni…, cit., ,p.30 42 Ibidem.

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43 Ibidem, pp.30-31. 44 Ibidem, p.31. 45 Ibidem, pp.48-50. 46 S. Mattarelli, Un’ ipotesi laica tra massimalismo e riformismo. La figura di Fortunato Buzzi amministratore della Ravenna prefascista, Ravenna, Circolo Culturale “ Carlo Cattaneo” , 1981, p.20. 47 Pio Poletti (1846-1936), patriota del Risorgimento, si arruolò nella prima guerra mondiale. Fu sindaco di Ravenna dal 1891 al 1896. 48 Cit. da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri 49 A. A. Mola , Storia della Massoneria italiana…, cit., p.370. 50 P. Emiliani, Pro e contro la Massoneria, in “La libertà”, 14 ottobre 1905. 51 “ La libertà”, 21 ottobre 1905, lettera firnata da Alberto Giovannini. 52 Ibidem, intervento firmato da Alberto Bagnoli. 53 U. Serpieri, La discussione sulla Massoneria, in “La libertà”, 28 ottobre 1905. 54 “La libertà”, 28 ottobre 1905, intervento firmato da Alberto Bagnoli. 55 “La libertà”, 11 novembre 1905, intervento firmato da Pietro Emiliani, 56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 U. Serpieri, , Finis, in “La libertà”, 11 novembre 1905. 59 [C. Manelli ], Cento anni…, cit., pp.33-34. 60 G. B. Maramotti, La memoria dantesca, in P. P. D’ Attorre (a cura di ) , Storia illustrata di Ravenna, vol. III, D. Bolognesi (a cura di), Tra Ottocento e Novecento, Nuova Editoriale AIEP, 1990,p. 253. 61 Ibidem. 62 Ibidem, p. 254. 63 Ibidem, p. 249. 64 [C. Manelli], Cento anni…, cit.,pp.34-35. 65 Ibidem, pp.35-36. Oltre la Cronistoria della Loggia Dante Alighieri , il Segretario del Grande Oriente d’ Italia ci ha trasmesso un elenco degli iscritti alla Loggia (d’ora in avanti “Piedilista della Loggia Dante Alighieri”). Pur essendo il “Piedilista” riferito prevalentemente agli iscritti dalla fondazione del 1863 fino alla sua demolizione nel 1924 a causa delle persecuzioni fasciste , esso risulta comunque uno strumento indispensabile per una ricostruzione storica della sua base associativa, altrimenti impossibile dopo la distruzione degli arredi e dei documenti della stessa nel ’24. Dal “Piedilista della Loggia Dante Alighieri” – che citiamo per intero ed integralmente – apprendiamo quindi che sotto le sue colonne hanno squadrato , fra gli altri, la pietra grezza i seguenti Fratelli : “Cesare Albertini – avv. Augusto Babini- Giannetto Baccarini – Italo Badessi – dott. Alfredo Badiali – rag. Giuseppe Badiali – Pietro Bagnari – ing. Giovanni Baldini – Gustavo Balungani – geom. Primo Barbiani – geom. Roberto Barboni – ing. Eugenio Baroncelli – Filippo Bartalucci – Gaspare Bartolini – rag. Luigi Bassi – Teodosio Battisti – Antonio Belcari – Silvio Belcari – rag. Leopoldo Bellardini – Clodio Bellenghi – Pietro Bellenghi – Ippolito Bellonzi – prof. Adolfo Bellucci – dott. Bendandi Nullo – Alfredo Berti – Pietro Berti – prof. Endaro Bertozzi – prof. Alessandro Bezzi – Gian Luigi Bisoffi – Bondolfi Luigi (1864) [sic ,probabilmente si tratta del primo Maestro Venerabile della Loggia, il chirurgo Luigi Bondoli ] – rag. Teodorico Boschi – Oddo Bravetti – Luigi Brocchi – Giacomo Brunelli – prof. Pietro Bruno – dott. Gino Busignani – Tullio Busignani – Leopoldo Busnanti – rag. Fortuinato Buzzi [ recte : Fortunato Buzzi ] – rag. Andrea Cagnoni – rag. Pietro Cagnoni – rag. Ugo Cagnoni – Caio Caimmi – Alessandro Calderini – avv. Bruno Calderoni – rag. Celso Cavetti – avv. Italo Camisa – avv. Varmelo [ prob. Carmelo] Cantalamessa Carboni – Antero Cappelli – dott. Francesco Cardelli – Domenico Casadio – rag. Eugenio Casadio – dott. Attilio Castellini Bezzi – prof. Filippo Castellini – Riccardo Compagnoni – Romolo Conti – Filippo Cortesi – dott. Primo Cortesi – Giuseppe Cossovich – Pietro Damiani – Giovanni Danise – Francesco De Angelis – Duilio Della Scala – dott. Enrico De Michelis – Aristide Dragoni – geom. Augusto Fabbri – prof. Agostino Fabbrini – dott. Fausto Faggioli – Innocenzo Fagnocchi – rag. Ardiglione Fava – Ferdinando Ferré – dott. Giovanni Focaccia – rag. Luigi Focaccia – Vincenzo Focaccia – Gaetano Folicardi [ prob. Folicaldi ] – prof. Attilio Fornaroli – dott. Ettore Frattari – Pietro Friscia – dott. Leone Frontali – dott. Giuseppe Galliani – dott. Ferdinando Gallina – Antonio Gallotti – Luigi Galvanoni – dott. Giorgio Garavini – Michele Gatta – Ernesto Gattelli – dott. Naldo Gherardini – dott. Gaetano Ghigi – dott. Primo Ghigi – Alfredo Giardini – Ludovico Giardini – geom. Romeo Giorgioni – ten. Mario Girotto – rag. Giuseppe Giuliani – prof. Tobia Gordini – conte ing. Luigi Guaccimanni – Olindo Guerrini [ alias Stecchetti ] – Roberto Gulmanelli – Ugo Lavagna – Bruto Dialma Leonarrdi [ prob. Leonardi ] – Attilio Leonelli – Dante Locatelli – Dionigi Loreta – Scipione Lorini – Oreste Macrelli – Teseo Maestrini – Matteo Maggetti – ing. Guelfo Magrini – cap. Michelangelo Malagola – Antonio Marchini – rag. Ugo Marri – avv. Alessandro Mascanzoni – Giulio Mascanzoni – Antonio Massaroli – dott. Pietro Mazzanti – Giuseppe Mazzoni – Giacomo Mazzotti – Giuseppe Mazzotti – avv. Francesco Miadonna [prob. Madonna ] – Guido Miani – Tullo Minghetti – dott. Arrigo Minguzzi – dott. Umberto Morandi – dott. Mario Morigi – prof. Santi Muratori, dantista – dott. Vincenzo Nardi – dott. Giovanni Negri –

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Carlo Nigrisoli – prof. Giuseppe Orlandi – Arturo Ortolani – Luigi Palerma – Giovanni Pascoli [ omonimo del poeta ] – rag. Eugenio Pasini – Valentino Pasini – dott. Vincenzo Piancastelli – Tancredi Piatesi – Paolo Poletti – avv. Pio Poletti ( sindaco di Ravenna ) – Gregorio Pozzi – Pietro Pozzi – dott. Giuseppe Ranzi – conte Giovacchino [ recte : Gioacchino ] Rasponi – Francesco Ricci – rag. Raffaello Righi – Giuseppe Rivola – Giovanni Romanelli – geom. Ermenegildo Roserti [prob. Rosetti ] – Andrea Saporetti – Arturo Saporetti – Antonio Savorelli – prof. Giuseppe Scoto – rag. Curzio Semprebene – dott. Sebastiano Tabanelli – Luigi Tarlazzi – arch. Giovanni Tempioni – Achille Restori – dott. Ervigo Torsellini – dott. Giuseppe Trincossi – dott. Guglialmo [prob. Guglielmo ] Triossi – Luigi Triossi – Primo Valenti – Luigi Venturi Longanesi – dott. Pericle Venturi – dott. Giuseppe Vistoli – rag. Matteo Vitali – Andrea Vizzani – geom. Pio Zaccaria – Adolfo Zanello – Giuseppe Zanoni – Geremia Zoli.” Per quanto riguarda uno sguardo più specifico sulla condizione associativa della Loggia “ Dante Alighieri” nel periodo delle persecuzioni fasciste e della sua demolizione, risulta indispensabile l’elenco fornito da [C. Manelli ] , Cento anni…, cit., pp. 39-40 : “Al momento della demolizione della Loggia erano attivi i regolari tre Fratelli che troviamo tuttora operosi tra le colonne del Tempio : Damiani col.° Pietro , combattente della guerra 1915-18 e ritornato dal fronte coi segni del valore; Bovelacci dr. Nullo, attualmente membro della R. L. Aurelio Saffi all’ Or. Forlì e Calderoni avv. Bruno, che appartiene a questa Loggia. Ed ora elenchiamo i nomi dei Fratelli attivi della Loggia Dante Alighieri nel 1924 , in massima parte passati all’ Oriente Eterno: Buzzi rag. Fortunato; Cagnoni rag. Pietro; Nigrisoli dr. Domenico; Babini avv. Augusto; Badessi Italo; Badiali dr. Alfredo; Ballardini dr. Luigi; Barbiani Primo; Baroncelli ing. Eugenio; Berti Pietro; Cagnoni rag. Andrea; Caimmi Caio; Calori Arnaldo; Casadio Domenico; Cottignola dr. Giovanni; Cottignola dr. Vincenzo; Cagnoni Ugo; De Angelis Francesco; De Battisti Teodosio; Evangelisti Enrico; Errani ing. Ugo; Fernè Ferdinando; Fariselli Rodolfo; Fagnocchi rag. Innocenzo; Fava rag. Ardiglione; Farini Plinio; Giuliani geom. Giuseppe; Gulmanelli Roberto; Ghigi dr. Primo; Gordini Tobia; Grandi dr. Umberto; Mascanzoni avv. Alessandro; Muratori prof. Santi; Maggetti Matteo; Mazzoni cav. Giuseppe; Maestrani Teseo; Moretti Umberto; Morigi dr. Mario; Nardi dr. Vincenzo; Ortolani dr. Arturo; Ortali Prof. Oreste; Pascoli Giovanni (omonimo del poeta) ; Poletti avv. Paolo; Piancastelli dr. Vincenzo; Ranieri Gualtiero; Ricci Francesco; Speranza Renato; Scoto prof. Giuseppe; Trincossi dr. Giuseppe; Triossi dr. Guglielmo; Venturi dr. Lorenzo; Venturi prof. Pericle; Zaccaria geom. Pio.” Dei nominativi citati in questi due elenchi e da noi non ancora menzionati nel presente studio è opportuno evidenziare i seguenti: Italo Badessi, Riccardo Compagnoni, dott. Mario Morigi, Giulio Mascanzoni, prof. Santi Muratori, arch. Giovanni Tempioni, prof. Oreste Ortali. Italo Badessi (1872-1950). Intraprese numerose iniziative nel campo sociale attraverso la fondazione e l’amministrazione di opere assistenziali ed educative. Fu iniziato il 13 marzo 1905 nella Loggia “Dante Alighieri” di Ravenna e nel 1945 ne divenne Venerabile. Fu presidente dell’Ordine della Casa Matha ,la più antica corporazione medievale tuttora in vita della quale difese sempre il patrimonio e la tradizione di autonomia. Riccardo Compagnoni (1886- 1953 ) fu il primo Sindaco di Ravenna nominato dal comitato di liberazione. “Insegnante, presiedette la Unione Magistrale Nazionale fino all’ avvento del fascismo. […] Iniziato nella L. VIII Agosto di Bologna il 17 maggio 1918, promosso Compagno il 12 marzo 1919 ed elevato al grado di Maestro nella L. Dante Alighieri di Ravenna cui si era affiliato prima del 1925. Nel Rito Scozzese Antico ed Accettato ricevette – motu proprio del S. G. C. Mori – l’aumento di luce al 30° grado.”(G. Gamberini, Mille volti di Massoni, Roma , Edizioni Soc. Erasmo, 1975, p. 226 ). Mario Morigi (1878-1951). “Chimico, si dedicò alla preparazione industriale degli arseniati e della lecitina. Precorse l’invenzione del D.D.T. .Iniziato nel 1906 nella L. Dante Alighieri di Ravenna della quale fu M. Venerabile . Appartenne al R.S.A.A.”. (Ibidem, p.212). Santi Muratori (1874-1943 ) fu uno dei protagonisti della vita culturale di Ravenna. “ Dantista. Cultore di archeologia. Direttore della Biblioteca Classense. Membro della L. Dante Alighieri di Ravenna fino alla persecuzione fascista , nei primi giorni dell’ agosto ’43 accoglieva la proposta di risveglio fattagli dal Fr. Gamberini . Pochi mesi dopo , il suo cuore cedeva all’angoscia per la sorte dei tesori d’arte cui aveva dedicato la vita, durante un bombardamento.” ( Ibidem, p.205 ). Giovanni Tempioni(1858-1922) costituisce la smentita – una delle tante – dell’accusa gramsciana della Massoneria come “partito della borghesia”. Di umili natali, iniziando da muratore riuscì a diventare un apprezzato architetto. Oreste Ortali. Della stima ed amore che si seppe guadagnare nella professione di medico, rende testimonianza la seguente iscrizione – sormontata dal bassorilievo artistico che ne rappresenta le fattezze dello scultore e liberomuratore Giannantonio Bucci , da poco scomparso – posta alla parete del vecchio ingresso dell’ Ospedale Civile di Ravenna “S. Maria delle Croci”: “Sempre cravatta a fiocco al collo/viso burbero cuore d’oro/in due guerre mondiali/in lotte politiche e sociali/disponibile generoso fraterno/con tutti/il Prof. Oreste Ortali/1880-1958/chirurgo sommo/si prodigava senza limiti/e in questo ospedale S. Maria delle Croci/dal 1919 al 1953/mostrava la sua valentia operatoria/e l’amore del prossimo/una storia che a Ravenna è leggenda/15-III-1988” Fra i nominativi che non compaiono in nessuno di questi due elenchi, riteniamo opportuno menzionare Duilio Giacci e Guido Ottolenghi. Duilio Giacci (1887-1954). “La L. Nino Bixio di Viterbo aveva deliberato nel 1923 di ammetterlo alle prove della iniziazione. Egli ne era al corrente , anche se gli eventi impedirono di convocarlo. Quando l’amministrazione statale gli chiese se apparteneva alla Massoneria, egli rispose di essere massone e ne affrontò sereno le conseguenze. Iniziato nella L. Dante Alighieri N°108 all’Or. di Ravenna il 26 luglio 1945, promosso compagno il 15 dicembre 1945 ed elevato al grado di Maestro il 17 marzo

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1946. Appartenne al Rito Scozzese. Morente ,volle trascorrere gli ultimi istanti discorrendo della Massoneria ed esortando i Fratelli alla concordia.”(Ibidem, p.229).Guido Ottolenghi (1902-1958). “Chimico. Industriale. Filantropo. Medaglia d’argento al V. M. per la lotta di liberazione. Iniziato a Torino il 15 luglio 1923 ,affiliato successivamente alla L. Ricostruzione di Roma poi alla L. Dante Alighieri di Ravenna nel 1947. Appartenne al Rito Scozzese.”(Ibidem, p.249). 66 Per gli immemori dell’ antifascismo in servizio permanente attivo molti dei quali, probabilmente in virtù dei loro trascorsi ideologici non propriamente liberaldemocratici, nutrono una forte avversione per l’Ordine, giova qui ricordare il sanguinoso tributo di molti massoni contro il fascismo. Fra i quali ne emergono due in particolare per l’ esemplarità del sacrificio: Mario Angeloni e Giordano Bruno Viezzoli. Angeloni, comandante assieme a Carlo Rosselli della Colonna italiana, il primo numeroso gruppo organizzato dall’ antifascismo italiano accorso in aiuto della Repubblica spagnola, cadde alla testa del reparto mitraglieri l’8 agosto 1936 assieme ad altri sette compagni italiani nell’epica battaglia di Monte Pelato sul fronte di Aragona, combattendo contro soverchianti forze franchiste che dovettero subire gravissime perdite. Il secondo, Giordano Bruno Viezzoli cadde il 30 settembre 1936 nei cieli di Madrid a bordo del suo bombardiere Potez 540 della squadriglia “Espana” mentre nel corso di una missione veniva assalito dai CR. 32 italiani al servizio di Franco. Viezzoli morì dissanguato, col ventre squarciato da una pallottola esplosiva. La cinematografia s’impadronì immediatamente di una fine così tragica e commovente : la scena del ritorno del bombardiere in fiamme dalla missione apre il film Sierra de Teruel di André Malraux , girato fra il giugno 1938 e il gennaio 1939 a Barcellona. “ Nella finzione cinematografica – leggiamo in A. Emiliani, Italiani nell’ aviazione repubblicana, in “Archivio Trimestrale”, n.1 , gennaio- marzo 1982, p.150 – Viezzoli è Marcellino che più tardi viene ricordato a nome dei compagni dal comandante Pena: ‘Era un uomo che noi amammo’. Nella realtà il velivolo si schianta al suolo in territorio repubblicano nei pressi di Toledo. Il corpo di Giordano Viezzoli verrà sepolto nel cimitero di Carabanchel con onoranze funebri solenni. La commemorazione si tiene a Parigi, il 21 novembre , per iniziativa della sezione parigina della Lega dei diritti dell’ uomo , che di Giordano Viezzoli assunse il nome. Ai rappresentanti di tutte le tendenze dell’ antifascismo, raccolti in una sala in Boulevard Strasbourg in un’ atmosfera di intensa partecipazione, parlano Alberto Cianca, Veniero Spinelli e il padre Giuliano. Quest’ ultimo pochi giorni dopo indirizza al Podestà di Trieste una lettera fierissima : ‘… Mio figlio Giordano nato a Trieste combattè in Spagna con Garibaldina fede, continuatore della stessa lotta per la libertà dei popoli alla quale io credetti facendo la guerra. Il piombo dei proiettili esplosivi italiani ha troncato la sua esistenza. E’ una vergogna di più della decadente monarchia da voi rappresentata. Vi restituisco la medaglia ,fate pure con essa altri proiettili, con ciò accelerate la resa dei conti e l’ora della rivoluzione sociale.’ ” Questo a monito di tutti coloro che fumettisticamente vedono l’Ordine come una sorta di Cattivik costantemente intento a complottare con le oscure forze antidemocratiche :gli uomini della Massoneria c’ erano e combattevano per la libertà quando molti dei suoi attuali denigratori erano in altre faccende affacendati ( se non addirittura a combattere dall’ altra parte della barricata ) 67 Questi registri sono presso l’autore. 68 M. Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche , documenti e testimonianze per una storia dell’ antifascismo democratico romagnolo, Ravenna, Edizioni Moderna, 1989. 69 C. L. Ragghianti, Disegno della liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, p.203

Le guerre e i fallimenti dell’America_Di  George Friedman

Le guerre e i fallimenti dell’America

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Sessant’anni fa, nel 1962, gli Stati Uniti presero la decisione di entrare in guerra in Vietnam, schierando per la prima volta in battaglia importanti forze aeree e di terra. Questa era una frazione degli uomini e degli aerei che sarebbero serviti lì negli anni a venire. Era una linea che l’amministrazione Kennedy si rese conto di attraversare. Ha visto il coinvolgimento degli Stati Uniti come una mossa minore, persino sperimentale. Ma quando una nazione manda i suoi soldati in guerra, una logica prende piede. Quando gli uomini muoiono, la nazione presume che sia per un interesse vitale. I leader non possono dichiarare l’esperimento un fallimento perché non possono ammettere di aver sperimentato la vita dei soldati. Una morte richiede una ragione degna, e stabilire che la morte non è stata vana è incompatibile con “tagliare e scappare”, nelle parole di Lyndon B. Johnson. L’intervento è difficile. Il ritiro sotto tiro è agonia.

Per capire la strategia americana dal 1962 ad oggi, dobbiamo capire cosa vedeva e pensava John F. Kennedy quando prese il primo grande impegno. Kennedy è stato creato dalla seconda guerra mondiale, e anche i militari più anziani lo erano. Nella seconda guerra mondiale, l’America ha capito il suo nemico. La Germania era governata da Hitler, e Hitler e i suoi subordinati erano intelligenti, spietati e come noi nel combattere una guerra di macchine e industria. Abbiamo capito che Hitler era un tiranno senza principi. Il Giappone era un impero governato da un governo brutale e, come abbiamo visto in Cina, combattenti spietati. Sapevamo anche che, come i tedeschi e gli americani, stavano combattendo una guerra industriale. Conoscevamo il nemico, non ne sottovalutavamo mai la forza, e facevamo coincidere la nostra guerra con la produzione industriale. Conoscevamo il valore degli alleati, gli usi delle portaerei e dei carri armati, e come addestrare gli uomini alla guerra. Abbiamo imparato questo e altro. E avremmo combattuto fino alla fine, senza quartiere né chiesto né dato.

Gli Stati Uniti hanno superato il Vietnam del Nord e il Viet Cong in ogni misura che ha vinto la seconda guerra mondiale. Non ci rendevamo conto di non aver capito il nostro nemico. Non erano industriali, né erano divisi tra comunisti e una serie di fazioni. Chiaramente i non comunisti del sud odiavano la tirannia del nord. La popolazione anticomunista doveva essere mobilitata e armata con le migliori attrezzature e la bandiera degli Stati Uniti, insieme a quella vietnamita, avrebbe sorvolato Hanoi. La folla nel sud si allineava sulle strade accogliendo gli americani anche se gli Stati Uniti non prendessero Hanoi. Lo scopo dell’intelligence è prevedere cosa faranno gli altri, e proprio come la CIA non è riuscita a capire le conseguenze della Baia dei Porci, non ha capito il Vietnam. Anch’esso era bloccato nella seconda guerra mondiale.

Il Vietnam non era la SS che combatteva contro i Maquis (combattenti della Resistenza francese). Il Vietnam era diviso per trattato, ma era un paese. I comunisti si erano impossessati del nord ei non comunisti governavano il sud. I non comunisti venivano in molte forme, ma l’unica cosa che condividevano con i comunisti del nord era che erano vietnamiti. Non erano scioccati da un regime comunista repressivo quanto dal pensiero di una guerra civile vietnamita, che è ciò che gli americani stavano vendendo, che la chiamassero così o meno. Non volevano combattere altri vietnamiti. Quello che volevano era essere lasciati soli. I vietnamiti non vedevano gli americani come liberatori e protettori. Li vedevano come consegnare i terrori della guerra industriale. Dopo aver sopportato l’occupazione francese e l’oppressione dei vietnamiti che i francesi avevano elevato a governanti fantoccio, non avrebbero scelto tra un nuovo imperialismo e una dittatura comunista. Ciò non significava che l’anticomunismo non fosse presente, né che molti non vedessero gli americani come una forza amica. Significava che le passioni dei vietnamiti erano divise, complesse e volubili.

Gli americani hanno commesso tre errori. La prima era che pensavano che, come in Belgio, il loro arrivo in Vietnam sarebbe stato accolto con gioia universale. Non lo sapevano perché la leadership non ha ascoltato l’intelligence.

In secondo luogo, non capivano il nemico comunista. I comunisti trassero gran parte della loro legittimità dall’aver cacciato i francesi. Il loro comunismo e nazionalismo erano legati. Questo era vero anche per il comunismo cinese di Mao e il discorso di Stalin in difesa della patria. Ci sono quelli che combattono per convinzioni astratte, ma molti di più che combattono per la loro patria. Non sono sicuro di quanti americani nella seconda guerra mondiale abbiano combattuto per la democrazia liberale o per l’America, ma sospetto che la protezione della patria abbia risuonato di più. Il Vietnam era stato governato da molti bruti, ma almeno i comunisti erano bruti vietnamiti. Erano comprensibili.

Infine, hanno combattuto la guerra dal punto di vista della percezione, in particolare della percezione del pubblico statunitense. Piuttosto che fare ciò che è stato fatto durante la seconda guerra mondiale, che era chiarire che questa sarebbe stata una guerra lunga e sanguinosa e quindi vincolare il pubblico alla verità, il governo ha cercato di allineare la strategia con l’idea che la vittoria si stava avvicinando e che le vittime sarebbero declino. Ciò significava che l’offensiva del Tet aveva infranto ogni fiducia. Si spera che mentire funzioni meglio quando la realtà collabora.

Gli Stati Uniti non hanno capito il loro nemico oi suoi amici. Temeva i comunisti meno dell’opinione pubblica americana. Nelle guerre, il momento più buio potrebbe essere appena prima del successo. Pensa alla battaglia delle Ardenne. Il momento più buio non poteva essere un momento come questo perché assurde pretese di successo non avevano preparato il pubblico americano ad esso.

Quando pensiamo di non capire il proprio nemico, di plasmare una guerra per non sconvolgere le falsità del conflitto, e di cercare di sopraffare con la guerra industriale un nemico che sta combattendo una guerra molto diversa, possiamo pensare anche alle guerre in Iraq e Afghanistan. Il nemico poteva o meno odiare il governo, ma un numero sufficiente di persone odiava gli americani perché non erano iracheni o afgani. L’ideologia e la religione hanno avuto un ruolo ma non sono state la chiave. C’era uno sconosciuto in casa loro e dovettero cacciarlo via.

Gli americani dovrebbero esserne consapevoli, perché la nostra rivoluzione è stata progettata per scacciare i superbi britannici, con le loro regole e regolamenti. La rivoluzione era impegnata nella Dichiarazione di Indipendenza, ma il vero nemico erano gli inglesi. Erano stranieri in casa nostra e dovettero essere espulsi. Il principio morale c’è, ma gli uomini muoiono per amore del proprio.

Ci sono poche guerre come la prima e la seconda guerra mondiale, grazie a Dio. Ragionare su come abbiamo vinto quei conflitti di solito porterà al fallimento in altre guerre. L’ondata di guerre americane dopo la seconda guerra mondiale e i loro risultati insoddisfacenti dovrebbero testimoniarlo. Andare in guerra e fallire rappresenta una leadership senza discernimento, con una fede irrazionale nelle proprie forze e un folle rifiuto della motivazione e dell’intelligenza del nemico. Anche se molti ci accolgono come liberatori, saranno questi fattori a determinare il nostro destino. Fortunatamente per l’America, è troppo ricca e forte per essere abbattuta da un fallimento. Ma è importante non sfidare la fortuna.

Le guerre sono necessarie e accadranno, ma dovrebbero iniziare come la seconda guerra mondiale: con paura e timore reverenziale nei confronti del tuo nemico. Qualsiasi altra cosa ti rende negligente. Come ha notato Tucidide, la guerra non può essere combattuta da una città divisa e spaventata. Ciò si è dimostrato vero in Vietnam, Iraq e Afghanistan. La domanda più importante non è mai stata posta: come trarrebbero vantaggio gli Stati Uniti dalla vittoria e quanto costerebbe la sconfitta? La sconfitta non è mai stata immaginata e il beneficio del successo è stato ampiamente sopravvalutato. Il mondo non è finito, né il potere americano. Ma temendo le conseguenze della sconfitta, rimandiamo l’inevitabile. Oggi gli Stati Uniti collaborano con il Vietnam contro la Cina. Ciò che allora era impensabile e insopportabile non lo è nemmeno oggi. Le guerre, quindi, dovrebbero essere rare e assolutamente necessarie.

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MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________ I PARTE

Un lavoro inattuale di Massimo Morigi, quindi molto adeguato per i tempi attuali. Dalla prefazione dell’autore stesso: «Sui motivi remoti e contingenti della non pubblicazione nel 2003 di questo piccolo lavoro, che viene ora proposto ai lettori dell’ “Italia e il Mondo” nella sua ultima fase di bozza quasi ultimata che non riuscì nel salto di diventare una pubblicazione vera e propria non sarebbe utile spendere alcuna parola se non dire che si trattava di uno scritto d’occasione che per motivi bizzarri e legati alle dinamiche personalistiche tipiche dei gruppi autoreferenziali non poté venire alla luce in forma cartacea. Più utile, invece, spiegare perché si è deciso di pubblicarlo ora seppur in forma elettronica e nemmeno corretto nella sua bozza. Nella bozza non definitivamente corretta perché un sua conclusiva stesura non avrebbe oggi senso perché una rifinitura non conferirebbe alcun ulteriore significato a questa lavoro perché se un senso questa storia ha è che proprio nel suo fallimento nel venire alla luce e quindi nella grezza incompletezza essa oggi segnala la fine di un mondo di espressività e di illusioni strategiche che già allora erano segnate ma che oggi sono definitivamente tramontate. Ma è proprio dalla forma grezza di questo masso erratico di un’altra epoca geologica della cultura e della politica che ora propongo ai lettori dell’”Italia e il Mondo” che risiede la speranza che dell’originaria espressività strategica che ispirò questo lavoro non tutto è perduto ed anzi possa essere proseguito. Penso che l’immortale esempio di Federico il Grande di Prussia (unico appunto da fare al lascito dialettico-strategico del filosofo di Sans Souci, l’aver scritto l’Anti-Machiavel ma saremmo ben indegni ammiratori del Segretario fiorentino se non fossimo generosi verso questa necessaria dissimulazione) il cui famoso ritratto dopo la sconfitta di Kolin campeggia in frontespizio possa costituire la più adeguata Leitbild a quanto ho qui affermato. Massimo Morigi – gennaio 2022.»

Buona lettura.

Giuseppe Germinario

MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________

I PARTE

*In frontespizio: Friedrich der Große nach der Schlacht bei Kolin von Julius Friedrich Anton Schrader (Federico il Grande dopo la battaglia di Kolin, di Julius Friedrich Anton Schrader, 1849)

Prefazione di inizio 2022 dell’autore ai lettori dell’ “Italia e il Mondo” dopo circa un ventennio della non pubblicazione della Loggia “Dante Alighieri” nella storia della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863 – 2003 ) Sui motivi remoti e contingenti della non pubblicazione nel 2003 di questo piccolo lavoro, che viene ora proposto ai lettori dell’ “Italia e il Mondo” nella sua ultima fase di bozza quasi ultimata che non riuscì nel salto di diventare una pubblicazione vera e propria non sarebbe utile spendere alcuna parola se non dire che si trattava di uno scritto d’occasione che per motivi bizzarri e legati alle dinamiche personalistiche tipiche dei gruppi autoreferenziali non poté venire alla luce in forma cartacea. Più utile, invece, spiegare perché si è deciso di pubblicarlo ora seppur in forma elettronica e nemmeno corretto nella sua bozza. Nella bozza non definitivamente corretta perché un sua conclusiva stesura non avrebbe oggi senso perché una rifinitura non conferirebbe alcun ulteriore significato a questa lavoro perché se un senso questa storia ha è che proprio nel suo fallimento nel venire alla luce e quindi nella grezza incompletezza essa oggi segnala la fine di un mondo di espressività e di illusioni strategiche che già allora erano segnate ma che oggi sono definitivamente tramontate. Ma è proprio dalla forma grezza di questo masso erratico di un’altra epoca geologica della cultura e della politica che ora propongo ai lettori dell’”Italia e il Mondo” che risiede la speranza che dell’originaria espressività strategica che ispirò questo lavoro non tutto è perduto ed anzi possa essere proseguito. Penso che l’immortale esempio di Federico il Grande di Prussia (unico appunto da fare al lascito dialettico-strategico del filosofo di Sans Souci, l’aver scritto l’Anti-Machiavel ma saremmo ben indegni ammiratori del Segretario fiorentino se non fossimo generosi verso questa necessaria dissimulazione) il cui famoso ritratto dopo la sconfitta di Kolin campeggia in frontespizio possa costituire la più adeguata Leitbild a quanto ho qui affermato. Massimo Morigi – gennaio 2022 Massimo Morigi

La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 1 Pag. 2

AI COMBATTENTI DEL BARKA Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 1 Pag. 3

INDICE Pag. Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

a Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

b Capitolo 1 – GLI INIZI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

x Capitolo 2 – LA LOGGIA MASSONICA DANTE ALIGHIERI . . . . . . . . . . . . . . .

by Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … –

Capitolo 1

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INTRODUZIONE Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 1

Pag. 5 PREFAZIONE

Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 1

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Capitolo 1 GLI INIZI Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 1 Pag. 7

Se neppure così ci riesci, sii almeno uno di coloro che ci credono: “Iddio innalzerà d’altri gradi coloro di voi che avran creduto e ricevuta la scienza”, e la scienza è al disopra della fede e l’esperienza al disopra della scienza. L’esperienza è emozione , la scienza è procedere per analogie, la fede è pura accettazione per conformismo. Abbi buona opinione di coloro che provano l’emozione o di coloro che posseggono la conoscenza. Sappi, ora che hai appreso quali sono i cinque spiriti, che tutti quanti sono luci, perché rendono palese ogni sorta di cosa esistente, sensibile e immaginaria. Al Ghazali, La nicchia delle luci

“PROCUL O PROCUL ESTE PROPHANI”, dovette sembrare un’esortazione molto a tono ai primi liberomuratori ravennati che intrapresero la sgrossatura della pietra grezza nei locali del monastero di S.Vitale, sulla cui architrave dell’entrata la ammonitrice formula con cui Virgilio dà voce alla sibilla che inizia Enea nel suo percorso nell’Averno respingendone però i compagni(… Via, via profani /gridò la profetessa, itene lunge / dal bosco tutto;e tu meco te n’entra.) il visitatore meno distratto (o meno intruppato nel mordi e fuggi del turismo di massa dei gruppi organizzati) può tuttora leggere traendone, come i primi massoni ravennati di inizio Ottocento ,il confortante pensiero che nella ricerca della parola perduta(o, se vogliamo esprimerci altrimenti, nella ricerca della libertà spirituale)siamo sempre da altri preceduti e guidati. Del resto, non solo le virgiliane reminiscenze poterono sembrare di buon augurio a questi ravennati “liberi e di buoni costumi” che per primi nella città degli Esarchi osarono sfidare la scomunica di Clemente XII (Papa Corsini, forse il Pontefice che attraverso i lavori di miglioramento del suo porto, più si adoperò per lo sviluppo di Ravenna, e da qui il nome di “Porto Corsini” del borgo marinaro che sorge accanto alla riva del porto canale – e di Canale Corsini – e la cui effige marmorea voluta dai ravennati riconoscenti per eternarlo, ironia della sorte, dopo essere stata collocata nell’odierna Piazza del Popolo ,vi fu, nel 1867, rimossa per essere posata proprio nel monastero di S.Vitale ,nel secondo chiostro, dove è tuttora, e da dove la sua veneranda e nobile figura sembra vegliare a che l’ex monastero- ma semel abbas, semper abbas – non debba mai più subire altre latomistiche profanazioni).Oltre alle molto profane e metalliche sollecitazioni del momento storico(la politica napoleonica favoriva la nascita di logge massoniche),di per sé forse del tutto necessarie e sufficienti a spegnere le sempre più fioche ritrosie suscitate dalla scomunica clementina in animi che, pur nella provinciale e sonnacchiosa Ravenna dello Stato della Chiesa, erano state raggiunte e plasmate dalla rivoluzione dei “lumi” e dal suo più grezzo e militare inveramento della conquista napoleonica, altri potenti e vivaci stimoli esoterici potevano promanare dal luogo eletto per le prime tornate e dalla città stessa. Dalla chiesa di S.Vitale in primo luogo. Nella basilica sorta all’inizio del sesto secolo su ordine del Vescovo Ecclesio non vi è solo da prestare attenzione ai mirabili mosaici bizantini. Pure estremamente significativa, per quanto assolutamente opaca dal punta immaginifico e perciò Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 1 Pag. 8

inevitabilmente persa da parte del turista mordi e fuggi, ne è la struttura. Questo tempio, infatti, è a pianta centrale ottagonale, tipica peraltro delle chiese bizantine, attraverso la quale i costruttori agli ordini del supremo architetto Giuliano Argentario intesero con ogni evidenza richiamarsi al simbolismo dell’ottagono, figura geometrica che unisce la terra al cielo perché ritenuta momento intermedio fra il quadrato (che rappresenta la terra) e il cerchio (il cielo). Da qui la predilezione bizantina per lo svolgimento dei sacri offici in fabbriche con questa pianta per favorire appunto il congiungimento dell’uomo con Dio. In seguito, la pianta ottagonale fu ripresa nell’Islam (esempio classico la Moschea di Omar a Gerusalemme), nelle chiese templari e per fare un esempio di un edificio non strettamente adibito al culto ma dalle valenze strettamente simboliche, nell’enigmatico castello di Federico II che sovrasta la piana di Andria in Puglia. Un templarismo che se è discutibile che rappresenti un episodio dell’ipotetico continuum iniziatico che partendo dai misteri dell’antico Egitto ,attraversa l’ellenismo e il Medioevo per poi approdare, tramite il momento fondamentale dell’ermetismo neoplatonico rinascimentale, alla moderna liberomuratoria, rappresenta ,invece uno dei principali miti di fondazione dell’ideologia della massoneria simbolica settecentesca e che, con ogni verosimiglianza, non mancò di colpire l’immaginazione di quegli ardimentosi ravennati (non ne andava della salute del corpo ma di quella dell’anima sì, visto che in fondo, anche per spiriti educati illuministicamente, non si può mai essere sicuri cosa ci si debba aspettare una volta passati all’Oriente Eterno…)che per primi si adunarono ritualmente in luoghi così carichi di tradizioni e di insegnamenti per il futuro. Il pavimento di mezzo ,che è stato rialzato dal primo piano in proporzione del sotterramento della Chiesa, è ricoperto di scelti marmi antichi componenti de’ vaghi intrecci ,e dirimpetto al Presbiterio un Laberinto .1 Così Francesco Beltrami nel 1783 parlando di S.Vitale nel suo Forestiere instruito, ci fa capire che sul finire del diciottesimo secolo si era ben consapevoli dell’importanza(ed, ovviamente, del significato, che, pendente la scomunica di Clemente XII e non ancora arrivati i francesi a liberare o ad occupare, se si preferisce, il territorio pontificio, non poteva essere esplicitato in una guida turistica ante litteram quale Il Forestiere) del labirinto pavimentale della più importante chiesa ravennate. “Concetto simbolico proprio dell’ iniziazione massonica – che si riallaccia all’immagine di un viaggio labirintico – che riteniamo non sia soltanto della massoneria “moderna” o “speculativa”, ma probabilmente nella massoneria “antica”, c.d. “operativa” , giacché l’idea del labirinto ,associata a quella della morterinascita iniziatica, si ricollega a molteplici tradizioni ed era ben presente nel Tardo Medioevo ,come attestano molteplici opere degli antichi maestri costruttori e molte opere letterarie.”2 E dalla città stessa in secondo luogo, o perlomeno dall’idea che su di essa si era venuta formando nell’intellighenzia non clericale della città ove riposano le spoglie di Dante(altro topos fortemente identitario per gli avversari del romano pontefice, tanto che nella seconda metà del diciannovesimo secolo a Ravenna la massoneria sarà rappresentata dalla Loggia “Dante Alighieri”),promanavano profonde suggestioni, tant’è che sul Mausoleo di Teodorico, uno dei maggiori simboli “laici”,assieme alla tomba del Poeta costruita dal Morigia nel 1780,della città dell’epoca, sempre il Forestiere instruito ci informa che il mausoleo del re ostrogoto “Vedesi ideato con tal regolare ,e proporzionata disposizione di tutte le sue parti ,che il celebre Polifilo, altrove da me citato ,ne’ suoi misteriosi scientifici sogni Lib.I.cap.17 lo rassomiglia ad un sontuoso rotondo Tempio di elegante struttura da esso lui immaginato ,e descritto.”3 Ora, che nella “Bibbia” della cultura ermetica rinascimentale, l’Hypnerotomachia Poliphili appunto, nel luogo indicato da Beltrami si alluda al mausoleo di Teodorico è un’affermazione del tutto discutibile che meriterebbe ben altro approfondimento di quello che si degnò di fornirci Beltrami (o che fu possibile concedersi al Beltrami stesso, visti i profondi condizionamenti ambientali su cui è inutile ripetersi).Nel capitolo 7 dell’Hypnerotomachia si parla sì di un tempio antico e costruito con perizia architettonica, e a queste caratteristiche potrebbe conformarsi il nostro mausoleo ma la fabbrica

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ammirata dal trasognato spasimante di Polia è a pianta circolare(il Mausoleo di Teodorico è, invece, a pianta centrale con due ordini sovrapposti ma decagonale l’inferiore e decagonale prima e circolare poi quello superiore, e ciò ci porterebbe ad escludere che il Polifilo prenestino abbia esemplato ,anche se solo in parte ,il suo onirico edificio dal mausoleo ostrogoto)e consacrato alla Dea Venere Genitrice(e qui il Mausoleo di Teodorico è totalmente irriconoscibile).Ma dando per scontato il pluralismo ed anche l’opacità semantica della cultura iniziatica e riservandoci ad un ulteriore studio lo sviluppo di un argomento che riteniamo di una certa importanza per la nostra storia locale, quello che qui importa sottolineare è che gli antesignani massonici della città della tomba di Dante si mossero in un ambiente che se per quanto riguarda le sollecitazioni essoteriche dovette aspettare la tutela delle armi francesi per la fondazione di una loggia massonica, era certamente aduso per sensibilità e per suggestioni storicomonumentali al discorso esoterico. Ma non vi sono solo le pur importanti – anche se timide e filologicamente discutibili- avance beltramiane nel campo ermetico e simbolico a suffragare l’idea che i reperti monumentali di Ravenna furono uno degli aspetti decisivi per l’affermazione anche a Ravenna sotto il dominio temporale del Papa della cultura esoterica che fra diciottesimo e diciannovesimo secolo investì l’Europa. Uno slancio che doveva avere realmente un gran momento se Camillo Morigia ,accettando la commessa del Cardinal Valenti per edificare il monumento sepolcrale al Divin Poeta , non si peritò d’inserire ad ornamento del timpano del tempietto una serpe che si morde la coda ,l’uroboros, simbolo ermetico-iniziatico dell’eternità del tempo e, per traslato ,dell’eternità del messaggio dantesco. Addirittura, nel progetto originario il simbolismo era ancora più denso: “nel timpano all’interno del cerchio, che si preciserà in un ouroboros, splende un esuberante sole raggiante; sui suoi lati insistono due slanciati pinnacoli piramidali che esibiscono il simbolo della città (la pigna) […] mentre ai lati della lunetta soprastante la porta d’ingresso, la lira e il serto dall’oro completano l’esibizione dei trofei del divino cantore”4 . Rispetto ai segni consentiti da Santa Madre Chiesa tutto ciò era troppo osare e infatti non si osò. Anche l’uroboros che si può considerare ad un tempo un estremo lascito dell’iniziale tessuto simbolico ed anche segno di una fortissima valenza espressiva esoterica, nel suo passaggio dall’ideazione alla realtà attenua la sua carica eversiva. L’osservatore è facilmente indotto a confondere le metalliche verdi squame del serpente con più stereotipate foglie dall’alloro, una sorta di convenzionale tributo al genio poetico al padre della lingua italiana.5 Ma la tomba di Dante non è il solo episodio che ci attesta che la Ravenna di fine diciottesimo secolo fu teatro di tensioni generate dallo scontro fra una Chiesa chiusa nell’ortodossia e la cultura esoterica della nascente massoneria simbolica settecentesca. La sfida si produsse anche all’interno di un edificio sacro, dentro la chiesa di Santa Maria Maggiore. In questa chiesa, infatti, venne sepolto Camillo Morigia, morto il 16 gennaio 1795.Sulla pietra del suo sepolcro volle fosse scritto: “Camillo Morigia ultimo di sua famiglia si raccomanda alle vostre orazioni”. Una iscrizione molto asciutta ,come si vede, con un fioco e convenzionale richiamo alla religione (le orazioni) ma che non denota alcuna palese tensione con la religiosità dominante. Ma il ricordo dell’architetto nella chiesa che accolse le sue spoglie, non è limitata all’iscrizione sulla pietra tombale ma è affidata anche ad un monumento funebre ,del quale è particolarmente significativo il busto in bassorilievo di Morigia poggiante alla base su una panoplia dei principali strumenti liberomuratori. Ora pur ammettendo che squadra, compasso e riga possano costituire un richiamo all’attività professionale del defunto, non si può peraltro non concedere, e con tanta maggiore convinzione, che dopo la scomunica clementina del 1738,la rappresentazione degli attrezzi simbolici dell’Arte Reale ,per di più dentro una chiesa, costituisse una diretta sfida contro il clementino interdetto dell’ In eminenti specula Apostolatus, una sfida ed una polemica che solo chi fosse stato iniziato e fosse profondamente impregnato di cultura esoterica poteva decidere di portare avanti anche al di là della vita terrena. E si deve anche convenire che a distanza di pochi decenni dalla scomunica e dalle conseguenti persecuzioni alla comunità liberomuratoria italiana, non solo In eminenti avesse perso ogni efficacia come deterrente secolare ma fosse pure caduta in profondo discredito presso gran parte di quel clero che avrebbe dovuto proteggere il suo gregge dal diabolico influsso degli

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scomunicati massoni ma che in pratica ,come accadde a Santa Maria Maggiore in Ravenna, aveva preferito chiudere gli occhi davanti a tanta ostentata impudenza liberomuratoria, esibita ,addirittura, dentro una chiesa di una città sotto il dominio temporale del Papa. Che lo scontro fra l’ortodossia religiosa e la cultura esoterica che aveva preso la forma della moderna massoneria speculativa fosse una vicenda che accanto a momenti di alta tensione contemplasse pure fasi di appeasement ,era del resto un portato quasi inevitabile dei cambiamenti generali (anche nel clero, specialmente in quello basso, come ci insegna l’imminente rivoluzione francese),nelle prospettive e nei gusti introdotti dalla nuova cultura settecentesca, di cui l’illuminismo costituiva ,se vogliamo, il versante maggiormente esposto sul versante politico, mentre la massoneria speculativa, ultima gemmazione dell’ermetismo rinascimentale dava spazio e possibilità di espressione a tutte quelle istanze di autorappresentazione individuale e di riconoscimento identitario di gruppo messe in crisi dalla secolarizzazione della società e alle quali il discorso troppo pubblico e razionalista dell’illuminismo non riusciva a concedere un soddisfacente ascolto. L’arte del giardino costituisce un esempio estremamente significativo della recherche di questa nuova spiritualità massonica a cavallo fra discorso pubblico prudentemente accennato, istanze private pubblicamente esposte(sempre prudentemente e con circospezione) e autorappresentazione e riconoscimento identitario di gruppo protetto dal velo del segreto(e cioè ,per rifarci ai casi menzionati: uroboros nella tomba di Dante, monumento funebre di Morigia in Santa Maria Maggiore, le riunioni massoniche che avvennero per la prima volta nel suggestivo convento di S.Vitale).Un esempio estremamente significativo che non mancò di manifestarsi anche a Ravenna. Ci stiamo riferendo al giardino del Palazzo della Provincia di Ravenna. Nonostante le varie trasformazioni e demolizioni subite ad iniziare dall’ultimo scorcio dell’Ottocento dal palazzo del conte Ferdinando Rasponi (nel 1866 il palazzo venne venduto dal suo propietario caduto in rovina, il conte Ferdinando Rasponi, ad un certo Geremia Zoli “un cameriere del circolo dei signori [che] trasformò l’intero edificio in un albergo sontuoso: l ’hotel Byron”6 . Nel 1918 ,in seguito all’incapacità dei nuovi gestori subentrati dopo la morte di Zoli ,l’edificio venne acquistato dalla federazione delle Cooperative di Ravenna ,sede che nel 1922 venne incendiata e distrutta dalle squadre fasciste e sulle sue ceneri, nella seconda metà degli anni Venti, venne edificato ,su disegno dell’Arata ,l’attuale palazzo della Provincia),nonostante queste traversie il giardino racchiuso dall’originario palazzo Rasponi ha conservato – non integralmente che sarebbe troppo pretendere – significativi tratti dell’idea originaria. Un’idea che, dicevamo, fu profondamente influenzata dalla cultura esoterica. Ad iniziare dalle piccole piramidi ornamentali collocate sulle balaustre del terrazzo intermedio(la piramide fu uno dei principali simboli della massoneria settecentesca e rifletteva la vera e propria mania culturale “egiziana” di quel secolo, la quale costituì uno dei trait d’union fra l’esoterismo in senso stretto e una moda culturale molto più affine ad un volgare esotismo, anche se è necessario sottolineare che l’ “egizianesimo” non attese il Settecento per manifestarsi ma ,ad iniziare dal mondo greco-romano, approdò nell’epoca moderna legandosi indissolubilmente all’ermetismo rinascimentale, una delle scaturigini della massoneria simbolica appunto). E cariche di simbolismo neoplatonico sono “le sfere collocate ,la prima sulla colonna del capitello corinzio all’ingresso inferiore del parterre, la seconda all’inizio della scalinata che conduce alla sommità del giardino pensile”7 . Abbiamo poi, appesa alla volta della cripta annessa al giardino, un’ulteriore sfera- vero e proprio occultum lapidem – recante la scritta “Sic Vita Pendet Ab Alto”. Su questo occultum lapidem è necessario soffermarci. Abbiamo appena detto che essa è appesa alla volta della cripta ma tale ancoraggio avviene tramite un’erma posta all’esterno della stanza ,sulla sommità del giardino pensile, così da evidenziare le analogie micromacrocosmiche(microcosmo l’interiorità dell’uomo, sfera all’interno della cripta; macrocosmo l’universo esterno, l’erma sulla sommità del giardino).E non è neppure senza significato che la possibilità della sfera (il microcosmo) di rimanere agganciata alla volta sia affidata ad un’erma, che nell’antichità, e probabilmente anche in questo caso, rappresentava il dio Ermete. Trova così spiegazione il motto “Sic Vita Pendet Ab Alto”. Non tanto una mesta e stereotipata considerazione sulla

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caducità dell’umana condizione stretta fra gli imprescrittibili diktat dell’Ananke o della divina provvidenza (la pesante sfera lapidea minacciosamente appesa alla volta con un legame che non si riesce ad intuire quanto solido e il motto superficialmente inteso trasmettono esattamente questo stato d’animo di precarietà che ha ben poco di esoterico ma è molto più debitore alla rassegnata Weltanschauung di Santa Madre Chiesa) ma l’orgogliosa e gioiosa affermazione della capacità dell’uomo(il microcosmo) di congiungersi al macrocosmo(l’esterno della cripta ,la sommità del giardino pensile) e che questa potenzialità è garantita sì da Dio ma non il dio che impone un cieco atto di fede (il Dio-Cristo paolino per il quale la fede è superiore alla ragione) ma dal Dio che simboleggia la vera conoscenza, Ermete simbolo della profonda conoscenza interiore. Del resto ,la semantica della continuità micro-macrocosmica è comprovata da ulteriori elementi. La pianta della cripta è ottagonale ,come pure “la sfera in pietra ,sospesa all’apice della volta, ha un decoro [una stella a otto punte ]che allude all’ottagono”8 .Sull ‘ottagono simboleggiante l’unione della terra con il cielo abbiamo già detto, solo che nella fattispecie non si tratta dell’unione della creatura (terra) con il cielo (dio creatore) ma dell’unione micro-macrocosmica assicurata dalla gnosi rappresentata da Ermete. Certamente il degrado imposto da Cronos e dalle vicissitudini della storia ,ha inevitabilmente modificato ed obliterato buona parte dei segni originariamente intesi per dare a questo luogo un senso intimo e profondo non solo legato ad una superficiale fruizione e divertissement (che è il destino ancillare di gran parte dei giardini).Ma i ruderi simbolici affioranti e allora voluti per conferire al giardino la funzione di vero e proprio percorso iniziatico non hanno perduto la capacità di ammonirci che la responsabilità di dare senso alla nostra vita è unicamente nostra ,solo se si abbia la sensibilità ed il coraggio di comprendere che non siamo monadi isolate ma parte di un tutto (rapporto micromacrocosmico).E per essere convinti di ciò basta essere uomini liberi e di buoni costumi e non altro. Ma simboli voluti da chi? Di proposito ,non essendo le nostre ricerche riuscite a svelare né il committente, né il disegnatore né il progetto originario del giardino, ci siamo limitati al commento del simbolismo strettamente archittettonico trascurando quello delle essenze del giardino, le più esposte ai rimaneggiamenti e alle cancellazioni dell’intervento umano. Il giardino esoterico, abbiamo visto, riflette un gusto tipicamente settecentesco, come in Europa ed in Italia fra fine del Settecento ed inizio Ottocento testimoniano le numerose realizzazioni di arte topiaria a sfondo simbolico .Siamo propensi a datare il giardino verso la fine del diciottesimo secolo ,quando lo scontro anche nei territori dello Stato della chiesa fra il cattolicesimo e la massoneria subiva strane pause ed obnubilamenti (ouroboros tomba di Dante e monumento funebre del Morigia docent) o tuttalpiù l’inizio Ottocento della Ravenna sotto il dominio francese(Napoleone favoriva il sorgere di logge massoniche, vista dal gran Corso come instrumentum regni e ,quindi ,in quel periodo un giardino esoterico sarebbe stato ben accetto),mentre escludiamo che ripiombata Ravenna sotto il dominio diretto del Papa (del clima dell’epoca fa testo la famigerata sentenza Rivarola ) ci fosse qualcuno che mai si sarebbe azzardato in un’impresa del genere. Ed anche se vogliamo considerare la famigerata sentenza (1825) come il momento più acuto della repressione delle istanze liberali e settarie, di tutto si può dire sul dominio temporale della Chiesa nell’Ottocento tranne che fosse rivolto ad una sorta di appeasament verso tutto ciò che non fosse riconducibile all’alleanza fra trono ed altare. (L’umanamente triste vicenda di Pio IX nel ’48 col suo iniziale apparente volgersi verso disegni più moderati rispetto ai predecessori per poi ritrarsi impaurito – giustamente – dalle conseguenze delle sue aperture, è l’inconfondibile segno del ruolo regressivo ,al di là della volontà dei singoli, svolto dalla Chiesa nell’Ottocento).E visto che non abbiamo alcuna notizia dell’edificazione dell’esoterico giardino ad unità avvenuta ed anzi dalla segnalazione di Primo Uccellini dal suo Dizionario Storico del 1855,peraltro molto scialba ed opaca9 , apprendiamo il giardino essere già esistente, non ci rimane che tornare agli anni in chiusura del Settecento nel momento dell’appeasement della Chiesa con il latomismo o imperante il dominio francese. Conclusione non molto esaltante ma che ci consente di formulare un’ipotesi d’attribuzione, almeno per quanto riguarda il progettista del giardino. Del massonismo del Morigia abbiamo detto .Non abbiamo però ancora detto

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che la nutritissima biblioteca privata di Camillo Morigia ,conservata presso la Biblioteca Classense di Ravenna, contiene oltre una preziosa copia dell’Hypnerotomachia ( ad ulteriore conferma, se ce ne fosse bisogno, delle passioni ermetiche del Conte) ,anche diversi manuali di giardinaggio, alcuni dei quali impregnati di un forte simbolismo massonico, che ben s’inseriscono nell’ipotetico quadro degli interessi simbolico-ermetici del Conte architetto per una progettazione topiaria a sfondo simbolico. Oltre non è possibile andare e riservandoci di approfondire l’argomento in ulteriori studii, molto conviene al momento fare nostra l’ammonizione “Procul O Procul Este Prophani”, su cui dovettero riflettere i primi massoni ravennati e che, oltre ad un evidente risvolto misterico, può anche essere essotericamente intesa come un invito alla prudenza per il ricercatore storico qualora in difetto di documentazione. Documenti di cui si è però in possesso riguardo i primi massoni ravennati, lasciati all’inizio del nostro discorso a confrontarsi con ammonitori ammaestramenti all’entrata del convento dove iniziarono a riunirsi, piante ottagonali di basiliche bizantine(ma evocanti anche ottagoni di chiese templari e moschee) e labirinti pavimentali che suggerivano che l’unione fra il cielo e la terra (l’ottagono) era da conseguire attraverso una morte-rinascita di tipo iniziatico piuttosto che attraverso atteggiamenti fideistici incoraggiati da Santa Madre Chiesa. Ma oltre che cercare di instaurare con questi ardimentosi esploratori di una filosofia e mistica “più efficaci” un legame empatico basato sull’archeologia esoterica della città degli Esarchi e su quanto ci è dato sapere sulla mentalità massonica e cattolica di fine ‘700,possiamo imbatterci, attraverso lo sfoglio degli Annali di Ravenna di Padre Benedetto Fiandrini, nel primo documento ravennate che contiene l’attribuzione ad un nominativo dell’appartenenza massonica. Scrive Padre Benedetto Fiandrini di essere venuto in possesso di una “Sattira in cattivi versi”: Fu ritrovata questa mattina una Sattira in cattivi versi ,quale faceva il ritratto di tutti li Fanatici Giacobini di Ravenna :tal quale fu ritrovata la riporteremmo qui ,con la spiegazione dei diversi nomi.

Vuo’ spiegarvi in pochi versi Li Caratteri diversi De Patriotti nostri Sel permette i miei inchiostri. Costa in primis1 il sapiente. Con stupore della Gente, Da uom rio ,e scelerato, Gesù Cristo ha rinegato, La Madonna ,i Santi suoi. E ancor vive in mezzo a noi? Degno è vivere in Turchia, La tra mezzo a gente ria, E non già frà noi Cristiani Buoni ,e ver Repubblicani. De seguaci poi gran stuolo, A cotesto dietro a volo Se ne vengono portando Ogni vizio esecrando. Se conoscer li volete, Quì descritti li vedrete. Truffatore Lovatelli. 2 Un Ruffiano Maccabelli. 3 Un’Apostata il Severi. 4 Una spia Cervelieri. 5 Ignorante egli è Gambini.6 Altra spia è il Contarini. 7 Il Collina guercio audace

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8 Egli è un ver mostro triface Ignorante ,arciminchione, Che vuol far da Sacentone. Una Scimia, un Papagallo, Ve lo mostro ,ed io non fallo Il Cristino dei Rasponi 9 Vero Rege dei Coglioni. Quello poi ,che non ha pari. E’ l’indegno Montanari.10 Uccellini è un gran birbante,11 Pien di fame e protestante. Spia è Pio e farabutto.12 Un Crocìmaco Cornuto E’ la mummia Garavini , 13 Che il Preposto de Tiatini Ei sembrava. E’ un Scellerato, Un iniquo,un Sciagurato. Piavi14 avaro, ingordo, insano, Vende Cristo di sua mano. Fanticcini,o sia Casoni15 Prima feccia de’Bricconi, Questi alfine ha operato Sempre a norma del Casato, Che il proverbio dice, dà Quella botte il vin, che ha. Lovatelli Castellano16 E’ un rio Ladro, un torcimano. Valentini Prete tristo17 Che segnato è pur da Cristo Da Costui state lontani Quel nemico de’Cristiani. Del Roncuzzi la bottega,18 Io lo dico, e niun lo nega, E’ il ridotto de’ Giudei, La Nazion de Farisei; E a mostrarveli più tristi Son peggior de Calvinisti. Ve ne sono a precipizj Oltre tanti pien di vizj. L’Amador i 19,ed il Toschini20 E l’ippocrita Baldini ; 21 Se del figlio22 poi parliamo, Tutti già il lo conosciamo. Evvi il Serra23, evvi il Baroni o . 24 Evvi il Ladro de Spadoni , 25 E il più saggio ,e il più eccellente , D.Corlari26 uom valente. Certo Pampan i 27 Ex frate Valoroso in briconate. Certo Zucch i 28 Bolognese Truffatore del Paese. E Collina29 del Libraro, Magni30 ,e Fava31 van de paro Rota32 il piccolo ,e Ginanni33 D. Perelli34,e Camerani , 35 Il Fuschini Religioso36 Un Bendandi orgoglioso

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37 Ed il Bezzi Capitano38 Certo Sirmen uomo insano39 Traversari Segretario,40 Pien d’umore molto vario. Un Serena ,qual penello41 Posto al vento, ha il suo cervello, Come appunto la Farfalla La sua testa or vola ,or balla. Il Cachettico Bianchini42 Si distingue fra i più fini Li più empi malandrini Perfettissimi Giacobini. Il Landoni Poetastro,43 Che nel Club è Capo Mastro. V’entra pur fra tanti sciocchi Il notaro Miserocchi44 Sono insomma tutti quanti Una ciurma di birbanti, Finti son repubblicani Son Fanatici Anticristiani. Oh Repubblica beata! Se la turba qui notata, Di color ,che non han legge, Con un’ordin di chi regge, Dal tuo seno t’estirpasser, Tutti al diavol se n’andasser, Sì ,felici allor saremmo, Tutti quanti ci ameremmo, Come cari,e ver fratelli, Senza aver timor di quelli, Che il bel nome democratico, Or confondon col fanatico; Concambiando con dispreggio, D’esser liberi il bel preggio, Con i vizj, e le sozzure, Le lordezze ,e cose impure, Questi stolti sciagurati, Viver degni frà i dannati. Dunque ,o buon repubblicani, Non fanatici ,né insani, Su la voce con me alzate, La Repubblica gridate, Viva sempre e il buon Governo, Viva sempre ,ed in eterno. E sia solo estirpati Tutti i tristi ,e scelerati. Vivan sempre i democratici, Muoian tutti li Fanatici10

Se la “Sattira” era in cattivi versi (ma abbiamo il fondato sospetto che l’autore altri non sia che il Fiandrini stesso ,il quale dà verosimilmente questo giustizio per depistare), le note biografiche che seguono la “Sattira” – che commentano i nominativi da questa citati – sono senza rischio di attribuzione proprio del Fiandrini e ,a parte di non essere in versi, mantengono lo stesso giudizio liquidatorio di questi:

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1) Costa Paolo figlio di Domenico Nob:di Rav:, e nipote di D: Vincenzo Luigi, e di d:Giulio Costa ,il pmo Parroco di San Nicandro, il secondo Rettore del Seminario .Questo giovane non scarso di talenti, ora maritato con…Milzetti di Faenza ,si guastò affatto nell’Università di Padova, e divenne il più empio tra miscredenti Ravennati, e che fù il diabolico maestro di tanta povera Gioventù. 2) Tommaso Conte Lovatelli dall’Aste figlio del qndam Ippolito Lovatelli Dall’Aste, che prese moglie … Correlli di Faenza .Questo Giovane dà saggi continuamente del più empio ,fanatico Atteismo. 3) Vitale Macabelli figlio di Giuseppe Macabelli speziale in Calzoleria, sciocco, ed ignorante fanatico. 4) D: Giuseppe Severi Sacerdote,e già canonico Lateranense ,e Lettore di Filosofia di S:a M: a in Porto ,e Confessore in Chiesa, ora Capitano della Truppa Civica di Galla Placidia, molto attaccato alle correnti massime francesi. 5) Luigi Cervelieri Orologiaro in Calzoleria ,incredulo perfetto. 6) Conte Ruggiero Gamba Ghiselli figlio dell’ottimo Conte Paolo Gamba Ghiselli, e della Religiosissima Marchesa Marianna Cavalli; ora Comandante della truppa Civica, Fanatico terrorista senza Religione. 7) Gregorio Contarini Curiale dimesso figlio del qndam Vittorio Contarini Procuratore, e Nipote del Sr d:.. Contarini Parroco di S:Agata .Ora è capitano della Truppa Civica. Fantico ignorante, ed incredulo. 8) Florio Collina figlio del qndam Marcantonio Collina Droghiere sotto i Volti della Piazza, e fratello di Filippo Centrale del Lamone ignorante irreligionario. 9) Cristino Rasponi figlio del qndam Teseo Rasponi ,e di Lucia Ginanni, che ha in moglie Maria Laderchi di Faenza. Fanatico ignorante e miscredente perfetto. 10) Domenico Montanari di Antonio ,e Rosa Montanari da S:Eufemia ,che sposò Giacinta figlia di Sebastiano Venturi; Ignorantissimo e perfido persecutore dei cattolici . 11) Luigi Uccellini figlio di Giuseppe Uccellini di Cesena Cuoco; al servizio della Stamperia Roveri,e Casali ,perfettamente empio, ed irreligionario. 12) Giambatta Pio figlio del qndam Francesco, e di Rosa Pio, Nipote del celebre d: Domenico Pio Tenore di questa Capella ,e Mansionario; Fratello del valente Antonio Pio ,morto poch’anni sono in età di 43: anni,dopo di essere stato Mro di Capella in Ravenna ,e Mro di Musica a Venezia ,ed alla Corte di Pietroburgo anni 4.Il sudetto sempre eguale a se stesso ,sempre irreligionario, ora stà in ferri a Venezia relegato all’Isola di S: Servolo. 13) Garavini Andrea figlio del valente Fabro Ferrajo Francesco Garavini .Questo Giovane ,che proseguiva la Professione del Padre prese in Moglie Barbara Montanari Sorella del Sudto Dmnco N° 10: entrò nella turba di quelli ,che atterrarono le Croci de’ Capuccini, Capucine &c:, ed era tenuto p. un buon Giovine, in paragone a Giuseppe suo fratello, ma il fatto decise il contrario. 14) Piavi Domenico fabbricatore di Bicchieri ,bocchie , Pistoni ,e Zucche ,che abita vicino al Piazzale di Porto, ora Municipalista. 15) Casoni Oste di Professione da S: Giorgio , uomo empio. 16) Conte Ippolito domnco Castellano Lovatelli ,che fù marito di Maria dal Corno, che abita a Porta Sisi, e che fù Centrale. 17) D:… Valentini Sacerdote, e Mansionario del Duomo, mezzo orbo, che prese in moglie ,op Concubina la Contessa Dejanira Lovatelli Dall’Aste, Sorella di Tommaso Lovatelli. 18) Bottega di Spezieria posta sotto il Palazzo del Sale in faccia al Suffraggio. 19) Amadori dottore… Curiale. 20) Toschini figlio di Mro Gio: Toschini marmorino. 21) dottor Gaspero Baldini Municipale ,che fù nel Cairo d’Egitto p anni 18: uomo doppio ,bacchettone ,ma di niuna Religione. Municipale. 22) Paolo Baldini figlio del sudto nato al Cairo ,che all’Università di Padova perdette il buon costume. 23) Paolo Serra figlio del qndam Antonio Mercante di Pannina sotto i Volti della Piazza. 24) Domenico Baronio figlio di Felice onorato Negoziante,e Banchiere ,che ha p moglie Geltrude Machirelli dama Imolese; quale fece grosse compre di Beni de Regolari, specialmente di Porto,e di S: Vitale. 25) Spadoni… 26) d: Andrea Corlari Sacerdote, e Mro di Rettorica delle Pubbliche Scuole, Poeta ,e factotum di Rav: a ,il primo tra i Preti ,che ponesse indosso l’abito verde Nazionale, e Parucca alla Bruta, e che fù suggeritore, ed inspettore della cassazione di tutte le Inscrizioni di marmo in Rav:a, fù Indi Secretario della Municipalità di Cesenatico ,prese in moglie Marianna Godi, dopo averla tenuta p tant’anni sua Concubina. Dopo finita la democrazia fù tradotto a Venezia in ferri relegato all’Isola di S: Giorgio in Alega. 27) Pampani… di Cervia ex frate Carmelitano ,che fù più volte veduto a far l’esercizio militare mischiato alla Truppa Civica, e specialmente nell’empia Compagnia de Granatieri; morì poscia ammazzato nel Riminese. 28) Zucchi… di Bologna Mercante di Paste di Puglia, e droghe nella Strada di Pal Serrato ;fanatico Giacobino. 29) Gasparo Collina figlio di Franco Collina Librajo nella Strada di Pal Serrato, grand’atteo Giacobino. 30) Clemente Magni ,figlio del così detto Capit: Magni da Porta Adriana perfetto Franc – Mason.

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31) Domenico Fava Nipote di Giuseppe Fava Librajo in faccia al Piazzale di S: Francesco. 32) Bartolomeo Rota figlio del qndam Benedetto, e Benedetta Rota , e fratello di Giovanni Municipale, Giovine di poco sale. 33) Conte Girolamo Ginanni figlio del qndam Con: Bartolomeo, e Vittoria Ginanni, ignorante fanatico. 34) D: Gaspare Perelli Canonico della Marca Sacerdote, detto il Capelano de Giacobini. 35) Camerani Luigi droghiere, e che fù un tempo Municipale,accerrimo contro i Regolari. 36) D… Fuschini ex Canonico Lateranense di Porto. 37) Francesco Bendandi Chirurgo ,che abitava in faccia a S. Apollinare ,e che morì appresso 1799. 38) Francesco Bezzi già Capitano sotto il Papa ,che abita in Corso, in faccia alle Monache di Santa Chiara, che si fe’ ricco coll’usurpazione delle masserizie de Luoghi Regolari, allorché furono soppressi, e de quali n’era stato egli il Sopraintendente. 39) Lodovico Sirmen ,celebre suonatore di Violino insigne fanatico anticattolico, che p sua Confessione , era da 30: anni in poi ,che non erasi accostato ai Sagramenti. 40) Pietro Traversari Segretario della Municipalità p i meriti del Padre che fù celebre Segretario, e benemerito de Magistrati di Ravenna del suo tempo. 41) … Serena Computista della Municipalità. 42) Paolo Bianchini Chirurgo figlio di Gaetano Bianchini celeberrimo Professore di Chirurgia , ora Edile ,e del Comitato di Pulizia fanatico fautore delle correnti massime Francesi, abita in faccia al Monte di Pietà. 43) Jacopo Landoni Poeta Fanatico; che poi anche in tempo di democrazia mutò costume con edificazione dei buoni. Vedi p.371. 44) Francesco Maria Miserocchi Notaro da S: Eufemia figlio di Lorenzo Miserocchi . Fù Inspettore de Beni attinenti alla Pubblica Beneficenza, Gran Fanatico, assieme col Giovin Figlio Lorenzo , e che fù fautore di D: Giuseppe Loreta Parroco di Sta M: a in Coelos eo. Altri molti ne erano in Ravenna di simil razza ,ma troppo sarìa il volerli qui annumerar tutti ad uno p uno; basterà soltanto a tempo , e luogo indicarne i nomi. Si vede peraltro, che la detta Canzone fù fatta da un Democratico Repubblicano, ma non fanatico Giacobino; ma se anche li democratici condannavano l’empietà de Sudti, e simili anonimati, cosa avran dovuto dire i buoni, che in silenzio bevevano a sorsi il Calice amaro della Persecuzione.11 La nota 30 commenta il nome di Clemente Magni che viene ritratto nella satira come “perfetto FrancMason” ,osservazione del Fiandrini che ci permette di qualificarla come la prima fonte in ordine cronologico che ci parli della Massoneria a Ravenna. Ma ancor più importante al fine di inquadrare nella giusta prospettiva il documento è l’affermazione finale di Fiandrini che “Si vede peraltro, che la detta Canzone fù fatta da un Democratico Repubblicano, ma non fanatico Giacobino”, l’estremo tentativo di Fiandrini di depistare sull’attribuzione della satira, proposito tuttaltro che deplorevole viste le convulsioni che scuotevano la Repubblica Cisalpina all’inizio del ‘ 98. “La Cisalpina produceva in quei primi mesi del 1798 il suo massimo sforzo per aggiornare il ritmo e lo stile di vita di un’intera città [Ravenna] ai dettami delle nuove idee rivoluzionarie ,ma cercava di farlo con una pioggia di provvedimenti che rischiavano seriamente di sortire l’effetto opposto.[Si assistette così] a una sorta di violenza sulla società per farle accettare, volente o nolente, la nuova situazione[…].[L’ordine] giunto da Faenza di eliminare dalle strade o coprire le immagini votive della Madonna fu percepito dal popolo come l’inizio di un odio antireligioso[…]. [Ma il] peggio doveva ancora venire: la tensione in città crebbe rapidamente […] in un crescendo di satire politiche anonime e di atti sacrileghi che culminarono nella vicenda della “crocimachia” ”12 .Nella notte tra il 10 e l’11 aprile 1798 quelli che vennero subito definiti crocimachi abbatterono tutte le croci che incontrarono sul loro cammino. Lo sdegno popolare fu immenso e le reazioni agli atti sacrileghi furono tenute a freno solo dalla paura dell’eventuale reazione delle forze francesi, che non avrebbero esitato, se necessario, a compiere una durissima repressione. La “Sattira in cattivi versi” – probabilmente del Fiandrini – e le successive note biografiche – sicuramente del Fiandrini – ,si inseriscono così in un cupo quadro dove al tradizionale antimassonismo cattolico si sovrappone una torbida situazione di tumulti, spiate, delazioni e liste di proscrizione a futura memoria (anche questo sono la “Sattira” e le note biografiche), che rende completamente impossibile distinguere il torto dalla ragione e dove appare del tutto evidente l’impraticabilità di una

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storiografia vista come una sorta di tribunale penale. Essere “uomini liberi e di buoni costumi” significa anche, pensiamo, non lasciarsi abbagliare da nessuna ideologia, in primo luogo la propria, ed impiegare gli strumenti critici che ci sono concessi, e quindi anche la ricerca storica, per esercitare una profonda compassione, nel senso etimologico del termine, verso le vicende di coloro che ci hanno preceduto e, conseguentemente, verso coloro che ci circondano. Il giornale di Ravenna del Conte Pompeo Raisi ,manoscritto conservato anch’esso presso la Biblioteca Classense di Ravenna, rappresenta la seconda fonte in ordine cronologico che si occupi della massoneria a Ravenna. Il 24 agosto 1803 Raisi annota nel suo Giornale di riunioni che avvengono a Ravenna fra i giacobini più esagitati e che i convenuti si distinguono per una particolare foggia del cappello. Più che di fronte ad una riunione massonica, ci troviamo probabilmente al cospetto di assemblee politiche che del cerimoniale massonico hanno mutuato un certo formalismo nel presentarsi alle riunioni e probabilmente dei segni di riconoscimento. Passano tre anni e il 23 maggio 1806 Raisi ci segnala una vera e propria riunione massonica: Non si mette più in dubbio la Loggia dei Liberi Muratori erretta in Forlì nel locale di S. Domenico ,il di cui capo è il Sig. ex canonico Albicini ammogliato e che esigge dai suoi conserti il titolo di Venerabile .Ieri notte in detto luogo dove stettero fino a giorno fecero una ben lauta cena alla quale intervennero 150 persone colà radunate da tutto il Dipartimento , e v’erano purtroppo ancora dei nostri Ravignani.13 La Loggia in questione è la “Reale Augusta”, Loggia tipicamente napoleonica ad iniziare, in primo luogo, dal trarre il nome dalla Viceregina d’Italia, la consorte di Eugenio Beauharnais ,la Principessa Augusta Amelia di Baviera. E siccome alla piaggeria non c’è mai limite, non solo a Forlì si era scelto di dare questo nome alla locale loggia massonica ma anche a Brescia ,Treviso, Ancona ed altrove. Ma quello che interessa più sottolineare del documento è che , per quanto non fosse ancora nata una vera e propria loggia ravennate, erano iniziati dei contatti con la vicina Forlì per giungere a questo risultato. Contatti che si dovevano svolgere a ritmo alquanto serrato se Raisi in data 20 giugno 1806 annota: Il Sig. ex canonico Albicini Capo della Loggia dei Liberi Muratori che si è eretta in Forlì è venuto a Ravenna e non si è fatto vedere che dai suoi seguaci, che ha radunati di notte in San Vitale, e tosto è ripartito per la sua patria. Questi sono i preliminari, ma la loggia qui non è ancora formata, o almeno scopertamente da poterlo asserire con verità.14 E finalmente in data 3 agosto 1806 possiamo considerare fondata la prima loggia massonica ravennate: In questa notte nel locale di S. Vitale vi è stata adunanza dei Muratori in numero di 18. Si chiusero alle ore 5 pom., cenarono in due tavole una di 6 l’altra di 12 dopo la mezzanotte nella cucina grande di detto luogo senza serventi e i piatti furono consegnati al principio del primo chiostro da un incognito ,e rimandati addietro quelli che li avevano portati. Li sei principali che mangiarono nella tavola separata furono il Sig.ri Casoni, Gaspare della Scala, Santini ,uno di Bertinoro, uno di Cesena e un altro di Faenza ,ch’erano venuti per comuni affari ,dopo avere tenuto una lunga seduta fuori di Faenza nel Palazzo Conti verso Bologna. Alla sud.a ora si fecero chiudere da un servente, che portò via la chiave, e in appresso presentatosi il Sig. Uccellini non fu ricevuto ,dicendo che non era compreso fra gli invitati. Vi erano tra i principali ancora il militare Tordo , Pietro Runcaldier, etc. etc. e la cena costò sc. 10,20. Sul far del giorno soltanto ritornarono alle loro case. Il pagamento si fa per via di mandati dal Sig. Gaspare Scala, e quando sono in radunanza si danno il titolo di cavagliere (!) 15 Una curiosa notazione. Il “Sig. Uccellini” – Luigi Uccellini, padre di Primo Uccellini – non fu ammesso alla riunione perché “non era compreso fra gli invitati”. Forse una giusta misura prudenziale e di buon senso verso un individuo che piuttosto che nell’ “edificare templi alla virtù” si era distinto in qualità di crocimaco nell’abbattimento per le pubbliche vie del principale simbolo della cristianità e nel prendere a sciabolate immagini sacre ? Ma nonostante l’accuratezza delle informazioni del manoscritto di Raisi che ci dà conto del numero e dei nomi dei protagonisti

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della nascita della loggia massonica di Ravenna ed anche del suo accrescersi (2 giugno 1807 : “E’ cresciuta di molto la Loggia dei Liberi Muratori in S. Vitale ,contandosi in oggi composta di 70 individui e più”16), fino ad arrivare a segnalare la costituzione di una sorta di loggia giovanile (30 gennaio 1808: “Si parla di una Unione che si va preparando con qualche effetto detta degl’Incipienti [per selezionare nuovi giovani elementi per] i Liberi Muratori”17), il Conte non ci informa sul nome della loggia Ravennate. Nome che apprendiamo dall’ultimo manoscritto da noi preso in considerazione, conservato sempre presso la Biblioteca Classense di Ravenna il Disegno levato da una originale Medaglia fatta coniare e posta in circolazione dai così detti Liberi Muratori l’anno 1807 di Don Luigi Badessi. Il manoscritto, datato 17 marzo 1808, non contiene informazioni rilevanti sulla loggia ravennate e sarebbe più significativo come indice di una cieca mentalità antimassonica ( “In Ravenna fuvi pure questa funesta semenza, ed in alcune stanze del soppresso Convento di S.Vitale fù piantata la presidenza de’ Miscredenti aleati. Da medesimi si fece cuniare la dicontro delineata Medaglia coi Moti, e cogli Emblemma , che si vedono descritti”18). Ma la descrizione della medaglia consiste nel disegno originale ,allegato al manoscritto, della Medaglia della Loggia “La Pigneta” di Ravenna, rappresentando un lato della medaglia una fenice che risorge dalle ceneri ancora ardenti19 spiccando il volo verso il sole e recante inciso il motto “Sic virtus resurgit”; l’altro lato con incisa la scritta “La Pigneta Or.:di Ravenna” – il nome appunto della Loggia – con la riproduzione di tre pini intrecciati e con alla base la cifra 5806, che indica il 1806, l’anno profano di fondazione della Loggia. Ovviamente la sorte di questa loggia ravennate sarà strettamente legata alle vicende del Regno d’Italia e riuscirà a sopravvivere solo pochi mesi alla sua dissoluzione e al ritorno dello Stato pontificio. L’ultima segnalazione del manoscritto Raisi sulla massoneria ravennate è in data 17 marzo 1815: Per ordine del comandante Carlos Ardos e del Maggior Brener furono fatte alcune perquisizioni in parecchie case .Furono arrestati il Sig. Verlicchi di Lugo qui dimorante, Marcello Nardi aiutante maggiore della guardia urbana assoldata ,Agostino Triossi ,Tomaso Lovatelli di Meldola Segretario generale di Governo, e il Colonnello Pietro Runcaldier Capitano del Porto nell’ufficio del quale furono trovati 25 fucili scarichi, e 45 nella sua casa nascosti tra due muri ,e fu arrestato Bergossi casermiere di S.Vitale per certo fuoco appiccatosi ad una camera ,dicono a bella posta da lui ,per abbruciare tutto quello che apparteneva setta dei Liberi Muratori ,nella qual camera tenevano le loro conferenze.20 Su Ravenna e sulla Romagna era così scesa la notte della reazione e le attività latomistiche ,ancor più che nel resto del Paese, dovettero praticamente cessare. Non cessò, invece, ed anzi assunse toni più accesi che nel resto d’Italia, l’insofferenza romagnola verso il ritorno dell’ancien régime: in fondo la ventata d’oltralpe ,nonostante tutti i suoi difetti e contraddizioni, aveva soffiato impetuosa e il confronto con la restaurazione – in Romagna nella versione Papa Re, una delle peggiori in assoluto – risultava impietoso e senza appello. La repressione papalina non ebbe troppa difficoltà a demolire la massoneria di tipo napoleonico: troppo conosciuti ,molto dei quali con ruoli pubblici, i suoi componenti, e sovente compromessi col passato regime. Non poteva però cancellare – compito veramente sovraumano che non poteva riuscire nemmeno da chi pensava di trarre forza e legittimità da Dio stesso – il ricordo delle passate libertà, di cui le logge massoniche con le loro riunioni dove sedevano gomito a gomito i più diversi ceti furono una delle più riuscite traduzioni pratiche, una nuova ed inedita forma di socialità che rivoluzionava la caratteristica principale e più odiosa dell’ancien régime ,la rigidissima separatezza fra le classi, un vero e proprio sistema castale che non aveva nulla da invidiare con quello induista. E se la Massoneria fu facilmente demolita ,il costume massonico di riunire uomini di diversa provenienza ed esperienza, non più ora “ per edificare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio” – come recita un odierno cerimoniale massonico ma ben espressivo delle finalità della Massoneria sin dai suoi esordi – e nel contempo fungere da supporto per la politica del gran Corso e dei suoi proconsoli italiani , ma per , mutate le circostanze , cospirare per la libertà , era definitivamente entrato nella mentalità italiana, specialmente in Romagna. Non altra spiegazione trova l’incredibile sentenza Rivarola del 1825 .

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Uso questo termine non in riferimento alla moltitudine di persone che furono colpite dalla sentenza che porta il nome del Cardinal Legato Agostino Rivarola : “La sentenza investì più di 700 persone e fra queste 7 furono condannate a morte (sentenza che però non fu eseguita) , 6 all’ergastolo, innumerevoli altre a pene carcerarie minori ( bisogna comunque tenere nel debito conto la durezza delle carceri del Papa Re) ,fino a giungere a quasi trecento persone le quali pur variamente condannate non dovettero subire il carcere.”21 No ,incredibile non fu tanto la sentenza ma lo spaccato che essa ci presenta della situazione sociale e cospirativa di allora ( in questo senso una delle migliori dimostrazioni della teoria dell’eterogenesi dei fini nella storia: Rivarola non intese certo lavorare per gli adepti di Clio) . “ La sentenza Rivarola, infatti, colpisce indistintamente individui di tutti i ceti e di tutte le condizioni: accanto al nobile viene condannato anche il nullatenente, dediti, tutti appassionatamente, alla cospirazione secondo i loro mezzi e le loro possibilità. Una cospirazione esercitata soprattutto attraverso le sette carbonare , come nel resto d’Italia, le quali però possiamo affermare attraverso la sentenza Rivarola che in Romagna ebbero uno degli sviluppi più rigogliosi di tutto il Paese”22 , segno evidente che il costume massonico di riunire uomini diversi per condizione e per censo ma legati dalla volontà di combattere per la libertà e contro il Papa Re ( in un certo senso la versione dell’ epoca dell’ essere “uomini liberi e di buoni costumi” ) era ormai una delle caratteristiche più peculiari – e a nostro giudizio migliori – della mentalità romagnola. Una mentalità romagnola che già di per sé portata all’iperbole e innestandosi nell’indubbia propensione massonica per una certa teatralità , non paga di rappresentare una sfida terribile per la reazione ( e di pagarne quindi, come si è visto, le durissime conseguenze) , arriverà anche ad informare ad una notevole melodrammaticità ( ma mai come in questo caso absit iniuria verbo ) i nomi di questi numerosi gruppi cospirativi : Figli di Marte, Figli della Speranza, Fratelli Artisti, Maestri Perfetti, Fratelli del Dovere, Ermolaiti, Illuminati, Latinisti, Adelfia, Siberia, Turba , Federati, Americani23. La sentenza Rivarola del ’25 costituisce quindi la terribile istantanea “di un popolo che, primo in Italia, in tutte le sue articolazioni, scinde decisamente le sue sorti da quelle della restaurazione”24, come era già stato anticipato dai moti del ’21 e come sarà dimostrato dal succedersi degli eventi dopo la sentenza. Nel ’31 la Romagna verrà scossa da moti cui seguirà una dura repressione ( il più tragico epilogo di quella vicenda sarà lo scontro presso Rimini fra i patrioti del generale Zucchi e le truppe austriache, un episodio di tale drammaticità ed esemplarità che spinse Mazzini a scrivere la sua prima opera politica, la commovente La notte di Rimini, maledizione alla Francia di Luigi Filippo). Nel ‘43 e nel ’45 la Romagna sarà lo scenario di ulteriori moti . Per la Repubblica Romana cadranno 96 romagnoli e 76 saranno i feriti. Forlì, con un abitato cittadino , alla vigilia della seconda guerra d’Indipendenza, di 15000 unità ,fornì a questa guerra 800 volontari, un contingente altissimo in rapporto alla popolazione urbana (in pratica, quasi tutti gli uomini idonei alle armi ). A Monterotondo ,glorioso episodio militare dell’altrimenti infausta spedizione di Garibaldi del ’67 nell’agro romano, dei 150 caduti complessivi, 32 sono i romagnoli di Caldesi e Valzania. Ma questo suo costante essere all’avanguardia nelle lotte risorgimentali, questa partecipazione incessante e generosa contro ogni forma di oppressione ( in primis quella pontificia ma, concluso il Risorgimento, contro la soluzione moderata che era stata data della questione nazionale) trovano il suo incunabolo nella radiografia della società romagnola che emerge dalla sentenza Rivarola. Una regione povera (i condannati dalla sentenza sono rappresentativi di tutti i ceti e professioni e numerosi sono anche gli indigenti) ma che nonostante tutto e a dispetto di tutto non ha mai smesso di sognare un avvenire migliore. E gli strumenti più adeguati per iniziare concretamente a lottare per questo sogno sono quelli lasciati in eredità dalla liberomuratoria, praticamente dissolta dall’alleanza del Trono con l’Altare ma trasmutatasi, come in una sorta di processo alchemico, nella Carboneria ed in tutte quelle sette e conventicole paracarboniche di cui la lettura della sentenza Rivarola ci restituisce uno degli spaccati più impressionanti ( ma anche più rasserenanti, ché la storia degli “uomini liberi e di buoni costumi” che si associano per scaraventare in “oscure e profonde prigioni” le tirannie è sempre edificante ).

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Sotto questo punto di vista, va giudicata e condannata con tutta la severità possibile la tesi del Luzio25 tesa a ridicolizzare l’apporto della Massoneria nel Risorgimento italiano, imperniata sulla fallace inferenza che siccome nel Risorgimento non si ebbe, in pratica, alcuna attività latomistica, l’influsso della Massoneria nel processo unitario debba considerarsi inesistente. Che è un po’ come dire che il Cristianesimo perché perseguitato e ridotto per lunghi periodi in clandestinità sotto l’Impero, poté acquisire un fondamentale ruolo storico e politico per la civiltà occidentale solo dopo l’Editto di Milano del 313, col quale Costantino il Grande rese per la prima volta esplicitamente tollerato il culto soterico cristiano – paolino. In realtà la tesi del Luzio più che un errore – orrore storiografico fu un vero e proprio calcio del somaro inflitto mentre la Massoneria stava spirando sotto le amorevoli cure del Cav. Benito Mussolini, il quale con il pronto intuito che caratterizzò sempre la sua attività politica, ben aveva compreso che la trasformazione dell’Italia postrisorgimentale liberale in stato totalitario passava attraverso la demolizione della Massoneria. E per dare più peso alla sua pseudotesi storiografica, non si peritò Luzio di brandire “contro la Libera Muratoria nientemeno che la relazione con la quale Mussolini intimò alle Camere di regolamentare l’iscrizione dei pubblici dipendenti alle associazioni (cioè vietò di iscriversi alla Massoneria). Proprio allora era in pieno svolgimento il dibattito che si concluse con il forzato autoscioglimento delle Logge, preludio a quello dei partiti politici e sindacati di opposizione”26. Se la tesi di Luzio non ne guadagnò in autorevolezza, quello che era andato così perduto in credibilità fu a tutto vantaggio della deterrenza rivolta contro la Massoneria e ,in generale, contro chiunque si fosse azzardato ad ergersi contro il novello dittatore, non importa se ricorrendo ai riservati strumenti muratorii e a quelli più essoterici dei partiti politici e dei sindacati. Anche se non certo annoverabile fra gli amici della Massoneria (anzi), fu in quelle circostanze più equanime Antonio Gramsci che bollò la Massoneria come il “partito della borghesia” e come tale il nemico di sempre delle forze progressiste. Ma in questa stereotipata fraseologia, è ben possibile cogliere un grano di verità insieme ad una profondissima inquietudine che tormentava il fondatore del partito comunista d’Italia. Il grano di verità. La Massoneria non era mai stato il partito della borghesia ma certamente con la borghesia (anche se non solo con questa : Andrea Costa e tutti i socialisti che transitarono fra le Colonne molto difficilmente potrebbero essere definiti borghesi per censo e mentalità) essa fu uno dei momenti privilegiati per il formarsi dell’identità italiana. L’inquietudine. Al di là delle parole d’ordine sul socialismo prossimo venturo che avrebbe fatto dell’Italia la copia latina della Repubblica dei Soviet, Gramsci aveva capito benissimo che per molti anni i giochi erano fatti e che sarebbe scesa sull’Italia per molto tempo la cappa della dittatura mussoliniana. Definire la Massoneria il partito della borghesia, corrispose da parte di Gramsci, in quelle circostanze storiche, nient’altro che ad un esercizio consolatorio e di rimozione che consisteva nella creazione di un nemico di cartapesta ( la massoneria – borghesia ) per non vedere il nemico in carne ed ossa, il fascismo, che si stava facendo un solo boccone di Massoneria (messa fuori legge) , borghesia ( nel senso dell’Italia liberale che dopo la prima guerra mondiale ed il fascismo non riuscirà più a ritrovare sé stessa) e di socialisti riformisti o rivoluzionari che dir si voglia che, come Gramsci, dovettero scontare anni di carcere e di confino (assieme a chi socialista o comunista non lo era affatto come il Gran Maestro Domizio Torrigiani, Carlo Rosselli, Emilio Lussu e tanti altri il cui unico difetto era di amare la libertà) se non addirittura l’eliminazione fisica (come don Minzoni, Matteotti, Gobetti e Amendola, uccisi dal fascismo proprio perché nel ventaglio delle loro rispettive posizioni costituivano ,comunque, l’alternativa possibile alla rivoluzione dei soviet e alla controrivoluzione totalitaria che aveva travolto il paese). Una sorta quindi, quello di Gramsci, di omaggio postumo alla liberomuratoria, da parte di un avversario che ha intuito – ma che non ha il coraggio di esplicitare fino in fondo – che la fine di questo suo nemico, sostituito da un ben più terribile leviatano ,che non sarà mai partito di nessuno ma solo di sé stesso, significa anche la sua fine. D’ora in avanti la parola sarebbe passata ai Luzio e, ancor più, ai suoi mandanti morali. Per molti anni non l’avrebbero ceduta a nessuno.

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1 F. Beltrami, Il Forestiere instruito delle cose notabili della città di Ravenna, Ravenna, 1783, p.167. 2 E. Bonvicini, Esoterismo nella massoneria antica, vol. 1, La simbologia celata nelle regole costruttive, Roma, Atanor, 1993, p.225. 3 F. Beltrami, Il Forestiere instruito… cit., pp.193-194. 4 N. Pirazzoli, P. Fabbri, Camillo Morigia (1743-1795). Architettura e riformismo nelle Legazioni, Imola, Santerno Edizioni, 1976, p.75. 5 Un altro uroboros con evidenti richiami simbolici è quello posto al vertice dell’ iscrizione sulla facciata del Capanno Garibaldi di Ravenna. L’iscrizione di datazione incerta – ma probabilmente risalente al periodo immediatamente successivo all’ entrata di Ravenna nel Regno d’Italia – celebra con ampollosi riferimenti al tema della natività – ma bisogna tenere conto della mentalità del tempo e degli entusiasmi per la fine del potere temporale del Papa – l’impresa dei salvatori ravennati di Garibaldi dopo la caduta della Repubblica Romana del 1849: “Questa sacra capanna/ che nel 1849 tolse alla strage/degli erodiani austriaci e di Roma/Garibaldi liberatore/i battezzati italiani/onoreranno/come quella/di Betlemme di Nazaret” 6 U. Foschi, Case e famiglie della vecchia Ravenna, Ravenna, Longo, p.55. 7 E. M. Ferrucci, Il Palazzo della Provincia di Ravenna. Suggestioni di un percorso d’architettura, Ravenna, Longo, 1997, p. 62. 8 Ibidem, p.48. 9 P. Uccellini, Dizionario storico di Ravenna e di altri luoghi di Romagna, Ravenna, 1855, p.343. 10 B. Fiandrini, Annali ravennati dalla fondazione della città fino alla fine del secolo XVIII, vol.III, ms. ,presso Biblioteca Classense di Ravenna , alla data 28 luglio 1798. 11 Ibidem. 12 A. Varni, L’età giacobina e napoleonica a Ravenna, in A. Varni (a cura di ) “I giacobini” nelle Legazioni. Gli anni napoleonici a Bologna e Ravenna, ( Atti dei convegni di studi svoltisi a Bologna il 13-14-15 novembre 1996, a Ravenna il 21-22 novembre 1996), Costa Editore, vol. III, p. 16. 13 P. Raisi, Giornale di quanto è avvenuto di più rimarcabile dopo l’arrivo dei francesi in Ravenna proseguito dal cittadino Pompeo Raisi dal 1798, vol. VI, ms., presso Biblioteca Classense, alla data 23 maggio 1806. 14 Ibidem, vol. VI, alla data 20 giugno 1806. 15 Ibidem, vol.VII, alla data 4 agosto 1806. 16 Ibidem, vol. VII, alla data 2 giugno 1807. 17 Ibidem, vol.VII, alla data 30 gennaio 1808. 18 L. Badessi, Disegno levato da una originale Medaglia fatta coniare , e posta in circolazione dai così detti Liberi Muratori l’anno 1807,ms., datato 17 marzo 1808, presso Biblioteca Classense di Ravenna. 19 Molto curiosamente ,alla base della colonna sud di Piazza del Popolo di Ravenna, quella che sorregge la statua di S. Apollinare, è scolpita una fenice. Sia il basamento della colonna sud che quello della colonna nord furono scolpiti nel 1483 da Pietro Lombardo, lo stesso scultore che scolpì il bassorilievo di Dante Alighieri posto sopra l’arca che custodisce le ossa del Poeta, che fu “fedele d’amore” e quindi non ignaro di esoterismo. Forse i fondatori della Loggia “La Pigneta” si ispirarono direttamene a questo motivo per la loro medaglia, forse è un’ipotesi azzardata come molte altre che potrebbero essere formulate su questa singolare coincidenza. Certamente , tutte s’inscrivono nell’ orizzonte di quei numerosi affioramenti misterico-simbolici che- come si è visto – contraddistinguono la nostra città. 20 P. Raisi, cit.,vol. VIII, alla data 17 marzo 1815. 21 M. Morigi, Perché dalla Romagna la continuità democratica, in “Nuova Repubblica “, 11 aprile 1996, n.5. 22 Ibidem. 23 Singolare, al limite del folcloristico ma ben espressivo di una mentalità romagnola totalmente “ all’opposizione”, rispetto al nuovo ordine reazionario, è l’incontro di Byron con gli “Americani”, riportato in L. Miserocchi, Ravenna e ravennati nel secolo XIX .Memorie e notizie, Ravenna, Società Tipo-editrice Ravennate e mutilati, 1927,pp.252-253:”Nello stesso anno sorse pure in Ravenna una compagnia di cacciatori denominata “Gli Americani” (in ricordo ,sembra ,della rivoluzione d’America). Essa è così rievocata da Byron nel Diario del suo soggiorno in Romagna sotto la data del 29 gennaio 1821. ‘Cavalcando nella foresta (intendi pineta) m’inbattei in una compagnia di uomini tutti armati, i quali erano denominati “Gli Americani”; essi cantavano a tutta possa in romagnolo: Siam tutti soldati per la libertà! Sem du ,sem tri-sem tot d’un partì/semsi,sem ott – sem tot patriot! Passando ,mi salutarono. Io restituii loro il saluto e proseguii nel mio cammino’. Per questo spirito patriottico e per una cavalcata in maschera ,con gilè rosso, cappello rosso e pantaloni bianchi, organizzata dalla compagnia nel febbraio 1821, e che riuscì una clamorosa manifestazione di sentimenti liberali, il Legato Cardinale Rusconi comprese che non si trattava di una semplice società di cacciatori , ma di una nuova e pericolosa setta politica. Cominciarono quindi le persecuzioni contro coloro che fossero gravemente indiziati di appartenere alla setta degli Americani.” 24 M. Morigi, Perché dalla Romagna…,cit. Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 1 Pag. 22 25 A. Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, Bologna, Zanichelli, 1925, 2 voll. 26 A. A. Mola ,Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1993,

p.22. Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – 

logica capitalistica e logica geopolitica, di Roberto Buffagni

Spunto di riflessione: logica capitalistica e logica geopolitica, loro compatibilità e incompatibilità.
Secondo me: a) dopo la sconfitta del socialismo realmente esistente, oggi nessuno, ripeto nessuno ha un’idea complessiva, coerente e praticabile di come uscire, con un salto di paradigma, dalla logica sistemica capitalista. b) dunque, oggi la logica sistemica capitalista si identifica con la società industriale avanzata (se vuoi “la gabbia d’acciaio” weberiana, o la Tecnica heideggeriana). Da questa logica nessuna potenza statuale può prescindere, per il semplice motivo che essa sviluppa una potenza tecnologico-scientifica incomparabile, senza la quale tu vieni spazzato via da chi invece ne dispone c) la logica sistemica capitalista, però, è sotto alcuni aspetti confliggente e incompatibile con altre logiche, non meno cogenti, quali anzitutto la logica geopolitica, che guida il conflitto tra le potenze. d) la logica geopolitica, infatti, ha come suoi principali criteri elementi, quali la posizione geografica, la demografia, la cultura, la coesione sociale, etc., che esistevano prima della logica sistemica capitalista ed esisteranno anche dopo la sua fine (niente è eterno). La logica sistemica capitalista, invece, dopo l’implosione dell’URSS e la conseguente globalizzazione economica, che è solo un aspetto dell’egemonia mondiale USA, si globalizza anch’essa, tende ad esplicarsi globalmente, e a non tener conto delle differenze tra Stati, culture, popoli, etc.: la sua conclusione logica sarebbe il governo mondiale, che però non si verifica mai perché le differenze continuano ad esistere, e il conflitto è la caratteristica permanente della dimensione politica, la quale a sua volta è insita nella costituzione antropologica dell’uomo (la concordia universale non si darà mai, è un obiettivo escatologico, non storico) e) il conflitto tra logica sistemica capitalista e logica geopolitica, e la loro reciproca parziale incompatibilità, si vede chiarissimo nel fatto storico macroscopico della massiccia delocalizzazione delle manifatture USA in Cina seguito all’implosione dell’URSS. Dal pdv della logica capitalista è una mossa razionale (teoria dei costi comparati di Ricardo), dal pdv della logica geopolitica è una follia, perché così gli USA hanno fornito alla Cina, una potenza del loro stesso ordine di grandezza, i fattori di potenza economici, scientifici, tecnologici di cui mancava: fattori necessari perché essa potesse divenire il loro nemico principale, e minacciare la loro egemonia mondiale f) quindi le potenze anti-egemoniche, Cina e Russia, per resistere all’egemonia USA e contrastarla, che cosa devono fare? Devono da un canto obbedire alla logica sistemica capitalistica, ossia sviluppare la potenza economica, accettare il mercato, etc.; dall’altro devono obbedire alla logica geopolitica, ossia dare al Politico la supremazia sull’Economico. Ecco perché sono entrambi, in forme diverse, Stati autoritari (nel senso di non liberali) ed ecco perché e come limitano la logica sistemica capitalistica. Per concludere: né Cina né Russia superano il capitalismo, impiantando un sistema sociale qualitativamente diverso; ma entrambe vi pongono limiti politici e culturali, perché vogliono e devono seguire la logica geopolitica per difendersi dagli USA e, in prospettiva, soppiantarli.
Emiliano Laurenzi

Roberto Buffagni grazie a te. Diventa sempre più difficile individuare uno spazio di riflessione e critica: la bolla mediale all’interno della quale esistiamo pare voler “tatuare sugli occhi e sulla coscienza” delle persone un’unica visione, un’unica verità. Ed a questa pretesa dal chiaro sentore religioso – che però della religione non ha né teologia, né escatologia, ma solo la dimensione culturale del consumo, un dimensione, per altro, radicalmente nichilista – è difficile rispondere con le armi del pensiero perché ci si ritrova davanti a persone indottrinate, sia per essersi nutrite ed imbevute di certe credenze tanto da scambiarle per “la” realtà, sia per il continuo e radicato formarsi di lobbies e di interessi professionali ed economici mirato ad escludere chiunque la pensi diversamente.
Giampaolo Zanaboni

Il presupposto a) andrebbe rivisto: da «nessuno» a “quasi nessuno”. Infatti esiste una proposta del sottoscritto, che si declina nel documento “Cenni di un Nuovo Sistema Economico, Monetario, Fiscale e di Giustizia”, a disposizione sul mio profilo FB. Tale documento costituisce un passo avanti, che si pone trasversalmente rispetto al capitalismo, al socialismo e al comunismo, e in generale a ogni “ismo” apparso finora sul pianeta.
Massimo Manassero

Bravissimo Roberto Buffagni… inizi l’anno con un post egregio, da quale si potrebbero trarre spunti, più che per un saggio, per una intera biblioteca. Il punto e) è quello che mi affascina da una 10na di anni, ossia l’apparente autolesionismo della scelta Usa di delocalizzare ecc. ecc., con successive ridicole lacrime -di coccodrillo- sulla Cina cattiva che si impadronisce dei brevetti – servitile su un piatto di platino, manco argento! Se la Cina fosse comunista (non solo nominalmente) verrebbe da citare Lenin ‘i capitalisti ci venderanno anche la corda con cui li impiccheremo’, ma sappiamo che non è così che funziona. In realtà la scelta Usa fu una scelta del capitalismo Usa, o della nazione Usa? Entrambe, perchè la nazione Usa è occupata dai capitalisti Usa; e il capitalismo sostanzialmente se ne frega delle nazionalità, perchè è una (pessima ed economicistica) forma di universalismo, e nei suoi esponenti più sinceri lo dice chiaramente – il famoso ‘flat world’ di Thomas Friedman. Inutile aggiungere che discorsi simili in un Paese come il nostro, accucciato su un atlantismo servile, con piccole eccezioni di antiamericanismo ridicolo alla 68, risultano comprensibili come l’etrusco arcaico.
Roberto Buffagni

Massimo Manassero Grazie. Sì, l’idea di traslocare in Cina una quantità enorme di manifatture, comprese industrie indispensabili per la sicurezza militare, lascia a bocca aperta. Non mi è noto un episodio autolesionista di queste proporzioni, nella storia umana. Si può spiegare con la marea di hybris che ha ubriacato la classe dirigente USA dopo l’implosione dell’URSS, con tanto di proclami accademici sulla fine della storia e altre amenità. Certo che l’hanno fatta grossa.
Massimo Manassero

Roberto Buffagni non grossa, enorme. Alla base ci fu, secondo me, la presunzione sborona texana unita al disprezzo verso tutto ciò che è ‘non americano’ : ‘Ma sì, dai, diamo pure un po’ di tecnologia ai musi gialli, tanto, prima che arrivino al nostro livello, hai voglia! 😊 ‘ Pensavano di poterli sfruttare come confezionatori di smartphone per chissà quanti anni ancora. Imbecilli. Hanno creato un mostro che creerà guai grossi a loro ma ancor più a noi, eterno vaso d’argilla.
Persio Flacco

L’intervento merita una lettura approfondita, però in prima battuta mi permetto di contestare questa tua affermazione:
“nessuno ha un’idea complessiva, coerente e praticabile di come uscire, con un salto di paradigma, dalla logica sistemica capitalista. “
Penso invece se ne possa uscire in diversi modi, dei quali tutti in primo luogo richiedono il forte impegno nella (ri)affermazione del metodo democratico. Ci siamo adagiati troppo a lungo nella comoda tolleranza della delega.
Nicolò Bragazza

Roberto Buffagni Severino articola il suo ragionamento per arrivare a concludere che la potenza tecnica soppianterà tutte le altre. Nel farlo mette a confronto le grandi forze della storia occidentale (Cristianesimo, Comunismo, Capitalismo e Democrazia) e ne evidenzia gli obiettivi costitutivi. Per esempio, se il capitaliamo ha come obiettivo la crescita indefinita del profitto, il comunismo ha invece quella dell’uguaglianza degli uomini (indifferente se ciò si sia realizzato o meno). Queste forze competono per la supremazia e per affermarsi dato che i loro obiettivi sono confliggenti. Tutte queste forze tuttavia si servono della tecnica per affermarsi (vedere guerra fredda, che e stata sostanzialmente una corsa decennale alla tecnologia che conferisse la supremazia definitiva). Severino dice che queste forze credono di servirsi della tecnica perchè considerano la tecnica un semplice mezzo (da notare secondo me come questa idea di tecnica come mezzo sia il luogo comune di molti intellettuali oggigiorno) senza rendersi conto che è anche la tecnica una delle potenze di cui sopra. La tecnica persegue l’espansione indefinita della nostra capacità di generare scopi. Dovendo ricorrere alla tecnica per affermarsi, le altre potenze ricorrono alla tecnica rendendosi dipendenti da essa. L’unico argine all’espansione della tecnica sono quei limiti assoluti che da secoli vengono rimossi (qui Severino fa un discorso sull’uomo etico che secondo me è potentissimo e descrive perfettamente l’uomo etico contemporaneo).
Perciò le potenze ricorrono alla tecnica per affermare la loro supremazia e nel farlo non si rendono conto che la tecnica si serve di esse per perseguire i propri scopi. In questo senso tutti i paesi sono tra loro indistinguibili nel lungo periodo: essi diventeranno meri gestori della potenza tecnica e la loro esistenza si giustificherà in base a quanto saranno efficaci nel promuoverne lo scopo. Se l’obiettivo della geopolitica è la supremazia delle nazioni, esse si servono della tecnica per perseguirla.
Nicolò Bragazza

Nello specifico perchè capitalismo e tecnica sono in contrasto? Perchè capitalismo ha come obiettivo crescira indefinita del profitto. E questo dipende in ultima analisi dal mantenimento di una certa scarsità. La tecnica mantiene la scarsità solo fintantochè essa è funzionale al perseguimento del suo scopo (che ha come corollario l’eliminazione della scarsità).
Nicolò Bragazza

Sulle radici antropologiche della questione tecnica, credo che sia Heidegger che Anders abbiano scritto della natura intrinsecamente tecnica dell’uomo.
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Grazie della sintesi. Nei limiti della mia ignoranza (totale) degli scritti di Severino, un piccolo commento. In questa visione, l’eventuale punto di arresto o di contraddizione non superabile è la natura umana. Se non esiste, la dinamica da lei sintetizzata non ha punto d’arresto. Se esiste, come è costituita? In particolare, è costituita anche in rapporto alla trascendenza, o no?
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Allora articolo meglio la domanda, così lei può rispondere più precisamente. Se la natura umana non esiste, e l’uomo è indefinitamente trasformabile (dalla storia, dalla tecnica, dall’ingegneria sociale, dai marziani, etc.) salvo i limiti (ignoti) che gli impone la biologia, allora l’estensione totale della Tecnica e della logica che la informa non incontra limiti. Se la natura umana esiste, e non esiste in forma di dato ad esempio biologico, ma in forma di rapporto – per esempio, di rapporto con il trascendente comunque inteso, o di rapporto con il mistero, inteso come quanto non è conosciuto e non è conoscibile mai – allora la Tecnica intesa come la intende Severino incontra un limite assoluto. Il limite assoluto è il conflitto tra una logica che si pretende totale, e un’altra logica che con essa è incompatibile e che le è, in linea di principio, sovraordinata, perché è la logica dell’uomo. Così che si giunge all’alternativa: o logica dell’uomo, o logica della Tecnica.
Nicolò Bragazza

La questione sul punto d’arrivo ha a che fare con l’ontologia di Severino, cioè sul fatto che tutto è eterno e il divenire non è altro che un illusione. La tecnica ci condurrà a questa “scoperta”, cioè che tutti gli enti sono eterni. In questo scenario la nostra dimensione esistenziale perde di significato perchè se siamo eterni non esiste più la paura della morte ecc ecc. A quel punto immagino si arresterà anche la nostra necessità di generare scopi. Perchè bisogna ricordare che in Severino la tecnica non è altro che la manifestazione più autentica della nostra follia, cioè la pretesa di condurre le cose dall’essere al non essere o viceversa. Se questa è un’illusione allora la tecnica è folle.
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Ah ecco. Mi sembra un po’ tanto ma magari ha ragione lui, chissà. In effetti con questo presupposto tutto fila logicamente, l’apocalissi è il risveglio alla realtà che non ce n’era bisogno, la Gerusalemme celeste era già qui.
Nicolò Bragazza

A livello più “basso”, venendo alla tua ultima domanda, direi che la questione sulla natura umana è la vera questione dei prossimi decenni. E questo perchè le tecnologie oggi (in particolare quelle genetiche) rendono impellente un ragionamento su ciò che ci rende “umani”. La tecnica ci umanizza o ci disumanizza? Questa è la vera questione. Perchè se l’uomo è un essere intrinsecamente tecnico, allora la tecnica è “umanizzante”. Come mai sentiamo che questo stride con la nostra intuizione (cioe che la tecnica disumanizza)? Beh, credo che qui sia il punto di partenza di una riflessione politica nuova, che lasci indietro gli schemi novecenteschi
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Qui concordo al 100%. Ti faccio notare che persino il presidente cinese, nel suo ultimo discorso al Plenum del partitone, ha rilevato un paio di fatterelli importanti, su questo tema: che l’espansione della ricchezza è una buona cosa ma compromette la formazione della personalità, specie nei giovani, e la coesione sociale: e ha predisposto alcuni rimedi (campagna pedagogica di massa alla cinese). Al di là della ricetta del dott. XI, è notevole che abbia diagnosticato il morbo così in fretta.
Nicolò Bragazza

Roberto Buffagni interessante. In ogni caso in questo vedo una preoccupazione mediata dal punto di vista di essere “classe dirigente”. In un certo senso è la stessa delle nostre classi dirigenti occidentali. Il timore non mi sembra essere sulla direzione di marcia, ma sugli ostacoli che si possono trovare nel tragitto. Di qui il fondamento emergenziale della politica neoautoritaria odierna: abbiamo moltissimo da perdere, sia nel presente che nel futuro, e per evitare imprevisti dobbiamo aumentare il controllo. Lo sviluppo tecnico ha dato troppo potere ai singoli: dobbiamo bilanciare con maggiore controllo.
Claudio Valisi

Nicolò Bragazza direi che Tolkien ha intuito artisticamente (anche se non solo, essendo uomo di grande cultura) questo dilemma. Il centro di tutto è il potere indefinito, il cui simbolo (l’anello) va distrutto, perché la potenza, come tale, è nulla e nullifica. A ciò si aggiunga che, in maniera secondo me corretta, Tolkien sa che l’uomo non è eterno, ha il dono della morte e, quindi, del limite: se riesce a porlo anche alla realtà, dando cioè un ordine ad essa, sopravvive, altrimenti viene sopraffatto. La sua eternità deriva da altro da sé, da Qualcuno che lo trascende. Certo in una prospettiva immanentistica quale quella di Severino ciò cade e la stessa potenza coincide con l’atto, nullificandolo. Spero di non aver detto stupidate, ma il tema è centrale e volevo aggiungere qualcosina. Buon anno!
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Sì. E contemporaneamente, più si aumenta il controllo, più aumenta la complessità sistemica, che a sua volta esige maggior controllo, e così via.
Nicolò Bragazza

Roberto Buffagni secondo principio della termodinamica
Stefano Vaj

Per questo io penso che sistema occidentale e “tecnocrazia” siano fondamentalmente tecnofobi ed antitecnologici, perché la tecnica ha intrinsecamente la capacità di destabilizzarne potere e valori, così che l’unico mezzo per esso di autoperpetuarsi è l’utilizzo della tecnologia stessa per impedire e prevenire il cambiamento. Ma Huxley nel Brave New World, libro poco capito, offre già una ricostruzione abbastanza realistica del processo, che richiede un controllo sociale *e* internazionale sempre più assoluto. http://www.biopolitica.it/biop-xiii.html
Stefano Vaj

L’uomo è sì indefinitamente trasformabile, e rappresenta solo un fotogramma arbitrario di un processo, non una “essenza” in qualche modo speciale. Non lo è d’altronde *infinitamente*, nel senso che in ogni fase i tratti costitutivi della sua storia evolutiva, della sua etologia e della sua dotazione organica rappresentano il materiale con cui abbiamo inevitabilmente a che fare, e che tentano automaticamente a frustrare il tentativo di ignorarli da parte di cose come il marxismo o il cristianesimo…
Nicolò Bragazza

Stefano Vaj si, la tecnica è una forza contrapoosta alla democrazia o ai sistemi politici occidentali. Quello che secondo me è il punto di debole di Huxley (non è una critica al libro, fantastico e consigliatissimo) è che sostanzialmente assume che lo sviluppo tecnico sia prevedibile e predicibile e come tale esso possa essere scoraggiato o stoppato quando minaccia la stabilità. Questa mi sembra un’ipotesi abbastanza inverosimile. Gli ultimi decenni dimostrano che il progresso tecnico è sostanzialmente imprevedibile ed impredicibile. L’unico sistema “robusto” rispetto al progresso tecnico è quello che ne abbraccia l’ideologia sottostante. Qualsiasi altro sistema dovrà ricorrere alla tecnica per stoppare la tecnica. È la grande contraddizione del nostro tempo. Le nostre società sono già fondate sulla tecnica e la dimostrazione è che l’uomo tecnico, cioè quello che vuole superare i limiti, è anche uomo etico (ethos, alleanza) perchè si è alleato con la potenza dominante (vedere come gli uomini progressisti vengano rappresentati come persone esemplari, buone…). Semplicemente, al momento, non vi è ancora consapevolezza di questo fatto sia negli intellettuali che nella popolazione.
Roberto Buffagni

Nicolò Bragazza Mi accorgo adesso che quanto dici a proposito dell’alleanza uomo-tecnica, con l’uomo progressista e buono in quanto alleato della Tecnica, è la stessa identica conclusione a cui giunge, sebbene in tono emotivo opposto, Oswald Spengler nel suo celebre “Tramonto dell’Occidente”. Dove, dopo aver lamentato per centinaia di pagine la decadenza dei valori tradizionali e dell’uomo occidentale proprio a cagione della tecnica (più altro) conclude con l’ esortazione ai giovani a dedicarsi interamente alla tecnica, e alla politica come tecnica della potenza. Curioso.
Emiliano Laurenzi

Roberto Buffagni grazie a te. Diventa sempre più difficile individuare uno spazio di riflessione e critica: la bolla mediale all’interno della quale esistiamo pare voler “tatuare sugli occhi e sulla coscienza” delle persone un’unica visione, un’unica verità. Ed a questa pretesa dal chiaro sentore religioso – che però della religione non ha né teologia, né escatologia, ma solo la dimensione culturale del consumo, un dimensione, per altro, radicalmente nichilista – è difficile rispondere con le armi del pensiero perché ci si ritrova davanti a persone indottrinate, sia per essersi nutrite ed imbevute di certe credenze tanto da scambiarle per “la” realtà, sia per il continuo e radicato formarsi di lobbies e di interessi professionali ed economici mirato ad escludere chiunque la pensi diversamente.
Giampaolo Zanaboni

Il presupposto a) andrebbe rivisto: da «nessuno» a “quasi nessuno”. Infatti esiste una proposta del sottoscritto, che si declina nel documento “Cenni di un Nuovo Sistema Economico, Monetario, Fiscale e di Giustizia”, a disposizione sul mio profilo FB. Tale documento costituisce un passo avanti, che si pone trasversalmente rispetto al capitalismo, al socialismo e al comunismo, e in generale a ogni “ismo” apparso finora sul pianeta.
Massimo Manassero

Bravissimo Roberto Buffagni… inizi l’anno con un post egregio, da quale si potrebbero trarre spunti, più che per un saggio, per una intera biblioteca. Il punto e) è quello che mi affascina da una 10na di anni, ossia l’apparente autolesionismo della scelta Usa di delocalizzare ecc. ecc., con successive ridicole lacrime -di coccodrillo- sulla Cina cattiva che si impadronisce dei brevetti – servitile su un piatto di platino, manco argento! Se la Cina fosse comunista (non solo nominalmente) verrebbe da citare Lenin ‘i capitalisti ci venderanno anche la corda con cui li impiccheremo’, ma sappiamo che non è così che funziona. In realtà la scelta Usa fu una scelta del capitalismo Usa, o della nazione Usa? Entrambe, perchè la nazione Usa è occupata dai capitalisti Usa; e il capitalismo sostanzialmente se ne frega delle nazionalità, perchè è una (pessima ed economicistica) forma di universalismo, e nei suoi esponenti più sinceri lo dice chiaramente – il famoso ‘flat world’ di Thomas Friedman. Inutile aggiungere che discorsi simili in un Paese come il nostro, accucciato su un atlantismo servile, con piccole eccezioni di antiamericanismo ridicolo alla 68, risultano comprensibili come l’etrusco arcaico.
Roberto Buffagni

Massimo Manassero Grazie. Sì, l’idea di traslocare in Cina una quantità enorme di manifatture, comprese industrie indispensabili per la sicurezza militare, lascia a bocca aperta. Non mi è noto un episodio autolesionista di queste proporzioni, nella storia umana. Si può spiegare con la marea di hybris che ha ubriacato la classe dirigente USA dopo l’implosione dell’URSS, con tanto di proclami accademici sulla fine della storia e altre amenità. Certo che l’hanno fatta grossa.
Massimo Manassero

Roberto Buffagni non grossa, enorme. Alla base ci fu, secondo me, la presunzione sborona texana unita al disprezzo verso tutto ciò che è ‘non americano’ : ‘Ma sì, dai, diamo pure un po’ di tecnologia ai musi gialli, tanto, prima che arrivino al nostro livello, hai voglia! 😊 ‘ Pensavano di poterli sfruttare come confezionatori di smartphone per chissà quanti anni ancora. Imbecilli. Hanno creato un mostro che creerà guai grossi a loro ma ancor più a noi, eterno vaso d’argilla.

Buon Anno a modo nostro dalla redazione e da TKG

Anche il 2021 è andato. Auguriamo un 2022 migliore del precedente. Sarà un anno intrigante e inquietante nel mondo; dal destino segnato, ahimé, per il nostro paese. Sappiamo però che i destini privati non coincidono necessariamente con quelli di una comunità. E’, comunque, nostro dovere e nel nostro piccolo far emergere le risorse vitali che pur esistono nel nostro paese. Come con gli auguri natalizi intendiamo affermare lo spirito che alimenta l’impegno nel nostro sito con la pubblicazione di un contributo di una figura esterna, ma ormai affezionatissima_Giuseppe Germinario

PANDEMIA DOCET, di Teodoro Klitsche de la Grange

A detta di tanti, la pandemia – ormai biennale – ha insegnato molte cose, e altrettante ne cambierà. Perciò m’intruppo anch’io in questa (folta) compagnia, onde esporre quale ammaestramento – a mio avviso – se ne può trovare.

Il pensiero prevalente a livello di comunicazione mainstream prima della pandemia trovava il proprio nocciolo duro nelle credenze che: a) il mondo viaggiasse sul binario di un progresso lineare ed irreversibile dal più povero al più ricco, dal più violento al meno violento, dal più malato al più sano (e così via) b) all’orizzonte, ma già in larga misura in atto, c’era un ordinamento sociale privo d’eccezioni e quindi puramente normativo ed essenzialmente statico.

Nell’utopismo marxista (finito) era la società senza classi; nel successivo pensiero unico (e anche debole) ha assunto forme e nomi (parzialmente) diversi, dalla “fine della storia” alla “governance globale”. Tutte accumunate dal fatto che le emergenze, in tutte le loro manifestazioni, erano sostanzialmente finite, quali stroncate (il più delle volte) dal progresso, e ridotte in altre – più limitate (dal terremoto all’incidente aereo)- dalla capacità di contenerne e ridimensionarne gli effetti negativi.

La pandemia ha mostrato il carattere illusorio, anzi affabulatorio di certe credenze: è stata l’irruzione della realtà in un mondo di favole.

Il fatto che ci sia già costata oltre cinque milioni di morti e danni enormi (economici e sociali); e perfino che abbia limitato al minimo i consumi voluttuari (con scorno delle élite), rende impossibile ricondurla alla prima o alla seconda categoria: quanto alla seconda, per le dimensioni (non è un terremoto appenninico); quanto alla prima perché è evidente che il progresso non ci protegge da certi eventi. Anzi, una verosimile spiegazione della nascita e diffusione del Covid lo ascrive ad un errore nel laboratorio di Wu-Han, costruito – si dice – per lo studio delle malattie virali. Un classico caso di eterogenesi dei fini, scriverebbe Max Weber (a non fare ipotesi più maligne).

Resta il fatto che il progresso non produce solo il bene, ma anche il male: e in ogni caso, ci aiuta, ma non elimina i rovesci della fortuna.

Uso il termine impiegato da Machiavelli nel XXV capitolo del Principe, perché il genio fiorentino contrappone alla fortuna la virtù (dei governanti). La fortuna assomiglia a un fiume che allaga e distrugge edifici e colture; ciononostante gli uomini possono limitarlo con argini e ripari “Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta a sua impeti, dove ella sa che non sono fatti gli argini né ripari a tenerla”. In Italia trova una campagna senza argini, ossia manca virtù nei governanti. Cosa che non succede nella “Magna, la Spagna e la Francia”.

Ad applicarla alla situazione italiana nelle crisi di questo secolo (quella finanziaria del 2008 e la pandemica), abbiamo la conferma di quanto sosteneva il segretario fiorentino: le due crisi sono state affrontate da governanti carenti di virtù. Tant’è che la prima si è trascinata in Italia per oltre un decennio, e in Europa (in Magna….) è durata assai di meno e provocato danni inferiori.

Quanto alla seconda, per trovare una risposta organizzativa non scadente in misure da “parata” (primule, banchi a rotelle, ecc. ecc.) abbiamo dovuto cambiare governo. Non so se questo basterà. Ma qualche miglioramento sicuramente l’abbiamo visto. Resta il fatto che la pandemia ci ha insegnato che i paternostri dispensati a piene mani dalla classe dirigente erano inutili; che tale inutilità era data essenzialmente dal non comprendere che la virtù consiste nella capacità di dare una risposta efficace a situazioni improvvise; che norme e progresso servono a poco se non adatte ad affrontare l’emergenza. E che la vita non è un viaggio in treno dove comunque, senza fatica, si arriva a destinazione. Ma soprattutto che per affrontare le crisi occorre la virtù, ossia la capacità prima di prevederle e prepararsi, poi di gestirle. Cioè tutto il contrario di quanto ci hanno propinato da decenni. Non so se l’anno prossimo vedremo il capitolo XXVI del Principe, ossia il riscatto generato proprio dall’aggravarsi della crisi. Non si vede il Principe adatto, né moderno né antico; d’altra parte la stessa sorte toccò a Machiavelli e all’Italia del XVI secolo, che trovò il proprio Principe solo nel XIX.

Teodoro Klitsche de la Grange

Buon Natale da tutta la redazione

Quest’anno auguriamo il nostro Buon Natale con lo scritto di due autori esterni al sito, ma dai quali abbiamo attinto a piene mani. Rappresentano bene alcuni dei principi informatori e lo spirito che guidano faticosamente la conduzione della nostra realtà editoriale.

Andrea Zhok

Spero che un giorno guarderemo a questo periodo come un incubo superato, un periodo di follia collettiva come ogni tanto la storia riserva.
Ma in attesa di quel momento, se mai verrà, una cosa, alla vigilia del Natale più mesto di sempre, voglio dirla.
Questa vicenda, se da un lato ha distrutto molte illusioni, dall’altro ha aperto anche una dimensione umana insperata e inattesa.
Si sono scoperte affinità e solidarietà ideologicamente trasversali, si è riusciti a trovare conforto nella parola e nell’atto di persone fino a poco tempo prima sconosciute, con cui si è stabilita una connessione umana fondata su un primario senso di libertà, rispetto della persona e giustizia.
Questa connessione è “prepolitica”, o forse meglio, è originariamente politica nel senso primitivo del termine: è fiducia umana nella capacità di cooperare.
L’abbandono definitivo delle categorie politiche del passato, a partire da “destra” e “sinistra”, abbandono per alcuni maturato da tempo, ha ricevuto la definitiva consacrazione.
Il mondo che ci aspetta a valle di questo tornante della storia è un mondo politicamente da ricostruire da zero, perché del vecchio mondo non è rimasta pietra su pietra (per quanto molti non se ne siano ancora accorti).
Per quanto possibile, Buon Natale.
Pierluigi Fagan
ERMENEUTICA DEL NATALE. Com’è noto, il gatto è irresistibilmente attratto dall’albero di Natale che per lui è un semplice albero, oltretutto a portata di scalabilità. Così lo scala ma, arrivato in alto, il suo peso lo fa oscillare di qui e di là fino a farlo cadere per terra. Il gatto, infatti, non tiene conto che noi umani amiamo sradicare gli alberi per metterceli a casa a simbolo di una narrazione di mito generale, per lui l’albero è sempre ben piantato e quindi non è rischioso. Così un semplice istinto alla scalabilità dal punto di vista del gatto, per noi si trasforma in una gratuita cattiveria iconoclasta o una critica radicale al mito umano del Natale nell’ambito di una cultura occidentale che ha trasformato più antichi miti legati alle segnature stagionali.
Ieri ho sentito M. Cacciari in una intervista ripetere con sorriso sarcastico che “i fatti non esistono” come cosa ovvia e nota. A chiusura di questo secondo anno di società in pandemia, molti sono convinti che i fatti non esistono perché esistono solo le interpretazioni. Ma se qualcuno interpreta cosa sta interpretando se non ci sono i fatti e loro effetti in forma di fenomeno? Il pensiero si metterebbe in moto di suo elaborando complesse argomentazioni così, moto proprio?
I fatti esistono ma la loro natura e significato varia a seconda dell’impianto interpretativo, quello del gatto non è il nostro e viceversa. Sta il fatto che un gattone di dieci chili che arriva in cima ad un albero di Natale in precario equilibrio e senza le sue naturali radici, cade. Qualsiasi impianto interpretativo usiate.
In molte accese discussioni nel dibattito pubblico che hanno animato e suppongo continueranno ad animare i tempi che corrono, alcuni discutono la propria interpretazione contro quella dell’interlocutore, ma senza passare dai fatti. I fatti, a loro volta, sono diversamente definiti a seconda dei diversi impianti interpretativi. La faccenda è complicata, ma mi auguro che piano piano si evolva la convenzione pubblica di discutere anche animatamente le interpretazioni, includendo però il fatto pur nella sua problematica comune definizione. Il come definiamo i fatti ha conseguenze e la peggiore e non farci i conti dedicandosi solo alle interpretazioni.
E con ciò, i miei migliori auguri a lettori, lettrici e variamente dibattenti, ognuno dalla sua prospettiva, della pagina.

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE

Una dozzina d’anni fa Berlusconi – o meglio i suoi seguaci – contrapposero alla Costituzione formale la Costituzione materiale, suscitando la consueta raffica di anatemi ed esorcismi degli intellos di sinistra, che della costituzionale formale, o meglio della loro interpretazione del testo normativo, avevano fatto il proprio shibboleth. E avvertivano che il richiamo a quella materiale rischiava di rovinargli il giocattolo.

È appena il caso di ricordare che il termine (non il concetto) di costituzione materiale era opera di un acuto giurista come Costantino Mortati, membro dell’assemblea costituente della Repubblica, in buona parte sviluppando quanto espresso quasi un secolo prima da Ferdinand Lasalle nella nota conferenza “Über Verfassungswesen”, ove il rivoluzionario riconduceva la costituzione agli “effettivi rapporti di potere che sussistono in una data società”, alla forza attiva “che determina le leggi e le istituzioni giuridiche”. Scriveva Lassalle che “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” (il corsivo è mio); ed elencava i relativi “pezzi di costituzione”: il potere del re, quello dell’aristocrazia, della borghesia che comunque assicuravano un ordine, effettivo e concreto, e con ciò la coesione sociale. Così la costituzione è l’insieme – dei rapporti di forza reali – ed organizzati – di una comunità politica. E cos’è la Costituzione formale? Rispondeva Lassalle “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito”.

Riprendendo e sviluppando la concezione di Lassalle, Mortati scriveva “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare «costituzione materiale» per distinguerla da quella cui si dà nome di «formale»”. A questo è affidata una “funzione di rafforzamento delle garanzie di conservazione della sottostante compagine sociale, non è tuttavia da dimenticare che è in quest’ultima, nell’effettivo rapporto delle forze da cui è sostenuta che deve trovarsi il vero supporto dell’ordine legale”1 (il corsivo è mio).

La Costituzione materiale consiste essenzialmente nelle forze politiche e sociali che hanno voluto e sostengono l’assetto fondamentale di poteri delineato da quella formale in norme collocate “al sommo della gerarchia delle fonti”.

Ma cosa succede se l’assetto delle forze politiche e sociali (cioè la costituzione materiale) cambia (com’è naturale) e quella formale (cioè la regolamentazione normativa) rimane la stessa? Il problema è ricorrente, dato che, come scriveva Hauriou, un ordinamento giuridico è un agmen, un esercito in marcia che adatta sempre la propria formazione alla situazione storica, pur conservando un assetto ordinato. Se però il divario tra regole e assetto delle forze diverge, si apre un dualismo che, nei casi estremi, conduce alla guerra civile, cioè all’“appello a Dio” di Locke. Il quale così significava che non c’è potere (superiore) sulla terra in grado di decidere un tale conflitto. Nella tarda modernità, nostra contemporanea, è stato notato più volte – in tutt’altro contesto da quello giuridico – che il divario tra élite e popolo si è allargato (da Lasch a Laclau, a tanti altri). Così si costituisce una situazione che prelude ad un nuovo insieme di rapporti di potere, che riarmonizzi le due costituzioni: sostanziale e formale.

Qualcuno dirà che non è vero che lo iato si sta allargando, che tutti vogliono la costituzione più bella del mondo, e via salmodiando. Ma ad un pensiero realista occorre riscontrare non tanto se quello iato è frutto di manipolazione (potrebbe esserlo, almeno in parte) ma se esiste realmente un modo più sicuro o se preferite, meno insicuro per accertare se esiste in una democrazia il consenso soprattutto elettorale che aveva il sistema nel complesso e ancor più le “forze politiche e sociali” che sostenevano il vecchio ordine e quello che hanno coloro che sostengono il nuovo.

Applicando questo criterio occorre ricordare che la Costituzione formale fu approvata dei partiti del CLN, che avevano circa il 90% dei seggi alla costituente. Le successive elezioni politiche del 18/04/1948 diedero al complesso dei partiti ciellenisti oltre il 90% dei suffragi popolari. Con ciò la costituzione – e quello che sarebbe stato poi l’arco costituzionale – otteneva un consenso “bulgaro”. Bella o brutta che fosse il consenso c’era e non lo si può negare.

Fino agli anni 80 la situazione, pur nella divaricazione tra comunisti e non comunisti, confermava un consenso ampio ai partiti dell’“arco costituzionale”. Ma il crollo del comunismo incrinava prima e dissolveva poi il sistema dei partiti della “prima Repubblica” e con esso il maggior sostegno della costituzione formale. Uscivano dal Parlamento tutti i partiti laici, la DC si riduceva ad un quarto di quel che era e si spezzava in (almeno) due tronconi, i comunisti perdevano buona parte del loro elettorato ed erano costretti a cambiare nome. Diventavano forze maggioritarie partiti che non facevano parte del CLN o ne erano stati esclusi. Dal 1994 in poi quelli eredi dell’arco costituzionale ottengono suffragi di una minoranza, ma la Costituzione formale è rimasta sostanzialmente la stessa (tranne per le modifiche al titolo V e qualche altro ritocco, apparente).

Negli ultimi dieci anni poi, il divario si è allargato: crescita dei partiti anti-establishment ma che ha prima raggiunto e poi passato regolarmente la maggioranza dei suffragi (v. elezioni dal 2018 in poi).

La novità degli ultimi mesi è che i tre maggiori partiti italiani (Lega, FdI e PD, a leggere i sondaggi) sono in un testa a testa intorno al 20%, e pochi decimi di percentuale (al massimo un punto pieno), indicano quale primo partito FdI, ossia il partito erede degli esclusi dall’arco costituzionale, mentre il PD, il partito (residuo) dell’arco, è più o meno sullo stesso livello di consensi.

Quasi tutti i suffragi non attribuiti ai due partiti epigoni (dell’arco e non dell’arco) sono espressi a partiti che ne stavano fuori per l’ovvia ragione che non esistevano (Lega, 5Stelle, FI e vari minori); né sono credibili le dichiarazioni ad usum delphini di lealismo alla costituzione formale di qualche dirigente, e dall’altro perché spesso i partiti suddetti caldeggiano riforme costituzionali incisive, un po’ perché quelle professioni d’intenti sono strumentali ad obiettivi tattici (di lotta tra, ma ancor più, nei partiti).

Resta il fatto che da un consenso al 90%, l’ “arco costituzionale” è attualmente tra il 20 e, tutt’al più (con minori vari) il 30% dell’elettorato.

Oltretutto tra le forze non riconducibili all’arco/non arco, sono prevalenti quelle che includono nella futura maggioranza (a quanto risulta dai sondaggi) proprio gli eredi del ventennio; altri sono critici verso la Costituzione formale, al punto di aver proposto vasti rimaneggiamenti della medesima.

Da questo deriva che l’ “antifascismo” in particolare inteso come conventio ad excludendum dalla maggioranza elettorale ha un consenso di una minoranza, ragguardevole ma pur sempre minoranza. In conclusione abbiamo un dato reale (la Costituzione materiale) che non corrisponde da tempo a quella formale. Resta da capire quanto possa durare una Costituzione formale non sostenuta da “forze politiche e sociali” coerenti alla stessa.

Emerge così un conflitto tra legittimità e legalità che è la principale causa della debolezza, interna e ancor più internazionale, della Repubblica.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 E proseguiva sottolineando l’intrinseca giuridicità, onde realizzare “un sistema di rapporti gerarchizzati secondo criteri di dominio e di soggezione”, v. Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Milano 1976, pp. 30-31

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA, di Pierluigi Fagan

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA. [Post di studio relativo a questioni di fotografia sociale per basi di teorie politiche. Non perdete tempo se non vi interessa, saltatelo] Qui riprendiamo i ragionamenti portati avanti nel post del 14.12 del nostro “ragionar con Gramsci”. Si faceva accenno al fatto che rispetto al panorama ideologico del suo tempo, a noi oggi mancano tre presupposti: 1) una chiara e conosciuta fotografia delle partizioni sociali, ma forse dovremmo dire le forme stesse della partizione sociale; 2) una ben confusa situazione nei concetti di partito e democrazia; 3) la mancanza di una teoria generale politica, una teoria mondo quale quella che al suo tempo rappresentava l’alternativa allo stato di cose ovvero il pensiero di Marx/marxismo. Vorrei riprendere ed approfondire un po’ il primo punto.
Sebbene centrale in quell’impianto di pensiero, il concetto di “classe sociale” e sue partizioni, non sono mai chiaramente espresse da Marx. Di base, l’intende come una classificazione in base alle condizioni economiche. Altresì, queste sezioni della piramide sociale, produrrebbero una loro precipua ideologia che ne riflette condizione ed aspettative. Gramsci aggiungerà che questo “riflettere” è però condizionato da egemonie per le quali non sempre vi è allineamento tra condizione sociale e condizione ideologica. Tant’è che, in effetti, sia Marx che Engels, che Lenin, non erano proletari, né avevano origini in tal senso. Quali sono dunque i rapporti tra condizione sociale ed ideologia?
Dieci anni fa, uno spontaneo movimento di opposizione sociale, negli Stati Uniti d’America, comincia l’occupazione del distretto finanziario di Wall Street, rivendicando il conflitto tra un presunto 99% della società ed un 1% che condenserebbe in sé una scandalosa concentrazione di ricchezza, quindi potere. Tale teoria non si sa bene dove nasca di preciso, chi indica la redazione del giornale di critica pubblicitaria canadese Adbusters, chi l’antropologo David Graeber, chi l’economista Joseph Stiglitz, chi un anonimo articolista sul web. Il concetto che, come tutti i concetti, presuppone una teoria di cui è sintesi, punta alla critica del risultato sociale della svolta finanziaria che inizia tra anni ’80 e ’90 ed ha un sapore più comunicativo (slogan) che analitico (analisi). Dato questo presupposto semplificante ed indignante, ha molto successo e diventa una sorta di nuovo consenso socio-politico, ci si convince davvero che si tratta di una questione tra una percentuale infinitesima ed una massa enorme. È possibile le cose stiano così?
Decisamente no, non è assolutamente credibile in termini di “fisica dei sistemi sociali” che qualcosa di così piccolo, domini del tutto un così grande, è una semplificazione. Del resto, tra pubblicitari (Adbusters) ed americani (Graeber-Stiglitz), che la semplificazione sia privilegiata rispetto alla complessità del reale, è fatto noto e proprio di quei tipi di immagini di mondo. Di contro, che ci sia un 1% che effettivamente condensa in sé una porzione scandalosamente asimmetrica di ricchezza e quindi potere, è un fatto. Fatto riverificato da decine di statistiche quantificanti e pure peggiorato in questi dieci anni.
Questa versione semplificatoria dell’indagine sociale (mai basarsi su principi di analisi sociale americani espressi dopo gli anni ’60, quindi da dopo C. W. Mills) però ha successo e la ritroviamo in background in una sorta di rinnovata “teoria delle élite”, teoria tra l’altro di origine italiana dei primi Novecento. Le nostre società quindi si sono semplificate quanto a partizioni sociali? Davvero è tutto così semplice per cui l’1% conduce il restante 99% dove vuole lui? Pare di no, ci sono almeno due problemi oltre la logica della fisica sociale, che complicano parecchio la faccenda.
Il primo problema deriva dal fatto che quel 1% beneficiato dall’imporsi del paradigma finanziario, non è solo. Né lui come composizione sociale, né in quanto paradigma. Come paradigma è assieme ad una costruzione paradigmatica fatta altresì di globalizzazione e informatizzazione dentro un più ampio paradigma di teoria economica detto “neo-liberista”. A sua volta questo costrutto non è di origine occidentale ma prettamente americana. Il tutto corrisponde ad una più ampia partizione sociale rispetto alla numerica dell’1%. Ha più a che fare con il concetto di “classe agiata” di T. Veblen, categoria sociologica del primo Novecento. La “classe agiata” è fatta da coloro che hanno tornaconti e benefici, primariamente dal fatto che le nostre società sono ordinate dai fatti economici e non politici, quindi dal mercato e non dalla democrazia, dall’assetto atlantista che struttura l’occidentalismo e dalla teoria neo-liberista che per quanto ritenuta di origine economica è in realtà di origine socio-economica, quindi politica ed infine più ampiamente “culturale”. La loro agiatezza è data dall’appartenere al cluster che beneficia direttamente della finanziarizzazione e/o della globalizzazione e/o dell’informatizzazione e se di origine europea, della funzionale connessione col centro motore del sistema che è in US o UK. Direttamente o indirettamente.
Per fare un esempio stupido dell’indirettamente, anche un ristorantino fast-lunch nei pressi di un distretto finanziario beneficia di quel flusso di ricchezza, anche il suo cameriere, piuttosto che il portuale di uno snodo di traffico merci, la segretaria di una azienda che produce container, il programmatore di algoritmo, se assunti e retribuiti di conseguenza. Certo, direttamente il beneficio è più intenso che indirettamente, ma è pur sempre una rete di cointeressenze formata da nodi (hub) di innovazione, logistica, scambio internazionale, favore del mercato quanto più libero ed incondizionato, lavoro sul denaro altrui. In più, non è che sparisca una classe agiata tale sorretta da redditi da attività più “tradizionali”, anche qui direttamente o indirettamente. Quanto si può quantificare questa classe che sta bene dentro lo stato di cose, lo sorregge, lo difende, lo amplia, lo promuove positivamente nel giudizio condiviso?
Prendendo la quantificazione a grana grossa, quindi senza formalizzarsi sulla sua precisione esatta, sociologi stimano in circa un 40% questa che non è “una” classe, ma una alleanza di classi o di tipi sociali, che ruotano intorno agli interessi di un certo funzionamento economico che poi si riflette nel politico e nel culturale sebbene divisi tra trainanti e trainati, classi attive o di servizio a queste. A me pare un po’ alta, forse. Con i benefici del potere economico, politico, sociale e soprattutto culturale, appare però più credibile questa fotografia in cui una minoranza coarta una maggioranza, piuttosto che quella semplificata dell’1% maligno e totalitario. Certo, questo ipotetico 40% ha gradi diversi di beneficio e quindi convinzione, nonché di potere, però ad “alone”, conta e pesa almeno per un terzo sociale. Se pure fosse un più prudente 30% la cosa cambierebbe non di molto e comunque è proprio queste sotto-analisi a grana meno grossa che andrebbero fatte. Questi beneficiati, li possiamo definire gli “integrati” ricorrendo ad una partizione data da Eco in una sua analisi culturale anni ’60. Essi sono sia oggetto che soggetti attivi di promozione dell’egemonia di una immagine di mondo, tanto quanto i più tradizionali soggetti attivi come i fatidici “media mainstream”.
Sin qui, quanto a definizioni di classe diciamo “tradizionale” ovvero reddito + ricchezza + prospettive su aspettative = stato sociale. Ma davvero l’ideologia individuale e di gruppo corrisponde sempre allo stato sociale? Decisamente direi di no. Non v’è un intellettuale che si esprima in libri, articoli, pamphlet o quant’altro anti-capitalistici o anti-neoliberalistici o anti-atlantisti o anti-economicisti che non sia in fondo e per lo più (quindi salvo eccezioni che ci sono sempre) socio-economicamente parte di quel 40% o lì vicino nei fatti, mentre guarda al 60% nel campo dei sistemi di idee politiche. E viceversa, una grande parte di quel 60% non si sogna minimamente di rifiutare l’attrazione verso il mondo degli integrati, vorrebbe solo esserne invitato o poter coltivare la speranza di poterlo essere. E non si tratta solo di mancanza di coscienza di classe, sono proprio tipi sociali le cui radici di immagine di mondo è del tutto integrata in quel sistema di valori e modi, convintamente.
Ci sono dunque defezioni di allineamento tra classe sociale ed ideologia, da una parte e dall’altra, che consiglierebbero indagini ed analisi più complesse per capire meglio, a grandi linee, la composizione del fatidico “blocco storico” che potrebbe sfidare lo stato di cose. Noto che gli schemi semplificati sono talmente egemonici che ad esempio, il problema politico Italia oggi è condensato in Draghi. Non sulle forze politiche che lo sorreggono. Ma soprattutto non su tutti coloro che quelle forze politiche le votano. Quindi ci si convince che il 65% di gradimento a Draghi censito da un sondaggio ancora a novembre è ovviamente falso, quando forse non lo è o non lo è del tutto. Capita quando la fotografia sociale è fatta “sentendo” le opinioni di qualche centinaio al massimo di contatti sui social media. Fa scandalo quando qualcuno ci ricorda che il 50% degli italiani ha dalla licenza media in giù, forse perché si pensa che questi siano tutti contro lo stato di cose quando forse, invece, è proprio l’esatto contrario, è proprio la mancanza di struttura mentale che ha socio-politicamente sorretto decenni e decenni di Democrazia Cristiana in Italia.
Infine, sfidare lo stato di cose può avere molte motivazioni. Si possono sommare in fase critica e di sfida, ma raggiunto eventualmente l’obiettivo di aprire ad un nuovo stato di cose, si dovranno dividere per tante quali sono le loro variate origini e ragioni. Un nazionalista non è un europeista per quanto critico verso l’attuale forma presa da questa istanza ed entrambi non sono degli euro-asiatisti. Un keynesiano non è un decrescista. Un tradizionalista non è un progressista. Un marxista non è un socio-destrista. Un perplesso verso la politica sanitaria in atto non è un no vax, che non è un no pass, che non è un no-covid-è-tutta-una-montatura-del-grande-reset, per quanto, scendendo assieme in piazza finiscono con l’esserlo. Se una alleanza tattica va pensata per ripristinare il valore dei pesi percentuali effettivi del sociale totale, occorre chiarirsi su cosa e questa cosa non potrà essere una forma di mondo che è obiettivamente pensata in modi assai diversi, ma forse solo sul modo con cui i pesi dei vari tipi sociali si riflettono nei processi decisionali politici. Qui, “tipi sociali” che sommano condizione sociale e condizione ideologica, sostituiscono il concetto di “classe”.
In fondo, il panorama sociale in cui pensava Marx, era effettivamente molto simile alla stilizzazione dell’1% degli Occupy Wall Street, ma oggi le cose, ahinoi, sono più complesse e se vogliamo politicamente chiarirci realisticamente le idee, con questa complessità tocca farci i conti. Se non miglioriamo la risoluzione delle nostre fotografie sociali, non sapremo mai in cosa dovremmo metter le mani.

Roberto Buffagni

Ottimo lavoro Pierluigi, grazie. Aggiungerei che non solo manca una teoria sociale dello stesso ordine di perspicuità del marxismo, manca una teoria filosofica dello stesso ordine di perspicuità dell’illuminismo (anche perché la critica anche sociale si deve rivolgere contro la forma attuale che ha preso l’illuminismo). Dovendo buttar lì qualche briciolina di pane, direi questo: come l’illuminismo storico ha revisionato e rieditato per via di astrazione e secolarizzazione i concetti socialmente più rilevanti del cristianesimo, così dovrebbe fare la teoria critica attuale per la forma odierna di questi concetti illuministi, revisionandoli e rieditandoli e “sostanziandoli”, ossia facendo il percorso inverso a quello di astrazione illuminista.

Filosofia e scienza, di Vincenzo Costa

Filosofia e scienza (tratto da Facebook)
La pandemia ha fatto emergere un enorme problema nel rapporto tra i saperi, e in particolare tra filosofia e scienza. Da un lato sembra esservi una filosofia che pretende di saperne più degli scienziati, dall’altro una scienza che tende a considerare la filosofia come mero discorso ideologico, da usare (quando conviene, tipo ciliegina che abbellisce la torta) o da irridere, quando non conviene, quando dice qualcosa che stona. I meccanismi mediatici diventano poi terribili, stritolano, diventano violenti verso le persone, le idee e verso un intero settore disciplinare. C’è un grosso rischio, che riguarda la razionalità, e bisogna iniziare ad affontarlo in maniera razionale e pacata.
Ora, senza entrare in un’analisi precisa della questione (che andrà fatta, ma non su FB) a me pare che si stiano confondendo molte cose. In particolare, la filosofia ha (deve avere) una funzione critica nei confronti della scienza, ma il termine “critica” va ben compreso.
“Critica” (Critica della ragione pura, per Kant, Critica dell’economia politica, per Marx) non significa che la filosofia critica asserzioni specifiche della scienza. Questo tipo di critica, per essere razionale, è interna alla scienza, è la scienza stessa che la sviluppa: Einstein critica Newton, Bohr critica Thomson. Ma Kant non critica Newton nello stesso senso in cui lo fa uno scienziato. Kant “critica” Newton nel senso che cerca di portare alla luce i presupposti (filosofici) che stanno alla base della fisica newtoniana. Hume critica la matematica nel senso di cercare di portare alla luce i presupposti della matematica, e quando invece prova a criticare la matematica in termini matematici un suo caro amico, a cui sottopone il manoscritto, gli consiglia di non pubblicarlo. E credo che quel manoscritto non ci sia neanche pervenuto, ma potrei sbagliarmi. Husserl critica la geometria, ma nel senso che si chiede: da dove derivano e che consistenza hanno i suoi concetti elementari. E pur essendo un matematico di professione non confonde mai la ricerca matematica con la filosofia della matematica.
Nel mio piccolo mi è capitato di occuparmi di filosofia della medicina, ci ho scritto un libro ed è uno dei miei ambiti di ricerca, ma filosofia della medicina significa chiedersi quali sono i presupposti ontologici della medicina moderna (lo fanno Foucault e Canguilhem tra molti altri, e gli altri sono molto meglio per la verità), quali sono le sue procedure di validificazione (per esempio la struttura dell’EBM, che cosa porta alla luce e che cosa oscura, oppure quale è la struttura epistemologica di una diagnosi, che tipo di causalità viene usata in medicina).
E tuttavia, se vi può essere una critica fenomenologica della medicina non vi può essere una medicina filosofica, che sarebbe altrettanto aberrante di una chimica fenomenologica. Né il fatto di effettuare una critica ontologica ed epistemologica della medicina abilita il filosofo a dire alcunchè sulla medicina, cioè a passare da una critica filosofica dei fondamenti a una critica interna, per esempio a dire che una certa teoria del glioblastoma è giusta o sbagliata. Occorrono due competenze del tutto differenti.
La medicina la devono fare i medici, e il filosofo deve solo (e non credo sia poco) produrre un surplus di consapevolezza relativo all’ambito concettuale entro cui lo scienziato si muove. Ma guai se il filosofo intendesse parlare di medicina. Per farlo deve avere una competenza medica, e magari un dottorato, e magari un dottorato specifico su quel campo specifico, altrimenti si espone a critiche giustificate.
SI DEVE APPOGGIARE SU DATI RACCOLTI IN GIRO MA CHE NON è IN GRADO DI VALUTARE.
Paradossalmente, in questo modo accetta proprio il principio di autorità, solo che si appella a una diversa autorità. Quale? Non all’autorità della comunità scientifica, ma all’autorità di singoli scienziati che scartano e deviano dalle linee seguite dalla comunità scientifica. E perché mai QUESTA autorità dovrebbe essere più attendibile di quella della comunità scientifica in quanto tale, che si esprime poi in istituti regolatori e di vigilanza? Alla fine ognuno si cerca gli scienziati che dicono quello che desidera sentire. E questo è irrazionalismo puro e semplice.
Un filosofo non può correggere un virologo e un epidemiologo sul suo terreno. La discussione tra punti di vista diversi deve avvenire entro un ambito di competenze determinate: due virologi che la pensano diversamente possono esporre i loro punti di vista alternativi, ed esporli non su FB, ma in primo luogo davanti alla comunità scientifica e poi di fronte all’opinione pubblica.
La scienza è democratica, è pubblica, ma questo non significa che ognuno può dire la sua: vuol dire che è basata sul dibattito, il quale presuppone conoscenze e competenze riconosciute (non la laurea su FB), e avviene in pubblico, davanti a tutti.
Questo è essenziale per ripristinare un rapporto di fiducia con la scienza, un rapporto dialettico ma di rispetto tra filosofia e scienza. Ho scritto un libro di filosofia della medicina, ma non mi curo da me, mi fido di più del mio semplice medico di base, a maggior ragione di uno specialista se c’è un problema. Mi guardo bene dal dare consigli ad altri su come curarsi, e sarebbe criminale se lo facessi: consiglio loro di recarsi da uno specialista.
Questo non è scientismo, e non è neanche mero buon senso: è il nucleo stesso del pensiero filosofico, è il modo in cui la filosofia si ritaglia un ambito di rigore, un suo campo specifico, che ha una sua dignità, una sua importanza, per me fondamentale. E’ il modo in cui dialoga con il sapere scientifico, senza confondersi con esso e senza pretendere di saperne più degli scienziati nel loro specifico campo di competenza.
Con alcuni neuroscienziati che mi onoro di avere tra i miei amici è capitato di dissentire, di fare lunghe discussioni, ma il mio dissenso era sui concetti filosofici che assumevano (per esempio, nel caso dei neuroni specchio, se adottare la nozione di empatia tratta da Lipps, da Scheler o da Husserl), ma quando parlavano del cervello, di quello che accade in esso, di come fanno i loro esperimenti, mi limitavo e mi limito ad ascoltare, ad imparare, a volte sono strabiliato dalla precisione o dall’inventività dei loro esperimenti. Sarebbe un errore se la filosofia pretendesse di insegnare loro qualcosa sulla struttura del cervello e sui nessi neurali. La filosofia si renderebbe ridicola.
Ecco, ultimamente abbiamo fatto tutti un po’ di confusione, e una discussione aperta e autocritica credo sia necessaria, in primo luogo per il bene della filosofia, e poi per la credibilità della scienza, e – perché no? – per non avvelenare la nostra sfera pubblica e la nostra vita democratica.
Comunque, domani c’è lo sciopero generale, e anche la filosofia scende in piazza con i lavoratori. Questa è un’evidenza apodittica, la roccia contro cui la vanga si piega, il punto in cui scienza e filosofia si danno la mano e convergono la dove il mondo del lavoro si mobilita
PS. Il post è il modo in cui vedo le cose, magari sbagliando. Si può non essere d’accordo, e ci sta. Non voglio essere trascinato in una di quella discussioni demenziali in cui tutti mi devono insegnare a pensare. E’ un punto di vista, se non vi piace pazienza. Nu ne famo un drama
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