Potenza come griglia di lettura n. 12 di RAPHAEL CHAUVANCY

Potenza come griglia di lettura n. 12

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Preferendo l’amministrazione delle cose al governo degli uomini, i nostri contemporanei hanno accarezzato il sogno di un pacifico villaggio globale. Gli interessi incrociati dovevano sostituire le relazioni di dominio. Il clamoroso ritorno della storia ha spazzato via questo sogno. Le interdipendenze non impediscono gli scontri. Il Cremlino sviluppa le sue armi avanzate con componenti europei; gli americani fabbricano i loro aerei con minerali cinesi rari mentre gli ucraini si scaldano con il gas dei russi che uccidono i loro figli.

Il puro interesse materiale e le ideologie non sono quindi riusciti a pacificare il mondo né a spiegarne le convulsioni. Quindi dobbiamo cercare altrove il motore del sistema strategico globale. Criticata da autori come Bertrand Badie, la cui fragilità concettuale nasce dalla sfida insostenibile di voler spiegare le relazioni internazionali senza parlare di strategia, la nozione di potere e i suoi meccanismi offrono proprio una griglia di lettura globale e coerente. Dobbiamo ancora essere d’accordo sulla sua definizione.

Il potere è una relazione strategica

L’uomo è un essere sociale proiettato nel tempo. Vale a dire, un animale politico e storico la cui azione collettiva sposa le forme della strategia. Organismi collettivi organizzati, le società perseguono i propri obiettivi, il primo dei quali è garantire la sostenibilità e la prosperità di una comunità definita in un determinato territorio. La loro moltiplicazione porta gradualmente i loro interessi a incrociarsi, a scontrarsi.

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L’area mondiale si è così convertita in un sistema strategico animato da rivalità di potere, questo rapporto sfaccettato e sinergico che è, tenuto conto della necessità, l’effetto della proiezione nello spazio e nel tempo di una volontà strategica ragionata sull’ambiente materiale e immateriale .

La potenza è una relazione comparativa a somma zero. In un mondo che cambia, una potenza che non progredisce corre il rischio di una regressione meccanica. Per questo non può essere pensata al di fuori delle condizioni della sua crescita in un quadro di competizione, contestazione o confronto tra gli unici attori che ne raccolgono tutte le caratteristiche, gli Stati.

I meccanismi del potere si basano su tre principi uguali e senza tempo comuni a tutte le sfere culturali: necessità, volontà e legittimità. Si suddividono in fattori ed elementi.

La necessità è il peso dei dati di partenza, degli elementi quantificabili. Obiettivo, riunisce dati fisici e cognitivi. Copre la geografia, la demografia o le risorse economiche di un paese e determina i concreti equilibri di potere. Lei è il braccio.

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Principio guida, la volontà è la capacità di concepire un piano strategico, determina l’obiettivo da raggiungere, detta la procedura da seguire e avvia l’azione. Sfrutta le opportunità, supera i vincoli, aggira gli ostacoli o forza la resistenza. Lei è la testa, con tutto ciò che la mente umana ha di razionalità, ma anche di errori o imprevisti.

Infine, la legittimità assicura la coesione di una società attorno a valori o convinzioni condivisi e le dà la sensazione di compiere un’azione giusta, bella, buona o quantomeno necessaria. Riguarda le forze morali. Lei è il cuore.

Mappatura e dinamica della potenza

È possibile mappare cinque tipi principali di rilievi di potenza.

Al vertice c’è la ristretta cerchia delle superpotenze, come l’URSS ieri, gli Stati Uniti oggi, la Cina domani. Hanno tutte le carte in mano per imporre la loro direzione nel mondo.

Poi arrivano le potenze medie a vocazione globale come la Francia o l’Inghilterra, a cui un giorno potrebbero unirsi l’India o la Germania. Se la storia ha talvolta offerto loro l’illusione di una possibile egemonia, hanno imparato a misurare il peso della necessità ea conoscerne i limiti.

Il terzo piano riunisce potenze regionali, come il Brasile o l’Australia, difficili da aggirare in una sfera delimitata.

Questi livelli raggruppano i poteri attivi. Le pianure e le valli successive sono il dominio dei poteri passivi.

Vi troviamo le nazioni deboli, ma prospere, attaccate solo ai loro interessi immediati, come molti paesi europei. Per mancanza di volontà, costituiscono una semplice posta in gioco tra i grossi che contestano i clienti.

Il livello più basso è quello degli Stati deboli e poveri, che hanno solo interessi locali. Le loro carenze in tutte le aree sono tali da formare solo una landa desolata dove le grandi potenze si oppongono più o meno liberamente; ci sono un certo numero di paesi dell’Africa nera, dell’America Latina e dell’Asia.

Naturalmente entrano in gioco altri fattori. Potrebbero riguardare il clima di potere. I poteri freddi sono conservatori. Hanno interesse a congelare in misura maggiore o minore la scena mondiale e sono per definizione stabilizzanti, come la Francia o il Marocco, che perseguono politiche di sovranità, influenza ed equilibrio.

Al contrario, i poteri caldi sono revisionisti. Hanno aspirazioni imperiali, globali nel caso delle superpotenze, o regionali per stati come la Turchia .

Questa mappatura può essere dettagliata o orientata in base alle esigenze analitiche. Facilita la comprensione delle forze coinvolte e delle dinamiche del potere naturale o accidentale.

Il movimento di correnti calde o fredde porta meccanicamente a perturbazioni, come l’incontro dell’espansionismo turco e del conservatorismo francese nel Mar Egeo. I fenomeni naturali dell’erosione del potere, di cui la Russia ha notato l’importanza dopo la caduta dell’URSS, richiedono aggiustamenti o azioni più o meno riuscite per mantenere un ambiente favorevole; quando blocchi importanti si sono staccati dal corpo centrale come fa l’Ucraina, il volontarismo si oppone alla forza di gravità con le conseguenze che abbiamo visto.

Alcuni movimenti tettonici sotterranei preannunciano quindi tsunami, che possono verificarsi durante i grandi cambiamenti demografici: ci si può quindi interrogare sulla sostenibilità sociale degli Emirati Arabi Uniti dove il 10% dei cittadini annega in una massa del 90% di estranei.

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Le dinamiche di ascesa o declassamento obbediscono a determinate regole e provocano naturalmente depressioni o tempeste. Se i geografi sono stati in grado di parlare di riscaldamento globale, il riscaldamento geopolitico è una realtà molto preoccupante che richiede l’adozione di misure per mitigarlo, se possibile, per prepararci sicuramente.

Lo stratega è quindi simile al geografo. La conoscenza dei meccanismi del potere gli permette di comprendere i fenomeni indotti e di anticiparli, individuando tendenze o probabilità in assenza di certezze fuori portata.

Equilibri e squilibri

La tettonica delle potenze potrebbe essere sommariamente riassunta come un equilibrio continuamente perduto e perennemente ritrovato.

I periodi di anarchia sono quelli in cui la rottura è tale che il riequilibrio è impossibile, come dopo la caduta dell’Impero Romano. Le crisi maggiori sono l’espressione di una violenta oscillazione del pendolo per contrastare un cambiamento troppo brutale per essere digerito gradualmente. Nel 1914, la guerra non derivava tanto dal desiderio di combattere del Reich quanto dalla dinamica creata dal fantastico aumento della sua potenza demografica, economica e militare a partire dal 1870. La forza di gravità costruita attorno al potere germanico non poteva che dislocare il edificio internazionale.

I movimenti strutturali sono più durevoli del frutto degli scontri cinetici. Non fu Waterloo che spinse la Francia al secondo rango di potenza nel 19° secolo . È il processo di unificazione tedesca che ha progressivamente ridotto il suo peso relativo nel concerto europeo. Inoltre, lo schiacciamento militare totale della Germania nel 1945 non le ha impedito di riprendere gradualmente e naturalmente la leadership europea.

La legge del ritorno all’equilibrio significa che i poteri che contano sono generalmente rimasti gli stessi nel corso dei secoli. È eccezionale che una nazione esca dal cerchio che gli è proprio, ma quando ciò accade è ancora più raro che riesca a ritrovarla.

Le evoluzioni che possono causare squilibri hanno ritmi molto vari. Nel regno della necessità, sono generalmente lenti, salvo incidenti come la scoperta di materie prime vitali o di alto valore: gli idrocarburi hanno trasformato una piccola nazione remota in uno degli stati più prosperi del globo all’inizio degli anni ’70.

È in termini di volontà che le rotture sono più rapide e l’influenza del libero arbitrio individuale o collettivo è decisiva. Personalità forti come i Presidenti Putin o Erdogan hanno segnato le Relazioni Internazionali contemporanee; la resilienza collettiva del popolo ebraico ha permesso loro di superare due millenni di dispersione e persecuzione per ricreare finalmente uno stato in pochi anni.

I criteri di legittimità generalmente conoscono solo evoluzioni progressive e sotterranee. Ma quando l’architettura delle credenze è cambiata, è difficile tornare indietro. La Corte di Versailles lo scoprì a suo danno nel 1789 prima che il mondo intero ne rimanesse sconvolto.

Sebbene i cambiamenti creino opportunità, non tutti vale la pena coglierli. Uno squilibrio troppo grande a favore di un giocatore provoca in cambio una reazione virulenta e coordinata da parte dei suoi avversari, dei suoi compagni, persino dei suoi alleati. Uno Stato deve porsi anche la questione della sua capacità di assorbire un forte aumento di potere. La rana non vince volendo essere più grande del bue…

Modellazione piuttosto che shock

Altri meccanismi derivano dalle contraddizioni interne di qualsiasi stato, sistema, situazione. Mao ha anche teorizzato il suo sfruttamento strategico. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno difficoltà a conciliare la propria identità democratica e la propria natura imperiale. All’interno della stessa alleanza formata dalle democrazie, una forte antilogia distingue la visione francese del multilateralismo, considerato come un’opportunità per creare spazio di manovra, e l’approccio americano, che lo vede come una minaccia al suo status di iperpotenza.

Un paradosso è che la potenza trattenuta è maggiore della potenza impiegata. Quest’ultima, infatti, è una spesa in conto capitale il cui beneficio resta da dimostrare. L’Inghilterra ha costruito il suo dominio assistendo alle grandi conflagrazioni europee molto più che partecipando ad esse. Mentre i suoi avversari si esaurivano in futili litigi, ella accumulò capitali, costruì navi mercantili, estese le sue reti finanziarie e liberò le terre vergini d’America e dell’Oceania che offriva al suo vigore demografico e pionieristico.

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Se la manovra di Vladimir Putin in Crimea nel 2014 è un caso da manuale dell’uso strategico dei movimenti naturali al lavoro, l’aggressione in Ucraina nel 2022 illustra i misfatti di uno sterile degrado. Il potere militare, politico e diplomatico russo è stato ridotto e le sue risorse economiche sono state gravemente colpite. Allo stesso modo, l’abuso del diritto di veto da parte dei russi all’ONU è il modo migliore per mettere in discussione il principio stesso. Come contrappunto, la Francia è attenta a non usare la propria per evitare che la sua legittimità venga contestata, il che contribuisce al suo status di potenza globale responsabile.

Sorprendentemente contraddittoria, una saggia politica di potere può consistere nel… favorire l’aumento di quelli di altri attori. È improbabile che un paese come la Francia possa aumentare notevolmente le proprie risorse oltre certi limiti. D’altra parte, potrebbe mirare a rafforzare gli stati subordinati a scapito dei suoi concorrenti.

Se vuoi la pace, prepara la guerra. La debolezza uccide, lo dimostrano i telegiornali. Una griglia di lettura interessata solo agli scontri tra rivali, invece, mancherebbe il punto. L’esperienza delle due guerre mondiali, la deterrenza nucleare e la sempre più marcata riluttanza dell’opinione pubblica a versare il proprio sangue hanno provocato un cambiamento nelle rivalità di potere.

Il confronto, cioè la guerra aperta tra nemici, ha perso la sua centralità a vantaggio della contesa indiretta tra avversari e, ancor più, della competizione globale tra tutti i giocatori, anche tra gli alleati.

Mentre, anche a livello militare, conta sempre meno brillare sul campo di battaglia che durare, i percorsi contemporanei del potere emarginano le nozioni di vittoria e sconfitta. Alfa e omega del pensiero delle relazioni internazionali fino al secolo scorso, sono diventate obsolete. La vittoria riflette solo una momentanea pressione volontaristica contro la natura delle cose o l’equilibrio del potere. Inoltre i suoi risultati svaniscono rapidamente. Sarebbe esagerato paragonarlo a un’illusione?

Il potere di uno Stato non risulta da una determinata situazione, ma da un approccio integrato e da un equilibrio sostenibile tra risorse, volontà e legittimità. È perché è globalmente equilibrato internamente che la Francia è una potenza di bilanciamento esternamente. Al contrario, una Russia volontarista, povera e troppo armata può solo svolgere un ruolo destabilizzante.

Nonostante l’apparente contraddizione tra i due termini, il potere può essere equiparato al consenso, anche se è ovviamente fabbricato. Questo consenso è dovuto all’influenza di un modello sociale, prestigio politico, credibilità militare, prosperità economica, attrattiva culturale, ecc. termine di uno stato percepito come utile nel peggiore dei casi, generalmente necessario, ammirevole nel migliore dei casi.

Se l’arte della tattica dominava quando i principi misuravano il proprio potere con il metro di una provincia conquistata, è oggi emarginata da quella della strategia e della pianificazione ambientale. Quest’ultimo consiste nell’occupare spazi lacunari, rinchiudere i rivali in una fitta rete di dipendenze strutturali sotterranee e assicurarsi un margine di manovra sovrano. Possiamo così completare la cartografia dei poteri con quella delle loro dipendenze materiali e immateriali.

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Un gigante economico, la Germania, per esempio, sta pagando il prezzo dell’ingenuità, divisa tra la sua sottomissione energetica a Mosca e la sua dipendenza dalla sicurezza da Washington. Nazione prospera amministrata liberamente, scopre con stupore di non essere sovrana per mancanza di libertà di manovra. Un paese può essere uno stato di diritto, anche senza sovranità. D’altra parte, non ha più la capacità di decidere sul suo futuro e di attuare le sue scelte, che è la definizione stessa di libertà politica e la ragion d’essere della democrazia.

Conclusione

La storia è una linea spezzata. Non ha un significato particolare, ma ripercorre le avventure di competizione tra gruppi umani. Ogni confronto è, soprattutto, un movimento e un’interazione creativa le cui conseguenze non sono tutte negative.

Il mondo contemporaneo ha comunque rotto con la nozione di pace. Militari o meno, la guerra infuria tra le nazioni. Non si oppone più solo agli apparati statali come in passato, ma alle società stesse nel loro insieme.

Nulla ora sfugge al gioco dei poteri. Mark Galeotti ha pubblicato a gennaio 2022 un libro dal titolo evocativo: L’armamento di tutto . Tutto diventa strumento di combattimento. Tutto diventa un’arma.

Questo nuovo sistema globale, come abbiamo visto, non è così anarchico come si potrebbe pensare a prima vista. Se riserva naturalmente sorprese, obbedisce a regole e meccanismi accessibili alla comprensione umana.

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Gli europei in generale ei francesi in particolare non sono stati in grado di anticipare crisi sanitarie, economiche o militari che sono comunque ampiamente prevedibili. L’obsolescenza di griglie di lettura terribilmente restrittive, siano esse quella economica liberale o quella consistente nel confinare le Relazioni Internazionali a una forma di sociologia, è costata loro cara.

In un’epoca di effetti combinati e scontri interni, questi echi del passato interessano solo alla ricerca storica. Il futuro è irto di minacce e richiede strumenti concettuali in grado di conciliare l’analisi dei rapporti di potere grezzi, tenendo conto dell’imprevedibilità delle decisioni collettive o individuali e del ruolo delle forze morali. Vale a dire la necessità, la volontà e la legittimità.

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L’inizio di una nuova era, di George Friedman

Una settimana fa ho scritto un pezzo sulle tappe della storia , sottolineando i cambiamenti sistemici che si verificano da più di 200 anni. Nel secolo scorso, questi cambiamenti sono avvenuti a circa 30-40 anni di distanza e l’ultimo si è verificato nel 1991, ovvero circa 30 anni fa. Quell’anno finì la Guerra Fredda, fu firmato il Trattato di Maastricht, iniziò l’operazione Desert Storm e finì il miracolo economico giapponese, aprendo le porte all’ascesa della Cina. Il mondo nel 1989 era molto diverso da quello del 1992.

Ora siamo in un’era in cui si verificano cambiamenti. Essere in un’era non significa necessariamente che il cambiamento arriverà immediatamente; il cambiamento tra l’epoca delle guerre mondiali e il mondo del dopo Guerra Fredda è durato quasi 50 anni, solidificato com’era stato dalla rivalità USA-URSS. Non è chiaro perché alcune epoche durino più a lungo di altre. Potrebbe essere semplicemente un caso. Un’alternativa da considerare è che alcune epoche sono basate su realtà singole, molto solide, mentre altre sono basate su realtà multiple e più fragili. Pertanto, l’era 1945-1991 si basava sulle solide fondamenta del confronto tra USA e Unione Sovietica, mentre il 1991-2022 era basato su forze multiple: la guerra globale al terrore, l’Unione Europea, l’emergere della Cina, la Russia che si affermava e così via . Era meno coerente e quindi più fragile. La nostra epoca attuale è iniziata con turni più frammentati,

Qualunque siano le ragioni, l’era iniziata nel 1991 sta volgendo al termine e sta iniziando una nuova era. Tutte le principali entità o nazioni del nord – Cina, Stati Uniti, Russia ed Europa – stanno subendo profondi cambiamenti. Per la Russia, l’invasione dell’Ucraina è solo l’ultimo e più importante tentativo di invertire gli eventi del 1991. Ma con una classifica del prodotto interno lordo pro capite di 86, l’allontanamento dal comunismo potrebbe non essere redditizio come si pensava una volta. E con un esercito superato dalle forze ucraine, difficilmente può essere considerato una grande potenza militare. In parole povere, la Russia non è stata all’altezza delle proprie aspettative, quindi subirà la rivoluzione prevista nel periodo precedente, continuerà le sue mosse aggressive utilizzando capacità militari limitate o finirà come una potenza minore, anche se con armi nucleari.

La guerra in Ucraina ha cambiato anche l’Europa. La NATO è riemersa come un sistema primario, parallelo all’UE, con membri alquanto diversi, un’agenda diversa e costi di bilancio diversi. Ancora più importante, il rapporto transatlantico ha ricevuto nuova vita, insieme a un maggiore impegno per le spese militari. Questo porta l’Europa in una configurazione fondamentalmente diversa. In primo luogo, con l’aumento della spesa pubblica e la contrazione dei risultati economici sotto la pressione del conflitto, le tensioni all’interno dell’UE peggioreranno. E con l’aumento della dipendenza dagli Stati Uniti, Washington potrebbe essere vista ancora una volta come un partner economico alternativo alla Germania. L’Unione Europea, già sottoposta a pressioni centrifughe, dovrà ridefinirsi ancora una volta.

Anche la Cina è in transizione. Ha attraversato un periodo di crescita economica vertiginosa. Come il Giappone prima, e gli Stati Uniti molto prima, la Cina è stata in una straordinaria espansione economica. Quando il Giappone ha raggiunto i limiti della crescita a due cifre nel 1991, il suo declino ha portato alla sua sostituzione con la Cina. Il Giappone ha fatto crescere la sua economia grazie a una combinazione di esportazioni a basso costo, seguite da una crescita tecnologica avanzata. Lo aveva finanziato attraverso un sistema finanziario che allocava capitali sia su base economica che politica, attraverso keiretsu, o famiglie di società. È cresciuto su una forza lavoro disciplinata. Si è imbattuto in un’intensa concorrenza per beni di basso valore che hanno svenduto i propri, così come nella resistenza politica dei suoi paesi consumatori, in particolare gli Stati Uniti. Ciò si è intensificato con beni di alto valore come le automobili.

Ma ora le esportazioni di fascia bassa della Cina stanno erodendo sotto la concorrenza, così come i suoi prodotti di fascia alta, per non parlare della resistenza alle esportazioni da parte dei mercati di consumo. Un’espansione iniziata 40 anni prima non può sostenere il suo tasso di crescita. Le esportazioni sono sotto pressione e anche il sistema finanziario. Nel caso della Cina, ciò è accaduto nel settore immobiliare, che viene utilizzato come sistema di sicurezza. I fallimenti in questo settore, comprese le insolvenze, destabilizzano inevitabilmente l’economia e creano così tensione politica. È probabile una crescita drammaticamente più lenta in Cina, con un gran numero di cittadini cinesi che non hanno mai beneficiato completamente della crescita precedente, una situazione pericolosa.

Gli Stati Uniti sono ancora la potenza più forte del mondo nonostante le discordie interne e le pressioni economiche. Quella discordia è ciclica e fa presagire un’impennata economica basata sulla nuova tecnologia. Ma per ora, la potenza economica americana, vista più recentemente attraverso l’uso del dollaro contro la Russia, è ancora in piedi. Gli Stati Uniti sono la meno probabile delle quattro major a richiedere un cambiamento istituzionale, che li ha aiutati a mantenere la propria posizione dal 1945.

Le precedenti ipotesi su Russia e Cina come potenze emergenti ora sono nella migliore delle ipotesi discutibili. Le cose cambiano, ma oggi è difficile vedere una rinascita russa o una rapida fine dei problemi economici della Cina. Quindi, se siamo all’inizio di un cambiamento ciclico, come penso che siamo, gli Stati Uniti saranno uno dei pilastri della transizione verso la nuova era. È difficile visualizzare il resto. Chi avrebbe pensato nel 1991 che la Cina sarebbe cresciuta, o nel 1945 che l’Europa si sarebbe ricostruita come ha fatto? La parte facile di questo progetto è finita, credo, ed è tempo di cercare l’inimmaginabile che esiste in ogni epoca.

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Il paradosso della democrazia. Troppa democrazia ci rende schiavi? di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo.

Il testo offre una buona analisi dei meccanismi di condizionamento del sistema informativo e dell’esercizio democratico. Quanto alla soluzione offerta, pare opportuno porre alcune domande:

  • è così dirimente il rapporto tra libera circolazione dei capitali ed esercizio della libera informazione?
  • lo è altrettanto il livello di concentrazione dei capitali?
  • la stessa concentrazione di capitali non è comunque necessaria a garantire dimensione delle imprese, sviluppo tecnologico ed altri aspetti fondamentali della formazione sociale?
  • non si rischia di identificare troppo e ridurre l’esercizio del potere con il solo potere economico?
  • non si rischia di fossilizzarsi su una visione irenica del bene comune e del concetto di democrazia, rischiando per altro di associarla, secondo la teoria classica, all’esistenza di piccoli produttori?

Ritengo quesiti utili a favorire il dibattito.

Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il paradosso della democrazia. Troppa democrazia ci rende schiavi?
di Davide Gionco
02.05.2022

Il paradosso della tolleranza di Popper
Il filosofo Karl Popper (1902-1994) propose nel 1945 all’attenzione dei suoi lettori (libro “La società aperta e i suoi nemici“) il paradosso della tolleranza. Secondo Popper una società tollerante, che accetta la diversità e la libertà di opinione, non può essere eccessivamente tollerante verso le opinioni che propongono di non accettare la libertà di opinione.
Cita il caso di Hitler, che non sarebbe salito al potere, mettendo a tacere ogni opposizione, se gli fosse stato impedito di esprimere pubblicamente ai tedeschi la sua dottrina politica antidemocratica e totalitaria, in nome del diritto democratico della libertà di opinione.

Conosciamo tutti la famosa affermazione attribuita a Voltaire “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo“, frase che in realtà fu scritta da Evelyn Beatrice Hall, per illustrare il pensiero di Voltaire.
Il paradosso posto da Popper si pone effettivamente come l’unica eccezione ammessa al principio fondamentale della libertà di parola, in quanto qualsiasi opinione “sbagliata” potrà sempre essere corretta quando i fatti lo dimostrino, esistendo la libertà di esprimere opinioni critiche per rendersene conto e di esprimere opinioni alternative per cambiare le decisioni. Se, invece, viene data attuazione all’opinione che prevede l’intolleranza verso opinioni dissenzienti, si perderà la possibilità di ascoltare giudizi critici e opinioni alternative, in quanto i detentori dell’unico punto di vista autorizzato sentiranno il diritto-dovere di mettere a tacere qualsiasi opinione che prospetti critiche e cambiamenti.

Questo è quanto sosteneva argutamente Karl Popper, ma a mio avviso oggi ci ritroviamo di fronte ad un altro paradosso, per il quale un eccesso di democrazia in molti casi ci porta ad altre forme di condizionamento dell’opinione pubblica, che limitano il pensiero critico e l’espressione di opinioni alternative.

Le democrazie occidentali e la “censura statistica”
Quando dei poteri forti intendono imporre il loro punto di vista in paesi in cui vige formalmente una democrazia, non hanno bisogno di esercitare una censura ferrea come avviene nei paesi in cui vige la dittatura. Nei paesi democratici l’obiettivo viene raggiunto attuando una forma mascherata di censura, che potremmo definire “censura statistica”.
Il metodo consiste nel condizionare i mezzi di informazione, fornendo una narrativa alterata della realtà dei fatti, affinché la maggior parte dei cittadini non abbia gli strumenti sufficienti ad esprimere un giudizio critico e fondato sui fatti reali in merito alle decisioni del potere politico.
Nel contempo le opinioni critiche vengono rese difficilmente accessibili o presentate come poco credibili.
Questo metodo prevede anche, naturalmente, una parallela azione di condizionamento del potere politico, fatta con i metodi “tradizionali” della corruzione o dell’infiltrazione delle istituzioni con uomini o donne fedeli al potere forte.

Se avvenisse una censura assoluta, come avviene nelle normali dittature, a tutti risulterebbe evidente che ci si trova in una dittatura. Se invece si concede formalmente il diritto di parola a chi ha opinioni diverse, si presenta l’immagine di una apparente democrazia, per cui nei cittadini non suona il campanello d’allarme dell’arrivo della dittatura.
Il meccanismo di “censura statistica” si basa sul fatto che, per garantire il controllo del potere politico, è sufficiente che non si arrivi ad avere una maggioranza di cittadini in grado di votare per un effettivo cambio del potere politico, cosa che dovrebbe normalmente avvenire se i cittadini fossero informati correttamente sulle decisioni prese negli interessi dei poteri forti e ai danni del popolo.

Quindi per loro non è un problema se il 10%, il 20% o addirittura il 30% di cittadini si rende conto che chi governa sta compiendo scelte profondamente sbagliate. L’importante è che non se ne renda conto la maggioranza assoluta dei cittadini che vanno a votare.
Il polso della situazione viene continuamente monitorato tramite sondaggi sull’andamento dell’opinione pubblica, in modo che chi decide quale tipo di informazione deve essere data aggiusta il tiro, se il caso suggerendo al potere politico di non esagerare con le scelte che si presentano impopolari, se la narrativa dei mezzi di informazione non è stata in grado di renderli sufficientemente accettabili.
In questo senso possiamo parlare di “censura statistica”, definendola come un insieme di azioni di condizionamento dei mezzi di informazione finalizzate a garantire il mantenimento di un consenso maggioritario intorno alle decisioni politiche imposte dai poteri forti.

La finta opposizione politica
La prima azione da compiere è la creazione ed il mantenimento di una finta opposizione politica.
Si deve dare l’impressione dell’esistenza di un’alternativa politica, come si addice formalmente ad ogni democrazia. Per questo si creano molti spazi informativi in cui ci sono dei personaggi politici che giocano il ruolo della maggioranza e dell’opposizione, dicendosene di tutti i colori, mostrando di avere una visione politica apparentemente opposta.
Ma questo avviene solo su questioni marginali.
Ad esempio si lanciano infiniti dibattiti sulle questioni dei diritti civili, mentre sulla questioni economiche importanti, come quelle che ad esempio riguardano la lotta alla povertà o i fallimenti delle nostre piccole e medie imprese, non esistono sostanziali differenze. Su questi argomenti gli schieramenti opposti sono normalmente accumunati, a seconda dei casi, dall’accettazione rassegnata di conseguenze inevitabili o dal silenzio sulla questione, perché non hanno nulla da dire.

Eventuali forze politiche realmente alternative, che contestato il potere politico esistente, difficilmente trovano spazio sui mezzi di informazione principali. O, se lo trovano, vengono relegati a spazi “di serie B”, in modo che la maggior parte della popolazione non sia informata delle loro opinioni.

Una volta creata la figura della finta opposizione, non resta che influenzare la narrativa di lettura dei fatti politici per impedire che la maggioranza della popolazione contesti la credibilità delle principali forza politiche presenti sui mass media.
Le questioni devono essere presentate come non dipendenti dal potere politico o come ineluttabili. Come diceva Margareth Thatcher “There is no alternative“.
Ad esempio: aumenta la povertà, ma dipende dalla globalizzazione, non ci possiamo fare niente.
In alternativa si racconta che la soluzione si avrà votando la finta opposizione. Ad esempio: per diminuire le tasse, votiamo a destra. Oppure: per tutelare i diritti dei lavoratori dipendenti, votiamo a sinistra. Quando questo avviene, ovviamente, non cambia nulla.
La narrativa della censura statistica non permette di uscire da questi schematismi semplificati e che, in realtà, servono solo a mascherare l’assenza di una reale democrazia.

I finanziamenti dell’informazione
Per condizionare la narrativa dei mezzi di informazione esistono principalmente 3 meccanismi dei quali si servono i poteri forti, certamente anche nazionali, ma oggi soprattutto operanti a livello internazionale.

Se il potere politico è già stato acquisito, tale potere può stabilire l’erogazione di finanziamenti ai mezzi di informazione, anche molto cospicui, in cambio del loro allineamento alla linea politica richiesta. Se dai un certo tipo di informazione sei finanziato, se non lo fai resti senza finanziamenti.
A quel punto, prima di tutto per garantire la redditività dell’azienda e per i suoi dirigenti, gli editori, pubblici o privati che siano, troveranno il modo di motivare i giornalisti a conformarsi a quanto richiesto.

La grande disponibilità di finanziamenti consentirà a questi mezzi di informazione di disporre, a pagamento, della presenza di personaggi famosi (attori, calciatori, artisti, ecc.) e di disporre delle competenze dei migliori professionisti per realizzare dei contenuti che attirino il grande pubblico, al quale verrà poi rifilata la narrativa decisa dal potere politico.

Restano pertanto privi di finanziamenti i mezzi di informazione che, pur svolgendo un servizio pubblico, non si vogliono allineare al pensiero “governativo”. Pochi finanziamenti significa informare poche persone, il che significa evitare che la maggioranza della popèolazione rischi di cambiare opinione.

Un modo tutto sommato molto simile al precedente è il finanziamento dei mezzi di informazione tramite la raccolta pubblicitaria. Gran parte degli inserzionisti pubblicitari dei principali mass media sono tutti o grandi aziende nazionali o delle multinazionali, i cui dirigenti sono espressione o sono in strette relazioni con i poteri forti che hanno interesse a manipolare i mezzi di informazione per perseguire i propri interessi economici.
Chiunque voglia fare informazione ad un certo livello avrà bisogno dei finanziamenti degli inserzionisti e dovrà, quindi, adeguarsi alla linea informativa da loro richiesta. Pena il taglio delle inserzioni pubblicitarie ed il fallimento dell’editore.
Chi non si adegua perde i grandi finanziamenti e può al massimo accontentarsi della piccola pubblicità di imprese locali. Ancora una volta, pochi finanziamenti significa raggiungere poco pubblico ed essere irrilevanti per la censura statistica.

Vi è infine un terzo modo attraverso il quale i poteri forti riescono a manipolare i mezzi di informazione, persino nei casi in cui i finanziamenti pubblici siano distribuiti correttamente e in cui non sia necessario  finanziare l’informazione con le inserzioni pubblicitarie.
Tale modo, ovviamente, può convivere anche con i due sopra descritti.
Si tratta della corruzione mirata dei giornalisti e degli “opinion makers“, i quali vengono pagati per sostenere la narrativa desiderata da chi detiene il potere.
Chi sono gli “opinion makers“? Sono coloro che, in televisione, in radio, sui giornali e su internet si presentano con un’autorevolezza sufficiente ad essere creduti per quello che dicono, influenzando l’opinione dei cittadini.
Possono essere giornalisti, dei tecnici (economisti, medici, ecc.), dei personaggi dello sport o dello spettacolo. L’importante è che si sappiano presentare in modo credibile agli occhi della maggioranza dei cittadini, per condizionarli.

Senza voler accusare specificamente nessuno degli opinion makers attualmente operanti in Italia, possiamo citare il famoso caso tedesco di Udo Ulfkotte, famosissimo giornalista che faceva opinione sulle principali televisioni in Germania, autore di libri di gran successo.

Poco prima di morire nel 2017, per cause mai ben chiarite, Udo Ulfkotte rivelò: «Faccio il giornalista da 25 anni e sono stato educato a mentire, a tradire e a non rivelare la verità al pubblico…»
«con lo scopo di «portare ad una guerra contro la Russia, di manipolare l’opinione pubblica ed è quello che hanno fatto e fanno tuttora anche i miei colleghi, non solo in Germania, ma praticamente in tutta Europa».

Nel famoso “Piano di rinascita democratica” della Loggia massonica P2, ritrovato nella valigia della figlia di Licio Gelli, prevedeva al punto 1b):
«Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previsto nominatim. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente.. »

Ritornando un po’ più indietro, è solo il caso di ricordare come un tal giovane giornalista chiamato Benito Mussolini, che nel 1914 era direttore dell’Avanti! (quotidiano socialista, partito che era contro l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra), ricevette cospicui finanziamenti dai servizi segreti francesi ed inglesi per caldeggiare l’ingresso in guerra dell’Italia. Abbastanza soldi per fondare dal nulla il nuovo giornale Popolo d’Italia, attraverso il quale fu perseguito l’obiettivo richiesto dai poteri forti del caso, quello di trascinare l’Italia in guerra, con un certo consenso popolare e parlamentare.
E’ solo il caso di ricordare che questa intromissione costò al nostro paese il prezzo di 1’240’000 morti-

Il metodo della preponderanza
Nei casi sopra citati non si è mai avuta la censura totale tipica delle dittatura, ma è stato adottato il metodo della preponderanza, che ha consentito ad un certo tipo di narrativa, quella conferma ai voleri dei poteri forti, di prevalere su visioni alternative e persino sulla narrazione oggettiva dei fatti, in modo da condizionare l’opinione della maggioranza statistica della popolazione.

La preponderanza consente di far prevalere una narrativa sulle altre non in virtù della sua fondatezza, ma in funzione di altri criteri artificiali.
Il primo meccanismo è quello della “quantità” o della “frequenza“. Se una certa narrativa dei fatti viene presentata nel 90% del tempo, attribuendo alle visioni alternative solo il 10% del tempo, il risultato sarà l’adesione di almeno il 60-70% della popolazione alla prima versione, nonostante la maggiore credibilità dell’opinione alternativa.
Una variante di questo criterio è dedicare gli spazi informativi con molto pubblico (ad esempio in prima serata) alla narrazione che deve prevalere, relegando alle ore con poco pubblico le narrazioni alternative. Stesso tempo messo a disposizione (l’apparenza democratica è salvata), ma numero di destinatari molto diverso.

Il secondo meccanismo è presentare insieme in un confronto le diverse narrative, ad esempio nei talk show, ma creando delle situazioni nelle quali la narrazione dei poteri forti ha il sostegno di 4-5 persone presentate come autorevoli, contro una sola che la pensa diversamente. Il messaggio di fondo che passerà è che l’opinione della sola persone è minoritaria, per cui la maggioranza dei cittadini dovrà ritenere ragionevole schierarsi con la maggioranza degli opinionisti rappresentata in quel talk show.

Il terzo meccanismo è quello di presentare come iperqualificati gli opinionisti favorevoli alla narrativa da imporre, presentando nel contempo persone oggettivamente poco qualificate e non credibili a sostegno della visione alternativa.

Democrazia o dittatura?
In tutti questi casi non si può tecnicamente parlare di censura, come ai tempi del fascismo, per cui nessuno potrà contestare a quegli editori e a quei giornalisti di operare al di fuori della democrazia.
Se vogliamo, dal punto di vista formale non vi è alcuna violazione dell’art. 21 della Costituzione, che cita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure…

Nello stesso tempo non possiamo dire di trovarci in una democrazia compiuta, perché al di là dell’apparente assenza di censure, il sistema di informazione è chiaramente pilotato artificialmente non per informare il popolo (demos), affinché possa conoscere la realtà e prendere adeguate decisioni di auto-governo (demo-crazia), ma per nascondere al popolo la realtà, affinché non possa prendere a ragion veduta le necessarie decisioni di auto-governo. Tali decisioni, come è ovvio, vengono invece prese da coloro che hanno investito sulle azioni di controllo dei mezzi di informazione, per trarne certamente un maggior profitto. A spese del popolo inconsapevole, naturalmente.

La situazione paradossale è che le democrazie sembrano essere indifese nei confronti di questi meccanismi di condizionamento dell’opinione pubblica.
Viceversa nei sistemi a governo autoritario l’esistenza di controllo politico sui mezzi di informazione riesce generalmente ad impedire che altri poteri forti esercitino la loro influenza nei mezzi di informazione.
Chi legge penserà: cosa ci abbiamo guadagnato? In un caso l’informazione viene condizionata dai poteri forti esterni, mentre nell’altro caso dal potere dittatoriale. Dovendo scegliere, ci teniamo la democrazia ad informazione limitata, che ci evita almeno di subire i soprusi e le violenze tipici di una dittatura.

Ovviamente si tratterebbe della scelta giusta, se ci trovassimo di fronte ad una dittatura feroce e che impoverisce economicamente il paese. Pensiamo, ad esempio, alle classiche dittature africane, in cui il dittatore arricchisce se stesso e la propria famiglia, lasciando che i poteri forti esterni facciano man bassa delle ricchezze del paese.
Ma se la scelta fosse fra un regime democratico-autoritario, ma non eccessivamente violento e che tutela gli interessi economici del paese  (come poteva essere quello di Gheddafi in Libia) ed una democrazia debole (ad esempio molti stati dell’America centrale), in cui le decisioni politiche ed i mezzi di informazione sono asserviti gli interessi di poteri forti esterni?
In questo caso quale sarebbe la scelta migliore?
La vera domanda da porci è: come possiamo difendere i mezzi di informazione delle democrazie dai condizionamenti dei poteri forti?

La questione chiave: l’eccessiva liberalizzazione dei capitali
Alla base dei meccanismi di condizionamento, siano essi volti al condizionamento dei decisori (i politici), o volti all’attuazione dei metodi della censura statistica per condizionare l’opinione pubblica, sta sempre la disponibilità di grandi capitali, che i poteri forti possono investire per poi trarne un maggior profitto.
Se gli investimenti economici vanno ad influenzare le decisioni politiche di interesse nazionale e se vanno ad alterare la narrazione dei mezzi di informazione, per impedire al popolo di esercitare il proprio diritto democratico di giudizio dei governanti, le democrazie vengono svuotate nel loro fondamento.

Per questa ragione sarebbe molto opportuno evitare che si verifichino eccessive concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi, non perché si debba necessariamente perseguire l’uguaglianza sociale per odio contro i ricchi, ma perché certi tipi di corruzione “su scala nazionale” sono possibili solo a chi disponga di grandi capitali da investire in tal senso.

Quindi il modo migliore per evitare che la narrativa dei mezzi di informazione sia subordinata ad interessi economici è prima di tutto necessario evitare che vi sia una concentrazione di ricchezza economica tale da essere in grado di incidere pesantemente sui bilanci della maggior parte dei mezzi di informazione o da essere in grado di corrompere decine e decine di giornalisti o i governanti e i funzionari di un paese.
Per evitare questi rischi, a livello nazionale potrebbe essere sufficiente contrastare fiscalmente l’eccessivo accumulo di ricchezza da parte di persone o di società. Nulla a che vedere con la classica “patrimoniale” che colpisce le prime e le seconde case. Il problema non è se una persona guadagna 200 mila euro l’anno o ha 2 o 3 ville al mare o se un imprenditore possiede stabilimenti industriali per 10 milioni di euro per potere produrre. Il problema è che dobbiamo evitare di avere soggetti, come ad esempio intendeva fare la loggia massonica P2, in grado di condizionare i mezzi di informazione grazie alle ingenti disponibilità di capitali.

Per quanto riguarda il rischio, forse ancora più grave, di condizionamenti provenienti da poteri forti che operano a livello internazionale, l’unico modo per limitarli è porre dei ferrei controlli ai flussi di capitali provenienti dall’estero.
Stando agli attuali trattati dell’Unione Europea e di adesione al WTO (l’organizzazione del libero commercio mondiale), la libera circolazione dei capitali è uno dei requisiti fondamentali che si richiedono ad uno stato democratico. Se uno stato non liberalizza la circolazione dei capitali, non è considerato democratico dalla comunità internazionale degli stati democratici.

In realtà è proprio questo “eccesso di democrazia” nel campo finanziario a rendere le democrazie indifese di fronte ai condizionamenti dei poteri forti sui mezzi di informazione. Se vogliamo davvero avere una democrazia effettiva, in cui il popolo è correttamente informato per giudicare le decisioni che vengono prese dal potere politico, dobbiamo avere il coraggio di sottrarci ai vincoli dei trattati internazionali che ci impediscono di controllare e limitare i flussi di capitali dall’estero.
Dopo di che dobbiamo avere il coraggio di introdurre una forte tassazione che impedisca gli eccessivi accumuli di ricchezza in Italia, per evitare che rappresentino un rischio per la nostra democrazia.

Per difendere ulteriormente la libertà di informazione è anche necessario non considerare le imprese che operano nel settore dell’informazione come delle normali imprese. E’ fondamentale garantire, con specifiche leggi anti-trust, che si realizzino delle concentrazioni di proprietà nel settore, sia in campo editoriale, sia in campo della raccolta pubblicitaria.
Una volta fatto questo, potremo anche studiare degli organismi di garanzia del pluralismo dell’informazione, i quali potranno funzionare solo se cesseranno le pressioni di ordine economico sui mezzi di informazione.

In realtà non è la troppa democrazia a fare male alla libertà d’informazione, ma è l’attuazione di un modello di democrazia sbagliato, che antepone gli interessi economici (la circolazione di capitali) alla salvaguardia della democrazia stessa.

UNIVERSO E PLURIVERSO, di Teodoro Klitsche de la Grange

UNIVERSO E PLURIVERSO

Sullo scorcio del secolo scorso, appariva sicuro, a seguire la comunicazione imperante, che l’assetto del pianeta era avviato all’uniformità, dato che era diventato unipolare dopo l’implosione del comunismo e dell’U.R.S.S., onde l’unica potenza egemone erano gli U.S.A. Così la prospettiva che iniziava era che la politica – e il suo scenario – si trasformavano dal pluriverso, cui alcuni millenni di storia ci hanno abituati, all’universo. Una (sola) potenza egemone; uno il contesto (il pianeta globalizzato); una la conseguenza, la pace; una avrebbe dovuto essere la forma politica ossia la democrazia più liberal che liberale; una l’ideologia, il rispetto dei diritti umani; uno il nemico, chi a tanto bene si opponeva. E via unificando.

Poco tempo dopo, con l’attentato dell’11 settembre, tale costruzione già presentava vistose e sanguinarie falle: un’organizzazione più terroristica che partigiana aveva colpito duramente il territorio U.S.A. A parte l’incrinarsi (a dir poco) delle prospettive rosee, era evidente che il problema reale, che quelle avevano più che sottaciuto, occultato, era ciò che millenni di pensiero politico avevano considerato: le differenze tra gli uomini, il loro voler vivere in comunità (relativamente) omogenee, in spazi costituenti il limite (anche giuridico) tra interno ed esterno. Così chi afferma l’universo e l’uniformità non riduceva il numero dei (possibili) nemici, ma lo incrementava di tutti coloro che non concordavano né con l’egemonia di una potenza, né con quella di una forma politica, né di un uguale “tavola dei valori” per tutti i popoli del pianeta e via distinguendo.

Di guisa che quello che con espressione involontariamente strapaesana la stampa nazionale chiamava l’“ulivo mondiale” si è rivelato un moltiplicatore (o almeno un non-riduttore) di zizzania planetaria. Abbiamo avuto guerre etniche, partigiane, religiose oltre a quelle più “tradizionali” di competizioni per la potenza e l’appropriazione (politica ed economica).

A questo hanno contribuito due elementi, l’uno consistente in una regolarità politica, quindi ineliminabile: il conflitto. Da Machiavelli a Schmitt passando per Hobbes e (tanti) altri lotta, conflitto e amico-nemico sono stati considerati intrinseci alla natura umana. Per cui è impossibile eliminarli; ed è difficile ridurli, anche se non impossibile.

In fondo sia la teologia politica cristiana che il diritto internazionale westphaliano erano volti a realizzarlo. In particolare la riduzione dei legittimi contendenti agli Stati sovrani (justi hostes) diminuiva il numero di guerre limitando chi ne poteva far uso, garantendo così lunghi periodi di pace e comunque di guerre limitate (guerres en dentelles) alle nazioni europee. A ciò concorrevano altri precetti fondamentali del diritto pubblico (internazionale e interno): il monopolio della violenza legittima e della decisione politica, le frontiere (conseguenti al carattere territoriale delle comunità sedentarie), le distinzioni giuridiche (romanistiche) tra nemico e criminale e carattere pubblico della guerra. Il diritto di ciascuna comunità di vivere secondo le proprie scelte e consuetudini, ovviamente all’interno del proprio territorio, ne garantiva il pluralismo ed il rispetto da parte delle altre.

L’universo non è in linea con tale metodo sperimentato nella storia, che è poi, come scriveva de Maistre, la politica applicata. Buona parte dell’armamentario di propaganda spiegato, da ultimo (ma non solo) nella guerra russo-ucraina è il contrario di quanto efficacemente praticato in qualche secolo di storia d’Europa. Il nemico è un “criminale, macellaio, pazzo”. Le sue pretese sono quelle di un malato grave, a Putin hanno fatto anche delle visite psichiatriche via televisione con diagnosi tutte infauste (dal tumore alla demenza).

Il fatto che quanto fatto da Putin somigli assai alla politica dei suoi predecessori negli ultimi secoli (da Pietro il grande a Caterina la grande passando per Alessandro I e II, Nicola I), rivolti a guerreggiare per acquisire la supremazia nel (e intorno al) Mar Nero, può avere due risposte: o che, per interessi, in primo luogo geopolitici, la Russia tende a conquiste ed accessi ai “mari caldi” tra cui in primis, il Mar Nero, e di tale tendenza occorre tener conto; ovvero che la Russia da Pietro il Grande ad oggi è stata governata per gran parte dalla sua storia, da dementi (tuttavia due dei quali fregiati dagli storici con l’appellativo di “grande”). La lotta sarebbe tra democrazia contro autoritarismo – argomento che ricorda assai quello del “mondo libero” contro il “totalitarismo comunista” – solo che nel primo caso, aveva fondamenti ben più seri. L’autoritario è ovviamente Putin (ma anche Erdogan, Xi-Jin-Ping, Orban, Modi ecc. ecc.). Dimenticando che, se per difendere la democrazia fosse necessario propiziare la guerra a Russia, Cina, India, ecc. ecc., il confronto risulterebbe assai problematico. Argomenti che hanno tutti i connotati comuni: a) di non riconoscere l’avversario come nemico giusto; b) di considerare le frontiere come intollerabile limite d’influenza; c) e di discriminare essenzialmente in base a “tavole di valori” nelle quali i “diritti umani” rivestono un ruolo fondamentale.

Ora se è vero che vivere in una democrazia liberale (reale, meno in quelle parlate come purtroppo – in parte – è l’Italia) è molto meglio che vivere in uno Stato autoritario e forse anche in una democrazia illiberale, è parimenti vero che altro è tenersi il proprio modo di esistenza e rispettare quello degli altri, altro è cercare di esportarlo con inopportune ingerenze, e ancor più con guerre (dirette o per procura).

Ancor più quando il fondamento è la diversità di valori, la cui conseguenza è, come scriveva Schmitt, che valorizzarne alcuni significa comunque dis-valorizzare altri, collocarli in una “scala” da quello superiore a quello inferiore. E quindi discriminare coloro che condividono quelli “in basso”..

Come sosteneva Max Weber la competizione tra valori crea una lotta dove non è possibile “nessuna relativizzazione e nessun compromesso”. Onde Schmitt riteneva: “la teoria dei valori celebra i suoi trionfi… nel dibattito sulla questione della guerra giusta” perché crea così il nemico assoluto “Il non valore non ha nessun diritto di fronte al valore, e nessun prezzo è troppo alto per la imposizione del valore supremo”[1].

Soprattutto per questo il pluriverso è preferibile all’universo – in politica, e specialmente nei rapporti tra popoli. E l’inclusione dell’orbe nell’urbs, capacità di cui i Romani erano maestri, richiede secoli e rispetto delle differenze. Tempo carente ed attitudine assente tra i globalizzatori. Onde il pluriverso, fondato sul rispetto della diversità tra i popoli, possiede un’attitudine pacificatrice superiore all’ “alternativa” universalista.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] E prosegue: “Tutte le categorie del diritto di guerra classico del jus publicum europaeum – nemico giusto, motivo di guerra giusto, proporzionalità dei mezzi e condotta conforme alle regole, debitus modus – cadono vittime, inesorabilmente, di questa mancanza di valore”, v. Carl Schmitt, La tirannia dei valori, A. Pellicani Editori, Roma 1987, p. 72.

FENOMENOLOGIA DELL’ ALESSANDRO   ORSINI, di Massimo Morigi

                      FENOMENOLOGIA DELL’ ALESSANDRO   ORSINI

 

E per la chiarezza concettuale e terminologica e per  iniziare l’indispensabile  percorso già indicato ai lettori in “Regnum Cliens”, (all’ URL  de “L’Italia  e il mondo” https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20220424164612/https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/; screenshot:  https://web.archive.org/web/20220424164625/http://web.archive.org/screenshot/https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/, ed anche su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/regnum-cliens-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi-italia e  https://ia801505.us.archive.org/10/items/regnum-cliens-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi-italia/REGNUM%20CLIENS%2C%20REPUBBLICANESIMO%20GEOPOLITICO%2C%20MASSIMO%20MORIGI%2C%20ITALIA.pdf )  è ora necessario fare un esempio concreto per instradarci verso una nuova pedagogia nazionale che si contrapponga alle vecchie e divisive narrazioni, iniziando innanzitutto da coloro che possono sembrare affini ma, in realtà, ammettendo pure la loro  buona fede, non fanno altro che seminare confusione nel campo di coloro che si stanno rendendo conto che l’Italia non è nient’altro che un “regnum cliens” degli Stati Uniti. Ci riferiamo al prof. Alessandro Orsini, del quale qui di seguito si indica per punti la complessa e contraddittoria fenomenologia di questo comunque interessante personaggio pubblico. Punto primo della fenomenologia di Orsini. Il professore accusato  –  vigliaccamente e distorcendo le sue parole bisogna sottolineare – di essere  fascista,  anziché rimarcare il ruolo paralizzante del mito della resistenza e dell’antifascismo, denuncia anche giustamente di essere stato volutamente frainteso per le posizioni assunte sulla guerra russo-ucraina e per queste sue  posizioni che si sta operando sulla sua persona una sorta di ridicola e deformante “reductio ad fascem” ma facendo ciò ribadisce la sua fedeltà ai valori paralizzanti di cui sopra e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello (l’abbiamo già detto,  gli si concede la buona fede) che per l’Italia è fondamentale il passaggio ad una nuova pedagogia nazionale che si lasci completamente dietro di sé, appunto, il miti confusionari, divisivi e sommamente paralizzanti  dell’antifascismo e della resistenza e che risultano essere un fenomenale compattatore delle classi dirigenti e parassitarie italiane e, in prospettiva storica, nient’altro che una mitologia costruita ad hoc da un’Italia che aveva perso il secondo conflitto mondiale e che necessitava di questa mitologia per accreditarsi pubblicamente presso i vincitori come una nazione rinnovata ed affidabile (nella realtà inconfessabile, certamente affidabile perché col mito dell’antifascismo e della resistenza si rinunciava alla propria sovranità persa con la guerra ma rinnovata proprio no, anzi il mito copriva il fatto che le strutture dello stato erano sempre quelle fasciste – e quali avrebbero potuto essere ? – e gli italiani non erano per natura antifascisti ma, per la maggior parte, fascisti che avevano perso la guerra cui faceva gioco raccontare all’estero ed anche al loro foro interiore che erano sempre stati antifascisti). Punto secondo della fenomenologia di Alessandro Orsini. Non c’è praticamente alcuna pubblica dichiarazione del professore dove egli non si professi ammiratore della democrazia degli Stati Uniti (???) e nel contempo non affermi che l’Italia deve rendersi più autonoma da questi e cercando di fare i propri interessi, imitando, per giunta, proprio gli Stati Uniti dal professore ritenuti maestri nel perseguire il proprio interesse nazionale. Si tratta, come è di tutta evidenza, di una posizione in sé fortemente contraddittoria (perché allora rendersi autonomi da una potenza che promana tanta civiltà democratica?) ed anche antistorica, perché se è vero che gli Stati Uniti sanno fare i loro interessi (e anche questo è tutto da dimostrare, meglio dire che gli Stati Uniti  hanno di volta in volta grande capacità di imporre agli alleati e agli stati clienti – per l’Italia abbiamo già detto che questa è la definizione che meglio si attaglia riguardo al suo rapporto con gli Stati Uniti – la loro politica del momento), bisogna vedere cosa significhi, a livello di politica interna degli Stati Uniti, fare i propri interessi, che negli ultima trent’anni – se facciamo eccezione dell’amministrazione Trump – non è mai stato l’interesse di quella che più o meno si può definire una classe media (cosa che si intuisce importa molto al prof. Orsini) ma solo quello delle grandi corporation. Quindi, per farla breve e per essere benevoli, Orsini fortemente succube del mito americano e non andiamo oltre. Punto terzo. Orsini si definisce grande europeista e, purtroppo, c’è da credere alla sua sincerità, ma si tratta di una sincerità che confligge – e anche su ciò diamo credito ad Orsini sulla sua sincerità e quindi sul suo accecamento – con la sua volontà di voler rendere l’Italia più assertiva ed efficace in politica  estera. L’Unione Europea è nata per la volontà degli Stati Uniti di controllare il Vecchio continente uscito con le ossa rotte dal Secondo conflitto mondiale e, come si vede nella vicenda della guerra russo-ucraina, svolge egregiamente questo ruolo e non c’è molto altro da dire se non riflettere sull’ingenuità del prof. Orsini, ed anche, se proprio si vuole aggiungere una postilla, concordare  con il ragionamento di Orsini in merito al fatto che per la Francia l’Unione Europea è un moltiplicatore di potenza, ma anche sottolineare che, a differenza dell’opinione di Orsini, è assolutamente velleitario pensare che questo moltiplicatore di potenza possa valere anche per l’Italia, per il semplice fatto che per moltiplicare potenza, potenza bisogna avere e siccome la potenza internazione dell’Italia è uguale a zero, hai voglia a moltiplicare… . Quarto e ultimo punto. Orsini sostiene che l’Italia è un satellite degli Stati Uniti. Errore, grosso errore, errore da sottolineare con la matita blu. L’Italia non è un satellite degli Stati Uniti, perché com’è noto in astronomia, un satellite esercita una sua forza di gravità sul corpo celeste maggiore che va sotto il nome di pianeta, e usando quindi nella relazione di potenza fra Stati Uniti ed Italia la metafora del satellite, ciò vorrebbe dire che l’Italia esercita una pur minima influenza sugli Stati Uniti, ma questo è empiricamente smentito dai fatti, ricevendo l’Italia passivamente e servilmente i desiderata degli Stati Uniti senza portar un pur minimo contributo autonomo agli stessi (vedi sempre guerra russo-ucraina con la ridicolaggine che l’Italia è letteralmente indemoniata nel dire che bisogna fare a meno del gas russo, dimenticando il piccolo dettaglio che essa è la nazione occidentale che più dipende dallo stesso. In realtà l’Italia non è uno stato satellite degli Stati uniti come possono esserlo la Francia, la Germania o la Gran Bretagna, l’Italia è uno stato cliente degli Stati Uniti, dove, come nell’antica Roma, noi attribuiamo a questo termine il significato di uno stato che ha formale personalità giuridica internazionale e formale libertà di scegliersi al suo interno i propri governanti, ma che non solo in materia di difesa militare ma anche in quella delle scelte economiche vitali per il benessere della sua popolazione non può e non deve avere alcuna parola se non quella che direttamente le viene trasmessa dalla nazione con la quale è formalmente alleata ma, nella realtà, completamente sottomessa militarmente ed economicamente (rinuncia al gas russo per ordine degli Stati Uniti anche se questo può uccidere la nostra economia; aumento, sempre su direttiva degli Stati Uniti, delle spese militari per l’Italia anche se questo rischia di far schizzare la già nostra disastrata spesa pubblica, sempre su ordine diretto degli Stati Uniti, invio di armi all’Ucraina, anche se questo ci espone al rischio di essere la prima vittima sacrificale di una ritorsione nucleare da parte della Russia. I Romani con i regni clientes si comportavano esattamente come gli Stati Uniti con noi italiani: prelevavano soldati per le legioni, depredavano i territori dei regni clientes delle risorse minerarie, agricole ed umane, cioè, oltre ai soldati, imponevano de facto  presso costoro anche la fornitura di schiavi oltre quelli che già si procacciavano con la diretta brutale violenza dagli stati debellati tout court dalla loro forza militare). L’interesse della fenomenologia testé tratteggiata  è data dal fatto che col prof. Orsini ci troviamo di fronte ad uno studioso  –  contrariamente alla stragrande maggioranza  degli esponenti del circo intellettual-mediatico mainstream palesemente in malafede e/o talmente istupidito dal crollo delle ideologie novecentesche che “tout va très bien madame la marquise” –   che pur possedendo realmente una competenza geopolitica e pur volendo sinceramente far valere questa competenza a beneficio della nazione cui appartiene, non è riuscito ad acquisire quella necessaria souplesse che gli consenta di sbarazzarsi con decisione di tutti quegli idola fori  del c.d. Occidente che permettono ai gruppi alfastrategici di questo fantomatico e fantasmagorico Occidente di prevalere senza alcuno sforzo sui gruppi omegastrategici che vengono letteralmente privati della loro capacità critica e di autoconservazione vitale tramite l’uso   parareligioso della mitologia dei diritti dell’uomo e della c.d. democrazia rappresentativa (in Italia, sottomiti e diretta gemmazione del mito principale, mito dell’antifascismo presente anche all’estero ma mito dei vincitori per imporre la loro volontà di potenza agli sconfitti mentre in Italia è il mito degli sconfitti e per imporre la volontà di potenza delle classi egemoni sulle classi subalterne e mito della resistenza, anche questo presente all’estero ma in Italia particolarmente farlocco ed arma di “distrazione di massa” a totale detrimento, come nel primo caso, dei gruppi omegastrategici), democrazia e diritti dell’uomo che, secondo questo racconto mitologico, non solo dovrebbero essere imposti sui popoli che non ne vogliono sentire parlare ma, addirittura, dovrebbero essere la chiave di spiegazione universale per interpretare e giudicare le vicende storiche, culturali ed esistenziali dell’Umanità (e se l’imposizione è segno di mentalità imperialista mai morta, e questo passi,  scagli la prima pietra di chi non è mai stato imperialista magari solo sul piano personale, la spiegazione dell’avventura umana lungo le rotaie dei diritti umani e della democrazia quando non di malafede, è veramente segno di profonda ingenuità). In conclusione. Speriamo che la fenomenologia del prof. Orsini, pur segno a nostro giudizio, di buona volontà e anche di buone conoscenze in fatto di geopolitica, possa subire una sua evoluzione verso posizioni più mature ed adulte, speriamo cioè che il segno molto evidente della “fatica del concetto” rappresentato da questo studioso possa portare ad una Epifania Strategica non solo riservata a gruppi ristretti di intellettuali che pur onesti, si lasciano ancora abbindolare dagli idola fori liberaldemocraticistici lasciatici in eredità dal secondo dopoguerra ma anche ad un aumento dell’intelligenza collettiva che, per quanto non nutrita da approfondite conoscenze nelle masse, avverta  e sappia finalmente riconoscere quando i gruppi alfastrategici  tirano fuori le loro  supercazzole ideologiche per fregare gli omegastrategici nel sempiterno conflitto strategico fra gruppi con diverso livello di potere, una fregatura che oggi potrebbe avere come posta in gioco la distruzione dei gruppi omegastrategici stessi attraverso le prime fasi di un conflitto nucleare, prime fasi verso le quali i gruppi dirigenti avrebbero, c’è da scommetterlo, l’intelligenza e le risorse per mettersi al riparo in tempo mentre per i gruppi omegastrategici non ci sarebbe alcuno scampo se non raccomandare l’anima all’Altissimo (su questo punto Orsini è molto lucido: in polemica con Cacciari, per lui la guerra nucleare non significa distruzione di tutta l’Umanità ma, almeno all’inizio, distruzione delle classi più basse e subalterne della società: opinione banale, se vogliamo, ma di una banalità che è segno anche di anticonformismo e profondo realismo politico e sociale). Intanto, per quanto ci riguarda, teniamoci ben stretto, come il nostro (ed altrui, ce lo auguriamo) bene più prezioso la chiarezza terminologica e concettuale riguardo la condizione dell’Italia: l’Italia è stato cliente degli Stati Uniti e, come precedentemente detto, lungo questa consapevolezza si accettano suggerimenti, e perché no? anche dal nostro simpatico seppur non sempre del tutto conseguente prof. Orsini, al quale, comunque, va tutta la nostra solidarietà per i vili e stupidi attacchi ai quali è stato oggetto che testimoniano della sua libertà di studioso e che, ci auguriamo, porti ad una positiva evoluzione del suo pensiero. 

Fasi storiche e transizioni, di George Friedman

Fasi storiche e transizioni

Pensieri dentro e intorno alla geopolitica.

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Ho detto prima che il 1991 fu l’anno in cui un’era finì e ne iniziò un’altra. Nel 1991 l’Unione Sovietica crollò e fu firmato il trattato di Maastricht. Si verificò l’operazione Desert Storm e il miracolo economico giapponese crollò. L’era precedente era stata dominata dalla Guerra Fredda, un confronto ideologico e strategico globale tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. La maggior parte degli eventi globali rientra da qualche parte in quel paradigma.

L’essenza della nuova era era racchiusa nell’Unione Europea, emersa dalla paura di un’altra guerra europea e dalla convinzione che la guerra fosse obsoleta e che il sistema globale fosse ora principalmente una questione economica. Questa era aveva anche altre dimensioni. Desert Storm ha dato energia al fondamentalismo islamico e ha innescato decenni di guerra al terrorismo. Il declino del Giappone ha fatto spazio all’ascesa della Cina. La nuova era non riguardava il potenziale di guerra nucleare nella lotta bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma piuttosto il declino dei confini nazionali e il primato del commercio internazionale.

A mio avviso, l’invasione russa dell’Ucraina segna una nuova era, la cui forma non è ancora chiara. Ovviamente, la guerra è tornata come fattore primario, ma forse più importante, l’uso della guerra economica da parte degli Stati Uniti e la resurrezione delle istituzioni della Guerra Fredda segnalano un nuovo modo di usare l’economia: dalla fede nell’economia globale che arricchisce il mondo all’uso dell’economia globale come strumento di guerra. Questo deve essere preliminare perché abbiamo visto solo l’Ucraina e forse il COVID-19 come indicatori di questo cambiamento.

La vita umana è costruita su modelli: nascita, infanzia, età adulta, riproduzione e uscita. Se la vita di un essere umano è ordinata nelle sue grandi linee, mi sembra strano pensare che la vita della società umana sia casuale. Quindi, forse passo troppo del mio tempo a cercare quei modelli, una teoria sul campo dell’umanità. Guardando al 1991 e a ciò che si sta svolgendo ora davanti a noi, ho deciso di provare a dare una rapida mano all’analisi della storia umana degli ultimi 200 anni circa. Di seguito hai il mio primo, e probabilmente cotto a metà, tagliato a questo. Il suo uso non è semplicemente trovare l’ordine nella storia, sebbene ciò abbia importanza. Il suo potenziale utilizzo potrebbe essere che nel trovare l’ordine, i colpi strazianti e psicologicamente destabilizzanti inflitti dai cambiamenti potrebbero essere mitigati. Ovviamente, pensieri così grandiosi devono seguire la domanda se l’ordine che sto presentando è reale o semplicemente un’illusione che ho creato, con confini che sono chiari solo nella mia testa. Normalmente non presento idee minimamente ponderate (alcuni potrebbero discuterne), ma in questo caso ho pensato che potesse avere un certo valore. È qualcosa con cui gioco da tempo, ma sembra particolarmente significativo nel 2022. Non ho cercato di includere gli eventi di transizione come ho fatto nel 1991 ma semplicemente di identificare i punti di transizione.

Ciò è fortemente incentrato sull’Europa, con menzioni minime di altri continenti, ma ciò è dovuto al fatto che la storia globale è stata forgiata e dominata dall’Europa negli ultimi 200 anni circa, transitando in altri paesi come driver solo in epoche successive.

Cinque epoche di storia dal 1789 e la sesta emergente

1. 1789-1858 (69 anni): Il repubblicanesimo sfida i regni d’Europa

Questa epoca inizia con la Rivoluzione francese e l’ascesa di un tentativo di rimodellare l’Europa in un’unica entità. Emerse una cultura di stati-nazione governati liberamente, con il declino del vecchio ordine politico e sociale europeo.

2. 1858-1914 (56 anni): gli imperi europei dominano il globo

Il 1858 segnò l’istituzione del Raj britannico in India e un punto definitivo in cui gran parte del mondo, già sotto l’intrusione e l’assalto europeo, si trovò avvolta nell’imperialismo europeo, dove prima c’erano assalti ma nessun sistema imperiale sistematico. Laddove la Francia definì l’epoca precedente, la Gran Bretagna definì questa.

3. 1914-1945 (31 anni): l’Europa si fa a pezzi, emergono gli USA

Questa epoca fu dominata dalle guerre europee che portarono all’emergere degli Stati Uniti come forza economica e militare dominante e al crollo del
sistema imperiale britannico.

4. 1945-1991 (46 anni): Due ideologie dell’Illuminismo diventano geopolitiche

Questo periodo è stato dominato dalla lotta USA-URSS incentrata sull’Europa ma combattuta a livello globale. La paura globale era di una guerra nucleare, ma la realtà globale era che il modello economico e tecnico americano dominava gran parte del mondo, soppiantando la cultura dell’imperialismo europeo.

5. 1991-2022 (31 anni): trionfo americano e fantasia di pace e prosperità globale

6. 2022-????

Quando guardiamo alle epoche precedenti, siamo colpiti dalla discontinuità. L’egocentrismo europeo è sostituito dall’ossessione europea per il mondo. L’ossessione europea per il mondo è sostituita dalla subordinazione europea agli Stati Uniti. Lo scontro militare ideologico della Guerra Fredda è sostituito da un’ideologia globalista.

Separando le epoche, non è semplicemente che un conflitto è finito ed è emerso un nuovo potere, ma piuttosto è cambiata la realtà fondamentale del mondo. La cosa più importante della Guerra Fredda non è stata la vittoria degli Stati Uniti, ma la creazione di una concezione completamente nuova del mondo. A partire dalla Rivoluzione francese, le certezze del mondo cambiarono drasticamente ogni generazione o due.

Se questo è vero, definire quale paese sale o scende, sebbene necessario, non è sufficiente. Se la guerra in Ucraina definisce la fine della quinta era, un ritorno a una guerra fredda multigenerazionale tra Stati Uniti e Russia come principio determinante dell’epoca è il risultato meno probabile. La fine della Guerra Fredda ha portato giocatori molto diversi a giocare a un gioco molto diverso.

Continuo a guardare la sequenza e mi rendo conto che ogni epoca era una realtà fondamentalmente diversa. E la cosa più sorprendente è la velocità con cui si evolve. Quando guardo altre volte, i cambiamenti su questo ordine dopo una o due generazioni non si verificano. Ora appare con regolarità. Alcuni direbbero che è tecnologia, ma non credo. La tecnologia ha una base nell’Illuminismo e l’illuminazione è una cultura infelice, che desidera sempre qualcosa di nuovo e di migliore. La tecnologia è semplicemente parte di questa cultura.

Il punto cruciale è che all’interno di un’epoca c’è un tema generale che si ripete costantemente. Nella quarta epoca ci fu la Guerra Fredda, la terza guerra europea e mondiale. Il quinto ha visto il declino delle nazioni a favore dell’economia. La differenza tra le epoche è sorprendente e improvvisa. Se ho ragione, siamo appena oltre la soglia della sesta epoca, la cui forma potrebbe essere distinguibile se questo modello diventasse molto più completo e significativo. A guardare il modello, questi elementi sembrano ovvi e non hanno segreti. Ma è ovvio perché tutti conosciamo questa storia e non abbiamo guardato attentamente sotto il cofano. Sto cercando di trovare il fermo sul cofano, ancora lontano dallo sguardo attento. I primi pensieri, a lungo borbottati.

https://geopoliticalfutures.com/historical-phases-and-transitions/

Geopolitica della Russia_da Geopolitical Future

Un saggio senza dubbio interessante, ma con alcuni punti da chiarire:

  • la relativa debolezza della Russia rispetto alla relativa forza degli Stati Uniti e la compatezza e forza dei diversi sistemi di alleanza e cooperazione in via di formazione
  • la postura globale o prevalentemente locale della visione geopolitica russa rispetto a quella occidentale
  • la constatazione che comunque la Russia è una potenza nucleare di prim’ordine con un potere grandissimo di deterrenza
  • le alternative geopolitiche e geoeconomiche possibili della Russia rispetto a quelle del mondo occidentale.

Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il presidente russo Vladimir Putin ha descritto il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 come “la più grande catastrofe politica” del XX secolo. A quelli fuori dalla Russia può suonare come un’iperbole, ma per chi ci ha vissuto è una storia diversa. In breve tempo, hanno assistito al loro governo a Mosca, una potenza alla pari con gli Stati Uniti per quasi cinque decenni, perdere l’equilibrio e non riprendersi mai completamente. La Russia divenne indigente, persino senza scopo.
Il crollo dell’Unione è stato così traumatico che continua a definire l’identità della Russia di oggi.
E anche se il paese è rimasto formidabile nel suo vicino estero, è meno capace di una volta nel garantire i suoi interessi nazionali più lontani. Per capire perché è così, dobbiamo iniziare guardando una mappa.

Geografia, o i pericoli dell’Occidente

In effetti, la sfida più fondamentale e strategica della Russia – nelle sue due dimensioni internazionali e domestiche – deriva dalla geografia del paese. La gran parte del territorio russo si trova tra i 50 gradi e 70 gradi di latitudine. Per comparazione, la latitudine di Londra è di circa 51 gradi, quella di Berlino ha 52 gradi e quello di Ottawa 45. Il clima della Russia è generalmente fresco, e la vegetazione e l’uomo nel loro ciclo vitale tendono ad abitare aree che sono al di sotto dei 60 gradi di latitudine. Il cuore dell’agricoltura russa si trova a sud-ovest, lungo i suoi confini
con Ucraina, Caucaso e Kazakistan. Il clima e l’agricoltura spiegano molto dei motivi per i quali tre quarti della popolazione vive nella zona tra il confine della Russia con l’Europa e gli Urali. Le città più cruciali del paese, tra cui la sede del suo governo, inoltre, sono tutte vicine all’Europa. La Russia ha pochi fiumi, e quelli che ha fluiscono principalmente verso ovest, rendendo difficoltoso trasportare merci lungo il territorio nazionale.
La Russia compensa questi svantaggi naturali affidandosi alle ferrovie, che ulteriormente evidenziano l’importanza dell’occidente e delle regioni meridionali. Ed è così che la Russia è sproporzionatamente preoccupata – e in pericolo – per i suoi tratti occidentali.
In quanto potenza terrestre, la Russia è intrinsecamente vulnerabile.
Il suo confine con l’Europa è estremamente suscettibile all’invasione, situata com’è sulla pianura nord europea. Questa distesa piatta di terra inizia in Germania e, appena ad est dei Carpazi, ruota verso sud, aprendo proprio alle porte della Russia. Storicamente, è stata un’importante arteria di invasione militare occidentale. Poiché i nemici della Russia lo hanno fatto così spesso utilizzando questa rotta di invasione, Mosca ha provato a rendere più difficile per gli invasori raggiungere il suo territorio spingendo i confini della Russia il

più a ovest possibile. Quando i confini nazionali non potevano essere estesi, Mosca ha stabilito zone cuscinetto tra il nucleo della Russia e il resto della Europa. Al culmine dell’Unione Sovietica, Mosca ha goduto di un ampio zona-cuscinetto che si estendeva bene nell’Europa centrale.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, però, la Russia ha perso la maggior parte di questi territori
e da allora è sulla difensiva. Considera che nel 1989 San Pietroburgo era a circa 1.000 miglia dalle truppe NATO. Adesso quella distanza è di circa 200 miglia.

UNA CONCENTRAZIONE DI RICCHEZZA

La geografia russa presenta una sfida si troppo evidente: chi governa il Paese deve gestire il paese più grande del mondo, che comprende popoli molto diversi, clima, risorse naturali e reti di infrastrutture. la Federazione Russa è composta da 85 soggetti federali che consistono amministrativamente in strutture che vanno da regioni autonome e repubbliche alle singole città. Di conseguenza, la Russia ospita economie altamente regionalizzate in cui ricchezza e prosperità sono distribuite in modo non uniforme.
La ricchezza è concentrata in Occidente, in particolare a Mosca e nel Distretto Federale Centrale.
In tempi di prosperità, la disparità economica può essere rappezzata e la pressione nei distretti ad alto reddito si allevia abbastanza facilmente.
Ma in tempi di costrizione economica, come è successo quando i prezzi del petrolio sono scesi alla fine del 2014, il governo centrale deve far fronte alla pressione sociale dei distretti più poveri dell’interno.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, che lo sviluppo economico della Russia sia stato dalla fine della Guerra Fredda così irregolare. Gli anni ’90 erano dedicati alla sopravvivenza, non alla crescita economica. Le riforme del decennio erano finalizzate a una cosa: prevenire il ritorno della Russia al regime comunista.
La maggior parte dei russi viveva in condizioni di povertà o quasi; la maggior parte delle imprese statali sono state privatizzate – in offerta. La crisi finanziaria russa del 1998 e le proteste associate hanno portato a un grande cambiamento. Le persone erano pronte ad accettare un governo forte e così ha accolto con favore un sovrano più forte.
Entra in campo Vladimir Putin, che ha cercato di aggiustare l’economia e poi ricostruire il governo.
Da allora, lo sviluppo della Russia è stato basato sulle esportazioni di energia, che a loro volta hanno alimentato il bilancio della spesa e dei consumi.

Questo ha funzionato abbastanza bene quando i prezzi dell’energia erano alti. Ma quando cadono, cadono anche le entrate russe. Questo porta inevitabilmente a periodiche recessioni economiche. Dal 2015 al 2017, per esempio, i cittadini hanno protestato contro la disoccupazione, i salari bloccati, i tagli ai programmi di governo, salari reali più bassi, fallimento e frustrazione generale con standard di vita ridotti. Le proteste erano limitate, ma potevano minacciare Putin a lungo termine. Adesso tocca alle sanzioni occidentali minacciare l’economia russa e una volta, ancora una volta, Putin non deve solo mantenere il controllo ma mostrare anche alle persone che sta rispondendo ai loro bisogni.
Il modo in cui lo ha fatto è erigere un doppio livello del sistema economico. Controlla un livello attraverso la sua “cerchia ristretta”, che sono le aziende di proprietà statale, mentre l’altro livello è soggetto alle leggi del libero mercato. Quelle gestite dallo stato costituiscono circa un quinto della economia russa. Il popolo russo ancora sostiene Putin – e potrebbero anche fidarsi di lui – ma considerano oligarchi e amministratori regionali come persone corrotte. Il presidente deve contemperare i bisogni del suo popolo e i bisogni delle aziende che sostengono l’economia. Nel 2001 si è schierato con il popolo, ha condotto una campagna contro gli oligarchi per poi prendere il controllo dei media e delle aziende energia energetiche.

Ha anche riorganizzato parte dello stato e le agenzie di sicurezza che aiutano a mantenere l’ordine.
Ha istituito la Guardia Nazionale, che unifica diverse forze di sicurezza interna sotto il controllo diretto del presidente.
Lo scopo dichiarato delle truppe è quello di proteggere l’ordine pubblico, combattere l’estremismo, proteggere le figure e le strutture del governo, aiutare a proteggere il
confine e controllare il commercio di armi. Ha inoltre ins
ediato funzionari fedeli al suo governo
in luoghi importanti. Ad esempio, tra
il 2017 e il 2018, ha rimosso 16 generali dai loro incarichi presso il Ministero della Protezione Civile, le Emergenze ed eliminazione delle conseguenze
dei disastri nazionali; un corpo responsabile della risposta alla protezione civile,
ai disordini pubblici e proteste, all’interno del Ministero, sostituendoli con funzionari selezionati personalmente. I licenziamenti in primis hanno colpito il Caucaso, l’Estremo Oriente e città alla portata di Mosca – città dove, fino alla fine del 2017, era stato segnalato un aumento dei disordini.

Tutta la politica è locale

Politicamente, il governo russo sotto Putin ha consolidato il suo potere abbastanza presto.
Sotto la sua amministrazione, i partiti politici sono relativamente poco importanti; il sistema favorisce i partiti filo-Cremlino. Partiti che non supportano il governo hanno poche possibilità di ottenere seggi alla Duma, la camera bassa del parlamento. Nel 2000, a breve dopo aver assunto la sua prima presidenza, Putin in realtà ha ridotto il numero dei partiti rappresentati alla Duma. Nel 2012, l’allora Presidente Dmitri Medvedev sembrava fare marcia indietro su questa mossa approvando una legge che semplificava le procedure di registrazione per i partiti politici. Sulla carta, la nuova normativa intendeva aprire il sistema dei partiti a gruppi di interesse alternativi. In pratica, il sistema è rimasto chiuso.
Cinque partiti politici, tutti filogovernativi in una certa misura, attualmente dominano la Duma. Russia Unita, il partito di Putin, detiene 323 seggi su 450, facendo quello che dice Putin di fare. Il Partito Comunista (57), il Partito Democratico Liberale(23), Una Russia Giusta(27) e New People Party (14) detengono i posti rimanenti. Gli ultimi quattro partiti non sono visti come partiti ufficiali filo-governativi e quindi rappresentano almeno in parte l’opposizione. In particolare, il termine “opposizione” è usato liberamente; i rappresentanti raramente sfidano le iniziative guidate da Putin.

Voti espressi dai funzionari di questi partiti riflette un disaccordo con Russia unita e la burocrazia allo stesso tempo rimane fedele al presidente e al sistema. Hanno una certa distanza dal regime, ma non vi si oppone apertamente.
Putin ha anche consolidato il potere politico con l’epurazione dei governatori russi: un aspetto importante, considerando il rapporto tra governatori e membri del governo nazionale.
Spesso lavorano insieme, dipendono l’uno dall’altro e hanno cura degli interessi reciproci. Sono state reintrodotte le elezioni governative nel 2012, ma mentre la legge da reintrodurre si stava facendo strada nel sistema, più di 20 governatori erano riconfermati dal Cremlino, ritardando le elezioni in queste località fino al 2017. Poi, nel 2013 Putin ha firmato una legge regionale che ha permesso elezioni per decidere tra l’elezione diretta dei governatori o avere l’elezione regionale con seleziona e nomina di un governatore da una breve lista stilata da Putin.
I governatori regionali, a loro volta, svolgono un ruolo nel nominare membri del Consiglio della Federazione Russa, la camera alta del parlamento.
Il consiglio è composto da due rappresentanti eletti da ciascuna delle 83 entità federali della Russia. Un rappresentante è scelto dal legislatore regionale
e uno è selezionato dal governatore della regione. La lunghezza del mandato varia con l’entità federale. Costruito dentro questo sistema è un livello di reciprocità tra
governatore e presidente, abilitando ulteriormente Putin nell’esercizio di influenza. È in grado di garantire che un candidato ottenga una carica di governatore,e in cambio, il governatore può
nominare un membro pro-Cremlino al consiglio.

Questa relazione diventa ancora più importante considerando che il consiglio approva i decreti presidenziali di legge marziale, dichiara lo stato di emergenza, schiera truppe all’estero, sovrintende alla nomina presidenziale del procuratore generale e decide l’impeachment e i verdetti.
Putin ha dedicato gran parte della sua politica, di capitali e risorse per consolidare il suo potere attraverso le riforme inel governo dei vari organi di sicurezza. Ricostruendo il suo cerchio interno e rinnovando la struttura del potere, Putin ha dimostrato che ha bisogno di estendere la sua rete per garantire che decreti e politiche siano attuati correttamente e che i dissidenti restino messi a tacere.

Il fulcro della sua politica estera

Gran parte delle macchinazioni politiche di Putin, tuttavia, hanno lo scopo di perpetuare un mito all’estero. Il mito che la Russia sia forte quanto sembra. Senza la capacità di agire in modo altrettanto deciso come poteva fare durante la Guerra Fredda, in Russia è relegato a concentrarsi sul proprio cortile.
Le vulnerabilità lungo il suo confine occidentale costringono la Russia a mantenere un forte punto d’appoggio in Ucraina e Bielorussia. La Russia ha bisogno di questi due paesi per isolarlo dalle minacce esterne. Anche se la Bielorussia è rimasta saldamente all’interno della sfera di influenza della Russia nell’era post-sovietica, l’Ucraina no. Dopo che i sostenitori filo-occidentali hanno rovesciato il governo amico della Russia a Kiev, Mosca non aveva altra scelta che rispondere con forza. Sin dall’inizio del 2014 ha conquistato la penisola di Crimea e ha inviato truppe e rifornimenti ai ribelli pro-Russia che combattono nell’Ucraina orientale.
La Crimea è stata annessa in parte per garantire un punto d’appoggio in Ucraina e in parte per mettere in sicurezza il porto di Sebastopoli, sede della flotta del Mar Nero.
La marina russa è composta principalmente da quattro principali flotte – il Nord, il Baltico, il Mar Nero e Pacifico. I primi tre sono tutti basati sulla parte europea della Russia e sono vincolati da importanti strozzature che ne limitano l’accesso alle acque aperte. Dal momento che gran parte della Russia è senza sbocco sul mare, la perdita o la compromissione dei porti e del quartier generale per ognuno di queste flotte ridurrebbero gravemente il potere della flotta russa e incidono negativamente sul commercio marittimo.

Dal Mar Nero, attraverso il Bosforo, la Russia ottiene l’accesso al Mediterraneo e da lì l’Atlantico.
Nonostante tutto, l’Ucraina è rimasta la priorità assoluta della Russia e il fulcro della sua politica estera. La Russia post-sovietica non aveva nessuno né le risorse né i mezzi per riprendere l’Ucraina. Il potere ridotto della Russia ha forzato Mosca per adottare una strategia di disgregazione globale che mirava principalmente agli Stati Uniti. (La loro rivalità è un elemento dell’era della Guerra Fredda che rimane intatta.) Mosca lo ha fatto in modo più visibile in Siria, dove ha funzionato per sfruttare la sua influenza nella risoluzione del conflitto con un risultato più vantaggioso verso gli Stati Uniti che sull’Ucraina, anche se è stata parte attiva anche in Venezuela e Corea del Nord.
Ad esempio, a metà del 2013 si è inserita la Russia stessa nella crisi internazionale negoziando un accordo per distruggere il programma siriano di armi chimiche. Nello stesso anno, le proteste dell’Euromaidan in Ucraina hanno estromesso il Governo favorevole alla Russia a Kiev e sostituito esso con uno che ha favorito l’Occidente. In una posizione molto più debole di quella di pochi mesi prima, la Russia si rivolse ancora una volta al conflitto in Siria. Dopo aver rimodellato le percezioni del potere russo, rafforzando la posizione delle forze e dei suggerimenti di Assad nei negoziati con gli Stati Uniti, il limitato intervento siriano limitato ha ampiamente soddisfatto lo scopo strategico della Russia.
Recentemente la Russia ha deviato dalla globale strategia di interdizione e ha invaso l’Ucraina.
La mossa ha rivitalizzato la NATO e in generale la relazione USA-Europa. Mentre l’Occidente non si è impegnato direttamente in un’azione militare con la Russia in Ucraina, ha però fornito significativo supporto logistico e militare all’Ucraina.

In aggiunta l’Occidente ha applicato severe sanzioni contro la Russia, isolando il Paese da gran parte dell’economia globale. La Nato ha anche aumentato le rotazioni delle sue truppe, incrementato difesa e dispiegamento di sistemi d’arma lungo il fianco orientale della NATO. Per la Russia, l’aumento della presenza della NATO – e in particolare quella degli Stati Uniti – nel suo cortile costituisce una grave minaccia.

È una minaccia che non può gestire completamente. A più di 30 anni dal crollo dell’Unione Sovietica, la Russia sta ancora cercando di trovare la sua strada. Nella vita delle nazioni, 30 anni non sono così lunghi nel tempo, e la caduta degli imperi tende a risuonare per anni dopo. Inoltre, l’economia Russa dopo la pandemia ora deve affrontare gli ulteriori vincoli di sanzioni di vasta portata
Ciò è particolarmente problematico in una regione complessa e pericolosa come quella russa; una regione in cui apparire debole può essere una minaccia altrettanto grande che essere debole. La Russia deve contemporaneamente cercare di apparire più potente di quel che è e gestire meticolosamente la potenza che ha. Ma il vero potere è durevole. Le illusioni sono effimere. Azioni intraprese dalle nazioni deboli, progettate per farle apparire più forti quasi sempre falliscono nel lungo periodo.

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SANZIONI ED ETEROGENESI DEI FINI, di Teodoro Klitsche de la Grange

Dall’inizio del conflitto russo-ucraino i mass-media mainstream (ossia la grande maggioranza) esaltano l’efficacia delle sanzioni decise – in particolare quelle dell’U.E..

Questo toccandone ogni possibile aspetto e conseguenza. Si legge con piglio giustizial-populista, che sono sequestrati i panfili degli oligarchi. Ma come ciò possa danneggiare il tenore di vita della stragrande maggioranza dei russi che quei panfili li hanno visti solo in cartolina, non si comprende; e ancor meno come, da ciò, possa diminuire il consenso popolare a Putin. Piuttosto potrebbe farlo – e probabilmente lo può – l’aumento delle perdite umane provocate dal proseguire della guerra. Parimenti non è chiaro se il divieto di vendere mocassini, prosecco e parmigiano ai russi possa creare problemi a Putin; casomai li crea ai produttori italiani.

Certo sanzionare le importazioni di petrolio e gas problemi seri allo Zar li può provocare: solo che perché la minaccia diventi efficace occorrono anni. Nel frattempo Putin concluderà la guerra e le sanzioni saranno inutili.

D’altra parte nel secolo scorso l’efficacia delle sanzioni economiche per dissuadere dall’aggressione o comunque coartare la volontà del sanzionato è stata – per lo più – minima.

A partire da quelle applicate all’Italia perla guerra d’Etiopia, fino al caso della piccola Cuba che ha resistito per diversi decenni alle misure economiche degli U.S.A., e conservato il proprio regime nemico degli Yanquis; permettendosi anche qualche intervento all’estero (a dispetto degli americani, e, ovviamente sollecitato dai sovietici). Se ci si chiede il perché, data la sproporzione dei mezzi (tra sanzionanti e sanzionati) i risultati siano stati così modesti, occorre, principalmente, rifarsi a due ragioni.

La prima: che la guerra reale è condizionata, limitata ad un obiettivo politico. Vince chi lo consegue, perde chi non lo raggiunge. Occorre pertanto che per dissuadere l’aggressore le sanzioni siano efficaci nel lasso di tempo decorrente tra inizio e conclusione della guerra. Nel caso ad esempio della guerra di Etiopia, le sanzioni all’Italia durarono poco più di sette mesi e furono revocate due mesi dopo la caduta di Addis Abeba. Ma non avevano né influito sulle operazioni né distolto Mussolini dall’obiettivo politico (la conquista dell’Etiopia). Conseguito il quale diventavano inutili.

La seconda: per essere efficaci le sanzioni devono essere applicate da quanti più soggetti, di guisa da non lasciare alternativa al sanzionato. Quelle per la guerra d’Etiopia furono inefficaci perché, per diverse ragioni, Germania, U.S.A. e perfino alcuni Stati che le avevano deliberate non le applicarono o lo fecero parzialmente e distrattamente. Lo zucchero cubano, nell’altro caso ricordato, trovò un acquirente interessato nell’Unione sovietica e Stati satelliti.

Al contrario l’embargo deciso da U.S.A., Gran Bretagna e Olanda contro il Giappone nel luglio del 1941 era estremamente efficace, perché il Giappone non poteva trovare delle possibili sostituzioni alle materie prime che venivano a mancare, petrolio in primo luogo.

I militari giapponesi stimavano che il petrolio accumulato o comunque disponibile non sarebbe durato più di due anni: entro quel termine avrebbero dovuto cessare l’aggressione alla Cina e l’occupazione dell’Indocina. La guerra scoppiò meno di sei mesi dopo. Il principale (se non unico) caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso ebbe il risultato di dar inizio ad una guerra nuova, e non di concludere quella in corso. Cioè raggiunse l’obiettivo opposto alle intenzioni proclamate: costituendo così caso da manuale di eterogenesi dei fini (esternati).

Cambiando angolo visuale sopravvalutare l’effetto delle sanzioni è un errore di valutazione che consegue alla sopravvalutazione dell’elemento economico in un ambito essenzialmente politico com’è la guerra. Il discorso relativo è di un’ampiezza da non poter essere contenuto in un articolo. Sta di fatto che l’esito della guerra – salvo il “caso” ricordato da Clausewitz – dipende da una serie di fattori, fattori di potenza. Ossia idonei a far prevalere la propria volontà su altri, o, all’inverso, di non far prevalere quella degli altri sulla propria. Ambedue condizionate dall’obiettivo politico della guerra (o della pace). Nel caso più frequente alle volte conseguirlo esige di vincere (sul piano militare) la guerra, in altri di non perderla. Allo scopo i fattori di potenza (economico, militare, organizzativo, anche costituzionale) non è solo il primo. Anzi possono essere compensati da altri. Nella guerra dei sette anni, la Prussia, piccola ma dotata di un grande esercito guidato dal miglior generale dell’epoca – ed alleata ed aiutata dalla Gran Bretagna – riuscì a realizzare l’obiettivo di non soccombere ai tre più potenti Stati continentali dell’epoca: Francia, Austria e Russia, dotati di risorse economiche, finanziarie e demografiche superiori di circa 20 volte a quelle di Federico II. Nel XX secolo le guerre rivoluzionarie di liberazione – asimmetriche in sé – hanno mostrato come popoli colonizzati, poveri ed arretrati hanno raggiunto l’indipendenza dagli Stati colonizzatori, malgrado la disparità anche nei mezzi militari. Questo essenzialmente per il loro obiettivo politico (l’indipendenza), la determinazione nel perseguirlo nonostante danni e perdite, e la coesione realizzata allo scopo. Dalla parte dei colonizzatori, dove l’interesse economico era prevalente e richiedeva il controllo del territorio coloniale, il costo delle guerre si rivelò superiore ai benefici dell’occupazione (onde preferirono concedere l’indipendenza). Cioè opera in senso inverso alla logica economicistica e quantitativa. Logica che avrebbe avuto un ruolo sicuramente più ampio e di “successo”, in stato di pace. Per cui, dati i risultati delle sanzioni efficaci (cioè Pearl Harbour) c’è da augurarsi che, ai fini della pace, quelli delle sanzioni U.E. lo siano il meno possibile.

Teodoro Klitsche de la Grange

Grammatica del costituzionalismo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., Grammatica del costituzionalismo, a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 338, € 24,00.

Occorre una premessa: il costituzionalismo di cui tratta questa raccolta di saggi non è una dottrina della costituzione quale connotato necessario dello Stato, cioè indipendentemente dalla natura del regime politico, come scrivevano tanti pensatori, a partire da de Bonald per arrivare a Santi Romano. Secondo i quali ogni Stato per il solo fatto di esistere è una costituzione; e se non l’avesse non verrebbe neanche ad esistenza. Ogni Stato così non ha ma è un ordinamento giuridico (Santi Romano).

Come chiariscono gli autori, se “tutti i paesi del mondo hanno una Costituzione, e cioè un regime politico ispirato a taluni principi fondamentali, solo alcuni di essi hanno norme giuridiche fondamentali che riproducono i valori del costituzionalismo”. E quindi un costituzionalismo “ideologico” basato sull’art. 16 della Dichiarazione “dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo cui «la società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione» o, meglio, non ha una Costituzione ispirata alle idee e ai principi del costituzionalismo liberaldemocratico”.

Questo era stato rilevato da Carl Schmitt nella Verfassungslehre, che lo riconduceva al concetto ideale di Costituzione, in particolare allo Stato borghese onde “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII secolo sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà”. I principi fondamentali dello Stato borghese di diritto sono la tutela della libertà individuale e dei diritti conseguenti; la distinzione dei poteri – nel senso di Montesquieu – quale principio di organizzazione dello Stato. Questo non esaurisce il “contenuto” dello Stato di diritto: la preminenza della legge (e del principio di legalità); lo stesso concetto di legge come regola generale, astratta o misurabile; l’indipendenza dei giudici, il sindacato del Giudice sugli atti amministrativi, ne sono i corollari fondamentali.

L’insieme dei principi (e corollari) crea l’architettura costituzionale avente il comune denominatore e scopo nell’istituire dei limiti al potere. Distinzione dei poteri, controllo giurisdizionale, indipendenza dei Giudici, concetto borghese di legge sono i pilastri (e i tramezzi) che danno forma alla limitazione del potere pubblico, pur riconoscendone la necessità ed insostituibilità.

Ciò stante il lavoro degli autori del volume, così attento ed apprezzabile, appare implementabile nella trattazione dei suddetti pilastri e tramezzi. In particolare in relazione alla giustizia amministrativa, alla “parità” delle parti pubblica e privata, all’indipendenza delle Corti.

Nell’auspicio che sia seguito da un’edizione arricchita, se ne consiglia la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

REGNUM CLIENS, di Massimo Morigi

REGNUM CLIENS

Una precisazione (e per aprire una nuova fase) non solo della nostra discussione ma anche presso coloro che sentono insopportabili gli odierni vincoli internazionali cui è sottoposto il nostro paese, una proposta terminologica : l’Italia non è un paese alleato degli Stati uniti con scarsissima voce in capitolo in merito alle decisioni strategiche che lo riguardano, l’Italia non ha alcuna voce in capitolo non solo riguardo a queste decisioni strategiche, l’Italia non ha nemmeno alcuna voce in capitolo riguardo alle decisioni economico-produttive che impattano direttamente sulla vita dei suoi cittadini e ne configurano il suo assetto nell’economia del c.d. occidente, talché è totalmente fuorviante sostenere che l’Italia è il membro più debole di un’alleanza dove gli Stati unti sono il fratello maggiore, l’Italia non può quindi essere definito un alleato più o meno sottomesso vista questa disparità di forze ma la giusta definizione é Ital ia stato cliente degli Stati uniti, recuperando così la definizione di “regnum cliens” impiegato dai Romani, col la quale essi designavano quegli stati che formalmente avevano una vita politica autonoma (potevano avere una loro autonoma gerarchia politica purché non si mettesse di traverso a Roma) ma dovevano versare tributi a Roma e, all’occorrenza, fornire manovalanza militare. E si sottolinea un ulteriore fatto. Tale stato di “clientelaggio” dell’Italia verso gli Stati uniti è un’assoluta novità, anche se, ovviamente , le premesse c’erano tutte nella natura di un’alleanza squilibrata che, dopo, la fine della guerra fredda non poteva che evolversi, in mancanza di una reale discussione ed elaborazione da parte dei centri strategici nazionali (figurarsi!, vero La Grassa?) sulla mutata situazione internazionale (da questo punto di vista l’odierna situazione italiana è peggiore, molto peggiore, di quella preunitaria, laddove in quel periodo della nostra stor ia l’Italia era divisa in piccoli stati, alcuni clienti dell’Austria, ma altri, vedi il Piemonte e lo Stato della Chiesa avevano una loro individualità che, sebbene a fatica, si opponeva, se necessario e talvolta con estrema violenza, ai diktat della potenza egemone sul nostro territorio). Per concludere e per porre chiaramente una nostra primazia, nostra dell’ “Italia e il mondo”, voglio dire. La conclusione è che l’Italia adottando le scriteriate sanzioni antirusse imposte dall’America si è definitivamente trasformata da alleata degli Stati uniti in un “regnum cliens” degli stessi. La primazia che l’ “Italia e il mondo” deve rivendicare rispetto non solo alle pseudoriviste di geopolitica, magari molto scaltrire promozionalmente ma la cui funzione è simile a quella che una volta si diceva della filosofia, cioè che la filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale tutto rimane tale e quale, ma soprattutto rispetto a tutti coloro, che nel passato come ancora oggi (oggi per la verità sempre più sparuti) si definiscono “sovranisti”, dove il problema non è tanto essere sovrani rispetto a tutto un resto del mondo che viene percepito ingenuamente come nostro nemico , ma il problema è, unicamente, uscire dalla condizione di “regnum cliens” degli Stati uniti. Chiarezza terminologica e chiarezza di obiettivi. Si accettano da tutti suggerimenti in proposito, ma dalla chiarezza concettuale e terminologica è indispensabile iniziare il percorso

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