Dal 3D al 5D e non mi riferisco alla cinematografia Di Claudio Martinotti Doria

Esco di casa sempre più raramente. Pur aggirandomi esclusivamente nell’area della riserva indigena provinciale dove risiedo, non ho potuto fare a meno di rilevare che ormai la conformazione sociale dell’ex homo sapiens geneticamente modificato da Big Pharma ha assunto tre connotazioni prevalenti:

–          La specie “faccia a scarpa” versione umana del Balaeniceps rex

–          La specie “occhio di cernia” versione umana del Polyprion americanus

–          La specie “zombie rallentato”, versione simile all’originale romeriano anni ‘60

Evitarli e impossibile. Interagire è difficile. Comunicare è irrilevante.

La celebre asserzione dantesca “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” è ormai solo un ricordo sbiadito, agli antipodi con l’attuale realtà dove ormai trionfano i bruti, soprattutto se portano una divisa o un camice e si sentono investiti dai gradi di caporale alla Totò, micropotere col quale poter sfogare la loro meschina frustrazione, nella peggiore delle ipotesi potranno sempre invocare l’attenuante che “stavano eseguendo degli ordini”.

Semmai andrebbe recuperata e valorizzata la premessa dantesca: “considerante la vostra s(c)emenza”

Ma cerchiamo di dettagliare meglio l’elencazione di cui sopra.

I faccia a scarpa versione umana sono in forte diminuzione, ma non a rischio di estinzione come il Balaeniceps rex. Probabilmente il calo è dovuto al fatto che il panico indotto mediaticamente e istituzionalmente sta perdendo efficacia e a portare la maschera o museruola sul viso rimangono solo quelli che già in precedenza la indossavano per motivi psicologici più che sanitari. Per nascondere le loro presunte bruttezze, per celare la loro identità, perché si sentono più a loro agio riducendo la loro timidezza e imbarazzo sociale, perché non prendono più il mal di gola e attribuiscono il merito al feticcio, ecc.. I motivi possono essere un’infinità, ma quello che duole all’osservatore obiettivo è rilevare che la maggioranza sono giovani, gli anziani gradualmente tornano alla normalità, i giovani meno, proprio non vogliono rinunciare a quel capo di abbigliamento.

I secondi in elenco, gli occhi di cernia, sono visibili e riconoscibili solo a distanza ravvicinata, anche se alcune caratteristiche comportamentali consentono di anticipare la loro identificazione. Non portano il feticcio in volto ma è come se lo portassero velato e invisibile sui loro occhi e il loro cervello, sul quale si dovrebbe indagare, magari anche solo con un EEG. Sono spenti nella loro vitalità e socialità, evitano di affrontare qualunque argomento delicato e vitale che possa compromettere il loro precario equilibrio esistenziale e porre in dubbio le loro scelte precedenti, privi di autocritica e capacità analitiche, preferiscono continuare a illudersi piuttosto che riconoscere la cruda realtà e affrontarla. Sono morti dentro, privi di prospettive, sperano sempre e comunque nell’intervento esterno di qualcuno che si occupi di loro e si lasciano trascinare dagli eventi, Probabilmente erano già così prima della modifica genetica subita da Big Pharma, questa loro connotazione si è solo accentuata, esasperata, fino a predisporli per il passaggio successivo, la zombificazione.

I terzi sono ormai completamente zombificati, proprio quelli dei primi film di Romero, sono cioè zombie romeriani, lenti e apparentemente innocui se si evita la distanza ravvicinata. Sono ancora in grado di emettere suoni, più o meno disarticolati, già in precedenza erano analfabeti funzionali gravi ma in qualche occasione riuscivano ancora ad articolare qualche semplice frase di senso compiuto, ora non più, al massimo ripetono a fatica e con qualche errore e omissione, quanto hanno sentito ripetutamente in televisione, qualche slogan propagandistico della narrativa ufficiale. Privi di pensiero autonomo attingono al pensiero unico elementare ultra semplificato e soprattutto duale, tipo buoni e cattivi, democrazia e dittatura, aggressore e aggredito, ecc., ovviamente senza sapere come attribuire in maniera appropriata la dualità ma delegando le istituzioni e i presunti esperti a farlo per loro.

In una simile condizione sociale ormai consolidata e destinata ad aggravarsi, paradossalmente per sapere come stanno realmente le cose occorre leggere alcuni romanzi, saggi, vedere film e serie tv di alcuni anni fa, nei quali trovi tutto quello che è accaduto recentemente e ti spiegano pure come lo avevano preparato da decenni, gli autori lo avevano previsto e anticipato e comunicato come potevano, con la loro arte, l’unica che poteva passare la censura. Gli sprovveduti che ancora guardano la tv pensano che sia solo fiction, e che la tv dei telegiornali riporti la realtà, mentre è il contrario, la fiction riporta i fatti e la tv (informativa e d’intrattenimento) riporta menzogne manipolatorie e mistificatorie e la propaganda (che è menzogna più sofisticata).

Se nel mondo cinematografico si è diffusa la tecnologia 3D mentre la 4D molto più complessa e costosa è limitata soprattutto ai parchi divertimenti, nella realtà che viviamo, da alcuni anni è stata ormai implementata la tecnica degli effetti speciali 5D, solo che molti non se ne sono ancora accorti. Lo scopo delle prima due è di rendere il più realistico possibile quanto si propone come fiction al pubblico pagante, in modo da intensificare le emozioni indotte nello spettatore come fosse coprotagonista del film. Ma il massimo successo, le élite che dominano il pianeta (i burattinai)  lo hanno ottenuto nella realtà stessa tramite le tecniche complesse e multidisciplinari del 5D, ottenendo in brevissimo tempo: Dispotismo, Distopia, Delirio, Demenza, Disimpegno, in quasi tutta la società cosiddetta occidentale e alcune sue colonie in vari continenti, soprattutto nei paesi dove si è accentuata la sperimentazione, Italia in primis, seguita non a caso da alcuni paesi anglofoni, come il Canada, Australia e Nuova Zelanda, oltre a parecchi stati degli USA, controllati dai DEM.

I burattinai avevano pianificato da parecchi anni questi esperimenti e li avevano anche comunicati anticipatamente in vari modi, persino pubblicandoli in alcuni siti d’istituzioni e organizzazioni facenti parte della piramide di potere, ma nell’eccesso di informazione (disinformazione) disponibile la dispersione è inevitabile e solo pochissimi si erano resi conto di quello che stava per accadere o stava accadendo e invano hanno cercato di trasmettere i loro sospetti a quante più persone possibili.

Gli episodi che caratterizzano questo successo del 5D sono molteplici e interconnessi, ma i fenomeni principali ovviamente sono due, che pur dissimili nelle modalità sono simili nella sostanza finalizzata, il primo è stata la psicopandemia e il secondo la guerra in Ucraina, entrambe provocate artatamente dai burattinai dell’élite dominante. Entrambi i fenomeni indotti sono stati gestiti con gli stessi criteri manipolativi seppur con altri complici, ma sempre sfruttando il completo controllo del potere mediatico.

Un piano del genere poteva essere eseguito solo con la partecipazione di centinaia di migliaia di complici a tutti i livelli istituzionali e gerarchici, sia tramite la corruzione, che l’intimidazione, la minaccia, il ricatto, il condizionamento, il mobbing, ecc.. Soprattutto efficace si è come sempre rivelato il divide et impera, la psicologia di massa e di gregge, la propaganda, il marketing, l’ideologia, l’indottrinamento, la narrazione unica mediatica, la menzogna ripetuta all’infinito, la negazione, la censura, ecc.. Tutte tecniche ormai collaudate da tempo immemore, tutte applicate in simultanea.

Il successo è stato tale che i burattini non si sono mai sentiti manipolati neanche per un attimo, finché hanno iniziato nelle loro stesse famiglie e in loro stessi, ad avere problemi gravi la cui correlazione con l’ingerenza di Big Pharma nelle loro vite non poteva essere negata. Se stavano male non era per casualità ma per causalità, e la causa non poteva che essere una. Non occorre essere Sherlock Holmes o Hercule Poirot per scoprire il colpevole. Anche in seguito alle demenziali sanzioni alla Russia vi sono state gravi ripercussioni, in particolare l’aumento dei costi energetici e non ha funzionato a lungo l’attribuzione della responsabilità a Putin, la speculazione era in corso da prima del conflitto. L’inflazione e la disoccupazione e l’indebitamento porteranno le famiglie a esaurire i loro risparmi, che è quanto desiderava l’élite per poterle spogliare dei loro averi e soggiogarle.

Ma c’è un fatto piuttosto rilevante che è sfuggito ai più, soprattutto a quelli che pensavano di trarre vantaggio dall’aver scelto “il carro dei vincitori” (o almeno così credevano), in particolare ai complici, più o meno lautamente remunerati per aver venduto la loro anima: che i burattinai di rango elevato, una volta raggiunto lo scopo, oppure per sottrarsi a ripercussioni impreviste, non esiteranno un attimo a sacrificare i loro complici come capri espiatori, cioè i burattinai di basso rango o i burattini kapò. Questi pagheranno al posto dei loro manovratori che rimarranno quasi tutti impuniti, perché irraggiungibili, perlopiù non identificabili, mentre quelli di basso rango sono tutti facilmente identificabili, ancora vivi nella memoria delle loro vittime.

E pagheranno sia perché subiranno le stesse conseguenze delle loro stesse vittime, perché fidandosi dei loro padroni anche loro sono stati intossicati da Big Pharma, sia perché verranno puniti in un’infinità di modi diversi dalle loro stesse vittime e dalle circostanze che diverranno molto avverse per loro col passare del tempo. Nessuno è esente dal precipitarsi degli eventi.

A differenza degli aguzzini dei campi di concentramento e sterminio nazisti della II Guerra Mondiale, non ci vorranno decenni come avvenne per molti nazisti per essere individuati, processati e puniti. Questa volta i tempi saranno più rapidi e le ripercussioni molto più complesse ed estese, il tempo non lavora a loro favore e non la passeranno liscia, nessuno di loro la farà franca, possono scordarselo.

Mala tempora currunt sed peiora parantur.

 

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

Independent researcher, historiographer, critical analyst, blogger on the web since 1996

 

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LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. PRIMA PARTE. a cura di Luigi Longo

 LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. PRIMA PARTE.

a cura di Luigi Longo

 

Connie, per tutta la vita ho cercato di

                                               elevarmi socialmente, perché credevo

                                               che in alto tutto fosse legale e corretto.

                                               Ma più in alto salgo, e più il fetore aumenta.

Michael Corleone*

Propongo la lettura di alcuni stralci tratti dalle opere di: Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo; Umberto Santino, La mafia come soggetto politico, di Girolamo editore, Trapani, 2013; Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015; Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007.

Perché suggerisco la lettura di questi stralci?

Perché i citati scritti portano a riflettere su quattro questioni importanti: 1) la propaganda, l’ideologia, la mistificazione e l’inganno della cattura di Matteo Messina Denaro (latitante da 30 anni con coperture istituzionali a tutti i livelli che sono indicative delle relazioni tra la mafia e i decisori che utilizzano lo strumento stato per l’affermazione del proprio potere e dominio sociale) che segue la stessa scenografia di altre catture eccellenti da quella di Michele Greco a quella di Bernardo Provenzano; 2) l’ipotesi che la criminalità organizzata (mafia, n’drangheta, camorra, quarta mafia, eccetera) sia una questione che riguarda la struttura sociale della cosiddetta società capitalistica; cioè, la criminalità organizzata non è una patologia della società de le magnifiche sorti e progressive che va estirpata, ma è una configurazione sistemica della società dove il potere legale e il potere illegale si intrecciano, si innervano; 3) gli agenti strategici della criminalità organizzata fanno parte del blocco di potere e di dominio che decide le sorti del Paese; 4) la cattura di Matteo Messina Denaro chiude una fase della mafia non più sufficiente per le nuove trasformazioni (la stessa riflessione può valere anche per le altre organizzazioni criminali che si stanno ristrutturando e trasformando) che la vecchia società gravida di una società nuova impone e si apre a nuove configurazioni (nuove alleanze, nuove direttrici, nuove strategie) che tengono conto delle trasformazioni che la fase multicentrica impone e determina con i nuovi modelli sociali che avanzano nello scontro tra le potenze mondiali per l’egemonia (abbiamo visto come Matteo Messina Denaro, espressione di gruppo di potere, era ben introdotto nelle trasformazioni della cosiddetta transizione energetica così come lo sono le altre criminalità organizzate).

Preciso che i suddetti agenti strategici non vanno confusi con quelli che gestiscono ed eseguono le strategie; un esempio storico è la morte di Enrico Mattei, i cui mandanti sono da ricercare nei cotonieri lagrassiani per il loro progetto di sviluppo servile agli Stati Uniti, ma è opera degli esecutori che gestiscono ed eseguono gli ordini strategici. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano intuito quale fosse la profondità del problema (questo era il terzo livello di cui parlava Giovanni Falcone, non altro) che necessitava di altri saperi e di altri soggetti in grado di capire, conoscere, interpretare e agire per contrastare un modello sociale egemone (gramscianamente inteso di consenso e di coercizione) basato sulla violenza del dialogo politico, dove la coercizione viene attuata anche con mezzi criminali e non con raffinati metodi democratici. Nella lotta alla criminalità organizzata non bastava l’aspetto giudiziario insufficiente e in via di costruzione, oltre ai limiti dati dalla farsa della divisione dei poteri che scambia gli equilibri egemonici degli agenti strategici dominanti con l’autonomia dei poteri.

A questo punto pongo tre domande: esiste una sorta di azione giuridica preventiva con cui ridurre il potere della criminalità organizzata considerato che tutte le Relazioni del Ministero dell’Interno al Parlamento sulla attività svolta e i risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia presentano mappature dei territori con la loro spartizione delle aree di controllo, di influenza e le relative relazioni internazionali (anche con supporto informatico contenente le proiezioni mafiose regionali-specificità provinciali) con tanto di riferimento dei decisori della sfera militare e della sfera economica (legale e illegale) della criminalità organizzata e relative relazioni internazionali? Quali sono le conseguenze politiche delle suddette relazioni ministeriali (qui la politica è intesa come prassi reale di cambiamento!)? L’azione giuridica esprime un libero rapporto o esprime un vincolo sistemico del rapporto di potere e di dominio?

La criminalità organizzata, declinata nelle varie realtà regionali (Sicilia-mafia; Calabria-n’drangheta; Campania-camorra; Puglia-quarta mafia; eccetera) con le relative articolazioni territoriali e ramificazioni nazionali e internazionali, è presente in tutte le sfere sociali tramite l’intreccio tra potere legale e potere illegale storicamente dato. Pertanto, non bisogna fermarsi all’aspetto giudiziario che riguarda solo la sfera militare e la sfera economica della criminalità organizzata (e poco sa delle altre sfere sociali: istituzionale, politica, territoriale, eccetera) ma occorre allargare lo sguardo all’insieme della società cosiddetta capitalistica. La peculiarità della criminalità organizzata è nello strumento violento del conflitto tra gli agenti strategici non nella finalità dell’accumulazione del denaro (inteso sia come rapporto sociale del capitale sia come investimento in sé) che rientra nelle relazioni sociali del funzionamento del sistema capitalistico basato sia sul potere che si viene a configurare nelle diverse sfere sociali sia sul dominio dell’intera società.

Chi deve allargare lo sguardo e farsi portatore di un nuovo modello sociale della maggioranza della popolazione? Chi deve dare nome al volgo disperso di manzoniana memoria? Occorre un nuovo soggetto storico di trasformazione che tenga conto della lezione della storia rivoluzionaria che, dispiace per Giambattista Vico, non va ridotta solo all’eterogenesi dei fini ma va letta soprattutto per la mancata costruzione di un soggetto sessuato come sintesi di differenze di intendere i rapporti sociali storicamente dati (oggi forse cominciano a esserci le condizioni per riflettere seriamente).

In questa cornice di ipotesi di ragionamento ho pensato al capolavoro di Karl Marx sulla violenza, sulla illegalità, sulla legge come strumento della criminalità nell’accumulazione originaria che ha preparato la strada al nuovo modello sociale basato sul modo di produzione capitalistico; così come ho pensato a Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo (il primo centro studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata sorto in Italia, 1977), che con i suoi lavori sulla mafia come soggetto politico può stimolare ricerche strutturali nelle altre regioni di consolidata e storica presenza della criminalità organizzata con le loro articolazioni territoriali, nazionali e internazionali. L’importanza delle radici, della storia, dell’ambiente, del costume, eccetera del territorio è fondamentale per gli agenti strategici criminali per costruire reti sociali e radicamento territoriale (inteso nell’accezione più ampia: città, campagna, ambiente, paesaggio): i teorici del superamento dello stato (quanta confusione tra stato e nazione e tra nazione e nazionalismi) devono andare a lezione da loro per capire il senso profondo di appartenenza ad una nazione come espressione storica e territoriale di un popolo; così come mi è sembrato utile il lavoro dello studioso Vincenzo Ruggiero, docente di Sociologia e direttore del Crime and Conflict Research Centre presso la Middlesex University di Londra, sull’intreccio tra potere legale e potere illegale che “convocando accanto alla criminologia e alla sociologia una vasta serie di altri saperi, dall’economia alla filosofia, […] illumina passo dopo passo la sottile ragnatela di strategie che consentono al potere di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla legge, di piegare il discorso pubblico alle proprie necessità di giustificazione, di costruire contesti in cui i propri scopi possano assumere le sembianze degli scopi di tutti e di ciascuno”; infine ho pensato al concetto di servitù di Etienne de La Boètie, esperto ellenista e un conoscitore del pensiero e della saggezza antiche (1530-1563), come espressione di una ricerca della libertà come fondamento di un nuovo ordine sociale capace di valorizzare la individualità personale e sociale come espressione di un popolo che vive un determinato territorio (sul concetto di libertà si legga il Guglielmo Tell di Friedrich Schiller, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1968) chiamato nazione (possiamo chiamarlo paese per una nuova ri-elaborazione del concetto di nazione) in maniera autodeterminata in relazione ai diversi e peculiari territori mondiali.

 

 

 

* L’epigrafe è tratta dal film Il padrino, parte III, di Francis Ford Coppola, trilogia dei Corleone, 1990.

 

 

1.KARL MARX, IL CAPITALE. CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA, EINAUDI TORINO, 1975, LIBRO PRIMO, pp. 879-934.

 

Capitolo ventiquattresimo. La cosiddetta accumulazione originaria

 

L’arcano dell’accumulazione originaria

 

Abbiamo visto come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più capitale. Ma l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa presuppone a sua volta la presenza di massa di capitale e di forza lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un’accumulazione <<originaria>> […] precedente l’accumulazione capitalistica: una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico.

Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccomandandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorso, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che accresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare. […] Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e <<lavoro>> sono stati da sempre gli unici mezzi d’arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per <<questo anno>>. Di fatto i metodi dell’accumulazione originaria sono tutto quel che si vuole fuorché idilliaci.

[…] Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore della proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati. Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare <originario>> perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione capitalistico ad esso corrispondente.

[…] Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco

[…] Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista, è stata la servitù del lavoratore. La sua continuazione è consistita in un cambiamento di forma di asservimento, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico.

[…] Nella storia dell’accumulazione originaria fanno epoca dal punto di vista storico tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, di contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. La sua storia ha sfumature diverse nei vari paesi e percorre fasi diverse in successioni diverse e in epoche storiche diverse. Solo nell’Inghilterra, che perciò prendiamo come esempio, essa possiede forma classica.

 

Espropriazione della popolazione rurale e sua espulsione dalle terre

 

Nuovo e terribile impulso ebbe il processo d’espropriazione forzosa della massa della popolazione nel secolo XVI, dalla Riforma e al seguito a questa, dal colossale furto dei beni ecclesiastici. Al momento della Riforma la Chiesa cattolica era proprietaria feudale d’una gran parte del suolo inglese. La soppressione dei conventi ecc. ne gettò gli abitanti nel proletariato. I beni ecclesiastici vennero donati in gran parte a rapaci favoriti regi o venduti a prezzi irrisori a fittavoli e cittadini speculatori, che scacciavano in massa gli antichi fittavoli ereditari dei conventi riunendo i loro poderi in grandi unità. La proprietà che la legge garantiva agli agricoltori impoveriti di una parte delle decime ecclesiastiche venne tacitamente confiscata.

[…] Sotto la restaurazione degli Stuart i proprietari fondiari riuscirono a imporre in forma legale una usurpazione che sul continente fu attuata dappertutto anche senza lungaggini giuridiche. Essi abolirono la costituzione feudale del suolo, cioè scaricarono sullo Stato gli obblighi di servizio che essa comportava, <<indennizzarono>> lo Stato per mezzo di tasse sui contadini  e sulla restante massa della popolazione, rivendicarono la proprietà privata moderna su quei fondi, sui quali possedevano soltanto titoli feudali, e si degnarono infine di concedere benignamente quelle leggi domicilio (laws of settlement) le quali, mutatis mutandis, ebbero sui coltivatori inglesi lo stesso effetto che l’editto del tartaro Boris Godunov ebbe sui contadini russi.

La <<glorious revolution>> (rivoluzione gloriosa) portò al potere, con Guglielmo III di Orange, i facitori di plusvalore, fondiari e capitalistici, che inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che fino a quel momento era stato perpetrato solo su scala modesta. Le terre demaniali venivano regalate, vendute a prezzo irrisorio, oppure annesse a fondi privati per usurpazione diretta. Tutto ciò avveniva senza osservare minimamente l’etichetta legale. I beni statali così fraudolentemente appropriati costituiscono assieme al frutto del furto dei beni della chiesa, questo per la parte che non era andata perduta durante la rivoluzione repubblicana, la base degli odierni domini principeschi dell’oligarchia inglese. I capitalisti borghesi favorirono l’operazione, fra l’altro allo scopo di trasformare i beni fondiari in un puro e semplice articolo di commercio, di estendere il settore della grande impresa agricola, di aumentare il loro approvvigionamento di proletari eslege provenienti dalle campagne, ecc.

[…] La proprietà comune – completamente distinta dalla proprietà statale che abbiamo or ora considerato – era una antica istituzione germanica, sopravvissuta sotto l’egida del feudalesimo. Si è visto come l’usurpazione violenta della proprietà comune, per lo più accompagnata dalla trasformazione del terreno arabile in pascolo, cominci alla fine del secolo XV e continui nel secolo XVI. Ma allora il processo si attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combatté, invano, per centocinquant’anni. Il progresso del secolo XVIII si manifesta nel fatto che ora la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo, benché i grandi fittavoli continuino ad applicare, per giunta, anche i loro piccoli metodi privati indipendenti.

La forma parlamentare del furto è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione delle terre comuni), in altre parole, decreti per mezzo dei quali i signori dei fondi regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo; sono decreti di espropriazione del popolo.

[…] Il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà del clan in proprietà privata moderna: ecco altrettanti metodi idillici dell’accumulazione originaria. Questi metodi conquistarono il campo dell’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege.

 

Legislazione sanguinaria contro gli espropriati dalla fine del secolo XV in poi. Leggi per l’abbassamento dei salari.

 

Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subìto. La legislazione li trattò come delinquenti <<volontari>> e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.

[…] Così la popolazione rurale espropria con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.

Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato senza ogni resistenza; la costante produzione di sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle <<leggi naturali della produzione>>, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per <<regolare>> il salario, cioè per costringerlo entro i limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. E’ questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria.

[…] La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro. […] I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologia, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vai momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.

[…] Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è…il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che il popolo diventa tanto ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usuraio.

[…] Se il denaro, come dice l’Augier, << viene al mondo con una voglia di sangue in faccia>>, il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro.

 

 

  1. 2. UMBERTO SANTINO, LA MAFIA COME SOGGETTO POLITICO, DI GIROLAMO EDITORE, TRAPANI, 2013, pp. 14-47.

 

1.La mafia come soggetto politico. Vent’anni dopo

 

[…] La mafia, le mafie, hanno anch’esse la loro finanziarizzazione, rappresentata dall’incremento esponenziale dell’accumulazione illegale. Viviamo in una fase di transizione, di interregno, in cui la dimensione transnazionale convive con quella nazionale e la modella secondo le sue esigenze. Il potere ha pur sempre un ancoraggio territoriale, i maggiori centri finanziari e i loro guardiani, come le agenzie di rating (Standars & Poor’s, Moody’s, Fitch), sono negli Stati Uniti, che continuano ad esercitare un’egemonia, anche se sempre insidiata, nonostante siano il paese con maggior debito e con la bilancia dei pagamenti perennemente passiva. E i paradisi fiscali, che nella geografia del capitale finanziario hanno un ruolo fondamentale, non per caso si raggruppano nei pressi dell’Europa e degli Stati Uniti. I soggetti del potere finanziario, la Banca mondiale, il Fondo monetario, l’Organizzazione mondiale del commercio, dettano le politiche reali in nome del liberismo come “pensiero unico”. […] In questo contesto le mafie sono diventate attori globali, ma non hanno perso il radicamento nel territorio. Signoria territoriale e ruolo mondiale possono essere reciprocamente funzionali. Non c’è una Supermafia, ci sono le mafie nazionali, vecchie e nuove, e traffici transnazionali.

[…] il potere delle mafie è sempre più legato all’accumulazione, ma non può prescindere dai legami che si costruiscono all’interno del sistema relazionale, indispensabile per estendere e rafforzare l’attività delle organizzazioni criminali. Il rapporto con le istituzioni è stato e rimane irrinunciabile. E le istituzioni sono disseminate sul territorio.

 

  1. Introduzione

 

Un’ipotesi definitoria

 

La concezione di mafia che anima il lavoro mio e del Centro Impastato mira a un rovesciamento o a un’integrazione delle visioni correnti, partendo dalla considerazione che la mafia non è un fatto patologico che si sviluppa in un corpo sano ma è un insieme prodotto e riproduttore di un ecosistema sociale. Essa è un fenomeno polimorfico, risultante del convergere e intrecciarsi di vari aspetti: la violenza e l’illegalità, la sua finalizzazione all’accumulazione della ricchezza e all’acquisizione del potere, un codice culturale, un certo consenso sociale. Da un punto di vista strutturale si possono distinguere due ambiti: le organizzazioni criminali vere e proprie e un vasto e ramificato sistema di cointeressenze, complicità, contiguità, un blocco sociale di natura transclassista che va dagli strati più svantaggiati della popolazione, coinvolti nelle varie articolazioni delle attività lecite o illecite, agli strati più alti: politici e amministratori legati in un modo o nell’altro ai mafiosi, professionisti (avvocati, consulenti finanziari, tecnici etc.) che prestano la loro opera a servizio di mafiosi, imprenditori consoci o prestanomi etc. All’interno di tale blocco la funzione dominante è svolta dai soggetti legali-illegali più ricchi e potenti che abbiamo definito borghesia mafiosa.

[…] La nostra attenzione si è rivolta allo studio del sistema relazionale dei gruppi mafiosi, nelle sue molteplici articolazioni, che vanno dal piano economico a quello politico-istituzionale e includono una dimensione culturale che, coniugandosi con gli altri aspetti, genera e sedimenta consenso sociale. […] i gruppi mafiosi non sono né ghetti né isole, ma sono parte di un blocco sociale, la cui consistenza è difficilmente quantificabile, ma potrebbe coinvolgere in Sicilia, in modo diretto o indiretto, alcune centinaia di migliaia di persone.

 

Un’ipotesi di periodizzazione

 

[…] La mafia, come del resto tutti i fenomeni di durata, si sviluppa intrecciando continuità e trasformazione, tradizione e innovazione-modernizzazione, per cui aspetti vecchi, se non arcaici, convivono con i nuovi e, al di là di contraddizioni apparenti, possono essere reciprocamente funzionali.

E’ possibile individuare delle fasi, ma solo in quanto si può indicare un aspetto come prevalente rispetto ad altri e facendo riferimento ai mutamenti del contesto sociale, a cui la mafia si è sempre dimostrata, per la sua elasticità, capace di adeguarsi.

Un quadro dell’evoluzione storica della mafia può così delinearsi:

  • una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in cui più che di mafia vera e propria può parlarsi di fenomeni premafiosi;
  • una fase agraria, che va dalla formazione dello Stato unitario agli anni ’50 del XX secolo;
  • una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ’60;
  • una fase finanziaria, dagli anni ’70 ad oggi.

[…] Con la creazione dello Stato unitario si afferma un blocco dominante composto dai grandi industriali del Nord e dai proprietari terrieri meridionali. L’economia rimane prevalentemente agricola fino agli anni ’50 del XX secolo. La stratificazione sociale nella Sicilia occidentale vede al vertice i grandi agrari, al centro gli affittuari dei latifondi (gabelloti) e alla base i contadini, frammentati in piccoli proprietari, mezzadri, braccianti. La mafia agraria è formata dagli affittuari, che, pur avendo un ruolo parassitario tra proprietari e contadini, sono degli imprenditori in quanto agenti di una prassi combinatoria dei fattori produttivi possibile entro quell’assetto sociale, ma la presenza mafiosa è capillare e forte anche nei giardini di agrumi della Conca d’oro palermitana. Le funzioni della mafia agraria sono: accumulazione del capitale, controllo e repressione del movimento contadino, suo principale antagonista dai Fasci siciliani (1891-94) alle lotte per la riforma agraria degli anni ’40 e ’50, governo locale, mediazione tra comunità locale e istituzioni centrali, costituendo no dei pilastri del sistema clientelare attraverso cui avviene l’integrazione del Mezzogiorno nel contesto nazionale.

Dalla seconda metà degli anni ’50 comincia la trasformazione dell’economia italiana in industriale-terziaria e nel Mezzogiorno e in Sicilia la terziarizzazione è soprattutto parassitaria, con lo sviluppo dell’impiego pubblico e il ruolo sempre più rilevante che assume la spesa pubblica, dopo la creazione della Regione a statuto speciale (1946) e della Cassa per il Mezzogiorno (1950). In questa fase non c’è tanto un trasferimento dei gruppi mafiosi dalle campagne alle città, quanto un loro inserimento nella nuova realtà, con l’ingresso in attività imprenditoriali, legate soprattutto all’edilizia. […] un ruolo decisivo nella nascita del mafioso-imprenditore ha il denaro pubblico, sotto forma di appalti di opere pubbliche o di finanziamenti erogati da istituti di credito di diritto pubblico. Cioè la mafia urbano-imprenditoriale nasce come borghesia di Stato, intendendo per tali strati medio-alti che si formano e assumono un ruolo dominante per il loro collegamento con le fonti di denaro pubblico e con le istituzioni. La mafia ha il controllo del mercato edilizio, dei mercati alimentari, del credito, delle assunzioni negli enti locali e svolgendo tali funzioni diventa sempre di più borghesia egemone a livello locale, mantenendo e sviluppando le fonti di accumulazione illegale (estorsioni, contrabbando di sigarette, inserimento nel traffico internazionale di droga).

Il ruolo sempre maggiore nel traffico di droghe dagli anni ‘70 ad oggi caratterizza la mafia attuale come mafia finanziaria, cioè come una grande macchina di accumulazione di capitale illegale, con la conseguente lievitazione del ruolo dei gruppi mafiosi nel mercato e nella società. La richiesta di occasioni di riciclaggio e investimento del denaro sporco e di spazi di potere raggiunge livelli mai toccati in precedenza, per cui saltano le compatibilità, e in parallelo con lo svilupparsi di una sanguinosa concorrenza interna (che raggiunge il massimo di conflittualità nella guerra di mafia degli anni 1981-1983) si innesca una gara egemonica esterna che porta all’abbattimento degli ostacoli che si frappongono al processo di espansione.

 

La soggettività politica della mafia

 

[…] Si può parlare di soggettività politica della mafia in duplice senso:

  • in quanto associazione criminale la mafia è un gruppo politico, presentando tutte le caratteristiche individuate dalla sociologia classica per la definizione di tale tipo di gruppo;
  • essa concorre come gruppo criminale e con il blocco sociale di cui fa parte alla produzione della politica in senso complessivo, cioè determina, o contribuisce a determinare, le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse.

 

La produzione mafiosa della politica

 

La mafia concorre alla produzione della politica in vari modi. Ne indichiamo alcuni, risultanti dal materiale studiato o di cui siamo a conoscenza:

  • uso politico della violenza. I delitti politico-mafiosi […] costituiscono un intervento sul quadro generale. Essi sono, o possono essere, il frutto di una convergenza di interessi e si può ipotizzare, anche se non sempre è dimostrabile in sede giudiziaria, la responsabilità di più soggetti (logge massoniche, gruppi terroristici, servizi segreti, etc.) nella loro ideazione ed esecuzione;
  • formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, attraverso la selezione dei quadri, il finanziamento delle campagne elettorali, il controllo sul voto e altre forme di intervento o anche con la partecipazione diretta di membri di organizzazioni mafiose alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive;
  • controllo sull’attività politico-amministrativa attraverso rapporti con gruppi politici e apparati burocratici, dagli enti locali alle istituzioni centrali. La tipologia di tali rapporti va dall’identificazione-comprenetazione, allo scambio permanente o limitato, all’affinità culturale o d’interessi;
  • c’è un altro complesso di fenomeni di cui occorre tenere conto, e cioè lo svilupparsi di forme di privatizzazione-clandestinizzazione-criminalizzazione dell’attività politico-amministrativa o attraverso collegamenti tra gruppi mafiosi e altri gruppi che mutuano metodi di tipo mafioso, o con la generalizzazione di pratiche che non implicano un ruolo diretto di soggetti mafiosi né il ricorso a forme dirette o indirette di violenza, ma si configurano come illegalità sistemica, permanente e diffusa (è questo il quadro che viene alla luce dalle inchieste sulle varie tangentopoli), costituendo il contesto più ospitale per l’eventuale insediamento di interessi mafiosi. Questi fenomeni attestano che si è metabolizzata una forma-mafia come modello di comportamento che va ben oltre i gruppi organizzati in associazioni di stampo mafioso.

 

Doppia mafia in doppio Stato: una duplice dualità

 

[…] In realtà l’esperienza storica italiana ci dice che il monopolio formale della forza da parte dello Stato non è mai venuto a cessare, ma che di fatto c’è stata, e continua ad esserci, una demonopolizzazione, per cui si può individuare una duplice dualità, riguardante la mafia e lo Stato.

A differenza dalla criminalità comune, la mafia non viola il diritto ma nega il diritto, cioè non riconosce il monopolio statale della violenza e quindi è fuori e contro lo Stato, considerando il ricorso all’omicidio come la sua forma di giustizia; ma per le sue attività legate al denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica essa è dentro e con lo Stato, per cui la definizione di “criminalità istituzionalizzata” coglie pienamente nel segno.

[…] Il doppio binario della violenza ha assolto la funzione del mantenimento del potere da parte delle classi dominanti, ogni volta che l’intervento diretto dello Stato o era impossibile, per la sua palese illegalità, o non avrebbe potuto avere la speditezza e la brutalità della violenza mafiosa. Non è una forzatura ideologica affermare che non c’è stato, in Italia, Stato senza mafia, come non c’è stata mafia senza Stato.

[…] la soggettività politica della mafia sarebbe completamente incomprensibile se considerata come una serie di fatti, gravi ma tutto sommato parziali ed episodici, e non come prodotto di un meccanismo complessivo costituito dal rapporto mafia-istituzioni nella sua concreta dinamica, che vede operanti soggetti formalmente contrapposti ma in realtà portatori di duplicità, per cui al posto del paradigma astratto alterità-contrapposizione agisce quello alterità-interazione.

[…] La mafia non si è formata e non si è sviluppata per e nel vuoto di mercato, ma dentro il mercato, così come si è realizzato storicamente e non come avrebbe dovuto essere o dovrebbe essere secondo i teoremi dell’” economia degli economisti”.

La dualità del fenomeno mafioso e dello Stato produce la particolare situazione in cui vengono a trovarsi magistrati e rappresentanti delle istituzioni impegnati nell’attività antimafia, ma ciò vale anche per altri terreni- dai servizi segreti al sistema della corruzione- coinvolti in prassi di “criminalità istituzionale”, considerabili cioè come gemmazione naturale, filiazione sistemica, e non devianze patologiche. La funzione giurisdizionale e repressiva si trova a vivere una condizione schizofrenica ed espone a gravissimi rischi gli operatori più conseguenti che debbono contrastare un nemico armato […] e alle spalle non hanno il sostegno e la copertura che si aspetterebbero, se non operasse il collegamento che il criminologo statunitense Sutherland definiva “fraternizzazione tra le forze contrapposte”, cioè tra criminali “dal colletto bianco” e Stato, mentre per gli altri soggetti criminali opera la stigmatizzazione.

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In che modo un EMP nucleare influenzerebbe la rete elettrica?


[Nota che questo articolo è una trascrizione del video incorporato sopra.]

Nella tarda mattinata del 28 aprile 1958, la nave portaerei USS Boxer si trovava a circa 70 miglia dalla costa dell’atollo di Bikini nell’Oceano Pacifico. L’equipaggio del Boxer si stava preparando a lanciare un pallone ad elio ad alta quota. In effetti, questo sarebbe il 17° pallone ad alta quota lanciato dalla nave. Ma questo era un po’ diverso. Dove quei primi 16 palloni trasportavano alcuni strumenti e carichi utili fittizi, attaccati a questoil pallone era una testata nucleare da 1,7 chilotoni, nome in codice Yucca. La nave, il pallone e la bomba facevano tutti parte dell’operazione Hardtack, una serie di test nucleari condotti dagli Stati Uniti nel 1958. Yucca fu il primo test di un’esplosione nucleare nei limiti superiori dell’atmosfera terrestre. Circa un’ora e mezza dopo che il pallone è stato lanciato, ha raggiunto un’altitudine di 85.000 piedi o circa 26.000 metri. Quando due bombardieri pacificatori B-36 carichi di strumenti hanno fatto il giro dell’area, la testata è stata fatta esplodere.

Naturalmente, il team di ricerca ha raccolto tutti i tipi di dati durante l’esplosione, compresa la velocità dell’onda d’urto, l’effetto sulla pressione atmosferica e l’entità della radiazione nucleare rilasciata. Ma, da due postazioni a terra, stavano anche misurando le onde elettromagnetiche risultanti dall’esplosione. Sin dalle prime esplosioni nucleari si sapeva che le esplosioni generano un impulso elettromagnetico o EMP, principalmente perché continuava a friggere strumenti elettronici. Ma fino a Hardtack, nessuno aveva mai misurato le onde generate da una detonazione nell’alta atmosfera. Ciò che hanno registrato è stato così ben oltre le loro aspettative, che è stato liquidato come un’anomalia per anni.

Non è stato fino a 5 anni dopo che il fisico statunitense Conrad Longmire avrebbe proposto una teoria per gli impulsi elettromagnetici da esplosioni nucleari ad alta quota che è ancora la spiegazione ampiamente accettata del motivo per cui sono ordini di grandezza più forti di quelli generati da esplosioni a terra . Da allora, i nostri timori di una guerra nucleare non includevano solo lo scenario di una testata che colpiva un’area popolata, distruggendo città e creando ricadute nucleari, ma anche la possibilità che una testata esplodesse molto al di sopra delle nostre teste nell’atmosfera superiore, inviando un EMP abbastanza forte a interrompere i dispositivi elettronici e persino togliere la rete elettrica. Come con la maggior parte delle armi, viene classificata la ricerca migliore e più completa sugli EMP. Ma, nel 2019, una coalizione di organizzazioni energetiche ed enti governativi chiamata Electric Power Research Institute (o EPRI) ha finanziato unstudio per cercare di capire esattamente cosa potrebbe accadere alla rete elettrica da un EMP nucleare ad alta quota. Non è l’unico studio nel suo genere, e non è privo di critiche da parte di coloro che pensano che sia ottimista, ma ha i dettagli ingegneristici più succosi di tutte le ricerche che sono riuscito a trovare. E le risposte sono un po’ diverse da come Hollywood vorrebbe far credere. Questo è un riassunto di quel rapporto, ed è il primo di una serie di video approfonditi sulle minacce su larga scala alla rete. Sono Grady, e questa è ingegneria pratica. Nell’episodio di oggi, parliamo dell’impatto di un EMP nucleare sulla nostra infrastruttura energetica.

Una detonazione nucleare è sgradita in quasi tutte le circostanze. Questi eventi sono intrinsecamente pericolosi e la fisica di un’esplosione va ben oltre le nostre intuizioni. Ciò è particolarmente vero nell’atmosfera superiore, dove la detonazione interagisce con il campo magnetico terrestre e la sua atmosfera in modi davvero unici per creare un impulso elettromagnetico. Un EMP ha in realtà tre componenti distinti, tutti formati da diversi meccanismi fisici che possono avere impatti significativamente diversi qui sulla superficie terrestre. La prima parte di un EMP si chiama E1. Questo è l’impulso estremamente veloce e intenso che segue immediatamente la detonazione.

I raggi gamma rilasciati durante qualsiasi detonazione nucleare entrano in collisione con gli elettroni, ionizzando gli atomi e creando un’esplosione di radiazioni elettromagnetiche. Questo è generalmente negativo di per sé, ma quando viene fatto esplodere in alto nell’atmosfera, il campo magnetico terrestre interagisce con quegli elettroni liberi per produrre un impulso elettromagnetico significativamente più forte che se fatto esplodere nell’aria più densa ad altitudini inferiori. L’impulso E1 va e viene in pochi nanosecondi e l’energia è in qualche modo scherzosamente indicata come CC alla luce del giorno, il che significa che è diffusa su una parte enorme dello spettro elettromagnetico.

L’impulso E1 generalmente raggiunge qualsiasi punto all’interno di una linea di vista della detonazione e, per un’esplosione ad alta quota, può coprire un’enorme area di terra. Al culmine del test Yucca, questo è un cerchio con un’area più grande del Texas . Un’arma a 200 chilometri di altitudine potrebbe avere un impatto su una frazione significativa del Nord America. Ma non ovunque all’interno di quel cerchio sperimenta i campi più forti. In generale, più ci si allontana dall’esplosione, minore è l’ampiezza dell’EMP. Ma, a causa del campo magnetico terrestre, l’ampiezza massima si verifica un po’ a sud del punto zero (nell’emisfero settentrionale), creando questo modello chiamato diagramma del sorriso. Ma nessuno sorriderà scoprendo di trovarsi all’interno dell’area colpita da un’esplosione nucleare ad alta quota.

Anche se un’arma come questa non danneggerebbe edifici, creerebbe ricadute nucleari, non sarebbe percepita dagli esseri umani, o probabilmente anche visibile alla maggior parte, quell’impulso E1 può avere un enorme effetto sui dispositivi elettronici. Probabilmente hai familiarità con le antenne che convertono i segnali radio in tensione e corrente all’interno di un conduttore. Bene, per un impulso abbastanza forte diffuso su una vasta gamma di frequenze, praticamente qualsiasi oggetto metallico agirà come un’antenna, convertendo l’impulso in enormi picchi di tensione che possono sopraffare i dispositivi digitali. Inoltre, l’impulso E1 si verifica così rapidamente che persino i dispositivi destinati alla protezione dalle sovratensioni potrebbero non essere efficaci. Naturalmente, con quasi tutto ciò che ha l’elettronica incorporata in questi giorni, questo ha implicazioni di vasta portata. Ma sulla griglia, ci sono davvero solo pochi posti in cui un impulso E1 è una delle maggiori preoccupazioni. Il primo riguarda i sistemi di controllo all’interno delle stesse centrali elettriche. Il secondo riguarda i sistemi di comunicazione utilizzati per monitorare e registrare i dati per assistere gli operatori di rete. Il rapporto EPRI si è concentrato principalmente sul terzo pericolo associato a un impulso E1: i relè di protezione digitale.

La maggior parte delle persone ha visto gli interruttori che proteggono i circuiti in casa. La rete elettrica dispone di apparecchiature simili utilizzate per proteggere le linee di trasmissione e i trasformatori in caso di cortocircuito o guasto. Ma, a differenza degli interruttori di casa tua che fanno sia il rilevamento dei problemi che l’interruzione del circuito tutto in un unico dispositivo, quei ruoli sono separati sulla griglia. La disconnessione fisica di un circuito sotto carico viene eseguita da grandi contattori motorizzati temprati in olio o gas dielettrico per evitare la formazione di archi. E i dispositivi che monitorano la tensione e la corrente per problemi e dicono agli interruttori quando sparare sono chiamati relè. Normalmente si trovano in un piccolo edificio in una sottostazione per proteggerli dalle intemperie. Questo perché la maggior parte dei relè oggigiorno sono apparecchiature digitali piene di circuiti stampati, schermi e microelettronica. E tutti questi componenti sono particolarmente sensibili alle interferenze elettromagnetiche. In effetti, la maggior parte dei paesi ha regole severe sulla forza e la frequenza delle radiazioni elettromagnetiche che puoi imporre alle onde radio, regole che spero di non violare con questo dispositivo.

Questo è un generatore di impulsi che ho comprato su eBay solo per dimostrare gli strani effetti che le radiazioni elettromagnetiche possono avere sull’elettronica. Emette solo un’onda da 50 MHz attraverso questa antenna, e puoi vedere quando lo accendo vicino a questo multimetro economico, ha degli strani effetti. La lettura sul display diventa irregolare e talvolta riesco ad accendere la retroilluminazione. Puoi anche vedere i due diversi tipi di vulnerabilità E1 qui. Un EMP può accoppiarsi ai fili che fungono da input per il dispositivo. E un EMP può irradiare direttamente l’apparecchiatura. In entrambi i casi, questo piccolo dispositivo non era abbastanza forte da causare danni permanenti all’elettronica, ma si spera che aiuti a immaginare cosa sia possibile quando campi ad alta intensità vengono applicati a dispositivi elettronici sensibili.

Il rapporto EPRI ha effettivamente sottoposto i relè digitali a forti EMP per vedere quali sarebbero stati gli effetti. Hanno usato un generatore Marx che è un circuito moltiplicatore di tensione, quindi ho deciso di provarlo io stesso. Un generatore Marx immagazzina elettricità in questi condensatori mentre si caricano in parallelo. Quando vengono attivati, gli spinterometri collegano tutti i condensatori in serie per generare tensioni molto elevate, nel mio caso fino a 80 o 90 kilovolt. Il mio collega ingegnere di YouTube Electroboom ha creato uno di questi sul suo canale se vuoi saperne di più su di loro. Il mio genera una scintilla ad alta tensione quando viene attivato da questo cacciavite. A proposito, non provarlo a casa. Non ho progettato un’antenna per convertire questo impulso ad alta tensione in un EMP, ma ho provato un test di iniezione diretta. Questa cornice digitale economica non aveva alcuna possibilità. Giusto per chiarire, questo non è in alcun modo un test scientifico. È solo una divertente dimostrazione per darti un’idea di cosa potrebbe essere capace un impulso E1.

L’impulso E2 è più lento di E1 perché è generato in modo totalmente diverso, questa volta dall’interazione di raggi gamma e neutroni. Si scopre che un impulso E2 è più o meno paragonabile a un fulmine. Infatti, molti fulmini sono più potenti di quelli che potrebbero essere generati da detonazioni nucleari ad alta quota. Naturalmente, la rete non è del tutto immune ai fulmini, ma usiamo molta tecnologia di protezione contro i fulmini. La maggior parte delle apparecchiature sulla rete è già protetta contro alcuni impulsi ad alta tensione in modo tale che i fulmini di solito non creano molti danni. Quindi, l’impulso E2 non è così minaccioso per la nostra infrastruttura energetica, soprattutto rispetto a E1 ed E3.

Il componente finale di un EMP, chiamato E3, è, ancora una volta, molto diverso dagli altri due. In realtà non è nemmeno un impulso, perché è generato in un modo completamente diverso. Quando si verifica una detonazione nucleare nell’alta atmosfera, il campo magnetico terrestre viene disturbato e distorto. Man mano che l’esplosione si dissipa, il campo magnetico ritorna lentamente al suo stato originale nel corso di pochi minuti. Questo è simile a ciò che accade quando una tempesta geomagnetica sul sole interrompe la gravità terrestre e grandi eventi solari potrebbero potenzialmente rappresentare una minaccia più grande di un EMP nucleare per la rete. In entrambi i casi, è a causa della perturbazione e del movimento del campo magnetico terrestre. Probabilmente sai cosa succede quando sposti un campo magnetico attraverso un conduttore: generi una corrente. Lo chiamiamo accoppiamento, ed è essenzialmente il modo in cui funzionano le antenne. E infatti,

Ad esempio, la radio AM utilizza frequenze fino a 540 kilohertz. Ciò corrisponde a lunghezze d’onda che possono essere superiori a 1800 piedi o 550 metri, grandi onde. Piuttosto che servire come luogo per montare antenne come la radio FM o le torri cellulari, le torri radio AM lo sonol’antenna. L’intera struttura metallica è energizzata! Spesso puoi riconoscere una torre AM guardando in basso perché si trovano in cima a un piccolo isolante ceramico che le separa elettricamente dal suolo. Come puoi immaginare, maggiore è la lunghezza d’onda, più grande deve essere un’antenna per accoppiarsi bene con la radiazione elettromagnetica. E spero che tu veda a cosa sto arrivando. Le linee di trasmissione e distribuzione elettrica spesso si estendono per chilometri, il che le rende il luogo ideale in cui un impulso E3 si accoppia e genera corrente. Ecco perché è un problema.

Lungo tutta la rete usiamo trasformatori per cambiare la tensione dell’elettricità. Sul lato della trasmissione, aumentiamo la tensione per ridurre le perdite nelle linee. E dal lato della distribuzione, abbassiamo nuovamente il voltaggio per renderlo più sicuro da usare per i clienti nelle loro case ed edifici. Quei trasformatori funzionano utilizzando campi elettromagnetici. Una bobina di filo genera un campo magnetico che passa attraverso un nucleo per indurre la corrente a fluire attraverso una bobina adiacente. In effetti, il motivo principale per cui utilizziamo la corrente alternata sulla rete è perché ci consente di utilizzare questi dispositivi davvero semplici per aumentare o diminuire la tensione. Ma i trasformatori hanno un limite.

Fino a un certo punto, la maggior parte dei materiali utilizzati per i nuclei dei trasformatori ha una relazione lineare tra la quantità di corrente che scorre e l’intensità del campo magnetico risultante. Ma questa relazione si interrompe al punto di saturazione, oltre il quale la corrente aggiuntiva non creerà molto ulteriore magnetismo per guidare la corrente sull’avvolgimento secondario. Un impulso E3 può indurre un flusso di corrente approssimativamente CC attraverso le linee di trasmissione. Quindi hai DC sopra AC, che crea un bias nell’onda sinusoidale. Se c’è troppa corrente CC, il nucleo del trasformatore potrebbe saturarsi quando la corrente si muove in una direzione ma non nell’altra, distorcendo la forma d’onda di uscita. Ciò può portare a punti caldi nel nucleo del trasformatore, danni ai dispositivi collegati alla rete che si aspettano un piacevole schema di tensione sinusoidale e molte altre cose strane.

Quindi quali sono le implicazioni di tutto questo? Per l’impulso E1 che danneggia alcuni relè, probabilmente non è un grosso problema. Ci sono spesso percorsi ridondanti per il flusso di corrente nel sistema di trasmissione. Ecco perché si chiama griglia. Ma maggiore è il numero di apparecchiature che vanno offline e maggiore è lo stress sulle linee rimanenti, maggiore è la probabilità di un guasto a cascata o di un collasso totale. L’EPRI ha effettuato test simulando una bomba da un megaton fatta esplodere a 200 chilometri di altitudine. Hanno stimato che circa il 5% delle linee di trasmissione potrebbe avere un relè che viene danneggiato o interrotto dall’EMP risultante. Questo da solo probabilmente non è sufficiente per causare un blackout su larga scala della rete elettrica, ma non dimenticare l’E3. L’EPRI ha scoperto che la terza parte di un EMP potrebbe portare a blackout regionali che coinvolgono più stati a causa della saturazione del nucleo del trasformatore e degli squilibri tra domanda e offerta di elettricità. La loro modellazione non ha portato a danni diffusi ai trasformatori effettivi, e questa è una buona cosa perché i trasformatori di potenza sono dispositivi grandi e costosi che sono difficili da sostituire e la maggior parte delle utility non tiene molti ricambi in giro. Detto questo, il loro rapporto non è privo di critiche e molti credono che un EMP potrebbe causare molti più danni alle infrastrutture elettriche. e la maggior parte delle utility non tiene molti ricambi in giro. Detto questo, il loro rapporto non è privo di critiche e molti credono che un EMP potrebbe causare molti più danni alle infrastrutture elettriche. e la maggior parte delle utility non tiene molti ricambi in giro. Detto questo, il loro rapporto non è privo di critiche e molti credono che un EMP potrebbe causare molti più danni alle infrastrutture elettriche.
Quando si combinano gli effetti dell’impulso E1 e dell’impulso E3, non è difficile immaginare come la rete possa essere seriamente disabilitata. È anche facile vedere come, anche se i danni reali alle apparecchiature non sono così significativi, la natura diffusa di un EMP, oltre ai suoi potenziali impatti su altri sistemi come computer e telecomunicazioni, ha il potenziale per frustrare il processo di recupero delle cose. in linea. Un blackout di più giorni, più settimane o persino più mesi non è fuori questione nello scenario peggiore. Probabilmente non causerà un ritorno in stile hollywoodiano all’età della pietra per l’umanità, ma è certamente in grado di causare un grave sconvolgimento nella nostra vita quotidiana . Esploreremo cosa significa in un video futuro.

https://practical.engineering/blog/2022/11/7/how-would-a-nuclear-emp-affect-the-power-grid

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RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

Questo breve saggio era stato pubblicato sul n. 3/2001 di “Palomar”. Lo
si propone perché presenta spunti d’attualità.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO

  1. Malgrado le vicende del secolo scorso, in particolare le guerre mondiali e i regimi totalitari poterebbero contraddirlo, è un fatto che l’idea di Stato e la realizzazione della stessa è un’opera, a un tempo, in larga misura della ragione e del razionalismo (politico e giuridico) dell’età moderna.

Non a caso, appena nato lo Stato, per definire a un tempo il criterio di azione di questo e del Principe, si usò l’espressione “Ragion di Stato”; ma non è men vero che se essa individua il dovere e la “bussola” del governante (e in larga misura l’ambito, anche giuridico, dei poteri del medesimo) quello moderno è, insieme, mutuando il titolo di un’opera di Fiche, uno Stato secondo ragione. Anche se sull’esatta definizione di questa espressione e su cosa s’intenda per essa, è bene capirsi, per non confondere la ragione “storica” e “concreta” con le costruzioni intellettualistiche, (e nelle intenzioni, spesso utopiche), di cui la modernità ci ha fornito una pletora di esempi (al punto che De Maistre, affermava di non conoscere, nell’epoca pre-rivoluzionaria, un giovane letterato che non avesse scritto almeno un trattato di pedagogia e una costituzione); mentre il carattere peculiare della ragion di Stato, è sì d’essere “razionale”, ma di esserlo in una situazione data e su presupposti concreti, ovvero di costituire la regola di scelta in un contesto reale; è cioè l’applicazione – conseguenza del realismo politico, e non dell’intellettualismo utopico (e ucronico).

Se la ragion di Stato è nient’altro che la “tecnica” di difesa dell’unità politica e della sicurezza collettiva ed individuale (salus rei publicae suprema lex esto), lo strumento principale con cui si è attuato e garantito quelle è, per l’appunto, lo “Stato secondo ragione”, attraverso la progressiva e costante “razionalizzazione” delle strutture pubbliche. Funzionalizzazione, de-patrimonializzazione, centralismo, legalità, burocratizzazione sono state le principali vie percorse per innestare sul vecchio ceppo delle monarchie feudali la razionalità funzionalistica di un apparato che è, in larga parte, il prodotto di un processo cosciente (ed autocosciente) di costruzione della “gran macchina”, dell’ “uomo artificiale” concepito per la sicurezza (e il benessere) collettivo. Questo è nel contempo il risultato della secolarizzazione o meglio, in relazione al tema qui trattato, del weberiano “disincanto del mondo”, della cesura del legame tra cielo e terra; chiaro nella sfera politica, lo è meno, ma di poco, nell’ambito giuridico, probabilmente perché la razionalizzazione del diritto e del processo, nella cristianità occidentale, ha preso l’avvio diversi secoli prima della “scoperta” dello stesso termine di Stato (e della, di poco successiva, “Ragion di Stato”), ed è la risultante della recezione del diritto romano (del Corpus juris) e dello sviluppo di quello canonico. Ambedue costruzioni razionali, ancorché l’una “Deo auctore”, secondo l’espressione di Giustiniano, l’altro ordinamento di una  ierocrazia; ma al riguardo occorre notare che, ancora, la concezione del monarca (e del magistrato) come rappresentante di Dio, tipica della Riforma e, in parte anche, della Controriforma, fornisce la base legittima e “sacra” per la prima fase della razionalizzazione politica (e la seconda di quella giuridica)[1].

Per cui la stessa razionalizzazione “politica” ha un fondamento “aperto alla trascendenza”. Ciò non toglie che l’una (e l’altra) si fondino, come detto, sul “disincanto del mondo”, sulla costruzione di decisioni razionali, su presupposti realistici e razionalmente argomentati, su responsabilità umane, con l’esclusione sia di interventi “magici” o “divini”, che di norme non aventi una “promulgazione”, o un consenso all’applicazione, da parte dell’autorità sovrana.

  1. In questi termini, il razionalismo giuridico si coniuga con la razionalizzazione prodotta dallo Stato, che è, in primo luogo e, a un tempo, sia separazione-delimitazione (tra interno ed esterno, tra potere temporale e spirituale) che centralizzazione.

Il primo aspetto è stato ampiamente considerato, nei suoi aspetti (politici e quel che più interessa, giuridici) da Thomas Hobbes. Questi rifiutava sistematicamente di considerare vincolante qualsiasi norma che non fosse legge di natura o comando del Sovrano, negava di conseguenza che fosse norma applicabile quella non proveniente (anche se tacitamente assentita) dall’unica autorità sovrana e che altre autorità avessero il potere di emanarle (nell’ambito dell’unità politica). Con ciò impediva la possibilità di conflitto tra centri diversi di (potere e) produzione normativa. A un sovrano corrisponde un solo diritto applicabile dallo stesso e dai giudici da questi istituiti. Daltro canto fa parte dello spirito dell’epoca, e in larga misura della modernità, ritenere che “non vi è mai tanta perfezione nelle opere composte di pezzi fatti da artefici diversi quanto in quelle costruite da uno solo”, come scriveva Cartesio[2]. Così la semplificazione andava di pari passo con la razionalizzazione. E con la centralizzazione: la quale non è identificabile solo con la struttura dello Stato francese, ovvero di quello che più coerentemente l’aveva e l’ha perseguita e realizzata, ma è connaturale alla stessa idea di Stato; anche se le forme per la sua realizzazione sono le più diverse, e spesso fanno ampio spazio a poteri decentrati ed autonomie regionali e locali. Tuttavia il “monopolio della violenza legittima” (il che significa anche dell’esecuzione delle pretese)  ed alcuni istituti ed uffici particolarmente significativi come, per esemplificare, le Corti supreme uniche (Cassazione, Consiglio di Stato) e il potere generale di annullamento amministrativo sovente riconosciuto all’organo statale apicale, ne sono la conferma per gli aspetti non solo politici, ma anche giuridici. Ed ancor più le “codificazioni” con le quali, dal ‘700 in poi, si sostituiva al diritto di formazione dottrinale-giurisprudenziale e consuetudinaria, una legislazione unitaria, emanata dall’autorità sovrana, di guisa che dal XIX secolo in poi non poteva generalmente più affermarsi quanto scriveva, sul finire del secolo precedente, il giovane Hegel della Germania pre-napoleonica, che si cambiava il diritto con la frequenza con cui si sostituivano i cavalli della diligenza.

D’altra parte Thomas Hobbes  non è stato solo il più conseguente teorico della sovranità, ma anche quello di un diritto razionale, sia perché chiaro ed applicabile, sia perché giusto (in quanto razionale o almeno ragionevole). In particolare nei capitoli XXVI-XXVIII del “Leviathan” ne elabora alcuni principi, quali la comprensibilità (“perché altrimenti un uomo non saprebbe come obbedire”) la conoscibilità (la legge positiva deve essere pubblicata, secondo la nota tesi di S. Tommaso) la non obbligatorietà delle “leggi positive divine” (cioè quelle oggetto di “rivelazione”) non “recepite” e “comandate” dal sovrano; il principio nulla poena sine lege; tutti caposaldi del diritto dello Stato moderno; meno attenzione Hobbes dava agli aspetti organizzativi e, per così dire, “professionali”, dato che l’esempio della organizzazione giudiziaria inglese non lo induce a preferire il magistrato “giurista” (cioè esperto di diritto) rispetto al giudice non professionale. La coniugazione tra sovranità e razionalismo giuridico è evidente anche in Rousseau: all’onnipotente legislateur corrispondono i caratteri intriseci della loi: conoscibile, durevole, chiaramente applicabile. Così anche nei giacobini la dittatura sovrana della convenzione si associa all’aspirazione alla semplificazione ed alla chiarezza legislativa. Anche se tra la concezione della sovranità e il razionalismo giuridico non c’è un rapporto di implicazione necessaria (ben può esistere un Sovrano che governi in base ai principi del “sultanismo” e della volontà arbitraria come nelle monarchie dispotiche orientali) tuttavia il rapporto, nell’età moderna, è stato costante, sia sotto l’aspetto delle realizzazioni pratiche, che sotto quello teorico. Allo sviluppo dello Stato sovrano moderno corrisponde quello del razionalismo giuridico; i teorici del primo , di solito, sono gli stessi che auspicano il secondo. Questo nesso è verosimilmente rafforzato dall’identità dei poteri che sovranità e razionalizzazione limitano e riducono: i poteri “intermedi”, “indiretti” e “spirituali” progressivamente privati dallo Stato sia della possibilità di regolare e giudicare, sia di eseguire coattivamente le loro pretese. Alla soluzione del problema politico, risolto dall’unità del comando, è corrisposta così quella, giuridica, della razionalità – sia del comando che dell’obbedienza: quest’ultima garantita in primo luogo, dall’unità di quello.

  1. Max Weber ha delineato i postulati del razionalismo giuridico, con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla pandettistica[3]; sempre allo stesso Weber notoriamente dobbiamo le analisi del “tipo” di potere dello Stato moderno, ovvero quello razionale-legale con amministrazione (prevalentemente) burocratica, che è l’altro volto della razionalizzazione politica e giuridica; e l’individuazione del carattere distintivo del diritto borghese (e della funzione giudiziaria), costituito sia dalla “misurabilità” delle norme che dalla previsione di una puntuale applicazione delle stesse da parte del giudice “professionale ed esperto”, bouche de la loi. Tali principi, valevoli sia per un diritto codificato (continentale), sia per un sistema basato sull’autorità del precedente (come quello anglosassone), trovano comunque le proprie condizioni irrinunciabili da un lato in norme giuridiche, come scriveva Thibaut, chiare, inequivocabili e, complessivamente esaurienti, dall’altra nella razionale applicazione di esse da parte di giudici (competenti ed) indipendenti da tutti fuorché dalla legge medesima: ambedue caratteristiche dello Stato (borghese) di diritto, con la sua concezione della legge (che è tale perché ha precise “qualità”); e del giudice “bouche de la loi”. Il razionalismo giuridico trova pertanto le condizioni più favorevoli al proprio sviluppo nella fase “liberaldemocratica” dello Stato, cioè quella che inizia con la rivoluzione francese (anticipata, per certi aspetti che qui interessano, dall’Illuminismo); e trova il proprio “punto d’Archimede” nell’ethos e nelle istituzioni politiche della borghesia, al di fuori delle quali non è (compiutamente) realizzabile: il legame con lo Stato (e la politica) moderna ne è confermato.

Proprio al periodo immediatamente precedente la rivoluzione risalgono le prime codificazioni dell’età moderna, frutto, come cennato, del secolo dei Lumi, e diffusesi nei decenni successivi. Coerentemente con l’esigenza di “stabilità” della legislazione borghese (necessaria al capitalismo) alcuni di quei codici pre e post-rivoluzionari sono tuttora in gran parte vigenti. Le necessità di “sistematizzazione” e di “sicurezza” che stanno alla base delle codificazioni in genere, e di quelle in particolare sono state descritte da Max Weber; ed a questi, come a Tarello, dobbiamo l’osservazione, d’esser spesso state osteggiate dal ceto dei pratici del diritto, dei “causidici” che sovente trovano occasioni di lucro nelle situazioni d’incertezza ed oscurità del medesimo[4].

4 Così come aveva trovato l’ “ambiente” più favorevole nelle istituzioni dello Stato borghese, così il razionalismo giuridico l’ha perso in quello del XX secolo: in modo evidente negli Stati totalitari, in forma meno netta e decisa (“correttiva”) altrove. Quanto alle ideologie totalitarie queste negano proprio quei due caposaldi della legge “qualificata” e della neutralità/indipendenza del Giudice; e più in generale negano (riducono) l’essenza dello Stato (come “idea direttiva”, non come apparato di coazione, chè, anzi, è esasperato). Così che la legge debba essere interpretata in conformità ai principi della rivoluzione o del regime, significa renderne assai incerta l’applicazione; che questa poi possa essere modificata con disposizioni varie (dall’ “ordnung” al “befehl”, alle norme “interpretative” del Praesidium del Soviet supremo) e se ne teorizzi anzi la mutevolezza a seconda dello stadio raggiunto dalla rivoluzione (o della situazione) è l’esatto contrario del roussoviano “imiter les immuables décrets de la divinité”; peraltro una certa, marcata, inclinazione alla weberiana “razionalità materiale” (che spesso si trasforma nel contrario) serve anch’essa a vanificare quella “formale” legando la decisione del giudice a principi di carattere etico, politico o utilitaristico. In quei regimi, poi, parlare di neutralità/indipendenza del giudice era umoristico più che assurdo: basta leggere una delle costituzioni (qualsiasi) degli Stati del “socialismo reale” – veri reperti di archeologia giuridica – per rendersi conto che il sistema giudiziario era di nomina – e sotto controllo – politico.

Ancor di più, è connaturale a comunismo e nazismo – le forme più coerenti di totalitarismo – negare (o limitare) l’idea direttiva dello Stato[5]. Il primo perché è un’ideologia dell’estinzione dello Stato: nella società comunista vagheggiata, lo stato di perfezione impedirà l’insorgere di conflitti (dovuti, notoriamente, al meum e tuum individuale), o se insorti ne consentirà la conciliazione ad un arbitro non “professionale”, dotato di bontà  e rettitudine naturale. In questa utopia, giudici ed avvocati “tecnici” sono altrettanto superflui di polizie e eserciti professionali. Nel nazismo, lo Stato più che forma dell’unità politica, è la macchina asservita al Führer ed al Bewegung, vere componenti attive (cioè politicamente decisive) dell’unità politica a tre “membra” come ricostruita da Carl Schmitt[6]. Il che conferma che, sviluppato (ancorché non esclusivamente) nello Stato moderno, il razionalismo giuridico deperisce con quello.

Sotto un diverso profilo il nesso tra Stato moderno (in particolare liberal-democratico) e razionalismo giuridico è dato dall’identica sottesa concezione della natura umana (e del potere pubblico). Nell’ideologia dello Stato moderno alla concezione “problematica” dell’uomo, come esposta da Machiavelli (che non cade né nel paradosso dell’uomo buono per natura, ma neppure nel pessimismo antropologico protestante), corrisponde, da un canto che un solo potere, quello sovrano, non ha bisogno di avere ragione per far eseguire le proprie decisioni, dall’altro che tutti gli altri, devono “giustificare” le proprie decisioni, sulla base delle norme emanate, o consentite dal primo. E tranne il sovrano, vige per lo Stato liberal-democratico la regola, esposta nel 51° saggio del “Federalista” laddove si legge “se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo sarebbe superfluo. Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere  altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi”.

Dato che per l’appunto i funzionari pubblici non sono degli angeli, ovvero non sono dotati di moralità ed intelligenza superiore a quella degli amministrati, si pone il problema delle giustificazioni e dei controlli, in modo non esclusivo, ma sicuramente assai più acuto che in altre forme  politiche. La motivazione, il richiamo alla norma “superiore” in minor misura lo stesso contraddittorio, l’uso di regole logiche e così via sono le garanzie che oltre a norme “misurabili” le stesse decisioni prese siano “controllabili” e “verificabili” (in particolare rispetto alle norme – alle leggi – applicabili, che impone la rispondenza della decisione al parametro “astratto”). In una forma di potere carismatico o tradizionale, tale esigenza non sussiste o lo è in misura ridotta. Il “profeta” può giustificare la propria decisione sulla rivelazione divina, o su un sogno; il cadì su un detto del Profeta più o meno applicabile al caso; Sancho Panza col buonsenso e la furbizia del contadino; ma il funzionario – amministrativo o giudiziario – dello Stato moderno ha il dovere di farlo in base alle norme, sia attributive di competenza, che di “merito”, razionalmente interpretate e sa fatti comprovati. Gli uni e gli altri molto più controllabili di profezie, sogni, esempi o detti, sia dal destinatario della decisione che dall’autorità di verifica (superiore “gerarchico”).

  1. Il razionalismo giuridico ha pertanto trovato nel secolo passato avversari meno diretti, aperti e determinati delle ideologie totalitarie, ma, a dispetto della minore incidenza, più persistenti e duraturi.

Si può identificarli, in generale, con alcuni presupposti – e conseguenze – delle ideologie del c.d. “Stato sociale” (altrimenti connotato come “Stato totale quantitativo” da Carl Schmitt); in particolare, per l’Italia, quelle ideologie hanno fortemente condizionato la prassi legislativa e l’evoluzione istituzionale della Repubblica. Connotato comune è l’aumento d’importanza della razionalità materiale rispetto a quella “formale” verso la quale quella viene fatta giocare in contrapposizione; e in effetti lo è oggettivamente, come  rilevato acutamente da Max Weber. Secondo il quale legislazione e giurisdizione “sono materialmente irrazionali quando per la decisione assumono rilevanza valutazioni concrete del caso singolo – siano esse di natura etica, affettiva o politica – e non invece norme generali”. Ma anche il diritto razionale può essere tale o formalmente, ossia perché individua le caratteristiche giuridicamente rilevanti “attraverso un’interpretazione logica, dando luogo alla formazione e all’applicazione di concetti giuridici definiti sotto forma di regole rigorosamente astratte” o in senso materiale. Ma questo non fa che accrescere “l’antitesi rispetto alla razionalità materiale. Quest’ultima implica infatti precisamente che la decisione delle questioni giuridiche deve essere influenzata da norme di dignità qualitativa diversa dalle generalizzazioni logiche di interpretazioni astratte – cioè da norme come imperativi etici o regole di opportunità utilitaristica e di altra specie, o massime politiche – che infrangano sia il formalismo della caratteristica esteriore, sia quello dell’astrazione logica”. In realtà nella legislazione italiana contemporanea troviamo sia elementi di irrazionalità materiale (in misura minore ma non trascurabile), sia, come cennato, il tentativo (l’espediente) di contrapporre la razionalità materiale a quella formale.

In un ordinamento giuridico coerente sia questa che quella (come, in certa misura, anche la valutazione concreta del caso singolo, ovvero il “materialmente irrazionale”) trovano una collocazione “armonica”. Così la discrezionalità (soprattutto amministrativa) viene esercitata in base ai presupposti “circoscritti” ed alle finalità determinate formalmente (cioè essenzialmente in base al principio di legalità), nell’ambito consentito dalla legge.

Quando invece si giustifica l’inosservanza o la disapplicazione di una norma legislativa, per le nobili finalità esternate dall’interprete (lottare contro la mafia, la criminalità, la plutocrazia, o più semplicemente provvedere per il bene di tutti, determinato dall’esegeta) si ha l’esempio di come l’una possa contrapporsi all’altra.

Quel certo eudemonismo, quell’aspirazione più intensa a realizzare la giustizia anche sociale sono elementi suscettibili d’introdurre e che spesso introducono dei discordi parametri valutativi nelle decisioni pubbliche. Ma è più interessante notare come, nella Repubblica dei partiti, è stata usata la razionalità materiale contro la formale, e come si è ridotto l’ordito del parametro principale di riferimento – la legge – nelle decisioni pubbliche.

Entrambi in modo spesso surrettizio, indiretto, e comunque non del tutto preponderante, sia per l’appartenenza al mondo occidentale (e all’economia di mercato) che per i vincoli costituzionali.

Quanto alla legge, cioè al principale parametro normativo delle decisioni, sono stati largamente disapplicati quei principi della legge “qualificata” tipici del Rechtstaat. Due ne sono i fenomeni più evidenti: la tendenza alla de-codificazione (ovvero alla sostituzione – talvolta totale, ma assai di più, parziale, di testi organici, come codici e testi unici con una miriade di leggi particolari e/o speciali), per cui gli stessi codici “tradizionali” costituiscono soltanto le stelle di prima grandezza di una nebulosa normativa d’incerta visibilità; e quella alla “amministrativizzazione” della legge.

Tra le distinzioni “classiche” dello Stato borghese c’è quella tra legge e provvedimento, la prima ratio, il secondo actio; la prima destinata a regolare situazioni e rapporti in modo durevole, il secondo a soddisfare necessità e bisogni mutevoli e concreti, spesso contingenti. Coerentemente al carattere “materiale” di Stato amministrativo della Repubblica, e non potendosi incidere sui principi costituzionali di legalità e riserva di legge, si è piegata, in larga misura, la legge a divenire essa stessa, nella funzione e nella sostanza un atto amministrativo preso con deliberazione parlamentare.

Basta leggere, tra le tante similari, una delle ricorrenti “finanziarie” per rendersene conto: l’esigenza che “unifica” una congerie di disposizioni disparate, spesso raggruppate nello stesso articolo, è lo scopo “gestionale” di soluzione di uno o più problemi contingenti che certe misure si propongono. A ciò si aggiunge la pletora legislativa, in larga parte determinata sia dalla de-codificazione che dall’amministrativizzazione, ma anche dalla settorializzazione e corporativizzazione (norme fatte per esigenze di piccoli gruppi, pubblici e/o privati); e la vieppiù scadente tecnica legislativa. Di guisa che a trovare nella Gazzetta ufficiale una “legge” che abbia le caratteristiche dei teorici dello Stato borghese (generale, astratta, destinata a durare, chiara, non ridondante ecc. ecc.) vi sono le stesse probabilità che incontrare una vergine in un bordello. In una situazione del genere, il problema più urgente ed essenziale che si pone a chi la deve applicare, non è tanto l’interpretazione, ma la ricerca e la “scoperta” della norma applicabile al caso: con l’inevitabile potenziamento sia della “discrezionalità interpretativa”, cioè della possibilità di scelta, per l’interprete, di due o più soluzioni plausibili, che dell’incremento degli errori.

Quanto alla “razionalità materiale”, nei testi normativi non risulta un deciso incremento di quelle norme, volutamente – e, in parte, anche necessariamente – indeterminate, che consentono all’interprete d’introdurre parametri etici o di opportunità nella decisione (il “comune senso del pudore”, la “diligenza del buon padre di famiglia” e così via); e questo potrebbe consolare, se il diritto fosse un insieme di norme. Ma questo è, in primo luogo, come riteneva Santi Romano, istituzione, cioè la varia e complessa organizzazione dello Stato, con i suoi rapporti di sovra – e sotto-ordinazione, i collegamenti di potere e autorità, la ripartizione di competenze. Se da un lato il clima politico e sociale incentiva o sollecita l’introduzione di regole etiche o di opportunità, anche attraverso il “pluralismo dei valori”; e dall’altro l’istituzione non reprime o, addirittura, facilita certi comportamenti, è naturale che, queste si diffondano nell’applicazione del diritto. Se l’oscurità e la proliferazione delle norme aumentano le incertezze interpretative, queste vengono applicate secondo il filtro dei giudizi di “valore” fatti propri dall’interprete. Il vincolo del funzionario alla legge viene così doppiamente attenuato. Anche perché il “pluralismo dei valori” con cui si delinea un aspetto – importante – del liberalismo, viene qui, trasposto, in modo nient’affatto liberale, dal privato al pubblico.

Se nel “privato” – nella società civile – è del tutto ammissibile la coesistenza di realtà, credenze e “sistemi di valori” diversi, come per esempio, le confessioni religiose – nel “pubblico” si richiede l’osservanza di un “sistema di valori” unitario, che consente solo modesti e parziali aggiustamenti, autorizzati legalmente. Se un cittadino italiano può legittimamente essere musulmano o buddista, un funzionario dello stato civile, pur musulmano o buddista, non può celebrare matrimoni poligamici o “a termine”.

Pluralità di credenze ed opinioni “private” non si trasforma nella pluralità di diritti, doveri e “garanzie istituzionali” tutelati (o imposti) dallo Stato. In realtà un simile “pluralismo” o “politeismo” di valori, oltre ad essere dissolutorio dell’unità e dell’omogeneità, connotati peculiari del pubblico, appare come la giustificazione di un assetto policratico di poteri, organi ed uffici non (o poco) coordinati e autoreferenziali.

Il tutto sfocia poi nel soggettivismo interpretativo, che è proprio ciò che il razionalismo giuridico è vocato ad evitare. Sulle forme in cui il soggettivismo si esercita ed articola, è importante leggere le acute pagine dedicate da Hegel alla fenomenologia della soggettività elevante se stessa ad assoluto “der sich als das Absolute behauptenden Subjektität”, con riferimento alla morale, ma utili anche nel diritto[7]: specie alle “figure” del “probabilismo”, della “buona intenzione”, dell’ “etica della convinzione” e dell’ “ironia romantica”, si possono ricondurre le giustificazioni esternate di una prassi interpretativa che finisce col negare oggettività al diritto e controllabilità alle decisioni, per cui costituisce un catalogo del soggettivismo burocratico: ma, purtroppo, al contrario di quello, più celebre, di Laparello, che si riferisce a un’attività forse non morale, ma piacevole, questo inquadra comportamenti immorali e  – per lo più – dannosi per tutti, fuorché, s’intende, per chi li pone in essere.

Che poi il tutto abbia effetti dissolutori verso lo Stato (di diritto e non) e incrementativi del potere – un potere non, o poco, funzionale all’ordine, in particolare a quello di una società moderna – è altrettanto evidente: lo notava già Hegel, contrapponendo la soggettività “particolare” alla soggettività del potere sovrano “identisch mit dem substantiellen Willen”, proprio perciò garante e conservatrice dell’unità politica, al contrario dell’altra, che la decompone[8]. Quanto al potere, quando chi lo esercita viene dispensato dal’onere di aver ragione – o quantomeno di doverla argomentare logicamente – e dalle correlative responsabilità, è moltiplicato per il numero di coloro che lo esercitano, anche se attenentisi alle loro (più o meno) limitate competenze[9]: invece di avere un Grande Fratello, ne abbiamo qualche centinaia di migliaia, spesso dannosi od inutili, e talvolta avidi: e nel cambio tra l’uno e i molti non c’è da guadagnare.

P.S.. Qualche mese fa suscitò commenti ironici, da parte degli (allora) futuri        oppositori, l’affermazione dell’on. Berlusconi che il suo futuro governo avrebbe operato come “Napoleone e Giustiniano” togliendo dalle leggi “il troppo e il vano”, e ci sia permesso di aggiungere, l’oscuro e l’equivoco. L’immagine più usata dagli oppositori (attuali) fu quella del Cavaliere con lo scolapasta in testa. In effetti per esponenti di partiti che hanno nel DNA l’estraneità ai principi dello Stato democratico-liberale e la diffidenza (a dir poco) verso il razionalismo giuridico, la pretesa di voler fare l’inverso di quanto da loro praticato può apparire incomprensibile e folle, anche perché vi sono tanti interessi (di partiti e di corporazioni) alla conservazione dello statu quo, e quindi l’impresa non sarà facile. Per gente abituata a pesare il potere col bilancino e ad adeguarsi di conseguenza è un argomento decisivo. Ma, a voler infondere coraggio al centro-destra a proseguire in quella (difficile quanto ragionevole) via occorre ricordare il giudizio di Max Weber “che tutte le innovazioni politiche favoriscono le codificazioni”.

Nella misura in cui il governo è innovatore, non può sottrarsi a confermare questa tendenza, a sostegno della quale sta che  la mera enunciazione di essa ha intimorito le forze della conservazione. C’è da sperare, pertanto, che le future azioni confermino la constatazione di Weber.

T.K.

[1] A tale proposito basti ricordare Calvino, il quale definisce così i magistrati – cioè i governanti – “En somme,  s’ils se souvienent qu’ils sont vicaires de Dieu, ils ont à s’emploiyer de toute leur étude, et mettre tout leur soin de répresenter aux hommes en tous leurs faits, comme une image de la providence, sauvegarde, bonté, douceur ed justice de Dieu ”; e Bossuet, che a sua volta, considera il monarca “ rappresentante” di Dio (v. ne “Politique tireé de l’écriture sante” e nel “Sermon sur les devoirs des rois”).

È inutile aggiungere che mentre il primo negava al Papa di rappresentare alcunché, il secondo negava allo stesso di poter intervenire nelle questioni temporali (v. la “Cleri gallicani de ecclesiastica potestate declaratio” secondo l’opinione più seguita, redatta da Bossuet).

 

 

[2] E poco dopo “se Sparta è stata un tempo così fiorente, ciò si deve, non alla bontà delle sue leggi particolari… ma al fatto che dettate da uno solo, tendevano tutte a uno stesso fine”. Discours de la méthode, p. II.

[3] V. Max Weber Wirtshaft und gesellshaft, trad. it., vol. III, Milano 1980, p. 17.

[4] v. G. Tarello Le ideologie della codificazione nel secolo XVIII, III edizione p. 25-26, Genova.

[5] Su questo concetto v. M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social) trad. it., Milano 1967, pp. 14-15.

[6] v. Carl Schmitt, Staat, Bewegung, Volk, trad. it. nei Principi politici del naziolsocialismo, Firenze 1936, pp. 186-190.

[7] Lineamenti di filosofia del diritto, prgf. 140.

[8] Op. cit., prgf. 320.

[9] Evitiamo, per motivi di spazio, di approfondire, nel contesto contemporaneo, l’opinione di Weber sul contributo a ciò delle “ideologie interne di ceto dei pratici del diritto” e degli interessi intellettualistici, che incidono, ovviamente sulla distribuzione del potere e sull’ “onore sociale” (v. M. Weber, op. cit. p. 192 ss.)

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Teatrino da poveracci, di Alberto Scotti

Ci sono avvenimenti, fatti, discorsi nei quali, se hai voglia, puoi leggere con straordinaria chiarezza lo spirito di un’epoca. È certamente il caso del monologo di Chiara Ferragni a Sanremo. C’è dentro tutto, ma proprio tutto, quello che ci contraddistingue:
1) Spleen della mediocrità, anzi proprio della scarsezza. Più sei incapace a leggere, scrivere, recitare, cantare, ballare ecc… più sali in alto e più vieni venerato. Questo perché? Perché le classi dominanti adottano strategie per abbassare sempre di più il livello della cultura popolare. Dunque servono modelli in cui chiunque, anche il più mediocre dei mediocri possa riconoscersi. Mai vista una recitazione/lettura più mal fatta, ridicola, patetica, neanche a un saggio delle elementari. Quindi prima serata nazionale nella trasmissione più seguita dell’anno. Serve un popolo di semi primitivi per far restare in piedi un sistema basato sullo sfruttamento sistematico.
2) Delirio narcisistico patologico e autoreferenzialità totale. Io, io, io, io, io e ancora io. Un mondo di individui soli, tristi, vuoti, perennemente attaccati a un terminale, in lotta con il resto del mondo per un tozzo di pane, che hanno bisogno di pompare, oltre ogni livello di grottesco, il nulla che sono.
3) Sentimentalismo d’accatto / la Narrazione. Narrazione, quella cosa che ha completamente preso il posto dei fatti, della realtà, della razionalità. Una sorta di pensiero magico da poveretti, una globalizzazione della peggior televisione americana divenuta linguaggio ufficiale del potere. Ti fanno lavorare come uno schiavo per due soldi? Ma è bellissimo, sei libero ed è tutta una meravigliosa avventura. La società dello spettacolo di debordiana memoria completamente fuori controllo. Un mondo di palloncini e cuoricini a coprire il puzzo della morte.
4) Vittimismo, piagnisteo. Altro cardine fondamentale dell’ideologia dominante. La funzione è doppia. Uno: rendere gli individui sempre più fragili, deboli, incapaci di lottare, affrontare la vita, sempre rannicchiati in un angolo a piangersi addosso e dipingersi come oggetti di soprusi, vessazioni di ogni genere. Quel che esiste lo si ingigantisce a dismisura, il resto lo si inventa senza ritegno. Tutto è tragedia, offesa, freccia avvelenata che trapassa il cuore. Due: fatti fuori i diritti sociali, vero incubo dei padroni, bisognava inventarsi qualcosa per continuare a mettere in scena la lotta politica. Ecco dunque i difensori dei diritti dei piagnoni in eterna guerra con coloro che vogliono negarli. Inutile specificare che è solo teatrino da poveracci.

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COSTITUZIONE E CANZONETTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE E CANZONETTE

A vedere l’omelia di Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete certificato), mi è venuto in mente quello che scriveva della sovranità del popolo Massimo Severo Giannini – e può essere adattato alla Costituzione nel frangente – che il popolo sovrano esiste solo nelle canzonette. Non posso dire con certezza quale dei molti significati possibili tale espressione volesse privilegiare.

Se quello dei realisti politici, che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme né le “masse”; ovvero che il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non solo) che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente; ovvero all’incapacità del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro).

Tuttavia resta il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione nel posto  dall’ironia di Giannini assegnato alla sovranità: nelle (o almeno tra) le canzonette. E anche il ritornello che la Costituzione è la più bella del mondo esprime una (profonda) verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.

Attribuire il predicato della bellezza è un giudizio estetico: si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più bella un’auto di Formula 1 (come sosteneva Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona Sinfonia; può piacere il Giudizio Universale di Michelangelo e l’Entierro del Senor de Orgas di El Greco. Tuttavia nessuno attribuirebbe, al contrario, quale (primo) giudizio positivo a un sant’uomo che è bello; o che S. Francesco e S. Martino donando beni ai poveri avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall e brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Per il diritto che è bello il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari. A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le costituzioni da Polibio in poi, passando per de Bonald il giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito all’indipendenza e potenza dell’unità politica. Ci sono anche costituzioni belle; ma così belle che non furono mai applicate come la costituzione giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro la prima costituzione europea scritta – che durò pochi mesi). Onde dare un attributo positivo (e improprio) di bellezza non le distingue (e non le santifica).

Tuttavia nel chiamare bella la costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero perché se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti culture politiche del XX secolo; dell’altro, dati i risultati degli ultimi trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”, in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati” la difesa della Costituzione, come il PD, riportando un consenso deludente che dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa è variegato, ma ormai minoritario.

C’è un’altra ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia comunque un significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana, del poeta, del musicista o del pittore. La Divina Commedia è una straordinaria costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come gli orologi di Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Botticelli un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il cervello di Orlando. Tutti tali artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e la bellezza hanno compensato l’irrealtà di queste.

Ma in politica vale come principio generale quello di Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa”. Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta costringe ad illudersi, scambiando l’immaginario (bello) per il reale “brutto”. Come d’altra parte, abitudine consolidata negli ultimi decenni.

Teodoro Klitsche de la Grange

Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 4a parte

Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 72)

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

QUARTA PARTE DELLO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA

 

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La funzione adattativa della cultura sistemico-complessa ad un mondo sempre più complesso, di Pierluigi Fagan

La funzione adattativa della cultura sistemico-complessa
ad un mondo sempre più’ complesso

di Pierluigi Fagan

Studioso indipendente. Independent scholar.

Sommario

Negli ultimi settanta anni il mondo ha subito una inflazione di complessità. Né le nostre
forme istituzionali, né quelle culturali corrispondono in senso adattivo a questo mutato
scenario. Analizzeremo quindi le necessità di trasformazione delle une e delle altre alla
luce della cultura della complessità e di come questa si riflette sugli “studi sul mondo”.

Parole chiave

Era complessa, cultura della complessità, onto-gnoseologia complessa, mondologia,
adattamento.

Summary

Over the past seventy years, the world has undergone an inflation of complexity.
Neither our social nor cultural forms correspond positively in an adaptive sense to this
changed scenario. We will therefore analyze the transformation needs of both in the
light of the culture of complexity and how this is reflected in ‘world studies’.

Keywords

Complex Age, complexity culture, complex onto-gnoseology, worldology, adaptive
system.

L’invito a partecipare alla riflessione sistemico-complessa di questo numero della rivista
chiedeva di analizzare, in senso critico, le forme del nostro mentale rispetto al “nostro
stare al mondo”. Il mondo è il contesto ultimo, lì dove l’estrema varietà dei vari modi
individuali e collettivi, mentali, comportamentali ed istituzionali, intessuti assieme
(cum-plexus), formano la realtà. Mondo-realtà oggi in sempre più rapida e profonda
trasformazione, evento che impone a tutti i soggetti individuali e collettivi umani, di
verificare il loro adattamento.

La prima edizione dell’Origine delle specie di Darwin (1859) non conteneva il concetto
di “evoluzione”, stante che il termine introdotto poi da Herbert Spencer, era mutuato dal
latino ciceroniano dove aveva il semplice significato di “svolgimento”. Si trattava dello
svolgimento dei due rotoli della pergamena che contenevano testi scritti. Lungo qui
sarebbe ripercorrere le avventure del concetto che da descrittivo è poi diventato

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 55
teleologico, quasi che l’evoluzione fosse una scala di progresso (Gee H., 2016). In
effetti, H. Spencer non fu solo il coniatore del concetto di evoluzione come poi inteso in
biologia evolutiva e più in generale nella nostra immagine di mondo generale, ma anche
quello di progresso (Spencer, H., 2018). Quest’ultimo fu poi assunto nello Zeitgeist
della fine XIX secolo ed inizio XX, come cifra dell’epoca della grande esplosione delle
attività economiche moderne e della affermazione di potenza della modernità
occidentale a guida anglo-britannica.

Ebbe grandi meriti concettuali l’opera di Darwin. Innanzitutto, ponendo il problema del
tempo, del tempo molto lungo. È noto che nella mente di Darwin, i diversi pezzi della
sua nuova immagine di mondo rispetto al problema delle specie, fecero un salto anche
in seguito alle prime scoperte fatte in geologia da Charles Lyell. Il concetto di “tempo”
ai tempi di Darwin era limitato alle verità bibliche, nella versione precisata dai calcoli
del vescovo anglicano James Ussher che tra creazione e contemporaneità di metà
Ottocento, contava poco meno di 6000 anni. Questo era lo spazio mentale del “tempo
del mondo” a metà Ottocento e solo lungo i successivi decenni, a fatica, la geologia lo
allargò sino agli attuali 4,5 miliardi del tempo della Terra e poi la cosmologia agli
attuali 13,8 miliardi di anni dell’Universo.

Nel tempo, e questo è il secondo apporto decisivo dell’Opera dell’inglese, si svolge il
cambiamento. Sembra strano dover sottolineare tale banalità oggi per lo più acquisita,
ma va ricordato quale fosse lo stato della mentalità generale della nostra area culturale,
l’area occidentale, ancora solo un secolo e mezzo fa. La creazione era perfetta, quindi
non aveva alcuna ragione per cambiare. Ci sono due concezioni principali della metrica
del cambiamento: continuo o a salto e Darwin poggiava la sua idea di formazione anche
di strutture molto complesse, ad esempio l’occhio, proprio sulla lunga estensione
temporale e quindi sommatoria di micro-cambiamenti adattivi. Negli anni ’70 invece, in
paleontologia, coi lavori di S. Jay Gould e N. Eldredge, si fa strada la Teoria degli
equilibri punteggiati ovvero improvvisi e radicali cambiamenti ad esempio dei piani
corporei, ove le novità si concentrano su geni strutturali. Salti di strutturazione di un
sistema possono avvenire per cumulo continuato di piccole modifiche, come per
cambiamenti puntiformi di nodi delle reti particolarmente determinanti.

Cambiamento del contesto generale che è il mondo fisico, di cui poi abbiamo scoperto
lentamente la storia fatta di chimica emergente in biologia, ecologia e dipanatasi in un
clima altalenante tra lunghi periodi glaciali e più brevi stagioni miti, tra cui il nostro,
l’Olocene, “solo” 13.000 anni in un tempo di 4,5 miliardi di anni. In questo tapis roulant
sempre in movimento che è il contesto, si ambienta la vita delle specie, da circa 3
milioni di anni anche il nostro genere e da 300.000 anni circa quella della nostra specie
Sapiens. Il vivere invece in grandi forme di vita associata con estranei, la civiltà, conta
poco più di 5/6000 anni. Il gioco dell’esistenza è appunto esistere per un tratto di tempo
nel più generale flusso cangiante del contesto che è il mondo. Noi come individui, come
gruppi informali, come gruppi formali istituzionalizzati, come umanità, assieme a tutte
le altre specie animali e vegetali, adattandoci gli uni con gli altri, come individui e come

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 56
sistemi, e adattandoci tutti al più generale contesto di un mondo in cambiamento fisico-
chimico-termodinamico perenne con moto costante o a volte a salto.

Tempo, cambiamento, adattamento. Questi, tra gli altri, i tre concetti che ci ha portato in
dote il sistema di pensiero di Darwin. Ma come per la “relatività” di Einstein, non
sempre i concetti di un sistema di pensiero o l’intero sistema, in questo caso un sistema
interno al pensiero naturalistico, percolano velocemente ed in maniera precisa
all’interno delle nostre immagini di mondo generali. A volte non percolano affatto, a
volte lo fanno in tempi piuttosto lunghi, asincroni, contrastati, a volte se ne estraggono
concetti che partono con certi significati e nell’interpretazione delle nostre immagini di
mondo dominanti e più ampiamente condivise, prendono significati diversi. Si adattano
anche loro essendo il linguaggio e la sua sottostante trama di significati anch’esso un
sistema nel tempo, in cambiamento adattivo.

Possiamo ora passare alla verifica del “nostro modo di stare al mondo”, rispetto ad un
mondo descritto per tempo, cambiamento e problema adattivo che pone.

Come per il tempo, anche il concetto di mondo andrebbe analizzato criticamente. A
parte segnalare la molto complessa composizione di sfere di sistema tra il nostro ambito
più prossimo (amici-famiglia) e quelle sociali ed istituzionali, varrà la pena sottolineare
un tipico errore di percezione da mentalità occidentale ovvero identificare il mondo col
nostro mondo. Per andar a vie brevi, segnalo solo che tutta l’Unione europea conta
meno del 6% della popolazione mondiale, l’intero Occidente (Europa più Anglosfera)
arriva intorno al 13% del mondo umano nella sua interezza. Tra l’altro il “nostro”
mondo ha sempre crescenti tassi di anzianità e sempre minori tassi di natalità; quindi, va
a contrarsi come peso percentuale nelle previsioni per i prossimi trenta anni. Dovendo
revisionare la nostra percezione di consistenza, dovremmo anche moderare la nostra
sfrenata passione per le dichiarazioni di universalità. Queste, semmai possibili,
richiederebbero quantomeno una minima conoscenza etno-antropo-geostorica e quindi
culturale delle varietà umane sul pianeta. Tendiamo spesso a dire cose anche con una
certa presunzione di verità ultima, pur non avendo mai aperto -ad esempio- il Corano
(1,8 mld di credenti) o ignorando i principi della cultura sinica (anche oltre i cinesi
propriamente detti somma anche altri popoli-culture, ad occhio 1,6-1,7 mld di individui)
o indiana o africana. Tendiamo un po’ troppo spesso a far coincidere il nostro limitato
mondo col mondo esteso e questa errata percezione del contesto non può che generare
immagini di mondo idealistiche, autocentrate e prive di realistico portato adattativo.

Ma veniamo al contesto ultimo a cui dobbiamo adattarci, il mondo nel suo complesso,
in quanto tempo e come è cambiato. Il mondo umano, nei soli ultimi settanta anni, si è
triplicato. Eravamo circa 2,5 miliardi negli anni ’50, oggi siamo secondo gli statistici
delle Nazioni Unite, 8 miliardi a novembre ‘22. Si stima tra 9,3 e 10,0 miliardi al 2050,
ma sulla precisione delle stime c’è inesauribile dibattito (Dorling D., 2021). L’intero
registro della storia umana non nota alcuna triplicazione in soli settanta anni e
comunque mai partendo dalla già rilevante cifra di 2,5 miliardi. Ciò non porti a credere
si voglia qui iniziare un lamento malthusiano sul “siamo troppi”, il problema è lo stile di

vita. Ad esempio, il pianeta basterebbe ed avanzerebbe in termini di spazio e risorse se
vivessimo tutti all’indiana, ce ne vorrebbero cinque se vivessimo tutti all’americana
(Butera F.M., 2021). Poiché sembra difficile poter convincere noi stessi e gli americani
a vivere all’indiana, ma anche convincere gli indiani ed in genere gli asiatici (l’Asia è il
60% della popolazione umana) e poi gli africani a non aspirare all’agio di vita
occidentale per quanto reinterpretata a modo loro, si comincerà anche a capire quale
lungo elenco di problemi adattivi in termini di reciproca convivenza e generale
compatibilità con lo stesso limitato pianeta abbiamo, in questa fase storica.

Non sono solo aumentati gli individui in questa che possiamo definire “grande
inflazione” recente, dove inflazione qui ha il significato che ha in cosmologia, sono
aumentate ovviamente anche tutte le forme istituzionali. Gli stati si sono altresì
triplicati. Da circa 70 ad anni ’50, oggi ne contiamo poco più di 200 all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite. Del resto, sono cinquemila anni che in varie forme (regno,
impero, città-Stato, Comune, principato, khanato, califfato e via così) si stabiliscono
domini giuridici, politici ed amministrativi con bordi più o meno precisati e sovranità
interna. Sistemi cioè, noi viviamo in forme associate creando sistemi di diritto oltreché
di fatto (Buckley W., 1998). E lo facciamo per l’ottima ragione che, com’è noto,
l’intero è qualcosa più delle parti (Aristotele, 2000, pag. 387). Infatti, noi ci
adattiamo ai sistemi di vita associata ed usiamo questi come veicoli adattivi. Questi
sistemi sono i nostri riduttori di complessità che danno ordine e prevedibilità, nonché la
“forza” delle unioni. Questa grande esplosione varietale di accompagno alla grande
inflazione umana, oltre agli Stati, ha contato molte altre forme, da quelle delle
organizzazioni multilaterali, le multinazionali, le ONG, le organizzazioni criminali e
molte altre tipologie. Per lasciare sempre una quantificazione del nostro specifico
mondo, l’Europa conta poco meno di un quarto del totale degli stati del mondo (23%),
come detto con ben meno del 10% della popolazione. Se ne deduce un certo nanismo
stato-nazionale, figlio della nostra complessa geostoria. Ma la nostra geostoria che era
ad ambiente interno locale (il nostro sub-continente) per lungo tempo, ha poi
approfittato del resto del mondo con colonie ed imperi, mentre oggi deve trovare forme
di convivenza mondiale con soggetti molto più massivi in un sistema-mondo di vastità
planetaria. Sono dunque amentate di molto le varietà componenti il “sistema umano
planetario” e di conseguenza sono molto aumentate le interrelazioni grazie a nuovi
mezzi e modi di usarli. Nei trasporti, nelle telecomunicazioni, negli scambi di persone,
di idee, di prodotti e servizi, di reciproci investimenti (Vegetti M., 2017).

Infine, e per limitare al canonico “tre” (Johnson N., 2009) l’elenco dell’inventario della
radiografia della “grande inflazione” in breve tempo occorsa a livello umano-planetario,
va segnalato che ormai, in tutto il pianeta, più o meno ogni comunità umana e sempre in
descrizione a grana grossa, organizza la propria attività economica con le forme
moderne. La forma moderna di economica (tecnica-scienza, mercato, capitale) è detta
anche capitalismo ma di capitalismo esiste un numero di definizioni poco minore di
“complessità”, qualche decina abbondante (Ingham G., 2010). Su “modo economico
moderno” si deve considerare la dipendenza delle condizioni iniziali e dal percorso. Le

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 58
condizioni iniziali erano quelle di una isola (l’Inghilterra del XVII secolo, la Gran
Bretagna del XVIII, il Regno Unito del XIX) inizialmente con scarsi cinque milioni di
abitanti, piena di energia fossile (carbone), quindi potente energia a basso costo, del cui
utilizzo ignoravamo limiti ed impatti eco-ambientali, con una certa propensione
all’andare a rapinare genti e risorse altrui in giro per il mondo, con navi, armi a scoppio
ed armi ideologiche non meno potenti. Lo si segnala non per ragioni etico-morali, ma
funzionali, ciò era funzione della viabilità del sistema di economia moderna. Va da sé
che anche in forme mutate, il sistema di economia moderna potenziato dai nostri
avanzamenti tecno-scientifici che però risponde per lo più alla logica interna del sistema
(quindi il profitto ad ogni costo), esteso a grandi parti di un mondo ad 8-10 mld di
persone, con grandi parti di esso che per altro hanno appena cominciato a fare quello
che noi abbiamo fatto per duecento anni e che aspirano, legittimamente, a livelli di
benessere simili ai nostri, crea un irrisolvibile problema adattivo. Tra tutti noi e tra noi
ed il pianeta.

È in ragione di questa appena accennata descrizione dei tempi recenti e logica dei
sistemi che compongono il mondo umano, che vediamo in emersione una
fenomenologia appena un gradino prima del fatidico caos. Che sia problema virologico,
ecologico, climatico, demografico-migratorio, culturale (es: “scontro di civiltà”),
economico, finanziario, valutario, politico interno e politico esterno ovvero il grande
problema delle relazioni internazionali o geopolitico. Con relativo seguito di cascate di
nuovi problemi concettuali, dal mai da noi considerato concetto di “limite”, alle
interdipendenze, alle democrazie in assenza di consapevolezza diffusa e relativa
partecipazione politica, alla salute mentale media, alla dogmatica sulla “crescita” del
valore economico, allo stress per i treni di perturbazioni (dalla crisi dei mutui subprime
al Covid, dalla guerra attuale alla nuova fase di de-globalizzazione o annunciata grande
guerra tra “democrazie ed autocrazie” promossa dall’attuale amministrazione
americana). Il tutto, quanto a società occidentali, con società allungate da livelli inediti
di vari tipi di diseguaglianze (Innerarity D., 2022). Siamo al compiersi di una parabola
di modernità alla fine della quale sembra noi non sia più in grado di immaginare il
“dopo che si fa?”, prorogando ormai da qualche decennio, il precario utilizzo del
prefisso “post…”. Un lungo funerale del moderno che non riesce a voltare pagina.

Potremmo dire, in sintesi, che il mondo oggi è di una complessità cresciuta
enormemente in poco tempo, le nostre forme sociali ed istituzionali provengono da un
passato molto meno complesso e così le nostre immagini di mondo. Tempo ristretto,
cambiamento vasto e profondo, adattamento problematico. La diagnosi è quindi
semplice: severo rischio di disadattamento all’Era complessa. Prima di preoccuparci
dell’universo mondo dispensando consigli agli altri sette miliardi di condomini planetari
dovremmo forse cominciare dal mettere ordine al nostro sistema, concreto e mentale,
poiché il rischio disadattivo è prevalentemente nostro visto che gli ultimi quattro secoli
ci hanno visto in posizione dominante. La stessa nostra credibilità a discutere con gli
altri condomini planetari è fortemente intrisa di sfiducia nei confronti della nostra onestà

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 59
intellettuale e delle stesse nostre intenzioni (Mahbubani K., 2019). Nelle comunità la
reputazione conta.

L’invito che mi è stato fatto a partecipare alle riflessioni di questo numero della rivista,
chiedeva altresì di mostrare come quanto detto criticamente a proposito del mondo, si
riflette nel mio lavoro di studio, che è ciò che ho fatto sull’oggetto “mondo” in questi
anni. Per farlo dovremo prima inquadrare più precisamente quella che qui chiamo
“cultura complessa”, poi vedere come applicarla agli studi sul mondo.

Dal mio punto di vista la cultura sistemico-complessa è una onto-gnoseologia. È una
ontologia in quanto si tratta di inquadrare a priori ogni oggetto del discorso (ed ogni
discorrente e ricevente del discorso o co-dialogante) come un sistema, parti in
interrelazione che creano un qualcosa che ha coerenza interna maggiore di quanto si
abbia con l’esterno. Esterno che è fatto da altri sistemi con cui si hanno interrelazioni e
che più in generale si può anche dire contesto o ambiente. Non solo le interrelazioni e
relative interdipendenze tra sistemi sono importanti e modificanti, ma anche quella più
generale col contesto. Da qui l’importanza del concetto di adattamento o viabilità
direbbe Ernst von Glasersfeld (1995). Ogni sistema ha una storia, un tempo. Varietà
(parti, meglio se varie nella loro comparazione relativa), interrelazioni (ad una, due,
molte vie, rientranti o meno, portanti segnali lineari o non lineari, feedback, ricorsività
etc.), sistemi maggiori che nascono dall’interrelazione tra sistemi minori, tempo (breve
medio-lungo), queste le coordinate di una ontologia sistemica.

Tale apriori, applicato al mondo concreto, non mostra eccezioni di corrispondenza
ovvero tutto può esser descritto come un sistema. Non abbiamo idee chiare sul livello
primo, semmai esista (il livello micro, precedente i quark), o del livello ultimo (uno o
più universi e varie problematiche della sua/loro definizione spazio-temporale), ma tutto
ciò che sta in mezzo, risponde a questa descrizione sistemica. Che siano quark che
fanno adroni o adroni ed elettroni che fanno atomi o atomi che fanno molecole o
molecole che fanno qualsiasi altra cosa, minerale, gassosa, liquida, vegetale, animale,
umano-sociale, dalla goccia d’acqua agli ammassi di galassie, tutto risponde ad una
descrizione sistemica. Vale per il mondo materiale, ma vale anche per quello ideale dai
caratteri agli alfabeti, le lingue, le idee, i concetti, i paradigmi, le teorie, le ideologie, le
credenze, i discorsi, le immagini di mondo, le culture che nel tempo diventano
tradizioni. Nonché i nostri vari tipi di istituzioni sociali. Lo stesso nostro
cervello/mente, l’organo adattivo per eccellenza, è fatto di varietà e sistemi neuronali
collegati a breve (dendriti) ed a lungo (assoni), con molte strutture a rientro (feedback)
su cui viaggiano segnali elettrochimici, nel contesto corporeo e sociale, cambiando nel
tempo.

Come credo molti ben sanno tra coloro che condividono questa impostazione, fertile e
distintiva è questa forma di inquadramento degli enti. Evita l’eccessiva semplificazione
(riduzionismo) che non è dote di natura del mondo sebbene sia spesso richiesta specifica
della nostra povera mente che cerca di catturarla, mostra la pluralità di strati emergenti
costitutiva tutti i sistemi-enti, immunizza dell’eccesso di aspettativa di precisione

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 60
definitoria (determinismo), dinamizza l’essere, convoca la relazioni come ingrediente
primo dell’essere stesso, le interdipendenze, porta a leggere il testo col contesto, il
diretto e l’indiretto, la grana fine e la grana grossa, i limiti che le cose hanno (tutte), al
contempo le aperture sempre presenti in ogni presunta chiusura, il relativo al posto del
sempre vagheggiato assoluto, il tempo, quindi il cambiamento nelle sue varie metriche,
l’imperativo adattivo e molto altro.

Se questa è la breve definizione dell’ontologia, studio delle forme dell’ente in generale,
la gnoseologia attingerà più direttamente al grande sviluppo del pensiero complesso. Il
termine “gnoseologia” non è molto usato, si usa in genere epistemologia. Lunga e
complicata la storia del perché il secondo termine che è restrittivo rispetto al primo, è
l’unico ad esser usato. Non la possiamo qui sviluppare, diremo solo che dipende molto
dalla logica delle immagini di mondo tipicamente anglosassoni che sono dominanti in
Occidente. Le forme di conoscenza umane (gnosi) sono ben più ampie delle sole forme
di conoscenza scientifica (episteme), quindi se epistemologia alla fine è una filosofia
della scienza, gnoseologia è la riflessione sulle forme di conoscenza non solo scientifica
ma anche umano-sociale ed umanistiche.

In gnoseologia complessa, si usano ovviamente logiche di deduzione ed induzione, ma
anche spesso di abduzione (Bonfantini M., 1987). Le forme duali di categorizzazione
saranno plurali e non solo dialettiche nel senso neoplatonico-hegeliano. Il sistema
categoriale andrebbe analizzato a parte rivedendo le sistematizzazioni date da Aristotele
e Kant, ma particolar rilievo avrà il concetto di “relazione” che modifica
dinamizzandolo il concetto di ente al suo interno e nel suo rapporto con l’esterno.
Ampio lo sciame dei concetti trovati nell’indagine sistemico-complessa degli ultimi
settanta anni. A puro titolo di esempio citiamo: emergenza, auto-organizzazione, non
linearità, strutture ricorsive, dipendenza dalle condizioni iniziali e dal percorso,
approssimazione statistica, vari principi di indeterminazione etc.

Un aspetto specifico è decisivo soprattutto quando inquadriamo oggetti molto grandi e
complessi come “uomo” o “mondo”. Si tratta del necessario sviluppo di una seconda
forma di conoscenza accanto a quella verticale delle discipline e delle sotto-
specializzazioni delle varie discipline tipica del moderno, una forma orizzontale che
unisce più discipline tra loro (interdisciplinare), le attraversa (transdisciplinare), ne usa
più d’una al contempo per indagare l’oggetto (multidisciplinare). Le due forme,
specialismo-verticale e generalismo-orizzontale, sono legate da un principio di
indeterminazione per cui la prima va più vicino agli oggetti ma ha difficoltà ad
inquadrarli nell’insieme e nei rapporti col contesto, la seconda pagherà in precisione
avvantaggiandosi però dell’ampiezza di inquadratura. Anche se questa seconda, in
fondo, usa al contempo tutti i guadagni specifici delle varie specifiche discipline e non è
solo uno sfocato “olismo”. Proveniamo da almeno quattro secoli di sviluppo della
conoscenza mono-disciplinare e la forma multi-inter-transdisciplinare è ancora tutta da
sviluppare, provare e correggere, formalizzare creando tradizioni di metodo, corpo
teorico stratificato, nuovi concetti e sintesi di sintesi. Lascia francamente sbigottiti il

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 61
nostro attuale metodo di studio del mondo. Economisti che scorporano l’economico
dall’ambiente si alternano ad ecologhi esperti di ambiente ma non di economico, che
sopravvengono ad analisti politici che sanno tutto del dentro gli Stati ma niente di
politica internazionale così come i secondi nulla sanno degli oggetti e fenomeni che
studiano gli altri. Analisi di entità non ambientate in geografia, non pesate con
demografia, con nessuna conoscenza geostorica o geoeconomica, ignara almeno dei
contorni delle principali culture e mentalità del mondo, incluso almeno un minimo di
storia del pensiero religioso che tanta importanza ha ancora nella composizione delle
immagini di mondo non europee. Così c’è sembrato che il mondo fosse un unico grande
mercato globale imponendoci le totali aperture dei mercati delle merci, dei servizi e del
lavoro quando dominava il sacerdote economico. Poi abbiamo scoperto che ciò sta
rendendo parimenti ricca una parte del mondo diversa dalla nostra, una parte che
minaccia di chiederci di partecipare a pari grado almeno nelle definizioni e gestioni dei
regolamenti del mondo. Cosa che non ci conviene. Allora ecco che con un ribaltamento
sconcertante la globalizzazione stile WTO è archiviata e con essa i sacerdoti economici,
è il momento dei dai sacerdoti geopolitici che ci istruiscono sulle insidie minacciose
dell’eterno conflitto di potenza. Da Smith siamo retrocessi ad Hobbes. Con breve
intermezzo degli inquietanti sacerdoti virologici. Avevamo di recente appena
cominciato a prestare orecchio ai lamenti dei sacerdoti ecologico-climatici (dopo averli
ignorati per decenni), ma ecco che quelli economici ci avvertono che ora è il momento
di tornare a scavare ed usare carbone perché il nostro fornitore di gas in Europa è
diventato un “nemico”. Adattarsi all’era complessa con questa confusione nell’area
della conoscenza, per non parlare della sua distribuzione e condivisione, non sembra
proprio alla nostra portata.

L’adattamento al mondo cambiato e che cambia non può che richiedere un adeguamento
delle immagini di mondo e queste rispondono primariamente all’inquadramento degli
enti (ontologia) e le modalità con cui tentiamo di conoscerli (gnoseologia).

Per chiudere questo breve auto-esame della cultura sistemico-complessa sarà utile dire
qualcosa sulla sua breve e recente storia. Non è forse un caso che tale forma mentale si è
andata sviluppando praticamente in corrispondenza con la “grande inflazione” umana,
sociale e politica, degli ultimi settanta anni (McNeill J.R., 2018). Cambia il mondo,
cambia il nostro modo di osservarlo prima che di viverlo. I due fondamenti teorici che
più di altri si riconoscono tali provengono da un biologo teoretico, Ludwig von
Bertalanffy quanto a Teoria Generale dei Sistemi (2004) e da un fisico matematico,
Norbert Wiener, quanto alla Cibernetica (2001). Il metodo pluridisciplinare, già
teorizzato come necessario da Bertalanffy, si manifesta nelle famose Conference Macy
dove il primo set di concetti contamina antropologia, psicologia, economia, sociologia
oltreché biologia e fisica. La cibernetica sarà poi la base dello sviluppo di ricerca in
scienze cognitive fino ai progetti di Artificial Intelligence, a vari tipi di modellizzazioni
(automi informatici). La matematica della complessità diventa geometria (frattali),
teoria del caos, fisica computazionale, network e reti. Ingegneria, urbanistica, teorie
dell’organizzazione e quindi management ne sono fortemente attratte. Abbiamo prime

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 62
ricezioni in psicologia (Piaget) a cui seguono quelle in sociologia (Luhmann), che
comunque nasce sistemica già di suo. Anche la linguistica nasce come sistemica anche
se, per via di altre vicende, verrà poi identificata con il concetto di struttura. Gli studi
storici si arricchiscono del contributo epistemico della scuola francese delle Annales, in
pratica fondazione della geo-storia (Braudel F., 1988) coi suoi fenomeni di “lunga
durata”. Stranamente impermeabili risultano l’economia ed in parte la stessa filosofia.
Esistono oggi studi e sviluppi di economia delle complessità (Hidalgo C., 2016) ma si è
dovuto attendere la lunga sequenza di fallimenti teorico-pratici recenti (bolle, crisi
mutui subprime, crisi della crescita, disordini da globalizzazione), prima che la ricerca
cercasse di capire cosa evidentemente non aveva capito del suo oggetto di studio. A
partire dalla surreale definizione di “uomo economico” (Hirschman A.O., 2011) che è
però base di tutto lo sviluppo successivo delle teorie principali dal campo. L’economia è
oggi la disciplina dal più forte connotato ideologico essendo le sue pratiche ciò che
ordina i nostri sistemi di vita associata, da qui la resistenza teorica all’auto-revisione con
fissazione dogmatica come sempre avviene quando un sistema è recalcitrante al
cambiamento. Quanto alla filosofia il discorso è ovviamente molto complesso in sé.
Diremo solo che il grande lavoro di Edgar Morin (1977-2004), non ha al momento più
di tanto figliato in senso sistemico-complesso generale. Ma qui dovrebbe intervenire
una più specifica analisi della crisi storica che investe il “pensiero che pensa sé stesso”
(Aristotele, 2000), forse già dalla seconda metà del XIX secolo. La teoria del paradigma
di T. Khun (1969-99), nel campo delle immagini di mondo generali, porta a pensare
molto idonea l’idea di poter dare questo ruolo al concetto sistemico/complesso.
Sociologia della conoscenza e politica (a vari livelli) sono però sistemi di attrito che
condizionano lo sviluppo di nuove forme di immagini di mondo.

Come si vede, la stessa cultura della complessità è un fenomeno emergente, come se la
complessità intrinseca del mondo, dei suoi oggetti, dei suoi fenomeni, del nostro
sguardo individuale e collettivo, fosse un modo di esser dell’ontologia generale che però
le nostre forme storiche di pensiero hanno per lungo tempo evitato di riconoscere,
semplificandole. Almeno fino a che la “complessità” del mondo non ha cominciato ad
esplodere nella recente “grande inflazione”.

Su questo ultimo punto, mi permetto una breve osservazione sulla differenza tra
complicato e complesso. Personalmente, credo che ripetere questa differenziazione per
cercar di comunicare all’esterno il campo del pensiero sistemico-complesso, renda la
questione più complicata del necessario, in senso occamiano. Dal mio punto di vista,
semplicemente “tutto” è complesso visto che l’ontologia, che è filosofia prima, è
sistemica in senso universale. Al suo interno si potranno avere differenti gradi quali
quelli che per comodità chiamiamo “semplici” e quelli più prevedibili ed ordinati che
chiamiamo “complicati”. Ma poiché l’impianto complesso, essendo una onto-
gnoseologia, afferisce alle forme fondamentali del pensiero umano che poi si estrinseca
in immagine di mondo che applichiamo all’immensa varietà di oggetti e fenomeni del
mondo, dell’essere umano, della relazione tra uomo (individuale ed associato, mentale e
materiale) e mondo (fisico, biologico, sociale, politico), converrebbe darlo come

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 63
paradigma generale (in senso kuhniano) e trattare le altre come regioni specifiche
piuttosto che chiedere ai pensanti di domandarsi se e quando applicare l’impianto
complesso, quando quello complicato o quando quello semplificato quasi avessimo un
intero armadio di abiti mentali da scegliere secondo occasione ed umore. La mente
umana non funziona così, l’immagine di mondo ha un paradigma centrale che per lungo
tempo ha orientato alla “semplificazione” mentre oggi, in termini adattivi, è richiesto
l’orientamento alla complessità. Il complesso è nativo dell’ambito della vita, quindi
dalla biologia in su. Ma lo è altrettanto della chimica (Kauffman S., 2005), disciplina
che ha avuto purtroppo pochi epistemologi (Bencivenga-Giuliani, 2014) che ne
vantassero la mitologia specifica che invece è ricchissima ed assai istruttiva di cos’è la
complessità del reale a livelli molto basici ed universali. Per non parlare di quanta
complessità emerge obiettivamente dalla fisica (Gell-Mann M., 1996). È il paradigma
dell’immagine di mondo settata sui principi del XIX secolo basati sulla Rivoluzione
industriale (le “macchine”), a sua volta figlia della meccanica newtoniana e coordinato
con i principi dell’economia moderna, che va relativizzato. Meglio allora fare la
rivoluzione paradigmatica fino in fondo e stabilire che il sistema mentale legge
complessità ovunque ed egli stesso ne dovrebbe assumere forme e principi stante che il
singolo oggetto più complesso che conosciamo è proprio il cervello/mente umano
(Tononi G., 2014).

Nel mio specifico campo di studio che è una forma di geopolitica complessa che diventa
nei fatti una nuova disciplina, la mondologia, applico quindi di default l’ontologia
sistemica che siano Stati o sistemi regionali o sistemi economici e valutari, culturali o
quant’altro. Ne leggo l’ambientazione geografica. Ne debbo però anche leggere la
sostanza in geografia umana che spesso è demografia: quanto grandi o piccoli, con
quante e quali fasce di età, con quale momento dinamico (anzianità, natalità) etc. Per
evitare la trappola determinista-riduzionista è bene poi ricordarsi che gli umani
interpretano le condizioni date in geografia in molti modi da cui la geostoria specifica
dei vari popoli o aree continentali o subcontinentali. Così per la geoeconomia che oltre
ai grandi concetti sfocati come “globalizzazione” impone la conoscenza di minima del
suo numero-peso-misura generale. Questo quanto a “geo” (Cerreti-Marconi-Sellari,
2019). Quanto a “polis”, va da sé la necessaria conoscenza delle metriche di politica
estera ed internazionale, ma non meno quella delle varie politiche interne che
condizionano le scelte di politica estera dei decisori. Se non proprio l’impossibile
conoscenza di tutto ciò, almeno il possesso di buone mappe sul dove andar a reperire le
informazioni necessarie all’analisi specifica. Il conflitto tra attori nel mondo può spesso
prender forme belliche; quindi, nozioni di militare e strategia (polemologia) sono
necessari. Ovvia la necessità di conoscere più nello specifico le forme economiche,
finanziarie, valutarie dell’unità metodologica base che per il campo è lo Stato, per “n”
Stati e loro interrelazioni. Così per le necessarie nozioni aggiornate in campo
tecnologico, a sua volta oggi in grande accelerazione che impatta militare ed economia,
ma spesso anche sociologia e politica. Poiché però la sostanza dell’unità metodologica

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 64
statale sono gli umani, occorre conoscere anche le principali forme delle varie culture.
La nostra ignoranza dell’Asia (60% del mondo umano) o dell’Africa (sarà il 25% nel
2050) è vasta e profonda. Infine, poiché lo scenario è il mondo, non si può prescindere
da considerazioni ambientali, ecologiche, climatiche stante che queste scienze sono
giovani, i loro consolidati sono ancora incerti e precari, la loro sensibilità agli interessi
dominanti e sfidanti massima, la loro complessità intrinseca altrettanto alta. Impossibile
iniziare un dibattito in questi campi se non si accetta per convenzione una comune
logica abduttiva. Tutto questo lo abbiamo dato ad elenco, ma va messo a sistema
facendo interferire i vari saperi tra loro, conoscendo anche gli statuti epistemologici
delle varie discipline che ci forniscono idee e modi di organizzarle oltreché i famosi
“dati”, con loro impostazioni sempre criticabili e rivedibili. Se l’avalutatività weberiana
è un miraggio, occorrerà però star ben attenti a non abusare di tagli ideologici a priori
(politici, filosofici o anche solo epistemici di questa o quella disciplina) che distorcono
la nostra percezione del mondo nel suo complesso.

Se questo è l’oggetto mondo ovvero “spazio” va ricordato anche il suo “tempo”.
Sempre settanta anni fa circa, nasceva una nuova disciplina che è la futurologia (Gidley
J.M., 2017). Questa è una disciplina vera e propria, con sue cattedre universitarie,
metodo, letteratura, dibattito epistemico. Cercar di prevedere i corsi principali di
sviluppo del cambiamento complesso del mondo è sempre più necessario, se non altro
come ipotesi abduttive. Più o meno quello che oggi sappiamo sul cambiamento
climatico, lo sapevamo anche negli anni Ottanta. Avessimo allora preso sul serio queste
conoscenze, avremmo avuto quaranta anni per spalmare gli interventi di adeguamento.
Ora ci rimangono per lo più quelli di mitigazione degli effetti irreversibili. Il mondo è
diventato un sistema denso occorre prevederne gli andamenti per rilasciare nel tempo
azioni di cambiamento adattativo. In un mondo così complesso, quando si manifestano i
problemi è sempre troppo tardi per risolverli.

Il fine di tutto ciò, di questa richiesta nuova “mondologia”, è l’adattamento all’era
complessa. Il concetto di adattamento in biologia prevede una lotteria di copiatura con
errore e ricombinazione genica da cui scaturirebbe la novità che può poi diventare
elemento adattativo che si espande nelle popolazioni tramite riproduzione. A livello di
specie umana, già da tempo si studia l’adattamento in termini di novità culturale che
porta poi gli umani a trasferirla ai loro sistemi di vita associata (Cavalli Sforza L.L.,
2004). Per altro anche in biologia, si sta tentando di uscire dai dogmi individualistici,
deterministici e riduzionisti, (Jablonka E., Lamb M.J., 2007), inserendo la complessità
epigenetica ed il ruolo delle popolazioni, dei livelli emergenti che dal genoma porta
all’individuo o al gruppo, plasticità e selezione multilivello, biologia dello sviluppo etc.
Conseguente è stata la comparsa, ad esempio, del concetto di “costruzione di nicchia”
ovvero non solo l’accettazione passiva, l’adeguamento per autotrasformazione al dettato
del contesto cui adattarsi. In logica adattiva, molte specie cambiano il proprio ambiente,
la nostra più di tutte le altre, modificando i nostri modi di pensare ed agire, ma anche i
sistemi istituzionali in cui viviamo e l’ambiente stesso cui dovremmo adattarci. Queste
auspicate trasformazioni intenzionali richiedono oggi, senza eccezioni, di saper dove

Riflessioni Sistemiche – N° 27 dicembre 2022 65
metter le mani. Siamo passati dal credere che l’ordine del mondo avesse garanzie
divine, per poi affidarci alla “mano invisibile” del mercato, sarà il caso di diventare un
po’ meno infantili, consapevoli e responsabili.

La grande inflazione degli ultimi settanta anni, oltretutto generatrice di metriche
accelerate a cascate sempre più intrecciate di fenomeni inusuali, ci dice che il contesto è
e sta cambiando profondamente. Dovremmo cambiare anche il nostro modo di stare al
mondo. Ma prima dobbiamo forse cambiare il modo con cui pensiamo di conoscere il
mondo ed il modo con cui pensiamo di progettare non solo i meccanismi ma anche i
sistemi sociali ed istituzionali, le interrelazioni economiche, sociali e politiche che
fanno il nostro modo di stare al mondo. Progettare qui significa curare le “condizioni di
possibilità”. In metafora, un po’ meno ingegneria, un po’ più agricoltura. Portare la
cultura sistemico-complessa a candidarsi come paradigma subentrante il razionalismo
modernista che nacque in altro tempo e condizione del mondo, è forse la via politica più
utile e saggia per evitare la lunga sequenza di catastrofi cui saremo destinati (Servigne
et alt., 2020) se non saremo in grado di rimanere al di qua del caos che si prospetta con
il serio rischio di fallimento adattivo.

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IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Nota introduttiva

Questo saggio era stato pubblicato sul n. 1/2003 della rivista
“Palomar”. I problemi che tratta non sono per nulla cambiati. Anzi sono
stati aggravati dalla c.d. “legge Severino” onde è ancora un lavoro per
il ministro Nordio.

 

IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA

  1. È merito – non dei minori – di Berlusconi aver posto, dopo la decisione della Cassazione sul legittimo sospetto, il problema dell’immunità degli organi apicali dello Stato in termini politici concreti e reali – ovvero di potere – ciò che a finire tra Commissioni (parlamentari), leggine, codicilli, causidici, girotondi e “mozioni degli affetti” ha tutto da perdere in chiarezza e importanza. In sostanza le questioni poste dal presidente del Consiglio sono semplici: se le persone preposte o componenti gli organi supremi dello Stato possano essere giudicate, con la conseguenza, possibile, della condanna e detenzione mentre sono in carica. E, correlativamente, se la loro permanenza o rimozione nella carica non sia di competenza esclusiva del corpo elettorale, cioè dell’ “organo” in cui si esercita, primariamente, quella sovranità del popolo, fondamento della Costituzione repubblicana (art. 1).

A sentire il coro che si leva dai girotondi e dalla nomenklatura del centrosinistra, la risposta è semplice: i ladri devono stare in galera. Il che, in concreto, significa che in tale (scomoda) posizione deve stare chi le Procure – e spesso qualche Tribunale – giudicano tale. Il fatto che, forse per caso, ma forse no, i suddetti “ladri” siano coloro che occupano le poltrone da cui hanno da poco allontanato molti dei coristi, non li turba. Evidentemente la maestà della Giustizia è, in questi casi, considerata, la migliore delle derivazioni (nel senso di Pareto) perché copre, col suo ingombro, il più evidente e umano tra i residui: quello di potere, in termini filosofici elevato da Nietzsche a Wille zur macht, e che con saggezza pari all’efficacia dell’espressione il buon senso siciliano ha riassunto nel detto: cumannari è megghiu cà….

A confutare quanto ripetuto dall’opposizione basterebbe, forse, tale constatazione. Ma dato che, indipendentemente da chi occupa certe posizioni di potere, il pensiero politico e costituzionale moderno, praticamente unanime, sostiene proprio il contrario di ciò ch’è urlato “in tondo”, e, in particolare, che quanto è auspicato (per Berlusconi e i suoi sodali, s’intende), è escluso in uno Stato ben ordinato, ci sembra utile ricordarne le ragioni.

  1. A ricercare i motivi per cui un organo sovrano, e chi vi è preposto, sia “protetto” (cioè sia, in misura e modi variabili, sottratto alla giurisdizione) si ha l’imbarazzo della scelta. Si può partire dall’immunità degli organi sovrani, o dal principio politico della democrazia; dalla distinzione dei poteri o dal carattere rappresentativo degli organi (in maggiore o minore misura) immuni.

Prendendo le mosse dal principio (liberale) della distinzione dei poteri, recepito da tutte le Costituzioni borghesi (in caso contrario, non sarebbero liberali), come il potere legislativo non può cassare o riformare sentenze o provvedimenti di Giudici, così quello giudiziario non può intervenire né sulle Camere, né sui loro atti e procedimenti, né sulle persone dei deputati (senza autorizzazione della Camera stessa). La prima costituzione europea moderna, cioè quella francese del 1791, già lo disponeva (titolo III, cap. I, art. 3) prescrivendo che i tribunali non potessero interferire nell’esercizio del potere legislativo né sospendere l’attuazione delle leggi: prescrizioni similari, e quelle sull’immunità dei parlamentari da arresti e processi erano riportate praticamente in tutte le costituzioni europee successive, degli Stati liberali prima e (poi) democratico-liberali. La ragione era semplice e chiara: la libertà politica non sopporta sovrapposizioni e concentrazioni di poteri (o di atti) riconducibili a due funzioni distinte. È per quella altrettanto pericoloso un Parlamento il quale riformi una sentenza o ordini un arresto che un Giudice il quale disapplichi una legge e mandi in carcere un deputato, perché ambedue queste “invasioni” concentrano in un solo potere atti pertinenti a diverse e distinte funzioni. Per cui al principio (liberale) della distinzione dei poteri è connaturale impedire che questi interferiscano tra loro, se non in casi tassativi e limitati (basati sulla distinzione di Montesquieu tra pouvoir de statuer e pouvoir d’empêcher).

Anche se il senso è diverso, dal principio politico democratico si desume la stessa “interdizione”. Qui non viene tanto in rilievo – anche se comunque ha un peso – la circostanza che i giudici, in un ordinamento come il nostro, o, in generale, degli Stati continentali europei, costituiscono un corpo burocratico di funzionari reclutati per concorso, e quindi, per tale carattere, disomogeneo al principio della democrazia, come scrive Carl Schmitt[1], e ripetuto da Berlusconi. Perché una giurisdizione esercitata da magistrati elettivi (come in molti stati U.S.A.) è legittimata dal “popolo” quanto il deputato[2].

Piuttosto in tal caso viene in considerazione, per l’appunto, la contrapposizione tra giudizio di uno o più funzionari, e quello del “popolo” stesso. In fondo l’aveva acutamente notato Machiavelli[3]quando scriveva che “lo accusare uno potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi. Tanto che se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbono accusato, vivendo lui male, e per tale mezzo, senza far venire l’esercito spagnolo, arebbono sfogato l’animo loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro”. Il Segretario fiorentino aveva capito che, in una Repubblica (da intendersi nel caso come una forma costituzionale se non democratica, con elementi di democrazia) un tribunale “ordinario” che giudichi un politico configura un potenziale (ma assai probabile) caso di conflitto costituzionale e, ancor più facilmente, origina un conflitto politico. Perché delle due l’una: o il giudizio del Tribunale è conforme a quello della maggioranza e allora i partigiani dell’eventuale accusato potranno sempre additare come esempio di giustizia estranea all’ordinamento democratico il verdetto di alcuni funzionari su un uomo comunque popolare; o non lo è, e si apre un contrasto, assai più grave, tra la volontà di tutti (o quasi) e il giudizio di pochissimi. Perciò occorre trovare “alcuno modo di accuse contro all’ambizione de’ potenti cittadini”, ovvero una strada che possa evitare i conflitti che la giustizia ordinaria genera quando oggetto del giudizio è un affare (e/o un uomo) politico.

L’impossibilità, in grandi democrazie come quelle moderne, di giudizi nell’areopago, ha determinato che la giustizia “politica” sia normalmente esercitata, con procedure (e da organi speciali) o comunque presenti vistose deroghe od eccezioni agli “ordini” comuni. In genere le Carte costituzionali delle democrazie borghesi prevedono la competenza a giudicare di una seconda Camera (il modello ne è stato la Camera dei Lords inglese) come il Senato U.S.A., o il nostro nello Statuto albertino o quello della Terza Repubblica Francese; ovvero di un giudice speciale (come talvolta le Corti costituzionali); l’esercizio dell’azione penale è riservato ad organi politici (la Camera dei rappresentanti negli U.S.A., o quella dei deputati in Italia; ambedue le camere in Francia nella Costituzione vigente).

Immunità dalla giustizia ordinaria, variamente configurate, accompagnano di solito tali “status” e “ordini” eccezionali[4]; anche le norme definenti i crimini “politici” di solito sono formulate in guisa che l’interprete abbia una certa “discrezionalità” nel determinarne l’ambito[5]. Per cui si può agevolmente constatare come, nelle democrazie moderne, è normale che la giustizia “politica” esercitata su ministri, Capi di Stato, parlamentari e talvolta funzionari, lo sia in forme e procedure extra-ordinem: l’unico connotato comune ai vari ordinamenti, invero, è quello, negativo, di escludere (in tutto o in parte) la competenza dei Tribunali ordinari. Nessuno prevede che ministri, deputati o Capi di Stato possano essere giudicati da una Corte ordinaria con il comune procedimento. In questo può affermarsi che l’intuizione di Machiavelli ha avuto successo. La natura “politica” del processo, delle parti e del suo oggetto (e il suo collegamento con decisioni popolari) prevale sul principio democratico dell’isonomia; il rapporto con la volontà e le scelte popolari è tuttavia, per lo più confermato dal ruolo giudiziario che vengono ad assumere organi politici, spesso legittimati anch’essi democraticamente, perché elettivi.

Alle stesse conclusioni ai può giungere partendo dal principio – e dal concetto – di rappresentanza politica. Questa comporta la distinzione, già chiaramente formulata nella Costituzione francese del 1791 (tit. III, cap. IV, sez. 2, art. 2) in base alla quale non tutti i poteri dello Stato sono rappresentativi, e non tutti i funzionari dello Stato sono dei rappresentanti. L’uno e l’altro sono riservati a uno o pochissimi organi (e loro titolari): il Capo dello Stato, le Camere, il Governo.

Ad esser rappresentata è l’unità politica, intesa come totalità; funzione della rappresentanza è far esistere ed agire la comunità. Senza rappresentanza – o senza l’opposto principio di forma, cioè l’identità – una società politica non può agire. Senza i poteri rappresentativi, che la Costituzione italiana vigente identifica esplicitamente nel Capo dello Stato e nelle Camere, la Repubblica non esisterebbe neppure: ancor meno ciò che non esiste (e viene ad esistenza solo quando c’è una rappresentanza) potrebbe agire. Da una parte, ma con ciò entriamo nel profilo successivo, ciò comporta che coloro che rappresentano (anche se a giudizio di taluni indegnamente) l’unità e la totalità, non possono essere giudicati da chi non è rappresentante, ma esercita soltanto un pouvoir commis; dall’altra che un G.I.P. che ordinasse l’arresto o un Tribunale che condannasse un solo deputato, e più ancora il Capo dello Stato o un congruo numero di parlamentari, decapiterebbe lo Stato, togliendogli – nei casi più gravi – la capacità di agire, e negli altri, influendo sulle decisioni degli organi rappresentativi[6].

L’argomento decisivo per spiegare l’ “immunità” di determinati organi (e dei loro titolari e componenti) è comunque di essere “sovrani”. Senza voler entrare nella tematica della sovranità moderna (cioè della sovranità tout-court) fin dal medioevo è stato individuato un organo (o un soggetto) il quale decideva in ultima istanza; anche prima che il concetto moderno di sovranità fosse elaborato, l’identificazione di tale organo (o soggetto) era assai importante, perché legittimante o meno lo justum bellum[7]. Tale criterio d’identificazione dell’organo “sovrano” era ripetuto spesso nella filosofia e nel diritto pubblico moderno. Era sviluppato da Hobbes e da de Maistre, ma in effetti presente in altri pensatori, tra cui Kant e Locke, in quest’ultimo nella forma negativa dell’impossibilità che vi sia un sovrano laddove una controversia non è decidibile da un’autorità. Corollario della stessa era che non può esistere, in un’unità politica, la compresenza di più poteri “sovrani”. Tra tutti coloro che hanno sostenuto l’impossibilità di concepire più sovrani in un’unità politica, è importante ricordare, per l’estrema chiarezza, il pensiero del giovane Marx, secondo il quale “è proprio del concetto di sovranità che questa non possa avere doppia e addirittura opposta esistenza”, per cui la questione che si pone in concreto è “sovranità del popolo o del monarca”: infatti “se la sovranità esiste nel monarca, è una sciocchezza parlare di una sovranità contraria esistente nel popolo”[8]. Nucleo di tale teoria è che vi è nello Stato un organo (un soggetto) che giudica ma non può essere giudicato da alcuno; che ha “tutti i diritti e nessun dovere (coattivo)”[9].

Marx sintetizzava così in poche parole il profilo più importante del pensiero politico  sulla sovranità: che di (organi o soggetti) sovrani, in una unità politica, ve ne può essere uno solo. Questa è la ragione decisiva per ritenere che se a un altro potere (o soggetto) fosse consentito esercitare una coazione sul sovrano, questo non sarebbe più tale, ma lo sarebbe l’altro. Onde evitare questa “traslatio imperii” (la quale peraltro potrebbe assumere anche moto …pendolare), gli organi sovrani sono sottratti (in tutto o in parte) alla giurisdizione ordinaria. E’ quanto sosteneva (tra gli altri) un Presidente del Consiglio italiano, e fine giurista, come Vittorio Emanuele Orlando, in un saggio di settant’anni orsono. Scriveva infatti: “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto[10] (il corsivo è nostro). Analoga spiegazione era stata data da Thomas Hobbes “ Infine, dal fatto che ciascuno dei cittadini sottomette la sua volontà alla volontà di colui che ha il potere supremo sullo Stato, così da non potere usare delle proprie forze contro di lui, segue evidentemente che qualunque cosa costui faccia, non può essere punito[11] (il corsivo è nostro). E alla stessa conclusione si arriva a leggere Bodin: secondo il quale “Le prerogative sovrane devono essere tali da non poter convenire altro che al principe sovrano; se anche i sudditi possono essere partecipi, esse cessano di essere tali” perché “ciò significa che questo, da suo servitore che era, diverrà suo compagno, e così facendo egli rinuncerà alla sovranità; perché la qualifica di sovrano, ossia posto al di sopra di tutti i sudditi, non può convenire a chi di un suo suddito faccia un compagno”[12].

D’altra parte una delle “marques de souvraineté” secondo Bodin non è rendere giustizia, ma giudicare in ultima istanza. Chi giudica in ultima istanza non può – in tutta evidenza – essere utilmente giudicato perché un eventuale giudizio sarebbe comunque sottoposto alla revisione sovrana. Ammettere poi che si possa giudicare in ultima istanza in modo difforme dal sovrano, significa dividere la sovranità. Anche se Bodin viveva agli albori dello Stato moderno, così diverso dall’attuale, si rinviene anche nel suo pensiero la soluzione (negativa) del problema: che cioè, ad essere decisivo, è sempre il giudizio del (popolo) sovrano. E che questo non può essere oggetto di riesame da altri perché, in tal caso non sarebbe più sovrano; o, se altri giudica, il relativo giudizio è ininfluente rispetto a quello del sovrano.

L’immunità, indipendentemente dalla dibattuta questione se ad essere sovrano sia un potere costituito, o il potere costituente, l’organo o il popolo – che, relativamente alla questione qui esaminata, è ininfluente – compete, come sosteneva Orlando, a quell’organo (o organi) apicali, superiorem non recognoscens nell’ordinamento dello Stato. E, come riteneva Santi Romano, relativamente alle immunità parlamentari, “Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guarentigia”[13]; per cui non costituiscono eccezioni, ma applicazione di un “principio più generale”.

Il pregio di questa concezione, nelle sue varie formulazioni e articolazioni, è di spiegare la ragione dell’immunità per qualsiasi tipo e forma di Stato, indipendentemente dai principi, valori e forme di governo di ciascuno: non è possibile che in uno Stato (ben) ordinato un giudice, anche “supremo”, possa giudicare e condannare un componente dell’organo “sovrano”, sia che si tratti del parlamentare o del Capo dello Stato in una democrazia borghese, del componente del Soviet Supremo in una delle (defunte) democrazie popolari, ovvero del Fürher, Caudillo o Duce in uno Stato fascista o nazista. Se lo fa, ciò significa soltanto che ad essere “sovrano” è il Tribunale e non il Soviet Supremo, il Parlamento, o il Conducator.

Cosa d’altra parte non ignota al diritto pubblico: in talune costituzioni non moderne, l’autorità “suprema” competeva a un organo le cui funzioni originarie (e prevalenti) erano giudiziarie; sviluppando le quali aveva assunto un primato politico. E’ il caso, ad esempio, del Consiglio dei Dieci a Venezia.

  1. A cercare le ragioni (politiche) per cui la regola generale è quella esposta da Orlando e non l’eccezione criticata si ha l’imbarazzo della scelta. Ma il motivo principale è la situazione d’indipendenza in cui deve trovarsi l’organo sovrano, per garantire quella della comunità rappresentata. Senza l’indipendenza da altri poteri, dall’esterno ma anche all’interno, di quello, non è possibile garantirla di questa: e lo stesso vale per la libertà di agire che ne è la prima, necessaria, conseguenza. Un organo dipendente e perciò non libero di agire non è in grado di tutelare l’esistenza della comunità.

In una democrazia politica l’unica dipendenza che quell’organo può avere è verso il popolo, organizzato nel corpo elettorale. Se dipende – in tutto o, verosimilmente, anche solo in parte – da altri (a parte le inidoneità oggettive degli uffici e dei procedimenti giudiziari, aggravate dal non essere legittimati dal suffragio popolare), ciò costituisce una grave vulnus al principio democratico, perché la volontà e la scelta del sovrano sarebbero soggette al consenso di chi da quello non dipende.

In termini politici la soluzione è semplice: vuol dire rispondere alle domande conseguenti all’alternativa di Marx: chi comanda? Il popolo o i Tribunali? La risposta suggerita (anche se talvolta timidamente, e soprattutto indirettamente) è quella che si può ascoltare da (alcuni) esponenti del centrosinistra: se condannato si deve dimettere. Il che significa, in senso proprio ed esplicito, che a decidere chi deve governare non è il corpo elettorale, ma i Tribunali. I quali così vedono riconoscersi un potere di veto  sulle scelte popolari. La seconda alternativa – meno frequentata, e il perché lo si capisce bene – è sostenere che i processi facciano il loro corso, e il condannato, legittimato dai suffragi, rimanga al suo posto. Era la soluzione formulata che un noto giurista come Léon Duguit e sulla quale il nostro Orlando ironizzava: perché la conseguenza sarebbe che il Presidente del Consiglio dovrebbe ricevere gli ambasciatori e i premiers stranieri invece che a Palazzo Chigi, a Rebibbia. Dove presiederebbe anche il Consiglio dei Ministri. La comicità delle conseguenze evidenzia quella della tesi che le presuppone.

La quale, malgrado il protestar contrario, e proprio nella sua formulazione “il condannato dovrebbe dimettersi” manifesta il suo carattere politico, nel senso specifico di “politica di partito” o “politicante”. Perché risponde da un lato alla questione nel senso più comodo per chi si trova in sintonia con certi (e non pochi) uffici  giudiziari; dall’altro, e più importante, ne costituisce la risposta inversa, che a decidere non debba essere il popolo, ma il potere giudiziario. Stravolgendo così sia il principio democratico in modo radicale, sia la governabilità, per il conflitto che genera tra poteri, uno dei quali legittimato dal suffragio e l’altro no.

  1. Insistendo nel considerare la tesi criticata come non strumentale, essa può essere ricondotta al tentativo, tante volte ripetuto, di giuridificare la politica (quindi la sovranità). Anzi di questa tesi, ne costituisce una parte, un paragrafo piccolo perché profondamente incoerente: quello consistente nel giudiziarizzare la politica, diametralmente opposto al carattere peculiare della sovranità: di essere al di là del diritto. Ovvero, in altri termini, di potervi rientrare ma come assoluto. Già tale connotato era stato individuato da Bodin: la sovranità è “il potere assoluto e perpetuo di uno Stato”, rafforzato dal ricordato paragone tra Dio e Sovrano. Kant ne da poi la definizione (giuridicamente) più corretta: colui che “Nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)” (anche questa analoga alla definizione che da di Dio)[14] e specifica che “non può essere contenuto nella costituzione nessun articolo che renda possibile… a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo … che renda possibile limitarne il potere” perché “allora non è quello, ma questo il supremo detentore del comando: il che è contraddittorio”[15]. Ora il diritto ha una dimensione relativa: ai soggetti, anche se diversi in diritti, facoltà, obblighi, competono sia situazioni giuridiche attive che passive. A ogni potere corrisponde un obbligo, un dovere o una responsabilità. Il sovrano, in questo senso è l’eccezione che tuttavia rende possibile (anche) la vigenza di un sistema di norme e rapporti formali, attraverso (l’instaurazione e) il mantenimento dell’ordine. L’assolutezza del comando sovrano (e del concetto) ha indotto il costituzionalismo (liberale) a ricercare i sistemi per bilanciarlo con il diritto: tentativo in gran parte riuscito, ma non totalmente, perché è impossibile giuridificare tutto[16]. In fondo proprio a Locke, uno dei “padri” del costituzionalismo moderno, dobbiamo l’affermazione che in certi casi non v’è giudice sulla terra, ma si ha il diritto di appellarsi al cielo: cioè di ribellarsi e risolvere la controversia con la forza. La contraria tesi si fonda sull’illusione che il diritto sia co-estensivo alla politica: che possa regolare tutto, inquadrandola in un sistema di norme applicabili e “calcolabili”. Ma come per la sovranità (e i suoi atti) così non è in tutti i casi più importanti e politicamente decisivi: per esempio la guerra e la pace. Si può prevedere nella Costituzione chi ha il diritto di dichiarare la guerra, e il procedimento relativo, ma non ciò che più conta: l’identificazione del nemico e l’obiettivo politico. Del pari per la pace: la decisione se concluderla – e a quali condizioni – è necessariamente rimessa all’arbitrio del competente potere costituito (che in democrazia risponde verso il corpo elettorale); ma non è certo concepibile prevedere per legge come, quando e con chi concluderla.

Di questa utopia, la giudiziarizzazione è il capitolo più incoerente: perché se non può esistere una legge per i “casi alti” della politica, tantomeno può esistere un Tribunale che giudichi in base a norme  “misurabili” (cioè come ci si aspetta che giudichi). Se, d’altra parte, il Tribunale decidesse (rettamente) applicando norme di diritto comune non è detto che gli effetti del giudizio siano politicamente opportuni; se invece tenendo d’occhio la convenienza politica e non i “sillogismi” giudiziari, tale attività costituirebbe giustizia politica (e non un giudizio “ordinario”), in cui l’aggettivo, com’è noto, prevale sempre sul sostantivo. E non sarebbe così il rimedio auspicato ma – al contrario – inutile e quasi sicuramente dannoso[17]. Che il tutto sia comunque sostenuto ed auspicato non deve meravigliare, perché rientra in quella tendenza prevalente nella sinistra (ma non soltanto di questa) d’immaginare dei modelli di società e/o di Stato ideali e di misurare la realtà in base ai medesimi. Già un simile modo d’agire era stigmatizzato da Machiavelli “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piu tosto la ruina che la preservazione sua”.

Perché così si prende a misura della realtà il proprio arbitrio soggettivo e non la ragione oggettiva.

Molto meglio seguire Hegel, il quale, com’è noto oltre a ritenere quello (l’arbitrio) capace solo di gonfiare le teste[18], scriveva che la scienza dello Stato non sia altro “se non il tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in se…..deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev’essere” perché “intendere ciò che è, è il compito della filosofia, perché ciò che è, è la ragione”[19]. A prescindere da come (e in che misura) si voglia considerare la “coincidenza” di razionale e reale, è un fatto che nessun ordinamento democratico-liberale prevede che un Tribunale ordinario condanni un Capo dello Stato o di Governo, o anche un parlamentare, come se si trattasse di un caso ordinario, secondo il diritto comune. E compito dell’interprete è di comprenderne le ragioni. Piuttosto che erigere il proprio arbitrio (e i propri interessi) a massima dell’agire universale, è più (umile e)  utile  chiedersi perché l’agire universale è del tutto opposto alle proprie valutazioni soggettive .

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Verfassungslehre, trad. it., Milano 1984, p. 357 ss. 360 ss.

[2] Anche se in tal caso c’è da chiedersi se sia da considerare “popolo” nel senso della democrazia politica, il collegio elettorale che sceglie il giudice o il deputato. Ma il problema ci porterebbe lontano ed               esula dei limiti del presente scritto.

[3] Discorsi I, 7.

[4] Ricordiamo alcune disposizioni costituzionali europee sull’immunità dei parlamentari: art. 26 Cost. francese; art. 46 Cost. tedesca; art. 71 Cost. spagnola; art. 45 Cost. belga.

[5] V. Benjamin Constant, ora in Principi di Politica, Roma 1970, p. 121, secondo il quale la “discrezionalità” e l’istituzione di Tribunali speciali avevano (anche) la funzione di preservarli da tutte le pressioni popolari.

[6] Machiavelli (op. cit.) sostiene che senza quei rimedi straordinari, la conclusione dei conflitti  può essere la chiamata di “forze estranee” cioè degli stranieri. Machiavelli non conosceva il concetto di rappresentanza politica (in nuce nella Riforma, sviluppato poi nei secoli XVII e XVIII), ma quanto prefigura potrebbe ripetersi in un conflitto che veda poteri “commis” contrapposti a quelli rappresentativi, impossibilitati dai primi a funzionare, con un terzo “esterno” che se ne giova.

[7] Già è cennato in S. Tommaso Summa Th., II, II, p. 40, art. 1; è sviluppato nella Tarda Scolastica v. tra gli altri F. Suarez De charitate disp. 13 De bello Sectio II, S. Roberto Bellarmino ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 260.

[8] V. Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Roma 1983, p. 40.

[9] V. Kant, Die Methaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[10] V. E. Orlando Immunità parlamentari ed organi sovrani, Rivista di diritto pubblico,  XXV Roma 1933, ora in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 487. E prosegue: “circa gli attributi ed i caratteri dell’organo sovrano come furono definiti di sopra, non vi sono gravi difficoltà, quando l’ordinamento ne riconosce ed ammette uno solo: e non importa se questo unico organo sovrano sia, in relazione alle varie forme di governo, una persona fisica (monarchia), o un collegio, e questo sia costituito da componenti di una classe privilegiata o dalla universalità dei cittadini (aristocrazie o democrazie assolute)” e specifica: “Si giustifica pertanto la nostra teoria la quale può riassumersi così: non si può dare organo sovrano senza che esso sia coperto della garanzia della inviolabilità, la quale importa: essere sottratto ad ogni giurisdizione capace di esercitare una coazione fisica sulla persona. Naturalmente, come avviene sempre nel mondo del diritto, questo principio generale deve, nell’applicazione, adattarsi alle manifestazioni concrete della realtà costituzionale, assumendo forme diverse senza però venir mai meno in se stesso”.

Se si tratta di organo collegiale “come sono le assemblee parlamentari, l’inviolabilità fisica non può normalmente porsi se non in via indiretta, attraverso l’inviolabilità dei membri; ma, d’altra parte, non è necessario e sarebbe anzi sconveniente, che questa forma di inviolabilità del collegio nelle persone dei suoi membri fosse così assoluta e così rigida come deve essere in rapporto a una persona fisica”. Per cui “Attraverso tutte queste differenze, per quanto importanti possano essere, è però sempre lo stesso principio che si applica, riaffermando l’inviolabilità  come qualità inseparabile dell’organo sovrano: diritto comune e non diritto di eccezione, poiché deriva per virtù di semplice logica giuridica dalla stessa maniera di essere dell’ordinamento” perché ad essere “rigorosamente esatti” non è tanto che il Parlamento (e gli altri organi sovrani) si sottraggono ad ogni giurisdizione “ ma bensì, che compete ad esso (comprendendo il Re) la giurisdizione suprema e che tale sua qualità sia sufficiente perché possa risolvere senza concorso di un’altra autorità, le questioni della sua prerogativa”, op. cit. p. 495 ss..

[11] De Cive, trad it., Roma 1981, p. 135.

[12] Six livres de la Republique, I, X, trad. it., Torino 1988, pp. 482 e 483 e prosegue “come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere”.

[13] Corso di diritto costituzionale, Padova 1928, p. 222.

[14] Op. cit. p. 49.

[15] Op. cit. p. 149-150.

[16] Come scrive De Maistre sul diritto di resistenza “quando si è deciso … che si ha diritto di resistere al potere sovrano … non si è concluso ancora nulla, perché resta da sapere quando può esercitarsi tale diritto, e chi ha il diritto di esercitarlo…” e prosegue “Quale potere nello Stato ha diritto di decidere che è giunto il momento di resistere? Se tale Tribunale preesiste è già parte della sovranità, e contestandone l’altra parte l’annienta. Se non esiste prima, da quale Tribunale questo Tribunale sarà costituito?” Du Pape, lib. II, cap. 2.

[17] Ciò era stato visto distintamente da De Maistre, quando scriveva che in una Costituzione “ Que ce qu’il y a de plus essentiel, de plus intrinsèquement constitutionnel et de véritablement fondamental, n’est j’amais écrit, et même ne saurait l’être” v. Des constitutions politiques Paris 1814 p. 26.

[18] V. Die Phänomenologie des Geistes V, B, C.

[19] Prefazione a Grundlienien der Philosophie des Rechts.

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Dal Salvatore al Trickster Divino: La spinta teologica nella politica estera degli Stati Uniti, di MICHAEL VLAHOS

26 FEBBRAIO 2022

 

Dal Salvatore al Trickster Divino: La spinta teologica nella politica estera degli Stati Uniti

MICHAEL VLAHOS

 

Noi americani abbiamo a lungo creduto che le nostre relazioni con il mondo fossero guidate da una polarità illuministica tra “realismo” e “idealismo”. In realtà, però, siamo mossi da correnti più profonde dell’ethos nazionale. L‘America è una religione, come ha detto Robert Bellah. Una “religione civile”, secondo le sue parole, ma comunque una religione vera e reale.

Le religioni hanno ovviamente una teologia e una chiesa che sono di competenza del clero. Tuttavia, le religioni (nazionalizzate) raccontano anche storie che spingono il popolo a lottare e persino a sacrificarsi, come fratelli cittadini, per l’idea stessa della nazione. Chiamiamo queste storie la narrazione sacra della nazione: narrativa, come in una sceneggiatura; sacra come in una scrittura. Le grandi nazioni hanno narrazioni piene di potere e, in tempi di crisi, sono spesso tentate di seguire la guida inossidabile della loro scrittura nazionale.

Ma queste narrazioni possono rivelarsi pericolose per chi le racconta, e la storia sacra dell’America – così sacra e imperiosa da farle pensare al suo ruolo missionario nel mondo – può rivelarsi alla fine la sua più grande debolezza. Gli americani vedono il mondo attraverso la lente di ferro del testamento messianico della “nazione redentrice“. Raramente abbiamo rinnegato questo sacro impulso, che ci ha condotto in tutte le guerre americane, portandoci sia gloria che disgrazia, vittoria e disastro.

Figura 1: American Progress (1872) con la Columbia, una personificazione.

degli Stati Uniti (John Gast).

 

Due secoli di cieca osservanza di questa prima direttiva hanno portato gli Stati Uniti all’unico trionfo trascendente: la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Altrove, invece, la scrittura americana ha sempre portato al fallimento strategico: La ricostruzione, Cuba (due volte!), la Società delle Nazioni, l’Iran, l’America centrale (molte volte!), il Vietnam, le guerre in Medio Oriente e l’Afghanistan.

Che sia sacra o profana, la letteratura è sempre letteratura. Di conseguenza, gli elementi della trama scritturale devono, come in televisione, lavorare insieme e raccontare all’unisono una storia. Nelle scritture americane, questi tropi sono strettamente intrecciati e intimamente familiari come i classici della letteratura mondiale.

Ora sembra che la “crisi” in Ucraina sia l’ennesimo arco narrativo della nostra lunga serie televisiva nazionale, non un sequel ma semplicemente l’ultima stagione di una serie in streaming: la sacra narrazione americana è infatti organizzata attorno a quattro motivi universali e immutabili, ognuno dei quali è presente nell’ultima stagione di apertura che sta andando in onda:

1.                 Dr. Evil

Il nemico che affrontiamo è il male, e il male deve essere per- sonalizzato. Quando i ribelli abbatterono la statua di piombo dorato di Giorgio III il 9 luglio 1776, stavano celebrando l’antico rito romano della Damnatio Memoriae: giustiziare simbolicamente l’imperatore rovesciato distruggendo la sua sacra imago legionaria (un ritratto dorato in 3D). Al contrario, durante la lunga Guerra Civile, il nemico era più simile al “Lato Oscuro della Forza” – “Il Potere Schiavista“.

– o lo specchio malvagio di “God’s Amer- ican Israel” di Ezra Stiles. Questo tropo fu esteso al dominio spagnolo a Cuba, che abolì la schiavitù solo nel 1880. La metafora del Lato Oscuro continuò fino alla Prima Guerra Mondiale, con la damnatio del predicatore Wilson sul “militarismo prussiano”. (L’epifenomeno ufficiale popolare – “Halt the Hun!” – si tingeva in realtà di razzismo).

Dopo il brutale Trattato di Versailles, gli atteggiamenti americani verso la Germania si ammorbidirono. Nel 1941 – con il 25% degli americani di origine nemica – non era più realistico creare una Germania e un’Italia malvagie. Il male doveva essere ancora una volta incarnato dal “Dottor Male”, questa volta personificato da Hitler e Mussolini.

Come pilastro della sacra narrazione americana, il motivo della “personificazione del male” si è accentuato nel secondo dopoguerra. Stalin, naturalmente, si adattava al profilo alla perfezione, così come Mao. E il dominio del Partito Comunista ha permesso di estendere questa designazione, sempre più ampia, fino a includere tutti i loro scagnozzi e i loro interi regimi. Soprattutto, però, tale tassonomia ha permesso agli ecclesiastici della politica estera statunitense di esonerare la stragrande maggioranza del popolo nemico come servo della gleba, oppresso dalla tirannia e desideroso di liberazione. Come ci dice Frank Baum ne Il meraviglioso mago di Oz:

[La strega cattiva ha tenuto in schiavitù tutti i Mastichini per molti anni, rendendoli schiavi per lei notte e giorno. Ora sono tutti liberi e vi sono grati per il favore.

Anche i soldati desiderano la liberazione e possono essere redenti. Dopo aver ucciso la strega cattiva (nel film del 1939), il capo della guardia Winkie (pseudo-cosacco) dichiara: Ave a Dorothy! La strega cattiva è morta! Vediamo come la narrazione sacra sia profondamente codificata e permei anche le opere letterarie e cinematografiche più popolari d’America.

Nel corso dei decenni, i nostri Dottor Malvagi scelti sono cresciuti fino a diventare un cast corale, che comprende Fi- del Castro, Muhammar Gheddafi, Saddam Hussein e Osama Bin Laden – una legione del Darkside! – solo per citarne alcuni. Ma questi si sono rivelati solo un gioco da ragazzi, perché l’America desidera soprattutto un nemico esistenziale manicheo. Dopo tutto, sono le minacce più gravi che portano la vittoria più dolce.

Per questo motivo, il dottor Putin si è recentemente calato in suole ben vestite. In effetti, come la strega cattiva o Jo- seph Stalin, il personaggio pubblico di Putin – da lui accuratamente curato per ottenere il massimo impatto mitico – è del tutto congruente con il meme del Dottor Male incorporato in America, soddisfacendo e superando le aspettative in ogni occasione.

Pertanto, non c’è dubbio – nell’occhio monolitico dei credenziosi esperti di Washington – che il nostro nuovo Grande Dittatore sia semplicemente un prepotente, motivato solo da avarizia e cupidigia. Una volta che questo giudizio viene canonizzato collettivamente, prevalgono le camere dell’eco e l’analisi dell’establishment viene congelata in un dogma. Smettiamo di indagare sul reale pensiero della nostra (autoproclamata) nemesi: tutto ciò che serve è un giudizio moralistico.

2.                    America il Redentore

La perfetta incapsulazione del dovere divino che l’America si è autoproclamata di salvare e liberare l’umanità (e punire i malvagi) è contenuta nel sofomorico discorso inaugurale di John F. Kennedy, che è diventato il fulcro della dottrina Kennedy:

Che ogni nazione sappia, che ci voglia bene o male, che pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualsiasi peso, affronteremo qualsiasi difficoltà, sosterremo qualsiasi amico, ci opporremo a qualsiasi nemico, per assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà.

Da Julia Ward Howe – “viviamo per rendere gli uomini liberi” – a Samantha Power – “Responsabilità di proteggere” (R2P) – la narrazione dei “nostri sacri obblighi di liberare l’umanità” rimane la catena ininterrotta dell’America. La nostra ultima Musa della Libertà, Anne Applebaum, ci ordina ora di essere risoluti e di fermare il sangue della storia alleviando il dolore di chi ha perso la vita.

 

Ucraina: “Potremmo iniziare con questo”, dichiara compiaciuta e disinvolta, “aiutando a fare dell’Ucraina la democrazia di successo, prospera e rivolta verso l’Occidente che Putin teme così chiaramente”.

Per molti aspetti, questa dottrina della nazione redentrice è radicata nella trasformazione dell’America durante la Guerra Civile. Prima della crociata abolizionista, gli Stati Uniti erano una politi- ca dominata dagli Stati confederati proprietari di schiavi, il che avrebbe reso assurda qualsiasi rivendicazione da parte degli Stati Uniti circa il loro accesso privilegiato alla giustizia divina. Le nascenti ambizioni americane assunsero quindi la forma di un’espansione territoriale imposta a livello nazionale attraverso il “Destino manifesto”, in cui l’America avrebbe domato la selvaggia natura occidentale e portato una civiltà protestante superiore nelle corrotte terre spagnole della Florida, del Messico e dei Caraibi.

In quanto tale, la Guerra Civile rappresentò una metamorfosi americana. D’ora in poi, la missione americana si sarebbe basata sulla redenzione piuttosto che sulla sottomissione: liberare gli oppressi, civilizzare i pagani e farne degli americani veri e propri (almeno nello spirito). La linea edificante della Ricostruzione, sebbene attuata solo di sfuggita nell’ex Confederazione, sarebbe stata presto estesa a Cuba e alle Filippine, e poi (almeno nelle intenzioni missionarie) alla Cina.

Figura 2. Vignetta politica statunitense del 1899 che raffigura lo Zio Sam che “istruisce” le nazioni occupate dopo la guerra ispano-americana (Louis Dalrymple).

Il pugnale del colonialismo e dell’im- perialismo americano è sempre stato ammantato sotto l’illusoria veste della tutela e della scolarizzazione: professando di salvare e poi risollevare quei milioni di persone che per tanti secoli erano state condannate all’ig- noranza e alla servitù con la promessa dell’istruzione, ma consegnando invece l’indottrinamento liberale e l’ingegneria sociale occidentale.

3.                    Democratismo

Se la libertà è l’insegnamento centrale della religione civile americana, la democrazia è la sua preghiera sacra o talismano. È allo stesso tempo grido di battaglia e vessillo. Come la اَل َهٰلِإ اَّلِإ هلا ٌدَّمَحُم ُلوُسَر هللا sulla bandiera saudita, questa singola parola sacra cattura e trasmette l’essenza della missione divina dell’America.

In effetti, come parola in codice per la mente americana, la democrazia è una nozione utilizzata per sposare più significati contemporaneamente: 1) che la democrazia è il segno sicuro del progresso, il segno della volontà di Dio per il futuro umano e di “ampie e soleggiate pianure“, o più semplicemente, il Millennio; 2) che la ricerca della democrazia unisce i democratici di tutto il mondo contro gli autocrati e crea tra loro e gli americani legami di fratellanza, rendendoli parenti dell’America; 3) che il mondo è nettamente diviso in democrazie e dittature: una minaccia contro una è una minaccia contro tutte; e 4) la prima direttiva dell’America è la difesa e la promozione della democrazia in tutto il mondo.

Un osservatore astuto potrebbe forse notare che “democrazia” non è semplicemente una parola sacra. È anche una parola d’ordine culturale ricca di contenuti sacri. Sempre compresa dai veri credenti, non è mai formalmente esplicita – la pronuncia è sempre sufficiente – purché si possa mostrare il distintivo di appartenenza.

La narrazione sacra esercita il suo potere come una singola parola. Se ciò che ogni americano dovrebbe sapere a memoria – come nel caso della R2P americana nei confronti di

 

L’Ucraina ha ancora bisogno di essere spiegata, allora basta recitare (a memoria) solo alcuni versi chiave, come fa Mike Turner (R-Ohio-futuro presidente del Comitato Intel) in questa intervista televisiva:

L’Ucraina è una democrazia… La Russia è un regime autoritario che cerca di imporre la sua volontà su una democrazia validamente eletta… Noi siamo per la democrazia. Siamo per la libertà. Non siamo per i regimi autoritari che entrano e cambiano i confini con i carri armati… Dobbiamo assicurarci di essere dalla parte della democrazia.

4.                    Lo spettro del peccato

Infine, l’arco scritturale della narrazione sacra dell’America raggiunge il suo culmine attraverso una formula di riconoscimento, rimorso e pentimento. L’impegno dell’America può vacillare e persino, inizialmente, fallire; tuttavia la nazione alla fine si risveglia, torna in sé e vede la luce. È un passaggio dalle tenebre alla luce.

Il più famoso di questi passaggi potrebbe essere chiamato il Testamento di Neville: Il cammino verso Damas- cus-in-Munich, una strada selvaggia lungo la quale Neville Chamberlain, alla fine degli anni Trenta, giunse finalmente a vedere e a pentirsi del suo peccato di Appease- ment. Ogni volta che gli Stati Uniti inciampano e si abbassano al male, cedendo alla facile via d’uscita, volendo assecondare il lato oscuro della Forza, si levano sempre voci giuste che chiedono una riconsacrazione della virtù nazionale, gridando come accuse: Appeasement!

Tuttavia, la bilancia deve prima o poi cadere dai nostri occhi se vogliamo che la profezia della missione americana si realizzi e che la “democrazia” trionfi. In questo senso, la chiamata dell’Ucraina (cioè l’intervento americano) è resa più urgente dalla litania dei fallimenti in Iraq, Siria, Yemen, Libia e Afghanistan. Washington oggi sta seguendo una dinamica molto simile a quella che si è verificata dopo l’intervento in Iraq, in Siria, in Yemen, in Libia e in Afghanistan.

La narrazione sacra è fallita rovinosamente in Vietnam, Laos e Cambogia. Le sconfitte dell’Eurasia periferica portarono a una compensazione narrativa nel teatro centrale della NATO: La guerra fredda si è rinnovata alla grande nel 1980. Allo stesso modo, tra gli ecclesiastici statunitensi si sta diffondendo la convinzione che l’impero della virtù americano, che sta fallendo, debba riscattarsi difendendo aggressivamente Taiwan e l’Ucraina.

La nostra narrazione sacra non è semplicemente una serie di capitoli o stagioni scollegate tra loro, ma piuttosto una storia molto lunga e molto collegata. Quindi, gli Stati Uniti sono spinti, forse anche sferzati, dai loro testamenti di ferro. Questo significa che le narrazioni sacre sono dannose?

Ma come potrebbero essere cattivi? Certamente, tutti i grandi Stati sono, in larga misura, guidati dal mito e dalla leggenda. E la forza di questo potere può essere stupefacente, come l’America stessa ha potuto constatare durante la Seconda Guerra Mondiale, sentendosi come i grandi vincitori della lotteria della Storia.

Tuttavia, una storia nazionale globale può essere allo stesso tempo gloriosa e pericolosa. La domanda è: in che modo la narrazione distintiva dell’America (il nostro appello) – nei suoi soli termini – può mettere in pericolo gli americani? La risposta deve iniziare dalla comprensione di come le nazioni agiscono in modalità di crisi:

  1. Nel periodo iniziale di una crisi, o nella reazione a un insulto o a un’aggressione (come l’11 settembre), la narrazione prende il sopravvento e trascina una nazione in una risposta automatica senza tempo o spazio per la riflessione: gli angeli si precipitano dove i saggi hanno paura di camminare.
  2. Se la crisi in questione è preceduta da una serie di risposte scritturali incerte o fallite nel recente passato, la vergogna e l’orgoglio ferito e la vanità potrebbero bloccare i leader in una linea d’azione pre-scritta.
  3. Per questo, di fronte alle crisi geopolitiche,

la reazione immediata è spesso non solo riflessiva, ma inculcata proprio dai troppi trascendenti incorporati nella narrazione sacra – cioè l’appeasement (Monaco), i dittatori (alla Hitler), la democrazia della damigella che sta per essere violentata (alla Belgio, 1914).

Nel caso dell’America, le nostre passioni a forma di meme rischiano di essere al tempo stesso bellicose e compiacenti nei confronti dei risultati: Si ritirerà solo se noi resisteremo! Solo la forza dissuaderà l’aggressore! La pace attraverso la forza! Così, in caso di crisi, la narrazione sacra americana 1) ci fa entrare in modalità storia, 2) chiude lo spazio per la riflessione, 3) spinge a comportamenti bellicosi e troppo sicuri di sé, che 4) possono trasformare un avversario in un nemico, la cui prossima mossa potrebbe davvero sorprenderci (si pensi a Pearl Harbor). 

Una nazione troppo legata alla sua sacra narrazione, come la Francia nel 1870 o la Germania nel 1914, non può distinguere tra il suo ideale stellato e la strategia reale. Ad esempio, una nota dopo l’altra ha dimostrato come lo spettro degli anni Trenta abbia ostacolato pesantemente il processo decisionale della Casa Bianca di Johnson nel periodo precedente al Vietnam. Decenni dopo, quello stesso Studio Ovale ha visto un’isteria maniacale, da sogno della Seconda Guerra Mondiale, dopo l’11 settembre.

Il punto cruciale è che oggi i nostri futuri amici ci conoscono fin troppo bene. Noi, invece, ci conosciamo emotivamente ma non oggettivamente. Non siamo disposti a – o semplicemente non possiamo – tirarci indietro e ha giocato la volontà di coglierla.

Vecchi versetti e parole sacre non sono assolutamente in sintonia con la realtà degli Stati Uniti di oggi, eppure hanno ancora il potere di minare ulteriormente la posizione dell’America. Invocarli ci spinge a insistere su cose che semplicemente non possiamo fare, mentre ironicamente, fatalmente, spinge i nostri avversari a fare le cose che possono.

Nella mitologia norrena, Loki l’Ingannatore incarna la metafora secondo cui una presenza celeste può trasformarsi da guida salvifica a mutaforma (e Loki era un mutaforma!) per emergere improvvisamente come orchestratore di depistaggi divini, per un capriccio. In fondo, la figura di Loki rappresenta la saggezza radicata (presente in molti antichi pan- teoni) che non sempre ci si può fidare degli dei quando si tratta del tragico mondo dell’uomo – che possono persino rivoltarsi contro gli esseri umani, o perlomeno, provocare guai strategici.

Questo mito poteva essere un modo efficace per ricordare ai fedeli (in qualsiasi società) che anche l’ordine impartito dagli dei manca di certezza e permanenza, dato il flusso della vita. In pratica guardare dentro. Siamo cablati su un unico percorso…

quello dell’azione e dell’attivismo come fine a se stesso.

L’istinto di controllo non è necessariamente rovinoso se gli Stati Uniti sono carichi e possono sfruttare tutta la loro potenza, come nel dicembre 1941. In quel caso, la nostra avventatezza strategica, spingendo il nemico troppo

è salutare e salutare per una cultura e un sistema di credenze rendere conto del caos immanente (e di tutto ciò che è al di fuori del mondo).

Loki inganna Hodr per uccidere

Baldr, il dio norreno associato alla luce e alla saggezza. La morte di Baldr annuncia l’arrivo del Ragnarök (Jakob Sigurðsson).

 

lontano, in realtà si è trasformata in serendipità divina. Oggi, in una nazione divisa e in guerra con se stessa, l’America deve evitare come la peste l’eccesso di strategia. Inoltre, questa volta i rivali dell’America possiedono la vera iniziativa strategica e hanno dis-

del proprio controllo) – e per ricordarci almeno che noi non dobbiamo mai permetterci di credere di essere invincibili, per quanto divina sia la nostra dispensazione o grandioso il nostro utopismo.

L’America è diventata così convinta del proprio diritto…

 

missione reificata di un impero liberale globale, incaricato da Dio stesso, che nella sua arroganza dimentica che non si può sempre contare sulla certezza del Divino o di un destino manifesto per salvarsi dalla rovina!

 

Ringraziamenti

 

Michael Vlahos è uno scrittore e autore del libro Fighting Identity. Ha insegnato guerra e strategia alla Johns Hopkins University e al Naval War College. Attualmente è Senior Fellow presso l’Institute of Peace & Diplomacy. Collabora settimanalmente al John Batchelor Show. Seguitelo sul suo blog: anewcivilwar.com.

Copertina: Emil Doepler (via Wikimedia)

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