MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________ II PARTE

Un lavoro inattuale di Massimo Morigi, quindi molto adeguato per i tempi attuali. Dalla prefazione dell’autore stesso: «Sui motivi remoti e contingenti della non pubblicazione nel 2003 di questo piccolo lavoro, che viene ora proposto ai lettori dell’ “Italia e il Mondo” nella sua ultima fase di bozza quasi ultimata che non riuscì nel salto di diventare una pubblicazione vera e propria non sarebbe utile spendere alcuna parola se non dire che si trattava di uno scritto d’occasione che per motivi bizzarri e legati alle dinamiche personalistiche tipiche dei gruppi autoreferenziali non poté venire alla luce in forma cartacea. Più utile, invece, spiegare perché si è deciso di pubblicarlo ora seppur in forma elettronica e nemmeno corretto nella sua bozza. Nella bozza non definitivamente corretta perché un sua conclusiva stesura non avrebbe oggi senso perché una rifinitura non conferirebbe alcun ulteriore significato a questa lavoro perché se un senso questa storia ha è che proprio nel suo fallimento nel venire alla luce e quindi nella grezza incompletezza essa oggi segnala la fine di un mondo di espressività e di illusioni strategiche che già allora erano segnate ma che oggi sono definitivamente tramontate. Ma è proprio dalla forma grezza di questo masso erratico di un’altra epoca geologica della cultura e della politica che ora propongo ai lettori dell’”Italia e il Mondo” che risiede la speranza che dell’originaria espressività strategica che ispirò questo lavoro non tutto è perduto ed anzi possa essere proseguito. Penso che l’immortale esempio di Federico il Grande di Prussia (unico appunto da fare al lascito dialettico-strategico del filosofo di Sans Souci, l’aver scritto l’Anti-Machiavel ma saremmo ben indegni ammiratori del Segretario fiorentino se non fossimo generosi verso questa necessaria dissimulazione) il cui famoso ritratto dopo la sconfitta di Kolin campeggia in frontespizio possa costituire la più adeguata Leitbild a quanto ho qui affermato. Massimo Morigi – gennaio 2022.»

Buona lettura.

Giuseppe Germinario

Per chi non avessse letto, questa la prima parte https://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimo-morigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-_________-i-parte/

MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________

II PARTE

*In frontespizio: Friedrich der Große nach der Schlacht bei Kolin von Julius Friedrich Anton Schrader (Federico il Grande dopo la battaglia di Kolin, di Julius Friedrich Anton Schrader, 1849)

 

Capitolo 2 LA LOGGIA MASSONICA DANTE ALIGHIERI

O luce etterna che sola in te sidi , sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ‘l mio viso in lei tutto era messo. Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle , sì come rota ch’igualmente è mossa, l’ amor che move il sole e l’altre stelle Dante, Paradiso, c. XXXIII ,vv.124-145

Uno dei danni non secondari del Luzio, dopo l’inquinamento delle coscienze e l’assai esplicito avviso ai naviganti di non incrociare le acque liberomuratorie, fu il bruciare – editorialmente parlando, ché per i roghi meno metaforici altri avevano già provveduto – l’accurato ed anche amorevole lavoro di Giuseppe Leti Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano1 , informato all’idea ,al di là di alcune puntate eccessivamente apologetiche, del forte debito di riconoscenza che l’Italia doveva alla Massoneria. Il libro del Luzio uscì una settima prima , non sappiamo dire se per caso o di proposito, ma il risultato fu che quello che doveva essere un’estrema difesa della Massoneria di fronte alla reazione montante, almeno sul campo della lotta delle idee, rubatogli il tempo dal Luzio, mancò completamente il suo obiettivo. Questo per quanto riguarda le armi della critica. Per quanto riguarda la critica delle armi, abbiamo già detto : il cave canem luziano e la coartazione di uno stato divenuto ormai dittatoriale avevano imposto una dialettica a cui nessun Leti e nessun uomo libero e di buoni costumi poteva al momento comporre in una sintesi superiore. Una sintesi che non chiameremo superiore, ma certamente più adeguata ai tempi storici, che era invece riuscita ai nostri padri risorgimentali quando divenuta inservibile ed impraticabile la massoneria speculativa( come abbiamo cercato di mostrare, non per suo difetto ma per la feroce repressione attuata dalla restaurazione ) non si erano sbarazzati dei vecchi strumenti liberomuratori ma avevano cercato di convertirli alla costruzione non di metaforici templi alla virtù ma all’edificazione di trincee e fortilizi entro cui i “refrattari” alla restaurazione avrebbero potuto rifugiarsi per poi partire immediatamente all’assalto contro i nuovi tiranni. Questo e non altro è l’interpretazione ( ma anche la moralità) della proliferazione associativo – carbonico – settaria romagnola fatta affiorare (e di questo ma solo di questo ringraziamo il Cardinal Legato ) dalla sentenza Rivarola e dei moti che precederono e seguirono l’infame giudizio.

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12 luglio 1859. Napoleone III atterrito dalle pesantissime perdite subite e nemmeno disposto a concedere un eccessivo allargamento al Regno sabaudo ,firma con l’Austria l’armistizio di Villafranca. L’indignazione in Italia è altissima. Non solo il Piemonte avrebbe dovuto permettere il ritorno del duca di Modena e del granduca di Toscana ma avrebbe dovuto permettere all’Austria il mantenimento delle fortezze di Mantova e Peschiera ( come misero premio di consolazione la Lombardia sarebbe stata data dall’Austria a Napoleone III , il quale la avrebbe a sua volta graziosamente girata al Piemonte). La confusione regna sovrana. Prima della cessazione delle ostilità, Cavour aveva inviato a Modena, con la nomina di commissario regio, Luigi Carlo Farini. Gli viene ordinato di rientrare. Ma Farini disobbedisce e anzi si fa proclamare dittatore dell’Emilia. Mentre nessuno ,in Piemonte, sembra trovare il bandolo della matassa o, perlomeno il modo di uscire onorevolmente da questa situazione, Farini così telegrafa a Cavour: “ Fate attenzione che se il duca di Modena fa qualche tentativo, io lo tratto da nemico del Re e della Patria. Io non mi lascerò cacciare da alcuno, mi dovesse costare la vita.”2 Il plebiscito per l’annessione sarà la degna conclusione di un’azione condotta con tale coraggio ed energia. La seconda guerra d’indipendenza, merito anche di questo romagnolo dagli ascendenti rivoluzionari ( suo zio Domenico Antonio era stato un leader giacobino e imperante la reazione fu assassinato nel 1834 a Russi ) non era stata un’inutile carneficina: il 2 aprile 1860 ebbe luogo a Torino la prima riunione del Parlamento italiano. 15 gennaio 1860. Il Grande Oriente Italiano ,che si era costituito a Torino il 20 dicembre 1859, conferisce l’incarico al conte Livio Zambeccari, che era stato uno dei fondatori del G.O.I ., di istituire nell’Italia centrale logge poste all’obbedienza della nuova organizzazione massonica. Anche per la Romagna si sta avvicinando l’ora in cui i fratelli, liberati dal giogo papalino, potranno tornare a riunirsi ritualmente nel nome del Grande Architetto dell ‘Universo. In seguito all’incarico conferitogli dal G. O. I. , Livio Zambeccari ritorna nella sua nativa Bologna per ricostituirvi nel gennaio 1860 “la Loggia Concordia la quale , nel 1862, per distinguersi da altre Logge portanti lo stesso titolo aggiunse al proprio nome l’aggettivo Umanitaria ed ebbe per primo capo il Fr.: Francesco Guerzi”3 che, nonostante la sua veneranda età – era nato a Bologna nel 1784 – e a dispetto del suo cursus honorum di vecchio patriota , non solo accettò l’onere del maglietto della “Concordia” ma curò pure nel 1862 la fondazione ad Imola della Loggia “ Forum Cornelii” ed accettò anche da Zambeccari la delega all’incarico conferita al Conte dal G.O.I. di formare nuove logge nell’Italia centrale. Il 9 novembre 1862 una pressante missiva del Grande Archivista del G.O.I. Angelo Piazza gli chiede conto del suo operato per quanto riguarda la città degli Esarchi: “Quando ci giungerà la domanda della Loggia di Ravenna?”4 . Un’attesa che non sarebbe durata a lungo: Il 3 gennaio il Gran Segretario poteva complimentarsi con Guerzi : Al Ven. Guerzi ,il Gr.: Or.: nella tenuta straordinaria di ieri sera mi ha ordinato di accusare ricevuta della Vostra tavola del 30 passato mese di dicembre n.70 e di notificarvi che il vostro nome [Dante Alighieri] venne registrato nel libro d’oro e ciò per approvare il lavoro Massonico che voi fate all’Or.: di Ravenna e così elevare in quella città un tempio alla virtù. Fortunato di questo incarico del Gr.: Or.: ricevete il triplo bacio fraterno. Il Gran Segretario Gallinati.5 Mancava ormai solo un ultimo passaggio per il ritorno della “Vera Luce” anche a Ravenna. Il 12 febbraio 1863 Gallinati poteva scrivere a Guerzi sulla felice conclusione della pratica: Al Ven. Guerzi, il Gr.: Or.: nella tenuta ordinaria di martedì ultimo ordinò che venisse spedita la patente di costituzione di Loggia alla Dante Alighieri Oriente di Ravenna. Nella stessa tenuta il Gr.Oratore (Avv. Carlo Fiori) propose, e il Gran Consiglio eseguì, una Triplice batteria ben sentita per salutare la fondazione di questo nuovo tempio alla virtù, e mi diede il dolce incarico di ringraziarvi carissimo Guerzi a nome dell’intero Consiglio e della Massoneria Italiana di quanto avete operato per la costruzione di questo Tempio di Ravenna. D’ordine del Gr. M. il Gran Segret. Gallinati.6

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La Romagna che mai aveva accettato la restaurazione, la Romagna che non si era piegata alla sentenza Rivarola, la Romagna la cui risposta al sopruso pontificio erano stati i moti del ’21, del ’31,del ’43 e del ’45 ,la Romagna che aveva sacrificato 96 dei suoi figli migliori per la difesa della Repubblica Romana e, non paga di questo tributo di sangue e di sofferenze anche successivamente ,nel ’67 , a Monterotondo, in questo crepuscolo del Risorgimento, vedrà cadere 32 volontari, questa Romagna assisteva ora al risorgere a Ravenna della liberomuratoria. Il nome scelto dai fratelli ravennati per la loggia attraverso la quale erano ripartiti nella città degli Esarchi gli architettonici travagli , Dante Alighieri, oltre a riallacciarsi idealmente ad uno dei momenti principali della memoria locale impregnata di spirito esoterico7 ( la vicenda della Tomba di Dante, della sua idea originaria troppo sfacciatamente simbolica e il ripiego compromissorio del Morigia dell’uroboros – alloro sul timpano è il segno – al di là della predisposizione del Morigia e del suo ambiente a ragionar per simboli – che il Divin Poeta ,oltre a venir percepito come il padre della lingua italiana , veniva già inteso come il maestro di una conoscenza sapienziale che nel Medioevo si era opposto alla dogmatica cattolica8 ), risultava assai impegnativo anche dal punto di vista dei risvolti politico-essoterici che avrebbero dovuto conseguire dai fervidi lavori fra le colonne. Risvolti essoterici anch’essi fortissimamente radicati nella storia cittadina: L’inserimento nella più ampia compagine statale [della Cisalpina ] si accompagnò ad un salto di qualità nel tentativo di elevare il tono repubblicano ed il senso di appartenenza ad un’epoca nuova. L’adozione nelle scuole dei saggi democratici del Cesarotti costituiva un primo tangibile segno di svolta; ma fu l’arrivo in città di due commissari del potere esecutivo dalla forte personalità, Vincenzo Monti e Luigi Oliva, a innalzare il tenore dell’azione politica. Con tali presenze inizia un periodo ricco di iniziative formative, volte a educare l’intera città alle nuove idee. Un periodo di conseguenza denso di tensioni, inevitabili non appena si cercava di incidere nel tessuto profondo di una società se non immobile, comunque estremamente legata ai principi tradizionali. L’azione di Monti e Oliva ebbe subito risvolti concreti e tangibili nel panorama cittadino: il 29 dicembre veniva inaugurato tra solenni discorsi il circolo costituzionale che, secondo le parole dello stesso Monti, doveva costituire “ la fucina dello spirito pubblico,[…] il libero porto degl’intelletti, ove approdano da tutte le parti i pensieri della repubblica”. La proposta avanzata in quell’occasione di celebrare Dante in un’accademia in sua lode servì all’appropriazione del poeta tra gli eroi repubblicani ante litteram , e a Vincenzo Monti a purificare le colpe al servizio del Papa ,in uno spregiudicato paragone con il grande fiorentino, colpevole come lui di aver scritto un libro inneggiante alla monarchia, ma ciononostante degno del perdono della repubblica.9 Una politica culturale dei giacobini delle ex Legazioni in cui il poeta sepolto a Ravenna costituiva quindi uno degli snodi principali nella costruzione di un immaginario pubblico e di un’identità municipale che non fossero però solo ancorati alle memorie classiche delle virtù repubblicane della Roma antica ma traessero forza e vigore da colui che la tradizione retorico-letteraria aveva indicato come il precursore dell’identità italiana e – particolare di non trascurabile importanza per i giacobini delle ex Legazioni – la sua lotta contro i soprusi temporali e spirituali del papato lo aveva portato a morire esule a Ravenna. Con questa tradizione, un vero e proprio macigno, doveva confrontarsi la Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna. La storia che ci è possibile ricostruire delle sue vicende interne e dei suoi rapporti con il mondo profano sta ad indicare una sorta di parallelismo ideale fra questa loggia con quella – si parva licet componere magnis – della Massoneria italiana postunitaria. Un grande slancio per la rettificazione delle coscienze e della società spesso non supportato da bastevoli forze per raggiungere questi nobili obiettivi. Oltre che un portato della storia nazionale – in cui le pulsioni particolaristiche ed esclusivistiche , accanto alla feroce reciproca inimicizia , hanno sempre avuto un nemico comune, la Massoneria e chi come lei ha voluto sempre esprimere un forte senso identitario che non fosse, però, che l’indissolubile risvolto di una realtà più ampia ed universale – ,la dimensione dello scacco e del rischio è sempre stata, e sempre sarà ,l’orizzonte entro il quale si sono dovute muovere quelle forze che hanno avuto la nobile ambizione di calare e far vivere nella storia principi che oltrepassino il contingente. Questo fu anche il destino di Dante Alighieri. E’ questo è stato anche il Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 27

destino della loggia massonica ravennate che prese il suo nome. Costituisce ,in un certo senso, il suo maggior titolo di nobiltà. Un iniziale rapido sguardo alle sue vicende interne. Il 14 del 3° mese dell’anno 5863 V.: L.: da Ravenna il medico chirurgo Luigi Bondoli , il primo Maestro Venerabile della Loggia “Dante Alighieri” di Ravenna , così scriveva a Francesco Guerzi, Venerabile della “Concordia Umanitaria” , deus ex machina della nascita della loggia ravennate e king maker della nomina di Bondoli a reggere il maglietto della Dante Alighieri: Caris. Fr.: Ven. Francesco Guerzi, Vi prego che mi siate gentile di mandarmi più presto che vi sarà possibile il vostro regolamento interno della Loggia e pure una copia delle cose più importanti. Noi andiamo avanti con un incremento del personale meraviglioso ,intendo dirvi non per numero ma per qualità dei FF.: , domani sera saremo 40 piacendo al G.A.D.U. , ma vi ripeto sceltissimi. Ora che ho mostrato le rose conviene pure che non vi nasconda le spine , ed eccovi l’oratore che ha sempre continuato con il solito suo sistema di venire nei dieci inviti [ alle riunioni della Loggia] una o due volte per cui mi trovai costretto di nominargli un sostituto nella persona del Fr.: Dottor Miccoli che non ho abbastanza parole per lodarlo .Se il suddetto oratore manca all’invito di domani sera, sarà la quinta volta di seguito, e non lo invito più. L’altro è il Fr.: Segretario Dovilio Della Scala ,uomo irrequieto già per sua natura e turbolento a modo che ha indispettito tutti gli altri M. col suo orgoglio ed assoluta insubordinazione, il quale mi ha già rimesso la sua rinunzia alla carica è questa cosa è gradita da tutti, tutti, tutti. Questo fanatico Mazziniano, come pure l’altro (l’oratore) non hanno contribuito all’ingrandimento del nostro Tempio certamente, perché non un solo individuo venne da loro proposto , e se il segretario ne propose uno mancò ,cioè non fu accettato , ciò vi basti. Ho già passato dei lavoranti nelle persone di avvocati, ragionieri, ingegneri e due ricchissimi possidenti nonché il conte Ghirardini, Corradini Francesco, ecc. Gli ottimi FFr.: Dottor Montanari ,Miccoli, Serra, Magri, Bianchini ed altri che non conoscete, si comportano da angeli veramente degni dell’istituzione. Rispondete quanto più presto vi sarà comodo ed abbiatevi il triplice bacio ed abbraccio fraterno dal vostro Fr.: Bondoli. Al Fr.: Segretario Gasperini il triplice bacio.10 Ad un primo sguardo siamo di fronte alle classiche dinamiche ed ai classici problemi che inevitabilmente si accompagnano a qualsiasi sodalizio – iniziatico e non – di recente costituzione: entusiasmo iniziale, rapido accrescimento numerico, prime defezioni. Più interessante è, invece, indirizzare la nostra attenzione sul conte Giovanni Ghirardini ,che il Bondoli descrive entusiasticamente a Guerzi come una delle più positive nuove speranze della loggia, un illustre esponente – come diremmo oggi mutuando il linguaggio dei partiti politici – della società civile. Ma il conte Ghirardini, qualità che viene taciuta od è ignorata da Bondoli, ha un’altra importante e peculiare qualità : egli è in ottimi rapporti con Garibaldi. Tanto buoni da poter richiedere al Generale un parere a proposito della ricostituzione della Massoneria a Ravenna e da ottenere, con una missiva spedita da Caprera in data 10 giugno 1863, la seguente risposta : Caro Ghirardini ,se la Società Massonica che si vuole stabilire in codesto Paese dipende dal Grande Oriente di Torino ,io vi esorto a sfuggirla. Essa rappresenta la Società Nazionale. Se però appartiene al rito scozzese accettato ed antico, e se è affigliata al Grande Oriente di Palermo ,allora potete liberamente accettarla ,perché è la rappresentazione della Democrazia. Ciò vi serva d’intelligenza. La mia salute migliora sempre, e spero ormai guarir presto per potervi accompagnare nelle battaglie che decideranno le sorti d’Italia. Raccomandatemi agli amici e credete all’affetto del vostro G. Garibaldi .11 Non siamo riusciti a trovare la lettera dove Ghirardini chiedeva il parere di Garibaldi. Non siamo quindi in grado di dire se l’ entrata del Conte nella loggia massonica ravennate dipendesse da una sorta di ipotetico lungo periodo trascorso fra l’invio della missiva e la risposta, che il conte avrebbe potuto interpretare come una sorta

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di silenzio- assenso , oppure dalla volontà di Ghirardini di bruciare i tempi per entrare a far parte della Loggia “Dante Alighieri”, volente o nolente il Generale , il quale in questo caso sarebbe stato solo il destinatario da parte di Ghirardini di un’informativa sulla nascita della loggia formulata sotto forma di richiesta di parere sull’opportunità di aderirvi. Domanda alla quale non siamo in grado di rispondere ma che non è l’aspetto più importante fatto emergere dalla lettera di Garibaldi. Vale a dire il problema della Società Nazionale in Romagna. Non solo il Generale aveva questa opinione negativa ma anche Aurelio Saffi e con lui tutti i democratici mazziniani. Addirittura per “l’ultimo Vescovo di Mazzini” il mazzinianesimo ravennate aveva il suo principale avversario nei “Murattiani e [nei] lafariniani insieme…, l’elemento più dissolvente in Romagna”12. Da cosa derivava questa profondissima diffidenza? E’ noto il sospetto con cui i democratici avevano accolto la costituzione della Società nazionale, accusata, fra l’altro, di essere la longa manus di Napoleone III in Italia, a tutto interessato tranne a che l’Italia compisse sul serio il suo processo unitario. Fra i democratici delle Legazioni, questi sospetti venivano pesantemente aggravati dal fatto che la corrispondenza della società venisse consegnata a Bologna al marchese Pepoli, cugino di Napoleone III e a Ravenna al conte Gioacchino Rasponi. Gioacchino Rasponi : “Era nato a Trieste ,l’8 marzo 1829 , primogenito del Conte Cav. Giulio Rasponi e della Principessa donna Luisa, figlia di Re Gioacchino Murat. Nel 1858 aveva sposato una Principessa Ghika dei principati danubiani.”13 Con Gioacchino Rasponi, quindi, non siamo solo di fronte ad un cugino di Napoleone III ma anche ad un nipote di Gioacchino Murat : non c’è proprio da sorprendersi dei sospetti dei democratici verso una politica della Società nazionale ritenuta molto sensibile agli interessi nazionali francesi. Se a questo quadro di tensioni fra democratici e moderati ,aggiungiamo l’opinione comune da parte democratica che, dopo il 1860 , dietro il formarsi della Massoneria in Romagna ,ci fossero i napoleonidi, non solo vediamo meglio esplicitata la diffidenza di Garibaldi verso una loggia all’obbedienza del G.O.I. di Torino – notoriamente vicino alla Società nazionale e voluta ,probabilmente , anche da Cavour – ma anche il gradimento del Generale nel caso che questa loggia fosse all’obbedienza del Grande Oriente di Palermo ,dove erano confluiti di preferenza i democratici mazziniani. Questa situazione fa così da naturale pendant ai comportamenti turbolenti tenuti in loggia dai due mazziniani, il Segretario Dovilio Della Scala e l’Oratore della loggia, molto verosimilmente a disagio in un ambiente che dal punto di vista profano sentivano, a dir poco, distante. Una profanità ,quella che abbiamo appena descritta, che certamente danneggia l’operato del Maestro Venerabile Bondoli ma che dall’esame del carteggio con Guerzi , siamo in grado di affermare non lo facciano desistere dai suoi sforzi per l’edificazione a Ravenna del Tempio alla Virtù. Scrive Bondoli a Guerzi il 24 gennaio 1863, poco prima della nascita ufficiale della loggia: Carissimo fratello (Guerzi), Il giorno stesso che ho ricevuto la vostra tavola mi alzai da letto dopo esservi stato obbligato dieci giorni, per cagioni di una ostinata affezione reumatica, che mi molesta di quando in quando. Ero dunque in convalescenza quando ho chiamato a me i sette amici Avv. Gaspare Bartolini, Dr. Miccoli, Saverio Serra, Dovilio Dalla Scala ,Giuseppe Magni, Gaetano Bianchini, l’altro essendo assente non poteva far parte della piccola assemblea , e tutti unanimi si convenne di battezzare la nostra Loggia col nome di Dante Alighieri ,come si convenne pure di invitarvi ad accedere quanto più presto vi piacerà , di venire in unione del rispettabile fratello Segretario, dirigendoVi alla locanda della Spada d’Oro. Quando sarete pronti mi darete un preventivo avviso, come pure se verrete per la via di Forlì o di Faenza. In quanto a L. Fabbri debbo assicurarvi che le sue qualità morali furono ottime se non si vuole fare rimarco a qualche leggerezza di prima gioventù. Vi lascio il bacio fraterno ed un affettuoso abbraccio. Il vostro fratello L. Bondoli.14 Luigi Bondoli, un uomo libero e di buoni costumi animato dalla fortissima volontà, nonostante una salute non certamente delle migliori ( nulla sappiamo sulla patologia reumatica che lo “ molesta di quando in quando” ma non

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doveva essere cosa di poco conto se lo aveva costretto a letto dieci giorni : da questo punto di vista, dalla lettera di Bondoli emerge una fortissima propensione all’understatement, uno dei segni migliori di ogni pietra ben levigata) , di edificare un tempio alla virtù. La corrispondenza Bondoli – Guerzi se non le si vuole far dire più di quanto non sia effettivamente in grado di esprimere, è quindi un interessantissimo tranche de vie di una loggia massonica romagnola e della società circostante agli albori dell’unità italiana : fortissimi entusiasmi spinti fino al limite del sacrificio, la difficoltà di trovare nella nuova compagine nazionale un senso della politica e della storia condiviso che riuscisse ad oltrepassare gli schieramenti, l’inevitabile risuonare di questi rumori metallici e stridenti all’interno delle colonne. Certamente quello di Bondoli fu una sorta di apostolato .Alla sua morte (il 27 febbraio 1870 , era nato il 10 gennaio 1803), la seguente iscrizione posta sul suo tumulo fu l’estremo omaggio di riconoscenza per l’amore e la stima che lo avevano accompagnato nella vita profana e nel suo percorso verso la “Vera Luce”: Luigi Bondoli / chirurgo/fondatore della Loggia Dante Alighieri/ di Ravenna/ Apostolo/di libertà e progresso/ per la causa nazionale/sostenne intrepido/carcere ed esilio/morì in Ravenna/ il XXVIII febbraio MDCCCLXX./All’estinto marito/al patriotta integerrimo/la vedova Marianna Mazzotti/i F.: F.: e gli amici/ questa lapide /supremo tributo/d’onoranza e d’affetto/posero.15 Nonostante l’impegno profuso da Bondoli e dalla loggia (oltre alla reggenza del maglietto nella “Dante Alighieri”, collaborazione con Guerzi per la costituzione di logge a Forlì ,Faenza ed in altri centri romagnoli, nomina di un delegato di loggia ,il dottor Giuseppe Montanari, all’assemblea massonica del G.O.I. del 1° giugno 1863, e ancora un altro impegno oneroso sulle spalle della “Dante Alighieri” ,offerta nel 1867 di 100 lire ai profughi di Candia ) ,il 28 agosto 1867- apprendiamo dalla Cronistoria della Loggia Dante Alighieri – la Loggia massonica “Dante Alighieri” viene demolita16 “per avere iniziato profani senza chiedere il nulla osta del Grande Oriente”17. Ma è assai pronta la ricostituzione “con bolla di fondazione del 29 agosto.”18 Gli iniziali protagonisti che in prima persona avevano ripreso a Ravenna gli architettonici lavori dopo i lunghi anni del ritorno nelle Legazioni del potere temporale del Papa, devono ora farsi da parte : “Nella Massoneria ravennate ,accanto a Rasponi , militava Domenico Farini. In una lettera del ’20 novembre ‘67 il nobile ravennate comunicava all’amico deputato che la loggia di Ravenna ,sciolta in giugno, si era ricostituita ‘venerabile egli Rasponi coadiutori il Guaccimanni’”19 . Siamo di fronte ad un’infornata di homines novi e le cariche di Loggia nel 1870 erano così ricoperte: Conte Gioacchino Rasponi, Venerabile Maestro Prof. Luigi Guaccimanni ,1° Sorvegliante Mara Giuseppe,2° sorvegliante Dr.Gaetano Miccoli ,Oratore Guerrini Silvio ,Segretario Calderoni Attilio,Tesoriere 20 Ma nuovi quanto? Se ci atteniamo al piedilista che possiamo ricostruire dai documenti degli atti di fondazione che abbiamo precedentemente esaminato, si tratta, in effetti, di uomini – tranne l’oratore – nuovissimi che non avevano mai varcato le colonne o non vi avevano ricoperto posizioni di responsabilità. Ma se facciamo mente locale alla nostra ricostruzione del quadro politico dei primissimi anni postunitari e delle polemiche fra mazziniani e liberali lafariniani all’interno della Società nazionale, la novità altro non sembra che la certificazione negli organigrammi della loggia delle dinamiche profane che avevano fatto da cornice alla nascita della “Dante Alighieri”. Vediamo ora di esaminare da più vicino alcune delle biografie degli esponenti più in vista della loggia della fase post ricostituzione del 1867. Del Maestro Venerabile Conte Giacchino Rasponi, cugino di Napoleone III e nipote di Gioacchino Murat abbiamo già detto come pure dell’opinione da parte

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dei mazziniani di essere la longa manus della politica dell’Imperatore della Francia e deus ex machina della rinascita ,all’indomani della caduta del potere temporale del Papa , della massoneria in Romagna. Interessantissima, inoltre, è la biografia di Domenico Farini. Pure non figurando in alcun documento ufficiale della loggia , fu sicuramente massone e la sua militanza latomistica ebbe inizio e si sviluppò nell’ambito dei suoi amici di loggia della Dante di Ravenna, il conte Gioacchino Rasponi in primis. Una stretta ed assidua frequentazione con l’illustre napoleonide che ,del resto, era una specie di eredità di famiglia. Il padre, il dittatore dell’Emilia che nella fase post Villafranca abbiamo visto battersi leoninamente per gli interessi italiani e contro la politica di Napoleone III, non si può certo dire che fosse estraneo al sistema di potere e di amicizie napoleonidi. “Luigi Carlo Farini era ben accetto a Napoleone III sia per l’amicizia con molti membri della famiglia dell’imperatore, sia perché, come molti moderati, dopo esser stato vicino a Pio IX all’indomani della concessione dello Statuto ,se ne era però andato da Roma subito dopo la fuga del papa a Gaeta , prima dunque che venise proclamata la repubblica […]. Anche se poi Farini si legò a Cavour ed alla politica piemontese, rimase viva la sua amicizia con i napoleonidi , tanto che nel ’59 ,quando fu governatore delle Romagne, chiamò presso di sé , come segretario particolare nel governo provvisorio, Achille Rasponi, il terzo dei figli della principessa Luisa Murat. Il figlio di Luigi Carlo Farini, Domenico, nonostante non militasse nel partito del padre, continuò però sempre a praticare le amicizie della sua giovinezza, mantenendo con il circolo dei Rasponi una intimità di rapporti documentata sia dalla corrispondenza epistolare tra loro intercorsa sia dalla comune milizia massonica . Sarebbe perciò difficile sostenere che l’ attività parlamentare di Domenico Farini prescindesse del tutto dalle opinioni e dalle decisioni della loggia di Ravenna, egemonizzata dai Rasponi .”21 Il grosso rilievo massonico di Farini ( “Ininterrotta fu la dimestichezza di Domenico Farini con il Gran Maestro [Frapolli] , malgrado vent’anni li separassero. Aiutato da Rasponi , nel 1867 il figlio dell’ ex Dittatore di Modena riuscì a ravvivare la Loggia del suo Collegio, la Dante Alighieri, entrata in crisi dopo anni di vita rigogliosa”22 ) e il suo sfavillante cursus honorum ( “Candidato a Ravenna, nel ’64 Domenico Farini ‘ prima delle elezioni non volle fare atto alcuno per ricercare voti ’.Si sentì meno sicuro l’anno dopo e ricorse a Frapolli.[…] Nel ’70 Domenico ricercò l’aiuto del Gran Maestro per evitare che ‘ dalle divisioni della sinistra traessero vantaggio i clericali ’.Ad ogni buon conto venne rieletto per otto legislature ed il merito fu quasi tutto suo”23) ,ci restituiscono l’immagine di un notabile politico dell’Italia postunitaria in cui le chiare qualità personali di leadership ( fu anche Presidente della Camera, succedendo a Cairoli) ben si armonizzano con un’indubbia capacità di lavoro fra le colonne e , fuori da queste, si avvaleva ,senza prevaricazione ma assai abilmente, della tradizione napoleonide inaugurata dal padre. Luigi Guaccimanni. “Il conte Luigi Guaccimanni ,nobile figura di cittadino e di patriota nazionale, fu l’attivissimo segretario della Società Nazionale di Ravenna, ufficio ch’egli[accanto a Rasponi ] potè svolgere egregiamente , anche per la sua qualità di ingegnere. Dovendosi spostare continuamente pei propri lavori, senza destare sospetti, e pure per la sua natura riservata, poteva attendere alla organizzazione , reclutare nuovi e fidi elementi, far pervenire disposizioni e comunicazioni, e raffermare sempre più e sempre meglio la Società nella bassa Romagna .”24 E ad ulteriore conferma del suo ruolo centrale nella cospirazione di segno moderato e nell’ organizzazione della Società nazionale dove si dovette contrapporre all’ ala sinistra egemonizzata dai mazziniani: Guaccimanni Luigi[…] .Nacque il 29 luglio del 1832 da Giovanni, Presidente del Tribunale di Ravenna e della Contessa Tiepolo Loredana di Venezia. Studiò ingegneria e fu ingegnere nel Corpo del Genio Civile. Divenne poi una delle figure più rappresentative e più simpatiche fra i liberali della città nostra. Ebbe costante una corrispondenza di pensiero , di sentimenti e di opere con uomini preclari. Può dirsi che dall’epoca del risorgimento anche della nostra Ravenna, la casa Guaccimanni fu il convegno di tutte le manifestazioni patriottiche e civili della frazione più avanzata del partito liberale costituzionale. Nelle lotte fra conservatori e progressisti (chi più le ricorda?) cioè fra coloro che avevano accettato, forse subito, il nuovo ordine di cose e coloro che

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l’avevano lungamente ardentemente propugnato, Guaccimanni fu costantemente con costoro. Ebbe anche a reggere per vari anni come Prosindaco ,l’Amministrazione comunale. Nel 1876 fu efficace collaboratore con Giuseppe Rava per la costituzione di una fiorente Federazione democratico-progressista della quale fecero parte Alfredo Baccarini e Domenico Farini. In casa sua sorse , e per qualche tempo fu da lui presieduta, la sezione ravennate della “Dante Alighieri”25.Ebbe rapporti coi patriotti più insigni; conobbe Felice Orsini, fu l’Amico di Aurelio e Giorgina Saffi , di Benedetto Cairoli, di Domenico Farini, di Gaspare Finali e soprattutto di Alfredo Baccarini. […] Fu per lunghi anni consigliere provinciale ,membro della commissione di assistenza e beneficienza pubblica , anche presidente della Congregazione di Carità; ed in ogni tempo propugnatore di ogni iniziativa utile al paese. Ebbe insomma una vita costantemente buona e civilmente operosa. Morì in Ravenna il 5 giugno 1917.26 In occasione della guerra franco-prussiana -che segnò la fine di Napoleone III- e della conseguente partenza delle truppe italiane per Roma, il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Ludovico Frapolli inviò a tutti i Maestri Venerabili d’ Italia e al notabilato massonico circolari perché fossero organizzate manifestazioni di sostegno popolare alla spedizione militare che in pochissimo tempo avrebbe ricongiunto la città Eterna alla Patria .Il problema principale per queste manifestazioni era che tutto si doveva svolgere nella piena legalità e che non degenerassero in atti ostili al governo e alle autorità costituite. Dopo Aspromonte, la terza guerra d’indipendenza e Mentana, il tramonto del Risorgimento aveva assunto un colore livido e la questione romana , se non maneggiata con cura, rischiava di risultare letale per la debole creazione unitaria egemonizzata dai moderati. Così i fratelli interpellati da Frapolli furono presi alla sprovvista e molti di loro indugiavano accampando come scusante o lo scarso seguito che avrebbe avuto un’iniziativa del genere ( “De Zugni prima titubò: ‘A Venezia e nel Veneto è impossibile ottenere ciò che costà si desidera. Qualunque tentativo riuscirebbe inutile. Fra due secoli forse le cose potranno cambiare ,ma oggi il clericalismo ed il servilismo sono piaghe troppo profondamente radicate negli animi ’ ”27) o ,al contrario, che, pur esistendo un sentimento popolare del tutto favorevole all’impresa , le pubbliche autorità si sarebbero opposte alle manifestazioni in ordine a timori sull’ ordine pubblico. Una delle risposte di questo genere alle circolari Frapolli , fu quella fatta pervenire al Gran Maestro da un disincantato Guaccimanni: L’opinione pubblica qui da noi è pronunciatissima , ed anche i più moderati esclamano con enfasi: che fa questo imbecille di Governo, che non prende l’occasione per andare a Roma? I più ardono di impazienza , ma nelle Romagne nostre, tutte fuoco, le dimostrazioni sono difficilissime. Tuttavia non mancherò di darmi d’attorno e spero di riuscire.28 Per la verità le preoccupazioni di Guaccimanni più per “questo imbecille di Governo” che poco avrebbe fatto per far giungere al suo naturale compimento con Roma italiana e capitale il processo unitario, erano rivolte tutte alla massa che una volta adunata e organizzata rischiava nelle Romagne di rimettere in discussione quei rapporti di forza che cristallizatasi all’inizio all’interno della Società nazionale (liberali costituzionali egemoni, ruolo ancillare per i democratici di stampo repubblicano) avevano avuto il loro definitivo suggello dai plebisciti organizzati dal dittatore dell’Emilia e che continuavano ,dieci anni dopo, ancora ad imperare. Una prudenza quella del Guaccimanni che non significava certo freddezza verso la prospettiva di Roma ricongiunta all’Italia e nemmeno indulgenza verso le prospettive clerico-moderate che vedevano come fumo negli occhi la caduta del potere temporale del Papa. Per non lasciare adito a speculazioni e far intendere la parte della barricata in cui si era scelto di combattere – e in cui la Loggia “Dante Alighieri” si schiererà sempre all’ ordine – all’indomani della breccia di porta Pia la liberomuratoria ravennate fece deporre sulla tomba del Poeta la seguente iscrizione: Esultate,ossa del divino Poeta/Dal vincitore esercito italiano/il XX settembre MDCCCCLXX/ Fu riparata la colpa /Di Costantino Cesare/Cui la grande anima/Ch’era vostra forma/Lamentava/Quando all’Inferno/Contro Niccolò Papa/ Esclamò/Ahi ,Costantin/ Di quanto mal fu matre/Non la tua conversione /Ma quella dote/Che da te prese il primo ricco patre.29

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In effetti, l’iscrizione deposta dai massoni ravennati si presta a più livelli di lettura ,tutti espressivi però di un vero e proprio progetto che la massoneria ravennate condotta da Rasponi e Guaccimani serbava per la città degli Esarchi e per il resto della Romagna. In primo luogo, sul piano della “politica culturale”, la riconferma e la riproposizione da parte della Loggia “Dante Alighieri” del più importante topos dell’immaginario esoterico cittadino, rivendicando con ciò la “Dante Alighieri” non solo la sua funzione più prettamente esoterica ma anche una più manifestamente politica imperniata sugli aspetti essoterici del mito del Poeta(operazione di “politicizzazione” di Dante che a Ravenna era stata condotta per la prima volta da Vincenzo Monti sotto la repubblica Cisalpina). In secondo luogo, la decisa accentuazione delle potenzialità di polemica anticlericale insite in una figura come quella di Dante , inserita in un disegno di egemonia delle forze popolari che individuasse nel “partito” nostalgico cattolico il nemico comune e nel contempo, proprio grazie a questa dialettica amico-nemico, riuscisse a mantenere la leadership sulle forze repubblicane di matrice mazziniana, rivoluzionarie dal punto di vista istituzionale ma certamente non contrariate dalla conclusione anticlericale che, al momento ,aveva assunto il processo unitario. Del resto, che il “progetto” della massoneria ravennate – o ancor meglio, degli uomini più rappresentativi che essa espresse – fosse quello di incanalare ed interpretare in una complessa opera di mediazione le componenti più moderate dello schieramento democratico, emerge dalle rete di relazioni e dalle posizioni politiche che questi personaggi assunsero quando rivestirono posizioni di responsabilità o in ruoli pubblici o come esponenti del notabilato massonico nazionale. Di Luigi Guaccimanni abbiamo già visto che nel “ 1876 fu efficace collaboratore di Giuseppe Rava per la costituzione di una fiorente Federazione democratico-progressista della quale fecero parte Alfredo Baccarini e Domenico Farini”30 .Di Domenico Farini abbiamo già detto. Conviene soffermarci su Alfredo Baccarini. Nato a Russi nel 1826, laureato in ingegneria, aveva combattuto valorosamente nel 1848 negli scontri di Vicenza e Treviso, una fama di intrepido patriota che gli valse l’attenzione e la protezione di Luigi Carlo Farini che, dopo Villafranca, lo fece assumere al servizio del nuovo stato :col riordino del genio civile , con Regio Decreto 1° marzo 1860, viene nominato ingegnere di II classe e sempre per iniziativa di Luigi Carlo Farini “fu chiamato nel ’60 dal dittatore dell’Emilia Romagna […] a far parte della Commissione che doveva trattare col governo toscano per la costruzione della linea ferroviaria Faenza Firenze”31 .Una vicinanza quella di Baccarini con Luigi Carlo Farini che con il figlio di questi, Domenico , si tramuterà in una vera e propria amicizia personale e politica. La sua appartenenza massonica32 , come quella di Domenico Farini, di Luigi Guaccimanni e di Gioacchino Rasponi, oltre a farne uno dei rappresentanti più illustri di quella coterie latomistica che era sorta attorno alla Società nazionale, si inalveò naturalmente in una visione politica “ che cercò di guidare l’inserimento della regione nell’Italia unita ,promuovendone l’indispensabile miglioramento economico-sociale attraverso il richiamo insistito e ribadito ai valori ed alle alleanze del Risorgimento[…]. [Ritenne cioè] che solo il mantenimento di un fronte comune di tutte le forze genericamente progressiste, deciso ad operare in concreto sui dati del reale[…] potesse avviare un cammino di progresso capace di vincere tutte le resistenze frapposte a chi si manteneva aggrappato alle immobili gerarchie di potere del passato[…] finendo così per scontrarsi con una situazione di rapporti sociali ben poco scossa dalla recente tensione unitaria ed al contrario bloccata dalla dura contrapposizione tra chi deteneva tutte le leve della proprietà economica e finanziaria e quanti ne erano brutalmente esclusi”33.Con Baccarini siamo quindi in presenza della migliore e più consapevole espressione di quel progetto politico della Massoneria postunitaria tesa ad operare nell’ ambito della compressione delle istanze più rivoluzionarie dal punto di vista istituzionale e sociale con prudenti e meditati atti che , facendo leva sulla tradizione laicista risorgimentale, fossero in grado di fornire, al fine di avviare un reale sviluppo economico e sociale, una alternativa praticabile fra conservazione pura e semplice e sterili e velleitarie rivoluzionarie fughe in avanti. Così si cercò di operare a Ravenna e in Romagna e questo fu anche il ruolo

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essoterico che cerò di interpretare la Massoneria italiana, una valorizzazione cioè di quel ceto produttivo(piccola e media borghesia dei servizi e delle professioni ma anche classe operaia) che come cemento identitario fosse imperniata sulla conseguita unità nazionale ( e nelle sue espressioni più elitarie e consapevoli dall’appartenenza massonica) e sotto l’aspetto della tutela e valorizzazione degli interessi materiali, sulla contrapposizione con le vecchie oligarchie economico finanziarie, a tutto interessate tranne a che in Italia fossero avviati volani di sviluppo economico e democratico. Questo indirizzo concretamente riformatore se sul piano economico- infrastrutturale fu al meglio interpretato da Baccarini, sul piano istituzionale fu il filo conduttore di Aurelio Saffi, pure lui ,non a caso , esponente della massoneria romagnola e che – anche se estraneo al circolo napoleonide-società nazionale-lafariniano ( “ murattiani[…] l’elemento più dissolvente in Romagna”34) ed anzi costituendo il liberalismo dei Farini e alla Baccarini l’avversario politico- elettorale col quale il repubblicanesimo si doveva costantemente scontrare – , non a caso, aveva abbandonato, anche se “ultimo Vescovo di Mazzini”, i rifiuti intransigenti e totalizzanti del Maestro verso l’assetto postunitario ed inizierà ad incoraggiare ,in contrasto col mazzinianesimo “duro e puro” , la partecipazione dei repubblicani alle lotte elettorali. Si deve soprattutto a lui e alla sua duttile ma rigorosa impostazione se i repubblicani potranno trasformarsi da “setta in partito” e cominciare a costruire sul serio, a partire dalle amministrazioni locali, quella alternativa alla monarchia, che, traendo forza dal Municipio, si allargasse fino ad investire e sommergere, in una ulteriore fase, la massima istituzione dello Stato. Ma ,nel frattempo, era necessario operare, rendere il nuovo ordine che era scaturito dall’indipendenza nazionale veramente in grado di migliorare, da subito e sul serio, le condizioni di vita morali e materiali delle masse più diseredate, ponendo all’avanguardia in questo processo la parte più fattiva e moralmente seria della borghesia produttiva. Saffi l’aveva capito, i napoleonidi dell’ex Società nazionale l’avevano capito, la massoneria romagnola e nazionale pure. Che poi questo generoso e lungimirante disegno abbia visto nella nostra storia nazionale molti nemici e solo molto parziali realizzazioni e nella fase postrisorgimentale ed anche in quella molto più celebrata – a torto a nostro parere – dell’ Italia democratica postfascista , nulla toglie al suo valore ed anche spiega perché la Massoneria ,che di questa idea dell’ Italia era sempre stata l’alfiere – in ciò e solo in questo senso gramscianamente parlando “partito della borghesia” – , sia stata considerata dai settori più retrivi come un corpo estraneo e nemico della vita nazionale, una vera e propria avversione totalitaria ed integralista che avrà il suo naturale sbocco nella soppressione decretatane dal fascismo e nelle varie ondate di demonizzazione che, al di là delle contraddizioni ed errori che possono avere attraversato questa istituzione, colpiranno la liberomuratoria italiana degli ultimi cinquant’anni di vita repubblicana. Nonostante che la massoneria ravennate, o attraverso il suo prestigioso piedilista 35 o tramite gli uomini a lei vicina, fosse, almeno essotericamente parlando, dotata dei più nobili ed alti propositi, dal punto di vista dell’organizzazione non sembra proprio che godesse di una classica salute di ferro. Prova ne sia che – apprendiamo dalla Cronistoria della Loggia Dante Alighieri- dopo la sua ricostituzione rasponiana del 1867 e una vita che pur nella secchezza di queste note si intuisce fattiva (“il Conte Gioacchino Rasponi la rappresenta all’assemblea costituente di Roma del 1872. Nel 1870 è maestro venerabile il Conte Giacchino Rasponi […]. Nel 1873 è ancora Venerabile Rasponi. Il 12 aprile viene iniziato il poeta Olindo Guerrini36, pseudonimo di Lorenzo Stecchetti. Prende parte all’Ass. Cost. di Roma del 1874. Viene Menzionata nell’almanacco del libero muratore del 1875, edito dalle logge di rito simbolico di Milano. Aderisce all’assemblea generale di Roma del 1877 […]. Nel 1878 ha indirizzo presso Domenico Babini”), nonostante, dicevamo, che la Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna sia da ritenere che in questo periodo svolga i suoi lavori con sufficiente regolarità e che sul piano dei suoi rapporti con il G.O.I. la sua fosse una vita intensa – e a suggerire ciò basti far mente locale al calibro profano e non dei suoi iscritti – ,“Con decreto n°28 del 20 giugno 1878 viene demolita per morosità”37. Cosa era accaduto? “Il fratello Cagnoni nelle sue memorie afferma – Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 34

scrive Carlo Manelli – che dopo il ’70 declinò l’attività della Massoneria in Romagna e la Dante Alighieri incontrò tempi difficili a causa delle pubbliche lotte politiche fra clerico-moderati e progressisti. Nel 1870 tutte le altre Logge della regione (Cesena, Forlì, Imola e Bologna) avevano già da qualche tempo interrotti i loro lavori, invece la Loggia Dante Alighieri continuò ancora la sua attività e se ne trovan prove nel Bollettino del Grande Oriente (anno 1875 – n. 1) nel quale si legge che era presente il suo rappresentante all’Assemblea costituente del 23 maggio 1874; nello stesso Bollettino del 1877 (n.2) è registrata l’adesione della Dante all’Assemblea che fu tenuta in detto anno tuttavia senza aggiungere se essa inviò o meno un suo rappresentante “ 38 . Al di là della tendenziosità dell’accusa mossa da Carlo Mannelli ai clerico-moderati di essere l’elemento catalizzatore della crisi della massoneria romagnola ( accusa viziata a nostro parere da una certa dose di anticlericalismo di maniera e della quale non siamo riusciti a produrre alcun riscontro ma meritevole comunque – nonostante la sua tendenziosità più nel metodo in cui viene presentata, nessun documento, che nella verosimiglianza del quadro nella quale s’inserisce , è certamente possibile che la Chiesa sia riuscita a contribuire alla crisi della massoneria romagnola : il problema è accertare concretamente come, e non solo attraverso le sue tradizionali scomuniche e contumelie contro l’Ordine- di un ulteriore approfondimento ), quello che ci sentiamo di far nostro dell’opinione di Manelli è certamente la realtà di una massoneria che , in ragione del suo forte slancio a favorire il conseguimento di nobili obiettivi nel campo economico e sociale, subiva dalla politica – che per le sue dinamiche interne ed anche per motivi meno legati al suo specifico ma allo stridore dei metalli è del tutto refrattaria ad una sorta di eterodirezione anche solo sul campo dei principi – degli inevitabili e dannosi ritorni di fiamma, il cui effetto era anche minare la regolarità dei lavori iniziatici. “ ‘Non dava ormai che raramente qualche segno di vita’ la Massoneria italiana a dieci anni da Porta Pia e a un lustro dall’ascesa della Sinistra al potere (18 marzo 1876) , avrebbe detto , rievocando i tempi del proprio ingresso nel Governo dell’Ordine ,il Gran Maestro Adriano Lemmi. ‘Per molti anni disordinata e divisa’ , aggiunse a sostegno del suo ruolo di ‘Restauratore’ , ‘quindi povera, inerte , infeconda … simile all’ inferma di Dante, non trovava pace e riposo.’ ”39 Questa a parere del “Restauratore” Adriano Lemmi la situazione della Massoneria ai tempi della demolizione della Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna e di tante altre logge, romagnole e non, sparse per tutte le Valli della Penisola. In quegli anni la Massoneria ,oltre a dovere fare i conti con il nemico di sempre, la Chiesa – lo ripetiamo: la tesi di Manelli sulla crisi della massoneria romagnola manca di una base documentale, non certo di verosimiglianza40 – e con quanti mal digerivano che “uomini liberi e di buoni costumi” uscissero dalle loro notturne adunanze credendo di recare anche per il mondo profano qualche scintilla di “Vera luce” – la storia dei “poteri forti” , arroganti ed intolleranti è una triste costante nelle vicende italiane – , doveva pur scontare il nobile velleitarismo che l’aveva portata a concepire grandi disegni ma non sostenuti da un’adeguata struttura organizzativa. Il risultato dei primi decenni di vita postunitaria era stato che la società italiana si stava avviando, pur fra mille arresti e contraddizioni e spesso anche con l’apporto degli uomini e delle idee della Massoneria, verso assetti sociopolitici più progressivi e che , comunque, tendevano a fare dell’Italia una nazione industrializzata animata da una più intensa dinamica politica e sociale , ma che da questa nuova situazione la Massoneria non traeva alcun vantaggio; anzi rischiava di rimanere stritolata dai suoi vecchi e nuovi nemici ed anche dal nascere di nuove forme di aggregazione (i partiti politici ,i sindacati) più adatti a dare rappresentanza ed ascolto alle necessità identitarie e di organizzazione degli interessi legittimi sviluppatisi nella nuova Italia in via di industrializzazione. E così la triste condizione della liberomuratoria italiana era proprio quella spietatamente diagnosticata da Lemmi: “Non dava ormai che raramente qualche segno di vita”, “ quindi povera, inerte ,infeconda” .La Gran Maestranza di Adriano Lemmi fu dedicata a porre energicamente rimedio a questa melanconica situazione . Non tanto nel segno di una conversione della massoneria italiana ai più tradizionali schemi della massoneria anglosassone imperniata sull’ andersoniana preclusione fra le colonne della politica e della religione, soluzione che per quanto

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avrebbe portato la massoneria italiana nell’ambito di una più rigorosa regolarità iniziatica era del tutto estranea alla sua storia, ma nel quadro di un irrobustimento organizzativo che dotasse l’Ordine anche di un corpo sufficientemente robusto e pugnace per affrontare i rigori di un ambiente essoterico esterno che nulla era disposto a concedere ai volenterosi figli della Vedova. Di fatto, per quanto il disegno lemmiano di impegno politico dell’Ordine volto a fargli assumere il ruolo di vero e proprio “superpartito” esponesse ancora una volta la Massoneria ai rischi di un ritorno di fiamma della profanità ( cosa che puntualmente si riproporrà con Lemmi e i suoi successori dell’Italia postunitaria), i suoi sforzi profusi a livello organizzativo, anche se il loro bilancio non fu quello trionfalistico che voleva far intendere il Gran Maestro, produssero notevoli risultati nel rianimare una massoneria che “Non dava ormai che raramente qualche segno di vita” , “quindi povera, inerte, infeconda”. Non appena assunto il supremo maglietto già assistiamo ai primi tentativi di far risorgere in Romagna le colonne e “ dalla “Rivista della Massoneria italiana” del 1885 (pag.166) si apprende :’La Massoneria tace in Romagna, si comincia a comprendere da Fratelli autorevolissimi il bisogno di rianimarla. Più tardi l’opera del Grande Oriente e dei suoi delegati speciali si rivolgerà a Ravenna, a Forlì ed a Cesena’ ”41.Un’opera che fu affrontata con molto impegno e che doveva incontrare qualche difficoltà se “Dalla stessa rivista del 1891 (pag.16) si hanno ancora le seguenti notizie: ‘si lavora attivamente per la ricostruzione della Loggia a Ravenna’ e l’anno 1893, (pag.202) ‘anche a Ravenna si lavora energicamente per mezzo del Capitolo di Bologna .Non è possibile che i vecchi e valorosi elementi dell’antica Loggia Dante Alighieri vogliano in questi tempi ,rimanersene più a lungo inattivi’ ”42.Ma i tentativi, che evidentemente hanno incontrato resistenze o perplessità sull’opportunità di rifondare la vecchia Loggia “Dante Alighieri” proseguono e già si comincia ad intravedere la (Vera) luce: “E a pag. 176 del 1894: ‘anche a Bologna il lavoro di espansione massonica nelle Romagne procede vigorosamente . Tutto ci induce a sperare che in breve risorgerà meglio ordinata la Loggia Andrea Rinuncini di Rimini ,di Lugo e che risorgeranno le vecchie Logge di Ravenna, Ferrara, Imola ,Faenza e Forlì ’ ”43. E finalmente, siamo agli ultimi scorci della Gran Maestranza lemmiana, fiat (Vera) lux : “L’anno dopo la stessa rivista scriveva: ‘la Loggia Dante Alighieri di Ravenna si ricostituisce col fior fiore dei Fratelli della gloriosa Loggia omonima che sono anche il fior fiore della democrazia ravennate ’.E qualche numero dopo (a pag.115) annunciava che era ‘pronto il Decreto per la ricostituzione della vecchia Loggia di Ravenna’ e più oltre ( a pag.309) è segnalato fra gli atti ufficiali , che è ‘ Ricostituita l’antica e gloriosa Loggia Dante Alighieri all’Or.: di Ravenna’ ”44 .Ma chi erano i protagonisti ravennati della rinascita della Loggia “Dante Alighieri”? Scomparso, il primo Maestro Venerabile Bondoli, prematuramente venuto a Mancare il napoleonide Gioacchino Rasponi (nato a Trieste nel 1829 era morto a Selvagnone presso Forlimpopoli nel 1877), non compreso nel piedilista Domenico Farini ( ma a rigore –anche se massone accertato- non lo era stato nemmeno nella rifondazione rasponiana del 1867 ed è stato da noi inserito se non fra gli iscritti alla Loggia fra i suoi numi tutelari in virtù della lettera scrittagli dal Rasponi e dal suo essere incardinato per tradizione familiare e per l’amicizia col cugino di Napoleone III nel sistema politicoamicale napoleonide; comunque, nel periodo della seconda rifondazione della loggia ravennate era Presidente del Senato e per di più afflitto da un male incurabile: del tutto impossibilitato perciò di partecipare ai lavori della Loggia “Dante Alighieri”), ritroviamo che il maglietto nella risorta loggia è tenuto da uno dei protagonisti della prima rifondazione del 1867, Luigi Guaccimanni, già Primo Sorvegliante ai tempi della rifondazione rasponiana e uno dei referenti privilegiati dell’allora Gran Maestro Frapolli. Una sorta quindi di ritorno al passato ma un passato di altissimo livello, in quanto la biografia umana e politica di Luigi Guaccimanni costituiva una garanzia insuperabile per quanto riguardava la componente liberale moderata della massoneria ravennate (alla Baccarini ,per intenderci) ma anche per la componente democratico- repubblicana più moderata che, saggiamente , e pragmaticamente, abbandonati i propositi di rivoluzionamento istituzionale, si voleva attrezzare – come vedremo – a governare la città. E se questo molto difficilmente poteva avvenire in alleanza con i liberali, anche

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se quelli di matrice più progressista, altrettanto difficilmente sarebbe potuto accadere attraverso uno scontro mortale con loro. E una sorta di composizione dello lotta politica nella sala dei passi perduti non poteva che essere di giovamento a quelle forze più schiettamente popolari – repubblicane e socialiste – , le quali ,da un lato non potevano trarre alcun utile dallo spasmodico acutizzarsi della contrapposizione con i liberali e ,dall’altro, la mediazione che poteva essere agevolata dalle colonne sarebbe risultata funzionale anche a frenare la rissosità fra i due alleati. Le elezioni amministrative del 4 novembre 1900 pongono definitivamente termine a Ravenna alle amministrazioni guidate dai liberali costituzionali e consegnano la città ad una coalizione a guida repubblicano-socialista. Per quello che riguarda il nostro discorso, è di estremo interesse rivolgere lo sguardo su due dei principali protagonisti di questa svolta politica: i fratelli Cagnoni, Pietro e Andrea . Iniziamo da Pietro Cagnoni. Massone, il suo profilo latomistico ,per quanto riguarda la realtà ravennate, è di primissimo livello. Fra i rifondatori della Loggia “Dante Alighieri” assieme a Guaccimanni nel 1895, nel 1908 e nel 1909 vi verrà eletto Maestro Venerabile. Gestore, assieme al fratello Andrea , pure lui massone nella “ Dante Alighieri”,della società “Romagnola di navigazione”, la quale società apparentemente dedita al commercio di legname , svolgeva in realtà una funzione di copertura per i contatti cospirativi dei Cagnoni con l’irredentismo: Questa società in funzione di congiungimento fra l’Italia e i paesi irredenti aveva uno scopo più spirituale che materiale, tanto è vero che la sovvenzionava lo Stato, essendo il movimento insufficiente a farla sopravvivere .Pietro Cagnoni trascorse parte della sua esistenza a Trieste , a Fiume e nell’interno dell’Impero Austriaco , essendo anche interessato al commercio dei legnami. Durante la sua permanenza in quelle terre tenne stretti rapporti col movimento degli irredenti che organizzò e diresse per lungo tempo , insieme con i fratelli Mayer, Belasic e Felice Venezian appartenenti alle Loggie di Trieste e di Fiume ( ricorderemo che la Massoneria era proibita dalle leggi austriache). Col vapore “Ravenna” il Fr.: Pietro Cagnoni curò l’espatrio degli italiani e di quanti vollero lasciare l’Austria per la guerra del 1915. A questo scopo il Cagnoni aveva creato nei sotterranei del Caffè Garibaldi in Trieste, tenuto dalla famiglia Quarantotto , una stamperia clandestina per fare i passaporti falsi. Nella imminenza della guerra, il Cagnoni venne ricevuto quattro volte dal re Vittorio Emanuele III al quale recò l’ansia degli irredenti. Nell’ ultimo colloquio portò un ultimatum dei triestini col quale rendeva noto che se non si fosse presa una decisione rapida , nel senso voluto, avrebbero suscitato una [sic] casus-belli ( Salvatore Barzzilai [sic] nel suo volume “Luce [sic] ed ombre del passato” accenna a tali propositi – pag.138). La Massoneria non fu estranea a tale iniziativa tanto è vero che venne chiesta ai Fratelli atti alle armi la loro adesione. Il giorno 24 maggio 1915, giorno in cui iniziarono le ostilità contro l’Austria, il fr.: Pietro Cagnoni si trovava a Trieste col piroscafo “Ravenna” e riuscì a svincolarsi all’ultimo momento con gli ultimi profughi. Pietro Cagnoni svolse la sua opera a favore delle terre irredente, obbedendo a precise direttive che personalmente e segretamente riceveva dal Gran Maestro Ernesto Nathan. Il fr.: Cagnoni curava i rapporti con le Logge di Trieste e di Fiume anche per via epistolare ed a tale scopo era munito di un alfabeto e di un dizionario convenzionale. Tanto fu apprezzata l’opera del Cagnoni anche da parte del Governo del nostro paese che appena dichiarata la guerra all’Austria , l’allora Ministro degli Esteri Sonnino, lo incaricò di continuare l’azione di collegamento presso gli irredenti, assegnandolo al comando della terza Armata. Il Duca d’Aosta gli conferì il grado di Maggiore, mentre quando aveva prestato servizio militare di leva aveva raggiunto il grado di Sergente. Pietro Cagnoni contribuì alla resistenza dei Legionari di Fiume, recando alimenti col vapore “Ravenna”, offerti dalla Massoneria Emiliana Romagnola e forzando il blocco sotto la sua personale responsabilità. Il comandante Gabriele D’Annunzio scrisse la seguente lettera di ringraziamento a Pietro Cagnoni (originale presso i congiunti): Città di Fiume – il comandante – Mio caro signore, so con quanta generosità ella aiuta la nostra causa. Mi giunge notizia della sua larga offerta. A nome dei cittadini e dei soldati la ringrazio. La nostra resistenza durerà sino a che non avremo domato il destino e gli avversari. I resistenti la salutano di gran cuore .Fiume 5 ottobre 1919 – f.to Gabriele D’annunzio. Si ignora la data di iniziazione di Pietro Cagnoni che dovrebbe essere avvenuta a Pesaro attorno al 1890. In Loggia fu attivissimo :coprì la carica di Venerabile , di Architetto revisore, di Consigliere dell’Ordine, nel 1914 lo troviamo rivestito del 33° grado e membro aggregato al Supremo Consiglio.

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45 Per quanto riguarda più propriamente il versante amministrativo ravennate, fondamentale risulterà la sua attività pubblicistica svolta sulle colonne della “Libertà”, l’organo dei repubblicani ravennati, propedeutica alla svolta politica del 1900 e volta a delineare un nuovo quadro economico per Ravenna, all’interno del quale la vecchia “ città del silenzio” , facendo leva sulle sue migliori potenzialità , in primis il porto, fosse riuscita a congiungersi al treno dello sviluppo industriale del Nord Italia. Ruolo diretto di amministratore, invece, per il fratello Andrea. Andrea Cagnoni presiede come primo degli eletti, l’Assemblea all’insediamento del nuovo Consiglio Comunale uscito dalle elezioni amministrative del 4 novembre 1900 e il suo discorso costituisce una sorta di manifesto per la nuova giunta e una esplicita rottura con il passato: attacca lo stato accentratore “ che ‘assume a sé tutti i poteri e le finanze ’,sottoponendo il comune ad una sorveglianza assidua ,tormentosa ,avvilente. Il problema dell’autonomia comunale ,secondo l’oratore, investe elementi politici per la sensibilizzazione del popolo al tema della democrazia e della partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica , che essa implica .Investe anche elementi economici affinché i tributi pagati dai cittadini ritornino ad essi sotto forma di servizi pubblici e non si disperdano nei mille rivoli delle spese improduttive.”46 In questo discorso, che rappresenta una sorta di biglietto da visita con cui i nuovi amministratori si presentano di fronte all’opinione pubblica della città , Andrea Cagnoni punta quindi il suo indice accusatore contro uno stato vorace di risorse e nemico dell’autonomia comunale , una autonomia comunale sul potenziamento ed estensione della quale si baserà la piattaforma amministrativa della nuova giunta :l’obiettivo verso il quale si deve tendere è la creazione di una nuova democrazia economica e sociale che veda nella macchina comunale uno dei momenti privilegiati di questa strategia riformatrice e ,conseguentemente, nell’allocazione delle risorse avvenuta in passato secondo un’ottica economicamente e socialmente conservatrice e comprimendo i bisogni delle classi popolari e dei ceti produttivi. A questo punto conviene sottolineare una precisazione metodologica. Quanto da noi riferito dei fratelli Cagnoni costituiscono le linee guida amministrative del blocco popolare socialista-repupubblicano che è uscito vincitore dalle elezioni amministrative del 1900 e non certo la traduzione di fantomatiche direttive di loggia che non sono mai esistite e che non potevano esistere perché avrebbero portato all’immediata spaccatura con l’elemento liberale costituzionale ben rappresentato in loggia ed anche perché, fra l’altro, sin dalla sua seconda rifondazione, Luigi Guaccimanni ne era il suo nume tutelare, certamente sensibile per storia personale all’ascolto e collaborazione con fratelli di diversa opinione ma nel contempo assai orgoglioso del suo illustre passato di fondatore di parte lafariniana della Società nazionale a Ravenna prima e poi di liberale “illuminato” e di larghe vedute ma pur sempre costituzionale. Molto più semplicemente, quello che si intende evidenziare è che l’afflato tipico della Massoneria italiana a fungere da lievito per la crescita della società economica e civile italiana ( la Massoneria superpartito lemmiana con la sua diffidenza verso tutti i partiti – eccezion fatta per il legame del Gran Maestro “Restauratore” verso Francesco Crispi – questo appunto significava, con l’aggiunta, è ovvio, del tentativo di dare luogo ad iniziazioni illustri per avere propri uomini nei gangli vitali economici e politici) , trovò una puntuale interpretazione attraverso l’operato profano dei fratelli Andrea e Pietro Cagnoni, esponenti di primo piano ,specialmente Pietro, della loggia massonica “Dante Alighieri” e attivamente impegnati – Pietro sul piano pubblicistico, Andrea più direttamente sul piano amministrativo – per creare e rendere operativi quegli “equilibri più avanzati” che per buona parte dei massoni ravennati – e italiani – costituivano la premessa indispensabile “ per scavare oscure e profonde prigioni al vizio ed edificare templi alla virtù”. Del resto la Cronistoria della Loggia Dante Alighieri, attesta una intensa attività latomistica della risorta loggia , un laborioso travaglio fra le colonne che non aveva certo bisogno di adagiarsi passivamente sulle scansioni della profanità politico-amministrativa esercitata da alcuni dei suoi più illustri fratelli per darsi un ruolo ed un profilo:

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Viene ricostituita, Decreto n° 65, del 19 novembre 1895 , con 20 Fratelli, con elementi della Loggia e un piccolo nucleo di giovani iniziati della Loggia “Torricelli” di Faenza: Achille Testori, Valentino Pasini, Carlo Nigrisoli, Dr.Domenico Nigrisoli, Dr. Alfredo Badiali, Avv. Alessandro Mascanzoni, Prof. Luigi Guaccimanni , rag. Pietro Cagnoni, Pietro Bagnari , Pio Poletti47, Alessandro Calderini, Michelangelo Malagola, Gaetano Ghigi, Primo Ghigi ,Luigi Palerma ,Alfredo Giardini, Andrea Vizzani, Luigi Triossi, Dionigi Loreta ,Ippolito Bellonzi, Scipione Losini ,Giuseppe Scoto ,Giuseppe Badiali, Giulio Mascanzoni, Innocenzo Fagnocchi e Raffaello Righi. Alla sua installazione presiede il F.: Romeo Boselli Donzi, Saggissimo del Sovrano Capitolo di Bologna. Partecipa con una rappresentanza alle celebrazioni in Roma del 20 settembre 1895. Dal 1895 al 1897 è Venerabile il conte Luigi Guaccimanni. Nel 1896 è presente con una rappresentanza alle onoranze a Terenzio Mamiani a Pesaro e con una delegazione alla inaugurazione della bandiera della Loggia “ Otto Agosto” di Bologna. Il 23 dicembre 1896 la Loggia inaugura la nuova sede in palazzo Borghi. Il 14 marzo 1897 la Loggia delega rappresentanti alla commemorazione del XXV anniversario della morte di Giuseppe Mazzini a Genova e il 9 maggio all’inaugurazione del monumento al Gran Maestro Giuseppe Mazzoni. Partecipa alla Conferenza Massonica per l’Alta Italia dal 18 al 20 settembre 1897 a Milano.Il 2 ottobre 1897 riceve in gran seduta solenne il Gran Maestro Ernesto Nathan. Nel 1898 il G.O.I. approva le elezioni di Loggia. Nel 1899 fonda in Ravenna le cucine economiche per il popolo. Il 4 marzo 1900 con una sua delegazione partecipa alla inaugurazione del tempio della Loggia “Nicola Fabrizi – Secura Fides” di Modena. Nel 1901 il G.O.I. approva le elezioni. Nel 1902 la Loggia devolve £ 15 ai danneggiati della Martinica. Il 16 marzo 1903 è presente con il labaro alla commemorazione di Felice Foresti a Ferrara. Il 20 settembre 1903 è presente con il labaro a Bologna per l’inaugurazione del monumento ai caduti dell’8 agosto 1849. Nel 1905 la Loggia esprime riprovazioni contro le repressioni del governo russo, contribuisce alla sottoscrizione per le feste massoniche del Centenario della nascita di Giuseppe Mazzini e offre un ricevimento in onore del fr.: Ermete Novelli all’Hotel Byron. Il 12 febbraio 1905 la Loggia partecipa nei propri locali della “E. Torricelli” di Faenza alla Conferenza Regionale per discutere il problema della scuola. Il 23 maggio 1906, una delegazione della Loggia partecipa ai funerali di Adriano Lemmi, Gran Maestro della Massoneria Italiana. Nel 1906 ,la Loggia offre £ 50 per i danneggiati del terremoto in Calabria. Il 19 ottobre dello stesso anno ,la Loggia riceve solennemente il F.: Gustavo Salvini e altri due compagni della rinomata Compagnia Teatrale. Nello stesso anno partecipa al convegno di Rimini ,per cementare i legami tra le Logge romagnole. Nel 1907 devolve £ 65 per il centenario della nascita di G. Garibaldi. Nel 1902 ,nel 1904 e nel 1907 la Loggia elegge Venerabile il conte Luigi Guaccimanni, nel 1908 e nel 1909 il rag. Pietro Cagnoni. Nel febbraio 1911 la Loggia è presente con il labaro ai solenni funerali del Fr.: Enrico Golinelli ,Luogotenente Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio. Dal 1911 al 1914 ha indirizzo presso il rag. Ardiglione Fava. Nel 1912 devolve £ 250 alle famiglie dei caduti nella guerra di Libia. Nel 1913 trasferisce la sua sede da Via S.Vitale a Via Salara. La Loggia è rappresentata ai funerali del Fr.: Achille Ballori , Sovr.: Gr.: Comm.: del Supremo Consiglio ,ucciso da un folle il 31 ottobre 1917. Nel 1918 ha indirizzo presso il rag. Ardiglione Fava. Il 7 luglio 1918 una delegazione della Loggia presenzia ad Ancona alle solenni onoranze tributate al Fr.: Luigi Rizzo che, nell’occasione , viene elevato al 33° Grado del Rito Scozzese. Nel 1919/20 è Venerabile il dott. Nullo Bendandi ,con indirizzo in Via D’Azeglio, e nel 1921/22 il rag. Ardiglione Fava, presso il dott. Umberto Grandi, Via Farini 11. E’ rappresentata ai solenni funerali del Gran Maestro Ernesto Nathan passato all’Oriente Eterno il 9 aprile 1921. In occasione del 600° anniversario della morte di Dante , il 14 settembre 1921, viene inaugurata la nuova casa massonica alla presenza del Gran Maestro e di numerose rappresentanze di Logge. Nel 1924/25 è venerabile Innocenzo Fagnocchi. Nel 1924 i fascisti distruggono in Piazza del Popolo i mobili e gli arredi dell’Officina conservati dal falegname Posati, dopo la chiusura della Loggia.48 In seguito ad un rapido deterioramento dell’alleanza fra socialisti e repubblicani ,originato da una radicale divergenza in merito alla collettivizzazione della terra che vede i repubblicani schierati contro la grande proprietà terriera ma ciò non per dare inizio ad una demagogica collettivizzazione agricola ma per favorire la nascita di una piccola proprietà coltivatrice, si arriva alle elezioni del 1902 dalle quali avrà inizio un ventennio di governo della città da parte dei repubblicani. E il nuovo Sindaco ed Assessore alle finanze della neoeletta giunta repubblicana saranno rispettivamente Ferdinando Gallina e Fortunato Buzzi. Sono entrambi massoni della Loggia “Dante Alighieri”. Al di là dell’analisi dell’operato di questi amministratori (Buzzi fra l’altro verrà nominato Sindaco nel 1914 ) , improntato ai criteri di oculata amministrazione delle risorse nell’ambito di uno sviluppo che facendo leva sulle potenzialità della città privilegiasse le nuove forze sociali e produttive contro i vecchi interessi della conservazione, quello che qui intendiamo sottolineare è che la presenza degli uomini della loggia nei posti chiave dell’amministrazione era ormai diventata di ampio dominio pubblico. Ne seguirà una polemica a stampa di cui vale la pena di dare conto, anche per gli indubbi ammaestramenti

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per l’oggi (e per il futuro). A dare inizialmente fuoco alle polveri è un ordine del giorno del Circolo “Giuseppe Mazzini “ di Ravenna , pubblicato l’8 agosto 1903 sulla “Libertà” , l’organo dei repubblicani: I soci del Circolo G. Mazzini del Sobborgo Saffi ,raccolti in adunanza generale; Considerando che i repubblicani non possono e non devono oggi appartenere a società segrete, i cui fini si sottraggono al controllo ed alla luce della critica; Considerando pure che i repubblicani non possono assolutamente far parte di associazioni alle quali sono iscritti re e ministri; DICHIARANO che ogni buon repubblicano oltre al dovere di combattere l’istituzione massonica siccome quella che col suo simbolismo mistrioso sfugge come si è detto sopra a qualsiasi controllo di sana critica, ma talvolta può prestarsi a favorire i loschi fini di camorristiche camarille, non deve assolutamente farvi parte e dove per avventura qualcuno vi sia ascritto deve rinunciare in favore ed omaggio alla chiara idea repubblicana. Nell’immediato, tuttavia, non accade nulla finché non si accende nel partito socialista il “dilemma molto cornuto della compatibolazione” come con icastica formula avrebbe detto Guido Podrecca, ovvero il problema se nel partito per antonomasia dei lavoratori fosse possibile essere illuminati contemporaneamente dal sole dell’avvenire del proletariato e dalla “Vera Luce” emessa dalle notturne adunanze dei fratelli massoni. Fra i più fanatici assertori dell’incompatibilità fra l’appartenenza massonica e quella socialista si distinse l’allora ancora proletario e rivoluzionario Benito Mussolini (al quale più che le sorti del proletariato minacciato dagli oscuri disegni massonici bruciava evidentemente maggiormente il fatto che in un non lontano passato era stato anche lui un bussante alle porte del Tempio, al quale però non si era considerato opportuno aprire), che “sin dal congresso di Bologna (1904) aveva incitato alla ‘misura eroica ’di forzare i massoni ad uscire dal partito’ ”49. In Romagna e a Ravenna , poi, la “compatibolazione” rischiava nel partito socialista di avere esiti veramente devastanti, visto l’alto numero di socialisti presenti fra le colonne, ad iniziare da Andrea Costa e per finire con Pietro ed Andrea Cagnoni della Loggia “Dante Alighieri”. La conclusione di tanto trambusto fu ,al momento, un referendum vinto a maggioranza dei votanti dagli ostili alla doppia appartenenza ma che però non riuscì a coinvolgere la maggioranza degli iscritti. E’ in campo repubblicano – che fino a quel momento ,dopo la folata antiliberomuratoria di Ravenna del Circolo Mazzini aveva taciuto – che si riaccendono le polemiche. Sulla “Libertà” del 14 ottobre 1905 viene pubblicato un articolo del repubblicano Pietro Emiliani, Pro e contro la Massoneria, dove a nome di altri iscritti pone quelle che a suo giudizio dovrebbero costituire domande assai imbarazzanti alla classe dirigente del partito repubblicano: Da un anno abbiamo fatto delle domande che rinnoviamo ,riassumiamo ,in attesa di avere risposte firmate. Cogli anonimi non discutiamo. Aspettiamo quindi di conoscere: L’utilità ,la praticità ,la convenienza, il decoro, la coerenza per i repubblicani di iscriversi nella Massoneria dei tempi nostri ,e desideriamo sapere se la Massoneria si occupa di politica; quali funzioni esercita sul paese , e siccome ogni qualvolta raccogliamo una lordura massonica ,ci si chiede di documentarla ( perché si sa che delle sue colpe la società non ne lascia a palpabilità ) saremo giustificati se noi chiederemo le prove, i documenti delle benemerenze massoniche. E fin d’ora diciamo: Difendete pure la Massoneria se lo sapete, potete e dovete; pubblicate brani di storia fatta per uso e consumo di famiglia, ricordate però che noi mai spendemmo una parola ( e lo avremmo potuto ) per ciò che fu nel passato la Massoneria; noi dobbiamo discutere di ciò che è e fa la presente Massoneria che intendiamo combattere […]. Per potere entrare e restare nella Massoneria , bisogna essere temprati allo sdoppiamento ,sapere essere di notte ciò che non si è di giorno, saper approvare la notte ciò che si condanna di giorno , ragione per cui l’ambiente massonico non è per le coscienze oneste ed ingenue degli operai. Di ciò convinti noi ci agitiamo perché i nostri amici si allontanino o ci illuminino dell’ambiente massonico. Al lavoratore è serbato il dovere di lavorare ,lavorare sempre ; pagare, pagare sempre; l’obbligo di applaudire o fischiare a seconda della volontà dei capi; gli è però lasciata in compenso la libertà di fare qualche pubblica dimostrazione a condizione che questa abbia tutte le forme e carattere delle dimostrazioni civili; può quindi in eccezionali occasioni andare

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a chiedere pane e lavoro purché lascino a casa gli attrezzi del mestiere perché completamente inermi si è in condizioni migliori per ricevere all’occasione il regio piombo.50 A questo punto non ci si poteva certo sottrarre alla sfida, ed è proprio per iniziativa del direttore della “Liberta” Umberto Serpieri , che nello stesso numero del 14 ottobre del giornale si dichiara massone ,a sollecitare che dalle colonne dell’organo del partito si apra una approfondita discussione. Si tratterà di un dibattito che si protrarrà a lungo e al quale il direttore Serpieri concederà un amplissimo spazio, fino al punto che alcuni numeri del giornale usciranno in formato doppio per ospitare gli interventi. E’ un dibattito articolato. Alcune opinioni sono decisamente a favore della Massoneria: Ora il fatto che la massoneria vi lascia liberi di essere e professarvi repubblicani ,socialisti e anarchici ,senza restrizioni o limiti alcuno all’azione vostra, non vi dice che essa è una istituzione superiore ai partiti ed informata ad un alto principio di libertà che non intendono invece coloro che, dicendosi repubblicani o socialisti, vi contrastano il diritto di poter appartenere alla Massoneria o alla Dante Alighieri sotto le minacce di scomuniche e peggio? 51 Altri mantengono un contegno più freddo e meno amichevole verso l’Ordine ma sempre nell’ambito di opinioni civilmente espresse: E difatti: nelle Loggie in cui prevale l’elemento dei cosidetti buontemponi, come a Ravenna, il compito di queste Loggie non è che pubblicare un manifesto per l’anniversario della morte di Garibaldi. E per quanto l’elemento giovane si sforzi nelle adunanze di queste Loggie, a dimostrare quale debba essere la vera missione, i buontemponi crollano il capo.52 Mentre il direttore Umberto Serpieri, vecchia conoscenza fra le colonne, cura, a guida della discussione, una breve storia della liberomuratoria , che ,con una chiarezza che farebbe invidia ai nostri odierni gazzettieri, spiega con chiare parole le origini dell’Ordine, i suoi moduli operativi (imperniati sul simbolo) , i suoi (molto presunti) segreti: In che cosa consiste questo mistero, che farebbe a pugni ,secondo alcuni, colla coscienza moderna? Forse perché non si mette in piazza l’elenco dei massoni? Ma quando si pensi che molti, per la loro qualità di massoni, potrebbero subire gravi danni morali e materiali , dato il predominio che ancora esercitano preti e moderati nella nostra società e data l’avversione che essi hanno saputo così bene suscitare contro i massoni, si vorrà far una colpa se non rivelano l’essere loro? Del resto ,è proprio il caso di dire che il segreto della Massoneria è il segreto di Pulcinella : perché tutti lo sanno , tutti lo conoscono e ci vuole solo una dose eccezionale di perfidia per volere ricamare sotto questo mistero delle recondite e disoneste ragioni. In questa discussione noi ci serviamo appunto delle pubblicazioni che sono in corso fra il pubblico italiano e che teniamo presso noi, ostensibili a chiunque voglia prenderne cognizione per sincerarsi sulla loro veridicità. “[…] Liberamente ,spontaneamente ,con pieno e profondo convincimento dell’anima ,con assoluta ed irremovibile volontà , pel venerato simbolo del Grande Architetto dell’Universo e per quelli della libertà ,fratellanza ed uguaglianza umana , per l’affetto e la memoria dei miei più cari , sul mio onore e sulla mia coscienza solennemente giuro: di non palesare ,per qualsivoglia motivo, i segreti della libera universale Massoneria; di avere sacri l’onore e la vita di tutti; di soccorrere ,confortare e difendere i miei fratelli; di non professare principii che osteggino quelli propugnati dalla Massoneria, e fin da ora, se avessi la sventura o la vergogna di mancare al mio giuramento, mi sottopongo a tutte le pene che gli Statuti dell’Ordine minacciano agli spergiuri; all’incessante rimorso della mia coscienza , al disprezzo e all’esecrazione di tutta l’Umanità”. Che cosa c’è in questo giuramento di così orribile da contrastare ai principii della onestà e della libertà? Non è desso invece una formula solenne racchiudente la morale più elevata che affratelli gli uomini in una religione superiore, senza distinzione di razze , di nazionalità ,di fede politica? E che cosa c’è di strano e d’immorale negli altri simboli? Dopo prestato il giuramento, l’iniziato è cinto di un grembiule, simbolo del “ lavoro, primo dovere e massima consolazione dell’uomo” : riceve i “ guanti di pelle bianca” che significano non doversi mai il massone deturpare con atti d’iniquità: simboli che possono sembrare strani, a chi non conosca o non ricordi la storia della Massoneria, ma che ad ogni modo sono l’espressione di sentimenti buoni ed elevati e nobili, quali ci potremmo tener orgogliosi di saper instillare nelle nostre società politiche.53

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Tuttavia le dichiarazioni di simpatia od antipatia verso l’Ordine e la sua storia , nonostante le migliori intenzioni dei partecipanti al dibattito, rischiano , su un foglio politico come “La libertà”, di peccare di eccessiva leziosità. C’è il sospetto (e questa volta assolutamente ben fondato) che l’antimassonismo di alcuni repubblicani ( ma quanti?, questo vedremo è un altro aspetto interessante della querelle) non sia ispirato dalla pur nobile, anche se del tutto fuori luogo, volontà di lasciare indenni “ le coscienze oneste ed ingenue degli operai”- una prosa più degna di un romanzetto d’appendice che ad un attivista politico e trasudante comunque un paternalismo che stride con il preteso ed ostentato progressismo del suo autore – ma che celi legittimi ma molto meno nobili propositi di lotta politica all’interno del partito: Perché infatti non confessarlo? La campagna che muove l’egregio Emiliani Pietro ora qui fra noi non è altro che il riflesso pallido e tardivo di quella che un noto Felice Albani, non disgiunto dalla Consorte, già svolse con un certa genialità e con vivace accento nella “Terza Italia” all’intento precipuo di mettere in rilievo la bontà del metodo astensionista. Ma vedete gli umili e pedestri imitatori corrispondere solo unilateralmente al concetto che si prefiggono che si rivela così monco, incomprensibile .Molto più utile e apprezzabile quindi il semplice ripetitore che, pur non esponendo cose nuove, si fosse presso a poco così espresso: non si deve annettere nessun valore ai risultati dell’urna – ergo = niente voto né per coloro che escono dalle Loggie, né per quelli che non ci sono mai entrati.54 E’ evidente che il dibattito ha ormai abbandonato le placide sponde delle dichiarazioni di principio per affrontare il cuore politico del problema. A questo punto ci sarebbe da aspettarsi da parte degli antimassoni un richiamo generale alle armi per difendere le proprie ragioni dalle accuse di strumentalità. Replicherà solo colui che aveva lanciato la sfida , una risposta francamente penosa, attraversata fra l’altro dal profondo imbarazzo del non avere alcun seguito nella sua intollerante crociata: Si sarà pensato , e so anche che è stato detto, che mi ero squagliato, come dicono i romani, ma la verità è che sono stato assente per una quarantina di giorni occupatissimo per interessi personali .Però trovavo sempre un ritaglio di tempo per leggere sulla Libertà gli articoli sulla Massoneria, e confesso che mi divertivo a rilevare gli strali acuti lanciati al mio indirizzo […]. V’ ha chi ha detto che l’Emiliani è un solitario, che non ha seguaci nelle sue idee; altri hanno detto che si capiscono e si spiegano le sue insistenze perché appoggiato dal giornale del Partito Mazziniano; mettetevi d’accordo fra Voi ,egregi nostri contradditori .55 Come incipit non c’è davvero male, ricorda molto lo scolaretto scoperto in difetto di preparazione il quale inventa le peripezie più assurde per giustificarsi di fronte all’insegnante. Ma le puerili giustificazioni lasciano il tempo che trovano : in fondo che l’Emiliani fosse stato per una quarantina di giorni in altre faccende affaccendato non poteva importare a nessuno. Ciò a cui bisogna rispondere è l’accusa che la “nobile” lotta contro la Massoneria altro non sia che un paravento dietro cui si cela l’ala astensionista del partito repubblicano, un astensionismo questo no che i fratelli repubblicani (e non ) seduti fra le colonne – non perché insufflati da misteriosi superiori incogniti ma perché intimamente convinti , da uomini liberi e di buoni costumi, che bisognava agire da subito per migliorare le condizioni dei lavoratori – non potevano assolutamente accettare: In pubblica adunanza e nella Libertà un egregio Professionista ha ripetuto che nella nostra agitazione c’è il germe astensionista. Perfettamente d’accordo .Repubblicano , per noi è sinonimo di astensionista, di antimassonico. Il Partito Mazziniano, nei suoi deliberati, ha stabilito che i suoi aderenti non debbono far parte della Massoneria e debbono attenersi alla tattica astensionista. L’una è la logica conseguenza dell’altra.56 La maschera è stata calata ma a questo punto, invece di ritirarsi in buon ordine, non contento di avere ammesso la strumentalità della battaglia antimassonica , la chiusa di Emiliani non è altro che una serqua di ingiurie e accuse deliranti, unite all’implicita confessione di essere una sorta di agente provocatore che lavorava per disgregare il partito:

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Anzi sarà bene, per non averne poi rimprovero, che vi dichiariamo sinceramente che nelle prossime lotte politiche elettorali , ci troverete preparati a combattere contro di voi , preferendo che i nostri patriotti migliori restino fra noi semplici cittadini piuttosto che deputati dello attuale parlamento[…]. Ah! Dimenticate repubblicani-massoni che i ministri, primo fra tutti Fortis, che nove decimi dei deputati, tutti i prefetti, ispettori di pubblica sicurezza, tutti gli altolocati, tutti coloro che mangiano nella greppia dello Stato, sono vostri fratelli in Massoneria?[…]. No ,amico Serpieri, chi forzò la mano fu il proletario senza distinzione di scuola, colle sue agitazioni e minacce; l’amnistia non fu data ma strappata, imposta dalla volontà popolare che non ha, non può avere nessun rapporto con la Massoneria. Se dobbiamo ammettere che questa abbia avuto , nei fatti del 1898 , qualche ingerenza , non può essere stato che nel senso di avere consigliato la repressione o lo spargimento di sangue. Emiliani Pietro57 Dopo queste parole così altamente ispirate, che nella loro patologica fobia e demonizzazione dell’Ordine avrebbero potute essere approvate e sottoscritte da un Leo Taxil e successivamente sotto il fascismo da un Giovanni Preziosi, il direttore della “Libertà” Umberto Serpieri, massone dichiarato ma che fino a quel momento aveva fatto della latomistica tolleranza la sua divisa nella conduzione della discussione , non ha alcuna difficoltà a dichiarare chiuso il dibattito e a cortesemente invitare l’Emiliani a praticare altrove, se vuole, la sua opera disgregativa : Se l’Emiliani non ne ha avuto abbastanza di cinque numeri per dare corso a tutte le sue elucubrazioni e se oggi egli annuncia che continuerà a discutere su altri giornali, è cosa che non ci riguarda. Noi non abbiamo scritto per lui e tanto meno il partito fa il giornale per lui. Quello che ci premeva fare constatare, è stato fatto: la discussione è stata più che esauriente , la confutazione principale delle tesi avversarie l’ho sempre fatta io massone e non degli anonimi e tutto quanto fu detto è stato più che sufficiente ad illuminare gli animi sullo stato vero della questione.58 Un dibattito che purtroppo, con modi anche più grevi e volgari di quelli dell’Emiliani, continua ciclicamente a riproporsi da più di un secolo sulle gazzette ed organi d’informazione italiani, costantemente colpendo – al di là delle idiote e ,perché no?, criminali demonizzazioni – quello che è l’autentico nervo scoperto della Massoneria italiana sin dalla sua nascita. E cioè la dialetticamente feconda ma anche rischiosa contraddizione fra la sua natura iniziatica e la sua costante propensione non solo a svolgere un operato genericamente filantropico ma anche un’azione più propriamente politica verso la società profana, non disponendo per incolpevole limitatezza delle risorse disponibili ( un portato della demonizzazione da parte dell’ala più retriva del cattolicesimo che ha fatto sì che sotto la mitologia dell’onnipotenza dell’Ordine si celasse una realtà dove ben pochi ardimentosi semplici cittadini e possessori di metalli trovassero conveniente bussare alle porte del Tempio ) e non essendo assolutamente disposta a dotarsi (per la sua natura intrinsecamente iniziatica) né delle strutture né delle mentalità tipiche del partito politico, le sole che potevano assicurare una relativa continuità d’azione e possibilità di successo nel mondo profano. La tragedia è stata così che confusa – il più delle volte del tutto maliziosamente – per un partito politico , del partito politico la Massoneria ha dovuto subire gli assalti ma senza averne i mezzi di difesa ( le masse , i mezzi di informazione per influenzarle e dirigerle , i capitali – ottenuti tramite un rapporto di scambio col sistema economico-finanziario e ,in misura del tutto residuale, attraverso l’autotassazione delle masse stesse – per potere sostenere un apparato così dispendioso) .E così accade che nel momento in cui a dettare legge sono le “armi della critica”, cioè in quei momenti di reale crescita democratica dove i protagonisti sono gli uomini liberi e di buoni costumi – appartengano o meno alle logge – , la Massoneria si muove assolutamente a suo agio nell’ambiente esterno, subendone magari le critiche (sarebbe veramente troppo pretendere un impegno anche nella profanità che non si trascinasse con sé il peso di qualche scoria metallica) ma rimandando con successo al mittente le eventuali demonizzazioni. E’ il caso della polemica svolta sulle colonne della “Libertà”, dove uomini della Massoneria giunti al vertice delle istituzioni locali riuscirono a dare felicemente pubblica espressione ai principi appresi fra le colonne in un quadro di profonda e reale Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 43

crescita economica e civile della città. E così non fu certo un problema rispedire al mittente e ridicolizzare le basse e meschine insinuazioni di Pietro Emiliani. Ma quando la Massoneria si trova a compiere il suo operato in una situazione “bloccata” , in un contesto dove quello che conta è la greve energia muscolare dei “poteri forti”, dove alle “armi della critica” si sostituisce la “critica delle armi”, allora la Massoneria corre rischi mortali. E’ quanto è accaduto con la fine dell’Italia liberale, dove il suo becchino Cavalier Benito Mussolini aveva ben compreso che per procederne alla definitiva sepoltura era indispensabile, in primo luogo, annientare la Massoneria, partito della borghesia gramscianamente parlando ma non nel senso denigratorio che aveva cercato di conferirgli – per la verità senza intima convinzione – il fondatore del partito comunista d’Italia – ma nel significato – intuito ma non espresso da Gramsci stesso – di momento essenziale per l’inveramento delle più alte idealità della borghesia laica e produttiva ( un forte senso identitario nazionale in un quadro di crescita – garantito da uno stato aconfessionale – delle libertà civili e di affermazione di una nuova democrazia economica) . Ed è quanto si è ripetuto in questo secondo dopoguerra dove una democrazia bloccata ha alla fine generato una inevitabile messa in corto circuito del sistema politico riguardo alle sacrosante istanze di crescita democratica ed economica, con la conseguente ricerca di un capo espiatorio che per inveterata tradizione nazionale rispondeva al nome di massoneria , temibilissima nell’immaginario collettivo ma assolutamente incapace nella realtà – proprio per la sua natura intrinsecamente inziatica e non partitico-sindacal-politica e, last but not the least, anche perché profondamente spaesata dalla morte della vecchia Italia liberale, uccisa da Benito Mussolini ma che la repubblica “fondata sul lavoro” si è ben guardata dal riesumare – di abbozzare una energica resistenza ai propositi di immolarla sugli altari di una malintesa e farisaica difesa delle libertà democratiche e di una ancor più ipocrita – visto il pulpito dal quale rimbombava questa impellente necessità, il sistema dei partiti – necessità di trasparenza. Del resto, una riprova della costante propensione della Massoneria a porsi – al di là degli aspetti amministrativi da noi esaminati – come argine ad ogni forma di integralismo ed intolleranza , lo abbiamo ancora in quegli anni di inizio Novecento allorché scoppiò la lotta per le macchine trebbiatrici con scontri sanguinosi fra socialisti e repubblicani, decisi , i primi, ad impedire con tutti i mezzi l’utilizzo di questo tipo di meccanizzazione agraria a difesa della forza lavoro bracciantile; ostili, i secondi, ad imporre un freno allo sviluppo tecnologico delle campagne che avrebbe potuto danneggiare i contadini. Ne seguì un confronto talmente violento che rischiò di portare un colpo mortale nella convivenza fra le forze popolari. “Le conseguenze di quei boicottaggi [dei socialisti contro le macchine trebbiatrici] si palesarono subito di estrema gravità , perché essi dall’ambito economico e del lavoro si ripercuotevano anche nei rapporti privati , per l’ostracismo cui venivano condannati i colpiti, per la subitanea artificiosa rottura di rapporti sino allora cordiali, per l’infrangersi di vecchie amicizie e persino talvolta dei fidanzamenti sì che gli animi ne erano profondamente esacerbati. Ogni giorno le due parti in lotta si scontravano e ogni giorno si annoveravano morti e feriti. ‘Il governo aveva inviato in tutto il ravennate un numero via via crescente di militari; alla fine del maggio 1911 essi erano circa 8000. Ravenna appariva in stato d’assedio’. La Massoneria , che non poteva restare indifferente , organizzò un convegno che si svolse nel Tempio della Loggia VIII agosto di Bologna sotto la presidenza dell’ illustrissimo Gran Maestro Ettore Ferrari. Vi intervennero i Fratelli dell’Emilia e Romagna e fra questi i maggiori esponenti dei due partiti in lotta. Ricordiamo: Genunzio Bentini, Giacomo Ferri, Armando Bussi , Pietro Cagnoni, Fortunato Buzzi ,Domenico Nigrisoli, e Olindo Guerrini. Si conseguì il duplice scopo di ravvivare l’azione delle Logge della Romagna e di concordare una direttiva ispirata ai fini della pacificazione nel conflitto agrario che imperversava in tanta parte della nobile regione. Una rappresentanza della nostra Dante Alighieri con bandiera partecipò con proprio labaro alle onoranze funebri degli illustri fratelli Giosuè Carducci( 1907), Enrico Golinelli , Luogotenente Gran Commendatore (1911) e Giovanni

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Pascoli (1912)”59 . Ravenna, settembre 1921. Sono in pieno svolgimento le celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante. Le iniziative per celebrare l’evento riempiono i giornali ma il clima che si respira non è quello che ci si dovrebbe aspettare per un momento che fa convergere sulla “ città del silenzio” l’ attenzione del mondo intero. In realtà , più che dalla cronaca culturale, l’attenzione della popolazione è già tutta concentrata sulle notizie degli attacchi squadristici “ in questa e in quella località, di ribalde e violente dimostrazioni sulle quali le forze dell’ordine sembrano tenere reazione piuttosto blande.”60 Come se non bastasse questa situazione a dare un sapore amaro alle celebrazioni ,“ All’avvicinarsi dei festeggiamenti ravennati del settembre si dà notizia di una possibile massiccia presenza di fascisti. E fu l’anteprima della marcia su Ravenna dell’anno dopo , su terre , come si disse ‘ ancora infestate da avversari crudeli’. Tremila uomini ,vestiti di camicia nera, che ‘fece la sua grande prima comparsa come divisa militare’,al comando di Italo Balbo, partirono in due colonne ,una da Bologna, l’altra da Ferrara, che si congiunsero a Lugo. Da qui mossero per Ravenna ‘sfilando coi gagliardetti in testa davanti all’urna di Dante e alzando il grido presago e superbo: a Roma’ .Furono invasi circoli socialisti, la sede della Camera del Lavoro, la Federazione delle cooperative , furono bruciati ritratti, carte , libri, bandiere.”61 La calata di Balbo su Ravenna del 12 settembre 1921 era in realtà un ben triste epilogo per delle celebrazioni che erano iniziate sotto una ben diversa insegna spirituale. “[…] [Il] bacio che don Mesini diede [in occasione della ricognizione delle ossa di Dante] al teschio del Poeta; la commozione da cui fu preso il sindaco repubblicano Buzzi che, prima di depositare accanto alle ossa di Dante un ramo di alloro, chiese in romagnolo a don Mesini una benedizione anche ad esso ‘perché Dante era cattolico’ ”62 ,erano il segno che le tragedie degli anni prima non erano passate invano e che era venuto il momento per gli uomini liberi e di buoni costumi, dell’una e dell’altra parte della barricata, di deporre le armi e di collaborare fraternamente per affrontare la marea di violenza che stava sommergendo l’Italia. Erano lontanissimi e definitivamente sepolti i tempi in cui Dante ,nell’occasione del sesto centenario della nascita, era stato usato come vessillo dell’anticlericalismo romagnolo, quando il sindaco massone Gioacchino Rasponi, in risposta alla lettera del Vicario Giovanni Arcidiacono Majoli in cui lamentava che in occasione della cerimonia di celebrazione del Poeta non era stato invitato il clero e non si era potuta disporre la benedizione delle ossa prima di ricomporle nella cassa, aveva avuto tutta l’improntitudine di affermare: “La giunta non ha ordinato esequie alle ossa perché queste già seppellite cristianamente nel 1321[e così] non fu reputato che avessero bisogno di nuova memoria religiosa”63 . Tempi di dure contrapposizioni, tempi di anatemi reciproci che la dolorosa storia d’Italia dei primi decenni postunitari e i pericoli del momento per la democrazia imponevano di cancellare per sempre. Don Mesini l’aveva capito. Il Sindaco Fortunato Buzzi ( massone e quindi scomunicato) l’aveva capito. Italo Balbo e i suoi accoliti in camicia nera procedevano per altre vie da quelle della tolleranza e dall’ “edificare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio”. C’era però il tempo per un estremo gesto riparatore alla profanazione delle camice nere. La Loggia Massonica “Dante Alighieri” “organizzò una grande manifestazione per onorare il Poeta ed un convegno massonico che riuscì imponente per il grande numero dei Fratelli intervenuti.[Il 13 settembre 1921] si svolse per le vie della città un corteo diretto alla tomba del Poeta nel quale il labaro del Grande Oriente seguito dal Gr. M. Domizio Torrigiani, dai grandi Dignitari e dai Fratelli trovò un posto d’onore. Successivamente tutte le associazioni si radunarono nella piazza del Popolo ad ascoltare il discorso commemorativo pronunciato da quel grande oratore che fu il Fr.: on. Luigi Rava. La manifestazione massonica si concluse con agape bianca .”64 Era l’estrema testimonianza prima del calare delle tenebre:

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Nel 1924 , in seguito alle distruzioni dei Templi Massonici ad opera dei fascisti, i fratelli della Dante Alighieri provvidero alla demolizione e a raccogliere ogni cosa in un magazzino a cura di un falegname, certo Posati. I fascisti venuti a conoscenza dello sgombro della sede della Loggia andarono a prelevare dal suo domicilio il Posati e con le minacce gli fecero confessare ove trovavansi i mobili e gli arredi . Dopo di chè i fascisti se ne impossessarono e li bruciarono nella Piazza del Popolo. Anche documenti e registri andarono distrutti 65 . Post fata resurgam. Il 17 gennaio 1945 la Loggia “Dante Alighieri” , per iniziativa di Giordano Gamberini, riprese i suoi architettonici lavori. Testimonianza di un antifascismo che nonostante l’impossibilità di riunirsi ritualmente aveva animato gli uomini della massoneria italiana fin dalla sua soppressione ad opera del fascismo66, dalla lettura dal registro delle presenze alle tornate di Loggia di quei primi tempi67 , ci piace qui ricordare Cesare Orioli, “Babaci” e Tonino Rossi , “Tugnaz” , due dei principali protagonisti, insieme ad Arnaldo Guerrini, di quell’antifascismo democratico non comunista che proprio qui in Romagna ebbe la sua massima espressione68 e che fece scrivere al sorpreso ed entusiasmato azionista Carlo Ludovico Ragghianti che “Era la prima volta che, nel lungo esercizio della cospirazione , mi trovavo di fronte non a sparuti gruppi e ad individui, ma a una partecipazione veramente larga e popolare. Vi fu un momento in cui le maggiori speranze del movimento rivoluzionario si appuntarono sulla Romagna”69 . Allora come nel Risorgimento gli uomini della Massoneria erano stati la punta di diamante di quelle forze il cui obiettivo era la creazione di “uomini liberi e di buoni costumi” e non l’assoggettamento integralista ed intollerante delle masse eteroguidate. La Massoneria italiana fin dalla sua nascita ha cercato , pagandone pesanti conseguenze, d’interpretare questo spirito. La Rispettabile Loggia “Dante Alighieri” n° 108 all’Oriente di Ravenna pure. Noi , nella modestia dei nostri mezzi, speriamo di aver fatto altrettanto.

In principio era il Verbo , e il verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto fu fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste. In lui era la vita , e la vita era la luce degli uomini. E la luce risplende fra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno ricevuta. Ci fu un uomo mandato da Dio ,il cui nome era Giovanni. Egli venne ,come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo suo. Non era egli la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. Era la luce vera, che illumina ogni uomo, che viene al mondo. Giovanni, 1,1-9

1 G. Leti , Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano, Genova, Libreria Editrice Moderna, 1925. 2 D. Berardi, La repubblica in Tasca, in A. Emiliani (a cura di ), Questa Romagna, vol. II, Bologna , Edizioni Alfa, 1968, p.235. 3 [C. Manelli], Cento anni della Risp.: Loggia Dante Alighieri di Ravenna. 1863-1963, s. n. tip. , [1963], pp.14-15. 4 Ibidem, p.15. 5 Ibidem. 6 Ibidem, p.16. 7 Un aspetto non strettamente legato al “genius loci” esoterico della città degli Esarchi ma che vale pure la pena menzionare perché Ravenna, comunque, ne è coinvolta , è la vicenda di padre Isidoro Bianchi dell’ ordine Camaldolese (nato a Cremona nel 1731, il suo nome secolare era Pietro Martire Bianchi) e che quindi soggiornò al convento di Classe di Ravenna. A padre Isidoro Bianchi viene oggi attribuito Dell’Instituto dei veri Liberi Muratori, (cfr. Isidoro Bianchi, [Padre, al secolo: Pietro Martire], Dell’ Instituto dei veri Liberi Muratori. Of the institute of the true Free Masons, a cura di Giordano Gamberini, Ravenna, Longo,1980) , opera con Ravenna come indicazione di pubblicazione ma probabilmente stampata a Cremona nel 1786. Dell’ Instituto dei veri Liberi Muratori ha la felice caratteristica di essere la sola opera settecentesca stampata in

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lingua italiana ad essere apertamente in favore della liberomuratoria e quindi a sfidare nei fatti – non in linea di principio perché l’autore si mostra formalmente ossequiente all’ autorità ecclesiastica asserendo che gli anatemi papali furono gettati avendo del tutto frainteso le vere finalità dell’ Ordine – gli interdetti di Clemente XII e di Benedetto XIV. Ad ogni buon conto , come misura prudenziale padre Isidoro Bianchi pensò bene ad un depistaggio sul luogo di edizione e con notevole ironia e giocando sul suo nome l’opera – come si legge nel frontespizio – si affermava essere pubblicata “ Presso Pietro Mart. Neri. Con licenza de’ superiori”. Una sola domanda .Perché la scelta di Ravenna come falso luogo di pubblicazione? (Si tratta ,in ogni caso, di un depistaggio ben strano, visto che padre Isidoro Bianchi fu ospite del Convento di Classe di Ravenna, come del resto il fantomatico Pietro Mart. Neri è una cortina molto trasparente oltre alla quale ben s’intravede Pietro Martire Bianchi). Forse un omaggio ad una città con profonde tradizioni esoteriche e con altrettanto forti fermenti liberomuratorii? Forse una specie di richiesta di solidarietà e tutela del Bianchi a tutti coloro che ravennati e non – ma specialmente ravennati – condividevano o avevano condiviso la sua appartenenza latomistica? Probabilmente non lo sapremo mai. A noi non resta che constatare che il nome di Ravenna, ancora una volta, è legato ad una vicenda non secondaria della cultura esoterica. 8 Che i “Fedeli d’amore” , di cui Dante fu uno dei protagonisti principali, non sia una vicenda ristretta ad un cenacolo di poeti ma si riallacci alla poesia islamico-persiana più o meno coeva e continui come tradizione sotterranea per tutto il Medioevo e oltre, non è un’invenzione dei patiti dell’ esoterismo d’abord alla Guenon. E’ una tesi che – come per esempio in L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei “fedeli d’ amore”, Genova, I Dioscuri, 1988 – ha trovato sostenitori anche fra coloro soliti ad impiegare una filologia assolutamente scientifica. 9 A. Varni, L’età giacobina…, cit.,p.15. 10[C. Manelli], Cento anni…, cit., pp.23-24. 11 L. Miserocchi, Ravenna e Ravennati…, cit., p.253. 12 C. B. Angelini, Gli “accoltellatori” a Ravenna (1865 – 1875). Un processo costruito, Ravenna, Longo, 1983, p. 130. 13 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit., p. 170. 14 [C. Manelli], Cento anni, …, cit., p. 17. 15 L. Miserocchi, Ravenna e Ravennati…,cit., p.254. 16 Poco prima della demolizione del 1867, la Loggia “Dante Alighieri” passa dal Rito Italiano al Rito Scozzese. 17 Apprendiamo queste notizie e citiamo dalla compendiosa cronistoria della Loggia “Dante Alighieri” – quattro fogli dattiloscritti in nostro possesso, da noi denominata Cronistoria della Loggia Dante Alighieri- che il Direttore dell’ Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia ci ha inviato in data 14 febbraio 2001. Lo ringraziamo per l’aiuto fornito in questa ricerca. 18 Citiano da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri. 19 R. Colapietra, D. Farini, deputato di Ravenna (1864 – 1878 ) , in “Critica Storica”,1965, p. 605. 20 [C. Manelli], Cento anni…, cit., p.28. 21 C. B. Angelini, Gli accoltellatori…, cit., p. 134. 22 L. P. Friz, La Massoneria italiana nel decennio post unitario. Lodovico Frapolli, Milano, Franco Angeli, pp. 325-326. 23 Ibidem, pp.214-215. 24 G. Maioli, La società nazionale italiana a Ravenna e in Romagna (da nuovi documenti ) , in “Studi Romagnoli “ , III (1952) ,pp.108-109. 25 Il comitato ravennate della Società Dante Alighieri sorse nel novembre del 1897 per iniziativa di Luigi Rava, massone, presidente Luigi Guaccimanni. Non a torto, la pubblica opinione giudicò l’iniziativa di provenienza della Loggia massonica “Dante Alighieri”di Ravenna , che dopo un lungo periodo di inattività (si era ricostituita il 19 novembre ’95) aveva deciso di manifestarsi anche sul piano culturale con un così alto profilo. 26 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit. , p.136. 27 L.P. Friz, La massoneria italiana…, cit.,pp.200-201. 28 Ibidem, p.202. 29 Ibidem, p.203 30 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit., p.136. 31 A. Varni, Alfredo Baccarini e Luigi Rava, in P. P. D’ Attorre (a cura di ) , Storia illustrata di Ravenna, vol. III, D. Bolognesi ( a cura di ) , Tra Ottocento e Novecento, Milano , Nuova Editoriale AIEP, 1990, p. 3. 32 Si può vedere nella sala consiliare di Russi il monumento in memoria ad Alfredo Baccarini scolpito dallo stesso Ettore Ferrari. Il monumento, che esibisce simboli liberomuratori, e l’autore stesso, stanno a rappresentare non solo l’invidiabile cursus honorum politico di Baccarini ma anche il suo assoluto rilievo massonico. 33 Ibidem, pp.1-2. 34 C. B. Angelini, Gli accoltellatori…, cit.,p.130 35 Ad ulteriore riprova dell’ altissimo livello degli uomini della Loggia “Dante Alighieri”(e anche a riconferma dell’esistenza di una forte lobby napoleonica facente capo a Ravenna alla Società nazionale diretta dal nipote di Gioacchino Murat ), riportiamo da L. P. Friz, La Massoneria italiana… , cit., p. 102,

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ulteriori note biografiche di Gioacchino Rasponi: “Il conte Rasponi, capo del Governo Provvisorio della sua città all’ esplodere della II guerra d’ Indipendenza , sindaco e deputato , traeva autorevolezza dall’essere nipote di Gioacchino Murat. Venerabile della Dante di Ravenna , due volte membro del Grande Oriente ,fra il ’73 e il ’74 fu lui a dover frenare alcune intemperanze di massoni come Prefetto di Palermo. Affidò i suoi pensieri a due sole frasi: ‘Temo grandemente che sia stato un funesto errore il cangiamento della capitale, pomo di discordia gettato gettato fra gli italiani. Cionullameno credo buona la Convenzione , né temo le cattive intenzioni della Francia a danno nostro’. Frapolli teneva a Rasponi. Rispose ricorrendo appieno al suo “tatto pratico” ‘La Convenzione è buonissima ed è convinzione di tutti quelli che hanno la testa sulle spalle che Napoleone ha accettato il fatto compiuto dell’ Italia unita. Però l’ Imperatore ha domandato una garanzia , la traslazione immediata della capitale a Firenze. Quest’ultima cosa è interesse di pochi italiani , i quali non hanno pensato ai grandissimi incovenienti della risoluzione; senza contare il disastro finanziario conseguente ad una improvvisa partenza da Torino. Io sono sempre stato , voi lo sapete, anti-piemontese, ma non amo lasciarmi trascinare dalle passioni del momento. Oggi mi sembra che tutti vaneggino. Gli uni gridano : “Bisogna partire immediatamente da Torino”. Gli altri esclamano : “Torino o Roma”, come se a Roma ci si potesse andare a prendere un caffè’ ”. 36 Dai Sonetti Romagnoli di Olindo Guerrini, ci piace in questa sede riportare la seguente poesia , una sorta di scanzonata versione tutta in romagnolo, nella lingua e nello spirito , del fondamentale principio massonico della tolleranza: UI DA’ E’ CLERICHEL Nó, rispetè agl’idei dagli upinion Parchè stasera an s’vlen tiré i cavell, Che a discutar d’prinzipi e d’religion Al ciacar al fines cun i curtell. Se vuietar , mitegna, a sì Masson S’an vli andè in cisa andè in t’i Calzinell Mo nó s’ dasì di purch e di coion S’lè un fatt e vera ch’a sen tott fradell. Vuietar i miracol d’e Signor A i tulì sotto gamba e a n’ì cardì, Che ,invezi, ui dà la mola a totti gli or. V’acurdev d’Gracco ch’ ui puzzeva i pi? Pr’ un vot a la Madona d’e’ Sudor Sol cun l’acqua d’è pozz ló l’è guarì. A comprensione del testo , ricordiamo che via Calcinelli, “i Calzinell”, oggi via S.Vittore, era il luogo dove si trovavano i postriboli. 37 Citiano ancora da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri. 38 [C.Manelli], Cento anni…, cit.,pp.29-30. 39 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana…, cit.,p. 179 40 La tesi di Manelli non manca di verosimiglianza, visto che l’avversione da parte clericale verso la Massoneria raggiungerà di lì a pochi anni vertici veramente parossistici. Con l’enciclica Humanum genus del 1884 Leone XIII arriverà a definire la liberomuratoria “città di Satana”, individuando in essa il nemico assoluto da battere e compiendo così nell’ ultimo scorcio dell’ Ottocento una operazione ideologica di individuazione del “male assoluto” che nel secolo successivo, il secolo dei totalitarismi, ha avuto i ben tristemente conosciuti attuatori nella prassi. “Particolarmente insidioso (e illuminante) – citiamo da A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana…,cit., p., 219 – nell’enciclica leoniana riuscì l’uso della formula ‘Sinagoga di Satana’ , che in quello scorcio di Ottocento non aveva solo suono oratorio, giacché cadeva nel bel mezzo di una ben orchestrata campagna di stampa antiebraica, nel cui ambito ai motivi tradizionali dell’ “antigiudaismo” cattolico (deicidio in testa) s’aggiungevano virulenze plebee e populistiche richieste di agire subito e a fondo contro la “plutocrazia ebraica”. Papa Pecci riecheggiò anche le invettive nazionalistiche, contro l’ “internazionalismo” sionistico; conservatrici , contro il “rivoluzionarismo” serpeggiante all’interno delle “sinagoghe” e dilagante attraverso la stampa e la nuova scienza, palesemente dominata dalla “setta giudaico massonica .” ” 41 [C.Manelli], Cento anni…, cit., ,p.30 42 Ibidem.

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43 Ibidem, pp.30-31. 44 Ibidem, p.31. 45 Ibidem, pp.48-50. 46 S. Mattarelli, Un’ ipotesi laica tra massimalismo e riformismo. La figura di Fortunato Buzzi amministratore della Ravenna prefascista, Ravenna, Circolo Culturale “ Carlo Cattaneo” , 1981, p.20. 47 Pio Poletti (1846-1936), patriota del Risorgimento, si arruolò nella prima guerra mondiale. Fu sindaco di Ravenna dal 1891 al 1896. 48 Cit. da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri 49 A. A. Mola , Storia della Massoneria italiana…, cit., p.370. 50 P. Emiliani, Pro e contro la Massoneria, in “La libertà”, 14 ottobre 1905. 51 “ La libertà”, 21 ottobre 1905, lettera firnata da Alberto Giovannini. 52 Ibidem, intervento firmato da Alberto Bagnoli. 53 U. Serpieri, La discussione sulla Massoneria, in “La libertà”, 28 ottobre 1905. 54 “La libertà”, 28 ottobre 1905, intervento firmato da Alberto Bagnoli. 55 “La libertà”, 11 novembre 1905, intervento firmato da Pietro Emiliani, 56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 U. Serpieri, , Finis, in “La libertà”, 11 novembre 1905. 59 [C. Manelli ], Cento anni…, cit., pp.33-34. 60 G. B. Maramotti, La memoria dantesca, in P. P. D’ Attorre (a cura di ) , Storia illustrata di Ravenna, vol. III, D. Bolognesi (a cura di), Tra Ottocento e Novecento, Nuova Editoriale AIEP, 1990,p. 253. 61 Ibidem. 62 Ibidem, p. 254. 63 Ibidem, p. 249. 64 [C. Manelli], Cento anni…, cit.,pp.34-35. 65 Ibidem, pp.35-36. Oltre la Cronistoria della Loggia Dante Alighieri , il Segretario del Grande Oriente d’ Italia ci ha trasmesso un elenco degli iscritti alla Loggia (d’ora in avanti “Piedilista della Loggia Dante Alighieri”). Pur essendo il “Piedilista” riferito prevalentemente agli iscritti dalla fondazione del 1863 fino alla sua demolizione nel 1924 a causa delle persecuzioni fasciste , esso risulta comunque uno strumento indispensabile per una ricostruzione storica della sua base associativa, altrimenti impossibile dopo la distruzione degli arredi e dei documenti della stessa nel ’24. Dal “Piedilista della Loggia Dante Alighieri” – che citiamo per intero ed integralmente – apprendiamo quindi che sotto le sue colonne hanno squadrato , fra gli altri, la pietra grezza i seguenti Fratelli : “Cesare Albertini – avv. Augusto Babini- Giannetto Baccarini – Italo Badessi – dott. Alfredo Badiali – rag. Giuseppe Badiali – Pietro Bagnari – ing. Giovanni Baldini – Gustavo Balungani – geom. Primo Barbiani – geom. Roberto Barboni – ing. Eugenio Baroncelli – Filippo Bartalucci – Gaspare Bartolini – rag. Luigi Bassi – Teodosio Battisti – Antonio Belcari – Silvio Belcari – rag. Leopoldo Bellardini – Clodio Bellenghi – Pietro Bellenghi – Ippolito Bellonzi – prof. Adolfo Bellucci – dott. Bendandi Nullo – Alfredo Berti – Pietro Berti – prof. Endaro Bertozzi – prof. Alessandro Bezzi – Gian Luigi Bisoffi – Bondolfi Luigi (1864) [sic ,probabilmente si tratta del primo Maestro Venerabile della Loggia, il chirurgo Luigi Bondoli ] – rag. Teodorico Boschi – Oddo Bravetti – Luigi Brocchi – Giacomo Brunelli – prof. Pietro Bruno – dott. Gino Busignani – Tullio Busignani – Leopoldo Busnanti – rag. Fortuinato Buzzi [ recte : Fortunato Buzzi ] – rag. Andrea Cagnoni – rag. Pietro Cagnoni – rag. Ugo Cagnoni – Caio Caimmi – Alessandro Calderini – avv. Bruno Calderoni – rag. Celso Cavetti – avv. Italo Camisa – avv. Varmelo [ prob. Carmelo] Cantalamessa Carboni – Antero Cappelli – dott. Francesco Cardelli – Domenico Casadio – rag. Eugenio Casadio – dott. Attilio Castellini Bezzi – prof. Filippo Castellini – Riccardo Compagnoni – Romolo Conti – Filippo Cortesi – dott. Primo Cortesi – Giuseppe Cossovich – Pietro Damiani – Giovanni Danise – Francesco De Angelis – Duilio Della Scala – dott. Enrico De Michelis – Aristide Dragoni – geom. Augusto Fabbri – prof. Agostino Fabbrini – dott. Fausto Faggioli – Innocenzo Fagnocchi – rag. Ardiglione Fava – Ferdinando Ferré – dott. Giovanni Focaccia – rag. Luigi Focaccia – Vincenzo Focaccia – Gaetano Folicardi [ prob. Folicaldi ] – prof. Attilio Fornaroli – dott. Ettore Frattari – Pietro Friscia – dott. Leone Frontali – dott. Giuseppe Galliani – dott. Ferdinando Gallina – Antonio Gallotti – Luigi Galvanoni – dott. Giorgio Garavini – Michele Gatta – Ernesto Gattelli – dott. Naldo Gherardini – dott. Gaetano Ghigi – dott. Primo Ghigi – Alfredo Giardini – Ludovico Giardini – geom. Romeo Giorgioni – ten. Mario Girotto – rag. Giuseppe Giuliani – prof. Tobia Gordini – conte ing. Luigi Guaccimanni – Olindo Guerrini [ alias Stecchetti ] – Roberto Gulmanelli – Ugo Lavagna – Bruto Dialma Leonarrdi [ prob. Leonardi ] – Attilio Leonelli – Dante Locatelli – Dionigi Loreta – Scipione Lorini – Oreste Macrelli – Teseo Maestrini – Matteo Maggetti – ing. Guelfo Magrini – cap. Michelangelo Malagola – Antonio Marchini – rag. Ugo Marri – avv. Alessandro Mascanzoni – Giulio Mascanzoni – Antonio Massaroli – dott. Pietro Mazzanti – Giuseppe Mazzoni – Giacomo Mazzotti – Giuseppe Mazzotti – avv. Francesco Miadonna [prob. Madonna ] – Guido Miani – Tullo Minghetti – dott. Arrigo Minguzzi – dott. Umberto Morandi – dott. Mario Morigi – prof. Santi Muratori, dantista – dott. Vincenzo Nardi – dott. Giovanni Negri –

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Carlo Nigrisoli – prof. Giuseppe Orlandi – Arturo Ortolani – Luigi Palerma – Giovanni Pascoli [ omonimo del poeta ] – rag. Eugenio Pasini – Valentino Pasini – dott. Vincenzo Piancastelli – Tancredi Piatesi – Paolo Poletti – avv. Pio Poletti ( sindaco di Ravenna ) – Gregorio Pozzi – Pietro Pozzi – dott. Giuseppe Ranzi – conte Giovacchino [ recte : Gioacchino ] Rasponi – Francesco Ricci – rag. Raffaello Righi – Giuseppe Rivola – Giovanni Romanelli – geom. Ermenegildo Roserti [prob. Rosetti ] – Andrea Saporetti – Arturo Saporetti – Antonio Savorelli – prof. Giuseppe Scoto – rag. Curzio Semprebene – dott. Sebastiano Tabanelli – Luigi Tarlazzi – arch. Giovanni Tempioni – Achille Restori – dott. Ervigo Torsellini – dott. Giuseppe Trincossi – dott. Guglialmo [prob. Guglielmo ] Triossi – Luigi Triossi – Primo Valenti – Luigi Venturi Longanesi – dott. Pericle Venturi – dott. Giuseppe Vistoli – rag. Matteo Vitali – Andrea Vizzani – geom. Pio Zaccaria – Adolfo Zanello – Giuseppe Zanoni – Geremia Zoli.” Per quanto riguarda uno sguardo più specifico sulla condizione associativa della Loggia “ Dante Alighieri” nel periodo delle persecuzioni fasciste e della sua demolizione, risulta indispensabile l’elenco fornito da [C. Manelli ] , Cento anni…, cit., pp. 39-40 : “Al momento della demolizione della Loggia erano attivi i regolari tre Fratelli che troviamo tuttora operosi tra le colonne del Tempio : Damiani col.° Pietro , combattente della guerra 1915-18 e ritornato dal fronte coi segni del valore; Bovelacci dr. Nullo, attualmente membro della R. L. Aurelio Saffi all’ Or. Forlì e Calderoni avv. Bruno, che appartiene a questa Loggia. Ed ora elenchiamo i nomi dei Fratelli attivi della Loggia Dante Alighieri nel 1924 , in massima parte passati all’ Oriente Eterno: Buzzi rag. Fortunato; Cagnoni rag. Pietro; Nigrisoli dr. Domenico; Babini avv. Augusto; Badessi Italo; Badiali dr. Alfredo; Ballardini dr. Luigi; Barbiani Primo; Baroncelli ing. Eugenio; Berti Pietro; Cagnoni rag. Andrea; Caimmi Caio; Calori Arnaldo; Casadio Domenico; Cottignola dr. Giovanni; Cottignola dr. Vincenzo; Cagnoni Ugo; De Angelis Francesco; De Battisti Teodosio; Evangelisti Enrico; Errani ing. Ugo; Fernè Ferdinando; Fariselli Rodolfo; Fagnocchi rag. Innocenzo; Fava rag. Ardiglione; Farini Plinio; Giuliani geom. Giuseppe; Gulmanelli Roberto; Ghigi dr. Primo; Gordini Tobia; Grandi dr. Umberto; Mascanzoni avv. Alessandro; Muratori prof. Santi; Maggetti Matteo; Mazzoni cav. Giuseppe; Maestrani Teseo; Moretti Umberto; Morigi dr. Mario; Nardi dr. Vincenzo; Ortolani dr. Arturo; Ortali Prof. Oreste; Pascoli Giovanni (omonimo del poeta) ; Poletti avv. Paolo; Piancastelli dr. Vincenzo; Ranieri Gualtiero; Ricci Francesco; Speranza Renato; Scoto prof. Giuseppe; Trincossi dr. Giuseppe; Triossi dr. Guglielmo; Venturi dr. Lorenzo; Venturi prof. Pericle; Zaccaria geom. Pio.” Dei nominativi citati in questi due elenchi e da noi non ancora menzionati nel presente studio è opportuno evidenziare i seguenti: Italo Badessi, Riccardo Compagnoni, dott. Mario Morigi, Giulio Mascanzoni, prof. Santi Muratori, arch. Giovanni Tempioni, prof. Oreste Ortali. Italo Badessi (1872-1950). Intraprese numerose iniziative nel campo sociale attraverso la fondazione e l’amministrazione di opere assistenziali ed educative. Fu iniziato il 13 marzo 1905 nella Loggia “Dante Alighieri” di Ravenna e nel 1945 ne divenne Venerabile. Fu presidente dell’Ordine della Casa Matha ,la più antica corporazione medievale tuttora in vita della quale difese sempre il patrimonio e la tradizione di autonomia. Riccardo Compagnoni (1886- 1953 ) fu il primo Sindaco di Ravenna nominato dal comitato di liberazione. “Insegnante, presiedette la Unione Magistrale Nazionale fino all’ avvento del fascismo. […] Iniziato nella L. VIII Agosto di Bologna il 17 maggio 1918, promosso Compagno il 12 marzo 1919 ed elevato al grado di Maestro nella L. Dante Alighieri di Ravenna cui si era affiliato prima del 1925. Nel Rito Scozzese Antico ed Accettato ricevette – motu proprio del S. G. C. Mori – l’aumento di luce al 30° grado.”(G. Gamberini, Mille volti di Massoni, Roma , Edizioni Soc. Erasmo, 1975, p. 226 ). Mario Morigi (1878-1951). “Chimico, si dedicò alla preparazione industriale degli arseniati e della lecitina. Precorse l’invenzione del D.D.T. .Iniziato nel 1906 nella L. Dante Alighieri di Ravenna della quale fu M. Venerabile . Appartenne al R.S.A.A.”. (Ibidem, p.212). Santi Muratori (1874-1943 ) fu uno dei protagonisti della vita culturale di Ravenna. “ Dantista. Cultore di archeologia. Direttore della Biblioteca Classense. Membro della L. Dante Alighieri di Ravenna fino alla persecuzione fascista , nei primi giorni dell’ agosto ’43 accoglieva la proposta di risveglio fattagli dal Fr. Gamberini . Pochi mesi dopo , il suo cuore cedeva all’angoscia per la sorte dei tesori d’arte cui aveva dedicato la vita, durante un bombardamento.” ( Ibidem, p.205 ). Giovanni Tempioni(1858-1922) costituisce la smentita – una delle tante – dell’accusa gramsciana della Massoneria come “partito della borghesia”. Di umili natali, iniziando da muratore riuscì a diventare un apprezzato architetto. Oreste Ortali. Della stima ed amore che si seppe guadagnare nella professione di medico, rende testimonianza la seguente iscrizione – sormontata dal bassorilievo artistico che ne rappresenta le fattezze dello scultore e liberomuratore Giannantonio Bucci , da poco scomparso – posta alla parete del vecchio ingresso dell’ Ospedale Civile di Ravenna “S. Maria delle Croci”: “Sempre cravatta a fiocco al collo/viso burbero cuore d’oro/in due guerre mondiali/in lotte politiche e sociali/disponibile generoso fraterno/con tutti/il Prof. Oreste Ortali/1880-1958/chirurgo sommo/si prodigava senza limiti/e in questo ospedale S. Maria delle Croci/dal 1919 al 1953/mostrava la sua valentia operatoria/e l’amore del prossimo/una storia che a Ravenna è leggenda/15-III-1988” Fra i nominativi che non compaiono in nessuno di questi due elenchi, riteniamo opportuno menzionare Duilio Giacci e Guido Ottolenghi. Duilio Giacci (1887-1954). “La L. Nino Bixio di Viterbo aveva deliberato nel 1923 di ammetterlo alle prove della iniziazione. Egli ne era al corrente , anche se gli eventi impedirono di convocarlo. Quando l’amministrazione statale gli chiese se apparteneva alla Massoneria, egli rispose di essere massone e ne affrontò sereno le conseguenze. Iniziato nella L. Dante Alighieri N°108 all’Or. di Ravenna il 26 luglio 1945, promosso compagno il 15 dicembre 1945 ed elevato al grado di Maestro il 17 marzo

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1946. Appartenne al Rito Scozzese. Morente ,volle trascorrere gli ultimi istanti discorrendo della Massoneria ed esortando i Fratelli alla concordia.”(Ibidem, p.229).Guido Ottolenghi (1902-1958). “Chimico. Industriale. Filantropo. Medaglia d’argento al V. M. per la lotta di liberazione. Iniziato a Torino il 15 luglio 1923 ,affiliato successivamente alla L. Ricostruzione di Roma poi alla L. Dante Alighieri di Ravenna nel 1947. Appartenne al Rito Scozzese.”(Ibidem, p.249). 66 Per gli immemori dell’ antifascismo in servizio permanente attivo molti dei quali, probabilmente in virtù dei loro trascorsi ideologici non propriamente liberaldemocratici, nutrono una forte avversione per l’Ordine, giova qui ricordare il sanguinoso tributo di molti massoni contro il fascismo. Fra i quali ne emergono due in particolare per l’ esemplarità del sacrificio: Mario Angeloni e Giordano Bruno Viezzoli. Angeloni, comandante assieme a Carlo Rosselli della Colonna italiana, il primo numeroso gruppo organizzato dall’ antifascismo italiano accorso in aiuto della Repubblica spagnola, cadde alla testa del reparto mitraglieri l’8 agosto 1936 assieme ad altri sette compagni italiani nell’epica battaglia di Monte Pelato sul fronte di Aragona, combattendo contro soverchianti forze franchiste che dovettero subire gravissime perdite. Il secondo, Giordano Bruno Viezzoli cadde il 30 settembre 1936 nei cieli di Madrid a bordo del suo bombardiere Potez 540 della squadriglia “Espana” mentre nel corso di una missione veniva assalito dai CR. 32 italiani al servizio di Franco. Viezzoli morì dissanguato, col ventre squarciato da una pallottola esplosiva. La cinematografia s’impadronì immediatamente di una fine così tragica e commovente : la scena del ritorno del bombardiere in fiamme dalla missione apre il film Sierra de Teruel di André Malraux , girato fra il giugno 1938 e il gennaio 1939 a Barcellona. “ Nella finzione cinematografica – leggiamo in A. Emiliani, Italiani nell’ aviazione repubblicana, in “Archivio Trimestrale”, n.1 , gennaio- marzo 1982, p.150 – Viezzoli è Marcellino che più tardi viene ricordato a nome dei compagni dal comandante Pena: ‘Era un uomo che noi amammo’. Nella realtà il velivolo si schianta al suolo in territorio repubblicano nei pressi di Toledo. Il corpo di Giordano Viezzoli verrà sepolto nel cimitero di Carabanchel con onoranze funebri solenni. La commemorazione si tiene a Parigi, il 21 novembre , per iniziativa della sezione parigina della Lega dei diritti dell’ uomo , che di Giordano Viezzoli assunse il nome. Ai rappresentanti di tutte le tendenze dell’ antifascismo, raccolti in una sala in Boulevard Strasbourg in un’ atmosfera di intensa partecipazione, parlano Alberto Cianca, Veniero Spinelli e il padre Giuliano. Quest’ ultimo pochi giorni dopo indirizza al Podestà di Trieste una lettera fierissima : ‘… Mio figlio Giordano nato a Trieste combattè in Spagna con Garibaldina fede, continuatore della stessa lotta per la libertà dei popoli alla quale io credetti facendo la guerra. Il piombo dei proiettili esplosivi italiani ha troncato la sua esistenza. E’ una vergogna di più della decadente monarchia da voi rappresentata. Vi restituisco la medaglia ,fate pure con essa altri proiettili, con ciò accelerate la resa dei conti e l’ora della rivoluzione sociale.’ ” Questo a monito di tutti coloro che fumettisticamente vedono l’Ordine come una sorta di Cattivik costantemente intento a complottare con le oscure forze antidemocratiche :gli uomini della Massoneria c’ erano e combattevano per la libertà quando molti dei suoi attuali denigratori erano in altre faccende affacendati ( se non addirittura a combattere dall’ altra parte della barricata ) 67 Questi registri sono presso l’autore. 68 M. Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche , documenti e testimonianze per una storia dell’ antifascismo democratico romagnolo, Ravenna, Edizioni Moderna, 1989. 69 C. L. Ragghianti, Disegno della liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, p.203

“Essere antimoderni non ha molto senso”, una conversazione con Johann Chapoutot

“Essere antimoderni non ha molto senso”, una conversazione con Johann Chapoutot

In Le Grand Récit , edito dal PUF, Johann Chapoutot analizza i principali discorsi sulla dotazione e sul dare significato, dal provvidenzialismo alla cospirazione. L’abbiamo incontrata per discutere del suo approccio storico, delle domande che può sollevare e di come il suo libro si collega al resto del suo lavoro.

Johann Chapoutot, La grande storia. Introduzione alla storia del nostro tempo , Parigi, PUF, “Hors collection”, 2021, 384 pagine, ISBN 978-2-13-0825 ,URL  https://www.puf.com/content/Le_Grand_R%C3%A9cit

Lanciandoti in questo libro, ti sei detto che il tuo approccio storico non è più sufficiente per illuminare il nostro tempo?

Anzi, no, è anche il contrario. Molte persone mi hanno chiesto se mi faccio da parte con questo libro. Ma in realtà ho l’impressione di aver approfondito quello che è il cuore della mia professione, che è l’attenzione al significato della storia negli occhi degli stessi attori. Ci sono modi diversi di fare storia: da parte mia, preferisco un approccio culturalista, internalista e comprensivo a un approccio che sarebbe più esternista e con una pretesa esplicativa.

Mi interrogo sul significato dato agli atti dagli attori e quindi sul discorso della donazione e della dotazione di senso, cioè alla storia. Mi interessano queste forme di discorso che sono trame narrative e ho voluto spiegare, nell’introduzione, nella conclusione e nel capitolo 9, un certo modo di fare la storia. Tutto questo nasce da un suggerimento del mio amico e complice Christian Ingrao che mi ha consigliato di scrivere un articolo su come, con gli altri, faccio la storia.

Riflettendo sul discorso, sulla storia del dare significato, mi sono detto che avrei fatto questo punto metodologico ed epistemologico. Quindi sono al centro di quello che faccio di solito. Molte persone si sono stupite che io parli troppo di filosofia o di discipline umanistiche, ma è sufficiente aprire la mia tesi per rendermi conto che l’ho sempre fatto. Questo è ciò che leggo e ciò che pratico. Per dirla semplicemente, non passo il mio tempo a leggere Himmler. Quello che ho letto nella mia vita è filosofia, saggi, letteratura, sociologia e anche i miei colleghi storici, ai quali cerco di rendere omaggio in questo lavoro.

Ho fatto quello che faccio di solito, spiegandolo. Quello che mi sorprende, però, è il modo in cui viene accolto il mio lavoro. Scrivo questi lavori soprattutto per le mie figlie e per me stessa, per spiegare, mettere un po’ d’ordine, definire e capire almeno il nostro stare al mondo. E infatti è stata mediaticamente e socialmente appropriata perché incontra le domande contemporanee.

Tu affermi che i nazisti sono ”  del nostro tempo e del nostro posto”, estendendo qui la riflessione iniziata in Liberi di obbedire . Capisci che questa affermazione può confondere? Inoltre, più che del nostro tempo e del nostro luogo, i nazisti non sono forse il prodotto della civiltà industriale nata nel XIX secolo? Si ha l’impressione che tu ti stia allontanando dal tuo primo lavoro sulla genealogia intellettuale del nazismo e rifletta invece sulla permanenza del nazismo nelle nostre società.

A monte e a valle sono collegati. Il mio oggetto di studio non è il nazismo. È piuttosto il mio campo nel senso di archeologi o antropologi. Il mio obiettivo è piuttosto, andare in fretta, la modernità, vale a dire questo particolare essere-nel-mondo, diverso da quello che conoscevamo prima della Rivoluzione francese. L’industrializzazione e le forme di abbandono sociale di massa indotte dall’urbanizzazione, dall’industrializzazione e dal disincanto religioso provocarono disincanto nel mondo a cui il nazismo fu una risposta esplicita. Il nazismo ha saputo sedurre, convincere o addirittura entusiasmare perché rispondeva concretamente alle grandi domande sull’essere-nel-mondo di chi si poneva queste domande: cosa sono ? da dove vengo? dove stiamo andando ? È un insieme di domande fondamentali a cui le narrazioni e i discorsi tradizionali non riuscivano più a rispondere.

Ecco perché il nazismo è, di fatto, il nostro tempo e il nostro luogo. Questo è qualcosa su cui insisto perché trattiamo il nazismo, specialmente nei media o pubblicamente, attraverso il prisma dell’aberrazione, dell’eccezione o dell’anomalia. Lo capisco ed è così che ho iniziato a lavorare sull’argomento, come tutti gli altri. Ma quando guardiamo al nazismo, ci rendiamo conto che tutto ciò che viene detto e affermato è molto banale. Ciò che è sognato e pianificato lo è meno. Aggiungiamo che, geograficamente e temporalmente, il nazismo non è la Papua del XIII secolo o l’India del XVII secolo, ma piuttosto l’Europa del XX secolo. Infatti è il nostro tempo e il nostro luogo, e deriva da questa matrice che hai evocato:

Il mio obiettivo è, per andare veloci, la modernità, vale a dire questo particolare essere-nel-mondo, diverso da quello che conoscevamo prima della Rivoluzione francese.

JOHANN CHAPOUTOT

Per il downstream è la stessa cosa. Allo stesso modo in cui non c’è una creazione ex nihilo nel 1933, non c’è volatilizzazione dal 1945. I fondamenti della nostra civiltà occidentale per andare rapidamente – estrattivismo, produttivismo e alienazione – che si sono cristallizzati nella seconda metà del XIX secolo in Europa e gli Stati Uniti, non si dissolsero. I fondamenti ci sono, ci sono anche le domande e, infatti, i fenomeni di cui i nazisti erano “esponenti” (mi riferisco qui al termine tedesco Exponent ), vale a dire illustrazioni particolarmente vivide, non si sono dissipati successivamente.

L’idea di considerare un lavoratore come una risorsa, un’idea tipicamente nazista, questa reificazione dell’altro come agente produttivo, è alla base della definizione di “risorse umane” che oggi “gestiamo”. hui. Ecco perché ho proposto queste idee in Free to Obey , che ha ricevuto un eccesso di onore o un eccesso di indegnità. Un eccesso di onore da parte di coloro che sentivano che avevo finalmente dimostrato che la nostra vita quotidiana era nazista, che non è il mio punto. Un’eccessiva indegnità da parte di chi sentiva che stavo ributtando tutto sul nazismo, che stavo facendo una sorta di reductio a hitlerum , quando non lo ero.

Il momento nazista, il fenomeno nazista ci permettono di leggere la nostra modernità ad occhio nudo, come i cromosomi della mosca Drosophila che prediligiamo negli insegnamenti di biologia perché sono così grandi che possiamo guardarli senza strumenti più sofisticati. microscopio.

Nel ”  nazificare” il nostro presente, non c’è il rischio, da un lato, di perdere di vista ciò che mostri in parte del tuo lavoro, vale a dire che ci sarebbe una banalità del nazismo, che era prima del 1939 un espressione politica tra le altre risposte alla modernità industriale? E d’altra parte, non rischiamo di perdere di vista ciò che tuttavia costituisce la singolarità storica del nazismo, se si considera la lunga storia dell’estrema destra in Europa? 

Ci sono due equivoci. Prima di tutto, non sto “nazificando” il contemporaneo. In Free to Obey , non ho inventato questo generale delle SS vicino a Himmler che divenne papa dirigente e creatore della più grande business school in Germania dopo il 1945. Non ho inventato Reinhard Höhn, esiste, inoltre c’è un buon lavoro su di esso. Da questo caso di studio, ho voluto suggerire un certo numero di linee di pensiero, ad esempio il fatto che mi sono spiegato meglio i conati di vomito che la nozione di “gestione delle risorse umane”. Quando i nazisti parlano di Menschenmaterial, c’è qualcosa come un bagno culturale comune tra l’ufficiale delle SS Reinhard Höhn degli anni ’30 e ’40 che riflette sulla scomparsa dello stato, la proliferazione delle agenzie e l’uso corretto del materiale umano e il Reinhard Höhn del 1956, ex generale delle SS ridiventato professore-dottore e creatore di business school acclamato come “papa del management” per il suo 95esimo compleanno nel 2000. Ancora una volta, non sono io a presentarlo come tale, c’è la Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände (BDA), il sindacato dei datori di lavoro tedesco, il MEDEF tedesco.

Allora dobbiamo vedere cosa intendiamo per nazismo. Dirò una cosa che ho già detto e scritto e che può suscitare una forma di fraintendimento: il nazismo non può essere ridotto alla Shoah, e la Shoah non è solo nazismo.

La Shoah non è solo nazismo perché è un’impresa comune a tutta l’Europa. Tutti ci sono entrati. Dai prefetti francesi ai nazionalisti lituani, passando per gli ustascia croati e gli antisemiti polacchi. Ci sono arrivati ​​su istigazione tedesca, ma i tedeschi stessi – guardate il lavoro di Jan Tomasz Gross – erano inorriditi dai pogrom polacchi che si svolgevano davanti ai loro occhi. È lo stesso nel Baltico o nei Balcani con gli ustascia: i tedeschi presenti sono allarmati dalla violenza antisemita dei locali.

Allora, il nazismo non è solo la Shoah. Il nazismo è stato, prima del 1941, almeno 8 anni – più se torniamo al 1919 o al 1920 – di un’esperienza politica acclamata da tutte le parti: in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. . Non è stato così per tutti ovviamente: i comunisti erano contrari, anche i socialdemocratici, anche alcuni democristiani. Ma l’“Hitler più che Blum” denunciato da Mounier e poi da Marc Bloch non è un mito. È sorprendente vedere come le élite britanniche rimuginassero con il loro sguardo benevolo su un Hitler che sembrava loro la parata ideale contro il bolscevismo, la soluzione per uccidere la sinistra e i sindacati e trasformare la Germania in “una zona di investimento ottimale”. . Dal 1933 infatti la Germania, considerando il programma di riarmo e vedendo che non ne rimane più, è una “zona di investimento ottimale” – un concetto che ho sviluppato dalla zona valutaria ottimale. Puoi avere un ritorno sui tuoi investimenti unico al mondo grazie alle condizioni di produzione offerte dal paese.

Il nazismo prima del 1941 non è né Treblinka né Sobibor. Queste sono realtà che conosco un po’. E mi sorprende quando alcune persone si accigliano: sono l’unico storico francese premiato da Yad Vashem, per La loi du sang . Per questo mi ha lasciato un po’ perplesso. Allo stesso tempo mi dico che studiando a lungo un fenomeno non ci si rende più conto che ciò che appare ovvio dopo un lento assestamento non lo è affatto per il pubblico. Lo iato tra ricercatore e pubblico sta crescendo fatalmente.

La cosa più sorprendente di Free to Obey è il salto da un caso di studio a una lettura molto più generale del management della Germania occidentale e persino dell’Europa occidentale dopo il 1955. Credi che non sia questo a provocare la sorpresa dell’accoglienza?

Prima del 1945, Reinhard Hohn è un tipico individuo del mondo degli intellettuali delle SS, per citare Christian Ingrao1o Michael Wildt. E i suoi amici, quelli con cui lavora sono Werner Best – il numero due della Gestapo – e Wilhelm Stuckart – il redattore delle Leggi di Norimberga. Ed è con loro che lavora a questa rivista chiamata Empire. Ordine razziale. Spazio abitativo ( Reich, Volksordnung und Lebensraum ) per riflettere sull’attrito dello Stato e sulla mutazione delle strutture per amministrare in modo ottimale il Grande Impero.

Il nazismo non può essere ridotto all’Olocausto, e l’Olocausto non è solo nazismo.

JOHANN CHAPOUTOT

Dopo il 1945, fu celebrato durante il suo 95esimo anniversario come il “papa della gestione”. La sua scuola ha formato 700.000 dirigenti assunti in più di 2.000 aziende tedesche. È un fenomeno sociale di massa ed è in questo che possiamo passare da un caso di studio a un fenomeno più generale. Soprattutto perché nella sua scuola non si è corretto, non si è pentito di nulla e non ha mai avuto una parola per il passato. E, inoltre, impiegò, come insegnanti nella sua scuola, alte kameraden,vale a dire, l’ex SS. Franz-Alfred Six condannato a Norimberga per genocidio attivo – sul campo – rilasciato, divenne direttore marketing di Porsche ed era professore di marketing nella sua business school. Il professore di medicina Karl Kötschau che, dopo il 1945, continuava a dire che era necessario eliminare i malati o gli handicappati, divenne professore di “sviluppo personale”. Il dottor Justus Beyer, condannato a Norimberga per genocidio attivo, insegnava lì come professore di diritto commerciale.

Il XXI secolo costituisce una cesura, soprattutto dal punto di vista di cui ti occupi, cioè della creazione del senso, della narrazione?

Forse dipende da dove mettiamo la sillabazione. Le cronologie più argomentate parlano del 1989 e altre del 2001. La cesura non è piuttosto la fine degli anni ’70 con la grande crisi industriale vissuta dalla prima patria della rivoluzione industriale che è la Grande? -Brittany, dall’azienda reazione politica, pienamente assunta quale è quella di Margaret Thatcher che incarna e attua ciò che Grégoire Chamayou ha ben studiato in La società ingovernabile2, cioè soluzioni neoliberiste. Con questo intendo un liberalismo vantaggioso per il capitalismo finanziario, tutto sotto il dominio di uno stato spogliato di quasi tutto tranne la sua capacità di mantenere l’ordine. Perché ci vuole ordine per fare affari. Ecco perché abbiamo acclamato Hitler negli anni ’30 e Pinochet negli anni ’70.

La cesura non sarebbe dunque l’arrivo al potere di Margaret Thatcher nel 1979, subito prima di Ronald Reagan, poi Helmut Kohl nel 1982-1983 nella RFT? Siamo, inoltre, poco prima della famosa svolta di austerità del 1983 in Francia e dell’arrivo di Laurent Fabius che segna sia una svolta nel discorso politico sulla questione dell’immigrazione – il famoso “Monsieur Le Pen fa le buone domande ma dai loro risposte sbagliate”3– e un cambiamento anche nella concezione della normativa e della legge con l’inizio della deregolamentazione. Non abbiamo aspettato Chirac nel 1986, è iniziato molto chiaramente nel 1984.

Per continuare sulla cesura rappresentata dal XXI secolo, la cospirazione contemporanea è una risposta alla scomparsa di strutture politiche o religiose capaci di spiegare il mondo?

Se consideriamo l’importanza dell’abbandono del religioso, che è evidente in Occidente, potremmo ipotizzare che il religioso rimarrebbe importante nel vuoto, in modo spettrale o spettrale, nel senso che parleremmo di un membro fantasma . Se facciamo questa ipotesi, è chiaro che in questa lettura, per riprendere una visione aroniana delle religioni laiche, il complotto è un modo di fare a meno della religione senza aver pianto una trascendenza. Questa diventa una trascendenza negativa in cui il male – l’ebreo, il rettile o altro – finisce per avere una virtù perché spiega tutto. I problemi individuali e sociali hanno una causa ovvia e comprensibile.

Per questo inserisco le teorie e le storie della cospirazione in una prospettiva più ampia e in una cronologia più ampia, facendo riferimento ad esempio all’opera di Franck Collard sulla congiura dei lebbrosi nel Medioevo.4.

Ci vuole ordine per fare affari. Ecco perché abbiamo acclamato Hitler negli anni ’30 e Pinochet negli anni ’70.

JOHANN CHAPOUTOT

C’è una permanenza: dietro il caos impenetrabile che mi colpisce, c’è una “causalità diabolica”. Uso questa espressione di Leon Poliakov e Norman Cohn in  The Fanatics of the Apocalypse5. Questa causalità mi rassicura perché è identificata e fornisce significato. Ciò risponde a un’esigenza terapeutica: trovare un senso alla propria infelicità è fondamentale. Io stesso sono stato sorpreso di apprendere che una psicoanalista, Nathalie Zajde, che tratta pazienti nati da sopravvissuti all’Olocausto, ha prescritto La Legge del Sangue.6ai suoi pazienti Perché è importante che i pazienti che soffrono abbiano un discorso significativo che smascheri e decostruisca il progetto di sterminio dei nazisti iscrivendolo in un’epoca e nella propria razionalità. La cospirazione è una forma di terapia selvaggia su larga scala in un modo del tutto paragonabile a un fenomeno che non ho menzionato nel mio libro, le epidemie di stregoneria negli anni ’60 e ’70 studiate da Jeanne Favret-Saada in Le parole morte gli incantesimi7. È una risposta a un enorme trauma sociale: la legge Pisani-Ferry, l’americanizzazione dell’agricoltura, gli input chimici, l’estirpazione del boschetto per fare grandi campi aperti. Il modo per rispondere a questi traumi di massa è immaginare che ci sia stato lanciato un incantesimo che si traduce nella morte di una mucca, nel guasto del trattore o in difficoltà finanziarie. Io sono uno storico, sto solo osservando, ma gli antropologi o gli psicologi hanno qualcosa da dire sulle sorgenti di tutto questo. È ovvio che il bisogno di ermeneutica c’è e la cospirazione risponde meravigliosamente bene perché è un modo di fare religione senza Dio, ma pur conservando il Diavolo, perché si mantiene una figura detestabile, odiata, un “Chi”? Ornato con piccole corna.

Tracci paralleli tra la Francia contemporanea e l’antica Roma, in particolare confrontando il loro fascino con il mito dell’età dell’oro. Non è problematico questo miscuglio di tempi? Non dà l’impressione che la storia sia un’eterna ripartenza o un ciclo? Possiamo davvero mettere sullo stesso piano Salluste ed Éric Zemmour?

Vista così, in effetti non è una buona cosa ed è meglio fare come Gérard Noiriel che mette Zemmour allo stesso livello di Edouard Drumont!

Il riavvicinamento all’Impero Romano è opportuno in quanto la Repubblica francese e la città politica francese furono costruite in riferimento al romanismo. La rivoluzione è avvenuta ”   in abiti romani  ” – qui torno a Marx. Possiamo citare Camille Desmoulins che afferma: ”   Avevamo la testa piena di greco e latino, eravamo repubblicani universitari. “. Tutto contribuisce a ciò che noi pensiamo come romano, in particolare la virtù stoica del cittadino che deve pensare l’interesse generale contro il suo interesse privato. Pertanto, la storia antica ha un’importanza, un significato in Francia a partire dalla Rivoluzione francese, che rafforza l’eredità del Rinascimento e poi dei Gesuiti conferendole una dimensione civica. Quindi è importante vedere che siamo stati nutriti dall’innutrizione.

Ma quando leggiamo testi del I secolo aC e della nostra epoca, l’apice dell’Impero, gli autori romani non smettono mai di lamentarsi. Ed è ancora possibile che noi siamo gli eredi di questa insoddisfazione per il presente. Del resto, da decenni, le generazioni politiche e accademiche si sono formate alla versione latina su questi testi, traducendo la congiura di Catilina di Sallustio, traducendo Livio, Tacito e tutti si lamentano dicendo che “era meglio prima”, che il mos maiorum era perduto, che la virtus patrum doveva essere ritrovata. Potrebbe aver lasciato il segno.

Come i romani, abbiamo un’idea alta di noi stessi: l’ urbs è civiltà, cultura e non siamo mai all’altezza del nostro ideale, ma l’ideale romano era immenso. In Francia è la stessa cosa, dalla Rivoluzione francese abbiamo l’ambizione di parlare per il genere umano. C’è un rovescio della medaglia in questo messianismo, che è questo tipo di cupa delizia, quella che consiste nel dire che non siamo all’altezza di ciò che affermiamo di essere. Messianismo e Declineismo sono due facce della stessa medaglia.

Precisamente, non si comprende appieno cosa distingua “  i grandi istmi” del contemporaneo dai grandi racconti che descrivi nella prima parte del libro. Vedendoli come le rovine dei grandi ”  -ismi” che sono crollati, non è correre il rischio di non prendere così sul serio queste nuove storie, questi discorsi che hanno un significato? Prendi ad esempio messianismo e decadenza come ”  istmi” e ammetto di non vedere appieno come questi discorsi siano meno potenti o meno validi come spiegazione del mondo del provvidenzialismo, se non che non sono sostenuti da mille anni di -vecchie strutture? 

Hai perfettamente ragione in termini di ermeneutica. La loro valenza ermeneutica è analoga, comparabile, se non identica. Ma è nella loro facoltà di mobilitazione che è più problematico. Il declino non ti farà invadere la Polonia perché è deplorevole, ed è per questo che mi chiedo se uno Zemmour possa andare molto lontano.

Ma il declino, o l’ondata che provoca, spinge l’Inghilterra fuori dall’Unione Europea, e probabilmente partecipa all’elezione di Trump. 

Sì, ma è un ballottaggio, non è la campagna di Russia. Andare a votare è importante, ma non è l’epopea escatologica della costruzione del nuovo “impero romano” da parte dei fascisti nel 1936, dell’invasione della Russia o delle rivoluzioni francese e bolscevica.

Il mito che potrebbe essere più mobilitante è “l’illimitato”, rappresentato da Jeff Bezos o Elon Musk. È l’ultimo avatar di un progressismo tecnicista che cerca di salvarsi cercando di fuggire da un pianeta che abbiamo reso inabitabile per investire, in una grande epopea spaziale, un pianeta inabitabile. Vediamo che non morde e che provoca persino reazioni ostili.

Il declino non ti farà invadere la Polonia perché è deplorevole, ed è per questo che mi chiedo se uno Zemmour possa andare molto lontano.

JOHANN CHAPOUTOT

In termini ermeneutici ci sono forti valenze, ma in termini di mobilitazione della performatività, non credo. Ma questa rimane una discussione aperta.

Questa performatività mobilitante non è però un fenomeno costante nelle grandi storie che citi. Se prendiamo ad esempio la storia del cattolicesimo, per lunghi periodi non vi furono conseguenze della sua capacità ermeneutica se non quella di riunire ogni domenica i singoli. Dove siamo oggi? 

In primo luogo, è vero che questo potere di mobilitazione non è sempre stato al suo apice. Ma c’era ugualmente una struttura capace di operare una riconquista evangelizzatrice, cosa che oggi non avviene più, anzitutto perché non ci sono più sacerdoti a sufficienza. Alla fine del XVI secolo, con il Concilio di Trento, il potere della Chiesa era tale da poter controriformare e iniziare una riconquista cattolica. È lo stesso nel XIX secolo. C’è stato un grande livellamento, già prima della Rivoluzione francese – che Michel Vovelle mostra molto bene – ma c’è la rete di conventi, parrocchie, seminari che permette questa seconda controriforma dell’Ottocento.

Attualmente è molto più discutibile: la tecnostruttura, i mezzi non ci sono più. Potremmo finalmente elaborare un trittico basato su tre opere di storici: Le Goff nella Nascita del Purgatorio8, Michel Vovelle che mostra l’apogeo e l’inizio del dubbio e Guillaume Cuchet, che mostra la morte del dogma9. Questi tre storici ci offrono, con le loro opere, tutta la vita del dogma, e Guillaume Cuchet si pone questa domanda, nella sua ultima opera, della scomparsa o meno del cattolicesimo in un luogo che doveva esserne se non la culla a almeno un vettore importante.

Tu difendi un altro approccio storico che può sembrare, a prima vista, sorprendente, un pensiero controfattuale. Quanto è fruttuoso questo approccio per lo storico e più in generale per la comprensione del nostro tempo?

Venivo dal mio stesso cortile, in questo caso il suolo tedesco. Dagli anni Cinquanta c’era una scuola storica – chiamata bundesrepublikanisch – perché gli storici che l’hanno inventata provenivano dalla Germania occidentale e avevano abbracciato la causa del diritto fondamentale e della democrazia parlamentare. Nati negli anni ’30, hanno cercato di fare la genealogia del nazismo.

Vediamo che tutti questi storici intorno alla Scuola di Bielefeld hanno fatto tesi sull’Ottocento, ogni volta per individuare i segni della catastrofe. Era un approccio teleologico che generalmente collegava il bismarckiano e il guglielmino del XIX secolo al nazismo. Sulla loro scia si stabilì una doxa, quella del Sonderweg, del percorso particolare di una Germania le cui modernizzazioni sarebbero state divergenti. Ci sarebbe stata da una parte una modernizzazione economica e tecnica molto reale e dall’altra una modernizzazione politica che non sarebbe mai avvenuta. In altre parole, il binomio capitalismo/liberalismo politico non si sarebbe verificato. Tutto ha portato al 1933 nel loro approccio.

Ciò può essere dovuto alla difficoltà di leggere la storia tedesca in quanto per molto tempo non c’è stata la Germania – praticamente fino al 1990 – e per renderla storicamente visibile, creiamo un’autostrada che va da Lutero a Hitler, addirittura da Hermann il Chérusque a Hitler. È una sorta di determinismo culturalista e teleologico che finirebbe sistematicamente nel 1933.

Ma, ed è quello che ho difeso nel mio libro sulla storia contemporanea della Germania10, si potrebbe immaginare un altro percorso che va dal 1848-1849 fino al 1949-1990 passando per il 1919 e la Repubblica di Weimar. Quest’ultimo non è stato un successo, ma dobbiamo ancora vedere cosa ha pesato su questo regime. L’idea di teleologia, finalismo e determinismo mi ha sempre infastidito perché non si tratta solo del 1933 nella storia tedesca.

L’idea di teleologia, finalismo e determinismo mi ha sempre infastidito perché non tutto si riduce al 1933 nella storia tedesca.

JOHANN CHAPOUTOT

Ero quindi molto interessato all’approccio di Quentin Deluermoz e Pierre Singaravélou quando hanno lanciato un seminario di esame epistemologico dell’approccio controfattuale per dimostrare che non era limitato all’ucronia, come “è praticato dai romanzieri di fantascienza”. Al contrario, hanno voluto dimostrare che è stato un passo fruttuoso per la storia. Tutti facciamo il controfattuale senza saperlo quando privilegiamo un’ipotesi rispetto a un’altra e mettiamo da parte i futuri non realizzati. Il lavoro sul futuro che non è accaduto, sugli orizzonti inesplorati che erano possibili, permette di rivisitare un’epoca in modo molto più fruttuoso.

Sono molto interessato agli anni ’30 francesi e i miei nonni erano giovani durante questo periodo. Presumo che non avessero pensieri suicidi ogni mattina pensando all’affare Stavisky o alla crisi, ma che stessero sognando qualcosa che non era né il giugno 1940 né il maresciallo Pétain. Riaprire le possibilità è un imperativo epistemologico perché i contemporanei, come te e me ora, non sanno cosa accadrà in futuro, anche quello vicino. Ma abbiamo supposizioni, desideri e ansie. Le tombe non dovrebbero essere sigillate, ed è per questo che ho iniziato le mie 100 parole di storia11con la parola “Futuro” perché la storia non è pia recitazione di fatalità ma, al contrario, scuola del futuro. Quelle che studiamo sono persone che hanno avuto il loro desiderio, la loro apertura, la loro indeterminatezza e la loro libertà. Sta a noi restituirli.

L’ucronia nazista è affascinante. Molti autori, come Robert Harris o Philippe K. Dick, si sono divertiti a immaginare mondi in cui il Terzo Reich non fosse caduto. E c’è una domanda reale per questo tipo di storia. Rischierebbe un’ipotesi per spiegare questo successo?

Penso che sia principalmente legato alla popolarità della storia reale e documentaria della Seconda Guerra Mondiale. Che ci piaccia o no, questa rappresenta senza dubbio l’ultima grande epopea disponibile, con un male ben identificato, e davvero atroce, un bene che è altrettanto, e una vittoria del bene sul male. Tutto questo è anche molto cinematografico perché la propaganda dell’epoca, da entrambe le parti, sapeva benissimo come mettere in scena. Questo ha una prima conseguenza, televisiva: la Seconda Guerra Mondiale è onnipresente sugli schermi. E anche quando le catene dicono di non voler più affrontare questo periodo, continuano perché i successi di pubblico sono enormi.

Allo stesso modo in cui siamo effettivamente interessati a questo periodo, l’interesse per l’ucronia è che è un modo per allontanare il male, il nazismo. Il nazismo è la chiusura di fronte all’universo delle possibilità e l’apertura di cui parlavamo. Tutto è determinato e necessario. Il nazismo è un lungo discorso apodittico. Hitler lo dice: il nazismo è biologia applicata, scienza applicata, antropologia razziale applicata. Pertanto, non c’è discussione possibile. È così, e se non è così, moriremo. Potremmo benissimo essere pacifisti, disse Hitler, ma moriremo se lo siamo. Questo spiega la pesante macabra ironia dei nazisti. Ho sempre avuto una profonda diffidenza verso chi dice che è così e non altrimenti. Non c’è alternativa  ”di Thatcher.

L’interesse per l’ucronia è che è un modo per allontanare il male, il nazismo.

JOHANN CHAPOUTOT

Se il nazismo è la chiusura, l’ucronia permette di riscrivere la storia e sfidare questa cronologia imposta dai nazisti, e questo in modo paradossale perché in genere li fa sopravvivere, li fa vincere la guerra ma per sconfiggerli meglio in fine . Perché in quasi tutte le ucraine finiscono per perdere. E ciò che rende ancora più piacevole la loro sconfitta è il fatto di prolungare il piacere, dando loro una lezione di storia e alla fine conquistandoli .

Leggendo queste storie, cerchiamo di rassicurarci. Come, inoltre, cerchiamo di rassicurarci leggendo divulgazioni ultrafattuale sulla storia del nazismo che ci permettono di dirci che non abbiamo più niente a che fare con esso e che il nazismo è scomparso nel 1945, sostituito dalla democrazia e dalla crescita economica. Ma questa crescita è in parte organizzata da uomini come Reinhard Höhn.

Si parlava del futuro, della mancanza di alternative. Ciò si ricollega alla crisi ecologica che stiamo attraversando e che sta provocando una perdita di significato, uno sconvolgimento all’interno del nostro contemporaneo “  regime di storicità”. Con la concezione del futuro che diventa nuvoloso, che posto può prendere il discorso ecologico? È questo un nuovo “  messianismo  ”  ?

Mi sono posto questa domanda quando stavo scrivendo questo libro e, ad essere completamente onesto, ero incazzato. Non ho davvero trovato una risposta soddisfacente. La domanda che mi sono posto è: dovremmo parlare di narrativa ecologica, soprattutto nelle sue varianti collassologiche, collassologiche, a rischio di banalizzare la cosa e perdere di vista il fatto che le figure e le curve ne parlano – stesso, che i fenomeni catastrofici ci sono già e non bisogna quindi scherzarci sopra. Stiamo rendendo il pianeta inabitabile, stiamo contribuendo alla sesta grande estinzione, che potrebbe essere anche la nostra se rimaniamo sulle tendenze attuali.

In altre parole, e forse sto tornando a una forma di ingenuità epistemologica, da una parte ci sarebbe la verità delle figure, delle curve e della realtà e non devo banalizzarla, da storico, dicendo che è solo un discorso. Ma posso cadere vittima di critiche e molti giornalisti mi hanno fatto questa domanda. Mi sembra che trattando questo come mero discorso si cada in una forma di negazionismo climatico, che nega l’ovvietà di questo cambiamento.

Tracci un attraente ritratto di un aspetto importante della storia delle idee in epoca contemporanea. Ma resta una storia molto libresca: sono le pubblicazioni dei libri e le controversie tra autori che scandiscono la tua cronologia. Studiando un’epoca segnata dall’alfabetizzazione e poi dalla politicizzazione di massa, non fai affatto la storia “  dal basso” e ti interessi poco all’uso e all’appropriazione delle storie che presenti. Non hai paura di scrivere una storia di idee in ”  provette”?

Questa è una domanda che si pone sempre quando si fa storia culturale. La storia culturale, o meglio culturalista (nell’idea che il significato degli attori ha un interesse) è davvero fedele a quanto ha detto benissimo Pascal Ory, che è una “storia sociale delle rappresentazioni?”» Con questa dimensione sociale di appropriazione, di formulazione, di esperienza sociale, o si ricade nel solco di una tradizione accademica della storia delle idee totalmente disincarnata dove, come dici, vediamo Leon?Brunschvicg rispondere a Henri Bergson che discuteva di Kant senza questa società pungente. Risponderei comunque che Kant morde la società, e oh quanto!

Da una parte ci sarebbe la verità delle figure, delle curve e della realtà e non devo banalizzarla, da storico, dicendo che è solo un discorso.

JOHANN CHAPOUTOT

A proposito, sto ancora parlando di proprietà. Nel capitolo sulla cospirazione parlo molto di social media. Ci sono infatti due capitoli sulla letteratura perché parlo di “Crisi della narrativa”. Nel capitolo sul provvidenzialismo ho cercato di vedere cosa pensavano gli stessi credenti da parte protestante, cattolica ed ebraica, quindi mi sono rivolto ai teologi. E questo ha vere implicazioni ogni domenica nella pastorale, nella vita concreta di chi vi aderisce e segue il messaggio del magistero. Non è quindi decorrelato dalla società e dalle pratiche sociali. Allo stesso modo, per il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, non mi sono perso nelle controversie tra Rosenberg e Hans Günther o tra Bukharin e Trotsky. ho provato a vedere affidandosi in particolare all’opera di Nicolas Werth, quali erano, socialmente, le pratiche di appropriazione di questi discorsi. Per il fascismo parlo di cinema e per il mio lavoro sul nazismo le mie fonti non sono letterarie.

Sono molto attento a questo perché non dobbiamo farci ingannare da quella che Bourdieu ha giustamente chiamato “l’illusione scolastica” in cui ci si lascia andare. Ma non dobbiamo nemmeno ignorare l’efficacia delle idee.

Una preoccupazione antimoderna attraversa il tuo libro al punto che ci si chiede se tu veda qualche motivo di speranza nel presente e nel futuro. Che cos’è?

Antimoderno, non certo perché sono molto felice di vivere nel nostro tempo. Sono molto felice di avere uno stato di diritto che mi protegga e di non temere che Alexandre Benalla possa beneficiare della totale impunità. Sono molto felice di essere trattato come sono e sto molto meglio in Francia che in Afghanistan, non è nemmeno una domanda. Non ha molto senso essere antimoderni.

Ma chi si vanta dell’intelligenza è preoccupato, non appena dichiariamo di pensare di essere preoccupato. In questa modernità che vivo con gratitudine, vedo anche molte cose sbagliate e molte cose anche strutturalmente legate alla modernità che non mi si addicono: estrattivismo, produttivismo, reificazione, alienazione, disprezzo dell’umano, distruzione del nostro biotopo, tutto ciò non mi si addice. Ma non è antimoderno preoccuparsi di tutto questo. Altermoderno, forse?

Inoltre, non ritengo la mia conclusione negativa o senza speranza. Al contrario, c’è scetticismo nei confronti delle grandi storie perché, come te immagino, diffido di tutto ciò che è “grande” o pretende di essere “grande”, sono molto pascaliano in questo senso, e Pascal è anche molto presente nel mio libro perché era molto presente anche nel XX secolo. Le “dimensioni degli stabilimenti” mi fanno ridere. Quindi sono davvero scettico su ciò che afferma di essere grande e ho anche un’immensa speranza, forse legata all’avere figli. C’è una grande apprensione di avere figli, ma ci accorgiamo che con un po’ di umorismo, un po’ di scambio, dialogo e un po’ di amore, l’essere umano cresce molto bene, e la dialettica tra gli individui sta andando molto bene.

Direi quindi che il mio libro è attraversato da due tensioni: scetticismo e distacco nei confronti del macro ma un immenso ottimismo sul micro , sull’organizzazione concreta delle vite, sui cambiamenti, sulla riflessione, sull’intelligenza delle persone. I sistemi sono bloccati e avvelenati fino all’osso, come dimostra la Quinta Repubblica. Che una persona proclami seriamente una guerra contro un virus e incoraggi gli scherzi dei suoi collaboratori, non è possibile, e il sistema che lo consente è un male.

Ma a livello di terra, vedo sviluppi molto benefici, ulteriormente accentuati dalle sfide covidiane. I nostri contemporanei si sono uniti a noi durante questi confinamenti: hanno sperimentato quello che stiamo vivendo noi, i ricercatori, cioè stare soli nella vostra stanza, pensare, porsi domande fondamentali, e in questo vedo una speranza immensa.

In questo contesto, le lettere, l’umanità, la bella fuga, l’ otium , sì, l’abbracciano, che ci nutre.

FONTI
  1.  Christian Ingrao, Believe and Destroy: Intellectuals in the SS War Machine , Fayard, 704 pagine.
  2. Grégoire Chamayou, La società ingovernabile , La Fabrique, 336 pagine.
  3. Laurent Fabius in L’ora della verità, 5 settembre 1984: “Penso che l’estrema destra sia risposte false a domande reali. Le domande sono vere, è il tema dell’insicurezza di cui parlavamo prima […]”.
  4. Franck Collard, “Una voce medievale. La congiura degli ebrei e dei lebbrosi. ”, L’Histoire (n° 231), aprile 1999
  5. Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse: correnti rivoluzionarie millenarie dall’XI al XVI secolo , Aden Belgio, 482 pagine
  6. Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire come un nazista ., Gallimard, 576 pagine
  7. Jeanne Favret-Saada, Parole, morte, incantesimi , Gallimard, 432 pagine
  8. Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio , Gallimard, 516 pagine
  9. Guillaume Cuchet, Il cattolicesimo ha ancora un futuro in Francia? , Soglia, 256 pagine
  10. Johann Chapoutot, Storia della Germania dal 1806 ai giorni nostri , Que sais-je ?, 128 pagine
  11. Johann Chapoutot, Le 100 parole della storia , Que sais-je, 128 pagine

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/11/24/etre-antimoderne-na-pas-grand-sens-une-conversation-avec-johann-chapoutot/?mc_cid=4d2958b35d&mc_eid=4c8205a2e9

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI, di Antonio de Martini

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI
Arriva l’8 settembre col suo solito ributtante strascico di lamenti e giustificazioni a posteriori. Precedo e chiudo.
A pagina 51 della biografia del Maresciallo Gustav Mannerheim scritta da Steven J Zaloga, ( Bloomsbury plc) leggo il testo di una dichiarazione del capo di SM tedesco Maresciallo Alfred Jodl – poi impiccato a Norimberga- così presentata dall’autore: “ both Mannerheim and Jodl were candid about Finland desire to extricate itself from the conflict, and Jodl remarked :
“ No nation has a higher duty than that which is dictated by the concern for the existence of the Homeland. All other considerations must take second place and no one has the right to demand that a nation shall go to its death for another”. ( ottobre 1943) .
Certo, c’era appena stato il trauma italiano, ma resta il fatto che Casa Savoia, lo Stato Maggiore italiano, Mussolini, Ciano e compagnia non seppero cercare altro che la salvezza personale, tranne qualche depresso grave che non seppe cercare nemmeno quella.
Non si parli di tragedie o manifesta inferiorità o guerra non sentita.
Si trattò di servilismo mellifluo da tutte le parti, mentre persino il capo di SM tedesco avrebbe capito e trattato decorosamente come avvenne con la Finlandia.
Abbiamo meritato tutto. Come riaccadrà nuovamente.

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (3 di 4), di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (3 di 4)
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Dunque…..nei precedenti due capitoli abbiamo affrontato una serie di vicende e punti di svolta nella storia dell’Asia centrale che in comune hanno il contesto di fondo ossia quello del XVIII° secolo nell’area : un lasso di tempo lungo il quale ancora non si avverte una presenza estranea rispetto ai “giocatori autoctoni” (il colonialismo europeo non si è ancora fatto sentire, in sostanza).
Il 700 ci restituisce uno spaccato dal quale risalta lo stato tormentato dell’impero persiano in età moderna, il suo sostanziale declino rischiarato da un fulmineo ed effimero apogeo per poi tornare gradualmente al limbo precedente : da questo magma prende vita propria una nuova entità più ad oriente risultato dell’affermazione politica del ceppo etnico pashtun, ora elevato a nazione. Questo periferico “spin off” dello stato imperiale persiano (come si direbbe nel linguaggio delle serie televisive) sa affermarsi e sfrutta efficacemente la propria posizione a cavallo tra due mondi……quello IRANICO e quello INDIANO, al punto di dare vita ad un impero proprio (in gran parte a danno dell’areale indiano). Questa è l’essenza di un secolo di evoluzione geopolitica (…).
Il XIX° secolo che ora affrontiamo, ci conduce invece verso una differente dimensione il cui piano di comprensione si fa più complesso : qui si situano le chiavi d’accesso alle dinamiche dell’Afganistan contemporaneo. Sostanzialmente potremmo dire che compare LO STRANIERO (o occidentale per dire) nel campo da gioco : in realtà l’espressione stessa difetta di un’ambiguità semantica dal momento che più che “comparire” sul campo da gioco altrui, egli PLASMA il campo da gioco altrui (!)……contribuisce a crearlo a fissarne le regole, ne è il dominatore assoluto anche quando non si espone in prima persona. Per esprimersi un tantino cervelloticamente, l’uomo occidentale nelle sue diverse incarnazioni (inglese, russo) si proietta nel determinato contesto (in questo caso irano/afgano/indiano) affiancando i giocatori tradizionali – che già interagiscono da tempo immemore – subentrando loro in modi sottili (cioè MAI del tutto e mai in primissima persona ossia rimanendo dietro le quinte), interfacciandosi, assumendone il parziale controllo………onde dar vita alle prime “proxies war” o conflitti per interposta persona che sono la regola fino ad oggi (…). Ù
Gli eroici confronti di cavalleria cha caratterizzano tutta un’epica militare afgana o persiana – per la cattura poi di un distretto di confine – diventano improvvisamente ben poca cosa rispetto alle dimensioni della posta in gioco supera la limitata immaginazione di questi guerrieri d’altri tempi : se i diretti interessati (afgani e indiani nello specifico) sono convinti in buona fede di battersi per una supremazia locale……..senza poter realizzare dalla propria prospettiva degli eventi, il fatto che la supremazia locale/regionale di uno o dell’altro può innescare un effetto domino capace di intaccare un equilibrio planetario. Coloro che detengono il primato di quest’ultimo (russi e inglesi nello specifico) sono coloro che dirigono l’azione da dietro le quinte, trasformando così la natura del quadro in uno schema a due livelli : LOCALE (1) e GLOBALE (2). Come oggi.
Va bene……..cerchiamo di andare più al concreto. Avevamo lasciato l’impero DURRANI a cavallo tra il XVII° e il XIX° secolo : dopo la morte del suo fondatore, l’esistenza di questo primo progenitore dello stato afgano si trascina ancora per mezzo secolo, arenandosi in un confronto di lungo termine contro la nazione SIKH (un “impero” indiano nel nord dell’India attuale, verso il Kashmere, all’epoca di inizio del conflitto ancora relativamente scevro di influenze europee). L’esito inconcludente e talvolta fallimentare – sostanzialmente le forze afgane, complice la natura difficile del contesto geografico, NON riusciranno mai a oltrepassare i SIKH, i quali de facto diventano lo “scudo” dell’Hindustan oltre il quale ogni espansione Durrani è impedita. Nei decenni iniziali dell’800 le sorti volgono anche negativamente per la parte afgana, che oltre a non fare un passo finisce anche per perdere pezzi preziosi : il principale è la perdita di Peshawar nel 1819, cui presto seguirà anche il Kashmere stesso a favore dei Sikh.
A questo andamento fallimentare della strategia contro il mondo indiano si aggiunge un conflitto dinastico che deflagra poco dopo, lasciando per un breve lasso di tempo il paese senza nemmeno una guida : in questo momento di confusione che vede sprofondare l’ormai esautorata dinastia fondatrice Durrani, si fa strada la dinastia BARAKZAI (بارک‌زایی‎ )……..che caratterizzerà il nuovo secolo in corso e anche quello successivo, contando alla fine 150 anni di regno complessivi (siamo nel 1823 al momento dell’ascesa e durerà sino al colpo di stato militare del 1973). Da ricordare quindi almeno il nome di questa nuova dinastia. Da questo momento cambia anche il nome dello stato : considerata defunta la vecchia forma imperiale Durrani, viene scelto l’appellativo ufficiale di EMIRATO DELL’AFGANISTAN (امارت افغانستان‎ Amārat-i Afghānistān ).
Il suo nuovo sovrano – Dost Mohammad Khan Barakzai – ha davanti a sé da subito, grandi sfide da sostenere : gestire i rapporti col rivale storico sikh, ma soprattutto gestire i rapporti diplomatici con i due nuovi attori d’eccezione che irrompono sulla scena……impero RUSSO e impero BRITANNICO. Il calcio di inizio arriva da parte russa : si sfrutta il desiderio mai sopito dell’impero persiano (ora sotto la dinastia QAJAR) di riprendere qualche brandello di quanto era loro fino a un centinaio di anni prima (la strategica città di HERAT). Se i piani militari sono in corso sin dal 1816, ci vorranno una ventina di anni prima che la macchina si metta in moto, con il supporto russo : in breve, nel 1837 La Persia Qajar (affiancata dalla Russia zarista) si dirige verso Herat dove inizia un lungo assedio. I britannici dal canto loro interpretano la mossa chiaramente : un tentativo di riconquista persiano ai danni dell’emirato può presagire ad invasione ulteriori su più larga scala finalizzate al crollo di questo stato……ritrovandosi così la Persia padrona del campo fino alla frontiera con l’India britannica (e prefigurandosi così rischi non calcolabili, considerato il supporto russo alla Persia ed potenziali fronti capaci di destabilizzare l’India intera, al tempo la più ricca colonia della corona). Non si perde tempo e si organizza subito una controffensiva strategica (si occupano via mare postazione sul golfo Persico ai danni dello Scià) fino a che l’assedio non viene tolto e i russi non ritirano i propri “inviati speciali” : è il 1838.
Questo successo tuttavia NON basta alla Gran Bretagna : si è trattato di un evento militare del tutto minore ed il successo è in effetti temporaneo. Più che altro è il prodromo di futuri e più gravi tentativi……il nemico (la Russia) ha oramai compreso che l’emirato dell’Afganistan è il ventre molle a nord del continente indiano, la lancia da utilizzare contro i ricchi possedimenti britannici oltre l’HinduKush. Il governatore britannico del tempo si decide quindi a muovere guerra DIRETTAMENTE all’emirato. Il concetto è semplice e brutale : occupare via terra l’Afganistan e portarlo forzatamente nella propria sfera di influenza PRIMA che qualcun altro (la Russia) lo faccia. Non fa una piega.
Da questa decisione prende inizio quello che è il PRIMO CONFLITTO ANGLO-AFGANO (1839-1842). La prima vera campagna militare sul territorio afgano nel corso di quel “grande gioco” che attraversa il XIX° secolo : nella sostanza si rivelerà un inconcludente disastro per la parte britannica. Dopo un iniziale, prevedibile, successo (sono mobilitate le più potenti armate indiane del tempo inquadrate sotto ufficiali inglesi) viene posto sul trono un sostituto del deposto regnante della dinastia Barzakai con un superstite della screditata dinastia Durrani, non sostenuta da nessuno nel paese : un equilibrio quindi del tutto artificiale che non può sostenersi da solo, ma solo con la presenza militare britannica il cui costo è proibitivo………nel giro di un paio di anni inizia una ritirata che si rivela catastrofica (un’intera armata viene perduta complici le condizioni atmosferiche invernali). In altre parole il corpo di invasione britannico è costretto a ritirarsi dopo 3 anni senza essere riuscita ad instaurare una monarchia a sé fedele (il legittimo sovrano Barzakai rientra immediatamente dall’esilio) : anche grazie ad un momento di distensione dei rapporti tra Russia e Gran Bretagna nel corso del loro grande gioco (…), la questione viene temporaneamente messa da parte, con la rinuncia da parte britannica di intromettersi negli affari interni afgani, almeno nell’immediato.
E’ in effetti un primo punto di svolta di tutto il “grande gioco” : al di là dell’esito di questa prima spedizione (“disastro afgano” secondo alcuni autori) i grandi giocatori russi e inglesi si confrontano diplomaticamente a carte scoperte. Il rappresentante russo propone in questo frangente (1840) di fissare pacificamente i limiti delle rispettive sfere di influenza sullo scacchiere mettendo fine al grande gioco…….da parte britannica tuttavia (Lord Palmerston) si respinge l’apertura per ragioni di alta strategia globale : l’apertura della Russia zarista fu interpretata come segnale di debolezza, inoltre uno sconfinato fronte asiatico sempre in movimento, poteva essere utile per distogliere attenzione e risorse da parte russa (impedendogli pertanto di essere più presente sullo scacchiere europeo che interessava maggiormente alla Gran Bretagna : questa la visione strategica di parte inglese in una stringa di parole).
La “visione di gioco”, per quanto sottile, in realtà era meno perfetta di quanto sembrasse : la debolezza russa in particolare era sopravvalutata e l’assenza di chiare linee di demarcazione diede la possibilità all’impero zarista di espandersi forse più di quanto avrebbe potuto fare altrimenti. Nel lasso di tempo che va dal 1840 al 1870 l’avanzata della imperiale russa fu lenta ma costante : nello spazio di una generazione i colonnelli di cavalleria (l’espansione si deve in sostanza a loro che presero terreno poco alla volta senza troppe direttive dall’alto se non poi vedersi riconosciuto il risultato a fatto compiuto) arrivarono ad occupare tutto lo spazio strategico dell’Asia centrale (poi ereditato dall’Unione Sovietica) : Samarkand e Bukhara sono occupate tra il 1865-68 (vengono liberate decine di migliaia di schiavi tra l’altro) permettendo ai confini imperiali di arrivare COMUNQUE a ridosso dell’emirato afgano.
In parole poverissime….le decisioni prese nel 1840 non fanno che rimandare la resa dei conti di una generazione : i giochi si riaprono puntualmente negli anni 70 dell’800 allorchè una delegazione russa è inviata a Kabul per trattare direttamente con l’emiro (1878 : è l’anno della mancata pace di S.Stefano dopo la guerra contro l’impero ottomano. La Russia imperiale trova molti oppositori in Europa, tra cui la GB in prima linea e i diversivi ad oriente potevano anche fungere da avvertimento).
La missione diplomatica russa a Kabul del 1878 (in realtà non invitata) e la conseguente missione britannica (che pretenderà di essere ricevuta allo stesso modo), sono i prodromi della SECONDA GUERRA ANGLO AFGANA (l’ultima).
CONTINUA
[bandiera in basso dell’Emirato , ufficialmente dal 1919-26]

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 e 2 di 4)_di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 di 4)
Come di regola – ma nelle presenti circostanze è anche comprensibile – le bacheche di tutti i social esibiscono una variopinta carovana di considerazioni e commenti per ogni gusto e livello di comprensione. Non so esattamente quanti abbiano la visione d’insieme della storia di questo areale geostrategico : quanti hanno a mente le sequenza di eventi politici e militari che plasmano lo stato che vediamo oggi sulle carte (assieme a tutti i suoi nodi irrisolti ?)
Non si può certo rimediare da un’ennesima bacheca (!), ma tenterò di offrire una cronologia illustrata e ragionata almeno…
Prestare attenzione dunque : la sagoma politico-amministrativa che prende il nome di AFGHANISTAN sugli atlanti è una creatura relativamente recente (per il metro storico). Per esprimerla in modo molto grezzo e oltremodo sintetico, altro non è che una derivazione della decadenza e disfacimento delle potenze regionali circostanti (Persia in primissimo luogo) in età moderna – ultimi 200 anni circa – : da tale evento di lungo termine affiora l’aggregato territoriale fondamentale i cui contorni interni ed esterni sono ulteriormente temprati e rifiniti dalla pressione oceanica di due grandi forze contrapposte ovvero quella zarista da nord, in discesa dall’Asia centrale e quella britannica da sud, in avanzata dal sub-continente indiano……..tra le quali il neonato Afganistan ha la sfortuna di ritrovarsi.
Andiamo in ordine tuttavia, partiamo dal principio.
La scintilla di tutto deflagra tanto, tanto tempo fa (300 anni)…..giusto agli inizi del XVIII° secolo, quando la Persia Safavide incontra una delle sue più gravi crisi sin dalla rinascita imperiale di due secoli e mezzo prima : all’estrema periferia orientale dell’impero – nella zona che oggi sarebbe la fascia più meridionale dell’Afganistan – vi è un variegato complesso tribale autoctono, in generale appartenente all’indoeuropeo (ed iranico) ceppo PASHTUN, tra cui primeggia la tribù dei Ghilzay (غلزی)…..combattenti intrepidi dei deserti di roccia da cui emergono, lontani dallo sfarzo della corte persiana di cui non condividono nemmeno l’islam sciita/duodecimano, rimanendo ancorati alla più tradizionale Sunna (…). Tra quella gente spicca il nobile clan HOTAK (da ricordare) – che si distingue per influenza e ricchezza, tanto che il capo del casato è il rappresentante della città di Kandahar (eccoci) ed interagisce direttamente col governatore inviato dalla capitale : quest’ultimo, un georgiano convertito all’islam (ve ne erano molti nell’amministrazione imperiale) perpetua la tradizione di brutalità dei suoi predecessori fino a provocare una grande rivolta – guidata dal capo della famiglia Hotak – che si innesca nell’anno 1709 del calendario occidentale.
La rivolta inizia a KANDAHAR per l’appunto – dove il governatore viene presto ucciso -, ma anziché rimanere limitata al suo ambito regionale come ci si aspetterebbe, dilaga invece a buona parte dell’areale iranico sotto il controllo safavide, sino a minacciarne le sue più nevralgiche città tra cui la capitale, complice la debolezza del potere centrale : non c’è dubbio che siamo di fronte ad una manifestazione di grandi proporzioni della decadenza imperiale persiana, del capolinea naturale della sua dinastia dopo 250 anni di regno. Una dopo l’altra le varie roccaforti cadono fino al punto da creare una situazione surreale : l’impero safavide è letteralmente divorato dal suo interno da questa improvvisa insurrezione tribale Pashtun che arriva ad occupare buona parte del suo territorio….si parla sui manuali di storia dell’Asia centrale di un “impero HOTAK” di brevissima durata e che prende il nome del condottiero che la orchestra.
Questo stato di disordine interno – analogo forse ai barbari germani già da tempo entro i confini dell’impero romano d’occidente, ma che colgono l’occasione per ribellarvisi invaderlo dal suo interno – durerà lo spazio di una generazione : per una trentina di anni la Persia cerca di ripristinare l’ordine precedente impegnandosi in una lunga e difficile guerra contro questi audaci insorti che già si pongono come difensori di una nuova monarchia. La situazione è ancor più drammatica se si tiene conto che altre potenze – RUSSIA in primis – realizzando lo stato di estrema debolezza in cui versa lo stato safavide si fanno avanti ai 4 punti cardinali conquistando e reclamando regioni di confine (una per tutte la “campagna caspica” di Pietro il grande nel 1721-22 che rischia di strappare allo Scià tutta la costa iranica sul mare Caspio)
L’impero di questo passo potrebbe anche cessare di esistere, si intravede uno smembramento territoriale sempre più inarrestabile……tutto sembra perduto.
Eppure avviene il miracolo : questo miracolo porta il nome di Nader Shah Afshar. Costui è un condottiero militare di immenso genio strategico (pare esista una legge arcana dell’equilibrio nella storia degli stati che fa comparire un salvatore quando si è prossimi al baratro) che rimette in piedi l’impero, invertendo il processo di decadenza in corso (…). Non è persiano (ed anzi è di certo più simile agli insorti Pashtun come cultura guerriera, benchè in realtà lui sia di origine turcomanna, OGHUZ per essere precisi : quei popoli seminomadi di confine da tempo immemore incorporati nelle gerarchie militari persiane. Ammira Tamerlano e lo stesso Gengis che sono suoi modelli) Con lui inizia un lungo ciclo di guerre che tuttavia avranno esito positivo non soltanto salvando la Persia, ma anzi riportandola all’attacco su tutti i fronti prefigurando una versione allargata dell’impero come non esisteva da ere : nel giro di 20 anni di fatto neutralizza tutte le minacce interne ed esterne al paese, respingendo russi, ottomani, indiani da occidente ad oriente (si spinge fino a Bukhara e arriva persino a passare all’offensiva contro l’altrettanto decadente India Mughal, dal canto suo prossima alla colonizzazione anglo-francese)……..ma soprattutto annientando la minaccia HOTAK all’interno che imperversa da decenni.
Per ridurre all’osso una lunga vicenda militare, Nader SCONFIGGE ripetutamente gli insorti pashtun fino a ricacciarli là da dove erano partiti : nel 1738, dopo molti anni di battaglie, arriva alle mura di Kandahar che verrà assediata e presa. Con la caduta della sua capitale, la dinastia Hotak si dissolve e molti dei suoi antichi sostenitori (molti l’avevano già fatto) passano dalla parte di Nader : uno di essi – tra i più fedeli e valorosi – è un generale e capoclan pashtu di nome DURRANI (questo è il nome chiave, ci ritorniamo dieci righe più in basso) . Quest’ultimo ha rimesso insieme l’impero persiano e l’ha reso più forte di prima (di quanto fosse mai stato nella sua fase moderna. Ha letteralmente capovolto la traiettoria storica che pareva instaurata irreversibilmente, portando una nazione dall’orlo della scomparsa sulla mappe alla prospettiva di un nuovo impero continentale) : il paese gli è talmente debitore (e i regnanti precedenti talmente screditati) che è acclamato lui stesso come nuovo Scià e iniziatore di una nuova dinastia che prende il suo nome (Afshar ovvero. Sarà dunque il tempi di “Nader Shah Afshar”).
Non pensiate che vada troppo fuori del seminato : questo interessante excursus di storia persiana è indispensabile per ricostruire la nascita dei potentati che prenderanno poi il nome di Afganistan. Sorvoliamo alcune vicende andando al punto cruciale di svolta : Nader Shah Afshar, nuovo e potente monarca di Persia, cade prematuramente, assassinato in un complotto militare durante una campagna contro i curdi (siamo nell’anno 1747). Con la fine di questo astro della storia militare persiana si esaurisce ipso facto anche lo zenit di espansione territoriale raggiunto per poco tempo : molte regioni da poco conquistate si riprendono l’indipendenza perduta, un po come i regni ellenistico orientali che fanno capolino dopo la morte di Alessandro il macedone, sebbene su scala minore. In realtà l’impero persiano NON si dissolve (l’ascesa di una dinastia Zand stabilizza relativamente le cose), ma ritorna semplicemente ad essere quanto era prima di Nader Shah…..una discreta potenza regionale che non va oltre il suo limite e portata comunque verso la decadenza in un clima di arretratezza rispetto alle grandi potenze dell’occidente che giocano sul piano planetario oramai (…).
In questo clima generale di ridimensionamento persiano dopo un brevissimo zenit di gloria, si forma una nuova entità, anch’essa che porta il nome del proprio fondatore : è in questo momento che ci focalizziamo nuovamente sull’areale specificamente afgano, tornando a quel DURRANI di cui ho accennato (il generale pashtun fedele a Nader)
Ancor prima di proseguire premettiamo che questo Durrani – Ahmad Shāh Durrānī – è oggi considerato il PADRE DELL’AFGANISTAN (inteso come nazione afgana nel senso storico più ampio del termine e non dello stato contemporaneo che abbiamo davanti agli occhi)
Se a qualcuno interessa, mi faccia un cenno che proseguo coi capitoli (con questo caldo procedo solo se ne vale la pena, perdonatemi…)
CONTINUA (?)
FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (2 di 4)
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Allora, ricapitolando il paragrafo precedente : un impero persiano che versa in gravissima crisi (inizio XVIII° sec.) si vede eroso dall’interno da una rivolta tribale PASHTUN che parte da Kandahar nel cuore dell’odierno Afganistan meridionale, e dilaga fino alla stessa capitale imperiale, incapace di domarla o anche solo arginarla. L’emergenza interna rende la Persia safavide vulnerabile anche dall’esterno, facendosi avanti praticamente tutte le potenze confinanti per approfittare del momento – dallo tsar di Russia ai rajah Mughal dell’India – e avvantaggiarsi territorialmente. Sull’orlo del tracollo totale…………le sorti di Persi provvidenzialmente si invertono con l’affermarsi di un leader politico-militare di grande spessore (NADER SHAH, generale di origine turca oghuz in servizio all’impero) : quest’ultimo , praticamente il Napoleone Bonaparte nel contesto persiano della prima metà del 700, modifica il corso della storia ripristinando l’unità del paese sconfiggendo TUTTI gli avversari interni ed esteri in tutti i teatri di guerra. L’azione di Nader è talmente efficace che non soltanto viene riportata la sicurezza (assente sotto la debole dinastia safavide), ma addirittura si ritorna all’attacco e all’espansione ai 4 punti cardinali che fa presagire una nuova età d’oro da Samarkand alla Mesopotamia all’Hindustan (…). Pare sia nato il nuovo Tamerlano dopo secoli. Non a caso manda in pensione la vecchia dinasti a safavide dando inizio alla propria. L’incredibile capovolgimento di situazione non dura oltre la vita di Nader stesso che cade vittima di un complotto di ufficiali persiani, dopo una stagione storica di successi sfolgoranti. Tutto tornerà (quasi) come prima.
Questa serie di eventi ci porta al 1747.
A questo punto facciamo un piccolo passo indietro sottolineando un fatto : NADER (il grande !) nel corso della sua straordinaria ascesa e affermazione porta molti che pure si erano ribellati al decadente impero safavide ad unirsi a lui sotto il suo vessillo vincente. Una tra queste forze erano le tribù ABDALI : trattasi di una parte (la più grande) dei Pashtun ovvero la sua frazione demograficamente più consistente e combattiva. Malgrado la rivolta antipersiana di una generazione prima fosse partita proprio da una tribù pashtun, gli abdali invece si uniranno a Nader Shah una volta compreso la sua forza e il suo genio (a differenza dei suoi predecessori)……arrivando a diventare i suoi più stretti ALLEATI. Tra di essi vi è un giovane di notevoli capacità di nome Ahmad Shāh Durrānī (احمد شاه دراني) .
Lui e il fratello verranno reintegrati come gli altri abdali tra le forze imperiali di Nader, facendo una rapida carriera : al tempo della caduta di Kandahar (che pone fine alla trentennale ribellione pashtun, 1738) ha oramai guadagnato un prestigio tale che da quel momento in poi sarà aiutante di campo dello Scià e successivamente comandante di un corpo d’elite composto di abdali che segue il monarca nella sua campagna contro l’India Mughal (…). Ahmad Durrani è un brillante ufficiale, estremamente apprezzato da Nader. Quando, nel 1747, Nader Shah viene assassinato durante una campagna militare la situazione si fa di nuovo caotica : il breve “super-impero” di Nader si ridimensione rapidamente e svariate sue regioni e provincie conquistate tornano ai possessori oppure cercano l’indipendenza. Quest’ultimo è il caso delle provincie più orientali che occupano l’odierno Afganistan del sud : DURRANI (presente al momento dell’assassinio di Nader) si trova improvvisamente in una situazione di incertezza che tuttavia si chiarisce subito……….considerato estinto con Nader il suo giuramente di fedeltà alla Persia, si allontana dal campo con tutto il suo reggimento di cavalleria portando con sé il sigillo reale del defunto sovrano. Quella stessa estate viene scelto da un grande consiglio (“Ioya Jirga”) di capitribù pashtun come condottiero di tutta la nazione pashtu/afgana.
Questo è letteralmente l’INIZIO. Come leader unico acclamato dalla sua gente, Ahmad Durrani inizia subito la sua opera di conquista, approfittando tra l’altro degli anni di relativa instabilità e debolezza del potere centrale immediatamente successivi alla morte di Nader.
Durrani con una rapida serie di campagne rende definitivamente indipendenti le provincie più orientali dell’impero persiano – corrispondenti all’Afganistan del sud, il cui epicentro era Kandahar – ma questa volta in maniera più stabile rispetto alla ribellione di 40 anni prima ossia con una visione politica assai più definita e concreta : in parole povere cessa l’era dei potentati tribali tributari dell’impero persiano (a volte in rivolta) e inizia l’era di una realtà geopolitica INDIPENDENTE dalla Persia , tanto quanto dall’India Mughal adiacente. Si forma una NAZIONE AFGANA a cavallo tra la Persia imperiale ad ovest e il sub-continente indiano a sud-est : Ahmad Durrani è ritenuto nella storiografia generale come il “pater patriae”.
Durrani si conferma il brillante stratega che già lo Scià persiano aveva notato : nel giro di una manciata di anni non soltanto rende indipendente l’Afganistan propriamente detto all’epoca, ma ne estende i confini, soprattutto ad oriente andando ad intaccare l’areale geopolitico indiano allora ancora sotto lo scettro Mughal (questi già in decadenza in realtà, duramente provati dal confronto con i nativi potentati Maharata nonché con le avanguardie della colonizzazione occidentale sia inglese che francese). Tra il 1747 e il 1755 – ossia alla vigilia della guerra dei 7 anni in Europa e nord America – Durrani penetra in profondità a sud, attacca 4 volte di seguito l’India e arriva a saccheggiare DELHI, staccando fisicamente una larga porzione dell’India Mughal ai suoi legittimi regnanti : una fascia territoriale equivalente all’odierno PAKISTAN (!) più il Kashmir entra a far parte di quello che prende ufficialmente il nome di “IMPERO DURRANI”.
In breve è venuta ad affermarsi in un brevissimo lasso di tempo un’entità politica distinta da Persia e India e temuta da entrambi : in particolare dall’INDIA ora, verso le cui ampie risorse (scarsamente difese) i condottieri afgani paiono attratti. Attorno alla metà del XVIII° sec. i monarchi indiani (Maharati o Mughal che siano) paiono impotenti contro i raid di questi predoni del nord, comparativamente tanto quanto i regni indiani dell’antichità più remota lo furono di fronte alle ondate d’invasione indo-aria (…). Persino la CINA della dinastia Quing è nel mirino dei Durrani che sperano di far insorgere i sudditi musulmani e turchi del celeste impero (le campagne contro l’India tuttavia prosciugano già tutte le risorse a disposizione e non si potrà continuare, dando preminenza a quest’ultima). L’Hindu Kush è a portata di mano per qualsiasi invasione, così come la stessa Delhi sembra essere bersaglio facile di un blitz di questi cavalieri degli altipiani iranici : orbene FARE ATTENZIONE ! E’ da questo momento che si inizia a percepire l’Afganistan (o impero Durrani o comunque lo si voglia appellare) come minaccia per il sub-continente indiano o chiunque lo controlli. Dal punto di vista indiano (e quindi BRITANNICO, dato che nel secolo a venire il “protettore” dell’areale sarà la corona d’Inghilterra) l’entità afgana è equiparabile ad un falco minaccioso….sparuto in termini numerici, ma capace di penetrare all’improvviso sino ai punti più nevralgici del grande HINDUSTAN : non una forza militare sufficiente ad annettere certo………ma sufficiente eventualmente ad innescare pericolose rivolte tra la popolazione autoctona indiana contro i suoi governanti inglesi (ed in questa opera di destabilizzazione eventualmente “aiutato” da un’ulteriore potenza europea o euroasiatica come la Russia zarista : ecco, dal punto di vista di quest’ultima invece, l’entità afgana assume, viceversa, le sembianze di un’utile lancia puntata contro il cuore dell’impero indiano di proprietà del rivale britannico. Una “lancia” che può essere aiutata….). La dinastia Durrani dura per generazioni : il suo successore stabilirà per la prima volta KABUL come capitale del regno (e Peshawar come capitale d’inverno).
A questo periodo risalgono anche i più pesanti attriti con entità non islamiche : fondamentale il confronto armato tra afgani e SIKH nel nord dell’India. Allora iniziano sistematiche distruzioni a danno della cultura induista Sikh cui seguirà una fase di conflitti regolari che terminano solo con la perdita del Kashmir nel 1819 (verso la fine dell’impero Durrani). Si tratta forse dei prodromi di un’animosità che ancora oggi si nota nella popolazione musulmana afgana contro i simboli del buddismo (?) Durrani medesimo scompare nel 1772 lasciando la sua importante eredità e generazioni di successori per i 50 anni a venire, prima che nuovi contesti storici mettano al trono una nuova dinastia : siamo alle porte di un nuovo secolo……….che vede l’uomo occidentale inserirsi nella pugna monopolizzandola al punto di farla divenire un proprio riflesso (ma nel far questo, sfruttando e servendosi di conflitti secolari sempre esistiti tra popolazioni confinanti e rivali come quelli che abbiamo intravisto)

Gagliano Giuseppe. Anarchici e spie nell’ottocento in Italia

Gagliano Giuseppe. Anarchici e spie nell’ottocento in Italia

Il saggio dello storico italiano Piero Brunello intitolato “Storie di anarchici e di spie“ (Donzelli editore, 2009) non è solo utile per comprendere il modus operandi delle prefetture delle questure nel controllare i circoli socialisti e anarchici italiani dell’ottocento, ma è soprattutto utile per comprendere l’esistenza di una indiscutibile continuità tra le modalità operative della polizia politica ottocentesca ,quella del regime fascista ma soprattutto del regime repubblicano.Vediamo sinteticamente quali sono questi aspetti di continuità. In primo luogo le questure e le prefetture hanno sempre avuto a loro disposizione fondi riservati per i confidenti e gli infiltrati; in secondo luogo allo scopo di controllare l’attendibilità delle informazioni fornite dai loro confidenti, sovente sia le questure che le prefetture ,infiltravano nelle stesse organizzazioni più di un confidente all’insaputa l’uno dell’altro per avere un credibile controllo incrociato delle attendibilità delle informazioni fornite.In terzo luogo la loro attività era abbastanza ampia e capillare da consentirgli un monitoraggio sistematico dell’attività politiche e pubblicistiche dei circoli socialisti anarchici italiani. In quarto luogo esistevano spesso servizi di sicurezza per così dire autonomi e come fare ad esempio posto in essere da Giuseppe Basso vice console italiano a Ginevra che naturalmente era strettamente collegato al ministero degli interni. In quinto luogo ,attraverso una sorveglianza perlopiù inavvertita, venivano prodotte segnalazioni, fotografie, rapporti, prospetti, schede, bollettini, registri, fascicoli e archivi.Lo scopo quindi era osservare, prevenire, reprimere e scoprire.Solo in un secondo momento reprimere attraverso i canali ufficiali delle procure.Questa attività di sorveglianza era possibile anche grazie al fatto che gli ispettori ma anche i carabinieri tenevano d’occhio le osterie, i bassifondi, i luoghi di assembramento e di ritrovo popolare.Naturalmente uno dei pericoli maggiori era l’esistenza di informatori bugiardi, doppio o triplo giochisti ma soprattutto millantatori e fanfaroni.Come osserva puntualmente lo storico italiano ,tra il 1880 e il 1881 ,la presenza di Giovanni Bolis alla direzione dei servizi di pubblica sicurezza costituirà una svolta importante perché verrà istituito un ufficio politico che segna una fase importante nella organizzazione della polizia in Italia.Grazie a lui infatti verrà istituito un registro biografico delle persone sospette e le questure incominceranno a usare le foto segnaletiche e ad assumere agenti in borghese organizzando un servizio di polizia internazionale in collaborazione con il ministro degli affari esteri. Quando sorgerà l’Ovra questa trovò a sua disposizione già sistemi di sorveglianza ben collaudati, procedure di schedatura efficienti, metodi di archiviazione, strumenti preventivi e repressivi insomma una routine burocratica già ampiamente rodata durante gli anni dell’unità d’Italia.Sia durante il regime monarchico italiano che durante il regime fascista la polizia italiana spiava, faceva spiare, raccoglieva voci e pettegolezzi in modo sistematico, quotidianamente, pagando informatori e confidenti e distribuendo fondi segreti .Insomma vi erano spie al servizio di ispettori, di questori, di prefetti e di consoli.Ma tutto ciò era possibile anche grazie alla collaborazione del direttore postale in Italia che inviava la corrispondenza su richiesta della polizia. Tuttavia buona parte di questa attività posta in essere dalla polizia italiana era, seppure nelle sue linee generali, speculare a quella attuata dalla Repubblica di Venezia durante il 500 a dimostrazione del fatto che, sul piano storico, esiste una secolare continuità nel modo di procedere da parte delle istituzioni politiche nei confronti degli avversari reali o potenziali. Un altro aspetto, certamente rilevante, era la capacità attraverso confidenti o informatori di fomentare i contrasti o le rivalità interne allo scopo di indebolire sul piano politico i movimenti considerati sovversivi. I pagamenti agli informatori e ai confidenti erano diversamente modulati a seconda della qualità dell’informazione . Un altro aspetto importante è l’impunità e la segretezza di cui dovevano necessariamente godere i confidenti. Ma vi erano certamente altre regole ben individuate dall’autore a pagina 131 e fra queste le cosiddette 10 regole come le chiama l’autore del saggio.Vediamone alcune: le istituzioni dello Stato tendono ad assicurare l’impunità del confidente, le singole notizie viaggiano in via gerarchica dal basso verso l’alto, il confidente migliore è quello che non sa di esserlo, un buon ispettore di polizia è innanzitutto un buon archivista e infine un individuo è un confidente per un ispettore di polizia ma può essere un rivoluzionario per tutti gli altri Ispettori.

Romanomica 4: offerta, domanda e distribuzione _ Di Michael Severance

L’Impero Romano era un consumatore insaziabile. È improbabile che qualsiasi altra civiltà antica abbia in passato eguagliato il suo immenso appetito per le risorse naturali, i prodotti agricoli, i servizi e l’artigianato. Che un’economia protoindustriale come quella di Roma possa soddisfare una domanda così alta di centinaia di milioni di cittadini per mille anni è un’impresa.

Michele Separazione. Articolo originale pubblicato su Transatlantic Blog, Acton Institute , 15 aprile 2021

Alban Wilfert traduzione per Conflits

Naturalmente, come in ogni lunga era economica, c’erano carenze permanenti, bolle, correzioni e crisi. Ma, nel complesso, l’economia romana rimase stabile, anche grazie all’efficienza della distribuzione che consentiva all’offerta di soddisfare la domanda. Così, nessuno era affamato o privato dei beni di prima necessità per ragioni puramente logistiche.

Dal lato dell’“offerta”, un settore, a quanto pare, non è mai mancato: il lavoro manuale a basso costo. Tutti sanno che Roma dipendeva dal lavoro degli schiavi per la maggior parte dei lavori, grandi e piccoli, che si trattasse di estrazione mineraria, agricoltura, esercito, edilizia, cucina, pulizia e persino compiti di segreteria. Il numero degli schiavi disponibili per tutto il lavoro richiesto aumentava con il numero delle conquiste e, per lo stesso motivo, dei prigionieri costretti alla servitù per anni, se non per tutta la vita.

popolazione romana

Uno studio di Kyle Harper ci ha detto che al culmine dell’impero, circa il 15% della popolazione di Roma era schiava, ovvero 9 milioni di schiavi per 60 milioni di persone. Questo è un numero astronomico, che rappresenta quasi la metà della popolazione attiva dell’attuale Italia (22,8 milioni) e la stessa identica popolazione (60,3 milioni) della Roma dell’età dell’oro. In euro così come circolano oggi a Roma, l’offerta di lavoro forzato varrebbe 394,2 miliardi annui (considerando l’attuale stipendio medio annuo lordo italiano di 43.800 euro nella Città Eterna).

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Naturalmente, il lavoro forzato di Roma non era senza costi per i suoi “proprietari”. Gli schiavi dovevano essere nutriti, vestiti, alloggiati e curati medicamente, anche se tutto ciò veniva fatto al minor costo possibile per riassegnare, in modo disumano, il capitale ad altri investimenti o, peggio, a consumi di più ordine edonistico come organizzare grandi cene e orge alcoliche. In particolare, consentiva ai liberi cittadini di avere molto tempo libero da dedicare allo studio di altre professioni, che non erano esercitate dai loro schiavi. In questo modo si liberava una grande offerta di manodopera “professionale”, competitiva per altre specializzazioni nei campi dell’arte, dell’architettura, dell’ingegneria, della medicina, dell’istruzione e della politica. Finalmente, ogni volta che la domanda di schiavi aumentava, l’offerta poteva essere aumentata di conseguenza conquistando nuove terre e incatenando nuovi prigionieri. Tuttavia, era più facile acquistare schiavi da altre terre e/o da pirati che fungevano regolarmente da “capitani” del traffico di esseri umani.

Un altro forte settore dell’offerta è stato quello delle risorse naturali. Come accennato in precedenza, l’Impero Romano, alla sua massima espansione (nel II secolo), contava 60 milioni di abitanti. Sono tante le persone che hanno bisogno di materie prime, ma non è niente in confronto agli 1,1 miliardi di persone che oggi vivono all’incirca nello stesso vasto territorio: 743 milioni in Europa, 250 milioni in Nord Africa e 150 milioni nel Mediterraneo orientale. In epoca romana, c’erano molte più foreste vergini, giacimenti minerari non sfruttati, vene inesauribili di metalli preziosi e letteralmente intere montagne di marmo, per un totale di appena il 5,4% della popolazione regionale totale. In confronto, l’offerta totale e assoluta ha superato di gran lunga, di gran lunga,

Diamo un’occhiata ad alcune statistiche chiave sull’offerta. In termini di produzione mineraria di metalli chiave, la produzione massima può essere riassunta come segue (dall’estrazione più alta a quella più bassa) in tonnellate all’anno:

Ferro: 82.500 tonnellate;

Piombo: 80.000 tonnellate;

Rame: 15.000 tonnellate;

Argento: 200 tonnellate;

Oro: 9 tonnellate.

moneta romana

È interessante osservare l’elevata richiesta di ferro e piombo . Questi erano i capisaldi dell’impero. Il ferro era usato, proprio come oggi, come metallo di base, servendo nello sviluppo di molti oggetti della vita quotidiana (pentole, padelle, utensili), equipaggiamento militare (spade, scudi, armature, palle da fionda) e costruzione (chiodi, giunti, elementi di fissaggio, alberi). Piombo ( plumbum) è stato utilizzato in tutte le tubature, finché i risultati dell’avvelenamento da piombo non sono stati collegati ai sistemi idrici pubblici e ai grandi recipienti di ebollizione. La qualità del piombo romano era così durevole che ancora oggi si trovano pipe perfettamente intatte con i nomi degli imperatori romani. Inoltre, il piombo aveva altri usi simili a quelli del ferro. Secondo il sito web dell’UNRV:

Le monete di bronzo di epoca romana potevano contenere fino al 30% di piombo. I romani usavano il piombo come base per la pittura, che è continuata fino a poco tempo, insieme ad altri prodotti per la casa come cosmetici e piatti da portata.

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idraulico romano. (Credito fotografico: Flickr.)

I romani avevano un uso interessante del plumbus cristallizzato (acetato di piombo, o zucchero di piombo): serviva come dolcificante artificiale. I viticoltori avevano notato che, riscaldando il mosto d’uva in tini di piombo, ottenevano un vino di ottima qualità, senza bisogno del costoso miele che gli antichi tradizionalmente aggiungevano, con l’acqua, ai loro bicchieri di vino. I romani, come nel famoso libro di cucina di Apicio, raccomandavano lo zucchero al piombo in molte ricette – piatti che sarebbero letteralmente “da morire”, poiché milioni di romani morivano per ingestione prolungata di piombo (falsi strati fetali, malattie del fegato, tumori cerebrali o renali). ).

Zucchero al piombo utilizzato dai romani nel vino e nel cibo. (Credito fotografico: Dormroomchemist su Wikipedia, CC BY 3.0.)

La distribuzione di tonnellate di risorse naturali e raccolti, se non avveniva in un mercato locale, era assicurata dalle navi mercantili che attraccavano nei principali porti, per essere scaricate e ridistribuite via terra attraverso la vasta rete di strade ben costruite da Roma. . Secondo HistoryLink :

Le merci venivano continuamente trasportate attraverso l’Impero Romano. Il mezzo più efficiente per il trasporto delle merci era il mare: il tipo di nave comunemente usato dai romani era noto come corbitas , “nave a scafo tondo con prua e poppa ricurve […] [che] poteva trasportare merci di peso compreso tra 70 e 350 tonnellate. Le navi potevano trasportare fino a seicento passeggeri o anche seimila e anfore (orci di argilla) di vino, olio o altri liquidi.

Si calcola che per trasportare le merci da Alessandria al porto di Ostia a Roma ci volessero due o tre settimane. Altre importanti rotte marittime includevano quelle da Roma a Cesarea (20 giorni), da Alessandria ad Antiochia (10 giorni), da Bisanzio a Gaza (12 giorni) e da Roma a Cartagine (5 giorni).

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Altri esempi possono essere trovati esplorando l’Orbis della Stanford University, il “Google maps” dell’antichità. Questo software interattivo calcola il tempo, i costi di viaggio (in barca, carretto, carro, asino, a piedi) e le distanze più brevi tra le principali città imperiali romane. Secondo Orbis, il viaggio più veloce tra Londinium e Atene in estate sarebbe un misto di rotte terrestri e marittime: ci sarebbero 39 giorni su 4.410 chilometri, al costo di 16 denari per chilogrammo di grano (16.000 denari per tonnellata). Quando Gesù era di questo mondo, un denarovaleva circa 5 dollari (USD), quindi una tonnellata di grano trasportata tra Londra e Atene costava circa 80.000 dollari: è proprio per questo che i romani evitavano le spedizioni su lunghe distanze, in particolare per rispettare la necessaria redditività della rivendita di prodotti agricoli a basso costo (mentre i lunghi viaggi erano economicamente giustificabili per il loro alto valore di rivendita). Ad esempio, una grande spedizione di grano egiziano da Alessandria è facilmente giustificabile via mare a Roma. In 21 giorni e 2.600 chilometri, il costo era di soli 2,8 denari per chilogrammo (2.800 denari o 14.000 dollari USA per tonnellata).

Orbis, la “Google maps of Antiquity” (Photo credit: Screenshot di orbis.stanford.edu.)

Piuttosto, il trasporto marittimo rapido ed economico è stato effettuato su scala regionale o tra province limitrofe (ad esempio Gallia e Hispania) e città vicine (Roma e Neapolis), tanto più che i viaggi marittimi di più giorni coinvolti assumono un alto mari, le sue tempeste imprevedibili e i suoi pirati altamente prevedibili. Le lunghe strade di terra, sebbene generalmente più sicure, presentavano anche problemi: banditi, guasti ai carri e affaticamento generale di animali da soma e cavalli, soprattutto durante la calda stagione estiva.

Per garantire la distribuzione di grandi quantità, i prodotti potrebbero essere assicurati e spediti ai porti vicini. La Roma imperiale aveva non meno di 43 principali porti commerciali (vedi mappa sotto), che si estendevano da Londinium a Tiro , nell’attuale Libano. L’ideale era trasportare i prodotti lungo le coste fino alla destinazione più vicina, a meno che un lungo viaggio in alto mare non fosse considerato un rischio. Per guidare le navi mercantili agli approdi appropriati, i romani installarono una serie di fari (vedi sotto), oltre a numerose torri di avvistamento, che servivano a impedire l’arrivo di qualsiasi invasore o pirata straniero.

Panoramica dei porti romani con i loro fari. (Credito fotografico: screenshot da romanports.org .)

Quali lezioni possiamo trarre da tutto questo? Innanzitutto, per gli antichi come per i contemporanei, negli affari tempus pecunia è : il tempo è denaro. Le rotte marittime più lunghe e meno efficienti hanno naturalmente comportato costi di distribuzione più elevati, che sono stati (e sono tuttora) trasferiti alla maggior parte dei consumatori plebei. Come nei nostri ipotetici esempi, è molto improbabile che i romani finanziassero il grano da Londra prima di pagare il grano spedito dalla valle del Nilo.Ciò era particolarmente vero in un impero in cui la stragrande maggioranza della popolazione non superava il livello di sussistenza. È vero che i ricchi patrizi e le tesorerie imperiali avevano abbastanza denaro residuo da spendere, quindi le forniture i cui costi generali erano elevati a causa del trasporto interregionale non incidevano così tanto sul loro potere d’acquisto. Per eccellenza, questo destino era riservato a prodotti di lusso come spezie orientali e pietre preziose.

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In secondo luogo, non esistevano moderne polizze assicurative che consentissero ai mercanti di correre grandi rischi noleggiando rotte pericolose in alto mare in caso di maltempo. In effetti, i proprietari di navi mercantili consideravano alto il rischio solo se avevano la certezza di un’elevata redditività.

Infine, una legge classica dell’economia era vera 2000 anni fa come lo è oggi: in assenza di domanda, c’è una diminuzione proporzionale nella ricerca di beni da offrire (nuove miniere, nuova terra fertile, nuova manodopera). La domanda era costante nella rapace società dei consumi dell’Impero, che quindi si espandeva per soddisfarla, creando nel contempo modelli di business di massima efficienza per continuare a soddisfare le esigenze dei suoi cittadini.

I romani avevano un grosso problema: non mettevano in dubbio la validità di certe esigenze. Non ci sono mai stati dubbi sul piombo, nonostante la sua abbondanza a buon mercato, quando c’erano così tante malattie legate, a quanto pare, all’approvvigionamento idrico? I romani hanno cambiato le loro attrezzature idrauliche? Hanno dedicato ricerche scientifiche allo studio degli effetti dannosi di questo metallo a buon mercato? No, perché era così economico e ha fatto il lavoro. Il pensiero economico farà eco a tali rischi morali solo quando una civiltà cristiana avrà chiesto agli imprenditori più che semplici perseguimenti di profitto ed efficienza, ma soprattutto la fornitura di prodotti e servizi oggettivamente buoni , in grado di portare un vero sviluppo umano.

https://www.revueconflits.com/michael-severance-acton-institute-economie-rome/

Romanomica 3: vecchi settori di mercato, Di Michael Severance

Questa serie “Romenomics” mira a studiare il commercio nell’antica Roma, includendo alcuni dettagli unici, umoristici e illuminanti, al fine di apprezzare meglio il presente economico.

Un articolo di Michael Severance per Acton Institute.

Alban Wilfert traduzione per Conflits

 

I primi due saggi della collana Romenomics hanno offerto l’occasione per riflettere sul lavoro umano e sui luoghi del commercio nell’antica Roma. Non è stato facile, vista la quantità di documenti persi e le sedi ufficiali distrutte. Dovevamo essere fantasiosi. Il compito di oggi, identificare i principali settori dell’economia di Caput Mundi, è molto più facile, anche se bisognerà accontentarsi di congetture quando si forniscono dettagli, come sulla produzione lorda, e fare qualche ricerca in più.

In sintesi, l’agricoltura è sempre stata il più grande settore economico dell’antica Roma. Il suo ambiente rurale ha visto convivere questa attività con l’estrazione mineraria, il legname e il bestiame. Anche le industrie militari e di supporto erano una parte importante della torta economica. Certo, c’era quello che oggi chiamiamo commercio al dettaglio (i negozi, bancarelle e mercati aperti di cui abbiamo parlato nel blog precedente) e il settore dei trasporti (spedizioni, carri, animali da soma, strade) che hanno permesso di trasportare le merci ai mercati, vicini o lontani. Nessuna economia, nemmeno quella dell’antica Roma, può funzionare senza un settore finanziario, che vanno dalla banca alla valuta, raccolta di pagamenti e cambio. Infine, Roma non sarebbe stata Roma senza le sue magnifiche opere d’arte, architettura e opere pubbliche come templi, stadi, anfiteatri, terme, ecc. che ha sostenuto i settori della religione, dello spettacolo, della ricreazione e dello sport.

Pensateci: come avrebbero potuto gli imperatori promettere di distribuire milioni di pani per le loro popolari panem e circense senza fare affidamento sulle massicce consegne di grano che arrivavano giornalmente a Roma? Si produceva un’ampia varietà di cereali da distribuire sui carri del pane durante i giochi circensi. Il pane era l’alimento base degli antichi, così come la pasta lo è per i romani moderni. Inoltre i cereali venivano utilizzati nella preparazione della pappa calda quotidiana, i puls , essiccati, sbriciolati, mescolati alle zuppe e utilizzati in vari dolci. Circa il 70-80% dell’apporto calorico giornaliero di Roma riguardava alcuni cereali, in una forma o nell’altra.

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È impossibile calcolare il numero esatto di tonnellate di grano prodotte, spedite e distribuite ogni anno nell’antica Roma. Eppure, come giustamente nota il sito web di UNRV History , Roma non avrebbe potuto svilupparsi senza di loro:

La necessità di assicurare l’approvvigionamento di grano alle province fu uno dei principali fattori che avrebbero portato all’espansione e alle conquiste dello stato romano. Tra queste conquiste ci sono le province dell’Egitto, della Sicilia e della Tunisia in Nord Africa.

Come abbiamo visto nella seconda parte, Ostia e altri porti marittimi romani erano pieni di horrea , enormi installazioni in mattoni per lo stoccaggio e la distribuzione. Erano pronti, a qualsiasi ora, a ricevere centinaia di tonnellate di grano che potevano arrivare via mare. Per paura dell’invasione di muffe o roditori, i cereali non venivano mai conservati a lungo.

Mentre i cereali facevano la parte del leone nella dieta romana, il secondo prodotto agricolo più prezioso era l’olio d’oliva, al 10%. Il resto consisteva in una varietà di verdure, erbe, noci e frutta, comprese bevande alla frutta come l’onnipresente vinum , che era spesso diluito con acqua e addolcito con miele. Proprio come oggi, le culture tipiche romane comprendevano grano, orzo, carciofi, cipolle, sedano, basilico, rosmarino, asparagi, finocchi, capperi, cavoli, aglio, fichi, albicocche, prugne, pesche e uva, di cui esistevano un’infinità di varietà, alcune delle quali si sono conservate nei secoli, come il vinum moscatum (vino da dessert con moscato) evinum caesanum ( Cesanese vino rosso , che è di gran moda oggi a Roma e rivaleggia con il famoso Chianti Vini di Toscana).

Pubblicità per il vino nell’antica Roma.

L’agricoltura era così importante che una famiglia relativamente numerosa che viveva in zone rurali, lontane da qualsiasi centro commerciale come i fori , aveva bisogno di circa 20 iugera (circa sei ettari) di terreno agricolo per l’autosufficienza. Spesso un terzo della produzione della loro terra veniva pagato in affitto a ricchi patrizi, quando non appartenevano direttamente ai contadini plebei.

Va anche notato che carne, pollame e pesce erano costosi e la maggior parte dei romani non ne mangiava in grandi quantità, quindi questa zona non era molto grande. Per la maggior parte veniva consumato solo nei ristoranti o per occasioni speciali.

Infine, l’economia rurale era in parte legata ad altre risorse naturali. Vogliamo principalmente parlare di legname da costruzione e da miniera, compreso ferro, rame, argento, oro e stagno. Il legno era usato, come oggi, nelle case (travi del tetto) e per i mobili (letti, scrivanie, sedie, piani di lavoro) ma anche, a differenza di oggi, per i trasporti (cargo, navi da guerra, carri, carri). Il legno buono era l'”acciaio” dell’antica Roma ed era così richiesto che interi boschi di querce e castagni furono rasi al suolo nella Roma rurale, causando enormi alluvioni e frane. L’estrazione mineraria romana inflisse danni simili alla terra, perché i romani usavano la tecnica dell’estrazione idraulica per spogliare il terriccio (lavando il terreno) e trovare vene e depositi poco profondi. Questa tecnica ha letteralmente rovinato intere montagne sull’altare della produzione massiccia:

L’estrazione idraulica, che Plinio chiamava ruina montium (“rovina di montagna”), permetteva di estrarre metalli vili e metalli preziosi su scala protoindustriale. La produzione annua totale di ferro è stata stimata in 82.500 tonnellate.

Il lavaggio del suolo ha permesso ai romani di portare l’attività mineraria a livelli protoindustriali, che non erano eguagliati prima della rivoluzione industriale, mentre estraevano la maggior parte della ricchezza una volta disponibile in Spagna (oro, argento, stagno, piombo), Francia (oro e argento), Turchia (oro, argento, stagno), le regioni del Danubio (oro e argento) e la Gran Bretagna (carbone e ferro). La produzione di ferro e piombo ha raggiunto livelli incredibili, con oltre 80.000 tonnellate all’anno.

Un’antica cava romana taglia i fianchi di una montagna. (Credito fotografico: Carole. CC BY-SA 2.0.)

Cave di granito e marmo hanno avuto un ruolo nella ruina montium , ritagliando interi pendii per soddisfare la colossale richiesta di edifici civili come templi, stadi, anfiteatri e il settore delle arti decorative. I mercantili di legno erano spesso pericolosamente sovraccarichi e si capovolgevano in acque un po’ agitate. Lo stesso valeva per le navi contenenti minerale di ferro e piombo, spedite a fonderie che lavoravano giorno e notte per soddisfare gli ordini costanti di attrezzature e armi militari. La stragrande maggioranza dei metalli preziosi, come argento e oro, veniva trasportata con maggiore attenzione su navi più piccole e accompagnata da guardie alle casse imperiali.

Le questioni monetarie nell’antica Roma non erano molto diverse da quelle odierne, sebbene i metodi di gestione, raccolta e prestito fossero diversi. C’erano banche (che conservavano depositi e concedevano prestiti), tesorerie pubbliche e sistemi di riscossione delle imposte. C’erano valute e cambi di valuta. C’era anche una forma di finanza aziendale.

Prestare denaro non è stato facile. Inizialmente venivano concessi prestiti di modesto importo, principalmente nell’ambito di “  gentlemen’s agreement  ” orali. La garanzia per questo tipo di piccolo prestito si basava sulla reputazione della persona. Più tardi, quando si trattava di maggiori somme di denaro, abbiamo assistito allo sviluppo di accordi scritti. I contratti su papiro erano redatti in due copie, una data al beneficiario del prestito e la seconda sigillata tra tavolette di cera per conservare il chirographum , atto di riconoscimento di debito. La garanzia era ora chiaramente stipulata: casa, terra, bestiame, anche schiavi.

Per prestiti commerciali su larga scala, le famiglie patrizie benestanti agivano al di fuori delle banche consolidando le loro finanze, creando una societas , cioè una piccola impresa o società. Oggi italiani e francesi usano ancora la stessa parola (rispettivamente società e società), ma le società quotate non esistevano.

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In secondo luogo, i depositi di denaro privato erano tenuti nei templi, non nelle “banche” (un bancus , da cui deriva la parola “banca”, era un tavolo di legno usato dai cambiavalute). Va da sé che la banca di un cambiavalute non era mai molto lontana da un tempio, a volte sui gradini o sotto il portico. Questa era una cattiva abitudine culturale che spesso violava il pio rispetto per l’uso religioso dei templi, come si è visto quando Gesù ha rovesciato con rabbia i tavoli dei cambiavalute all’esterno del tempio ebraico.

I depositi erano custoditi nei sotterranei dei templi e custoditi da militari e sicurezza privata. Poiché i templi mantenevano fuochi sacri, rischiavano di bruciare. I banchieri hanno quindi diversificato i loro rischi distribuendo i loro depositi su più templi diversi, una strategia non dissimile da quella di avere più “filiali bancarie”. Anche i tesori e le casse dello Stato usavano i templi per tenere al sicuro il denaro, dando un altro significato alla frase che il Tesoro degli Stati Uniti stampa sulle note della Federal Reserve: ”  In God we trust  “.

Nella città di Roma, il Tempio di Saturno era il tesoro principale, o aerarium , le cui colonne sono ancora visibili a pochi metri dalla Curia (palazzo del Senato) nel foro. I quaestores , i funzionari del Senato e del Tesoro, supervisione fondi pubblici registrati nella vicina Tabularium, dove le tasse ( tributi ) sono stati inviati dopo essere stati raccolti da pubblicani che ha officiato con contratto privato e sono stati detestava. Lì, i tributisono stati contati e assegnati ai progetti. Il tempio di Giugno Moneta, situato sul Campidoglio sopra il Foro Romano, fungeva da zecca. La posizione di questo tempio, che oggi è la Chiesa di Santa Maria dell’Altare del Cielo (Ara Coeli), era come il Forte Knox del suo tempo.

Il Tempio di Saturno, dove si trovava il Tesoro Imperiale (Photo credit: Michael Severance).

Quando pensiamo a Roma, la prima immagine che ci viene in mente è quella dei resti delle più grandi opere pubbliche che furono miracoli di ingegneria civile, come il Pantheon e il Colosseo. Si stima che nell’età d’oro di Roma, un terzo dell’economia romana ruotasse attorno a progetti di edilizia pubblica di infrastrutture (acquedotti, pozzi, fognature), logistica (porti, strade, ponti), spettacolo (anfiteatri, stadi, arene), religione (templi, altari votivi, statue), igiene e salute (terme, palestre), edifici governativi (curia, tesori, uffici contabili) e shopping (mercati e centri commerciali).

Il più grande patrimonio di opere pubbliche di Roma è il suo sistema viario (molto del quale è ancora oggi in uso). Le strade romane consentivano una distribuzione del commercio relativamente rapida, sicura ed efficiente. Per riassumere la “road map romana”, per la quale è stato necessario mobilitare migliaia di lavoratori e miliardi di tonnellate di selciato:

29 strade militari lasciavano la capitale come tanti raggi di sole… e le 113 province dell’Impero erano collegate tra loro da 372 strade principali. L’intera [rete] consisteva di oltre 400.000 chilometri (250.000 miglia) di strade, di cui oltre 80.500 chilometri (50.000 miglia) erano lastricati di pietre… Molte strade romane sono sopravvissute per millenni e alcune sono oggi coperte da strade moderne.

Adriano e Traiano furono i protagonisti dell’espansione della sovrastruttura di Roma. L’impero aveva costruito più di 230 anfiteatri che potevano ospitare almeno 7.000 persone, centinaia di arene di gladiatori, circhi per le corse dei carri la cui capacità raggiungeva le 50.000 e le 250.000 persone. La città di Roma aveva undici acquedotti che si estendevano per oltre 400 chilometri, fornendo acqua dolce a un milione di persone ogni giorno. Il vecchio detto “Roma non fu costruita in un giorno” si riferisce agli anni (se non decenni) necessari per completare questa imponente opera pubblica. Ad esempio, la costruzione del Colosseo ha richiesto 10 anni, il Pantheon 12 anni, le Terme di Diocleziano 8 anni e il Foro Romano.si è sviluppata nell’arco di diverse centinaia di anni, proprio come le strade romane. La “stagione dei cantieri” è durata tutto l’anno.

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Infine, i Romani non badarono a spese e nessun materiale nel campo dell’arte. I musei italiani traboccano di arte romana di ogni genere. Usavano bronzo, argento, oro, terracotta, avorio, piombo, legno, marmo, pietra comune e pietre preziose. Realizzarono statue, mosaici, sarcofagi, gioielli, affreschi, rilievi, archi trionfali e colonne. Nulla sfugge alla creazione artistica, nemmeno un’imponente vasca scolpita nel più raro marmo di porfido egiziano (il cui valore all’epoca era quello del platino) per la Casa dell’Oro di Nerone. Oggi è in mostra nei Musei Vaticani, insieme al sontuoso pavimento a mosaico originale.

 

La vasca da bagno di Nerone. (Credito fotografico: Dennis Jarvis. CC BY-SA 2.0.)

L’espressione ”  veni, vidi, vici  ” potrebbe benissimo essere applicata metaforicamente al campo dell’arte, in quanto i romani ammiravano, conquistavano e sviluppavano le tradizioni artistiche ellenistiche, etrusche e mediorientali e le trasponevano su scala commerciale. . Patrizi e imperatori erano grandi “consumatori” d’arte, spendendo l’equivalente di miliardi di dollari ogni anno per adornare le loro ville, edifici pubblici e mausolei con capolavori artistici.

Quello che ci insegnano i maggiori settori commerciali romani è che più è grande, meglio è – e non solo migliore, ma genuinamente necessaria al servizio di un impero gigantesco con un appetito infinito per la costruzione e l’ espansione. Pensare “in grande” non era tutto per Roma: era necessario anche pensare in modo rapido ed efficiente per soddisfare le esigenze delle industrie che spesso consumavano più velocemente di quanto potessero produrre. Questo vale ancora oggi per l’industria globale.

Successivamente, bisognerà attendere la prima rivoluzione industriale per vedere i suddetti settori raggiungere tali livelli: quando la moda era poi tornata, in Europa, alla costruzione di imperi. Inglesi, francesi, spagnoli e portoghesi cercavano all’estero risorse dalle Americhe, dall’Asia e dall’Africa, soprattutto per ricostituire i materiali naturali che si stavano esaurendo nei loro paesi di origine. Ironia della sorte, spesso queste stesse risorse erano già il risultato del saccheggio di un vecchio impero.

Il fallimento dei romani non è stato tanto nello sviluppo delle loro industrie quanto nella sostenibilità di queste e nel loro rispetto per la natura, una sfida che ancora oggi dobbiamo affrontare. Oggi come ieri, bisogna evitare la ruina montium , come osservava Plinio, mentre si cercavano nuove vette di prosperità industriale.

https://www.revueconflits.com/romenomics-commerce-dans-la-rome-antique-mondialisation-aujourd-hui-3/

Romanomics 1: Il commercio nell’antica Roma, la globalizzazione oggi, di Michael Severance

Questa serie “Romenomics” mira a studiare il commercio nell’antica Roma, includendo alcuni dettagli unici, divertenti e illuminanti, al fine di apprezzare meglio il presente economico.

Un articolo di Michael Severance per Acton Institute.

Alban Wilfert traduzione per Conflits

 

La Caput Mundi non è sempre stata al vertice dell’economia. Gli 11 secoli di esistenza dell’antica Roma furono quelli di un lungo e faticoso viaggio. Quando fu fondata nel 753 a.C., fece i primi passi come un’ambiziosa rete di villaggi. Successivamente, ha dimostrato la sua potenza politica durante un’inarrestabile espansione repubblicana nel bacino del Mediterraneo per mezzo millennio. Infine, per cinque secoli, fu quell’Impero onnipresente e onnipotente, anche se spesso disfunzionale, che occupò il 25% del mondo conosciuto. Alla fine cadde sotto il peso della propria decadenza morale, politica ed economica dopo la deposizione nel 476 dell’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, da parte di invasori barbari.

Proprio come studiamo ancora il latino per comprendere meglio la nostra lingua moderna, riflettere sull’economia antica è utile per comprendere alcune delle leggi economiche fondamentali dei mercati e dei relativi sistemi culturali, che sono sopravvissuti fino alla stessa Città Eterna.

Avvertimento : Molte persone credono ingenuamente nella gloria dell’antica Roma. Vedendola attraverso un prisma di archi trionfali, palazzi di marmo, vasti fori [1] e iconici busti di uomini che hanno portato ordine, pace e prosperità in un’era primitiva della storia umana, sono abbagliati. Lo pensiamo anche noi, sapendo che la Roma pagana non era nell’insieme migliore, almeno moralmente e spiritualmente, dei cosiddetti barbari da essa conquistati.

Spesso, l’antica economia romana è essa stessa osservata attraverso questi occhiali idealistici. Non c’è dubbio che abbia creato il primo Commonwealth operativo transcontinentale e che abbia rappresentato il primo vero tentativo di globalizzazione, ma non si può dire che la sua vita commerciale sia sfuggita a tutte le crisi o che sia stata diretta con mano divina da guru degli affari.

È tuttavia affascinante osservare il funzionamento e, a fortiori , l’efficienza dell’economia romana in un tempo così lungo, con un flusso costante di invenzioni, connessioni e creazione di ricchezza su tre continenti. Questa serie “Romenomics” offrirà l’opportunità di esaminare diversi fattori importanti dell’economia antica, vale a dire:

  • Lavoro e salario;
  • centri commerciali;
  • Settori di mercato;
  • Offerta, domanda, distribuzione;
  • Prezzi, controlli, inflazione;
  • Moneta e politica monetaria;
  • Fiscalità e sussidi;
  • diritto commerciale;
  • Fede, Rischio e gli “Dei” del Commercio;
  • Miracoli e disastri economici

Leggi anche:  La caduta di Roma. Fine di una civiltà, di Bryan Ward-Perkins

Romanomica 1: Lavoro e salario

Poiché il cuore di qualsiasi mercato funzionante – antico o moderno – essendo il talento umano e la produzione dietro compenso, vale la pena iniziare con una panoramica dei mestieri, delle professioni, delle industrie e dei servizi quotidiani che esistevano nell’antica Roma, compreso il lavoro non retribuito o forzato ( servitù ). A meno che tu non abbia mai aperto un libro di storia antica o visto un peplo come Spartacus, tu sai che la schiavitù rappresentava proporzioni immense della produzione economica romana, per opere private e pubbliche. Si stima che al suo apice, l’Impero Romano avesse un PIL equivalente agli odierni 32 miliardi di dollari. Durante il periodo più intenso di costruzione finanziata dallo stato (strade, stadi, teatri, templi, ingegneria civile), il lavoro degli schiavi ha rappresentato circa il 20-30% dell’attività economica. Questo era particolarmente vero durante i regni di Traiano e Adriano, che costruirono alcuni dei monumenti più antichi di Roma.

Gli schiavi, serviti in latino, fornivano anche una serie di servizi di cui oggi nessuno si lamenterebbe troppo, tanto più che ora sono ben pagati: cucina, parrucchiere, massoterapia, e anche assistenza tecnica a professioni come avvocati, cartografi, ingegneri e persino coloro che hanno aiutato la nomenclatura a mantenere enormi elenchi di nomi e associazioni in rete per politici e l’élite degli affari (molto simile a un antico Rolodex o ai profili dei social network di oggi).

Va da sé che i servi erano chiamati a sfidare la morte negli spettacoli, nei combattimenti di gladiatori e nelle corse dei carri, e nella sicurezza alimentare, cioè nei compiti di garanzia della qualità, quando assaggiavano cibi e bevande per assicurarsi che non fossero avvelenati. Le schiave erano talvolta costrette alla prostituzione o alla sua forma domestica un po’ meno dura, il contubernium , un rapporto in cui un padrone viveva apertamente con il suo schiavo.

Cosa facevano della loro vita i cives , i liberi cittadini? Innanzitutto molti di loro, soprattutto i plebei di rango inferiore, vivevano in condizioni anche peggiori dei servi appartenenti o donati dai nobili patricii , cioè nei bassifondi delle insulae . Hanno dovuto lavorare sodo per raggiungere uno standard di vita molto modesto. I lavori della plebe non erano molto diversi da quelli degli operai o delle piccole imprese familiari di oggi [2]. Gestivano piccoli negozi, chioschi di mercato e taverne, noleggiavano muli, coltivavano piccoli appezzamenti, servivano come “meccanici dei carri armati”, mantenevano stalle e svolgevano compiti di segreteria e logistici. Alcuni erano guide poco pagate, ma il loro lavoro nelle terre straniere appena conquistate era importante. Per la maggior parte, i plebei erano riparatori, fornitori e prestatori di servizi quotidiani di base.

Reddito pro capite nelle province romane. (Credito fotografico: mappe brillanti)

 

Ma quanto era alto il salario dei plebei? Gli antichi economisti hanno tentato di stimare il reddito pro capite durante il periodo di massimo splendore dell’Impero. Alcuni stimare il reddito annuo di Roma all’inizio del I ° secolo a 570 dollari di oggi. Non è molto, anche se il pane e molti altri alimenti di base fortemente sovvenzionati erano più economici, spesso gratuiti. Quasi l’intero impero viveva ben al di sotto della soglia di povertà. Come oggi, molti redditi sono stati guadagnati “al buio” e non sono stati ufficialmente dichiarati per evitare il tributo (imposta sul reddito). I registri delle entrate pubbliche erano probabilmente imprecisi.

Nel I secolo, i soldati romani potevano guadagnare una miseria o essere tra i salariati più ricchi. Gli imperatori arruolavano ogni anno decine di migliaia di soldati, comandanti e tecnici, mentre Roma si espandeva in uno slancio inarrestabile. Certo, gli stipendi dei militari rappresentavano un pesante fardello per le finanze pubbliche. Un legionario , fante, guadagnava un misero sesterzio al mese. Ma quanto era questo misero stipendio? Cercare di convertire un sesterzio nell’odierna parità di potere d’acquisto (PPP) non è un’impresa facile. Fortunatamente, i romani avevano una sorta di gold standard, poiché siamo in grado di calcolare quanti sesterzi valevano una moneta d’oro ( aureus). Se l’oro è valutato in media, diciamo, di $ 1.200 per oncia troy [3] (che in realtà vale $ 1.700 oggi, a seguito del forte aumento dovuto alla crisi legata al Covid-19), allora una singola moneta di sesterzi era vale $ 3,25 alla conversione di oggi. Citazione da GlobalSecurity.org:

Se consideriamo il valore moderno dell’oro di circa $ 1000 l’oncia, un aureus varrebbe circa $ 300, il denaro d’argento [25 per fare un aureus ] circa 12 dollari e un sesterzio [4 per un denaro] circa $ 3. A metà del 2010, il prezzo dell’oro superava i 1.200 dollari l’oncia, posizionando un aureus a circa 325 dollari, un denario d’argento a circa 13 dollari e un sesterzio [4 denari] a 3,25 dollari.

In ogni caso i soldati romani non potevano vivere con 3,25 dollari al mese. Furono quindi massicciamente incoraggiati a vincere battaglie e conquistare nuovi territori. Ottime prestazioni sul campo di battaglia hanno fruttato loro generose somme aggiuntive, “commissioni”, attraverso la distribuzione del bottino e della guerra. Inoltre, i Legionari ricevevano concessioni terriere esentasse al momento del pensionamento in alcune delle regioni più fertili dell’impero, oltre a cibo, bevande, riparo e vestiti per la durata del loro servizio attivo. Un’altra parte del loro stipendio era il “pagamento in natura”. Infatti, la parola stipendio deriva dalla parola salche significa sale. Perché ? Gli ufficiali di rango inferiore godevano di vantaggi più speciali, come ricevere piccoli sacchi di sale, che valevano all’incirca una paga giornaliera, in cambio della protezione delle strade per le miniere di sale romane o dell’accompagnamento di carovane di sale in province aspre come la Germania. Gli ufficiali più talentuosi e più anziani, come i centurioni che gestivano truppe di un centinaio di soldati, invece, non avevano salari bassi, non lavoravano a fianco e non beneficiavano di incentivi. Erano solo molto ben pagati, fino a 300 sesterzi al mese ($ 10.000).

 

L’equivalente dello stipendio di un lavoratore oggi era di circa 120 sesterzi (390 dollari) al mese, nella migliore delle ipotesi. Non era ancora molto, quindi le persone che guadagnavano quello stipendio facevano lavori saltuari, come molti ora sono costretti a fare di notte e nei fine settimana. I lavoratori agricoli guadagnavano fino a 150 sesterzi (circa $ 500) al mese, più parte del raccolto e spesso alloggi locali.

Stipendi patrizi mensili molto più elevati venivano concessi all’élite istruita e politica e, allo stesso modo, a coloro che seguivano percorsi professionali che si andavano esaurendo, come professori specializzati, precettori o “allenatori” della famiglia imperiale (8.000 sesterzi), medici (30.000 sesterzi) e proconsoli governatori provinciali e coloniali, che avevano redditi molto alti (82.000 sesterzi al mese).

Per quanto riguarda gli artigiani e le loro PMI, spesso hanno guadagnato molto, soprattutto nelle città. Naturalmente, questi erano profitti fluttuanti e non salari fissi come quelli dei dipendenti di oggi. I piccoli imprenditori potevano quindi avere rendite nette molto allettanti, come quelle di proconsoli e medici, soprattutto se le loro competenze tecniche erano molto richieste (come vasai, gioiellieri, metalmeccanici, mugnai e pellettieri) o se l’amministrazione imperiale li assumeva. Poiché quasi tutti i documenti aziendali (conservati su rotoli di papiro e tavolette di legno) sono andati perduti, è possibile stimare solo una somma tonda di 1.000 sesterzi (circa $ 3.300) di profitto al mese nelle grandi città come Roma, Londinium eNeapolis [4] .

Secondo un antico storico, altri professionisti erano ben pagati, specialmente nelle arti dello spettacolo, sebbene non fossero della stessa specie degli odierni “stipendi di Hollywood”:

“Erano artisti, comici, ballerini e attori, che potevano guadagnare dagli 80 ai 150 sesterzi al giorno [dagli 8000 ai 14.500 dollari al mese] senza contare le spese di vitto e viaggio, e che avevano anche la garanzia di una serie di spettacoli annuali . Certo, gli artisti più famosi potrebbero ottenere molto di più. ”

In sintesi, era possibile vivere molto bene nell’antica Roma, anche se la stragrande maggioranza del populus romanus era estremamente povera.

Sulla base di quanto abbiamo osservato, ci sono alcune leggi economiche che vale la pena considerare.

Innanzitutto, più sei qualificato nel tuo talento individuale e più rara è la tua professione, più è probabile che tu sia generosamente remunerato dal mercato per lunghi periodi di tempo. Nell’antica Roma, un educatore d’élite, un retore come il medico di oggi, era pagato molto più di un professore moderno. Non che fosse più abile nel mondo accademico, ma 2000 anni fa c’erano significativamente meno intellettuali professionisti rispetto a oggi. Oggi i dottorati si contano sulle dita di una mano. D’altra parte, si potrebbe dire che i retori valevano “diecimila” una dozzina!

Un’altra legge insuperabile del mercato è la tendenza ad aumentare la retribuzione in base al costo della vita adeguato nelle aree urbane e suburbane. Il costo della vita corretto di un calzolaio attivo potrebbe essere di 100 sesterzi al giorno a Pompei, ma raggiungere i 200 sesterzi a Roma, ed essere molto inferiore nella Sicilia agraria o nelle province periferiche come la Dacia (Romania), raggiungendo i 20 sesterzi al giorno. In particolare, i calzolai erano più richiesti dove si camminava molto ogni giorno, soprattutto se servivano la fanteria vicino ai castra.militari e cittadini. Di conseguenza, la legge non è necessariamente quella dell’offerta, ma quella della domanda. Questo è ciò che alla fine rende i redditi dei calzolai romani rispettivamente molto più alti o più bassi.

 

In conclusione, il divario salariale nell’antica Roma era enorme. Era più simile a quello dei moderni mercati ricchi e povericome il Brasile e l’Argentina, dove i quartieri finanziari dei grattacieli corrono lungo le baraccopoli di Rio de Janeiro e Buenos Aires a poche strade di distanza. I differenziali salariali e gli standard di vita erano estremi, soprattutto perché (come nei paesi cosiddetti meridionali di oggi) le possibilità di avanzamento erano minori e più precarie. C’erano tasse soffocanti, corruzione dilagante, criminalità organizzata, scarsa istruzione, mercati neri disconnessi e livelli più elevati di malattie, sfortuna e vincoli geografici estremi. Montagne, paludi, regioni vulcaniche e terremotate potrebbero spazzare via intere economie in un solo giorno. Ricordi cosa è successo a Pompei? Questa antica città sarà una delle protagoniste del nostro prossimo blog:

 

[1] plurale latino di forum (NDT).

[2] “mamma e pop” (NDT).

[3] Unità di misura dei minerali (NDT).

[4] Attuale Napoli (NDT).

Eisenhower e il maccartismo, di George Friedman

A proposito di guerre intestine americane_Giuseppe Germinario

https://geopoliticalfutures.com/what-were-reading-eisenhower-and-mccarthyism/?tpa=NzAzZmU4M2NlZDBkMzIxYTFkY2YyYTE1OTkyMzM2NzYzYjBkNWQ&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fwhat-were-reading-eisenhower-and-mccarthyism%2F%3Ftpa%3DNzAzZmU4M2NlZDBkMzIxYTFkY2YyYTE1OTkyMzM2NzYzYjBkNWQ&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

Cosa stiamo leggendo: Eisenhower e il maccartismo

La vera pace non arriverà in Medio Oriente finché i pacificatori trascureranno questo problema.

Di: George Friedman

Ike: un eroe americano
Di Michael Korda

Il libro di Michael Korda è un eccellente studio di Dwight D. Eisenhower, sia come persona che come comandante supremo alleato della guerra contro la Germania, nonché del processo attraverso il quale divenne presidente. Avendo letto molto su Eisenhower, normalmente avrei poche novità da dire. Ma qualcosa mi ha veramente colpito in questo libro: l’affermazione che questo particolare eroe di guerra e forza politica fosse un devoto comunista.

L’accusa proveniva dalla fazione maccartista dei repubblicani che ha sostenuto Robert Taft per la nomina del loro partito. Volevano distruggere la reputazione di Ike. Nel 1952, Joseph McCarthy era una figura significativa nella politica e nella società americana. Ha terrorizzato tutte le aree della vita americana, distruggendo le vite dei cittadini e dei nemici politici allo stesso modo per migliorare la posizione politica della sua fazione. Era guidato dalla creazione di un sistema in base al quale chiunque poteva essere identificato come comunista. La paura di McCarthy significava la disponibilità a sottomettersi alla sua fazione.

Essere comunista nel 1952 era problematico, ovviamente. Un membro del Partito Comunista per definizione ha sostenuto il movimento comunista internazionale guidato dall’Unione Sovietica. Il capo dell’Unione Sovietica era un assassino di massa. Proprio come qualcuno guarderebbe un nazista americano con disgusto, guarderebbe un comunista allo stesso modo.

Ma McCarthy e i suoi seguaci non si sono concentrati sui membri dei partiti comunisti. Si sono concentrati sui comunisti chiaramente troppo intelligenti per essere membri. Eisenhower stava correndo contro Taft, e McCarthy non lo voleva. Credeva che dimostrare che Eisenhower era comunista lo avrebbe fermato. La prova, ovviamente, era sempre indiretta. In questo caso, era un’immagine di Ike che stringeva la mano al maresciallo sovietico Georgy Zhukov in una riunione tenuta poco dopo la resa tedesca. La cordiale stretta di mano indicava chiaramente amicizia. E poiché George Marshall, capo di stato maggiore dell’esercito, ha autorizzato l’incontro, chiaramente era lui stesso un comunista, ed entrambi erano conniventi per consegnare Berlino a Stalin.

Non ha funzionato contro Ike, ma ha funzionato contro tanti altri, ponendo fine alle carriere di persone così varie come gli scienziati e l’élite di Hollywood. (Oggi li chiameremmo “cancellati”.) C’erano, in effetti, agenti comunisti negli Stati Uniti, ma l’equipaggio di McCarthy non se ne preoccupava. McCarthy si preoccupava di spaventare i deboli e i potenti con la capacità di accusare, e quindi di condannare i cittadini per una parola pronunciata in un modo che fosse in sintonia con il comunismo. Sono stati accusati di qualcosa di cui pochi erano colpevoli e l’accusa è stata sufficiente per distruggerli. Ci è voluto un idiota per credere che Eisenhower fosse un comunista, ma ci sono voluti leader spietati e spietati per usare quegli idioti.

C’è una tradizione di evitamento che fa parte della storia americana. Diverse sette religiose evitavano o punivano coloro che avevano violato le loro regole. Nathaniel Hawthorne ne ha scritto magnificamente. È un passatempo americano, condiviso da tutte le convinzioni politiche e religiose, praticato anche da chi scenderà dal palco.

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