Il nazismo, figlio legittimo dell’imperialismo occidentale, di Andrea Zhok

Oggi in Russia e in molti altri paesi viene celebrata la commemorazione “Бессмертный полк” (Reggimento Immortale), rievocazione e festeggiamento della vittoria nella “Grande Guerra Patriottica” (così chiamano i russi il conflitto contro i nazisti nella seconda guerra mondiale tra il 1941 e il 1945).
Il 9 maggio 1945 è infatti la data della firma della resa tedesca (il “giorno della Vittoria”).
Questa, come tutte le celebrazioni, ha anche una funzione politica e propagandistica, e non c’è dubbio che il governo russo ne faccia uso “pro domo sua”.
Tuttavia, diversamente da altre, questa celebrazione è cresciuta di seguito popolare in Russia e in molti paesi dell’ex Unione Sovietica negli ultimi anni.
Ciò che sta avvenendo, e che l’attuale situazione in Ucraina alimenta in modo cospicuo, è una sovrapposizione – storicamente discutibile, ma emozionalmente potente – tra l’opposizione russa all’imperialismo nazista e la resistenza russa all’imperialismo occidentale (cioè americano).
Tutti sappiamo che a partire dal 1948 l’irrigidimento della divisione in blocchi e l’avvio della guerra fredda – unita ad una certa inclinazione alla paranoia da parte di Stalin – condusse all’istituzione di uno stato di polizia nei paesi del patto di Varsavia.
Tuttavia questo triste esito è indipendente dal valore simbolico della vittoria nella “Grande guerra patriottica”, che è rimasto potente e persino crescente, essendo qualcosa che per i russi, ma non solo per essi, va al di là del semplice patriottismo e assume un significato idealtipico.
Per capire questo punto non bisogna dimenticare che il nazismo è un movimento storico fortemente caratterizzato da due tratti distintamente occidentali: esso fu Imperialistico e fu Efficientistico.
Il nazismo si intese come movimento storico della costituzione di un Impero (Reich), un impero che non si poneva limiti territoriali di sorta. Ma il nazismo fu anche il primo grande movimento storico a mettere senza remore al centro della propria concezione non una strutturata visione del mondo, religiosa o civica (ideologicamente il nazismo è un guazzabuglio incoerente, privo di elaborazione e di radici) ma l’OTTIMIZZAZIONE dei processi.
Tale ottimizzazione è visibile tanto nella micidiale efficienza degli eserciti nazisti quanto nei processi di sfruttamento dei “sottouomini”, di cui, dopo averli sfruttati fino alla morte come manodopera, non si buttava letteralmente via niente.
Il nazismo, per quanto ciò possa disturbare, è un’incarnazione esemplare della volontà di potenza occidentale, dell’amore per l’estensione della potenza in quanto potenza, dell’efficienza in quanto efficienza, e dell’inebriarsi per tutto ciò.
E’ certo che nell’Occidente, nella sua storia e tradizione c’è infinitamente di più, ma è anche certo che l’imperialismo degli ultimi due secoli, partito alla conquista del mondo prima con la “diplomazia delle cannoniere” britannica e poi con la “diplomazia dei bombardieri” americana, ha sottomesso con la forza – militare ed economica – gran parte del mondo.
Per il mondo non occidentale, dunque, l’Occidente è percepito innanzitutto come forza, forza tecnologica ed efficientistica, volta alla conquista, all’espansione e allo sfruttamento.
So che può essere doloroso per un cittadino occidentale pensarlo, so che preferiremmo credere di aver persuaso cinesi e giapponesi e indiani con la brillantezza della nostra cultura e la profondità delle nostre argomentazioni, ma purtroppo la triste verità è che di cultura, profondità ed argomentazioni ne avevano tanta anche gli altri, mentre ciò che abbiamo usato senza particolari scrupoli – ma con secchiate di ipocrisia ad uso interno – è stata la tecnologia bellica e finanziaria.
Così, per quanto noi possiamo pensare noi stessi come toto coelo altra cosa dall’orrore nazista, per chi ci guarda da fuori il nazismo non può che apparire come un nostro tipico e coerente frutto.
L’unico aspetto su cui il nazismo è stato difettivo (e ciò gli è costato la sconfitta) è stato nel limitare il proprio efficientismo e il proprio razionalismo bellico di fronte al proprio viscerale razzismo.
E’ il razzismo che ha impedito alla Germania nazista la vittoria, perché trattare gli ebrei e gli slavi come sottouomini gli ha sottratto da un lato una bella fetta dell’expertise tecnologica (fuga dell’intellighentsia ebraica) e dall’altro ha dichiarato a (quasi) tutti i popoli del fronte orientale che il loro era un destino in catene, suscitandone la resistenza.
E’ importante vedere che ciò che è davvero mostruoso nel nazismo non è il suo razzismo (naturalmente pessimo), ma l’idea che tutto ciò che non è superiore può ed anzi DEVE diventare mero materiale sfruttabile per chi è alla sommità della catena alimentare. L’orrore non è pensare che un certo vivente sia inferiore, ma pensare che ciò che pensiamo inferiore (un “sottouomo”, un capo di bestiame, una foresta vergine) diventi perciò mera cosa, macellabile e bruciabile serialmente.
Ma nei suoi punti più spaventosi, perché vincenti, il Nazismo è percepibile in perfetta continuità con la storia occidentale degli ultimi due secoli, e come tale è visto o può essere visto al di fuori del mondo occidentale.
Per questo motivo esiste un significato simbolico profondo che andrebbe colto in un festeggiamento come quello odierno.
Per un occidentale esso potrebbe essere visto come una vittoria su una tentazione demoniaca – l’imperialismo tecnarchico – insita nella propria storia. Ma non è facile vederlo così perché quella tentazione demoniaca, lungi dall’essere state superata una volta per tutte, è in crescita da almeno una trentina d’anni e recentemente si sta mostrando virulenta come non mai.
Al di fuori dello sguardo occidentale e della sua propaganda autopromozionale il nazismo può essere facilmente visto come un volto appena dissimulato, e pronto ad emergere in ogni momento, dell’Occidente stesso.

GIUGNO 1941: L’OPERAZIONE BARBAROSSA E IL SODALIZIO DEL REICH CON I NAZIONALISTI UCRAINI, di Marco Giuliani

GIUGNO 1941: L’OPERAZIONE BARBAROSSA E IL SODALIZIO DEL REICH CON I NAZIONALISTI UCRAINI

 

Nel giugno 1941, una volta penetrate nell’Est Europa, con l’Operazione Barbarossa le armate dell’Asse guidate dalla Germania nazista diedero il via all’invasione dell’Unione Sovietica (nome in codice Unternehmen Barbarossa). L’approccio dei tedeschi con le popolazioni locali, durante l’avanzata, si diversificò a seconda del luogo e della tipologia di comunità incontrata, e nel caso, sottomessa. Dette relazioni, fondate su rapporti di ordine divisivo o inclusivo, hanno suscitato e suscitano ancora polemiche circa la condivisione delle politiche di sterminio perpetrate dal Reich e dai collaborazionisti locali ai danni di alcune minoranze etniche appartenenti alla vecchia URSS. Cerchiamo, nel merito, di individuare i fatti salienti e analizzarne il decorso storico-politico.

È necessario puntualizzare innanzitutto che l’obiettivo di Adolf Hitler, denominato “colonialismo integrale”, era quello di sottoporre ad amministrazione controllata ogni provincia oggetto di occupazione militare; fu così per la regione bielorussa di Bialystok (annessa alla Prussia), per la Transnistria e il Dnepr (annesse alla Romania) e per l’Ucraina (inglobata per gran parte nella Polonia in corso di nazificazione). Dall’idea di smantellamento geopolitico furono volutamente risparmiate numerose comunità agricole, le quali, forti delle immense ricchezze naturali di cui disponevano le regioni russo-caucasiche, avrebbero dovuto continuare a produrre incessantemente. Così, se da un lato ebbe luogo la decollettivizzazione delle proprietà e dei fondi, dall’altro il timore di disorganizzare la struttura produttiva delle zone più ricche fece desistere i tedeschi dall’attuare qualsiasi forma di destabilizzazione. Ciò non impedì alla Germania, dal 1942, di “prelevare” a scopo manodopera circa 4 milioni e duecentomila lavoratori da tutto il territorio russo centro-occidentale.

La politica di Ostpolitik del Reich, come accennato, si manifestò in modo differente in base alle regioni via via occupate; i paesi baltici, per esempio, nei quali la cultura tedesca aveva da sempre attecchito in forma più marcata rispetto alle zone interne dell’Eurasia, dovevano essere associati al destino della Germania, e per questo fu riservato loro un trattamento speciale. Consce che per liberarsi dell’influenza russa e aspirare alle storiche autonomistiche ambizioni socioculturali (di cui si facevano da secoli portatrici) era necessario appoggiarsi ai tedeschi, le popolazioni “privilegiate” si videro riconoscere alcune prerogative molto importanti: libertà di culto, un’ampia facoltà di manovra politica e diverse deleghe amministrative. È in questo contesto che la “dottrina Rosemberg” – dal nome dell’allora Ministro per i territori occupati, Alfred Ernst Rosemberg, per l’appunto – si ispirò all’utilizzo politico e militare di alcune popolazioni in funzione antirussa. Una era rappresentata dai cittadini dell’Ucraina. La sua parte occidentale, area in cui i tedeschi furono ben accolti nel corso della campagna di guerra, sembrò impersonare, politicamente, il nucleo adatto per dare corpo e velocizzare la disgregazione dell’URSS, ritenuto l’ostacolo più duro da superare. Fu proprio in questa fase che l’intellighenzia ucraina, fortemente nazionalista e notoriamente antisemita, trovò un punto di incontro ideologico con l’Asse nella prospettiva di neutralizzare l’Armata Rossa e nazificare il paese. Si trattò tuttavia di un’idiosincrasia di media durata in quanto Hitler, che ravvisò proprio nelle aspirazioni autonomistiche un potenziale pericolo, frenò in seguito ogni iniziativa tesa a dare ulteriori poteri alla classe dirigente di Kiev.

In suddetta prospettiva, alcuni celebri studiosi slavisti e ucrainisti hanno sostenuto la tesi per cui l’instabilità delle regioni più estese dell’Europa orientale ha secolarmente rappresentato un problema storico (e storiografico) di rara complessità. Come dargli torto? Guardando a quello che tra il 1941 e il 1945 si può definire come l’avvenuto “incontro-scontro” tra Germania hitleriana e sciovinismo ucraino, si evince, in relazione a un accurato studio scientifico, il punto di fusione rivestito senza dubbio dalla occidentalizzazione dei piccoli-russi filo-indipendentisti, nei quali si confondevano in modo sincronico sia la concezione socialista che quella ultranazionalista. Una delle peculiarità dei partiti ucraini relativi alla Russia post-zarista era il carattere eterogeneo dei rispettivi obiettivi; diversi di questi movimenti, di fatto, oltre a insistere sull’antica emancipazione sociale, legavano a tale tratto distintivo anche un marcato patriottismo rivoluzionario filo-menscevico. Pertanto, la questione agraria e quella nazional-popolare erano notoriamente le più sentite, cosicché i fautori di queste istanze presero a svolgere la loro attività politiche nei villaggi rurali, luoghi in cui la loro propaganda si diffuse in maniera maggiore. L’ala patriottica, che si riconosceva nel manifesto stilato da Mikola Michnovs’kyj, confluì nel partito dei socialisti indipendenti, il cui programma principale consisteva proprio nella separazione dalla Russia e nella creazione di uno stato nazionale indipendente. Si può senz’altro asserire che (anche) al già tradizionale antisemitismo locale e alla scia di sangue provocata dalla Seconda guerra mondiale, andava ad aggiungersi un ulteriore e micidiale elemento: l’associazione tra ebrei e bolscevichi considerati come unico nemico da abbattere. Condizione che inasprì il già conclamato status di guerra civile in atto.

La storiografia ha sostenuto, nel tempo, che il motivo principale del fenomeno legato all’alto numero di collaborazionisti ucraini incorporati dal Reich sia stato dovuto alla volontà popolare di sottrarsi ai vincoli dell’amministrazione russa, e in parte polacca. In secondo luogo, è stata più volte rimarcata l’eredità raccolta dall’Impero austro-ungarico, di cui faceva parte la Galizia centrale, regione dove avevano prestato servizio militare e studiato migliaia di giovani ucraini. Per dare un’idea di come si stessero evolvendo gli eventi bellici, basti pensare che la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina fu promulgata hic et nunc il 30 giugno del ’41, a nemmeno un mese dall’entrata dei tedeschi presso il territorio sovietico. I volontari che in seguito furono incorporati nella Wermacht e nelle SS, tra legionari e reclute, ammontarono a un numero di circa 300 mila unità. È lecito altresì affermare che la cooperazione tra nazismo e nazionalismo ucraino non fu di natura esclusivamente militare, ma anche ideologica. Ciò è comprovato, oltre che da numerosi documenti redatti negli archivi tedeschi e nelle relazioni alleate (in primis quella canadese), anche dal fatto che sin dai tempi di Caterina II di Russia, XVIII secolo, l’antisemitismo attraeva ampi gruppi sociali, il cui atteggiamento estremo si trasformava spesso e volentieri in saccheggi e uccisioni di innocenti. Si trattava di una discriminazione di matrice sia religiosa (l’Ucraina è un territorio dove il cristianesimo cattolico ortodosso è sempre stato di gran lunga prevalente) che sociale, laddove gli ebrei venivano accusati di gestire il grande commercio e controllare di conseguenza economia e finanza nazionali. I ceti bracciantili ucraini rappresentavano la maggioranza più povera e percepirono le comunità ebraiche come un nemico potenziale ricco e profittatore. Di lì, a seguito dei massacri, operati in prevalenza da gruppi paramilitari organizzati (tra questi il NSDAP e l’UVO), prese vigore un’ulteriore spinta all’emigrazione degli israeliti verso gli Stati Uniti.

A fare le spese delle violenze furono soprattutto gli ebrei presenti in tutto il territorio dell’ex Unione Sovietica, di cui buona parte relegati nella provincia di Kiev. I pogrom si moltiplicarono, spingendo più volte le autorità moscovite a denunciare le stragi alla comunità internazionale. Si calcola che in Russia (dove era presente una delle comunità ebraiche più numerose del mondo), tra il 1941 e il 1945, nel corso del genocidio attuato dai tedeschi e dai loro alleati, siano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei, anche se la cifra esatta – visto il fenomeno dei dispersi – non potrà in alcun modo essere ricalcolata o censita con precisione.

 

         MG

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

  1. Cinnella, La tragedia della Rivoluzione russa 1917-1921, Milano/Trento, Luni, 2000 –
  2. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione, Bari, Laterza, 2001 –

Raul Hilberg , La distruzione degli ebrei d’Europa , Parigi, Gallimard, 2006 –

A.Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna, Il Mulino, 2007 –

Virginie Symaniec , La costruzione ideologica slava orientale di lingue, razze e nazioni nella Russia del XIX secolo, Parigi, Petra, 2012

United States, Holocaust Memorial Museum, da Enciclopedia dell’olocausto (https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/collaboration) –

  1. Werth, Storia della Russia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2000 –

14 MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE E A POCHI SECONDI DALL’APOCALISSE, LA STORIA DI UN EROE DIMENTICATO, di Gianfranco Campa

14 MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE E A POCHI SECONDI DALL’APOCALISSE, LA STORIA DI UN EROE DIMENTICATO.

Purtroppo gli eventi attuali ci portano a rivisitare un periodo buio della storia moderna recente che si pensava di aver messo per sempre da parte.

Molti credono che il momento più pericoloso nella prima guerra fredda, del secolo passato, sia stata la crisi dei missili sovietici a Cuba. In realtà, il momento più critico, che portò il mondo vicinissimo ad una apocalisse nucleare è avvenuto nel settembre del 1983.

La crisi del 1983, a differenza del 1962, si è svolta a porte chiuse, in una connubio tra spie e segreti.

Che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, nel 1962, fossero sull’orlo di una guerra mondiale, quando John Kennedy e Nikita Khrushchev si “confrontarono” sui missili a Cuba, è risaputo. Gli eventi del 1962 si svolsero, per la maggior parte, alla luce del sole. La crisi del 1983 si è svolta invece in un contesto, nel suo senso letterale, sotterraneo. Nel 1983, il mondo andava avanti con le sue solite routine ed affari per lo più ignaro dei mortali ed apocalittici pericoli cui andava incontro.

Molti della mia generazione, nel 1983 erano ventenni, probabilmente ricorderanno quell’anno più per motivi mondani-sociali e meno per le tensioni e i pericoli insiti nei giochi geopolitici. D’altronde il 1983 è stato un anno particolare: parte la rivoluzione High Tech; vengono messi in vendita i primi orologi Swatch ed entra in commercio il primo cellulare. Con ARPANET nasce di fatto l’era di Internet. Nintendo lancia la console NES. Il primo personal computer viene annunciato da Apple Computer. Microsoft rilascia la prima versione di Word. Si scopre il primo virus informatico.

Il 1983 verrà anche ricordato per altri eventi; come la vendita della prima FIAT Uno, e mentre nelle sale cinematografiche esce il leggendario Scarface, al cinema statuto di Torino, un incendio uccide 64 persone.

Sarà anche l’anno della scomparsa di Emanuela Orlandi e dell’arresto del povero Enzo Tortora. Mentre nell’ombra il mostro di Firenze commette il sesto duplice omicidio, in Brasile viene arrestato Tommaso Buscetta.

In termini di politica interna, Bettino Craxi forma il nuovo governo, legislatura che entrerà nella storia della politica italiana come la più longeva della prima repubblica.

Quell’anno, Margaret Thatcher aveva conseguito un secondo mandato come Primo Ministro inglese, ma il suo erede, Cecil Parkinson, aveva dovuto dimettersi dopo aver ammesso di essere il padre del frutto di una relazione con la sua segretaria. Due giovani socialisti, Tony Blair e Gordon Brown, erano stati eletti, per la prima volta, parlamentari. Lo stesso Tony Blair che ha servito da spalla alle avventure belliche di molte amministrazioni americane, quel Tony Blair che qualche giorno fa ha dichiarato possibile uno scenario da guerra nucleare come risultato del conflitto in Ucraina.

Detto ciò, fu nell’ambito geopolitico che in quel ormai lontano 1983 si verificheranno eventi che avrebbero portato il mondo sull’orlo della catastrofe nucleare e dell’abisso dell’estinzione. I sovietici avevano testato i missili SS-20 su piattaforme di lancio mobili, facili da nascondere e quasi impossibili da rilevare. Nello stesso tempo, gli americani nell’Europa occidentale, avevano dispiegato i missili balistici Pershing II, come contromisura a una “possibile” invasione dell’Europa Occidentale da parte degli eserciti del Patto di Varsavia.

Nel marzo di quell’anno il presidente americano Ronald Reagan annuncia, definendo l’Unione Sovietica “l’Impero del Male”, l’iniziativa di difesa strategica, meglio conosciuta con il nome di Scudo Spaziale, alzando, alla massima esponenza, la tensione fra le due superpotenze; una tensione palpabile che sarebbe sfociata in una serie di “incidenti” che porteranno l’umanità al limite del precipizio.

Il 1º settembre 1983, l’aviazione sovietica abbatté un aereo passeggeri sudcoreano, il volo Korean Air Lines 007, che aveva sconfinato nello spazio aereo sovietico; sono 269 le vittime a bordo dell’aereo, tra i quali Larry McDonald, membro del Congresso degli Stati Uniti. La pressione è alle stelle, il mondo una polveriera pronta ad esplodere.

Gli eventi del 1983 arrivano sulla coda degli anni ’70 che avevano visto un periodo di distensione tra le due superpotenze, simboleggiato dalla firma degli accordi di Helsinki del 1975, suggellati poi dall’incontro nello spazio delle navicelle Apollo e Soyuz. Dopo decenni di reciproco sospetto, sembrava che le due superpotenze potessero, dopotutto, godere di una pacifica convivenza. L’iniziativa dello Scudo Spaziale annunciato da Reagan viene visto a Mosca come un gesto altamente aggressivo, poiché minava il principio della “distruzione reciprocamente assicurata”, il concetto essenziale, non scritto, che teneva sotto scacco, da ambedue le parti, la tentazione di usare le armi nucleari.

 

***

 

 

L’orologio segna 14 minuti dopo la mezzanotte, ora di Mosca, del 26 Settembre 1983; in America, a causa delle differenze di fuso orario, e` ancora il 25 settembre di una qualsiasi domenica pomeriggio. Stanislav Petrov, un tenente colonnello nella sezione dell’intelligence militare dei servizi segreti dell’Unione Sovietica, si è accomodato, senza troppo entusiasmo, nella sedia di comandante nel bunker sotterraneo di pre-allerta, il cosiddetto Oko System, bunker collocato a sud della capitale sovietica, Mosca. Avrebbe dovuto essere la sua serata libera, ma un altro ufficiale si era ammalato e Petrov era stato convocato all’ultimo minuto per rimpiazzarlo.

La notte, nonostante sia ancora il 26 di Settembre, è già molto fredda; davanti a Petrov e i suoi uomini, ci sono gli schermi che mostrano la locazione di silos missilistici sotterranei nelle praterie del Midwest americano, foto frutto dei satelliti spia. Era dovere del tenente colonnello Stanislav Petrov, usando computer e satelliti, avvertire l’Unione Sovietica se ci fosse stato un attacco missilistico nucleare da parte degli Stati Uniti. In caso di un attacco simile, la strategia dell’Unione Sovietica prevedeva di lanciare un immediato contrattacco con tutte le armi nucleari a disposizione contro gli Stati Uniti stessi e i suoi alleati.

Petrov e i suoi uomini, presenti nel bunker, osservano e ascoltano in cuffia qualsiasi segno di movimento, qualsiasi cosa di insolito che potesse suggerire un attacco nucleare. Il tempo di volo di un missile balistico intercontinentale, dagli USA all’URSS e viceversa, era all’epoca di circa 12 minuti. Se la Guerra Fredda dovesse diventare “calda”, i secondi potrebbero fare la differenza.

 

 

Tutto fa credere che questa notte sarà una notte come tante altre, noiosa, di routine, in cui non succede mai niente. Improvvisamente però si accendono le spie e suonano gli allarmi del computer, avvertendo la presenza di un missile americano che si starebbe dirigendo verso l’Unione Sovietica. Una spia si illumina, a caratteri cubitali digitali, con lettere rosse su sfondo bianco, annunciano la decisione da prendere: “LANCIARE”. Il suono delle sirene avvolgono il bunker, gli allarmi, le luci, le scritte e il computer fanno credere che gli Stati Uniti hanno appena lanciato i loro missili, dando via alla terza e ultima guerra mondiale, la guerra nucleare, “the war to end all wars…” A Petrov spetta la decisione finale: alzare la cornetta del telefono rosso, per lanciare i missili, oppure no.

Petrov, mantiene la calma, quella calma che avvolge gli esseri umani veri quando vengono confrontati da situazioni difficili e mortali. Petrov, ragionando con freddezza, crede che si sia verificato un errore del computer anche perché,  pensando tra sé e sé, ritiene che gli Stati Uniti non avrebbero lanciato un solo missile se avessero davvero deciso di attaccare l’Unione Sovietica; ne avrebbero invece lanciato un numero molto più alto, per colpire più obiettivi, neutralizzando una possibile risposta di Mosca. Sa, inoltre, che in passato si erano presentati dubbi sull’affidabilità del sistema satellitare utilizzato. Petrov deduce, con logica lucidità, in un momento di forte stress, che si tratta quindi di un falso allarme, concludendo che nessun missile era stato realmente lanciato dagli Stati Uniti.

Giusto il tempo per ponderare la sua scelta che la situazione precipita ulteriormente, diventando drammatica. Il sistema informatico indica che un secondo missile è stato lanciato dagli Stati Uniti  in direzione dell’Unione Sovietica. L’allarme continua a suonare mostrando ora un terzo missile, seguito da un quarto e poi un quinto missile. Il suono degli allarmi si fa assordante. Mentre gli occhi degli uomini presenti nel bunker si concentrano su Petrov, lui continua a fissare la scritta lampeggiante “lanciare”, il segnale che indica a Petrov di iniziare la procedura per il lancio dei missili nucleari.

Nonostante ciò, Petrov, sotto tremenda pressione, continua a credere che si tratti di un falso allarme. La sua scelta si basa solo sul suo intuito; intuito che gli fa credere che il sistema informatico sia in qualche modo compromesso. In altre parole Petrov crede che sia un problema tecnico, ma non aveva comunque modo di saperlo con certezza. Non c’erano altri parametri sui quali basarsi. In caso di errore i missili avrebbero presto iniziato a piovere sull’Unione Sovietica.

Passano prima i secondi poi i minuti, ma tutto rimane tranquillo: non ci sono missili e non c’è nessuna distruzione. Il Tenente Colonnello Stanislav Petrov aveva preso la decisione giusta, scongiurando di fatto una guerra nucleare. Il resto dei colleghi, nel Bunker, tirano con Petrov un sospiro di sollievo, qualcuno si congratula con il suo superiore per aver preso, d’istinto, la decisione giusta, salvando il mondo dalla catastrofe. Se l’attacco fosse stato reale, anche un solo missile avrebbe causato una esplosione 50 volte maggiore a quella di Hiroshima; le sirene invece  smettono di suonare e le spie si spengono.

Il dramma intorno agli eventi di quel 26 settembre 1983 era reale, ma gli allarmi fasulli. Successivamente, si scoprì che ciò che i sensori del satellite avevano captato e interpretato come missili in volo non erano altro che nuvole d’alta quota. Un glitch nel sistema che sarebbe potuto costare molto caro.

 

***

 

La coraggiosa decisione di Petrov violava però  la procedura militare che fino a quel momento obbligava l’ufficiale di turno al comando di Oko, di assecondare gli avvertimenti del computer, lasciando di fatto la decisione del lancio ai terminali stessi, marginalizzando il fattore umano. Petrov, dopo l’incidente, fu posto sotto interrogatorio dai vertici militari, per mettere in chiaro le sue decisioni e azioni. Petrov aveva scongiurato una guerra nucleare, ma così facendo aveva anche smascherato le inadeguatezze del tanto decantato sistema di allerta impiegato da Mosca.

La scelta del comando militare sovietico si orientò verso l’atteggiamento pilatesco: da un lato Petrov fu criticato per aver violato le procedure e venne di conseguenza ritenuto un ufficiale non più affidabile. Non fu quindi né premiato né onorato per le sue decisioni, ma non fu neanche punito. La sua carriera militare, un tempo promettente, era giunta al termine. Fu riassegnato in una posizione meno importante. Nel 1984 Petrov lasciò l’esercito e ottenne un lavoro presso l’istituto di ricerca che aveva sviluppato il sistema di allerta dell’Unione Sovietica, quello stesso sistema che in quella notte settembrina, nel bunker, aveva tradito Petrov e i suoi uomini. In seguito Petrov si ritirò per poter prendersi cura di sua moglie dopo che le fu diagnosticato un cancro che la portò via nel 1997 . Ha continuato a vivere la sua vita, in Russia, da pensionato, soffrendo di depressione e morendo di polmonite, il 17 Maggio del 2017.

 

 

Stanislav Petrov, quel giorno del 1983, salvò la Terra dal disastro, salvando l’umanità da una tragedia immane. Petrov ha sempre sostenuto che non si considerava un eroe per quello che aveva fatto quel giorno. Ma in termini di numero incalcolabile di vite salvate e di danni risparmiati al pianeta Terra, Petrov è innegabilmente uno dei più grandi eroi di tutti i tempi. Certamente se c’era un personaggio che meritava il premio nobel per la pace, questo era Petrov; ma si sa i finti scienziati climatici e i finti pacifisti hanno la precedenza…

C’è ancora qualcos’altro di inquietante in questo incidente. Stanislav Petrov non era originariamente l’ufficiale in servizio quella notte. Se non fosse stato presente nel bunker, è possibile che un altro comandante più solerte non avrebbe dubitato degli allarmi dei computer, ponendo di fatto tragicamente fine all’umanità. Il debito dovuto a Petrov da parte del mondo è incommensurabile; non saremo mai in grado di ripagarlo.

Quarant’anni dopo gli eventi racchiusi in quel bunker, siamo di nuovo qui a confrontarci con la prospettiva di una guerra nucleare. Ormai si parla apertamente e disinvoltamente di rischio nucleare, “armi tattiche nucleari“, “missili nucleari“, come se fossero noccioline, con i meschini mass media più che entusiasti di rilanciare la propaganda alzando il livello della tensione e alimentando così il pericolo nucleare. Neppure una pausa nel ponderare la pazzia di una tale dialettica. Poche sono le voci che si alzano di condanna o di critica costruttiva a questa situazione. Pubblichiamo il titolo di un articolo pubblicato nel 2011 dell’Huffpost sulle tematiche ambientali, che ci serva da avvertimento a non sottovalutare il delirio di questa gente cui abbiamo affidato il nostro destino :

“POTREBBE UNA PICCOLA GUERRA NUCLEARE CAPOVOLGERE IL SURRISCALDAMENTO DELLA TERRA?”

Durante un viaggio negli Stati Uniti, per un discorso all’ONU, Petrov disse: ‘Non sono un eroe, ero solo nel posto giusto al momento giusto” Alla domanda posta da Kevin Costner se un giorno si sarebbero usate le armi nucleari Petrov rispose che “era una certezza”.

Oggi purtroppo siamo in mano a maniaci; si confida nell’avvento di uno, dieci, cento, mille Stanislav Petrov, l’eroe oscuro e umile che salvò il mondo.

 

P.S. Consiglio la visione del documentario: The Man Who Saved the World

 

STORIA COME INCREMENTO DI COMPLESSITA’ A CUI ADATTARSI, di Pierluigi Fagan

STORIA COME INCREMENTO DI COMPLESSITA’ A CUI ADATTARSI. [Post di studio] Tornerò su un argomento su cui abbiamo scritto più e più volte. Il tema è il passaggio storico tra modi di vita pre e post civili dove -civile- viene da -civitas- e dà luogo a civiltà, quindi pre e post cittadini. Siamo nella sequenza tra Mesolitico e Neolitico tra 15.000 e 3500 a.C. con prospettiva verso l’inizio del periodo civile o storico propriamente detto e siamo in quel della Mesopotamia.
La narrazione (sempre meno) dominante è quella per cui l’invenzione dell’agricoltura, innovazione dei modi di produzione, ha rivoluzionato le forme di vita associata. Questo ha portato da una parte progresso ed incremento di complessità, dall’altra gerarchie sociali, diseguaglianze e guerre. La narrazione è interna alla nostra immagine di mondo costruita già nel XIX secolo e conforme le due famiglie ideologiche politiche prevalenti, quella liberale e quella social-marxista. Ha la stessa scansione della narrazione sulla “rivoluzione” industriale ovvero la teoria è “il proprio (spazio)-tempo appreso nel pensiero” ovvero le forme socio-economiche del Regno Unito nel XIX secolo. Fin qui nulla di male, il problema è poi decidere di fare di questa teoria locale (nello spazio e nel tempo) un universale, una presunta legge storica. Oltretutto pensando che la storia, per rendersi scientifica, debba mostrare le logiche della regina delle scienze: la fisica. La fisica ha le leggi? Quindi anche la storia ed il pensiero economico dovevano avere “leggi”.
Negli ultimi anni, la quantità delle informazioni ricavate dagli scavi archeologici è decisamente aumentata. Viepiù se la compariamo al XIX secolo, ma anche a buona parte del XX. È anche aumentata la nostra capacità di trarre informazione dagli scavi ed è diventata più complessa, quindi più realistica, la nostra organizzazione narrativa in grado ora di mettere assieme informazioni su natura, clima, uomini, modi di vita etc. Vediamo in breve cosa abbiamo scoperto.
1 – L’agricoltura non fu una invenzione puntiforme. Abbiamo primi semi messi da parte per esser ripiantati negli scavi di un sito di 20.000 anni fa. Abbiamo prove di prodotto agricolo selvatico ovvero cura della produzione naturale spontanea che poi lascia il passo a produzione intenzionale ovvero semina-cura-raccolta, da allora fino a 15.000 anni dopo. Tra l’altro l’atteggiamento di cura e raccolta valeva anche per la silvicultura e l’orticultura ad allargare l’output di sussistenza. Pari progressione vale anche per le prime forme di allevamento.
2 – La destinazione di questo nuovo prodotto di sussistenza agricola (naturale ed intenzionale) fu di integrazione e stoccaggio. Integrazione in quanto così si allargavano le opzioni della dieta, di base centrata ancora a lungo su caccia e raccolta. Stoccaggio in quanto i cereali raccolti, seccati, garantivano prodotto consumabile in via differita, per quanto di ripiegamento.
3- Tre informazioni ulteriori vanno considerate per ricostruire un processo che durerà millenni: a) i gruppi umani mostrano una tendenza moderata ma costante (a grana grossa) a crescere di dimensioni. Ciò avviene per vari motivi non tutti derivati dalle oscillazioni di sussistenza disponibile; b) altresì cresce la loro densità territoriale relativa. Questa riduce progressivamente gli areali di riferimento per la singola banda o tribù. A loro volta, molte di queste aggregazioni, diventano progressivamente stanziali. La forma stanziale fissa l’areale di riferimento mentre prima l’areale si spostava allo spostamento del gruppo umano; c) il tutto si svolge in un periodo climatico molto dinamico. Il periodo inizia con la deglaciazione che letteralmente inonda il mondo di acqua, aumentando la produzione naturale di piante ed animali. A più riprese però, il clima oscilla diventando più secco. Queste fasi diminuiscono di colpo (nell’ordine dei secoli) la produzione naturale per, ricordiamolo, gruppi ora più massivi, densi e fissi territorialmente.
4 – C’è un movimento progressivo di discesa del fuoco di presenza umane territoriali dal sud anatolico al Golfo Persico. Contemporaneamente continua l’afflusso dall’esterno di questo areale (Monti Zagros, altopiano iranico). Contemporaneamente, i siti abitativi vanno progressivamente sempre più vicino i due grandi fiumi (Tigri ed Eufrate). Quest’ultimo punto si verifica in più o meno corrispondenza con il cambiamento climatico. C’era una regolare agricoltura intenzionale (semina-cura-raccolto) che si basava sulla semplice periodicità delle piogge e non su lavori di canalizzazione. Quando l’andamento climatico oscilla verso il secco, l’acqua che non cade più dal cielo, andrà presa dai fiumi.
I punti di questa ricostruzione porterebbero ad una narrazione lineare, ma i fenomeni a grana fine non lo furono. I gruppi umani oscillarono all’oscillazione del contesto. Questo perché la regola cui sono soggetti è l’adattamento a contesti mutevoli.
C’è poi anche una controverifica indiretta alla tesi dell’invenzione del modo agricolo. I modi agricoli compaiono a più riprese in poco meno di altri dodici casi nel globo (ma c’è chi ne conta ben di più), in tempi differenti, tra luoghi non comunicanti. A meno di non prevedere una magica sincronizzazione dell’ingegno umano, l’unica spiegazione che sta in piedi, è che i vari gruppi umani vennero sottoposti a pressioni adattive simili. La condizione simile è un “complesso di cause” (cause tra loro interagenti) che prevede: aumento costante demografico, aumento di densità per areale chiuso (che ha condizioni migliori che non si trovano nell’intorno), un primo miglioramento costante delle condizioni naturali (clima, acqua, rigoglio vegetale, esuberanza demografica animale), progressiva stanzializzazione, una seconda relativamente improvvisa inversione negativa delle condizioni climatiche. Il ricorso a produzione intenzionale (agricoltura-allevamento) che all’inizio è arricchimento della varietà di dieta, poi stoccaggio di alimenti a cui attingere per compensare le curve oscillanti di produzione naturale (caccia e raccolta), diventa sempre di più fonte di sussistenza primaria, poi esclusiva. Per quanto di apporto nutritivo monotono e modesto, la coltivazione di cereali e la segregazione con riproduzione di animali, era l’unica possibilità di sopravvivenza date le condizioni. Ed a sua volta, la sua relativa prevedibilità quindi sicurezza alimenterà ulteriore incremento demografico e di densità relativa avviandoci lungo un percorso irreversibile.
Non ci fu quindi alcuna invenzione come motore della storia, fu un complesso adattamento a nuove condizioni dei gruppi umani, dei territori e distribuzione umana e naturale dentro di essi, del clima. Tutte le mitologie posteriori raccontano questa storia come una caduta dall’età dell’oro, non come un progresso. Ritenuti a lungo “miti”, oggi sembrano confermati dall’analisi delle ossa e degli scheletri che confermano l’impoverimento nutritivo, dismorfismo sessuale e la perdita di forza e salute generale. A seconda di come si deciderà di organizzare le nuove forme di vita associata, nasceranno le diseguaglianze sociali (anziani su giovani, maschi su femmine, classi su classi, élite castali su popolo), le gerarchie fisse e riprodotte per ereditarietà, la guerra, le narrazioni di contesto, tra cui le religioni, le varie caste tripartite (commerciali, militari, sacerdotali) ovvero la civiltà.
Il significato proprio del ricorso prima saltuario, poi sistematico, poi unico all’opzione agricola fu una necessità, non una libertà. Necessità di garantire, quindi prevedere, output alimentare per numeri sempre più ampi di popolazione già stanziale per via delle dimensioni. L’adattamento del tempo portò in dote il problema del doverci pensarci prima, del prevedere. Il ricorso sempre maggiore all’agricoltura-allevamento fu la necessità di prevedere le forniture di sussistenza per migliaia e migliaia di persone ormai inurbate. Per altro, non sembra neanche che fu il semplice predominio del modo agricolo a scatenare la trasformazione sociale, ma una dinamica più complessa a molti fattori che all’inizio prese forma di quello che alcuni chiamano “socialismo sacerdotale” ovvero l’attribuzione del prodotto della terra (inizialmente terra degli dèi, non più totalmente libera e non ancora privatizzata) ad un centro ridistributivo gestito dai funzionari della credenza. Sarà all’interno di questi centri che la burocrazia civile al servizio del tempio diverrà poi predominante politicamente (il “re”, inizialmente spesso eletto e senza dinastia, al tempio si affiancherà il palazzo) mentre accanto si infittiscono le dispute per lo spazio da cui si svilupperanno le élite militari e si formano i monopoli di scambio tra eccedenze e mancanze, a volte pubblici, a volte privati, più spesso privati su concessione pubblica. Se all’inizio il “centro” assolve ad una funzione controllata, al crescere del volume dei gruppi, il centro si emancipa dal controllo dal basso e diventa l’alto dominante.
Se una regola si vuol trovare, a grana grossa, sembra lampante una correlazione tra modi di organizzare la società e sua dimensione in cui società viepiù massive confinano le decisioni da prendere in una élite sempre più stretta. Più che in economia, il motore della faccenda va cercato in socio-demografia. Quello che si perde è la facoltà di decidere assieme il che fare, facoltà naturale nei piccoli gruppi, molto meno naturale in quelli grandi.
Detto da D. Graeber e D. Wengrow nel loro di recente pubblicato “L’alba di tutto” (Rizzoli, 2022, p. 19): “La questione ultima della storia dell’umanità non è l’equo accesso alle risorse materiali (terre, alimenti, mezzi di produzione), per quanto queste cose siano ovviamente importanti, bensì l’equa capacità di partecipare alle decisioni sulla nostra convivenza”.
Oggi, con un mondo cresciuto di tre volte in soli settanta anni, di quattro quando saremo al 2050, si pone nuovamente, il problema dell’adattamento su previsioni anticipanti. Il modo o forma di come comporre le nostre forme di vita associata, non dovrebbe più esser un esercizio a ruota libera, di invenzione, innovazione, nostri vari desiderata. Dovrebbe esser un esercizio di necessità e compatibilità: come e cosa fare per convivere in così tanti nello stesso spazio obbligato. Dovrebbe esser un esercizio adattativo, le forme sociali dipendono non solo dalle loro dinamiche interne, ma queste stesse sono condizionate dal contesto. Ereditiamo forma politiche in cui pochissimi si occupano di questo problema, inevitabilmente propensi ad aumentare diseguaglianze, gerarchie, vantaggi ereditari, guerre e confitti, narrazioni sempre più assurde, forme religiose di credenza anche quando non hanno in oggetto fatti spirituali.
Cinquemila anni fa dovemmo fare i conti di compatibilità tra società umane e contesto, di nuovo oggi. Allora andò come sappiamo, come fare in modo che oggi vada diversamente?

POMBALINA-E-GIOCO-DELLE-PERLE-DI-VETRO-2, di Massimo Morigi

Massimo Morigi
ANCORA IN AVVICINAMENTO AL NUOVO GIOCO DELLE
PERLE DI VETRO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO:
POMBALINA ET INACTUALIA ARCHEOLOGICA

PARTE SECONDA
Dopo la pubblicazione sull’ “Italia e il Mondo” del saggio sulla dialettica prassistica
dell’epigenetica e della sintesi evoluzionistica estesa intitolato Epigenetica, Teoria
endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa
efantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical
Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis, su Donna Haraway e
materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della prassi olisticodialetticaespressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico e dopo la
recentissima pubblicazione sempre sull’ “Italia e il Mondo” sotto la Leitbild di
Federico II il Grande re di Prussia dell’inattuale La Loggia Dante Alighieri nella storia
della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863-2003) (la
prima parte all’URL http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimo-morigi-la-loggia-dantealighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione1863-2003-_________-i-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220110075018/http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-_________-i-parte/; la seconda all’URL
http://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimo-morigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storiadella-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20220111161456/http://italiaeilmondo.com/2022/01/11/massimomorigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-ii-parte/ ho ritenuto presentare ai
lettori del blog alcune riflessioni se si vuole ancora più inattuali ed attinenti il
Repubblicanesimo Geopolitico solo in Statu nascenti ed inseribili in questo contesto
interpretativo ma solo in prospettiva archeologica, quattro scritti ed interventi
pubblicati o presentati in sede seminariale in Portogallo che hanno precorso,
attraverso una prima riflessione sul repubblicanesimo, sull’estetizzazione della politica
e sulla conflittualità sociale, le attuali conclusioni, anch’esse inattuali ça va sans dire,
cui è giunto il Repubblicanesimo Geopolitico, informate al paradigma olisticodialettico-espressivo-strategico-conflittuale e appunto giunte a piena maturità – o
involuzione, chi può dirlo? – nel summenzionato saggio sulla dialettica storica e
biologica. Come suggerisce il titolo, queste fonti a stampa sono state per la maggior
parte edite dalla casa editrice Pombalina dell’Università di Coimbra oppure hanno
avuto comunque un editore portoghese (anche se sul Web, oltre a questa immissione
dei documenti in questione da parte dei “portoghesi”, esiste, di queste precursioni
inattuali del Repubblicanesimo Geopolitico, pure un’edizione dello scrivente immessa
direttamente dallo stesso sul Web: si tratta di Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes
Origines et Via, all’URL di Internet Archive
https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaMassimo, un’antologia di interventi sul Repubblicanesimo Geopolitico,
comprendente anche parte dei documenti presenti in questa antologia e con contenuti
anche multimediali) e riguardano o una prima ricognizione sul concetto di
‘Repubblicanesimo’ e come questo possa venire machiavellianamente in contatto con
la conflittualità sociale e l’estetizzazione della politica e come quest’ultima venga
utilizzata dai regimi totalitari di massa del Novecento. Come Leitbild si è pensato di
ricorrere ai Due amanti di Giulio Romano. Scelta apparentemente avulsa dal discorso
delle precursioni e delle inattualità. A ben vedere non troppo se si consideri il profondo
legame dialettico fra queste quattro riflessioni e la filosofia della prassi espressa dal
saggio Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi
evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste (ed anche visto l’attuale degrado
politico-filosofico, civile e culturale che in questi tempi di pandemie virali ma anche
psichiche, con ciò intendendo non solo l’irrazionale paura della morte causa morbo ma
l’altrettanto irrazionale terrore antivaccinista – entrambe le angosce frutto della
superstizione, del fideismo e dell’anomia caratteristici delle c.d. moderne democrazie
rappresentative, un degrado la cui succitata Leitbild costituisce il più dialetttico ed
ironico controveleno). E oltre non vado perché una corretta dialettica ha sempre
implicato una creativa e penetrante attività da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Perché, si spera e si pensa, Gentile e Gramsci non hanno certo predicato (e sofferto e
pagato) invano, e soprattutto, inattualmente. Il nuovo gioco delle perle di vetro, lo
sappiamo, disdegna la cronaca e si compiace di accostamenti (apparentemente)
inusitati per le superstiziose, anomiche, fideistiche e degradate masse dei sopraddetti
regimi “democratici”.
Massimo Morigi – Ravenna, inizio anno 2022
Massimo Morigi, Aesthetica fascistica II. Tradizionalismo e modernismo sotto l’ombra del
fascio (comunicazione inviata al convegno “IV Colloquio Tradição e modernidade no mundo
Iberoamericano – Coimbra 1, 2, 3 de outubro de 2007”), in “Estudo do Século XX”, N° 8,
Coimbra, Centro de Estudos Interdisplinares do Século XX de Coimbra – CEIS20, 2008, pp.
119-133. URL dal quale si può scaricare la rivista dal quale proviene l’estratto:
https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8, Wayback Machine:
https://web.archive.org/web/20201114222139/https://www.uc.pt/iii/ceis20/Publicacoes/revistas/revista_8. Inoltre in regime di autopubblicazione sulla piattaforma Internet
Archive e col titolo di GESAMTKVNSTWERK RES PVBLICA la comunicazione è visionabile e
scaricabile agli URL https://archive.org/details/GesamtkvnstwerkResPvblica e
https://ia801704.us.archive.org/2/items/GesamtkvnstwerkResPvblica/GesamtkvnstwerkResPvblica.pdf

Qui sotto il link con il testo della II parte:

POMBALINA E GIOCO DELLE PERLE DI VETRO SECONDO

MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________ II PARTE

Un lavoro inattuale di Massimo Morigi, quindi molto adeguato per i tempi attuali. Dalla prefazione dell’autore stesso: «Sui motivi remoti e contingenti della non pubblicazione nel 2003 di questo piccolo lavoro, che viene ora proposto ai lettori dell’ “Italia e il Mondo” nella sua ultima fase di bozza quasi ultimata che non riuscì nel salto di diventare una pubblicazione vera e propria non sarebbe utile spendere alcuna parola se non dire che si trattava di uno scritto d’occasione che per motivi bizzarri e legati alle dinamiche personalistiche tipiche dei gruppi autoreferenziali non poté venire alla luce in forma cartacea. Più utile, invece, spiegare perché si è deciso di pubblicarlo ora seppur in forma elettronica e nemmeno corretto nella sua bozza. Nella bozza non definitivamente corretta perché un sua conclusiva stesura non avrebbe oggi senso perché una rifinitura non conferirebbe alcun ulteriore significato a questa lavoro perché se un senso questa storia ha è che proprio nel suo fallimento nel venire alla luce e quindi nella grezza incompletezza essa oggi segnala la fine di un mondo di espressività e di illusioni strategiche che già allora erano segnate ma che oggi sono definitivamente tramontate. Ma è proprio dalla forma grezza di questo masso erratico di un’altra epoca geologica della cultura e della politica che ora propongo ai lettori dell’”Italia e il Mondo” che risiede la speranza che dell’originaria espressività strategica che ispirò questo lavoro non tutto è perduto ed anzi possa essere proseguito. Penso che l’immortale esempio di Federico il Grande di Prussia (unico appunto da fare al lascito dialettico-strategico del filosofo di Sans Souci, l’aver scritto l’Anti-Machiavel ma saremmo ben indegni ammiratori del Segretario fiorentino se non fossimo generosi verso questa necessaria dissimulazione) il cui famoso ritratto dopo la sconfitta di Kolin campeggia in frontespizio possa costituire la più adeguata Leitbild a quanto ho qui affermato. Massimo Morigi – gennaio 2022.»

Buona lettura.

Giuseppe Germinario

Per chi non avessse letto, questa la prima parte http://italiaeilmondo.com/2022/01/09/massimo-morigi-la-loggia-dante-alighieri-nella-storia-della-romagna-e-di-ravenna-nel-140-anniversario-della-sua-fondazione-1863-2003-_________-i-parte/

MASSIMO MORIGI LA LOGGIA “DANTE ALIGHIERI” NELLA STORIA DELLA ROMAGNA E DI RAVENNA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA SUA FONDAZIONE (1863 – 2003)* _________

II PARTE

*In frontespizio: Friedrich der Große nach der Schlacht bei Kolin von Julius Friedrich Anton Schrader (Federico il Grande dopo la battaglia di Kolin, di Julius Friedrich Anton Schrader, 1849)

 

Capitolo 2 LA LOGGIA MASSONICA DANTE ALIGHIERI

O luce etterna che sola in te sidi , sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ‘l mio viso in lei tutto era messo. Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle , sì come rota ch’igualmente è mossa, l’ amor che move il sole e l’altre stelle Dante, Paradiso, c. XXXIII ,vv.124-145

Uno dei danni non secondari del Luzio, dopo l’inquinamento delle coscienze e l’assai esplicito avviso ai naviganti di non incrociare le acque liberomuratorie, fu il bruciare – editorialmente parlando, ché per i roghi meno metaforici altri avevano già provveduto – l’accurato ed anche amorevole lavoro di Giuseppe Leti Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano1 , informato all’idea ,al di là di alcune puntate eccessivamente apologetiche, del forte debito di riconoscenza che l’Italia doveva alla Massoneria. Il libro del Luzio uscì una settima prima , non sappiamo dire se per caso o di proposito, ma il risultato fu che quello che doveva essere un’estrema difesa della Massoneria di fronte alla reazione montante, almeno sul campo della lotta delle idee, rubatogli il tempo dal Luzio, mancò completamente il suo obiettivo. Questo per quanto riguarda le armi della critica. Per quanto riguarda la critica delle armi, abbiamo già detto : il cave canem luziano e la coartazione di uno stato divenuto ormai dittatoriale avevano imposto una dialettica a cui nessun Leti e nessun uomo libero e di buoni costumi poteva al momento comporre in una sintesi superiore. Una sintesi che non chiameremo superiore, ma certamente più adeguata ai tempi storici, che era invece riuscita ai nostri padri risorgimentali quando divenuta inservibile ed impraticabile la massoneria speculativa( come abbiamo cercato di mostrare, non per suo difetto ma per la feroce repressione attuata dalla restaurazione ) non si erano sbarazzati dei vecchi strumenti liberomuratori ma avevano cercato di convertirli alla costruzione non di metaforici templi alla virtù ma all’edificazione di trincee e fortilizi entro cui i “refrattari” alla restaurazione avrebbero potuto rifugiarsi per poi partire immediatamente all’assalto contro i nuovi tiranni. Questo e non altro è l’interpretazione ( ma anche la moralità) della proliferazione associativo – carbonico – settaria romagnola fatta affiorare (e di questo ma solo di questo ringraziamo il Cardinal Legato ) dalla sentenza Rivarola e dei moti che precederono e seguirono l’infame giudizio.

Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 25

12 luglio 1859. Napoleone III atterrito dalle pesantissime perdite subite e nemmeno disposto a concedere un eccessivo allargamento al Regno sabaudo ,firma con l’Austria l’armistizio di Villafranca. L’indignazione in Italia è altissima. Non solo il Piemonte avrebbe dovuto permettere il ritorno del duca di Modena e del granduca di Toscana ma avrebbe dovuto permettere all’Austria il mantenimento delle fortezze di Mantova e Peschiera ( come misero premio di consolazione la Lombardia sarebbe stata data dall’Austria a Napoleone III , il quale la avrebbe a sua volta graziosamente girata al Piemonte). La confusione regna sovrana. Prima della cessazione delle ostilità, Cavour aveva inviato a Modena, con la nomina di commissario regio, Luigi Carlo Farini. Gli viene ordinato di rientrare. Ma Farini disobbedisce e anzi si fa proclamare dittatore dell’Emilia. Mentre nessuno ,in Piemonte, sembra trovare il bandolo della matassa o, perlomeno il modo di uscire onorevolmente da questa situazione, Farini così telegrafa a Cavour: “ Fate attenzione che se il duca di Modena fa qualche tentativo, io lo tratto da nemico del Re e della Patria. Io non mi lascerò cacciare da alcuno, mi dovesse costare la vita.”2 Il plebiscito per l’annessione sarà la degna conclusione di un’azione condotta con tale coraggio ed energia. La seconda guerra d’indipendenza, merito anche di questo romagnolo dagli ascendenti rivoluzionari ( suo zio Domenico Antonio era stato un leader giacobino e imperante la reazione fu assassinato nel 1834 a Russi ) non era stata un’inutile carneficina: il 2 aprile 1860 ebbe luogo a Torino la prima riunione del Parlamento italiano. 15 gennaio 1860. Il Grande Oriente Italiano ,che si era costituito a Torino il 20 dicembre 1859, conferisce l’incarico al conte Livio Zambeccari, che era stato uno dei fondatori del G.O.I ., di istituire nell’Italia centrale logge poste all’obbedienza della nuova organizzazione massonica. Anche per la Romagna si sta avvicinando l’ora in cui i fratelli, liberati dal giogo papalino, potranno tornare a riunirsi ritualmente nel nome del Grande Architetto dell ‘Universo. In seguito all’incarico conferitogli dal G. O. I. , Livio Zambeccari ritorna nella sua nativa Bologna per ricostituirvi nel gennaio 1860 “la Loggia Concordia la quale , nel 1862, per distinguersi da altre Logge portanti lo stesso titolo aggiunse al proprio nome l’aggettivo Umanitaria ed ebbe per primo capo il Fr.: Francesco Guerzi”3 che, nonostante la sua veneranda età – era nato a Bologna nel 1784 – e a dispetto del suo cursus honorum di vecchio patriota , non solo accettò l’onere del maglietto della “Concordia” ma curò pure nel 1862 la fondazione ad Imola della Loggia “ Forum Cornelii” ed accettò anche da Zambeccari la delega all’incarico conferita al Conte dal G.O.I. di formare nuove logge nell’Italia centrale. Il 9 novembre 1862 una pressante missiva del Grande Archivista del G.O.I. Angelo Piazza gli chiede conto del suo operato per quanto riguarda la città degli Esarchi: “Quando ci giungerà la domanda della Loggia di Ravenna?”4 . Un’attesa che non sarebbe durata a lungo: Il 3 gennaio il Gran Segretario poteva complimentarsi con Guerzi : Al Ven. Guerzi ,il Gr.: Or.: nella tenuta straordinaria di ieri sera mi ha ordinato di accusare ricevuta della Vostra tavola del 30 passato mese di dicembre n.70 e di notificarvi che il vostro nome [Dante Alighieri] venne registrato nel libro d’oro e ciò per approvare il lavoro Massonico che voi fate all’Or.: di Ravenna e così elevare in quella città un tempio alla virtù. Fortunato di questo incarico del Gr.: Or.: ricevete il triplo bacio fraterno. Il Gran Segretario Gallinati.5 Mancava ormai solo un ultimo passaggio per il ritorno della “Vera Luce” anche a Ravenna. Il 12 febbraio 1863 Gallinati poteva scrivere a Guerzi sulla felice conclusione della pratica: Al Ven. Guerzi, il Gr.: Or.: nella tenuta ordinaria di martedì ultimo ordinò che venisse spedita la patente di costituzione di Loggia alla Dante Alighieri Oriente di Ravenna. Nella stessa tenuta il Gr.Oratore (Avv. Carlo Fiori) propose, e il Gran Consiglio eseguì, una Triplice batteria ben sentita per salutare la fondazione di questo nuovo tempio alla virtù, e mi diede il dolce incarico di ringraziarvi carissimo Guerzi a nome dell’intero Consiglio e della Massoneria Italiana di quanto avete operato per la costruzione di questo Tempio di Ravenna. D’ordine del Gr. M. il Gran Segret. Gallinati.6

Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 26

La Romagna che mai aveva accettato la restaurazione, la Romagna che non si era piegata alla sentenza Rivarola, la Romagna la cui risposta al sopruso pontificio erano stati i moti del ’21, del ’31,del ’43 e del ’45 ,la Romagna che aveva sacrificato 96 dei suoi figli migliori per la difesa della Repubblica Romana e, non paga di questo tributo di sangue e di sofferenze anche successivamente ,nel ’67 , a Monterotondo, in questo crepuscolo del Risorgimento, vedrà cadere 32 volontari, questa Romagna assisteva ora al risorgere a Ravenna della liberomuratoria. Il nome scelto dai fratelli ravennati per la loggia attraverso la quale erano ripartiti nella città degli Esarchi gli architettonici travagli , Dante Alighieri, oltre a riallacciarsi idealmente ad uno dei momenti principali della memoria locale impregnata di spirito esoterico7 ( la vicenda della Tomba di Dante, della sua idea originaria troppo sfacciatamente simbolica e il ripiego compromissorio del Morigia dell’uroboros – alloro sul timpano è il segno – al di là della predisposizione del Morigia e del suo ambiente a ragionar per simboli – che il Divin Poeta ,oltre a venir percepito come il padre della lingua italiana , veniva già inteso come il maestro di una conoscenza sapienziale che nel Medioevo si era opposto alla dogmatica cattolica8 ), risultava assai impegnativo anche dal punto di vista dei risvolti politico-essoterici che avrebbero dovuto conseguire dai fervidi lavori fra le colonne. Risvolti essoterici anch’essi fortissimamente radicati nella storia cittadina: L’inserimento nella più ampia compagine statale [della Cisalpina ] si accompagnò ad un salto di qualità nel tentativo di elevare il tono repubblicano ed il senso di appartenenza ad un’epoca nuova. L’adozione nelle scuole dei saggi democratici del Cesarotti costituiva un primo tangibile segno di svolta; ma fu l’arrivo in città di due commissari del potere esecutivo dalla forte personalità, Vincenzo Monti e Luigi Oliva, a innalzare il tenore dell’azione politica. Con tali presenze inizia un periodo ricco di iniziative formative, volte a educare l’intera città alle nuove idee. Un periodo di conseguenza denso di tensioni, inevitabili non appena si cercava di incidere nel tessuto profondo di una società se non immobile, comunque estremamente legata ai principi tradizionali. L’azione di Monti e Oliva ebbe subito risvolti concreti e tangibili nel panorama cittadino: il 29 dicembre veniva inaugurato tra solenni discorsi il circolo costituzionale che, secondo le parole dello stesso Monti, doveva costituire “ la fucina dello spirito pubblico,[…] il libero porto degl’intelletti, ove approdano da tutte le parti i pensieri della repubblica”. La proposta avanzata in quell’occasione di celebrare Dante in un’accademia in sua lode servì all’appropriazione del poeta tra gli eroi repubblicani ante litteram , e a Vincenzo Monti a purificare le colpe al servizio del Papa ,in uno spregiudicato paragone con il grande fiorentino, colpevole come lui di aver scritto un libro inneggiante alla monarchia, ma ciononostante degno del perdono della repubblica.9 Una politica culturale dei giacobini delle ex Legazioni in cui il poeta sepolto a Ravenna costituiva quindi uno degli snodi principali nella costruzione di un immaginario pubblico e di un’identità municipale che non fossero però solo ancorati alle memorie classiche delle virtù repubblicane della Roma antica ma traessero forza e vigore da colui che la tradizione retorico-letteraria aveva indicato come il precursore dell’identità italiana e – particolare di non trascurabile importanza per i giacobini delle ex Legazioni – la sua lotta contro i soprusi temporali e spirituali del papato lo aveva portato a morire esule a Ravenna. Con questa tradizione, un vero e proprio macigno, doveva confrontarsi la Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna. La storia che ci è possibile ricostruire delle sue vicende interne e dei suoi rapporti con il mondo profano sta ad indicare una sorta di parallelismo ideale fra questa loggia con quella – si parva licet componere magnis – della Massoneria italiana postunitaria. Un grande slancio per la rettificazione delle coscienze e della società spesso non supportato da bastevoli forze per raggiungere questi nobili obiettivi. Oltre che un portato della storia nazionale – in cui le pulsioni particolaristiche ed esclusivistiche , accanto alla feroce reciproca inimicizia , hanno sempre avuto un nemico comune, la Massoneria e chi come lei ha voluto sempre esprimere un forte senso identitario che non fosse, però, che l’indissolubile risvolto di una realtà più ampia ed universale – ,la dimensione dello scacco e del rischio è sempre stata, e sempre sarà ,l’orizzonte entro il quale si sono dovute muovere quelle forze che hanno avuto la nobile ambizione di calare e far vivere nella storia principi che oltrepassino il contingente. Questo fu anche il destino di Dante Alighieri. E’ questo è stato anche il Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 27

destino della loggia massonica ravennate che prese il suo nome. Costituisce ,in un certo senso, il suo maggior titolo di nobiltà. Un iniziale rapido sguardo alle sue vicende interne. Il 14 del 3° mese dell’anno 5863 V.: L.: da Ravenna il medico chirurgo Luigi Bondoli , il primo Maestro Venerabile della Loggia “Dante Alighieri” di Ravenna , così scriveva a Francesco Guerzi, Venerabile della “Concordia Umanitaria” , deus ex machina della nascita della loggia ravennate e king maker della nomina di Bondoli a reggere il maglietto della Dante Alighieri: Caris. Fr.: Ven. Francesco Guerzi, Vi prego che mi siate gentile di mandarmi più presto che vi sarà possibile il vostro regolamento interno della Loggia e pure una copia delle cose più importanti. Noi andiamo avanti con un incremento del personale meraviglioso ,intendo dirvi non per numero ma per qualità dei FF.: , domani sera saremo 40 piacendo al G.A.D.U. , ma vi ripeto sceltissimi. Ora che ho mostrato le rose conviene pure che non vi nasconda le spine , ed eccovi l’oratore che ha sempre continuato con il solito suo sistema di venire nei dieci inviti [ alle riunioni della Loggia] una o due volte per cui mi trovai costretto di nominargli un sostituto nella persona del Fr.: Dottor Miccoli che non ho abbastanza parole per lodarlo .Se il suddetto oratore manca all’invito di domani sera, sarà la quinta volta di seguito, e non lo invito più. L’altro è il Fr.: Segretario Dovilio Della Scala ,uomo irrequieto già per sua natura e turbolento a modo che ha indispettito tutti gli altri M. col suo orgoglio ed assoluta insubordinazione, il quale mi ha già rimesso la sua rinunzia alla carica è questa cosa è gradita da tutti, tutti, tutti. Questo fanatico Mazziniano, come pure l’altro (l’oratore) non hanno contribuito all’ingrandimento del nostro Tempio certamente, perché non un solo individuo venne da loro proposto , e se il segretario ne propose uno mancò ,cioè non fu accettato , ciò vi basti. Ho già passato dei lavoranti nelle persone di avvocati, ragionieri, ingegneri e due ricchissimi possidenti nonché il conte Ghirardini, Corradini Francesco, ecc. Gli ottimi FFr.: Dottor Montanari ,Miccoli, Serra, Magri, Bianchini ed altri che non conoscete, si comportano da angeli veramente degni dell’istituzione. Rispondete quanto più presto vi sarà comodo ed abbiatevi il triplice bacio ed abbraccio fraterno dal vostro Fr.: Bondoli. Al Fr.: Segretario Gasperini il triplice bacio.10 Ad un primo sguardo siamo di fronte alle classiche dinamiche ed ai classici problemi che inevitabilmente si accompagnano a qualsiasi sodalizio – iniziatico e non – di recente costituzione: entusiasmo iniziale, rapido accrescimento numerico, prime defezioni. Più interessante è, invece, indirizzare la nostra attenzione sul conte Giovanni Ghirardini ,che il Bondoli descrive entusiasticamente a Guerzi come una delle più positive nuove speranze della loggia, un illustre esponente – come diremmo oggi mutuando il linguaggio dei partiti politici – della società civile. Ma il conte Ghirardini, qualità che viene taciuta od è ignorata da Bondoli, ha un’altra importante e peculiare qualità : egli è in ottimi rapporti con Garibaldi. Tanto buoni da poter richiedere al Generale un parere a proposito della ricostituzione della Massoneria a Ravenna e da ottenere, con una missiva spedita da Caprera in data 10 giugno 1863, la seguente risposta : Caro Ghirardini ,se la Società Massonica che si vuole stabilire in codesto Paese dipende dal Grande Oriente di Torino ,io vi esorto a sfuggirla. Essa rappresenta la Società Nazionale. Se però appartiene al rito scozzese accettato ed antico, e se è affigliata al Grande Oriente di Palermo ,allora potete liberamente accettarla ,perché è la rappresentazione della Democrazia. Ciò vi serva d’intelligenza. La mia salute migliora sempre, e spero ormai guarir presto per potervi accompagnare nelle battaglie che decideranno le sorti d’Italia. Raccomandatemi agli amici e credete all’affetto del vostro G. Garibaldi .11 Non siamo riusciti a trovare la lettera dove Ghirardini chiedeva il parere di Garibaldi. Non siamo quindi in grado di dire se l’ entrata del Conte nella loggia massonica ravennate dipendesse da una sorta di ipotetico lungo periodo trascorso fra l’invio della missiva e la risposta, che il conte avrebbe potuto interpretare come una sorta

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di silenzio- assenso , oppure dalla volontà di Ghirardini di bruciare i tempi per entrare a far parte della Loggia “Dante Alighieri”, volente o nolente il Generale , il quale in questo caso sarebbe stato solo il destinatario da parte di Ghirardini di un’informativa sulla nascita della loggia formulata sotto forma di richiesta di parere sull’opportunità di aderirvi. Domanda alla quale non siamo in grado di rispondere ma che non è l’aspetto più importante fatto emergere dalla lettera di Garibaldi. Vale a dire il problema della Società Nazionale in Romagna. Non solo il Generale aveva questa opinione negativa ma anche Aurelio Saffi e con lui tutti i democratici mazziniani. Addirittura per “l’ultimo Vescovo di Mazzini” il mazzinianesimo ravennate aveva il suo principale avversario nei “Murattiani e [nei] lafariniani insieme…, l’elemento più dissolvente in Romagna”12. Da cosa derivava questa profondissima diffidenza? E’ noto il sospetto con cui i democratici avevano accolto la costituzione della Società nazionale, accusata, fra l’altro, di essere la longa manus di Napoleone III in Italia, a tutto interessato tranne a che l’Italia compisse sul serio il suo processo unitario. Fra i democratici delle Legazioni, questi sospetti venivano pesantemente aggravati dal fatto che la corrispondenza della società venisse consegnata a Bologna al marchese Pepoli, cugino di Napoleone III e a Ravenna al conte Gioacchino Rasponi. Gioacchino Rasponi : “Era nato a Trieste ,l’8 marzo 1829 , primogenito del Conte Cav. Giulio Rasponi e della Principessa donna Luisa, figlia di Re Gioacchino Murat. Nel 1858 aveva sposato una Principessa Ghika dei principati danubiani.”13 Con Gioacchino Rasponi, quindi, non siamo solo di fronte ad un cugino di Napoleone III ma anche ad un nipote di Gioacchino Murat : non c’è proprio da sorprendersi dei sospetti dei democratici verso una politica della Società nazionale ritenuta molto sensibile agli interessi nazionali francesi. Se a questo quadro di tensioni fra democratici e moderati ,aggiungiamo l’opinione comune da parte democratica che, dopo il 1860 , dietro il formarsi della Massoneria in Romagna ,ci fossero i napoleonidi, non solo vediamo meglio esplicitata la diffidenza di Garibaldi verso una loggia all’obbedienza del G.O.I. di Torino – notoriamente vicino alla Società nazionale e voluta ,probabilmente , anche da Cavour – ma anche il gradimento del Generale nel caso che questa loggia fosse all’obbedienza del Grande Oriente di Palermo ,dove erano confluiti di preferenza i democratici mazziniani. Questa situazione fa così da naturale pendant ai comportamenti turbolenti tenuti in loggia dai due mazziniani, il Segretario Dovilio Della Scala e l’Oratore della loggia, molto verosimilmente a disagio in un ambiente che dal punto di vista profano sentivano, a dir poco, distante. Una profanità ,quella che abbiamo appena descritta, che certamente danneggia l’operato del Maestro Venerabile Bondoli ma che dall’esame del carteggio con Guerzi , siamo in grado di affermare non lo facciano desistere dai suoi sforzi per l’edificazione a Ravenna del Tempio alla Virtù. Scrive Bondoli a Guerzi il 24 gennaio 1863, poco prima della nascita ufficiale della loggia: Carissimo fratello (Guerzi), Il giorno stesso che ho ricevuto la vostra tavola mi alzai da letto dopo esservi stato obbligato dieci giorni, per cagioni di una ostinata affezione reumatica, che mi molesta di quando in quando. Ero dunque in convalescenza quando ho chiamato a me i sette amici Avv. Gaspare Bartolini, Dr. Miccoli, Saverio Serra, Dovilio Dalla Scala ,Giuseppe Magni, Gaetano Bianchini, l’altro essendo assente non poteva far parte della piccola assemblea , e tutti unanimi si convenne di battezzare la nostra Loggia col nome di Dante Alighieri ,come si convenne pure di invitarvi ad accedere quanto più presto vi piacerà , di venire in unione del rispettabile fratello Segretario, dirigendoVi alla locanda della Spada d’Oro. Quando sarete pronti mi darete un preventivo avviso, come pure se verrete per la via di Forlì o di Faenza. In quanto a L. Fabbri debbo assicurarvi che le sue qualità morali furono ottime se non si vuole fare rimarco a qualche leggerezza di prima gioventù. Vi lascio il bacio fraterno ed un affettuoso abbraccio. Il vostro fratello L. Bondoli.14 Luigi Bondoli, un uomo libero e di buoni costumi animato dalla fortissima volontà, nonostante una salute non certamente delle migliori ( nulla sappiamo sulla patologia reumatica che lo “ molesta di quando in quando” ma non

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doveva essere cosa di poco conto se lo aveva costretto a letto dieci giorni : da questo punto di vista, dalla lettera di Bondoli emerge una fortissima propensione all’understatement, uno dei segni migliori di ogni pietra ben levigata) , di edificare un tempio alla virtù. La corrispondenza Bondoli – Guerzi se non le si vuole far dire più di quanto non sia effettivamente in grado di esprimere, è quindi un interessantissimo tranche de vie di una loggia massonica romagnola e della società circostante agli albori dell’unità italiana : fortissimi entusiasmi spinti fino al limite del sacrificio, la difficoltà di trovare nella nuova compagine nazionale un senso della politica e della storia condiviso che riuscisse ad oltrepassare gli schieramenti, l’inevitabile risuonare di questi rumori metallici e stridenti all’interno delle colonne. Certamente quello di Bondoli fu una sorta di apostolato .Alla sua morte (il 27 febbraio 1870 , era nato il 10 gennaio 1803), la seguente iscrizione posta sul suo tumulo fu l’estremo omaggio di riconoscenza per l’amore e la stima che lo avevano accompagnato nella vita profana e nel suo percorso verso la “Vera Luce”: Luigi Bondoli / chirurgo/fondatore della Loggia Dante Alighieri/ di Ravenna/ Apostolo/di libertà e progresso/ per la causa nazionale/sostenne intrepido/carcere ed esilio/morì in Ravenna/ il XXVIII febbraio MDCCCLXX./All’estinto marito/al patriotta integerrimo/la vedova Marianna Mazzotti/i F.: F.: e gli amici/ questa lapide /supremo tributo/d’onoranza e d’affetto/posero.15 Nonostante l’impegno profuso da Bondoli e dalla loggia (oltre alla reggenza del maglietto nella “Dante Alighieri”, collaborazione con Guerzi per la costituzione di logge a Forlì ,Faenza ed in altri centri romagnoli, nomina di un delegato di loggia ,il dottor Giuseppe Montanari, all’assemblea massonica del G.O.I. del 1° giugno 1863, e ancora un altro impegno oneroso sulle spalle della “Dante Alighieri” ,offerta nel 1867 di 100 lire ai profughi di Candia ) ,il 28 agosto 1867- apprendiamo dalla Cronistoria della Loggia Dante Alighieri – la Loggia massonica “Dante Alighieri” viene demolita16 “per avere iniziato profani senza chiedere il nulla osta del Grande Oriente”17. Ma è assai pronta la ricostituzione “con bolla di fondazione del 29 agosto.”18 Gli iniziali protagonisti che in prima persona avevano ripreso a Ravenna gli architettonici lavori dopo i lunghi anni del ritorno nelle Legazioni del potere temporale del Papa, devono ora farsi da parte : “Nella Massoneria ravennate ,accanto a Rasponi , militava Domenico Farini. In una lettera del ’20 novembre ‘67 il nobile ravennate comunicava all’amico deputato che la loggia di Ravenna ,sciolta in giugno, si era ricostituita ‘venerabile egli Rasponi coadiutori il Guaccimanni’”19 . Siamo di fronte ad un’infornata di homines novi e le cariche di Loggia nel 1870 erano così ricoperte: Conte Gioacchino Rasponi, Venerabile Maestro Prof. Luigi Guaccimanni ,1° Sorvegliante Mara Giuseppe,2° sorvegliante Dr.Gaetano Miccoli ,Oratore Guerrini Silvio ,Segretario Calderoni Attilio,Tesoriere 20 Ma nuovi quanto? Se ci atteniamo al piedilista che possiamo ricostruire dai documenti degli atti di fondazione che abbiamo precedentemente esaminato, si tratta, in effetti, di uomini – tranne l’oratore – nuovissimi che non avevano mai varcato le colonne o non vi avevano ricoperto posizioni di responsabilità. Ma se facciamo mente locale alla nostra ricostruzione del quadro politico dei primissimi anni postunitari e delle polemiche fra mazziniani e liberali lafariniani all’interno della Società nazionale, la novità altro non sembra che la certificazione negli organigrammi della loggia delle dinamiche profane che avevano fatto da cornice alla nascita della “Dante Alighieri”. Vediamo ora di esaminare da più vicino alcune delle biografie degli esponenti più in vista della loggia della fase post ricostituzione del 1867. Del Maestro Venerabile Conte Giacchino Rasponi, cugino di Napoleone III e nipote di Gioacchino Murat abbiamo già detto come pure dell’opinione da parte

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dei mazziniani di essere la longa manus della politica dell’Imperatore della Francia e deus ex machina della rinascita ,all’indomani della caduta del potere temporale del Papa , della massoneria in Romagna. Interessantissima, inoltre, è la biografia di Domenico Farini. Pure non figurando in alcun documento ufficiale della loggia , fu sicuramente massone e la sua militanza latomistica ebbe inizio e si sviluppò nell’ambito dei suoi amici di loggia della Dante di Ravenna, il conte Gioacchino Rasponi in primis. Una stretta ed assidua frequentazione con l’illustre napoleonide che ,del resto, era una specie di eredità di famiglia. Il padre, il dittatore dell’Emilia che nella fase post Villafranca abbiamo visto battersi leoninamente per gli interessi italiani e contro la politica di Napoleone III, non si può certo dire che fosse estraneo al sistema di potere e di amicizie napoleonidi. “Luigi Carlo Farini era ben accetto a Napoleone III sia per l’amicizia con molti membri della famiglia dell’imperatore, sia perché, come molti moderati, dopo esser stato vicino a Pio IX all’indomani della concessione dello Statuto ,se ne era però andato da Roma subito dopo la fuga del papa a Gaeta , prima dunque che venise proclamata la repubblica […]. Anche se poi Farini si legò a Cavour ed alla politica piemontese, rimase viva la sua amicizia con i napoleonidi , tanto che nel ’59 ,quando fu governatore delle Romagne, chiamò presso di sé , come segretario particolare nel governo provvisorio, Achille Rasponi, il terzo dei figli della principessa Luisa Murat. Il figlio di Luigi Carlo Farini, Domenico, nonostante non militasse nel partito del padre, continuò però sempre a praticare le amicizie della sua giovinezza, mantenendo con il circolo dei Rasponi una intimità di rapporti documentata sia dalla corrispondenza epistolare tra loro intercorsa sia dalla comune milizia massonica . Sarebbe perciò difficile sostenere che l’ attività parlamentare di Domenico Farini prescindesse del tutto dalle opinioni e dalle decisioni della loggia di Ravenna, egemonizzata dai Rasponi .”21 Il grosso rilievo massonico di Farini ( “Ininterrotta fu la dimestichezza di Domenico Farini con il Gran Maestro [Frapolli] , malgrado vent’anni li separassero. Aiutato da Rasponi , nel 1867 il figlio dell’ ex Dittatore di Modena riuscì a ravvivare la Loggia del suo Collegio, la Dante Alighieri, entrata in crisi dopo anni di vita rigogliosa”22 ) e il suo sfavillante cursus honorum ( “Candidato a Ravenna, nel ’64 Domenico Farini ‘ prima delle elezioni non volle fare atto alcuno per ricercare voti ’.Si sentì meno sicuro l’anno dopo e ricorse a Frapolli.[…] Nel ’70 Domenico ricercò l’aiuto del Gran Maestro per evitare che ‘ dalle divisioni della sinistra traessero vantaggio i clericali ’.Ad ogni buon conto venne rieletto per otto legislature ed il merito fu quasi tutto suo”23) ,ci restituiscono l’immagine di un notabile politico dell’Italia postunitaria in cui le chiare qualità personali di leadership ( fu anche Presidente della Camera, succedendo a Cairoli) ben si armonizzano con un’indubbia capacità di lavoro fra le colonne e , fuori da queste, si avvaleva ,senza prevaricazione ma assai abilmente, della tradizione napoleonide inaugurata dal padre. Luigi Guaccimanni. “Il conte Luigi Guaccimanni ,nobile figura di cittadino e di patriota nazionale, fu l’attivissimo segretario della Società Nazionale di Ravenna, ufficio ch’egli[accanto a Rasponi ] potè svolgere egregiamente , anche per la sua qualità di ingegnere. Dovendosi spostare continuamente pei propri lavori, senza destare sospetti, e pure per la sua natura riservata, poteva attendere alla organizzazione , reclutare nuovi e fidi elementi, far pervenire disposizioni e comunicazioni, e raffermare sempre più e sempre meglio la Società nella bassa Romagna .”24 E ad ulteriore conferma del suo ruolo centrale nella cospirazione di segno moderato e nell’ organizzazione della Società nazionale dove si dovette contrapporre all’ ala sinistra egemonizzata dai mazziniani: Guaccimanni Luigi[…] .Nacque il 29 luglio del 1832 da Giovanni, Presidente del Tribunale di Ravenna e della Contessa Tiepolo Loredana di Venezia. Studiò ingegneria e fu ingegnere nel Corpo del Genio Civile. Divenne poi una delle figure più rappresentative e più simpatiche fra i liberali della città nostra. Ebbe costante una corrispondenza di pensiero , di sentimenti e di opere con uomini preclari. Può dirsi che dall’epoca del risorgimento anche della nostra Ravenna, la casa Guaccimanni fu il convegno di tutte le manifestazioni patriottiche e civili della frazione più avanzata del partito liberale costituzionale. Nelle lotte fra conservatori e progressisti (chi più le ricorda?) cioè fra coloro che avevano accettato, forse subito, il nuovo ordine di cose e coloro che

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l’avevano lungamente ardentemente propugnato, Guaccimanni fu costantemente con costoro. Ebbe anche a reggere per vari anni come Prosindaco ,l’Amministrazione comunale. Nel 1876 fu efficace collaboratore con Giuseppe Rava per la costituzione di una fiorente Federazione democratico-progressista della quale fecero parte Alfredo Baccarini e Domenico Farini. In casa sua sorse , e per qualche tempo fu da lui presieduta, la sezione ravennate della “Dante Alighieri”25.Ebbe rapporti coi patriotti più insigni; conobbe Felice Orsini, fu l’Amico di Aurelio e Giorgina Saffi , di Benedetto Cairoli, di Domenico Farini, di Gaspare Finali e soprattutto di Alfredo Baccarini. […] Fu per lunghi anni consigliere provinciale ,membro della commissione di assistenza e beneficienza pubblica , anche presidente della Congregazione di Carità; ed in ogni tempo propugnatore di ogni iniziativa utile al paese. Ebbe insomma una vita costantemente buona e civilmente operosa. Morì in Ravenna il 5 giugno 1917.26 In occasione della guerra franco-prussiana -che segnò la fine di Napoleone III- e della conseguente partenza delle truppe italiane per Roma, il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Ludovico Frapolli inviò a tutti i Maestri Venerabili d’ Italia e al notabilato massonico circolari perché fossero organizzate manifestazioni di sostegno popolare alla spedizione militare che in pochissimo tempo avrebbe ricongiunto la città Eterna alla Patria .Il problema principale per queste manifestazioni era che tutto si doveva svolgere nella piena legalità e che non degenerassero in atti ostili al governo e alle autorità costituite. Dopo Aspromonte, la terza guerra d’indipendenza e Mentana, il tramonto del Risorgimento aveva assunto un colore livido e la questione romana , se non maneggiata con cura, rischiava di risultare letale per la debole creazione unitaria egemonizzata dai moderati. Così i fratelli interpellati da Frapolli furono presi alla sprovvista e molti di loro indugiavano accampando come scusante o lo scarso seguito che avrebbe avuto un’iniziativa del genere ( “De Zugni prima titubò: ‘A Venezia e nel Veneto è impossibile ottenere ciò che costà si desidera. Qualunque tentativo riuscirebbe inutile. Fra due secoli forse le cose potranno cambiare ,ma oggi il clericalismo ed il servilismo sono piaghe troppo profondamente radicate negli animi ’ ”27) o ,al contrario, che, pur esistendo un sentimento popolare del tutto favorevole all’impresa , le pubbliche autorità si sarebbero opposte alle manifestazioni in ordine a timori sull’ ordine pubblico. Una delle risposte di questo genere alle circolari Frapolli , fu quella fatta pervenire al Gran Maestro da un disincantato Guaccimanni: L’opinione pubblica qui da noi è pronunciatissima , ed anche i più moderati esclamano con enfasi: che fa questo imbecille di Governo, che non prende l’occasione per andare a Roma? I più ardono di impazienza , ma nelle Romagne nostre, tutte fuoco, le dimostrazioni sono difficilissime. Tuttavia non mancherò di darmi d’attorno e spero di riuscire.28 Per la verità le preoccupazioni di Guaccimanni più per “questo imbecille di Governo” che poco avrebbe fatto per far giungere al suo naturale compimento con Roma italiana e capitale il processo unitario, erano rivolte tutte alla massa che una volta adunata e organizzata rischiava nelle Romagne di rimettere in discussione quei rapporti di forza che cristallizatasi all’inizio all’interno della Società nazionale (liberali costituzionali egemoni, ruolo ancillare per i democratici di stampo repubblicano) avevano avuto il loro definitivo suggello dai plebisciti organizzati dal dittatore dell’Emilia e che continuavano ,dieci anni dopo, ancora ad imperare. Una prudenza quella del Guaccimanni che non significava certo freddezza verso la prospettiva di Roma ricongiunta all’Italia e nemmeno indulgenza verso le prospettive clerico-moderate che vedevano come fumo negli occhi la caduta del potere temporale del Papa. Per non lasciare adito a speculazioni e far intendere la parte della barricata in cui si era scelto di combattere – e in cui la Loggia “Dante Alighieri” si schiererà sempre all’ ordine – all’indomani della breccia di porta Pia la liberomuratoria ravennate fece deporre sulla tomba del Poeta la seguente iscrizione: Esultate,ossa del divino Poeta/Dal vincitore esercito italiano/il XX settembre MDCCCCLXX/ Fu riparata la colpa /Di Costantino Cesare/Cui la grande anima/Ch’era vostra forma/Lamentava/Quando all’Inferno/Contro Niccolò Papa/ Esclamò/Ahi ,Costantin/ Di quanto mal fu matre/Non la tua conversione /Ma quella dote/Che da te prese il primo ricco patre.29

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In effetti, l’iscrizione deposta dai massoni ravennati si presta a più livelli di lettura ,tutti espressivi però di un vero e proprio progetto che la massoneria ravennate condotta da Rasponi e Guaccimani serbava per la città degli Esarchi e per il resto della Romagna. In primo luogo, sul piano della “politica culturale”, la riconferma e la riproposizione da parte della Loggia “Dante Alighieri” del più importante topos dell’immaginario esoterico cittadino, rivendicando con ciò la “Dante Alighieri” non solo la sua funzione più prettamente esoterica ma anche una più manifestamente politica imperniata sugli aspetti essoterici del mito del Poeta(operazione di “politicizzazione” di Dante che a Ravenna era stata condotta per la prima volta da Vincenzo Monti sotto la repubblica Cisalpina). In secondo luogo, la decisa accentuazione delle potenzialità di polemica anticlericale insite in una figura come quella di Dante , inserita in un disegno di egemonia delle forze popolari che individuasse nel “partito” nostalgico cattolico il nemico comune e nel contempo, proprio grazie a questa dialettica amico-nemico, riuscisse a mantenere la leadership sulle forze repubblicane di matrice mazziniana, rivoluzionarie dal punto di vista istituzionale ma certamente non contrariate dalla conclusione anticlericale che, al momento ,aveva assunto il processo unitario. Del resto, che il “progetto” della massoneria ravennate – o ancor meglio, degli uomini più rappresentativi che essa espresse – fosse quello di incanalare ed interpretare in una complessa opera di mediazione le componenti più moderate dello schieramento democratico, emerge dalle rete di relazioni e dalle posizioni politiche che questi personaggi assunsero quando rivestirono posizioni di responsabilità o in ruoli pubblici o come esponenti del notabilato massonico nazionale. Di Luigi Guaccimanni abbiamo già visto che nel “ 1876 fu efficace collaboratore di Giuseppe Rava per la costituzione di una fiorente Federazione democratico-progressista della quale fecero parte Alfredo Baccarini e Domenico Farini”30 .Di Domenico Farini abbiamo già detto. Conviene soffermarci su Alfredo Baccarini. Nato a Russi nel 1826, laureato in ingegneria, aveva combattuto valorosamente nel 1848 negli scontri di Vicenza e Treviso, una fama di intrepido patriota che gli valse l’attenzione e la protezione di Luigi Carlo Farini che, dopo Villafranca, lo fece assumere al servizio del nuovo stato :col riordino del genio civile , con Regio Decreto 1° marzo 1860, viene nominato ingegnere di II classe e sempre per iniziativa di Luigi Carlo Farini “fu chiamato nel ’60 dal dittatore dell’Emilia Romagna […] a far parte della Commissione che doveva trattare col governo toscano per la costruzione della linea ferroviaria Faenza Firenze”31 .Una vicinanza quella di Baccarini con Luigi Carlo Farini che con il figlio di questi, Domenico , si tramuterà in una vera e propria amicizia personale e politica. La sua appartenenza massonica32 , come quella di Domenico Farini, di Luigi Guaccimanni e di Gioacchino Rasponi, oltre a farne uno dei rappresentanti più illustri di quella coterie latomistica che era sorta attorno alla Società nazionale, si inalveò naturalmente in una visione politica “ che cercò di guidare l’inserimento della regione nell’Italia unita ,promuovendone l’indispensabile miglioramento economico-sociale attraverso il richiamo insistito e ribadito ai valori ed alle alleanze del Risorgimento[…]. [Ritenne cioè] che solo il mantenimento di un fronte comune di tutte le forze genericamente progressiste, deciso ad operare in concreto sui dati del reale[…] potesse avviare un cammino di progresso capace di vincere tutte le resistenze frapposte a chi si manteneva aggrappato alle immobili gerarchie di potere del passato[…] finendo così per scontrarsi con una situazione di rapporti sociali ben poco scossa dalla recente tensione unitaria ed al contrario bloccata dalla dura contrapposizione tra chi deteneva tutte le leve della proprietà economica e finanziaria e quanti ne erano brutalmente esclusi”33.Con Baccarini siamo quindi in presenza della migliore e più consapevole espressione di quel progetto politico della Massoneria postunitaria tesa ad operare nell’ ambito della compressione delle istanze più rivoluzionarie dal punto di vista istituzionale e sociale con prudenti e meditati atti che , facendo leva sulla tradizione laicista risorgimentale, fossero in grado di fornire, al fine di avviare un reale sviluppo economico e sociale, una alternativa praticabile fra conservazione pura e semplice e sterili e velleitarie rivoluzionarie fughe in avanti. Così si cercò di operare a Ravenna e in Romagna e questo fu anche il ruolo

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essoterico che cerò di interpretare la Massoneria italiana, una valorizzazione cioè di quel ceto produttivo(piccola e media borghesia dei servizi e delle professioni ma anche classe operaia) che come cemento identitario fosse imperniata sulla conseguita unità nazionale ( e nelle sue espressioni più elitarie e consapevoli dall’appartenenza massonica) e sotto l’aspetto della tutela e valorizzazione degli interessi materiali, sulla contrapposizione con le vecchie oligarchie economico finanziarie, a tutto interessate tranne a che in Italia fossero avviati volani di sviluppo economico e democratico. Questo indirizzo concretamente riformatore se sul piano economico- infrastrutturale fu al meglio interpretato da Baccarini, sul piano istituzionale fu il filo conduttore di Aurelio Saffi, pure lui ,non a caso , esponente della massoneria romagnola e che – anche se estraneo al circolo napoleonide-società nazionale-lafariniano ( “ murattiani[…] l’elemento più dissolvente in Romagna”34) ed anzi costituendo il liberalismo dei Farini e alla Baccarini l’avversario politico- elettorale col quale il repubblicanesimo si doveva costantemente scontrare – , non a caso, aveva abbandonato, anche se “ultimo Vescovo di Mazzini”, i rifiuti intransigenti e totalizzanti del Maestro verso l’assetto postunitario ed inizierà ad incoraggiare ,in contrasto col mazzinianesimo “duro e puro” , la partecipazione dei repubblicani alle lotte elettorali. Si deve soprattutto a lui e alla sua duttile ma rigorosa impostazione se i repubblicani potranno trasformarsi da “setta in partito” e cominciare a costruire sul serio, a partire dalle amministrazioni locali, quella alternativa alla monarchia, che, traendo forza dal Municipio, si allargasse fino ad investire e sommergere, in una ulteriore fase, la massima istituzione dello Stato. Ma ,nel frattempo, era necessario operare, rendere il nuovo ordine che era scaturito dall’indipendenza nazionale veramente in grado di migliorare, da subito e sul serio, le condizioni di vita morali e materiali delle masse più diseredate, ponendo all’avanguardia in questo processo la parte più fattiva e moralmente seria della borghesia produttiva. Saffi l’aveva capito, i napoleonidi dell’ex Società nazionale l’avevano capito, la massoneria romagnola e nazionale pure. Che poi questo generoso e lungimirante disegno abbia visto nella nostra storia nazionale molti nemici e solo molto parziali realizzazioni e nella fase postrisorgimentale ed anche in quella molto più celebrata – a torto a nostro parere – dell’ Italia democratica postfascista , nulla toglie al suo valore ed anche spiega perché la Massoneria ,che di questa idea dell’ Italia era sempre stata l’alfiere – in ciò e solo in questo senso gramscianamente parlando “partito della borghesia” – , sia stata considerata dai settori più retrivi come un corpo estraneo e nemico della vita nazionale, una vera e propria avversione totalitaria ed integralista che avrà il suo naturale sbocco nella soppressione decretatane dal fascismo e nelle varie ondate di demonizzazione che, al di là delle contraddizioni ed errori che possono avere attraversato questa istituzione, colpiranno la liberomuratoria italiana degli ultimi cinquant’anni di vita repubblicana. Nonostante che la massoneria ravennate, o attraverso il suo prestigioso piedilista 35 o tramite gli uomini a lei vicina, fosse, almeno essotericamente parlando, dotata dei più nobili ed alti propositi, dal punto di vista dell’organizzazione non sembra proprio che godesse di una classica salute di ferro. Prova ne sia che – apprendiamo dalla Cronistoria della Loggia Dante Alighieri- dopo la sua ricostituzione rasponiana del 1867 e una vita che pur nella secchezza di queste note si intuisce fattiva (“il Conte Gioacchino Rasponi la rappresenta all’assemblea costituente di Roma del 1872. Nel 1870 è maestro venerabile il Conte Giacchino Rasponi […]. Nel 1873 è ancora Venerabile Rasponi. Il 12 aprile viene iniziato il poeta Olindo Guerrini36, pseudonimo di Lorenzo Stecchetti. Prende parte all’Ass. Cost. di Roma del 1874. Viene Menzionata nell’almanacco del libero muratore del 1875, edito dalle logge di rito simbolico di Milano. Aderisce all’assemblea generale di Roma del 1877 […]. Nel 1878 ha indirizzo presso Domenico Babini”), nonostante, dicevamo, che la Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna sia da ritenere che in questo periodo svolga i suoi lavori con sufficiente regolarità e che sul piano dei suoi rapporti con il G.O.I. la sua fosse una vita intensa – e a suggerire ciò basti far mente locale al calibro profano e non dei suoi iscritti – ,“Con decreto n°28 del 20 giugno 1878 viene demolita per morosità”37. Cosa era accaduto? “Il fratello Cagnoni nelle sue memorie afferma – Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 34

scrive Carlo Manelli – che dopo il ’70 declinò l’attività della Massoneria in Romagna e la Dante Alighieri incontrò tempi difficili a causa delle pubbliche lotte politiche fra clerico-moderati e progressisti. Nel 1870 tutte le altre Logge della regione (Cesena, Forlì, Imola e Bologna) avevano già da qualche tempo interrotti i loro lavori, invece la Loggia Dante Alighieri continuò ancora la sua attività e se ne trovan prove nel Bollettino del Grande Oriente (anno 1875 – n. 1) nel quale si legge che era presente il suo rappresentante all’Assemblea costituente del 23 maggio 1874; nello stesso Bollettino del 1877 (n.2) è registrata l’adesione della Dante all’Assemblea che fu tenuta in detto anno tuttavia senza aggiungere se essa inviò o meno un suo rappresentante “ 38 . Al di là della tendenziosità dell’accusa mossa da Carlo Mannelli ai clerico-moderati di essere l’elemento catalizzatore della crisi della massoneria romagnola ( accusa viziata a nostro parere da una certa dose di anticlericalismo di maniera e della quale non siamo riusciti a produrre alcun riscontro ma meritevole comunque – nonostante la sua tendenziosità più nel metodo in cui viene presentata, nessun documento, che nella verosimiglianza del quadro nella quale s’inserisce , è certamente possibile che la Chiesa sia riuscita a contribuire alla crisi della massoneria romagnola : il problema è accertare concretamente come, e non solo attraverso le sue tradizionali scomuniche e contumelie contro l’Ordine- di un ulteriore approfondimento ), quello che ci sentiamo di far nostro dell’opinione di Manelli è certamente la realtà di una massoneria che , in ragione del suo forte slancio a favorire il conseguimento di nobili obiettivi nel campo economico e sociale, subiva dalla politica – che per le sue dinamiche interne ed anche per motivi meno legati al suo specifico ma allo stridore dei metalli è del tutto refrattaria ad una sorta di eterodirezione anche solo sul campo dei principi – degli inevitabili e dannosi ritorni di fiamma, il cui effetto era anche minare la regolarità dei lavori iniziatici. “ ‘Non dava ormai che raramente qualche segno di vita’ la Massoneria italiana a dieci anni da Porta Pia e a un lustro dall’ascesa della Sinistra al potere (18 marzo 1876) , avrebbe detto , rievocando i tempi del proprio ingresso nel Governo dell’Ordine ,il Gran Maestro Adriano Lemmi. ‘Per molti anni disordinata e divisa’ , aggiunse a sostegno del suo ruolo di ‘Restauratore’ , ‘quindi povera, inerte , infeconda … simile all’ inferma di Dante, non trovava pace e riposo.’ ”39 Questa a parere del “Restauratore” Adriano Lemmi la situazione della Massoneria ai tempi della demolizione della Loggia “Dante Alighieri” all’Oriente di Ravenna e di tante altre logge, romagnole e non, sparse per tutte le Valli della Penisola. In quegli anni la Massoneria ,oltre a dovere fare i conti con il nemico di sempre, la Chiesa – lo ripetiamo: la tesi di Manelli sulla crisi della massoneria romagnola manca di una base documentale, non certo di verosimiglianza40 – e con quanti mal digerivano che “uomini liberi e di buoni costumi” uscissero dalle loro notturne adunanze credendo di recare anche per il mondo profano qualche scintilla di “Vera luce” – la storia dei “poteri forti” , arroganti ed intolleranti è una triste costante nelle vicende italiane – , doveva pur scontare il nobile velleitarismo che l’aveva portata a concepire grandi disegni ma non sostenuti da un’adeguata struttura organizzativa. Il risultato dei primi decenni di vita postunitaria era stato che la società italiana si stava avviando, pur fra mille arresti e contraddizioni e spesso anche con l’apporto degli uomini e delle idee della Massoneria, verso assetti sociopolitici più progressivi e che , comunque, tendevano a fare dell’Italia una nazione industrializzata animata da una più intensa dinamica politica e sociale , ma che da questa nuova situazione la Massoneria non traeva alcun vantaggio; anzi rischiava di rimanere stritolata dai suoi vecchi e nuovi nemici ed anche dal nascere di nuove forme di aggregazione (i partiti politici ,i sindacati) più adatti a dare rappresentanza ed ascolto alle necessità identitarie e di organizzazione degli interessi legittimi sviluppatisi nella nuova Italia in via di industrializzazione. E così la triste condizione della liberomuratoria italiana era proprio quella spietatamente diagnosticata da Lemmi: “Non dava ormai che raramente qualche segno di vita”, “ quindi povera, inerte ,infeconda” .La Gran Maestranza di Adriano Lemmi fu dedicata a porre energicamente rimedio a questa melanconica situazione . Non tanto nel segno di una conversione della massoneria italiana ai più tradizionali schemi della massoneria anglosassone imperniata sull’ andersoniana preclusione fra le colonne della politica e della religione, soluzione che per quanto

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avrebbe portato la massoneria italiana nell’ambito di una più rigorosa regolarità iniziatica era del tutto estranea alla sua storia, ma nel quadro di un irrobustimento organizzativo che dotasse l’Ordine anche di un corpo sufficientemente robusto e pugnace per affrontare i rigori di un ambiente essoterico esterno che nulla era disposto a concedere ai volenterosi figli della Vedova. Di fatto, per quanto il disegno lemmiano di impegno politico dell’Ordine volto a fargli assumere il ruolo di vero e proprio “superpartito” esponesse ancora una volta la Massoneria ai rischi di un ritorno di fiamma della profanità ( cosa che puntualmente si riproporrà con Lemmi e i suoi successori dell’Italia postunitaria), i suoi sforzi profusi a livello organizzativo, anche se il loro bilancio non fu quello trionfalistico che voleva far intendere il Gran Maestro, produssero notevoli risultati nel rianimare una massoneria che “Non dava ormai che raramente qualche segno di vita” , “quindi povera, inerte, infeconda”. Non appena assunto il supremo maglietto già assistiamo ai primi tentativi di far risorgere in Romagna le colonne e “ dalla “Rivista della Massoneria italiana” del 1885 (pag.166) si apprende :’La Massoneria tace in Romagna, si comincia a comprendere da Fratelli autorevolissimi il bisogno di rianimarla. Più tardi l’opera del Grande Oriente e dei suoi delegati speciali si rivolgerà a Ravenna, a Forlì ed a Cesena’ ”41.Un’opera che fu affrontata con molto impegno e che doveva incontrare qualche difficoltà se “Dalla stessa rivista del 1891 (pag.16) si hanno ancora le seguenti notizie: ‘si lavora attivamente per la ricostruzione della Loggia a Ravenna’ e l’anno 1893, (pag.202) ‘anche a Ravenna si lavora energicamente per mezzo del Capitolo di Bologna .Non è possibile che i vecchi e valorosi elementi dell’antica Loggia Dante Alighieri vogliano in questi tempi ,rimanersene più a lungo inattivi’ ”42.Ma i tentativi, che evidentemente hanno incontrato resistenze o perplessità sull’opportunità di rifondare la vecchia Loggia “Dante Alighieri” proseguono e già si comincia ad intravedere la (Vera) luce: “E a pag. 176 del 1894: ‘anche a Bologna il lavoro di espansione massonica nelle Romagne procede vigorosamente . Tutto ci induce a sperare che in breve risorgerà meglio ordinata la Loggia Andrea Rinuncini di Rimini ,di Lugo e che risorgeranno le vecchie Logge di Ravenna, Ferrara, Imola ,Faenza e Forlì ’ ”43. E finalmente, siamo agli ultimi scorci della Gran Maestranza lemmiana, fiat (Vera) lux : “L’anno dopo la stessa rivista scriveva: ‘la Loggia Dante Alighieri di Ravenna si ricostituisce col fior fiore dei Fratelli della gloriosa Loggia omonima che sono anche il fior fiore della democrazia ravennate ’.E qualche numero dopo (a pag.115) annunciava che era ‘pronto il Decreto per la ricostituzione della vecchia Loggia di Ravenna’ e più oltre ( a pag.309) è segnalato fra gli atti ufficiali , che è ‘ Ricostituita l’antica e gloriosa Loggia Dante Alighieri all’Or.: di Ravenna’ ”44 .Ma chi erano i protagonisti ravennati della rinascita della Loggia “Dante Alighieri”? Scomparso, il primo Maestro Venerabile Bondoli, prematuramente venuto a Mancare il napoleonide Gioacchino Rasponi (nato a Trieste nel 1829 era morto a Selvagnone presso Forlimpopoli nel 1877), non compreso nel piedilista Domenico Farini ( ma a rigore –anche se massone accertato- non lo era stato nemmeno nella rifondazione rasponiana del 1867 ed è stato da noi inserito se non fra gli iscritti alla Loggia fra i suoi numi tutelari in virtù della lettera scrittagli dal Rasponi e dal suo essere incardinato per tradizione familiare e per l’amicizia col cugino di Napoleone III nel sistema politicoamicale napoleonide; comunque, nel periodo della seconda rifondazione della loggia ravennate era Presidente del Senato e per di più afflitto da un male incurabile: del tutto impossibilitato perciò di partecipare ai lavori della Loggia “Dante Alighieri”), ritroviamo che il maglietto nella risorta loggia è tenuto da uno dei protagonisti della prima rifondazione del 1867, Luigi Guaccimanni, già Primo Sorvegliante ai tempi della rifondazione rasponiana e uno dei referenti privilegiati dell’allora Gran Maestro Frapolli. Una sorta quindi di ritorno al passato ma un passato di altissimo livello, in quanto la biografia umana e politica di Luigi Guaccimanni costituiva una garanzia insuperabile per quanto riguardava la componente liberale moderata della massoneria ravennate (alla Baccarini ,per intenderci) ma anche per la componente democratico- repubblicana più moderata che, saggiamente , e pragmaticamente, abbandonati i propositi di rivoluzionamento istituzionale, si voleva attrezzare – come vedremo – a governare la città. E se questo molto difficilmente poteva avvenire in alleanza con i liberali, anche

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se quelli di matrice più progressista, altrettanto difficilmente sarebbe potuto accadere attraverso uno scontro mortale con loro. E una sorta di composizione dello lotta politica nella sala dei passi perduti non poteva che essere di giovamento a quelle forze più schiettamente popolari – repubblicane e socialiste – , le quali ,da un lato non potevano trarre alcun utile dallo spasmodico acutizzarsi della contrapposizione con i liberali e ,dall’altro, la mediazione che poteva essere agevolata dalle colonne sarebbe risultata funzionale anche a frenare la rissosità fra i due alleati. Le elezioni amministrative del 4 novembre 1900 pongono definitivamente termine a Ravenna alle amministrazioni guidate dai liberali costituzionali e consegnano la città ad una coalizione a guida repubblicano-socialista. Per quello che riguarda il nostro discorso, è di estremo interesse rivolgere lo sguardo su due dei principali protagonisti di questa svolta politica: i fratelli Cagnoni, Pietro e Andrea . Iniziamo da Pietro Cagnoni. Massone, il suo profilo latomistico ,per quanto riguarda la realtà ravennate, è di primissimo livello. Fra i rifondatori della Loggia “Dante Alighieri” assieme a Guaccimanni nel 1895, nel 1908 e nel 1909 vi verrà eletto Maestro Venerabile. Gestore, assieme al fratello Andrea , pure lui massone nella “ Dante Alighieri”,della società “Romagnola di navigazione”, la quale società apparentemente dedita al commercio di legname , svolgeva in realtà una funzione di copertura per i contatti cospirativi dei Cagnoni con l’irredentismo: Questa società in funzione di congiungimento fra l’Italia e i paesi irredenti aveva uno scopo più spirituale che materiale, tanto è vero che la sovvenzionava lo Stato, essendo il movimento insufficiente a farla sopravvivere .Pietro Cagnoni trascorse parte della sua esistenza a Trieste , a Fiume e nell’interno dell’Impero Austriaco , essendo anche interessato al commercio dei legnami. Durante la sua permanenza in quelle terre tenne stretti rapporti col movimento degli irredenti che organizzò e diresse per lungo tempo , insieme con i fratelli Mayer, Belasic e Felice Venezian appartenenti alle Loggie di Trieste e di Fiume ( ricorderemo che la Massoneria era proibita dalle leggi austriache). Col vapore “Ravenna” il Fr.: Pietro Cagnoni curò l’espatrio degli italiani e di quanti vollero lasciare l’Austria per la guerra del 1915. A questo scopo il Cagnoni aveva creato nei sotterranei del Caffè Garibaldi in Trieste, tenuto dalla famiglia Quarantotto , una stamperia clandestina per fare i passaporti falsi. Nella imminenza della guerra, il Cagnoni venne ricevuto quattro volte dal re Vittorio Emanuele III al quale recò l’ansia degli irredenti. Nell’ ultimo colloquio portò un ultimatum dei triestini col quale rendeva noto che se non si fosse presa una decisione rapida , nel senso voluto, avrebbero suscitato una [sic] casus-belli ( Salvatore Barzzilai [sic] nel suo volume “Luce [sic] ed ombre del passato” accenna a tali propositi – pag.138). La Massoneria non fu estranea a tale iniziativa tanto è vero che venne chiesta ai Fratelli atti alle armi la loro adesione. Il giorno 24 maggio 1915, giorno in cui iniziarono le ostilità contro l’Austria, il fr.: Pietro Cagnoni si trovava a Trieste col piroscafo “Ravenna” e riuscì a svincolarsi all’ultimo momento con gli ultimi profughi. Pietro Cagnoni svolse la sua opera a favore delle terre irredente, obbedendo a precise direttive che personalmente e segretamente riceveva dal Gran Maestro Ernesto Nathan. Il fr.: Cagnoni curava i rapporti con le Logge di Trieste e di Fiume anche per via epistolare ed a tale scopo era munito di un alfabeto e di un dizionario convenzionale. Tanto fu apprezzata l’opera del Cagnoni anche da parte del Governo del nostro paese che appena dichiarata la guerra all’Austria , l’allora Ministro degli Esteri Sonnino, lo incaricò di continuare l’azione di collegamento presso gli irredenti, assegnandolo al comando della terza Armata. Il Duca d’Aosta gli conferì il grado di Maggiore, mentre quando aveva prestato servizio militare di leva aveva raggiunto il grado di Sergente. Pietro Cagnoni contribuì alla resistenza dei Legionari di Fiume, recando alimenti col vapore “Ravenna”, offerti dalla Massoneria Emiliana Romagnola e forzando il blocco sotto la sua personale responsabilità. Il comandante Gabriele D’Annunzio scrisse la seguente lettera di ringraziamento a Pietro Cagnoni (originale presso i congiunti): Città di Fiume – il comandante – Mio caro signore, so con quanta generosità ella aiuta la nostra causa. Mi giunge notizia della sua larga offerta. A nome dei cittadini e dei soldati la ringrazio. La nostra resistenza durerà sino a che non avremo domato il destino e gli avversari. I resistenti la salutano di gran cuore .Fiume 5 ottobre 1919 – f.to Gabriele D’annunzio. Si ignora la data di iniziazione di Pietro Cagnoni che dovrebbe essere avvenuta a Pesaro attorno al 1890. In Loggia fu attivissimo :coprì la carica di Venerabile , di Architetto revisore, di Consigliere dell’Ordine, nel 1914 lo troviamo rivestito del 33° grado e membro aggregato al Supremo Consiglio.

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45 Per quanto riguarda più propriamente il versante amministrativo ravennate, fondamentale risulterà la sua attività pubblicistica svolta sulle colonne della “Libertà”, l’organo dei repubblicani ravennati, propedeutica alla svolta politica del 1900 e volta a delineare un nuovo quadro economico per Ravenna, all’interno del quale la vecchia “ città del silenzio” , facendo leva sulle sue migliori potenzialità , in primis il porto, fosse riuscita a congiungersi al treno dello sviluppo industriale del Nord Italia. Ruolo diretto di amministratore, invece, per il fratello Andrea. Andrea Cagnoni presiede come primo degli eletti, l’Assemblea all’insediamento del nuovo Consiglio Comunale uscito dalle elezioni amministrative del 4 novembre 1900 e il suo discorso costituisce una sorta di manifesto per la nuova giunta e una esplicita rottura con il passato: attacca lo stato accentratore “ che ‘assume a sé tutti i poteri e le finanze ’,sottoponendo il comune ad una sorveglianza assidua ,tormentosa ,avvilente. Il problema dell’autonomia comunale ,secondo l’oratore, investe elementi politici per la sensibilizzazione del popolo al tema della democrazia e della partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica , che essa implica .Investe anche elementi economici affinché i tributi pagati dai cittadini ritornino ad essi sotto forma di servizi pubblici e non si disperdano nei mille rivoli delle spese improduttive.”46 In questo discorso, che rappresenta una sorta di biglietto da visita con cui i nuovi amministratori si presentano di fronte all’opinione pubblica della città , Andrea Cagnoni punta quindi il suo indice accusatore contro uno stato vorace di risorse e nemico dell’autonomia comunale , una autonomia comunale sul potenziamento ed estensione della quale si baserà la piattaforma amministrativa della nuova giunta :l’obiettivo verso il quale si deve tendere è la creazione di una nuova democrazia economica e sociale che veda nella macchina comunale uno dei momenti privilegiati di questa strategia riformatrice e ,conseguentemente, nell’allocazione delle risorse avvenuta in passato secondo un’ottica economicamente e socialmente conservatrice e comprimendo i bisogni delle classi popolari e dei ceti produttivi. A questo punto conviene sottolineare una precisazione metodologica. Quanto da noi riferito dei fratelli Cagnoni costituiscono le linee guida amministrative del blocco popolare socialista-repupubblicano che è uscito vincitore dalle elezioni amministrative del 1900 e non certo la traduzione di fantomatiche direttive di loggia che non sono mai esistite e che non potevano esistere perché avrebbero portato all’immediata spaccatura con l’elemento liberale costituzionale ben rappresentato in loggia ed anche perché, fra l’altro, sin dalla sua seconda rifondazione, Luigi Guaccimanni ne era il suo nume tutelare, certamente sensibile per storia personale all’ascolto e collaborazione con fratelli di diversa opinione ma nel contempo assai orgoglioso del suo illustre passato di fondatore di parte lafariniana della Società nazionale a Ravenna prima e poi di liberale “illuminato” e di larghe vedute ma pur sempre costituzionale. Molto più semplicemente, quello che si intende evidenziare è che l’afflato tipico della Massoneria italiana a fungere da lievito per la crescita della società economica e civile italiana ( la Massoneria superpartito lemmiana con la sua diffidenza verso tutti i partiti – eccezion fatta per il legame del Gran Maestro “Restauratore” verso Francesco Crispi – questo appunto significava, con l’aggiunta, è ovvio, del tentativo di dare luogo ad iniziazioni illustri per avere propri uomini nei gangli vitali economici e politici) , trovò una puntuale interpretazione attraverso l’operato profano dei fratelli Andrea e Pietro Cagnoni, esponenti di primo piano ,specialmente Pietro, della loggia massonica “Dante Alighieri” e attivamente impegnati – Pietro sul piano pubblicistico, Andrea più direttamente sul piano amministrativo – per creare e rendere operativi quegli “equilibri più avanzati” che per buona parte dei massoni ravennati – e italiani – costituivano la premessa indispensabile “ per scavare oscure e profonde prigioni al vizio ed edificare templi alla virtù”. Del resto la Cronistoria della Loggia Dante Alighieri, attesta una intensa attività latomistica della risorta loggia , un laborioso travaglio fra le colonne che non aveva certo bisogno di adagiarsi passivamente sulle scansioni della profanità politico-amministrativa esercitata da alcuni dei suoi più illustri fratelli per darsi un ruolo ed un profilo:

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Viene ricostituita, Decreto n° 65, del 19 novembre 1895 , con 20 Fratelli, con elementi della Loggia e un piccolo nucleo di giovani iniziati della Loggia “Torricelli” di Faenza: Achille Testori, Valentino Pasini, Carlo Nigrisoli, Dr.Domenico Nigrisoli, Dr. Alfredo Badiali, Avv. Alessandro Mascanzoni, Prof. Luigi Guaccimanni , rag. Pietro Cagnoni, Pietro Bagnari , Pio Poletti47, Alessandro Calderini, Michelangelo Malagola, Gaetano Ghigi, Primo Ghigi ,Luigi Palerma ,Alfredo Giardini, Andrea Vizzani, Luigi Triossi, Dionigi Loreta ,Ippolito Bellonzi, Scipione Losini ,Giuseppe Scoto ,Giuseppe Badiali, Giulio Mascanzoni, Innocenzo Fagnocchi e Raffaello Righi. Alla sua installazione presiede il F.: Romeo Boselli Donzi, Saggissimo del Sovrano Capitolo di Bologna. Partecipa con una rappresentanza alle celebrazioni in Roma del 20 settembre 1895. Dal 1895 al 1897 è Venerabile il conte Luigi Guaccimanni. Nel 1896 è presente con una rappresentanza alle onoranze a Terenzio Mamiani a Pesaro e con una delegazione alla inaugurazione della bandiera della Loggia “ Otto Agosto” di Bologna. Il 23 dicembre 1896 la Loggia inaugura la nuova sede in palazzo Borghi. Il 14 marzo 1897 la Loggia delega rappresentanti alla commemorazione del XXV anniversario della morte di Giuseppe Mazzini a Genova e il 9 maggio all’inaugurazione del monumento al Gran Maestro Giuseppe Mazzoni. Partecipa alla Conferenza Massonica per l’Alta Italia dal 18 al 20 settembre 1897 a Milano.Il 2 ottobre 1897 riceve in gran seduta solenne il Gran Maestro Ernesto Nathan. Nel 1898 il G.O.I. approva le elezioni di Loggia. Nel 1899 fonda in Ravenna le cucine economiche per il popolo. Il 4 marzo 1900 con una sua delegazione partecipa alla inaugurazione del tempio della Loggia “Nicola Fabrizi – Secura Fides” di Modena. Nel 1901 il G.O.I. approva le elezioni. Nel 1902 la Loggia devolve £ 15 ai danneggiati della Martinica. Il 16 marzo 1903 è presente con il labaro alla commemorazione di Felice Foresti a Ferrara. Il 20 settembre 1903 è presente con il labaro a Bologna per l’inaugurazione del monumento ai caduti dell’8 agosto 1849. Nel 1905 la Loggia esprime riprovazioni contro le repressioni del governo russo, contribuisce alla sottoscrizione per le feste massoniche del Centenario della nascita di Giuseppe Mazzini e offre un ricevimento in onore del fr.: Ermete Novelli all’Hotel Byron. Il 12 febbraio 1905 la Loggia partecipa nei propri locali della “E. Torricelli” di Faenza alla Conferenza Regionale per discutere il problema della scuola. Il 23 maggio 1906, una delegazione della Loggia partecipa ai funerali di Adriano Lemmi, Gran Maestro della Massoneria Italiana. Nel 1906 ,la Loggia offre £ 50 per i danneggiati del terremoto in Calabria. Il 19 ottobre dello stesso anno ,la Loggia riceve solennemente il F.: Gustavo Salvini e altri due compagni della rinomata Compagnia Teatrale. Nello stesso anno partecipa al convegno di Rimini ,per cementare i legami tra le Logge romagnole. Nel 1907 devolve £ 65 per il centenario della nascita di G. Garibaldi. Nel 1902 ,nel 1904 e nel 1907 la Loggia elegge Venerabile il conte Luigi Guaccimanni, nel 1908 e nel 1909 il rag. Pietro Cagnoni. Nel febbraio 1911 la Loggia è presente con il labaro ai solenni funerali del Fr.: Enrico Golinelli ,Luogotenente Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio. Dal 1911 al 1914 ha indirizzo presso il rag. Ardiglione Fava. Nel 1912 devolve £ 250 alle famiglie dei caduti nella guerra di Libia. Nel 1913 trasferisce la sua sede da Via S.Vitale a Via Salara. La Loggia è rappresentata ai funerali del Fr.: Achille Ballori , Sovr.: Gr.: Comm.: del Supremo Consiglio ,ucciso da un folle il 31 ottobre 1917. Nel 1918 ha indirizzo presso il rag. Ardiglione Fava. Il 7 luglio 1918 una delegazione della Loggia presenzia ad Ancona alle solenni onoranze tributate al Fr.: Luigi Rizzo che, nell’occasione , viene elevato al 33° Grado del Rito Scozzese. Nel 1919/20 è Venerabile il dott. Nullo Bendandi ,con indirizzo in Via D’Azeglio, e nel 1921/22 il rag. Ardiglione Fava, presso il dott. Umberto Grandi, Via Farini 11. E’ rappresentata ai solenni funerali del Gran Maestro Ernesto Nathan passato all’Oriente Eterno il 9 aprile 1921. In occasione del 600° anniversario della morte di Dante , il 14 settembre 1921, viene inaugurata la nuova casa massonica alla presenza del Gran Maestro e di numerose rappresentanze di Logge. Nel 1924/25 è venerabile Innocenzo Fagnocchi. Nel 1924 i fascisti distruggono in Piazza del Popolo i mobili e gli arredi dell’Officina conservati dal falegname Posati, dopo la chiusura della Loggia.48 In seguito ad un rapido deterioramento dell’alleanza fra socialisti e repubblicani ,originato da una radicale divergenza in merito alla collettivizzazione della terra che vede i repubblicani schierati contro la grande proprietà terriera ma ciò non per dare inizio ad una demagogica collettivizzazione agricola ma per favorire la nascita di una piccola proprietà coltivatrice, si arriva alle elezioni del 1902 dalle quali avrà inizio un ventennio di governo della città da parte dei repubblicani. E il nuovo Sindaco ed Assessore alle finanze della neoeletta giunta repubblicana saranno rispettivamente Ferdinando Gallina e Fortunato Buzzi. Sono entrambi massoni della Loggia “Dante Alighieri”. Al di là dell’analisi dell’operato di questi amministratori (Buzzi fra l’altro verrà nominato Sindaco nel 1914 ) , improntato ai criteri di oculata amministrazione delle risorse nell’ambito di uno sviluppo che facendo leva sulle potenzialità della città privilegiasse le nuove forze sociali e produttive contro i vecchi interessi della conservazione, quello che qui intendiamo sottolineare è che la presenza degli uomini della loggia nei posti chiave dell’amministrazione era ormai diventata di ampio dominio pubblico. Ne seguirà una polemica a stampa di cui vale la pena di dare conto, anche per gli indubbi ammaestramenti

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per l’oggi (e per il futuro). A dare inizialmente fuoco alle polveri è un ordine del giorno del Circolo “Giuseppe Mazzini “ di Ravenna , pubblicato l’8 agosto 1903 sulla “Libertà” , l’organo dei repubblicani: I soci del Circolo G. Mazzini del Sobborgo Saffi ,raccolti in adunanza generale; Considerando che i repubblicani non possono e non devono oggi appartenere a società segrete, i cui fini si sottraggono al controllo ed alla luce della critica; Considerando pure che i repubblicani non possono assolutamente far parte di associazioni alle quali sono iscritti re e ministri; DICHIARANO che ogni buon repubblicano oltre al dovere di combattere l’istituzione massonica siccome quella che col suo simbolismo mistrioso sfugge come si è detto sopra a qualsiasi controllo di sana critica, ma talvolta può prestarsi a favorire i loschi fini di camorristiche camarille, non deve assolutamente farvi parte e dove per avventura qualcuno vi sia ascritto deve rinunciare in favore ed omaggio alla chiara idea repubblicana. Nell’immediato, tuttavia, non accade nulla finché non si accende nel partito socialista il “dilemma molto cornuto della compatibolazione” come con icastica formula avrebbe detto Guido Podrecca, ovvero il problema se nel partito per antonomasia dei lavoratori fosse possibile essere illuminati contemporaneamente dal sole dell’avvenire del proletariato e dalla “Vera Luce” emessa dalle notturne adunanze dei fratelli massoni. Fra i più fanatici assertori dell’incompatibilità fra l’appartenenza massonica e quella socialista si distinse l’allora ancora proletario e rivoluzionario Benito Mussolini (al quale più che le sorti del proletariato minacciato dagli oscuri disegni massonici bruciava evidentemente maggiormente il fatto che in un non lontano passato era stato anche lui un bussante alle porte del Tempio, al quale però non si era considerato opportuno aprire), che “sin dal congresso di Bologna (1904) aveva incitato alla ‘misura eroica ’di forzare i massoni ad uscire dal partito’ ”49. In Romagna e a Ravenna , poi, la “compatibolazione” rischiava nel partito socialista di avere esiti veramente devastanti, visto l’alto numero di socialisti presenti fra le colonne, ad iniziare da Andrea Costa e per finire con Pietro ed Andrea Cagnoni della Loggia “Dante Alighieri”. La conclusione di tanto trambusto fu ,al momento, un referendum vinto a maggioranza dei votanti dagli ostili alla doppia appartenenza ma che però non riuscì a coinvolgere la maggioranza degli iscritti. E’ in campo repubblicano – che fino a quel momento ,dopo la folata antiliberomuratoria di Ravenna del Circolo Mazzini aveva taciuto – che si riaccendono le polemiche. Sulla “Libertà” del 14 ottobre 1905 viene pubblicato un articolo del repubblicano Pietro Emiliani, Pro e contro la Massoneria, dove a nome di altri iscritti pone quelle che a suo giudizio dovrebbero costituire domande assai imbarazzanti alla classe dirigente del partito repubblicano: Da un anno abbiamo fatto delle domande che rinnoviamo ,riassumiamo ,in attesa di avere risposte firmate. Cogli anonimi non discutiamo. Aspettiamo quindi di conoscere: L’utilità ,la praticità ,la convenienza, il decoro, la coerenza per i repubblicani di iscriversi nella Massoneria dei tempi nostri ,e desideriamo sapere se la Massoneria si occupa di politica; quali funzioni esercita sul paese , e siccome ogni qualvolta raccogliamo una lordura massonica ,ci si chiede di documentarla ( perché si sa che delle sue colpe la società non ne lascia a palpabilità ) saremo giustificati se noi chiederemo le prove, i documenti delle benemerenze massoniche. E fin d’ora diciamo: Difendete pure la Massoneria se lo sapete, potete e dovete; pubblicate brani di storia fatta per uso e consumo di famiglia, ricordate però che noi mai spendemmo una parola ( e lo avremmo potuto ) per ciò che fu nel passato la Massoneria; noi dobbiamo discutere di ciò che è e fa la presente Massoneria che intendiamo combattere […]. Per potere entrare e restare nella Massoneria , bisogna essere temprati allo sdoppiamento ,sapere essere di notte ciò che non si è di giorno, saper approvare la notte ciò che si condanna di giorno , ragione per cui l’ambiente massonico non è per le coscienze oneste ed ingenue degli operai. Di ciò convinti noi ci agitiamo perché i nostri amici si allontanino o ci illuminino dell’ambiente massonico. Al lavoratore è serbato il dovere di lavorare ,lavorare sempre ; pagare, pagare sempre; l’obbligo di applaudire o fischiare a seconda della volontà dei capi; gli è però lasciata in compenso la libertà di fare qualche pubblica dimostrazione a condizione che questa abbia tutte le forme e carattere delle dimostrazioni civili; può quindi in eccezionali occasioni andare

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a chiedere pane e lavoro purché lascino a casa gli attrezzi del mestiere perché completamente inermi si è in condizioni migliori per ricevere all’occasione il regio piombo.50 A questo punto non ci si poteva certo sottrarre alla sfida, ed è proprio per iniziativa del direttore della “Liberta” Umberto Serpieri , che nello stesso numero del 14 ottobre del giornale si dichiara massone ,a sollecitare che dalle colonne dell’organo del partito si apra una approfondita discussione. Si tratterà di un dibattito che si protrarrà a lungo e al quale il direttore Serpieri concederà un amplissimo spazio, fino al punto che alcuni numeri del giornale usciranno in formato doppio per ospitare gli interventi. E’ un dibattito articolato. Alcune opinioni sono decisamente a favore della Massoneria: Ora il fatto che la massoneria vi lascia liberi di essere e professarvi repubblicani ,socialisti e anarchici ,senza restrizioni o limiti alcuno all’azione vostra, non vi dice che essa è una istituzione superiore ai partiti ed informata ad un alto principio di libertà che non intendono invece coloro che, dicendosi repubblicani o socialisti, vi contrastano il diritto di poter appartenere alla Massoneria o alla Dante Alighieri sotto le minacce di scomuniche e peggio? 51 Altri mantengono un contegno più freddo e meno amichevole verso l’Ordine ma sempre nell’ambito di opinioni civilmente espresse: E difatti: nelle Loggie in cui prevale l’elemento dei cosidetti buontemponi, come a Ravenna, il compito di queste Loggie non è che pubblicare un manifesto per l’anniversario della morte di Garibaldi. E per quanto l’elemento giovane si sforzi nelle adunanze di queste Loggie, a dimostrare quale debba essere la vera missione, i buontemponi crollano il capo.52 Mentre il direttore Umberto Serpieri, vecchia conoscenza fra le colonne, cura, a guida della discussione, una breve storia della liberomuratoria , che ,con una chiarezza che farebbe invidia ai nostri odierni gazzettieri, spiega con chiare parole le origini dell’Ordine, i suoi moduli operativi (imperniati sul simbolo) , i suoi (molto presunti) segreti: In che cosa consiste questo mistero, che farebbe a pugni ,secondo alcuni, colla coscienza moderna? Forse perché non si mette in piazza l’elenco dei massoni? Ma quando si pensi che molti, per la loro qualità di massoni, potrebbero subire gravi danni morali e materiali , dato il predominio che ancora esercitano preti e moderati nella nostra società e data l’avversione che essi hanno saputo così bene suscitare contro i massoni, si vorrà far una colpa se non rivelano l’essere loro? Del resto ,è proprio il caso di dire che il segreto della Massoneria è il segreto di Pulcinella : perché tutti lo sanno , tutti lo conoscono e ci vuole solo una dose eccezionale di perfidia per volere ricamare sotto questo mistero delle recondite e disoneste ragioni. In questa discussione noi ci serviamo appunto delle pubblicazioni che sono in corso fra il pubblico italiano e che teniamo presso noi, ostensibili a chiunque voglia prenderne cognizione per sincerarsi sulla loro veridicità. “[…] Liberamente ,spontaneamente ,con pieno e profondo convincimento dell’anima ,con assoluta ed irremovibile volontà , pel venerato simbolo del Grande Architetto dell’Universo e per quelli della libertà ,fratellanza ed uguaglianza umana , per l’affetto e la memoria dei miei più cari , sul mio onore e sulla mia coscienza solennemente giuro: di non palesare ,per qualsivoglia motivo, i segreti della libera universale Massoneria; di avere sacri l’onore e la vita di tutti; di soccorrere ,confortare e difendere i miei fratelli; di non professare principii che osteggino quelli propugnati dalla Massoneria, e fin da ora, se avessi la sventura o la vergogna di mancare al mio giuramento, mi sottopongo a tutte le pene che gli Statuti dell’Ordine minacciano agli spergiuri; all’incessante rimorso della mia coscienza , al disprezzo e all’esecrazione di tutta l’Umanità”. Che cosa c’è in questo giuramento di così orribile da contrastare ai principii della onestà e della libertà? Non è desso invece una formula solenne racchiudente la morale più elevata che affratelli gli uomini in una religione superiore, senza distinzione di razze , di nazionalità ,di fede politica? E che cosa c’è di strano e d’immorale negli altri simboli? Dopo prestato il giuramento, l’iniziato è cinto di un grembiule, simbolo del “ lavoro, primo dovere e massima consolazione dell’uomo” : riceve i “ guanti di pelle bianca” che significano non doversi mai il massone deturpare con atti d’iniquità: simboli che possono sembrare strani, a chi non conosca o non ricordi la storia della Massoneria, ma che ad ogni modo sono l’espressione di sentimenti buoni ed elevati e nobili, quali ci potremmo tener orgogliosi di saper instillare nelle nostre società politiche.53

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Tuttavia le dichiarazioni di simpatia od antipatia verso l’Ordine e la sua storia , nonostante le migliori intenzioni dei partecipanti al dibattito, rischiano , su un foglio politico come “La libertà”, di peccare di eccessiva leziosità. C’è il sospetto (e questa volta assolutamente ben fondato) che l’antimassonismo di alcuni repubblicani ( ma quanti?, questo vedremo è un altro aspetto interessante della querelle) non sia ispirato dalla pur nobile, anche se del tutto fuori luogo, volontà di lasciare indenni “ le coscienze oneste ed ingenue degli operai”- una prosa più degna di un romanzetto d’appendice che ad un attivista politico e trasudante comunque un paternalismo che stride con il preteso ed ostentato progressismo del suo autore – ma che celi legittimi ma molto meno nobili propositi di lotta politica all’interno del partito: Perché infatti non confessarlo? La campagna che muove l’egregio Emiliani Pietro ora qui fra noi non è altro che il riflesso pallido e tardivo di quella che un noto Felice Albani, non disgiunto dalla Consorte, già svolse con un certa genialità e con vivace accento nella “Terza Italia” all’intento precipuo di mettere in rilievo la bontà del metodo astensionista. Ma vedete gli umili e pedestri imitatori corrispondere solo unilateralmente al concetto che si prefiggono che si rivela così monco, incomprensibile .Molto più utile e apprezzabile quindi il semplice ripetitore che, pur non esponendo cose nuove, si fosse presso a poco così espresso: non si deve annettere nessun valore ai risultati dell’urna – ergo = niente voto né per coloro che escono dalle Loggie, né per quelli che non ci sono mai entrati.54 E’ evidente che il dibattito ha ormai abbandonato le placide sponde delle dichiarazioni di principio per affrontare il cuore politico del problema. A questo punto ci sarebbe da aspettarsi da parte degli antimassoni un richiamo generale alle armi per difendere le proprie ragioni dalle accuse di strumentalità. Replicherà solo colui che aveva lanciato la sfida , una risposta francamente penosa, attraversata fra l’altro dal profondo imbarazzo del non avere alcun seguito nella sua intollerante crociata: Si sarà pensato , e so anche che è stato detto, che mi ero squagliato, come dicono i romani, ma la verità è che sono stato assente per una quarantina di giorni occupatissimo per interessi personali .Però trovavo sempre un ritaglio di tempo per leggere sulla Libertà gli articoli sulla Massoneria, e confesso che mi divertivo a rilevare gli strali acuti lanciati al mio indirizzo […]. V’ ha chi ha detto che l’Emiliani è un solitario, che non ha seguaci nelle sue idee; altri hanno detto che si capiscono e si spiegano le sue insistenze perché appoggiato dal giornale del Partito Mazziniano; mettetevi d’accordo fra Voi ,egregi nostri contradditori .55 Come incipit non c’è davvero male, ricorda molto lo scolaretto scoperto in difetto di preparazione il quale inventa le peripezie più assurde per giustificarsi di fronte all’insegnante. Ma le puerili giustificazioni lasciano il tempo che trovano : in fondo che l’Emiliani fosse stato per una quarantina di giorni in altre faccende affaccendato non poteva importare a nessuno. Ciò a cui bisogna rispondere è l’accusa che la “nobile” lotta contro la Massoneria altro non sia che un paravento dietro cui si cela l’ala astensionista del partito repubblicano, un astensionismo questo no che i fratelli repubblicani (e non ) seduti fra le colonne – non perché insufflati da misteriosi superiori incogniti ma perché intimamente convinti , da uomini liberi e di buoni costumi, che bisognava agire da subito per migliorare le condizioni dei lavoratori – non potevano assolutamente accettare: In pubblica adunanza e nella Libertà un egregio Professionista ha ripetuto che nella nostra agitazione c’è il germe astensionista. Perfettamente d’accordo .Repubblicano , per noi è sinonimo di astensionista, di antimassonico. Il Partito Mazziniano, nei suoi deliberati, ha stabilito che i suoi aderenti non debbono far parte della Massoneria e debbono attenersi alla tattica astensionista. L’una è la logica conseguenza dell’altra.56 La maschera è stata calata ma a questo punto, invece di ritirarsi in buon ordine, non contento di avere ammesso la strumentalità della battaglia antimassonica , la chiusa di Emiliani non è altro che una serqua di ingiurie e accuse deliranti, unite all’implicita confessione di essere una sorta di agente provocatore che lavorava per disgregare il partito:

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Anzi sarà bene, per non averne poi rimprovero, che vi dichiariamo sinceramente che nelle prossime lotte politiche elettorali , ci troverete preparati a combattere contro di voi , preferendo che i nostri patriotti migliori restino fra noi semplici cittadini piuttosto che deputati dello attuale parlamento[…]. Ah! Dimenticate repubblicani-massoni che i ministri, primo fra tutti Fortis, che nove decimi dei deputati, tutti i prefetti, ispettori di pubblica sicurezza, tutti gli altolocati, tutti coloro che mangiano nella greppia dello Stato, sono vostri fratelli in Massoneria?[…]. No ,amico Serpieri, chi forzò la mano fu il proletario senza distinzione di scuola, colle sue agitazioni e minacce; l’amnistia non fu data ma strappata, imposta dalla volontà popolare che non ha, non può avere nessun rapporto con la Massoneria. Se dobbiamo ammettere che questa abbia avuto , nei fatti del 1898 , qualche ingerenza , non può essere stato che nel senso di avere consigliato la repressione o lo spargimento di sangue. Emiliani Pietro57 Dopo queste parole così altamente ispirate, che nella loro patologica fobia e demonizzazione dell’Ordine avrebbero potute essere approvate e sottoscritte da un Leo Taxil e successivamente sotto il fascismo da un Giovanni Preziosi, il direttore della “Libertà” Umberto Serpieri, massone dichiarato ma che fino a quel momento aveva fatto della latomistica tolleranza la sua divisa nella conduzione della discussione , non ha alcuna difficoltà a dichiarare chiuso il dibattito e a cortesemente invitare l’Emiliani a praticare altrove, se vuole, la sua opera disgregativa : Se l’Emiliani non ne ha avuto abbastanza di cinque numeri per dare corso a tutte le sue elucubrazioni e se oggi egli annuncia che continuerà a discutere su altri giornali, è cosa che non ci riguarda. Noi non abbiamo scritto per lui e tanto meno il partito fa il giornale per lui. Quello che ci premeva fare constatare, è stato fatto: la discussione è stata più che esauriente , la confutazione principale delle tesi avversarie l’ho sempre fatta io massone e non degli anonimi e tutto quanto fu detto è stato più che sufficiente ad illuminare gli animi sullo stato vero della questione.58 Un dibattito che purtroppo, con modi anche più grevi e volgari di quelli dell’Emiliani, continua ciclicamente a riproporsi da più di un secolo sulle gazzette ed organi d’informazione italiani, costantemente colpendo – al di là delle idiote e ,perché no?, criminali demonizzazioni – quello che è l’autentico nervo scoperto della Massoneria italiana sin dalla sua nascita. E cioè la dialetticamente feconda ma anche rischiosa contraddizione fra la sua natura iniziatica e la sua costante propensione non solo a svolgere un operato genericamente filantropico ma anche un’azione più propriamente politica verso la società profana, non disponendo per incolpevole limitatezza delle risorse disponibili ( un portato della demonizzazione da parte dell’ala più retriva del cattolicesimo che ha fatto sì che sotto la mitologia dell’onnipotenza dell’Ordine si celasse una realtà dove ben pochi ardimentosi semplici cittadini e possessori di metalli trovassero conveniente bussare alle porte del Tempio ) e non essendo assolutamente disposta a dotarsi (per la sua natura intrinsecamente iniziatica) né delle strutture né delle mentalità tipiche del partito politico, le sole che potevano assicurare una relativa continuità d’azione e possibilità di successo nel mondo profano. La tragedia è stata così che confusa – il più delle volte del tutto maliziosamente – per un partito politico , del partito politico la Massoneria ha dovuto subire gli assalti ma senza averne i mezzi di difesa ( le masse , i mezzi di informazione per influenzarle e dirigerle , i capitali – ottenuti tramite un rapporto di scambio col sistema economico-finanziario e ,in misura del tutto residuale, attraverso l’autotassazione delle masse stesse – per potere sostenere un apparato così dispendioso) .E così accade che nel momento in cui a dettare legge sono le “armi della critica”, cioè in quei momenti di reale crescita democratica dove i protagonisti sono gli uomini liberi e di buoni costumi – appartengano o meno alle logge – , la Massoneria si muove assolutamente a suo agio nell’ambiente esterno, subendone magari le critiche (sarebbe veramente troppo pretendere un impegno anche nella profanità che non si trascinasse con sé il peso di qualche scoria metallica) ma rimandando con successo al mittente le eventuali demonizzazioni. E’ il caso della polemica svolta sulle colonne della “Libertà”, dove uomini della Massoneria giunti al vertice delle istituzioni locali riuscirono a dare felicemente pubblica espressione ai principi appresi fra le colonne in un quadro di profonda e reale Massimo Morigi – La Loggia Dante Alighieri … – Capitolo 2 Pag. 43

crescita economica e civile della città. E così non fu certo un problema rispedire al mittente e ridicolizzare le basse e meschine insinuazioni di Pietro Emiliani. Ma quando la Massoneria si trova a compiere il suo operato in una situazione “bloccata” , in un contesto dove quello che conta è la greve energia muscolare dei “poteri forti”, dove alle “armi della critica” si sostituisce la “critica delle armi”, allora la Massoneria corre rischi mortali. E’ quanto è accaduto con la fine dell’Italia liberale, dove il suo becchino Cavalier Benito Mussolini aveva ben compreso che per procederne alla definitiva sepoltura era indispensabile, in primo luogo, annientare la Massoneria, partito della borghesia gramscianamente parlando ma non nel senso denigratorio che aveva cercato di conferirgli – per la verità senza intima convinzione – il fondatore del partito comunista d’Italia – ma nel significato – intuito ma non espresso da Gramsci stesso – di momento essenziale per l’inveramento delle più alte idealità della borghesia laica e produttiva ( un forte senso identitario nazionale in un quadro di crescita – garantito da uno stato aconfessionale – delle libertà civili e di affermazione di una nuova democrazia economica) . Ed è quanto si è ripetuto in questo secondo dopoguerra dove una democrazia bloccata ha alla fine generato una inevitabile messa in corto circuito del sistema politico riguardo alle sacrosante istanze di crescita democratica ed economica, con la conseguente ricerca di un capo espiatorio che per inveterata tradizione nazionale rispondeva al nome di massoneria , temibilissima nell’immaginario collettivo ma assolutamente incapace nella realtà – proprio per la sua natura intrinsecamente inziatica e non partitico-sindacal-politica e, last but not the least, anche perché profondamente spaesata dalla morte della vecchia Italia liberale, uccisa da Benito Mussolini ma che la repubblica “fondata sul lavoro” si è ben guardata dal riesumare – di abbozzare una energica resistenza ai propositi di immolarla sugli altari di una malintesa e farisaica difesa delle libertà democratiche e di una ancor più ipocrita – visto il pulpito dal quale rimbombava questa impellente necessità, il sistema dei partiti – necessità di trasparenza. Del resto, una riprova della costante propensione della Massoneria a porsi – al di là degli aspetti amministrativi da noi esaminati – come argine ad ogni forma di integralismo ed intolleranza , lo abbiamo ancora in quegli anni di inizio Novecento allorché scoppiò la lotta per le macchine trebbiatrici con scontri sanguinosi fra socialisti e repubblicani, decisi , i primi, ad impedire con tutti i mezzi l’utilizzo di questo tipo di meccanizzazione agraria a difesa della forza lavoro bracciantile; ostili, i secondi, ad imporre un freno allo sviluppo tecnologico delle campagne che avrebbe potuto danneggiare i contadini. Ne seguì un confronto talmente violento che rischiò di portare un colpo mortale nella convivenza fra le forze popolari. “Le conseguenze di quei boicottaggi [dei socialisti contro le macchine trebbiatrici] si palesarono subito di estrema gravità , perché essi dall’ambito economico e del lavoro si ripercuotevano anche nei rapporti privati , per l’ostracismo cui venivano condannati i colpiti, per la subitanea artificiosa rottura di rapporti sino allora cordiali, per l’infrangersi di vecchie amicizie e persino talvolta dei fidanzamenti sì che gli animi ne erano profondamente esacerbati. Ogni giorno le due parti in lotta si scontravano e ogni giorno si annoveravano morti e feriti. ‘Il governo aveva inviato in tutto il ravennate un numero via via crescente di militari; alla fine del maggio 1911 essi erano circa 8000. Ravenna appariva in stato d’assedio’. La Massoneria , che non poteva restare indifferente , organizzò un convegno che si svolse nel Tempio della Loggia VIII agosto di Bologna sotto la presidenza dell’ illustrissimo Gran Maestro Ettore Ferrari. Vi intervennero i Fratelli dell’Emilia e Romagna e fra questi i maggiori esponenti dei due partiti in lotta. Ricordiamo: Genunzio Bentini, Giacomo Ferri, Armando Bussi , Pietro Cagnoni, Fortunato Buzzi ,Domenico Nigrisoli, e Olindo Guerrini. Si conseguì il duplice scopo di ravvivare l’azione delle Logge della Romagna e di concordare una direttiva ispirata ai fini della pacificazione nel conflitto agrario che imperversava in tanta parte della nobile regione. Una rappresentanza della nostra Dante Alighieri con bandiera partecipò con proprio labaro alle onoranze funebri degli illustri fratelli Giosuè Carducci( 1907), Enrico Golinelli , Luogotenente Gran Commendatore (1911) e Giovanni

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Pascoli (1912)”59 . Ravenna, settembre 1921. Sono in pieno svolgimento le celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante. Le iniziative per celebrare l’evento riempiono i giornali ma il clima che si respira non è quello che ci si dovrebbe aspettare per un momento che fa convergere sulla “ città del silenzio” l’ attenzione del mondo intero. In realtà , più che dalla cronaca culturale, l’attenzione della popolazione è già tutta concentrata sulle notizie degli attacchi squadristici “ in questa e in quella località, di ribalde e violente dimostrazioni sulle quali le forze dell’ordine sembrano tenere reazione piuttosto blande.”60 Come se non bastasse questa situazione a dare un sapore amaro alle celebrazioni ,“ All’avvicinarsi dei festeggiamenti ravennati del settembre si dà notizia di una possibile massiccia presenza di fascisti. E fu l’anteprima della marcia su Ravenna dell’anno dopo , su terre , come si disse ‘ ancora infestate da avversari crudeli’. Tremila uomini ,vestiti di camicia nera, che ‘fece la sua grande prima comparsa come divisa militare’,al comando di Italo Balbo, partirono in due colonne ,una da Bologna, l’altra da Ferrara, che si congiunsero a Lugo. Da qui mossero per Ravenna ‘sfilando coi gagliardetti in testa davanti all’urna di Dante e alzando il grido presago e superbo: a Roma’ .Furono invasi circoli socialisti, la sede della Camera del Lavoro, la Federazione delle cooperative , furono bruciati ritratti, carte , libri, bandiere.”61 La calata di Balbo su Ravenna del 12 settembre 1921 era in realtà un ben triste epilogo per delle celebrazioni che erano iniziate sotto una ben diversa insegna spirituale. “[…] [Il] bacio che don Mesini diede [in occasione della ricognizione delle ossa di Dante] al teschio del Poeta; la commozione da cui fu preso il sindaco repubblicano Buzzi che, prima di depositare accanto alle ossa di Dante un ramo di alloro, chiese in romagnolo a don Mesini una benedizione anche ad esso ‘perché Dante era cattolico’ ”62 ,erano il segno che le tragedie degli anni prima non erano passate invano e che era venuto il momento per gli uomini liberi e di buoni costumi, dell’una e dell’altra parte della barricata, di deporre le armi e di collaborare fraternamente per affrontare la marea di violenza che stava sommergendo l’Italia. Erano lontanissimi e definitivamente sepolti i tempi in cui Dante ,nell’occasione del sesto centenario della nascita, era stato usato come vessillo dell’anticlericalismo romagnolo, quando il sindaco massone Gioacchino Rasponi, in risposta alla lettera del Vicario Giovanni Arcidiacono Majoli in cui lamentava che in occasione della cerimonia di celebrazione del Poeta non era stato invitato il clero e non si era potuta disporre la benedizione delle ossa prima di ricomporle nella cassa, aveva avuto tutta l’improntitudine di affermare: “La giunta non ha ordinato esequie alle ossa perché queste già seppellite cristianamente nel 1321[e così] non fu reputato che avessero bisogno di nuova memoria religiosa”63 . Tempi di dure contrapposizioni, tempi di anatemi reciproci che la dolorosa storia d’Italia dei primi decenni postunitari e i pericoli del momento per la democrazia imponevano di cancellare per sempre. Don Mesini l’aveva capito. Il Sindaco Fortunato Buzzi ( massone e quindi scomunicato) l’aveva capito. Italo Balbo e i suoi accoliti in camicia nera procedevano per altre vie da quelle della tolleranza e dall’ “edificare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio”. C’era però il tempo per un estremo gesto riparatore alla profanazione delle camice nere. La Loggia Massonica “Dante Alighieri” “organizzò una grande manifestazione per onorare il Poeta ed un convegno massonico che riuscì imponente per il grande numero dei Fratelli intervenuti.[Il 13 settembre 1921] si svolse per le vie della città un corteo diretto alla tomba del Poeta nel quale il labaro del Grande Oriente seguito dal Gr. M. Domizio Torrigiani, dai grandi Dignitari e dai Fratelli trovò un posto d’onore. Successivamente tutte le associazioni si radunarono nella piazza del Popolo ad ascoltare il discorso commemorativo pronunciato da quel grande oratore che fu il Fr.: on. Luigi Rava. La manifestazione massonica si concluse con agape bianca .”64 Era l’estrema testimonianza prima del calare delle tenebre:

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Nel 1924 , in seguito alle distruzioni dei Templi Massonici ad opera dei fascisti, i fratelli della Dante Alighieri provvidero alla demolizione e a raccogliere ogni cosa in un magazzino a cura di un falegname, certo Posati. I fascisti venuti a conoscenza dello sgombro della sede della Loggia andarono a prelevare dal suo domicilio il Posati e con le minacce gli fecero confessare ove trovavansi i mobili e gli arredi . Dopo di chè i fascisti se ne impossessarono e li bruciarono nella Piazza del Popolo. Anche documenti e registri andarono distrutti 65 . Post fata resurgam. Il 17 gennaio 1945 la Loggia “Dante Alighieri” , per iniziativa di Giordano Gamberini, riprese i suoi architettonici lavori. Testimonianza di un antifascismo che nonostante l’impossibilità di riunirsi ritualmente aveva animato gli uomini della massoneria italiana fin dalla sua soppressione ad opera del fascismo66, dalla lettura dal registro delle presenze alle tornate di Loggia di quei primi tempi67 , ci piace qui ricordare Cesare Orioli, “Babaci” e Tonino Rossi , “Tugnaz” , due dei principali protagonisti, insieme ad Arnaldo Guerrini, di quell’antifascismo democratico non comunista che proprio qui in Romagna ebbe la sua massima espressione68 e che fece scrivere al sorpreso ed entusiasmato azionista Carlo Ludovico Ragghianti che “Era la prima volta che, nel lungo esercizio della cospirazione , mi trovavo di fronte non a sparuti gruppi e ad individui, ma a una partecipazione veramente larga e popolare. Vi fu un momento in cui le maggiori speranze del movimento rivoluzionario si appuntarono sulla Romagna”69 . Allora come nel Risorgimento gli uomini della Massoneria erano stati la punta di diamante di quelle forze il cui obiettivo era la creazione di “uomini liberi e di buoni costumi” e non l’assoggettamento integralista ed intollerante delle masse eteroguidate. La Massoneria italiana fin dalla sua nascita ha cercato , pagandone pesanti conseguenze, d’interpretare questo spirito. La Rispettabile Loggia “Dante Alighieri” n° 108 all’Oriente di Ravenna pure. Noi , nella modestia dei nostri mezzi, speriamo di aver fatto altrettanto.

In principio era il Verbo , e il verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto fu fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste. In lui era la vita , e la vita era la luce degli uomini. E la luce risplende fra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno ricevuta. Ci fu un uomo mandato da Dio ,il cui nome era Giovanni. Egli venne ,come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo suo. Non era egli la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. Era la luce vera, che illumina ogni uomo, che viene al mondo. Giovanni, 1,1-9

1 G. Leti , Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano, Genova, Libreria Editrice Moderna, 1925. 2 D. Berardi, La repubblica in Tasca, in A. Emiliani (a cura di ), Questa Romagna, vol. II, Bologna , Edizioni Alfa, 1968, p.235. 3 [C. Manelli], Cento anni della Risp.: Loggia Dante Alighieri di Ravenna. 1863-1963, s. n. tip. , [1963], pp.14-15. 4 Ibidem, p.15. 5 Ibidem. 6 Ibidem, p.16. 7 Un aspetto non strettamente legato al “genius loci” esoterico della città degli Esarchi ma che vale pure la pena menzionare perché Ravenna, comunque, ne è coinvolta , è la vicenda di padre Isidoro Bianchi dell’ ordine Camaldolese (nato a Cremona nel 1731, il suo nome secolare era Pietro Martire Bianchi) e che quindi soggiornò al convento di Classe di Ravenna. A padre Isidoro Bianchi viene oggi attribuito Dell’Instituto dei veri Liberi Muratori, (cfr. Isidoro Bianchi, [Padre, al secolo: Pietro Martire], Dell’ Instituto dei veri Liberi Muratori. Of the institute of the true Free Masons, a cura di Giordano Gamberini, Ravenna, Longo,1980) , opera con Ravenna come indicazione di pubblicazione ma probabilmente stampata a Cremona nel 1786. Dell’ Instituto dei veri Liberi Muratori ha la felice caratteristica di essere la sola opera settecentesca stampata in

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lingua italiana ad essere apertamente in favore della liberomuratoria e quindi a sfidare nei fatti – non in linea di principio perché l’autore si mostra formalmente ossequiente all’ autorità ecclesiastica asserendo che gli anatemi papali furono gettati avendo del tutto frainteso le vere finalità dell’ Ordine – gli interdetti di Clemente XII e di Benedetto XIV. Ad ogni buon conto , come misura prudenziale padre Isidoro Bianchi pensò bene ad un depistaggio sul luogo di edizione e con notevole ironia e giocando sul suo nome l’opera – come si legge nel frontespizio – si affermava essere pubblicata “ Presso Pietro Mart. Neri. Con licenza de’ superiori”. Una sola domanda .Perché la scelta di Ravenna come falso luogo di pubblicazione? (Si tratta ,in ogni caso, di un depistaggio ben strano, visto che padre Isidoro Bianchi fu ospite del Convento di Classe di Ravenna, come del resto il fantomatico Pietro Mart. Neri è una cortina molto trasparente oltre alla quale ben s’intravede Pietro Martire Bianchi). Forse un omaggio ad una città con profonde tradizioni esoteriche e con altrettanto forti fermenti liberomuratorii? Forse una specie di richiesta di solidarietà e tutela del Bianchi a tutti coloro che ravennati e non – ma specialmente ravennati – condividevano o avevano condiviso la sua appartenenza latomistica? Probabilmente non lo sapremo mai. A noi non resta che constatare che il nome di Ravenna, ancora una volta, è legato ad una vicenda non secondaria della cultura esoterica. 8 Che i “Fedeli d’amore” , di cui Dante fu uno dei protagonisti principali, non sia una vicenda ristretta ad un cenacolo di poeti ma si riallacci alla poesia islamico-persiana più o meno coeva e continui come tradizione sotterranea per tutto il Medioevo e oltre, non è un’invenzione dei patiti dell’ esoterismo d’abord alla Guenon. E’ una tesi che – come per esempio in L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei “fedeli d’ amore”, Genova, I Dioscuri, 1988 – ha trovato sostenitori anche fra coloro soliti ad impiegare una filologia assolutamente scientifica. 9 A. Varni, L’età giacobina…, cit.,p.15. 10[C. Manelli], Cento anni…, cit., pp.23-24. 11 L. Miserocchi, Ravenna e Ravennati…, cit., p.253. 12 C. B. Angelini, Gli “accoltellatori” a Ravenna (1865 – 1875). Un processo costruito, Ravenna, Longo, 1983, p. 130. 13 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit., p. 170. 14 [C. Manelli], Cento anni, …, cit., p. 17. 15 L. Miserocchi, Ravenna e Ravennati…,cit., p.254. 16 Poco prima della demolizione del 1867, la Loggia “Dante Alighieri” passa dal Rito Italiano al Rito Scozzese. 17 Apprendiamo queste notizie e citiamo dalla compendiosa cronistoria della Loggia “Dante Alighieri” – quattro fogli dattiloscritti in nostro possesso, da noi denominata Cronistoria della Loggia Dante Alighieri- che il Direttore dell’ Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia ci ha inviato in data 14 febbraio 2001. Lo ringraziamo per l’aiuto fornito in questa ricerca. 18 Citiano da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri. 19 R. Colapietra, D. Farini, deputato di Ravenna (1864 – 1878 ) , in “Critica Storica”,1965, p. 605. 20 [C. Manelli], Cento anni…, cit., p.28. 21 C. B. Angelini, Gli accoltellatori…, cit., p. 134. 22 L. P. Friz, La Massoneria italiana nel decennio post unitario. Lodovico Frapolli, Milano, Franco Angeli, pp. 325-326. 23 Ibidem, pp.214-215. 24 G. Maioli, La società nazionale italiana a Ravenna e in Romagna (da nuovi documenti ) , in “Studi Romagnoli “ , III (1952) ,pp.108-109. 25 Il comitato ravennate della Società Dante Alighieri sorse nel novembre del 1897 per iniziativa di Luigi Rava, massone, presidente Luigi Guaccimanni. Non a torto, la pubblica opinione giudicò l’iniziativa di provenienza della Loggia massonica “Dante Alighieri”di Ravenna , che dopo un lungo periodo di inattività (si era ricostituita il 19 novembre ’95) aveva deciso di manifestarsi anche sul piano culturale con un così alto profilo. 26 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit. , p.136. 27 L.P. Friz, La massoneria italiana…, cit.,pp.200-201. 28 Ibidem, p.202. 29 Ibidem, p.203 30 L. Miserocchi, Ravenna e ravennati…, cit., p.136. 31 A. Varni, Alfredo Baccarini e Luigi Rava, in P. P. D’ Attorre (a cura di ) , Storia illustrata di Ravenna, vol. III, D. Bolognesi ( a cura di ) , Tra Ottocento e Novecento, Milano , Nuova Editoriale AIEP, 1990, p. 3. 32 Si può vedere nella sala consiliare di Russi il monumento in memoria ad Alfredo Baccarini scolpito dallo stesso Ettore Ferrari. Il monumento, che esibisce simboli liberomuratori, e l’autore stesso, stanno a rappresentare non solo l’invidiabile cursus honorum politico di Baccarini ma anche il suo assoluto rilievo massonico. 33 Ibidem, pp.1-2. 34 C. B. Angelini, Gli accoltellatori…, cit.,p.130 35 Ad ulteriore riprova dell’ altissimo livello degli uomini della Loggia “Dante Alighieri”(e anche a riconferma dell’esistenza di una forte lobby napoleonica facente capo a Ravenna alla Società nazionale diretta dal nipote di Gioacchino Murat ), riportiamo da L. P. Friz, La Massoneria italiana… , cit., p. 102,

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ulteriori note biografiche di Gioacchino Rasponi: “Il conte Rasponi, capo del Governo Provvisorio della sua città all’ esplodere della II guerra d’ Indipendenza , sindaco e deputato , traeva autorevolezza dall’essere nipote di Gioacchino Murat. Venerabile della Dante di Ravenna , due volte membro del Grande Oriente ,fra il ’73 e il ’74 fu lui a dover frenare alcune intemperanze di massoni come Prefetto di Palermo. Affidò i suoi pensieri a due sole frasi: ‘Temo grandemente che sia stato un funesto errore il cangiamento della capitale, pomo di discordia gettato gettato fra gli italiani. Cionullameno credo buona la Convenzione , né temo le cattive intenzioni della Francia a danno nostro’. Frapolli teneva a Rasponi. Rispose ricorrendo appieno al suo “tatto pratico” ‘La Convenzione è buonissima ed è convinzione di tutti quelli che hanno la testa sulle spalle che Napoleone ha accettato il fatto compiuto dell’ Italia unita. Però l’ Imperatore ha domandato una garanzia , la traslazione immediata della capitale a Firenze. Quest’ultima cosa è interesse di pochi italiani , i quali non hanno pensato ai grandissimi incovenienti della risoluzione; senza contare il disastro finanziario conseguente ad una improvvisa partenza da Torino. Io sono sempre stato , voi lo sapete, anti-piemontese, ma non amo lasciarmi trascinare dalle passioni del momento. Oggi mi sembra che tutti vaneggino. Gli uni gridano : “Bisogna partire immediatamente da Torino”. Gli altri esclamano : “Torino o Roma”, come se a Roma ci si potesse andare a prendere un caffè’ ”. 36 Dai Sonetti Romagnoli di Olindo Guerrini, ci piace in questa sede riportare la seguente poesia , una sorta di scanzonata versione tutta in romagnolo, nella lingua e nello spirito , del fondamentale principio massonico della tolleranza: UI DA’ E’ CLERICHEL Nó, rispetè agl’idei dagli upinion Parchè stasera an s’vlen tiré i cavell, Che a discutar d’prinzipi e d’religion Al ciacar al fines cun i curtell. Se vuietar , mitegna, a sì Masson S’an vli andè in cisa andè in t’i Calzinell Mo nó s’ dasì di purch e di coion S’lè un fatt e vera ch’a sen tott fradell. Vuietar i miracol d’e Signor A i tulì sotto gamba e a n’ì cardì, Che ,invezi, ui dà la mola a totti gli or. V’acurdev d’Gracco ch’ ui puzzeva i pi? Pr’ un vot a la Madona d’e’ Sudor Sol cun l’acqua d’è pozz ló l’è guarì. A comprensione del testo , ricordiamo che via Calcinelli, “i Calzinell”, oggi via S.Vittore, era il luogo dove si trovavano i postriboli. 37 Citiano ancora da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri. 38 [C.Manelli], Cento anni…, cit.,pp.29-30. 39 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana…, cit.,p. 179 40 La tesi di Manelli non manca di verosimiglianza, visto che l’avversione da parte clericale verso la Massoneria raggiungerà di lì a pochi anni vertici veramente parossistici. Con l’enciclica Humanum genus del 1884 Leone XIII arriverà a definire la liberomuratoria “città di Satana”, individuando in essa il nemico assoluto da battere e compiendo così nell’ ultimo scorcio dell’ Ottocento una operazione ideologica di individuazione del “male assoluto” che nel secolo successivo, il secolo dei totalitarismi, ha avuto i ben tristemente conosciuti attuatori nella prassi. “Particolarmente insidioso (e illuminante) – citiamo da A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana…,cit., p., 219 – nell’enciclica leoniana riuscì l’uso della formula ‘Sinagoga di Satana’ , che in quello scorcio di Ottocento non aveva solo suono oratorio, giacché cadeva nel bel mezzo di una ben orchestrata campagna di stampa antiebraica, nel cui ambito ai motivi tradizionali dell’ “antigiudaismo” cattolico (deicidio in testa) s’aggiungevano virulenze plebee e populistiche richieste di agire subito e a fondo contro la “plutocrazia ebraica”. Papa Pecci riecheggiò anche le invettive nazionalistiche, contro l’ “internazionalismo” sionistico; conservatrici , contro il “rivoluzionarismo” serpeggiante all’interno delle “sinagoghe” e dilagante attraverso la stampa e la nuova scienza, palesemente dominata dalla “setta giudaico massonica .” ” 41 [C.Manelli], Cento anni…, cit., ,p.30 42 Ibidem.

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43 Ibidem, pp.30-31. 44 Ibidem, p.31. 45 Ibidem, pp.48-50. 46 S. Mattarelli, Un’ ipotesi laica tra massimalismo e riformismo. La figura di Fortunato Buzzi amministratore della Ravenna prefascista, Ravenna, Circolo Culturale “ Carlo Cattaneo” , 1981, p.20. 47 Pio Poletti (1846-1936), patriota del Risorgimento, si arruolò nella prima guerra mondiale. Fu sindaco di Ravenna dal 1891 al 1896. 48 Cit. da Cronistoria della Loggia Dante Alighieri 49 A. A. Mola , Storia della Massoneria italiana…, cit., p.370. 50 P. Emiliani, Pro e contro la Massoneria, in “La libertà”, 14 ottobre 1905. 51 “ La libertà”, 21 ottobre 1905, lettera firnata da Alberto Giovannini. 52 Ibidem, intervento firmato da Alberto Bagnoli. 53 U. Serpieri, La discussione sulla Massoneria, in “La libertà”, 28 ottobre 1905. 54 “La libertà”, 28 ottobre 1905, intervento firmato da Alberto Bagnoli. 55 “La libertà”, 11 novembre 1905, intervento firmato da Pietro Emiliani, 56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 U. Serpieri, , Finis, in “La libertà”, 11 novembre 1905. 59 [C. Manelli ], Cento anni…, cit., pp.33-34. 60 G. B. Maramotti, La memoria dantesca, in P. P. D’ Attorre (a cura di ) , Storia illustrata di Ravenna, vol. III, D. Bolognesi (a cura di), Tra Ottocento e Novecento, Nuova Editoriale AIEP, 1990,p. 253. 61 Ibidem. 62 Ibidem, p. 254. 63 Ibidem, p. 249. 64 [C. Manelli], Cento anni…, cit.,pp.34-35. 65 Ibidem, pp.35-36. Oltre la Cronistoria della Loggia Dante Alighieri , il Segretario del Grande Oriente d’ Italia ci ha trasmesso un elenco degli iscritti alla Loggia (d’ora in avanti “Piedilista della Loggia Dante Alighieri”). Pur essendo il “Piedilista” riferito prevalentemente agli iscritti dalla fondazione del 1863 fino alla sua demolizione nel 1924 a causa delle persecuzioni fasciste , esso risulta comunque uno strumento indispensabile per una ricostruzione storica della sua base associativa, altrimenti impossibile dopo la distruzione degli arredi e dei documenti della stessa nel ’24. Dal “Piedilista della Loggia Dante Alighieri” – che citiamo per intero ed integralmente – apprendiamo quindi che sotto le sue colonne hanno squadrato , fra gli altri, la pietra grezza i seguenti Fratelli : “Cesare Albertini – avv. Augusto Babini- Giannetto Baccarini – Italo Badessi – dott. Alfredo Badiali – rag. Giuseppe Badiali – Pietro Bagnari – ing. Giovanni Baldini – Gustavo Balungani – geom. Primo Barbiani – geom. Roberto Barboni – ing. Eugenio Baroncelli – Filippo Bartalucci – Gaspare Bartolini – rag. Luigi Bassi – Teodosio Battisti – Antonio Belcari – Silvio Belcari – rag. Leopoldo Bellardini – Clodio Bellenghi – Pietro Bellenghi – Ippolito Bellonzi – prof. Adolfo Bellucci – dott. Bendandi Nullo – Alfredo Berti – Pietro Berti – prof. Endaro Bertozzi – prof. Alessandro Bezzi – Gian Luigi Bisoffi – Bondolfi Luigi (1864) [sic ,probabilmente si tratta del primo Maestro Venerabile della Loggia, il chirurgo Luigi Bondoli ] – rag. Teodorico Boschi – Oddo Bravetti – Luigi Brocchi – Giacomo Brunelli – prof. Pietro Bruno – dott. Gino Busignani – Tullio Busignani – Leopoldo Busnanti – rag. Fortuinato Buzzi [ recte : Fortunato Buzzi ] – rag. Andrea Cagnoni – rag. Pietro Cagnoni – rag. Ugo Cagnoni – Caio Caimmi – Alessandro Calderini – avv. Bruno Calderoni – rag. Celso Cavetti – avv. Italo Camisa – avv. Varmelo [ prob. Carmelo] Cantalamessa Carboni – Antero Cappelli – dott. Francesco Cardelli – Domenico Casadio – rag. Eugenio Casadio – dott. Attilio Castellini Bezzi – prof. Filippo Castellini – Riccardo Compagnoni – Romolo Conti – Filippo Cortesi – dott. Primo Cortesi – Giuseppe Cossovich – Pietro Damiani – Giovanni Danise – Francesco De Angelis – Duilio Della Scala – dott. Enrico De Michelis – Aristide Dragoni – geom. Augusto Fabbri – prof. Agostino Fabbrini – dott. Fausto Faggioli – Innocenzo Fagnocchi – rag. Ardiglione Fava – Ferdinando Ferré – dott. Giovanni Focaccia – rag. Luigi Focaccia – Vincenzo Focaccia – Gaetano Folicardi [ prob. Folicaldi ] – prof. Attilio Fornaroli – dott. Ettore Frattari – Pietro Friscia – dott. Leone Frontali – dott. Giuseppe Galliani – dott. Ferdinando Gallina – Antonio Gallotti – Luigi Galvanoni – dott. Giorgio Garavini – Michele Gatta – Ernesto Gattelli – dott. Naldo Gherardini – dott. Gaetano Ghigi – dott. Primo Ghigi – Alfredo Giardini – Ludovico Giardini – geom. Romeo Giorgioni – ten. Mario Girotto – rag. Giuseppe Giuliani – prof. Tobia Gordini – conte ing. Luigi Guaccimanni – Olindo Guerrini [ alias Stecchetti ] – Roberto Gulmanelli – Ugo Lavagna – Bruto Dialma Leonarrdi [ prob. Leonardi ] – Attilio Leonelli – Dante Locatelli – Dionigi Loreta – Scipione Lorini – Oreste Macrelli – Teseo Maestrini – Matteo Maggetti – ing. Guelfo Magrini – cap. Michelangelo Malagola – Antonio Marchini – rag. Ugo Marri – avv. Alessandro Mascanzoni – Giulio Mascanzoni – Antonio Massaroli – dott. Pietro Mazzanti – Giuseppe Mazzoni – Giacomo Mazzotti – Giuseppe Mazzotti – avv. Francesco Miadonna [prob. Madonna ] – Guido Miani – Tullo Minghetti – dott. Arrigo Minguzzi – dott. Umberto Morandi – dott. Mario Morigi – prof. Santi Muratori, dantista – dott. Vincenzo Nardi – dott. Giovanni Negri –

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Carlo Nigrisoli – prof. Giuseppe Orlandi – Arturo Ortolani – Luigi Palerma – Giovanni Pascoli [ omonimo del poeta ] – rag. Eugenio Pasini – Valentino Pasini – dott. Vincenzo Piancastelli – Tancredi Piatesi – Paolo Poletti – avv. Pio Poletti ( sindaco di Ravenna ) – Gregorio Pozzi – Pietro Pozzi – dott. Giuseppe Ranzi – conte Giovacchino [ recte : Gioacchino ] Rasponi – Francesco Ricci – rag. Raffaello Righi – Giuseppe Rivola – Giovanni Romanelli – geom. Ermenegildo Roserti [prob. Rosetti ] – Andrea Saporetti – Arturo Saporetti – Antonio Savorelli – prof. Giuseppe Scoto – rag. Curzio Semprebene – dott. Sebastiano Tabanelli – Luigi Tarlazzi – arch. Giovanni Tempioni – Achille Restori – dott. Ervigo Torsellini – dott. Giuseppe Trincossi – dott. Guglialmo [prob. Guglielmo ] Triossi – Luigi Triossi – Primo Valenti – Luigi Venturi Longanesi – dott. Pericle Venturi – dott. Giuseppe Vistoli – rag. Matteo Vitali – Andrea Vizzani – geom. Pio Zaccaria – Adolfo Zanello – Giuseppe Zanoni – Geremia Zoli.” Per quanto riguarda uno sguardo più specifico sulla condizione associativa della Loggia “ Dante Alighieri” nel periodo delle persecuzioni fasciste e della sua demolizione, risulta indispensabile l’elenco fornito da [C. Manelli ] , Cento anni…, cit., pp. 39-40 : “Al momento della demolizione della Loggia erano attivi i regolari tre Fratelli che troviamo tuttora operosi tra le colonne del Tempio : Damiani col.° Pietro , combattente della guerra 1915-18 e ritornato dal fronte coi segni del valore; Bovelacci dr. Nullo, attualmente membro della R. L. Aurelio Saffi all’ Or. Forlì e Calderoni avv. Bruno, che appartiene a questa Loggia. Ed ora elenchiamo i nomi dei Fratelli attivi della Loggia Dante Alighieri nel 1924 , in massima parte passati all’ Oriente Eterno: Buzzi rag. Fortunato; Cagnoni rag. Pietro; Nigrisoli dr. Domenico; Babini avv. Augusto; Badessi Italo; Badiali dr. Alfredo; Ballardini dr. Luigi; Barbiani Primo; Baroncelli ing. Eugenio; Berti Pietro; Cagnoni rag. Andrea; Caimmi Caio; Calori Arnaldo; Casadio Domenico; Cottignola dr. Giovanni; Cottignola dr. Vincenzo; Cagnoni Ugo; De Angelis Francesco; De Battisti Teodosio; Evangelisti Enrico; Errani ing. Ugo; Fernè Ferdinando; Fariselli Rodolfo; Fagnocchi rag. Innocenzo; Fava rag. Ardiglione; Farini Plinio; Giuliani geom. Giuseppe; Gulmanelli Roberto; Ghigi dr. Primo; Gordini Tobia; Grandi dr. Umberto; Mascanzoni avv. Alessandro; Muratori prof. Santi; Maggetti Matteo; Mazzoni cav. Giuseppe; Maestrani Teseo; Moretti Umberto; Morigi dr. Mario; Nardi dr. Vincenzo; Ortolani dr. Arturo; Ortali Prof. Oreste; Pascoli Giovanni (omonimo del poeta) ; Poletti avv. Paolo; Piancastelli dr. Vincenzo; Ranieri Gualtiero; Ricci Francesco; Speranza Renato; Scoto prof. Giuseppe; Trincossi dr. Giuseppe; Triossi dr. Guglielmo; Venturi dr. Lorenzo; Venturi prof. Pericle; Zaccaria geom. Pio.” Dei nominativi citati in questi due elenchi e da noi non ancora menzionati nel presente studio è opportuno evidenziare i seguenti: Italo Badessi, Riccardo Compagnoni, dott. Mario Morigi, Giulio Mascanzoni, prof. Santi Muratori, arch. Giovanni Tempioni, prof. Oreste Ortali. Italo Badessi (1872-1950). Intraprese numerose iniziative nel campo sociale attraverso la fondazione e l’amministrazione di opere assistenziali ed educative. Fu iniziato il 13 marzo 1905 nella Loggia “Dante Alighieri” di Ravenna e nel 1945 ne divenne Venerabile. Fu presidente dell’Ordine della Casa Matha ,la più antica corporazione medievale tuttora in vita della quale difese sempre il patrimonio e la tradizione di autonomia. Riccardo Compagnoni (1886- 1953 ) fu il primo Sindaco di Ravenna nominato dal comitato di liberazione. “Insegnante, presiedette la Unione Magistrale Nazionale fino all’ avvento del fascismo. […] Iniziato nella L. VIII Agosto di Bologna il 17 maggio 1918, promosso Compagno il 12 marzo 1919 ed elevato al grado di Maestro nella L. Dante Alighieri di Ravenna cui si era affiliato prima del 1925. Nel Rito Scozzese Antico ed Accettato ricevette – motu proprio del S. G. C. Mori – l’aumento di luce al 30° grado.”(G. Gamberini, Mille volti di Massoni, Roma , Edizioni Soc. Erasmo, 1975, p. 226 ). Mario Morigi (1878-1951). “Chimico, si dedicò alla preparazione industriale degli arseniati e della lecitina. Precorse l’invenzione del D.D.T. .Iniziato nel 1906 nella L. Dante Alighieri di Ravenna della quale fu M. Venerabile . Appartenne al R.S.A.A.”. (Ibidem, p.212). Santi Muratori (1874-1943 ) fu uno dei protagonisti della vita culturale di Ravenna. “ Dantista. Cultore di archeologia. Direttore della Biblioteca Classense. Membro della L. Dante Alighieri di Ravenna fino alla persecuzione fascista , nei primi giorni dell’ agosto ’43 accoglieva la proposta di risveglio fattagli dal Fr. Gamberini . Pochi mesi dopo , il suo cuore cedeva all’angoscia per la sorte dei tesori d’arte cui aveva dedicato la vita, durante un bombardamento.” ( Ibidem, p.205 ). Giovanni Tempioni(1858-1922) costituisce la smentita – una delle tante – dell’accusa gramsciana della Massoneria come “partito della borghesia”. Di umili natali, iniziando da muratore riuscì a diventare un apprezzato architetto. Oreste Ortali. Della stima ed amore che si seppe guadagnare nella professione di medico, rende testimonianza la seguente iscrizione – sormontata dal bassorilievo artistico che ne rappresenta le fattezze dello scultore e liberomuratore Giannantonio Bucci , da poco scomparso – posta alla parete del vecchio ingresso dell’ Ospedale Civile di Ravenna “S. Maria delle Croci”: “Sempre cravatta a fiocco al collo/viso burbero cuore d’oro/in due guerre mondiali/in lotte politiche e sociali/disponibile generoso fraterno/con tutti/il Prof. Oreste Ortali/1880-1958/chirurgo sommo/si prodigava senza limiti/e in questo ospedale S. Maria delle Croci/dal 1919 al 1953/mostrava la sua valentia operatoria/e l’amore del prossimo/una storia che a Ravenna è leggenda/15-III-1988” Fra i nominativi che non compaiono in nessuno di questi due elenchi, riteniamo opportuno menzionare Duilio Giacci e Guido Ottolenghi. Duilio Giacci (1887-1954). “La L. Nino Bixio di Viterbo aveva deliberato nel 1923 di ammetterlo alle prove della iniziazione. Egli ne era al corrente , anche se gli eventi impedirono di convocarlo. Quando l’amministrazione statale gli chiese se apparteneva alla Massoneria, egli rispose di essere massone e ne affrontò sereno le conseguenze. Iniziato nella L. Dante Alighieri N°108 all’Or. di Ravenna il 26 luglio 1945, promosso compagno il 15 dicembre 1945 ed elevato al grado di Maestro il 17 marzo

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1946. Appartenne al Rito Scozzese. Morente ,volle trascorrere gli ultimi istanti discorrendo della Massoneria ed esortando i Fratelli alla concordia.”(Ibidem, p.229).Guido Ottolenghi (1902-1958). “Chimico. Industriale. Filantropo. Medaglia d’argento al V. M. per la lotta di liberazione. Iniziato a Torino il 15 luglio 1923 ,affiliato successivamente alla L. Ricostruzione di Roma poi alla L. Dante Alighieri di Ravenna nel 1947. Appartenne al Rito Scozzese.”(Ibidem, p.249). 66 Per gli immemori dell’ antifascismo in servizio permanente attivo molti dei quali, probabilmente in virtù dei loro trascorsi ideologici non propriamente liberaldemocratici, nutrono una forte avversione per l’Ordine, giova qui ricordare il sanguinoso tributo di molti massoni contro il fascismo. Fra i quali ne emergono due in particolare per l’ esemplarità del sacrificio: Mario Angeloni e Giordano Bruno Viezzoli. Angeloni, comandante assieme a Carlo Rosselli della Colonna italiana, il primo numeroso gruppo organizzato dall’ antifascismo italiano accorso in aiuto della Repubblica spagnola, cadde alla testa del reparto mitraglieri l’8 agosto 1936 assieme ad altri sette compagni italiani nell’epica battaglia di Monte Pelato sul fronte di Aragona, combattendo contro soverchianti forze franchiste che dovettero subire gravissime perdite. Il secondo, Giordano Bruno Viezzoli cadde il 30 settembre 1936 nei cieli di Madrid a bordo del suo bombardiere Potez 540 della squadriglia “Espana” mentre nel corso di una missione veniva assalito dai CR. 32 italiani al servizio di Franco. Viezzoli morì dissanguato, col ventre squarciato da una pallottola esplosiva. La cinematografia s’impadronì immediatamente di una fine così tragica e commovente : la scena del ritorno del bombardiere in fiamme dalla missione apre il film Sierra de Teruel di André Malraux , girato fra il giugno 1938 e il gennaio 1939 a Barcellona. “ Nella finzione cinematografica – leggiamo in A. Emiliani, Italiani nell’ aviazione repubblicana, in “Archivio Trimestrale”, n.1 , gennaio- marzo 1982, p.150 – Viezzoli è Marcellino che più tardi viene ricordato a nome dei compagni dal comandante Pena: ‘Era un uomo che noi amammo’. Nella realtà il velivolo si schianta al suolo in territorio repubblicano nei pressi di Toledo. Il corpo di Giordano Viezzoli verrà sepolto nel cimitero di Carabanchel con onoranze funebri solenni. La commemorazione si tiene a Parigi, il 21 novembre , per iniziativa della sezione parigina della Lega dei diritti dell’ uomo , che di Giordano Viezzoli assunse il nome. Ai rappresentanti di tutte le tendenze dell’ antifascismo, raccolti in una sala in Boulevard Strasbourg in un’ atmosfera di intensa partecipazione, parlano Alberto Cianca, Veniero Spinelli e il padre Giuliano. Quest’ ultimo pochi giorni dopo indirizza al Podestà di Trieste una lettera fierissima : ‘… Mio figlio Giordano nato a Trieste combattè in Spagna con Garibaldina fede, continuatore della stessa lotta per la libertà dei popoli alla quale io credetti facendo la guerra. Il piombo dei proiettili esplosivi italiani ha troncato la sua esistenza. E’ una vergogna di più della decadente monarchia da voi rappresentata. Vi restituisco la medaglia ,fate pure con essa altri proiettili, con ciò accelerate la resa dei conti e l’ora della rivoluzione sociale.’ ” Questo a monito di tutti coloro che fumettisticamente vedono l’Ordine come una sorta di Cattivik costantemente intento a complottare con le oscure forze antidemocratiche :gli uomini della Massoneria c’ erano e combattevano per la libertà quando molti dei suoi attuali denigratori erano in altre faccende affacendati ( se non addirittura a combattere dall’ altra parte della barricata ) 67 Questi registri sono presso l’autore. 68 M. Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche , documenti e testimonianze per una storia dell’ antifascismo democratico romagnolo, Ravenna, Edizioni Moderna, 1989. 69 C. L. Ragghianti, Disegno della liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, p.203

“Essere antimoderni non ha molto senso”, una conversazione con Johann Chapoutot

“Essere antimoderni non ha molto senso”, una conversazione con Johann Chapoutot

In Le Grand Récit , edito dal PUF, Johann Chapoutot analizza i principali discorsi sulla dotazione e sul dare significato, dal provvidenzialismo alla cospirazione. L’abbiamo incontrata per discutere del suo approccio storico, delle domande che può sollevare e di come il suo libro si collega al resto del suo lavoro.

Johann Chapoutot, La grande storia. Introduzione alla storia del nostro tempo , Parigi, PUF, “Hors collection”, 2021, 384 pagine, ISBN 978-2-13-0825 ,URL  https://www.puf.com/content/Le_Grand_R%C3%A9cit

Lanciandoti in questo libro, ti sei detto che il tuo approccio storico non è più sufficiente per illuminare il nostro tempo?

Anzi, no, è anche il contrario. Molte persone mi hanno chiesto se mi faccio da parte con questo libro. Ma in realtà ho l’impressione di aver approfondito quello che è il cuore della mia professione, che è l’attenzione al significato della storia negli occhi degli stessi attori. Ci sono modi diversi di fare storia: da parte mia, preferisco un approccio culturalista, internalista e comprensivo a un approccio che sarebbe più esternista e con una pretesa esplicativa.

Mi interrogo sul significato dato agli atti dagli attori e quindi sul discorso della donazione e della dotazione di senso, cioè alla storia. Mi interessano queste forme di discorso che sono trame narrative e ho voluto spiegare, nell’introduzione, nella conclusione e nel capitolo 9, un certo modo di fare la storia. Tutto questo nasce da un suggerimento del mio amico e complice Christian Ingrao che mi ha consigliato di scrivere un articolo su come, con gli altri, faccio la storia.

Riflettendo sul discorso, sulla storia del dare significato, mi sono detto che avrei fatto questo punto metodologico ed epistemologico. Quindi sono al centro di quello che faccio di solito. Molte persone si sono stupite che io parli troppo di filosofia o di discipline umanistiche, ma è sufficiente aprire la mia tesi per rendermi conto che l’ho sempre fatto. Questo è ciò che leggo e ciò che pratico. Per dirla semplicemente, non passo il mio tempo a leggere Himmler. Quello che ho letto nella mia vita è filosofia, saggi, letteratura, sociologia e anche i miei colleghi storici, ai quali cerco di rendere omaggio in questo lavoro.

Ho fatto quello che faccio di solito, spiegandolo. Quello che mi sorprende, però, è il modo in cui viene accolto il mio lavoro. Scrivo questi lavori soprattutto per le mie figlie e per me stessa, per spiegare, mettere un po’ d’ordine, definire e capire almeno il nostro stare al mondo. E infatti è stata mediaticamente e socialmente appropriata perché incontra le domande contemporanee.

Tu affermi che i nazisti sono ”  del nostro tempo e del nostro posto”, estendendo qui la riflessione iniziata in Liberi di obbedire . Capisci che questa affermazione può confondere? Inoltre, più che del nostro tempo e del nostro luogo, i nazisti non sono forse il prodotto della civiltà industriale nata nel XIX secolo? Si ha l’impressione che tu ti stia allontanando dal tuo primo lavoro sulla genealogia intellettuale del nazismo e rifletta invece sulla permanenza del nazismo nelle nostre società.

A monte e a valle sono collegati. Il mio oggetto di studio non è il nazismo. È piuttosto il mio campo nel senso di archeologi o antropologi. Il mio obiettivo è piuttosto, andare in fretta, la modernità, vale a dire questo particolare essere-nel-mondo, diverso da quello che conoscevamo prima della Rivoluzione francese. L’industrializzazione e le forme di abbandono sociale di massa indotte dall’urbanizzazione, dall’industrializzazione e dal disincanto religioso provocarono disincanto nel mondo a cui il nazismo fu una risposta esplicita. Il nazismo ha saputo sedurre, convincere o addirittura entusiasmare perché rispondeva concretamente alle grandi domande sull’essere-nel-mondo di chi si poneva queste domande: cosa sono ? da dove vengo? dove stiamo andando ? È un insieme di domande fondamentali a cui le narrazioni e i discorsi tradizionali non riuscivano più a rispondere.

Ecco perché il nazismo è, di fatto, il nostro tempo e il nostro luogo. Questo è qualcosa su cui insisto perché trattiamo il nazismo, specialmente nei media o pubblicamente, attraverso il prisma dell’aberrazione, dell’eccezione o dell’anomalia. Lo capisco ed è così che ho iniziato a lavorare sull’argomento, come tutti gli altri. Ma quando guardiamo al nazismo, ci rendiamo conto che tutto ciò che viene detto e affermato è molto banale. Ciò che è sognato e pianificato lo è meno. Aggiungiamo che, geograficamente e temporalmente, il nazismo non è la Papua del XIII secolo o l’India del XVII secolo, ma piuttosto l’Europa del XX secolo. Infatti è il nostro tempo e il nostro luogo, e deriva da questa matrice che hai evocato:

Il mio obiettivo è, per andare veloci, la modernità, vale a dire questo particolare essere-nel-mondo, diverso da quello che conoscevamo prima della Rivoluzione francese.

JOHANN CHAPOUTOT

Per il downstream è la stessa cosa. Allo stesso modo in cui non c’è una creazione ex nihilo nel 1933, non c’è volatilizzazione dal 1945. I fondamenti della nostra civiltà occidentale per andare rapidamente – estrattivismo, produttivismo e alienazione – che si sono cristallizzati nella seconda metà del XIX secolo in Europa e gli Stati Uniti, non si dissolsero. I fondamenti ci sono, ci sono anche le domande e, infatti, i fenomeni di cui i nazisti erano “esponenti” (mi riferisco qui al termine tedesco Exponent ), vale a dire illustrazioni particolarmente vivide, non si sono dissipati successivamente.

L’idea di considerare un lavoratore come una risorsa, un’idea tipicamente nazista, questa reificazione dell’altro come agente produttivo, è alla base della definizione di “risorse umane” che oggi “gestiamo”. hui. Ecco perché ho proposto queste idee in Free to Obey , che ha ricevuto un eccesso di onore o un eccesso di indegnità. Un eccesso di onore da parte di coloro che sentivano che avevo finalmente dimostrato che la nostra vita quotidiana era nazista, che non è il mio punto. Un’eccessiva indegnità da parte di chi sentiva che stavo ributtando tutto sul nazismo, che stavo facendo una sorta di reductio a hitlerum , quando non lo ero.

Il momento nazista, il fenomeno nazista ci permettono di leggere la nostra modernità ad occhio nudo, come i cromosomi della mosca Drosophila che prediligiamo negli insegnamenti di biologia perché sono così grandi che possiamo guardarli senza strumenti più sofisticati. microscopio.

Nel ”  nazificare” il nostro presente, non c’è il rischio, da un lato, di perdere di vista ciò che mostri in parte del tuo lavoro, vale a dire che ci sarebbe una banalità del nazismo, che era prima del 1939 un espressione politica tra le altre risposte alla modernità industriale? E d’altra parte, non rischiamo di perdere di vista ciò che tuttavia costituisce la singolarità storica del nazismo, se si considera la lunga storia dell’estrema destra in Europa? 

Ci sono due equivoci. Prima di tutto, non sto “nazificando” il contemporaneo. In Free to Obey , non ho inventato questo generale delle SS vicino a Himmler che divenne papa dirigente e creatore della più grande business school in Germania dopo il 1945. Non ho inventato Reinhard Höhn, esiste, inoltre c’è un buon lavoro su di esso. Da questo caso di studio, ho voluto suggerire un certo numero di linee di pensiero, ad esempio il fatto che mi sono spiegato meglio i conati di vomito che la nozione di “gestione delle risorse umane”. Quando i nazisti parlano di Menschenmaterial, c’è qualcosa come un bagno culturale comune tra l’ufficiale delle SS Reinhard Höhn degli anni ’30 e ’40 che riflette sulla scomparsa dello stato, la proliferazione delle agenzie e l’uso corretto del materiale umano e il Reinhard Höhn del 1956, ex generale delle SS ridiventato professore-dottore e creatore di business school acclamato come “papa del management” per il suo 95esimo compleanno nel 2000. Ancora una volta, non sono io a presentarlo come tale, c’è la Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände (BDA), il sindacato dei datori di lavoro tedesco, il MEDEF tedesco.

Allora dobbiamo vedere cosa intendiamo per nazismo. Dirò una cosa che ho già detto e scritto e che può suscitare una forma di fraintendimento: il nazismo non può essere ridotto alla Shoah, e la Shoah non è solo nazismo.

La Shoah non è solo nazismo perché è un’impresa comune a tutta l’Europa. Tutti ci sono entrati. Dai prefetti francesi ai nazionalisti lituani, passando per gli ustascia croati e gli antisemiti polacchi. Ci sono arrivati ​​su istigazione tedesca, ma i tedeschi stessi – guardate il lavoro di Jan Tomasz Gross – erano inorriditi dai pogrom polacchi che si svolgevano davanti ai loro occhi. È lo stesso nel Baltico o nei Balcani con gli ustascia: i tedeschi presenti sono allarmati dalla violenza antisemita dei locali.

Allora, il nazismo non è solo la Shoah. Il nazismo è stato, prima del 1941, almeno 8 anni – più se torniamo al 1919 o al 1920 – di un’esperienza politica acclamata da tutte le parti: in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. . Non è stato così per tutti ovviamente: i comunisti erano contrari, anche i socialdemocratici, anche alcuni democristiani. Ma l’“Hitler più che Blum” denunciato da Mounier e poi da Marc Bloch non è un mito. È sorprendente vedere come le élite britanniche rimuginassero con il loro sguardo benevolo su un Hitler che sembrava loro la parata ideale contro il bolscevismo, la soluzione per uccidere la sinistra e i sindacati e trasformare la Germania in “una zona di investimento ottimale”. . Dal 1933 infatti la Germania, considerando il programma di riarmo e vedendo che non ne rimane più, è una “zona di investimento ottimale” – un concetto che ho sviluppato dalla zona valutaria ottimale. Puoi avere un ritorno sui tuoi investimenti unico al mondo grazie alle condizioni di produzione offerte dal paese.

Il nazismo prima del 1941 non è né Treblinka né Sobibor. Queste sono realtà che conosco un po’. E mi sorprende quando alcune persone si accigliano: sono l’unico storico francese premiato da Yad Vashem, per La loi du sang . Per questo mi ha lasciato un po’ perplesso. Allo stesso tempo mi dico che studiando a lungo un fenomeno non ci si rende più conto che ciò che appare ovvio dopo un lento assestamento non lo è affatto per il pubblico. Lo iato tra ricercatore e pubblico sta crescendo fatalmente.

La cosa più sorprendente di Free to Obey è il salto da un caso di studio a una lettura molto più generale del management della Germania occidentale e persino dell’Europa occidentale dopo il 1955. Credi che non sia questo a provocare la sorpresa dell’accoglienza?

Prima del 1945, Reinhard Hohn è un tipico individuo del mondo degli intellettuali delle SS, per citare Christian Ingrao1o Michael Wildt. E i suoi amici, quelli con cui lavora sono Werner Best – il numero due della Gestapo – e Wilhelm Stuckart – il redattore delle Leggi di Norimberga. Ed è con loro che lavora a questa rivista chiamata Empire. Ordine razziale. Spazio abitativo ( Reich, Volksordnung und Lebensraum ) per riflettere sull’attrito dello Stato e sulla mutazione delle strutture per amministrare in modo ottimale il Grande Impero.

Il nazismo non può essere ridotto all’Olocausto, e l’Olocausto non è solo nazismo.

JOHANN CHAPOUTOT

Dopo il 1945, fu celebrato durante il suo 95esimo anniversario come il “papa della gestione”. La sua scuola ha formato 700.000 dirigenti assunti in più di 2.000 aziende tedesche. È un fenomeno sociale di massa ed è in questo che possiamo passare da un caso di studio a un fenomeno più generale. Soprattutto perché nella sua scuola non si è corretto, non si è pentito di nulla e non ha mai avuto una parola per il passato. E, inoltre, impiegò, come insegnanti nella sua scuola, alte kameraden,vale a dire, l’ex SS. Franz-Alfred Six condannato a Norimberga per genocidio attivo – sul campo – rilasciato, divenne direttore marketing di Porsche ed era professore di marketing nella sua business school. Il professore di medicina Karl Kötschau che, dopo il 1945, continuava a dire che era necessario eliminare i malati o gli handicappati, divenne professore di “sviluppo personale”. Il dottor Justus Beyer, condannato a Norimberga per genocidio attivo, insegnava lì come professore di diritto commerciale.

Il XXI secolo costituisce una cesura, soprattutto dal punto di vista di cui ti occupi, cioè della creazione del senso, della narrazione?

Forse dipende da dove mettiamo la sillabazione. Le cronologie più argomentate parlano del 1989 e altre del 2001. La cesura non è piuttosto la fine degli anni ’70 con la grande crisi industriale vissuta dalla prima patria della rivoluzione industriale che è la Grande? -Brittany, dall’azienda reazione politica, pienamente assunta quale è quella di Margaret Thatcher che incarna e attua ciò che Grégoire Chamayou ha ben studiato in La società ingovernabile2, cioè soluzioni neoliberiste. Con questo intendo un liberalismo vantaggioso per il capitalismo finanziario, tutto sotto il dominio di uno stato spogliato di quasi tutto tranne la sua capacità di mantenere l’ordine. Perché ci vuole ordine per fare affari. Ecco perché abbiamo acclamato Hitler negli anni ’30 e Pinochet negli anni ’70.

La cesura non sarebbe dunque l’arrivo al potere di Margaret Thatcher nel 1979, subito prima di Ronald Reagan, poi Helmut Kohl nel 1982-1983 nella RFT? Siamo, inoltre, poco prima della famosa svolta di austerità del 1983 in Francia e dell’arrivo di Laurent Fabius che segna sia una svolta nel discorso politico sulla questione dell’immigrazione – il famoso “Monsieur Le Pen fa le buone domande ma dai loro risposte sbagliate”3– e un cambiamento anche nella concezione della normativa e della legge con l’inizio della deregolamentazione. Non abbiamo aspettato Chirac nel 1986, è iniziato molto chiaramente nel 1984.

Per continuare sulla cesura rappresentata dal XXI secolo, la cospirazione contemporanea è una risposta alla scomparsa di strutture politiche o religiose capaci di spiegare il mondo?

Se consideriamo l’importanza dell’abbandono del religioso, che è evidente in Occidente, potremmo ipotizzare che il religioso rimarrebbe importante nel vuoto, in modo spettrale o spettrale, nel senso che parleremmo di un membro fantasma . Se facciamo questa ipotesi, è chiaro che in questa lettura, per riprendere una visione aroniana delle religioni laiche, il complotto è un modo di fare a meno della religione senza aver pianto una trascendenza. Questa diventa una trascendenza negativa in cui il male – l’ebreo, il rettile o altro – finisce per avere una virtù perché spiega tutto. I problemi individuali e sociali hanno una causa ovvia e comprensibile.

Per questo inserisco le teorie e le storie della cospirazione in una prospettiva più ampia e in una cronologia più ampia, facendo riferimento ad esempio all’opera di Franck Collard sulla congiura dei lebbrosi nel Medioevo.4.

Ci vuole ordine per fare affari. Ecco perché abbiamo acclamato Hitler negli anni ’30 e Pinochet negli anni ’70.

JOHANN CHAPOUTOT

C’è una permanenza: dietro il caos impenetrabile che mi colpisce, c’è una “causalità diabolica”. Uso questa espressione di Leon Poliakov e Norman Cohn in  The Fanatics of the Apocalypse5. Questa causalità mi rassicura perché è identificata e fornisce significato. Ciò risponde a un’esigenza terapeutica: trovare un senso alla propria infelicità è fondamentale. Io stesso sono stato sorpreso di apprendere che una psicoanalista, Nathalie Zajde, che tratta pazienti nati da sopravvissuti all’Olocausto, ha prescritto La Legge del Sangue.6ai suoi pazienti Perché è importante che i pazienti che soffrono abbiano un discorso significativo che smascheri e decostruisca il progetto di sterminio dei nazisti iscrivendolo in un’epoca e nella propria razionalità. La cospirazione è una forma di terapia selvaggia su larga scala in un modo del tutto paragonabile a un fenomeno che non ho menzionato nel mio libro, le epidemie di stregoneria negli anni ’60 e ’70 studiate da Jeanne Favret-Saada in Le parole morte gli incantesimi7. È una risposta a un enorme trauma sociale: la legge Pisani-Ferry, l’americanizzazione dell’agricoltura, gli input chimici, l’estirpazione del boschetto per fare grandi campi aperti. Il modo per rispondere a questi traumi di massa è immaginare che ci sia stato lanciato un incantesimo che si traduce nella morte di una mucca, nel guasto del trattore o in difficoltà finanziarie. Io sono uno storico, sto solo osservando, ma gli antropologi o gli psicologi hanno qualcosa da dire sulle sorgenti di tutto questo. È ovvio che il bisogno di ermeneutica c’è e la cospirazione risponde meravigliosamente bene perché è un modo di fare religione senza Dio, ma pur conservando il Diavolo, perché si mantiene una figura detestabile, odiata, un “Chi”? Ornato con piccole corna.

Tracci paralleli tra la Francia contemporanea e l’antica Roma, in particolare confrontando il loro fascino con il mito dell’età dell’oro. Non è problematico questo miscuglio di tempi? Non dà l’impressione che la storia sia un’eterna ripartenza o un ciclo? Possiamo davvero mettere sullo stesso piano Salluste ed Éric Zemmour?

Vista così, in effetti non è una buona cosa ed è meglio fare come Gérard Noiriel che mette Zemmour allo stesso livello di Edouard Drumont!

Il riavvicinamento all’Impero Romano è opportuno in quanto la Repubblica francese e la città politica francese furono costruite in riferimento al romanismo. La rivoluzione è avvenuta ”   in abiti romani  ” – qui torno a Marx. Possiamo citare Camille Desmoulins che afferma: ”   Avevamo la testa piena di greco e latino, eravamo repubblicani universitari. “. Tutto contribuisce a ciò che noi pensiamo come romano, in particolare la virtù stoica del cittadino che deve pensare l’interesse generale contro il suo interesse privato. Pertanto, la storia antica ha un’importanza, un significato in Francia a partire dalla Rivoluzione francese, che rafforza l’eredità del Rinascimento e poi dei Gesuiti conferendole una dimensione civica. Quindi è importante vedere che siamo stati nutriti dall’innutrizione.

Ma quando leggiamo testi del I secolo aC e della nostra epoca, l’apice dell’Impero, gli autori romani non smettono mai di lamentarsi. Ed è ancora possibile che noi siamo gli eredi di questa insoddisfazione per il presente. Del resto, da decenni, le generazioni politiche e accademiche si sono formate alla versione latina su questi testi, traducendo la congiura di Catilina di Sallustio, traducendo Livio, Tacito e tutti si lamentano dicendo che “era meglio prima”, che il mos maiorum era perduto, che la virtus patrum doveva essere ritrovata. Potrebbe aver lasciato il segno.

Come i romani, abbiamo un’idea alta di noi stessi: l’ urbs è civiltà, cultura e non siamo mai all’altezza del nostro ideale, ma l’ideale romano era immenso. In Francia è la stessa cosa, dalla Rivoluzione francese abbiamo l’ambizione di parlare per il genere umano. C’è un rovescio della medaglia in questo messianismo, che è questo tipo di cupa delizia, quella che consiste nel dire che non siamo all’altezza di ciò che affermiamo di essere. Messianismo e Declineismo sono due facce della stessa medaglia.

Precisamente, non si comprende appieno cosa distingua “  i grandi istmi” del contemporaneo dai grandi racconti che descrivi nella prima parte del libro. Vedendoli come le rovine dei grandi ”  -ismi” che sono crollati, non è correre il rischio di non prendere così sul serio queste nuove storie, questi discorsi che hanno un significato? Prendi ad esempio messianismo e decadenza come ”  istmi” e ammetto di non vedere appieno come questi discorsi siano meno potenti o meno validi come spiegazione del mondo del provvidenzialismo, se non che non sono sostenuti da mille anni di -vecchie strutture? 

Hai perfettamente ragione in termini di ermeneutica. La loro valenza ermeneutica è analoga, comparabile, se non identica. Ma è nella loro facoltà di mobilitazione che è più problematico. Il declino non ti farà invadere la Polonia perché è deplorevole, ed è per questo che mi chiedo se uno Zemmour possa andare molto lontano.

Ma il declino, o l’ondata che provoca, spinge l’Inghilterra fuori dall’Unione Europea, e probabilmente partecipa all’elezione di Trump. 

Sì, ma è un ballottaggio, non è la campagna di Russia. Andare a votare è importante, ma non è l’epopea escatologica della costruzione del nuovo “impero romano” da parte dei fascisti nel 1936, dell’invasione della Russia o delle rivoluzioni francese e bolscevica.

Il mito che potrebbe essere più mobilitante è “l’illimitato”, rappresentato da Jeff Bezos o Elon Musk. È l’ultimo avatar di un progressismo tecnicista che cerca di salvarsi cercando di fuggire da un pianeta che abbiamo reso inabitabile per investire, in una grande epopea spaziale, un pianeta inabitabile. Vediamo che non morde e che provoca persino reazioni ostili.

Il declino non ti farà invadere la Polonia perché è deplorevole, ed è per questo che mi chiedo se uno Zemmour possa andare molto lontano.

JOHANN CHAPOUTOT

In termini ermeneutici ci sono forti valenze, ma in termini di mobilitazione della performatività, non credo. Ma questa rimane una discussione aperta.

Questa performatività mobilitante non è però un fenomeno costante nelle grandi storie che citi. Se prendiamo ad esempio la storia del cattolicesimo, per lunghi periodi non vi furono conseguenze della sua capacità ermeneutica se non quella di riunire ogni domenica i singoli. Dove siamo oggi? 

In primo luogo, è vero che questo potere di mobilitazione non è sempre stato al suo apice. Ma c’era ugualmente una struttura capace di operare una riconquista evangelizzatrice, cosa che oggi non avviene più, anzitutto perché non ci sono più sacerdoti a sufficienza. Alla fine del XVI secolo, con il Concilio di Trento, il potere della Chiesa era tale da poter controriformare e iniziare una riconquista cattolica. È lo stesso nel XIX secolo. C’è stato un grande livellamento, già prima della Rivoluzione francese – che Michel Vovelle mostra molto bene – ma c’è la rete di conventi, parrocchie, seminari che permette questa seconda controriforma dell’Ottocento.

Attualmente è molto più discutibile: la tecnostruttura, i mezzi non ci sono più. Potremmo finalmente elaborare un trittico basato su tre opere di storici: Le Goff nella Nascita del Purgatorio8, Michel Vovelle che mostra l’apogeo e l’inizio del dubbio e Guillaume Cuchet, che mostra la morte del dogma9. Questi tre storici ci offrono, con le loro opere, tutta la vita del dogma, e Guillaume Cuchet si pone questa domanda, nella sua ultima opera, della scomparsa o meno del cattolicesimo in un luogo che doveva esserne se non la culla a almeno un vettore importante.

Tu difendi un altro approccio storico che può sembrare, a prima vista, sorprendente, un pensiero controfattuale. Quanto è fruttuoso questo approccio per lo storico e più in generale per la comprensione del nostro tempo?

Venivo dal mio stesso cortile, in questo caso il suolo tedesco. Dagli anni Cinquanta c’era una scuola storica – chiamata bundesrepublikanisch – perché gli storici che l’hanno inventata provenivano dalla Germania occidentale e avevano abbracciato la causa del diritto fondamentale e della democrazia parlamentare. Nati negli anni ’30, hanno cercato di fare la genealogia del nazismo.

Vediamo che tutti questi storici intorno alla Scuola di Bielefeld hanno fatto tesi sull’Ottocento, ogni volta per individuare i segni della catastrofe. Era un approccio teleologico che generalmente collegava il bismarckiano e il guglielmino del XIX secolo al nazismo. Sulla loro scia si stabilì una doxa, quella del Sonderweg, del percorso particolare di una Germania le cui modernizzazioni sarebbero state divergenti. Ci sarebbe stata da una parte una modernizzazione economica e tecnica molto reale e dall’altra una modernizzazione politica che non sarebbe mai avvenuta. In altre parole, il binomio capitalismo/liberalismo politico non si sarebbe verificato. Tutto ha portato al 1933 nel loro approccio.

Ciò può essere dovuto alla difficoltà di leggere la storia tedesca in quanto per molto tempo non c’è stata la Germania – praticamente fino al 1990 – e per renderla storicamente visibile, creiamo un’autostrada che va da Lutero a Hitler, addirittura da Hermann il Chérusque a Hitler. È una sorta di determinismo culturalista e teleologico che finirebbe sistematicamente nel 1933.

Ma, ed è quello che ho difeso nel mio libro sulla storia contemporanea della Germania10, si potrebbe immaginare un altro percorso che va dal 1848-1849 fino al 1949-1990 passando per il 1919 e la Repubblica di Weimar. Quest’ultimo non è stato un successo, ma dobbiamo ancora vedere cosa ha pesato su questo regime. L’idea di teleologia, finalismo e determinismo mi ha sempre infastidito perché non si tratta solo del 1933 nella storia tedesca.

L’idea di teleologia, finalismo e determinismo mi ha sempre infastidito perché non tutto si riduce al 1933 nella storia tedesca.

JOHANN CHAPOUTOT

Ero quindi molto interessato all’approccio di Quentin Deluermoz e Pierre Singaravélou quando hanno lanciato un seminario di esame epistemologico dell’approccio controfattuale per dimostrare che non era limitato all’ucronia, come “è praticato dai romanzieri di fantascienza”. Al contrario, hanno voluto dimostrare che è stato un passo fruttuoso per la storia. Tutti facciamo il controfattuale senza saperlo quando privilegiamo un’ipotesi rispetto a un’altra e mettiamo da parte i futuri non realizzati. Il lavoro sul futuro che non è accaduto, sugli orizzonti inesplorati che erano possibili, permette di rivisitare un’epoca in modo molto più fruttuoso.

Sono molto interessato agli anni ’30 francesi e i miei nonni erano giovani durante questo periodo. Presumo che non avessero pensieri suicidi ogni mattina pensando all’affare Stavisky o alla crisi, ma che stessero sognando qualcosa che non era né il giugno 1940 né il maresciallo Pétain. Riaprire le possibilità è un imperativo epistemologico perché i contemporanei, come te e me ora, non sanno cosa accadrà in futuro, anche quello vicino. Ma abbiamo supposizioni, desideri e ansie. Le tombe non dovrebbero essere sigillate, ed è per questo che ho iniziato le mie 100 parole di storia11con la parola “Futuro” perché la storia non è pia recitazione di fatalità ma, al contrario, scuola del futuro. Quelle che studiamo sono persone che hanno avuto il loro desiderio, la loro apertura, la loro indeterminatezza e la loro libertà. Sta a noi restituirli.

L’ucronia nazista è affascinante. Molti autori, come Robert Harris o Philippe K. Dick, si sono divertiti a immaginare mondi in cui il Terzo Reich non fosse caduto. E c’è una domanda reale per questo tipo di storia. Rischierebbe un’ipotesi per spiegare questo successo?

Penso che sia principalmente legato alla popolarità della storia reale e documentaria della Seconda Guerra Mondiale. Che ci piaccia o no, questa rappresenta senza dubbio l’ultima grande epopea disponibile, con un male ben identificato, e davvero atroce, un bene che è altrettanto, e una vittoria del bene sul male. Tutto questo è anche molto cinematografico perché la propaganda dell’epoca, da entrambe le parti, sapeva benissimo come mettere in scena. Questo ha una prima conseguenza, televisiva: la Seconda Guerra Mondiale è onnipresente sugli schermi. E anche quando le catene dicono di non voler più affrontare questo periodo, continuano perché i successi di pubblico sono enormi.

Allo stesso modo in cui siamo effettivamente interessati a questo periodo, l’interesse per l’ucronia è che è un modo per allontanare il male, il nazismo. Il nazismo è la chiusura di fronte all’universo delle possibilità e l’apertura di cui parlavamo. Tutto è determinato e necessario. Il nazismo è un lungo discorso apodittico. Hitler lo dice: il nazismo è biologia applicata, scienza applicata, antropologia razziale applicata. Pertanto, non c’è discussione possibile. È così, e se non è così, moriremo. Potremmo benissimo essere pacifisti, disse Hitler, ma moriremo se lo siamo. Questo spiega la pesante macabra ironia dei nazisti. Ho sempre avuto una profonda diffidenza verso chi dice che è così e non altrimenti. Non c’è alternativa  ”di Thatcher.

L’interesse per l’ucronia è che è un modo per allontanare il male, il nazismo.

JOHANN CHAPOUTOT

Se il nazismo è la chiusura, l’ucronia permette di riscrivere la storia e sfidare questa cronologia imposta dai nazisti, e questo in modo paradossale perché in genere li fa sopravvivere, li fa vincere la guerra ma per sconfiggerli meglio in fine . Perché in quasi tutte le ucraine finiscono per perdere. E ciò che rende ancora più piacevole la loro sconfitta è il fatto di prolungare il piacere, dando loro una lezione di storia e alla fine conquistandoli .

Leggendo queste storie, cerchiamo di rassicurarci. Come, inoltre, cerchiamo di rassicurarci leggendo divulgazioni ultrafattuale sulla storia del nazismo che ci permettono di dirci che non abbiamo più niente a che fare con esso e che il nazismo è scomparso nel 1945, sostituito dalla democrazia e dalla crescita economica. Ma questa crescita è in parte organizzata da uomini come Reinhard Höhn.

Si parlava del futuro, della mancanza di alternative. Ciò si ricollega alla crisi ecologica che stiamo attraversando e che sta provocando una perdita di significato, uno sconvolgimento all’interno del nostro contemporaneo “  regime di storicità”. Con la concezione del futuro che diventa nuvoloso, che posto può prendere il discorso ecologico? È questo un nuovo “  messianismo  ”  ?

Mi sono posto questa domanda quando stavo scrivendo questo libro e, ad essere completamente onesto, ero incazzato. Non ho davvero trovato una risposta soddisfacente. La domanda che mi sono posto è: dovremmo parlare di narrativa ecologica, soprattutto nelle sue varianti collassologiche, collassologiche, a rischio di banalizzare la cosa e perdere di vista il fatto che le figure e le curve ne parlano – stesso, che i fenomeni catastrofici ci sono già e non bisogna quindi scherzarci sopra. Stiamo rendendo il pianeta inabitabile, stiamo contribuendo alla sesta grande estinzione, che potrebbe essere anche la nostra se rimaniamo sulle tendenze attuali.

In altre parole, e forse sto tornando a una forma di ingenuità epistemologica, da una parte ci sarebbe la verità delle figure, delle curve e della realtà e non devo banalizzarla, da storico, dicendo che è solo un discorso. Ma posso cadere vittima di critiche e molti giornalisti mi hanno fatto questa domanda. Mi sembra che trattando questo come mero discorso si cada in una forma di negazionismo climatico, che nega l’ovvietà di questo cambiamento.

Tracci un attraente ritratto di un aspetto importante della storia delle idee in epoca contemporanea. Ma resta una storia molto libresca: sono le pubblicazioni dei libri e le controversie tra autori che scandiscono la tua cronologia. Studiando un’epoca segnata dall’alfabetizzazione e poi dalla politicizzazione di massa, non fai affatto la storia “  dal basso” e ti interessi poco all’uso e all’appropriazione delle storie che presenti. Non hai paura di scrivere una storia di idee in ”  provette”?

Questa è una domanda che si pone sempre quando si fa storia culturale. La storia culturale, o meglio culturalista (nell’idea che il significato degli attori ha un interesse) è davvero fedele a quanto ha detto benissimo Pascal Ory, che è una “storia sociale delle rappresentazioni?”» Con questa dimensione sociale di appropriazione, di formulazione, di esperienza sociale, o si ricade nel solco di una tradizione accademica della storia delle idee totalmente disincarnata dove, come dici, vediamo Leon?Brunschvicg rispondere a Henri Bergson che discuteva di Kant senza questa società pungente. Risponderei comunque che Kant morde la società, e oh quanto!

Da una parte ci sarebbe la verità delle figure, delle curve e della realtà e non devo banalizzarla, da storico, dicendo che è solo un discorso.

JOHANN CHAPOUTOT

A proposito, sto ancora parlando di proprietà. Nel capitolo sulla cospirazione parlo molto di social media. Ci sono infatti due capitoli sulla letteratura perché parlo di “Crisi della narrativa”. Nel capitolo sul provvidenzialismo ho cercato di vedere cosa pensavano gli stessi credenti da parte protestante, cattolica ed ebraica, quindi mi sono rivolto ai teologi. E questo ha vere implicazioni ogni domenica nella pastorale, nella vita concreta di chi vi aderisce e segue il messaggio del magistero. Non è quindi decorrelato dalla società e dalle pratiche sociali. Allo stesso modo, per il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, non mi sono perso nelle controversie tra Rosenberg e Hans Günther o tra Bukharin e Trotsky. ho provato a vedere affidandosi in particolare all’opera di Nicolas Werth, quali erano, socialmente, le pratiche di appropriazione di questi discorsi. Per il fascismo parlo di cinema e per il mio lavoro sul nazismo le mie fonti non sono letterarie.

Sono molto attento a questo perché non dobbiamo farci ingannare da quella che Bourdieu ha giustamente chiamato “l’illusione scolastica” in cui ci si lascia andare. Ma non dobbiamo nemmeno ignorare l’efficacia delle idee.

Una preoccupazione antimoderna attraversa il tuo libro al punto che ci si chiede se tu veda qualche motivo di speranza nel presente e nel futuro. Che cos’è?

Antimoderno, non certo perché sono molto felice di vivere nel nostro tempo. Sono molto felice di avere uno stato di diritto che mi protegga e di non temere che Alexandre Benalla possa beneficiare della totale impunità. Sono molto felice di essere trattato come sono e sto molto meglio in Francia che in Afghanistan, non è nemmeno una domanda. Non ha molto senso essere antimoderni.

Ma chi si vanta dell’intelligenza è preoccupato, non appena dichiariamo di pensare di essere preoccupato. In questa modernità che vivo con gratitudine, vedo anche molte cose sbagliate e molte cose anche strutturalmente legate alla modernità che non mi si addicono: estrattivismo, produttivismo, reificazione, alienazione, disprezzo dell’umano, distruzione del nostro biotopo, tutto ciò non mi si addice. Ma non è antimoderno preoccuparsi di tutto questo. Altermoderno, forse?

Inoltre, non ritengo la mia conclusione negativa o senza speranza. Al contrario, c’è scetticismo nei confronti delle grandi storie perché, come te immagino, diffido di tutto ciò che è “grande” o pretende di essere “grande”, sono molto pascaliano in questo senso, e Pascal è anche molto presente nel mio libro perché era molto presente anche nel XX secolo. Le “dimensioni degli stabilimenti” mi fanno ridere. Quindi sono davvero scettico su ciò che afferma di essere grande e ho anche un’immensa speranza, forse legata all’avere figli. C’è una grande apprensione di avere figli, ma ci accorgiamo che con un po’ di umorismo, un po’ di scambio, dialogo e un po’ di amore, l’essere umano cresce molto bene, e la dialettica tra gli individui sta andando molto bene.

Direi quindi che il mio libro è attraversato da due tensioni: scetticismo e distacco nei confronti del macro ma un immenso ottimismo sul micro , sull’organizzazione concreta delle vite, sui cambiamenti, sulla riflessione, sull’intelligenza delle persone. I sistemi sono bloccati e avvelenati fino all’osso, come dimostra la Quinta Repubblica. Che una persona proclami seriamente una guerra contro un virus e incoraggi gli scherzi dei suoi collaboratori, non è possibile, e il sistema che lo consente è un male.

Ma a livello di terra, vedo sviluppi molto benefici, ulteriormente accentuati dalle sfide covidiane. I nostri contemporanei si sono uniti a noi durante questi confinamenti: hanno sperimentato quello che stiamo vivendo noi, i ricercatori, cioè stare soli nella vostra stanza, pensare, porsi domande fondamentali, e in questo vedo una speranza immensa.

In questo contesto, le lettere, l’umanità, la bella fuga, l’ otium , sì, l’abbracciano, che ci nutre.

FONTI
  1.  Christian Ingrao, Believe and Destroy: Intellectuals in the SS War Machine , Fayard, 704 pagine.
  2. Grégoire Chamayou, La società ingovernabile , La Fabrique, 336 pagine.
  3. Laurent Fabius in L’ora della verità, 5 settembre 1984: “Penso che l’estrema destra sia risposte false a domande reali. Le domande sono vere, è il tema dell’insicurezza di cui parlavamo prima […]”.
  4. Franck Collard, “Una voce medievale. La congiura degli ebrei e dei lebbrosi. ”, L’Histoire (n° 231), aprile 1999
  5. Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse: correnti rivoluzionarie millenarie dall’XI al XVI secolo , Aden Belgio, 482 pagine
  6. Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire come un nazista ., Gallimard, 576 pagine
  7. Jeanne Favret-Saada, Parole, morte, incantesimi , Gallimard, 432 pagine
  8. Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio , Gallimard, 516 pagine
  9. Guillaume Cuchet, Il cattolicesimo ha ancora un futuro in Francia? , Soglia, 256 pagine
  10. Johann Chapoutot, Storia della Germania dal 1806 ai giorni nostri , Que sais-je ?, 128 pagine
  11. Johann Chapoutot, Le 100 parole della storia , Que sais-je, 128 pagine

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/11/24/etre-antimoderne-na-pas-grand-sens-une-conversation-avec-johann-chapoutot/?mc_cid=4d2958b35d&mc_eid=4c8205a2e9

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI, di Antonio de Martini

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI
Arriva l’8 settembre col suo solito ributtante strascico di lamenti e giustificazioni a posteriori. Precedo e chiudo.
A pagina 51 della biografia del Maresciallo Gustav Mannerheim scritta da Steven J Zaloga, ( Bloomsbury plc) leggo il testo di una dichiarazione del capo di SM tedesco Maresciallo Alfred Jodl – poi impiccato a Norimberga- così presentata dall’autore: “ both Mannerheim and Jodl were candid about Finland desire to extricate itself from the conflict, and Jodl remarked :
“ No nation has a higher duty than that which is dictated by the concern for the existence of the Homeland. All other considerations must take second place and no one has the right to demand that a nation shall go to its death for another”. ( ottobre 1943) .
Certo, c’era appena stato il trauma italiano, ma resta il fatto che Casa Savoia, lo Stato Maggiore italiano, Mussolini, Ciano e compagnia non seppero cercare altro che la salvezza personale, tranne qualche depresso grave che non seppe cercare nemmeno quella.
Non si parli di tragedie o manifesta inferiorità o guerra non sentita.
Si trattò di servilismo mellifluo da tutte le parti, mentre persino il capo di SM tedesco avrebbe capito e trattato decorosamente come avvenne con la Finlandia.
Abbiamo meritato tutto. Come riaccadrà nuovamente.

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (3 di 4), di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (3 di 4)
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Dunque…..nei precedenti due capitoli abbiamo affrontato una serie di vicende e punti di svolta nella storia dell’Asia centrale che in comune hanno il contesto di fondo ossia quello del XVIII° secolo nell’area : un lasso di tempo lungo il quale ancora non si avverte una presenza estranea rispetto ai “giocatori autoctoni” (il colonialismo europeo non si è ancora fatto sentire, in sostanza).
Il 700 ci restituisce uno spaccato dal quale risalta lo stato tormentato dell’impero persiano in età moderna, il suo sostanziale declino rischiarato da un fulmineo ed effimero apogeo per poi tornare gradualmente al limbo precedente : da questo magma prende vita propria una nuova entità più ad oriente risultato dell’affermazione politica del ceppo etnico pashtun, ora elevato a nazione. Questo periferico “spin off” dello stato imperiale persiano (come si direbbe nel linguaggio delle serie televisive) sa affermarsi e sfrutta efficacemente la propria posizione a cavallo tra due mondi……quello IRANICO e quello INDIANO, al punto di dare vita ad un impero proprio (in gran parte a danno dell’areale indiano). Questa è l’essenza di un secolo di evoluzione geopolitica (…).
Il XIX° secolo che ora affrontiamo, ci conduce invece verso una differente dimensione il cui piano di comprensione si fa più complesso : qui si situano le chiavi d’accesso alle dinamiche dell’Afganistan contemporaneo. Sostanzialmente potremmo dire che compare LO STRANIERO (o occidentale per dire) nel campo da gioco : in realtà l’espressione stessa difetta di un’ambiguità semantica dal momento che più che “comparire” sul campo da gioco altrui, egli PLASMA il campo da gioco altrui (!)……contribuisce a crearlo a fissarne le regole, ne è il dominatore assoluto anche quando non si espone in prima persona. Per esprimersi un tantino cervelloticamente, l’uomo occidentale nelle sue diverse incarnazioni (inglese, russo) si proietta nel determinato contesto (in questo caso irano/afgano/indiano) affiancando i giocatori tradizionali – che già interagiscono da tempo immemore – subentrando loro in modi sottili (cioè MAI del tutto e mai in primissima persona ossia rimanendo dietro le quinte), interfacciandosi, assumendone il parziale controllo………onde dar vita alle prime “proxies war” o conflitti per interposta persona che sono la regola fino ad oggi (…). Ù
Gli eroici confronti di cavalleria cha caratterizzano tutta un’epica militare afgana o persiana – per la cattura poi di un distretto di confine – diventano improvvisamente ben poca cosa rispetto alle dimensioni della posta in gioco supera la limitata immaginazione di questi guerrieri d’altri tempi : se i diretti interessati (afgani e indiani nello specifico) sono convinti in buona fede di battersi per una supremazia locale……..senza poter realizzare dalla propria prospettiva degli eventi, il fatto che la supremazia locale/regionale di uno o dell’altro può innescare un effetto domino capace di intaccare un equilibrio planetario. Coloro che detengono il primato di quest’ultimo (russi e inglesi nello specifico) sono coloro che dirigono l’azione da dietro le quinte, trasformando così la natura del quadro in uno schema a due livelli : LOCALE (1) e GLOBALE (2). Come oggi.
Va bene……..cerchiamo di andare più al concreto. Avevamo lasciato l’impero DURRANI a cavallo tra il XVII° e il XIX° secolo : dopo la morte del suo fondatore, l’esistenza di questo primo progenitore dello stato afgano si trascina ancora per mezzo secolo, arenandosi in un confronto di lungo termine contro la nazione SIKH (un “impero” indiano nel nord dell’India attuale, verso il Kashmere, all’epoca di inizio del conflitto ancora relativamente scevro di influenze europee). L’esito inconcludente e talvolta fallimentare – sostanzialmente le forze afgane, complice la natura difficile del contesto geografico, NON riusciranno mai a oltrepassare i SIKH, i quali de facto diventano lo “scudo” dell’Hindustan oltre il quale ogni espansione Durrani è impedita. Nei decenni iniziali dell’800 le sorti volgono anche negativamente per la parte afgana, che oltre a non fare un passo finisce anche per perdere pezzi preziosi : il principale è la perdita di Peshawar nel 1819, cui presto seguirà anche il Kashmere stesso a favore dei Sikh.
A questo andamento fallimentare della strategia contro il mondo indiano si aggiunge un conflitto dinastico che deflagra poco dopo, lasciando per un breve lasso di tempo il paese senza nemmeno una guida : in questo momento di confusione che vede sprofondare l’ormai esautorata dinastia fondatrice Durrani, si fa strada la dinastia BARAKZAI (بارک‌زایی‎ )……..che caratterizzerà il nuovo secolo in corso e anche quello successivo, contando alla fine 150 anni di regno complessivi (siamo nel 1823 al momento dell’ascesa e durerà sino al colpo di stato militare del 1973). Da ricordare quindi almeno il nome di questa nuova dinastia. Da questo momento cambia anche il nome dello stato : considerata defunta la vecchia forma imperiale Durrani, viene scelto l’appellativo ufficiale di EMIRATO DELL’AFGANISTAN (امارت افغانستان‎ Amārat-i Afghānistān ).
Il suo nuovo sovrano – Dost Mohammad Khan Barakzai – ha davanti a sé da subito, grandi sfide da sostenere : gestire i rapporti col rivale storico sikh, ma soprattutto gestire i rapporti diplomatici con i due nuovi attori d’eccezione che irrompono sulla scena……impero RUSSO e impero BRITANNICO. Il calcio di inizio arriva da parte russa : si sfrutta il desiderio mai sopito dell’impero persiano (ora sotto la dinastia QAJAR) di riprendere qualche brandello di quanto era loro fino a un centinaio di anni prima (la strategica città di HERAT). Se i piani militari sono in corso sin dal 1816, ci vorranno una ventina di anni prima che la macchina si metta in moto, con il supporto russo : in breve, nel 1837 La Persia Qajar (affiancata dalla Russia zarista) si dirige verso Herat dove inizia un lungo assedio. I britannici dal canto loro interpretano la mossa chiaramente : un tentativo di riconquista persiano ai danni dell’emirato può presagire ad invasione ulteriori su più larga scala finalizzate al crollo di questo stato……ritrovandosi così la Persia padrona del campo fino alla frontiera con l’India britannica (e prefigurandosi così rischi non calcolabili, considerato il supporto russo alla Persia ed potenziali fronti capaci di destabilizzare l’India intera, al tempo la più ricca colonia della corona). Non si perde tempo e si organizza subito una controffensiva strategica (si occupano via mare postazione sul golfo Persico ai danni dello Scià) fino a che l’assedio non viene tolto e i russi non ritirano i propri “inviati speciali” : è il 1838.
Questo successo tuttavia NON basta alla Gran Bretagna : si è trattato di un evento militare del tutto minore ed il successo è in effetti temporaneo. Più che altro è il prodromo di futuri e più gravi tentativi……il nemico (la Russia) ha oramai compreso che l’emirato dell’Afganistan è il ventre molle a nord del continente indiano, la lancia da utilizzare contro i ricchi possedimenti britannici oltre l’HinduKush. Il governatore britannico del tempo si decide quindi a muovere guerra DIRETTAMENTE all’emirato. Il concetto è semplice e brutale : occupare via terra l’Afganistan e portarlo forzatamente nella propria sfera di influenza PRIMA che qualcun altro (la Russia) lo faccia. Non fa una piega.
Da questa decisione prende inizio quello che è il PRIMO CONFLITTO ANGLO-AFGANO (1839-1842). La prima vera campagna militare sul territorio afgano nel corso di quel “grande gioco” che attraversa il XIX° secolo : nella sostanza si rivelerà un inconcludente disastro per la parte britannica. Dopo un iniziale, prevedibile, successo (sono mobilitate le più potenti armate indiane del tempo inquadrate sotto ufficiali inglesi) viene posto sul trono un sostituto del deposto regnante della dinastia Barzakai con un superstite della screditata dinastia Durrani, non sostenuta da nessuno nel paese : un equilibrio quindi del tutto artificiale che non può sostenersi da solo, ma solo con la presenza militare britannica il cui costo è proibitivo………nel giro di un paio di anni inizia una ritirata che si rivela catastrofica (un’intera armata viene perduta complici le condizioni atmosferiche invernali). In altre parole il corpo di invasione britannico è costretto a ritirarsi dopo 3 anni senza essere riuscita ad instaurare una monarchia a sé fedele (il legittimo sovrano Barzakai rientra immediatamente dall’esilio) : anche grazie ad un momento di distensione dei rapporti tra Russia e Gran Bretagna nel corso del loro grande gioco (…), la questione viene temporaneamente messa da parte, con la rinuncia da parte britannica di intromettersi negli affari interni afgani, almeno nell’immediato.
E’ in effetti un primo punto di svolta di tutto il “grande gioco” : al di là dell’esito di questa prima spedizione (“disastro afgano” secondo alcuni autori) i grandi giocatori russi e inglesi si confrontano diplomaticamente a carte scoperte. Il rappresentante russo propone in questo frangente (1840) di fissare pacificamente i limiti delle rispettive sfere di influenza sullo scacchiere mettendo fine al grande gioco…….da parte britannica tuttavia (Lord Palmerston) si respinge l’apertura per ragioni di alta strategia globale : l’apertura della Russia zarista fu interpretata come segnale di debolezza, inoltre uno sconfinato fronte asiatico sempre in movimento, poteva essere utile per distogliere attenzione e risorse da parte russa (impedendogli pertanto di essere più presente sullo scacchiere europeo che interessava maggiormente alla Gran Bretagna : questa la visione strategica di parte inglese in una stringa di parole).
La “visione di gioco”, per quanto sottile, in realtà era meno perfetta di quanto sembrasse : la debolezza russa in particolare era sopravvalutata e l’assenza di chiare linee di demarcazione diede la possibilità all’impero zarista di espandersi forse più di quanto avrebbe potuto fare altrimenti. Nel lasso di tempo che va dal 1840 al 1870 l’avanzata della imperiale russa fu lenta ma costante : nello spazio di una generazione i colonnelli di cavalleria (l’espansione si deve in sostanza a loro che presero terreno poco alla volta senza troppe direttive dall’alto se non poi vedersi riconosciuto il risultato a fatto compiuto) arrivarono ad occupare tutto lo spazio strategico dell’Asia centrale (poi ereditato dall’Unione Sovietica) : Samarkand e Bukhara sono occupate tra il 1865-68 (vengono liberate decine di migliaia di schiavi tra l’altro) permettendo ai confini imperiali di arrivare COMUNQUE a ridosso dell’emirato afgano.
In parole poverissime….le decisioni prese nel 1840 non fanno che rimandare la resa dei conti di una generazione : i giochi si riaprono puntualmente negli anni 70 dell’800 allorchè una delegazione russa è inviata a Kabul per trattare direttamente con l’emiro (1878 : è l’anno della mancata pace di S.Stefano dopo la guerra contro l’impero ottomano. La Russia imperiale trova molti oppositori in Europa, tra cui la GB in prima linea e i diversivi ad oriente potevano anche fungere da avvertimento).
La missione diplomatica russa a Kabul del 1878 (in realtà non invitata) e la conseguente missione britannica (che pretenderà di essere ricevuta allo stesso modo), sono i prodromi della SECONDA GUERRA ANGLO AFGANA (l’ultima).
CONTINUA
[bandiera in basso dell’Emirato , ufficialmente dal 1919-26]

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 e 2 di 4)_di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 di 4)
Come di regola – ma nelle presenti circostanze è anche comprensibile – le bacheche di tutti i social esibiscono una variopinta carovana di considerazioni e commenti per ogni gusto e livello di comprensione. Non so esattamente quanti abbiano la visione d’insieme della storia di questo areale geostrategico : quanti hanno a mente le sequenza di eventi politici e militari che plasmano lo stato che vediamo oggi sulle carte (assieme a tutti i suoi nodi irrisolti ?)
Non si può certo rimediare da un’ennesima bacheca (!), ma tenterò di offrire una cronologia illustrata e ragionata almeno…
Prestare attenzione dunque : la sagoma politico-amministrativa che prende il nome di AFGHANISTAN sugli atlanti è una creatura relativamente recente (per il metro storico). Per esprimerla in modo molto grezzo e oltremodo sintetico, altro non è che una derivazione della decadenza e disfacimento delle potenze regionali circostanti (Persia in primissimo luogo) in età moderna – ultimi 200 anni circa – : da tale evento di lungo termine affiora l’aggregato territoriale fondamentale i cui contorni interni ed esterni sono ulteriormente temprati e rifiniti dalla pressione oceanica di due grandi forze contrapposte ovvero quella zarista da nord, in discesa dall’Asia centrale e quella britannica da sud, in avanzata dal sub-continente indiano……..tra le quali il neonato Afganistan ha la sfortuna di ritrovarsi.
Andiamo in ordine tuttavia, partiamo dal principio.
La scintilla di tutto deflagra tanto, tanto tempo fa (300 anni)…..giusto agli inizi del XVIII° secolo, quando la Persia Safavide incontra una delle sue più gravi crisi sin dalla rinascita imperiale di due secoli e mezzo prima : all’estrema periferia orientale dell’impero – nella zona che oggi sarebbe la fascia più meridionale dell’Afganistan – vi è un variegato complesso tribale autoctono, in generale appartenente all’indoeuropeo (ed iranico) ceppo PASHTUN, tra cui primeggia la tribù dei Ghilzay (غلزی)…..combattenti intrepidi dei deserti di roccia da cui emergono, lontani dallo sfarzo della corte persiana di cui non condividono nemmeno l’islam sciita/duodecimano, rimanendo ancorati alla più tradizionale Sunna (…). Tra quella gente spicca il nobile clan HOTAK (da ricordare) – che si distingue per influenza e ricchezza, tanto che il capo del casato è il rappresentante della città di Kandahar (eccoci) ed interagisce direttamente col governatore inviato dalla capitale : quest’ultimo, un georgiano convertito all’islam (ve ne erano molti nell’amministrazione imperiale) perpetua la tradizione di brutalità dei suoi predecessori fino a provocare una grande rivolta – guidata dal capo della famiglia Hotak – che si innesca nell’anno 1709 del calendario occidentale.
La rivolta inizia a KANDAHAR per l’appunto – dove il governatore viene presto ucciso -, ma anziché rimanere limitata al suo ambito regionale come ci si aspetterebbe, dilaga invece a buona parte dell’areale iranico sotto il controllo safavide, sino a minacciarne le sue più nevralgiche città tra cui la capitale, complice la debolezza del potere centrale : non c’è dubbio che siamo di fronte ad una manifestazione di grandi proporzioni della decadenza imperiale persiana, del capolinea naturale della sua dinastia dopo 250 anni di regno. Una dopo l’altra le varie roccaforti cadono fino al punto da creare una situazione surreale : l’impero safavide è letteralmente divorato dal suo interno da questa improvvisa insurrezione tribale Pashtun che arriva ad occupare buona parte del suo territorio….si parla sui manuali di storia dell’Asia centrale di un “impero HOTAK” di brevissima durata e che prende il nome del condottiero che la orchestra.
Questo stato di disordine interno – analogo forse ai barbari germani già da tempo entro i confini dell’impero romano d’occidente, ma che colgono l’occasione per ribellarvisi invaderlo dal suo interno – durerà lo spazio di una generazione : per una trentina di anni la Persia cerca di ripristinare l’ordine precedente impegnandosi in una lunga e difficile guerra contro questi audaci insorti che già si pongono come difensori di una nuova monarchia. La situazione è ancor più drammatica se si tiene conto che altre potenze – RUSSIA in primis – realizzando lo stato di estrema debolezza in cui versa lo stato safavide si fanno avanti ai 4 punti cardinali conquistando e reclamando regioni di confine (una per tutte la “campagna caspica” di Pietro il grande nel 1721-22 che rischia di strappare allo Scià tutta la costa iranica sul mare Caspio)
L’impero di questo passo potrebbe anche cessare di esistere, si intravede uno smembramento territoriale sempre più inarrestabile……tutto sembra perduto.
Eppure avviene il miracolo : questo miracolo porta il nome di Nader Shah Afshar. Costui è un condottiero militare di immenso genio strategico (pare esista una legge arcana dell’equilibrio nella storia degli stati che fa comparire un salvatore quando si è prossimi al baratro) che rimette in piedi l’impero, invertendo il processo di decadenza in corso (…). Non è persiano (ed anzi è di certo più simile agli insorti Pashtun come cultura guerriera, benchè in realtà lui sia di origine turcomanna, OGHUZ per essere precisi : quei popoli seminomadi di confine da tempo immemore incorporati nelle gerarchie militari persiane. Ammira Tamerlano e lo stesso Gengis che sono suoi modelli) Con lui inizia un lungo ciclo di guerre che tuttavia avranno esito positivo non soltanto salvando la Persia, ma anzi riportandola all’attacco su tutti i fronti prefigurando una versione allargata dell’impero come non esisteva da ere : nel giro di 20 anni di fatto neutralizza tutte le minacce interne ed esterne al paese, respingendo russi, ottomani, indiani da occidente ad oriente (si spinge fino a Bukhara e arriva persino a passare all’offensiva contro l’altrettanto decadente India Mughal, dal canto suo prossima alla colonizzazione anglo-francese)……..ma soprattutto annientando la minaccia HOTAK all’interno che imperversa da decenni.
Per ridurre all’osso una lunga vicenda militare, Nader SCONFIGGE ripetutamente gli insorti pashtun fino a ricacciarli là da dove erano partiti : nel 1738, dopo molti anni di battaglie, arriva alle mura di Kandahar che verrà assediata e presa. Con la caduta della sua capitale, la dinastia Hotak si dissolve e molti dei suoi antichi sostenitori (molti l’avevano già fatto) passano dalla parte di Nader : uno di essi – tra i più fedeli e valorosi – è un generale e capoclan pashtu di nome DURRANI (questo è il nome chiave, ci ritorniamo dieci righe più in basso) . Quest’ultimo ha rimesso insieme l’impero persiano e l’ha reso più forte di prima (di quanto fosse mai stato nella sua fase moderna. Ha letteralmente capovolto la traiettoria storica che pareva instaurata irreversibilmente, portando una nazione dall’orlo della scomparsa sulla mappe alla prospettiva di un nuovo impero continentale) : il paese gli è talmente debitore (e i regnanti precedenti talmente screditati) che è acclamato lui stesso come nuovo Scià e iniziatore di una nuova dinastia che prende il suo nome (Afshar ovvero. Sarà dunque il tempi di “Nader Shah Afshar”).
Non pensiate che vada troppo fuori del seminato : questo interessante excursus di storia persiana è indispensabile per ricostruire la nascita dei potentati che prenderanno poi il nome di Afganistan. Sorvoliamo alcune vicende andando al punto cruciale di svolta : Nader Shah Afshar, nuovo e potente monarca di Persia, cade prematuramente, assassinato in un complotto militare durante una campagna contro i curdi (siamo nell’anno 1747). Con la fine di questo astro della storia militare persiana si esaurisce ipso facto anche lo zenit di espansione territoriale raggiunto per poco tempo : molte regioni da poco conquistate si riprendono l’indipendenza perduta, un po come i regni ellenistico orientali che fanno capolino dopo la morte di Alessandro il macedone, sebbene su scala minore. In realtà l’impero persiano NON si dissolve (l’ascesa di una dinastia Zand stabilizza relativamente le cose), ma ritorna semplicemente ad essere quanto era prima di Nader Shah…..una discreta potenza regionale che non va oltre il suo limite e portata comunque verso la decadenza in un clima di arretratezza rispetto alle grandi potenze dell’occidente che giocano sul piano planetario oramai (…).
In questo clima generale di ridimensionamento persiano dopo un brevissimo zenit di gloria, si forma una nuova entità, anch’essa che porta il nome del proprio fondatore : è in questo momento che ci focalizziamo nuovamente sull’areale specificamente afgano, tornando a quel DURRANI di cui ho accennato (il generale pashtun fedele a Nader)
Ancor prima di proseguire premettiamo che questo Durrani – Ahmad Shāh Durrānī – è oggi considerato il PADRE DELL’AFGANISTAN (inteso come nazione afgana nel senso storico più ampio del termine e non dello stato contemporaneo che abbiamo davanti agli occhi)
Se a qualcuno interessa, mi faccia un cenno che proseguo coi capitoli (con questo caldo procedo solo se ne vale la pena, perdonatemi…)
CONTINUA (?)
FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (2 di 4)
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Allora, ricapitolando il paragrafo precedente : un impero persiano che versa in gravissima crisi (inizio XVIII° sec.) si vede eroso dall’interno da una rivolta tribale PASHTUN che parte da Kandahar nel cuore dell’odierno Afganistan meridionale, e dilaga fino alla stessa capitale imperiale, incapace di domarla o anche solo arginarla. L’emergenza interna rende la Persia safavide vulnerabile anche dall’esterno, facendosi avanti praticamente tutte le potenze confinanti per approfittare del momento – dallo tsar di Russia ai rajah Mughal dell’India – e avvantaggiarsi territorialmente. Sull’orlo del tracollo totale…………le sorti di Persi provvidenzialmente si invertono con l’affermarsi di un leader politico-militare di grande spessore (NADER SHAH, generale di origine turca oghuz in servizio all’impero) : quest’ultimo , praticamente il Napoleone Bonaparte nel contesto persiano della prima metà del 700, modifica il corso della storia ripristinando l’unità del paese sconfiggendo TUTTI gli avversari interni ed esteri in tutti i teatri di guerra. L’azione di Nader è talmente efficace che non soltanto viene riportata la sicurezza (assente sotto la debole dinastia safavide), ma addirittura si ritorna all’attacco e all’espansione ai 4 punti cardinali che fa presagire una nuova età d’oro da Samarkand alla Mesopotamia all’Hindustan (…). Pare sia nato il nuovo Tamerlano dopo secoli. Non a caso manda in pensione la vecchia dinasti a safavide dando inizio alla propria. L’incredibile capovolgimento di situazione non dura oltre la vita di Nader stesso che cade vittima di un complotto di ufficiali persiani, dopo una stagione storica di successi sfolgoranti. Tutto tornerà (quasi) come prima.
Questa serie di eventi ci porta al 1747.
A questo punto facciamo un piccolo passo indietro sottolineando un fatto : NADER (il grande !) nel corso della sua straordinaria ascesa e affermazione porta molti che pure si erano ribellati al decadente impero safavide ad unirsi a lui sotto il suo vessillo vincente. Una tra queste forze erano le tribù ABDALI : trattasi di una parte (la più grande) dei Pashtun ovvero la sua frazione demograficamente più consistente e combattiva. Malgrado la rivolta antipersiana di una generazione prima fosse partita proprio da una tribù pashtun, gli abdali invece si uniranno a Nader Shah una volta compreso la sua forza e il suo genio (a differenza dei suoi predecessori)……arrivando a diventare i suoi più stretti ALLEATI. Tra di essi vi è un giovane di notevoli capacità di nome Ahmad Shāh Durrānī (احمد شاه دراني) .
Lui e il fratello verranno reintegrati come gli altri abdali tra le forze imperiali di Nader, facendo una rapida carriera : al tempo della caduta di Kandahar (che pone fine alla trentennale ribellione pashtun, 1738) ha oramai guadagnato un prestigio tale che da quel momento in poi sarà aiutante di campo dello Scià e successivamente comandante di un corpo d’elite composto di abdali che segue il monarca nella sua campagna contro l’India Mughal (…). Ahmad Durrani è un brillante ufficiale, estremamente apprezzato da Nader. Quando, nel 1747, Nader Shah viene assassinato durante una campagna militare la situazione si fa di nuovo caotica : il breve “super-impero” di Nader si ridimensione rapidamente e svariate sue regioni e provincie conquistate tornano ai possessori oppure cercano l’indipendenza. Quest’ultimo è il caso delle provincie più orientali che occupano l’odierno Afganistan del sud : DURRANI (presente al momento dell’assassinio di Nader) si trova improvvisamente in una situazione di incertezza che tuttavia si chiarisce subito……….considerato estinto con Nader il suo giuramente di fedeltà alla Persia, si allontana dal campo con tutto il suo reggimento di cavalleria portando con sé il sigillo reale del defunto sovrano. Quella stessa estate viene scelto da un grande consiglio (“Ioya Jirga”) di capitribù pashtun come condottiero di tutta la nazione pashtu/afgana.
Questo è letteralmente l’INIZIO. Come leader unico acclamato dalla sua gente, Ahmad Durrani inizia subito la sua opera di conquista, approfittando tra l’altro degli anni di relativa instabilità e debolezza del potere centrale immediatamente successivi alla morte di Nader.
Durrani con una rapida serie di campagne rende definitivamente indipendenti le provincie più orientali dell’impero persiano – corrispondenti all’Afganistan del sud, il cui epicentro era Kandahar – ma questa volta in maniera più stabile rispetto alla ribellione di 40 anni prima ossia con una visione politica assai più definita e concreta : in parole povere cessa l’era dei potentati tribali tributari dell’impero persiano (a volte in rivolta) e inizia l’era di una realtà geopolitica INDIPENDENTE dalla Persia , tanto quanto dall’India Mughal adiacente. Si forma una NAZIONE AFGANA a cavallo tra la Persia imperiale ad ovest e il sub-continente indiano a sud-est : Ahmad Durrani è ritenuto nella storiografia generale come il “pater patriae”.
Durrani si conferma il brillante stratega che già lo Scià persiano aveva notato : nel giro di una manciata di anni non soltanto rende indipendente l’Afganistan propriamente detto all’epoca, ma ne estende i confini, soprattutto ad oriente andando ad intaccare l’areale geopolitico indiano allora ancora sotto lo scettro Mughal (questi già in decadenza in realtà, duramente provati dal confronto con i nativi potentati Maharata nonché con le avanguardie della colonizzazione occidentale sia inglese che francese). Tra il 1747 e il 1755 – ossia alla vigilia della guerra dei 7 anni in Europa e nord America – Durrani penetra in profondità a sud, attacca 4 volte di seguito l’India e arriva a saccheggiare DELHI, staccando fisicamente una larga porzione dell’India Mughal ai suoi legittimi regnanti : una fascia territoriale equivalente all’odierno PAKISTAN (!) più il Kashmir entra a far parte di quello che prende ufficialmente il nome di “IMPERO DURRANI”.
In breve è venuta ad affermarsi in un brevissimo lasso di tempo un’entità politica distinta da Persia e India e temuta da entrambi : in particolare dall’INDIA ora, verso le cui ampie risorse (scarsamente difese) i condottieri afgani paiono attratti. Attorno alla metà del XVIII° sec. i monarchi indiani (Maharati o Mughal che siano) paiono impotenti contro i raid di questi predoni del nord, comparativamente tanto quanto i regni indiani dell’antichità più remota lo furono di fronte alle ondate d’invasione indo-aria (…). Persino la CINA della dinastia Quing è nel mirino dei Durrani che sperano di far insorgere i sudditi musulmani e turchi del celeste impero (le campagne contro l’India tuttavia prosciugano già tutte le risorse a disposizione e non si potrà continuare, dando preminenza a quest’ultima). L’Hindu Kush è a portata di mano per qualsiasi invasione, così come la stessa Delhi sembra essere bersaglio facile di un blitz di questi cavalieri degli altipiani iranici : orbene FARE ATTENZIONE ! E’ da questo momento che si inizia a percepire l’Afganistan (o impero Durrani o comunque lo si voglia appellare) come minaccia per il sub-continente indiano o chiunque lo controlli. Dal punto di vista indiano (e quindi BRITANNICO, dato che nel secolo a venire il “protettore” dell’areale sarà la corona d’Inghilterra) l’entità afgana è equiparabile ad un falco minaccioso….sparuto in termini numerici, ma capace di penetrare all’improvviso sino ai punti più nevralgici del grande HINDUSTAN : non una forza militare sufficiente ad annettere certo………ma sufficiente eventualmente ad innescare pericolose rivolte tra la popolazione autoctona indiana contro i suoi governanti inglesi (ed in questa opera di destabilizzazione eventualmente “aiutato” da un’ulteriore potenza europea o euroasiatica come la Russia zarista : ecco, dal punto di vista di quest’ultima invece, l’entità afgana assume, viceversa, le sembianze di un’utile lancia puntata contro il cuore dell’impero indiano di proprietà del rivale britannico. Una “lancia” che può essere aiutata….). La dinastia Durrani dura per generazioni : il suo successore stabilirà per la prima volta KABUL come capitale del regno (e Peshawar come capitale d’inverno).
A questo periodo risalgono anche i più pesanti attriti con entità non islamiche : fondamentale il confronto armato tra afgani e SIKH nel nord dell’India. Allora iniziano sistematiche distruzioni a danno della cultura induista Sikh cui seguirà una fase di conflitti regolari che terminano solo con la perdita del Kashmir nel 1819 (verso la fine dell’impero Durrani). Si tratta forse dei prodromi di un’animosità che ancora oggi si nota nella popolazione musulmana afgana contro i simboli del buddismo (?) Durrani medesimo scompare nel 1772 lasciando la sua importante eredità e generazioni di successori per i 50 anni a venire, prima che nuovi contesti storici mettano al trono una nuova dinastia : siamo alle porte di un nuovo secolo……….che vede l’uomo occidentale inserirsi nella pugna monopolizzandola al punto di farla divenire un proprio riflesso (ma nel far questo, sfruttando e servendosi di conflitti secolari sempre esistiti tra popolazioni confinanti e rivali come quelli che abbiamo intravisto)
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