Gagliano Giuseppe. Anarchici e spie nell’ottocento in Italia

Gagliano Giuseppe. Anarchici e spie nell’ottocento in Italia

Il saggio dello storico italiano Piero Brunello intitolato “Storie di anarchici e di spie“ (Donzelli editore, 2009) non è solo utile per comprendere il modus operandi delle prefetture delle questure nel controllare i circoli socialisti e anarchici italiani dell’ottocento, ma è soprattutto utile per comprendere l’esistenza di una indiscutibile continuità tra le modalità operative della polizia politica ottocentesca ,quella del regime fascista ma soprattutto del regime repubblicano.Vediamo sinteticamente quali sono questi aspetti di continuità. In primo luogo le questure e le prefetture hanno sempre avuto a loro disposizione fondi riservati per i confidenti e gli infiltrati; in secondo luogo allo scopo di controllare l’attendibilità delle informazioni fornite dai loro confidenti, sovente sia le questure che le prefetture ,infiltravano nelle stesse organizzazioni più di un confidente all’insaputa l’uno dell’altro per avere un credibile controllo incrociato delle attendibilità delle informazioni fornite.In terzo luogo la loro attività era abbastanza ampia e capillare da consentirgli un monitoraggio sistematico dell’attività politiche e pubblicistiche dei circoli socialisti anarchici italiani. In quarto luogo esistevano spesso servizi di sicurezza per così dire autonomi e come fare ad esempio posto in essere da Giuseppe Basso vice console italiano a Ginevra che naturalmente era strettamente collegato al ministero degli interni. In quinto luogo ,attraverso una sorveglianza perlopiù inavvertita, venivano prodotte segnalazioni, fotografie, rapporti, prospetti, schede, bollettini, registri, fascicoli e archivi.Lo scopo quindi era osservare, prevenire, reprimere e scoprire.Solo in un secondo momento reprimere attraverso i canali ufficiali delle procure.Questa attività di sorveglianza era possibile anche grazie al fatto che gli ispettori ma anche i carabinieri tenevano d’occhio le osterie, i bassifondi, i luoghi di assembramento e di ritrovo popolare.Naturalmente uno dei pericoli maggiori era l’esistenza di informatori bugiardi, doppio o triplo giochisti ma soprattutto millantatori e fanfaroni.Come osserva puntualmente lo storico italiano ,tra il 1880 e il 1881 ,la presenza di Giovanni Bolis alla direzione dei servizi di pubblica sicurezza costituirà una svolta importante perché verrà istituito un ufficio politico che segna una fase importante nella organizzazione della polizia in Italia.Grazie a lui infatti verrà istituito un registro biografico delle persone sospette e le questure incominceranno a usare le foto segnaletiche e ad assumere agenti in borghese organizzando un servizio di polizia internazionale in collaborazione con il ministro degli affari esteri. Quando sorgerà l’Ovra questa trovò a sua disposizione già sistemi di sorveglianza ben collaudati, procedure di schedatura efficienti, metodi di archiviazione, strumenti preventivi e repressivi insomma una routine burocratica già ampiamente rodata durante gli anni dell’unità d’Italia.Sia durante il regime monarchico italiano che durante il regime fascista la polizia italiana spiava, faceva spiare, raccoglieva voci e pettegolezzi in modo sistematico, quotidianamente, pagando informatori e confidenti e distribuendo fondi segreti .Insomma vi erano spie al servizio di ispettori, di questori, di prefetti e di consoli.Ma tutto ciò era possibile anche grazie alla collaborazione del direttore postale in Italia che inviava la corrispondenza su richiesta della polizia. Tuttavia buona parte di questa attività posta in essere dalla polizia italiana era, seppure nelle sue linee generali, speculare a quella attuata dalla Repubblica di Venezia durante il 500 a dimostrazione del fatto che, sul piano storico, esiste una secolare continuità nel modo di procedere da parte delle istituzioni politiche nei confronti degli avversari reali o potenziali. Un altro aspetto, certamente rilevante, era la capacità attraverso confidenti o informatori di fomentare i contrasti o le rivalità interne allo scopo di indebolire sul piano politico i movimenti considerati sovversivi. I pagamenti agli informatori e ai confidenti erano diversamente modulati a seconda della qualità dell’informazione . Un altro aspetto importante è l’impunità e la segretezza di cui dovevano necessariamente godere i confidenti. Ma vi erano certamente altre regole ben individuate dall’autore a pagina 131 e fra queste le cosiddette 10 regole come le chiama l’autore del saggio.Vediamone alcune: le istituzioni dello Stato tendono ad assicurare l’impunità del confidente, le singole notizie viaggiano in via gerarchica dal basso verso l’alto, il confidente migliore è quello che non sa di esserlo, un buon ispettore di polizia è innanzitutto un buon archivista e infine un individuo è un confidente per un ispettore di polizia ma può essere un rivoluzionario per tutti gli altri Ispettori.

Romanomica 4: offerta, domanda e distribuzione _ Di Michael Severance

L’Impero Romano era un consumatore insaziabile. È improbabile che qualsiasi altra civiltà antica abbia in passato eguagliato il suo immenso appetito per le risorse naturali, i prodotti agricoli, i servizi e l’artigianato. Che un’economia protoindustriale come quella di Roma possa soddisfare una domanda così alta di centinaia di milioni di cittadini per mille anni è un’impresa.

Michele Separazione. Articolo originale pubblicato su Transatlantic Blog, Acton Institute , 15 aprile 2021

Alban Wilfert traduzione per Conflits

Naturalmente, come in ogni lunga era economica, c’erano carenze permanenti, bolle, correzioni e crisi. Ma, nel complesso, l’economia romana rimase stabile, anche grazie all’efficienza della distribuzione che consentiva all’offerta di soddisfare la domanda. Così, nessuno era affamato o privato dei beni di prima necessità per ragioni puramente logistiche.

Dal lato dell’“offerta”, un settore, a quanto pare, non è mai mancato: il lavoro manuale a basso costo. Tutti sanno che Roma dipendeva dal lavoro degli schiavi per la maggior parte dei lavori, grandi e piccoli, che si trattasse di estrazione mineraria, agricoltura, esercito, edilizia, cucina, pulizia e persino compiti di segreteria. Il numero degli schiavi disponibili per tutto il lavoro richiesto aumentava con il numero delle conquiste e, per lo stesso motivo, dei prigionieri costretti alla servitù per anni, se non per tutta la vita.

popolazione romana

Uno studio di Kyle Harper ci ha detto che al culmine dell’impero, circa il 15% della popolazione di Roma era schiava, ovvero 9 milioni di schiavi per 60 milioni di persone. Questo è un numero astronomico, che rappresenta quasi la metà della popolazione attiva dell’attuale Italia (22,8 milioni) e la stessa identica popolazione (60,3 milioni) della Roma dell’età dell’oro. In euro così come circolano oggi a Roma, l’offerta di lavoro forzato varrebbe 394,2 miliardi annui (considerando l’attuale stipendio medio annuo lordo italiano di 43.800 euro nella Città Eterna).

Leggi anche: Romenomics 3: i vecchi settori di mercato

Naturalmente, il lavoro forzato di Roma non era senza costi per i suoi “proprietari”. Gli schiavi dovevano essere nutriti, vestiti, alloggiati e curati medicamente, anche se tutto ciò veniva fatto al minor costo possibile per riassegnare, in modo disumano, il capitale ad altri investimenti o, peggio, a consumi di più ordine edonistico come organizzare grandi cene e orge alcoliche. In particolare, consentiva ai liberi cittadini di avere molto tempo libero da dedicare allo studio di altre professioni, che non erano esercitate dai loro schiavi. In questo modo si liberava una grande offerta di manodopera “professionale”, competitiva per altre specializzazioni nei campi dell’arte, dell’architettura, dell’ingegneria, della medicina, dell’istruzione e della politica. Finalmente, ogni volta che la domanda di schiavi aumentava, l’offerta poteva essere aumentata di conseguenza conquistando nuove terre e incatenando nuovi prigionieri. Tuttavia, era più facile acquistare schiavi da altre terre e/o da pirati che fungevano regolarmente da “capitani” del traffico di esseri umani.

Un altro forte settore dell’offerta è stato quello delle risorse naturali. Come accennato in precedenza, l’Impero Romano, alla sua massima espansione (nel II secolo), contava 60 milioni di abitanti. Sono tante le persone che hanno bisogno di materie prime, ma non è niente in confronto agli 1,1 miliardi di persone che oggi vivono all’incirca nello stesso vasto territorio: 743 milioni in Europa, 250 milioni in Nord Africa e 150 milioni nel Mediterraneo orientale. In epoca romana, c’erano molte più foreste vergini, giacimenti minerari non sfruttati, vene inesauribili di metalli preziosi e letteralmente intere montagne di marmo, per un totale di appena il 5,4% della popolazione regionale totale. In confronto, l’offerta totale e assoluta ha superato di gran lunga, di gran lunga,

Diamo un’occhiata ad alcune statistiche chiave sull’offerta. In termini di produzione mineraria di metalli chiave, la produzione massima può essere riassunta come segue (dall’estrazione più alta a quella più bassa) in tonnellate all’anno:

Ferro: 82.500 tonnellate;

Piombo: 80.000 tonnellate;

Rame: 15.000 tonnellate;

Argento: 200 tonnellate;

Oro: 9 tonnellate.

moneta romana

È interessante osservare l’elevata richiesta di ferro e piombo . Questi erano i capisaldi dell’impero. Il ferro era usato, proprio come oggi, come metallo di base, servendo nello sviluppo di molti oggetti della vita quotidiana (pentole, padelle, utensili), equipaggiamento militare (spade, scudi, armature, palle da fionda) e costruzione (chiodi, giunti, elementi di fissaggio, alberi). Piombo ( plumbum) è stato utilizzato in tutte le tubature, finché i risultati dell’avvelenamento da piombo non sono stati collegati ai sistemi idrici pubblici e ai grandi recipienti di ebollizione. La qualità del piombo romano era così durevole che ancora oggi si trovano pipe perfettamente intatte con i nomi degli imperatori romani. Inoltre, il piombo aveva altri usi simili a quelli del ferro. Secondo il sito web dell’UNRV:

Le monete di bronzo di epoca romana potevano contenere fino al 30% di piombo. I romani usavano il piombo come base per la pittura, che è continuata fino a poco tempo, insieme ad altri prodotti per la casa come cosmetici e piatti da portata.

Leggi anche: Romenomica 2: gli antichi centri di commercio

idraulico romano. (Credito fotografico: Flickr.)

I romani avevano un uso interessante del plumbus cristallizzato (acetato di piombo, o zucchero di piombo): serviva come dolcificante artificiale. I viticoltori avevano notato che, riscaldando il mosto d’uva in tini di piombo, ottenevano un vino di ottima qualità, senza bisogno del costoso miele che gli antichi tradizionalmente aggiungevano, con l’acqua, ai loro bicchieri di vino. I romani, come nel famoso libro di cucina di Apicio, raccomandavano lo zucchero al piombo in molte ricette – piatti che sarebbero letteralmente “da morire”, poiché milioni di romani morivano per ingestione prolungata di piombo (falsi strati fetali, malattie del fegato, tumori cerebrali o renali). ).

Zucchero al piombo utilizzato dai romani nel vino e nel cibo. (Credito fotografico: Dormroomchemist su Wikipedia, CC BY 3.0.)

La distribuzione di tonnellate di risorse naturali e raccolti, se non avveniva in un mercato locale, era assicurata dalle navi mercantili che attraccavano nei principali porti, per essere scaricate e ridistribuite via terra attraverso la vasta rete di strade ben costruite da Roma. . Secondo HistoryLink :

Le merci venivano continuamente trasportate attraverso l’Impero Romano. Il mezzo più efficiente per il trasporto delle merci era il mare: il tipo di nave comunemente usato dai romani era noto come corbitas , “nave a scafo tondo con prua e poppa ricurve […] [che] poteva trasportare merci di peso compreso tra 70 e 350 tonnellate. Le navi potevano trasportare fino a seicento passeggeri o anche seimila e anfore (orci di argilla) di vino, olio o altri liquidi.

Si calcola che per trasportare le merci da Alessandria al porto di Ostia a Roma ci volessero due o tre settimane. Altre importanti rotte marittime includevano quelle da Roma a Cesarea (20 giorni), da Alessandria ad Antiochia (10 giorni), da Bisanzio a Gaza (12 giorni) e da Roma a Cartagine (5 giorni).

Leggi anche: Romenomica 1: Commercio nell’antica Roma, globalizzazione oggi

Altri esempi possono essere trovati esplorando l’Orbis della Stanford University, il “Google maps” dell’antichità. Questo software interattivo calcola il tempo, i costi di viaggio (in barca, carretto, carro, asino, a piedi) e le distanze più brevi tra le principali città imperiali romane. Secondo Orbis, il viaggio più veloce tra Londinium e Atene in estate sarebbe un misto di rotte terrestri e marittime: ci sarebbero 39 giorni su 4.410 chilometri, al costo di 16 denari per chilogrammo di grano (16.000 denari per tonnellata). Quando Gesù era di questo mondo, un denarovaleva circa 5 dollari (USD), quindi una tonnellata di grano trasportata tra Londra e Atene costava circa 80.000 dollari: è proprio per questo che i romani evitavano le spedizioni su lunghe distanze, in particolare per rispettare la necessaria redditività della rivendita di prodotti agricoli a basso costo (mentre i lunghi viaggi erano economicamente giustificabili per il loro alto valore di rivendita). Ad esempio, una grande spedizione di grano egiziano da Alessandria è facilmente giustificabile via mare a Roma. In 21 giorni e 2.600 chilometri, il costo era di soli 2,8 denari per chilogrammo (2.800 denari o 14.000 dollari USA per tonnellata).

Orbis, la “Google maps of Antiquity” (Photo credit: Screenshot di orbis.stanford.edu.)

Piuttosto, il trasporto marittimo rapido ed economico è stato effettuato su scala regionale o tra province limitrofe (ad esempio Gallia e Hispania) e città vicine (Roma e Neapolis), tanto più che i viaggi marittimi di più giorni coinvolti assumono un alto mari, le sue tempeste imprevedibili e i suoi pirati altamente prevedibili. Le lunghe strade di terra, sebbene generalmente più sicure, presentavano anche problemi: banditi, guasti ai carri e affaticamento generale di animali da soma e cavalli, soprattutto durante la calda stagione estiva.

Per garantire la distribuzione di grandi quantità, i prodotti potrebbero essere assicurati e spediti ai porti vicini. La Roma imperiale aveva non meno di 43 principali porti commerciali (vedi mappa sotto), che si estendevano da Londinium a Tiro , nell’attuale Libano. L’ideale era trasportare i prodotti lungo le coste fino alla destinazione più vicina, a meno che un lungo viaggio in alto mare non fosse considerato un rischio. Per guidare le navi mercantili agli approdi appropriati, i romani installarono una serie di fari (vedi sotto), oltre a numerose torri di avvistamento, che servivano a impedire l’arrivo di qualsiasi invasore o pirata straniero.

Panoramica dei porti romani con i loro fari. (Credito fotografico: screenshot da romanports.org .)

Quali lezioni possiamo trarre da tutto questo? Innanzitutto, per gli antichi come per i contemporanei, negli affari tempus pecunia è : il tempo è denaro. Le rotte marittime più lunghe e meno efficienti hanno naturalmente comportato costi di distribuzione più elevati, che sono stati (e sono tuttora) trasferiti alla maggior parte dei consumatori plebei. Come nei nostri ipotetici esempi, è molto improbabile che i romani finanziassero il grano da Londra prima di pagare il grano spedito dalla valle del Nilo.Ciò era particolarmente vero in un impero in cui la stragrande maggioranza della popolazione non superava il livello di sussistenza. È vero che i ricchi patrizi e le tesorerie imperiali avevano abbastanza denaro residuo da spendere, quindi le forniture i cui costi generali erano elevati a causa del trasporto interregionale non incidevano così tanto sul loro potere d’acquisto. Per eccellenza, questo destino era riservato a prodotti di lusso come spezie orientali e pietre preziose.

Da leggere anche: Cammina all’ombra delle alture grigie. Intervista a Charles Zorgbibe

In secondo luogo, non esistevano moderne polizze assicurative che consentissero ai mercanti di correre grandi rischi noleggiando rotte pericolose in alto mare in caso di maltempo. In effetti, i proprietari di navi mercantili consideravano alto il rischio solo se avevano la certezza di un’elevata redditività.

Infine, una legge classica dell’economia era vera 2000 anni fa come lo è oggi: in assenza di domanda, c’è una diminuzione proporzionale nella ricerca di beni da offrire (nuove miniere, nuova terra fertile, nuova manodopera). La domanda era costante nella rapace società dei consumi dell’Impero, che quindi si espandeva per soddisfarla, creando nel contempo modelli di business di massima efficienza per continuare a soddisfare le esigenze dei suoi cittadini.

I romani avevano un grosso problema: non mettevano in dubbio la validità di certe esigenze. Non ci sono mai stati dubbi sul piombo, nonostante la sua abbondanza a buon mercato, quando c’erano così tante malattie legate, a quanto pare, all’approvvigionamento idrico? I romani hanno cambiato le loro attrezzature idrauliche? Hanno dedicato ricerche scientifiche allo studio degli effetti dannosi di questo metallo a buon mercato? No, perché era così economico e ha fatto il lavoro. Il pensiero economico farà eco a tali rischi morali solo quando una civiltà cristiana avrà chiesto agli imprenditori più che semplici perseguimenti di profitto ed efficienza, ma soprattutto la fornitura di prodotti e servizi oggettivamente buoni , in grado di portare un vero sviluppo umano.

https://www.revueconflits.com/michael-severance-acton-institute-economie-rome/

Romanomica 3: vecchi settori di mercato, Di Michael Severance

Questa serie “Romenomics” mira a studiare il commercio nell’antica Roma, includendo alcuni dettagli unici, umoristici e illuminanti, al fine di apprezzare meglio il presente economico.

Un articolo di Michael Severance per Acton Institute.

Alban Wilfert traduzione per Conflits

 

I primi due saggi della collana Romenomics hanno offerto l’occasione per riflettere sul lavoro umano e sui luoghi del commercio nell’antica Roma. Non è stato facile, vista la quantità di documenti persi e le sedi ufficiali distrutte. Dovevamo essere fantasiosi. Il compito di oggi, identificare i principali settori dell’economia di Caput Mundi, è molto più facile, anche se bisognerà accontentarsi di congetture quando si forniscono dettagli, come sulla produzione lorda, e fare qualche ricerca in più.

In sintesi, l’agricoltura è sempre stata il più grande settore economico dell’antica Roma. Il suo ambiente rurale ha visto convivere questa attività con l’estrazione mineraria, il legname e il bestiame. Anche le industrie militari e di supporto erano una parte importante della torta economica. Certo, c’era quello che oggi chiamiamo commercio al dettaglio (i negozi, bancarelle e mercati aperti di cui abbiamo parlato nel blog precedente) e il settore dei trasporti (spedizioni, carri, animali da soma, strade) che hanno permesso di trasportare le merci ai mercati, vicini o lontani. Nessuna economia, nemmeno quella dell’antica Roma, può funzionare senza un settore finanziario, che vanno dalla banca alla valuta, raccolta di pagamenti e cambio. Infine, Roma non sarebbe stata Roma senza le sue magnifiche opere d’arte, architettura e opere pubbliche come templi, stadi, anfiteatri, terme, ecc. che ha sostenuto i settori della religione, dello spettacolo, della ricreazione e dello sport.

Pensateci: come avrebbero potuto gli imperatori promettere di distribuire milioni di pani per le loro popolari panem e circense senza fare affidamento sulle massicce consegne di grano che arrivavano giornalmente a Roma? Si produceva un’ampia varietà di cereali da distribuire sui carri del pane durante i giochi circensi. Il pane era l’alimento base degli antichi, così come la pasta lo è per i romani moderni. Inoltre i cereali venivano utilizzati nella preparazione della pappa calda quotidiana, i puls , essiccati, sbriciolati, mescolati alle zuppe e utilizzati in vari dolci. Circa il 70-80% dell’apporto calorico giornaliero di Roma riguardava alcuni cereali, in una forma o nell’altra.

Leggi anche:  Prenota – Un viaggio a Roma? Segui la guida!

È impossibile calcolare il numero esatto di tonnellate di grano prodotte, spedite e distribuite ogni anno nell’antica Roma. Eppure, come giustamente nota il sito web di UNRV History , Roma non avrebbe potuto svilupparsi senza di loro:

La necessità di assicurare l’approvvigionamento di grano alle province fu uno dei principali fattori che avrebbero portato all’espansione e alle conquiste dello stato romano. Tra queste conquiste ci sono le province dell’Egitto, della Sicilia e della Tunisia in Nord Africa.

Come abbiamo visto nella seconda parte, Ostia e altri porti marittimi romani erano pieni di horrea , enormi installazioni in mattoni per lo stoccaggio e la distribuzione. Erano pronti, a qualsiasi ora, a ricevere centinaia di tonnellate di grano che potevano arrivare via mare. Per paura dell’invasione di muffe o roditori, i cereali non venivano mai conservati a lungo.

Mentre i cereali facevano la parte del leone nella dieta romana, il secondo prodotto agricolo più prezioso era l’olio d’oliva, al 10%. Il resto consisteva in una varietà di verdure, erbe, noci e frutta, comprese bevande alla frutta come l’onnipresente vinum , che era spesso diluito con acqua e addolcito con miele. Proprio come oggi, le culture tipiche romane comprendevano grano, orzo, carciofi, cipolle, sedano, basilico, rosmarino, asparagi, finocchi, capperi, cavoli, aglio, fichi, albicocche, prugne, pesche e uva, di cui esistevano un’infinità di varietà, alcune delle quali si sono conservate nei secoli, come il vinum moscatum (vino da dessert con moscato) evinum caesanum ( Cesanese vino rosso , che è di gran moda oggi a Roma e rivaleggia con il famoso Chianti Vini di Toscana).

Pubblicità per il vino nell’antica Roma.

L’agricoltura era così importante che una famiglia relativamente numerosa che viveva in zone rurali, lontane da qualsiasi centro commerciale come i fori , aveva bisogno di circa 20 iugera (circa sei ettari) di terreno agricolo per l’autosufficienza. Spesso un terzo della produzione della loro terra veniva pagato in affitto a ricchi patrizi, quando non appartenevano direttamente ai contadini plebei.

Va anche notato che carne, pollame e pesce erano costosi e la maggior parte dei romani non ne mangiava in grandi quantità, quindi questa zona non era molto grande. Per la maggior parte veniva consumato solo nei ristoranti o per occasioni speciali.

Infine, l’economia rurale era in parte legata ad altre risorse naturali. Vogliamo principalmente parlare di legname da costruzione e da miniera, compreso ferro, rame, argento, oro e stagno. Il legno era usato, come oggi, nelle case (travi del tetto) e per i mobili (letti, scrivanie, sedie, piani di lavoro) ma anche, a differenza di oggi, per i trasporti (cargo, navi da guerra, carri, carri). Il legno buono era l'”acciaio” dell’antica Roma ed era così richiesto che interi boschi di querce e castagni furono rasi al suolo nella Roma rurale, causando enormi alluvioni e frane. L’estrazione mineraria romana inflisse danni simili alla terra, perché i romani usavano la tecnica dell’estrazione idraulica per spogliare il terriccio (lavando il terreno) e trovare vene e depositi poco profondi. Questa tecnica ha letteralmente rovinato intere montagne sull’altare della produzione massiccia:

L’estrazione idraulica, che Plinio chiamava ruina montium (“rovina di montagna”), permetteva di estrarre metalli vili e metalli preziosi su scala protoindustriale. La produzione annua totale di ferro è stata stimata in 82.500 tonnellate.

Il lavaggio del suolo ha permesso ai romani di portare l’attività mineraria a livelli protoindustriali, che non erano eguagliati prima della rivoluzione industriale, mentre estraevano la maggior parte della ricchezza una volta disponibile in Spagna (oro, argento, stagno, piombo), Francia (oro e argento), Turchia (oro, argento, stagno), le regioni del Danubio (oro e argento) e la Gran Bretagna (carbone e ferro). La produzione di ferro e piombo ha raggiunto livelli incredibili, con oltre 80.000 tonnellate all’anno.

Un’antica cava romana taglia i fianchi di una montagna. (Credito fotografico: Carole. CC BY-SA 2.0.)

Cave di granito e marmo hanno avuto un ruolo nella ruina montium , ritagliando interi pendii per soddisfare la colossale richiesta di edifici civili come templi, stadi, anfiteatri e il settore delle arti decorative. I mercantili di legno erano spesso pericolosamente sovraccarichi e si capovolgevano in acque un po’ agitate. Lo stesso valeva per le navi contenenti minerale di ferro e piombo, spedite a fonderie che lavoravano giorno e notte per soddisfare gli ordini costanti di attrezzature e armi militari. La stragrande maggioranza dei metalli preziosi, come argento e oro, veniva trasportata con maggiore attenzione su navi più piccole e accompagnata da guardie alle casse imperiali.

Le questioni monetarie nell’antica Roma non erano molto diverse da quelle odierne, sebbene i metodi di gestione, raccolta e prestito fossero diversi. C’erano banche (che conservavano depositi e concedevano prestiti), tesorerie pubbliche e sistemi di riscossione delle imposte. C’erano valute e cambi di valuta. C’era anche una forma di finanza aziendale.

Prestare denaro non è stato facile. Inizialmente venivano concessi prestiti di modesto importo, principalmente nell’ambito di “  gentlemen’s agreement  ” orali. La garanzia per questo tipo di piccolo prestito si basava sulla reputazione della persona. Più tardi, quando si trattava di maggiori somme di denaro, abbiamo assistito allo sviluppo di accordi scritti. I contratti su papiro erano redatti in due copie, una data al beneficiario del prestito e la seconda sigillata tra tavolette di cera per conservare il chirographum , atto di riconoscimento di debito. La garanzia era ora chiaramente stipulata: casa, terra, bestiame, anche schiavi.

Per prestiti commerciali su larga scala, le famiglie patrizie benestanti agivano al di fuori delle banche consolidando le loro finanze, creando una societas , cioè una piccola impresa o società. Oggi italiani e francesi usano ancora la stessa parola (rispettivamente società e società), ma le società quotate non esistevano.

Leggi anche:  La caduta di Roma. Fine di una civiltà, di Bryan Ward-Perkins

In secondo luogo, i depositi di denaro privato erano tenuti nei templi, non nelle “banche” (un bancus , da cui deriva la parola “banca”, era un tavolo di legno usato dai cambiavalute). Va da sé che la banca di un cambiavalute non era mai molto lontana da un tempio, a volte sui gradini o sotto il portico. Questa era una cattiva abitudine culturale che spesso violava il pio rispetto per l’uso religioso dei templi, come si è visto quando Gesù ha rovesciato con rabbia i tavoli dei cambiavalute all’esterno del tempio ebraico.

I depositi erano custoditi nei sotterranei dei templi e custoditi da militari e sicurezza privata. Poiché i templi mantenevano fuochi sacri, rischiavano di bruciare. I banchieri hanno quindi diversificato i loro rischi distribuendo i loro depositi su più templi diversi, una strategia non dissimile da quella di avere più “filiali bancarie”. Anche i tesori e le casse dello Stato usavano i templi per tenere al sicuro il denaro, dando un altro significato alla frase che il Tesoro degli Stati Uniti stampa sulle note della Federal Reserve: ”  In God we trust  “.

Nella città di Roma, il Tempio di Saturno era il tesoro principale, o aerarium , le cui colonne sono ancora visibili a pochi metri dalla Curia (palazzo del Senato) nel foro. I quaestores , i funzionari del Senato e del Tesoro, supervisione fondi pubblici registrati nella vicina Tabularium, dove le tasse ( tributi ) sono stati inviati dopo essere stati raccolti da pubblicani che ha officiato con contratto privato e sono stati detestava. Lì, i tributisono stati contati e assegnati ai progetti. Il tempio di Giugno Moneta, situato sul Campidoglio sopra il Foro Romano, fungeva da zecca. La posizione di questo tempio, che oggi è la Chiesa di Santa Maria dell’Altare del Cielo (Ara Coeli), era come il Forte Knox del suo tempo.

Il Tempio di Saturno, dove si trovava il Tesoro Imperiale (Photo credit: Michael Severance).

Quando pensiamo a Roma, la prima immagine che ci viene in mente è quella dei resti delle più grandi opere pubbliche che furono miracoli di ingegneria civile, come il Pantheon e il Colosseo. Si stima che nell’età d’oro di Roma, un terzo dell’economia romana ruotasse attorno a progetti di edilizia pubblica di infrastrutture (acquedotti, pozzi, fognature), logistica (porti, strade, ponti), spettacolo (anfiteatri, stadi, arene), religione (templi, altari votivi, statue), igiene e salute (terme, palestre), edifici governativi (curia, tesori, uffici contabili) e shopping (mercati e centri commerciali).

Il più grande patrimonio di opere pubbliche di Roma è il suo sistema viario (molto del quale è ancora oggi in uso). Le strade romane consentivano una distribuzione del commercio relativamente rapida, sicura ed efficiente. Per riassumere la “road map romana”, per la quale è stato necessario mobilitare migliaia di lavoratori e miliardi di tonnellate di selciato:

29 strade militari lasciavano la capitale come tanti raggi di sole… e le 113 province dell’Impero erano collegate tra loro da 372 strade principali. L’intera [rete] consisteva di oltre 400.000 chilometri (250.000 miglia) di strade, di cui oltre 80.500 chilometri (50.000 miglia) erano lastricati di pietre… Molte strade romane sono sopravvissute per millenni e alcune sono oggi coperte da strade moderne.

Adriano e Traiano furono i protagonisti dell’espansione della sovrastruttura di Roma. L’impero aveva costruito più di 230 anfiteatri che potevano ospitare almeno 7.000 persone, centinaia di arene di gladiatori, circhi per le corse dei carri la cui capacità raggiungeva le 50.000 e le 250.000 persone. La città di Roma aveva undici acquedotti che si estendevano per oltre 400 chilometri, fornendo acqua dolce a un milione di persone ogni giorno. Il vecchio detto “Roma non fu costruita in un giorno” si riferisce agli anni (se non decenni) necessari per completare questa imponente opera pubblica. Ad esempio, la costruzione del Colosseo ha richiesto 10 anni, il Pantheon 12 anni, le Terme di Diocleziano 8 anni e il Foro Romano.si è sviluppata nell’arco di diverse centinaia di anni, proprio come le strade romane. La “stagione dei cantieri” è durata tutto l’anno.

Leggi anche:  Dreams of Empire

Infine, i Romani non badarono a spese e nessun materiale nel campo dell’arte. I musei italiani traboccano di arte romana di ogni genere. Usavano bronzo, argento, oro, terracotta, avorio, piombo, legno, marmo, pietra comune e pietre preziose. Realizzarono statue, mosaici, sarcofagi, gioielli, affreschi, rilievi, archi trionfali e colonne. Nulla sfugge alla creazione artistica, nemmeno un’imponente vasca scolpita nel più raro marmo di porfido egiziano (il cui valore all’epoca era quello del platino) per la Casa dell’Oro di Nerone. Oggi è in mostra nei Musei Vaticani, insieme al sontuoso pavimento a mosaico originale.

 

La vasca da bagno di Nerone. (Credito fotografico: Dennis Jarvis. CC BY-SA 2.0.)

L’espressione ”  veni, vidi, vici  ” potrebbe benissimo essere applicata metaforicamente al campo dell’arte, in quanto i romani ammiravano, conquistavano e sviluppavano le tradizioni artistiche ellenistiche, etrusche e mediorientali e le trasponevano su scala commerciale. . Patrizi e imperatori erano grandi “consumatori” d’arte, spendendo l’equivalente di miliardi di dollari ogni anno per adornare le loro ville, edifici pubblici e mausolei con capolavori artistici.

Quello che ci insegnano i maggiori settori commerciali romani è che più è grande, meglio è – e non solo migliore, ma genuinamente necessaria al servizio di un impero gigantesco con un appetito infinito per la costruzione e l’ espansione. Pensare “in grande” non era tutto per Roma: era necessario anche pensare in modo rapido ed efficiente per soddisfare le esigenze delle industrie che spesso consumavano più velocemente di quanto potessero produrre. Questo vale ancora oggi per l’industria globale.

Successivamente, bisognerà attendere la prima rivoluzione industriale per vedere i suddetti settori raggiungere tali livelli: quando la moda era poi tornata, in Europa, alla costruzione di imperi. Inglesi, francesi, spagnoli e portoghesi cercavano all’estero risorse dalle Americhe, dall’Asia e dall’Africa, soprattutto per ricostituire i materiali naturali che si stavano esaurendo nei loro paesi di origine. Ironia della sorte, spesso queste stesse risorse erano già il risultato del saccheggio di un vecchio impero.

Il fallimento dei romani non è stato tanto nello sviluppo delle loro industrie quanto nella sostenibilità di queste e nel loro rispetto per la natura, una sfida che ancora oggi dobbiamo affrontare. Oggi come ieri, bisogna evitare la ruina montium , come osservava Plinio, mentre si cercavano nuove vette di prosperità industriale.

https://www.revueconflits.com/romenomics-commerce-dans-la-rome-antique-mondialisation-aujourd-hui-3/

Romanomics 1: Il commercio nell’antica Roma, la globalizzazione oggi, di Michael Severance

Questa serie “Romenomics” mira a studiare il commercio nell’antica Roma, includendo alcuni dettagli unici, divertenti e illuminanti, al fine di apprezzare meglio il presente economico.

Un articolo di Michael Severance per Acton Institute.

Alban Wilfert traduzione per Conflits

 

La Caput Mundi non è sempre stata al vertice dell’economia. Gli 11 secoli di esistenza dell’antica Roma furono quelli di un lungo e faticoso viaggio. Quando fu fondata nel 753 a.C., fece i primi passi come un’ambiziosa rete di villaggi. Successivamente, ha dimostrato la sua potenza politica durante un’inarrestabile espansione repubblicana nel bacino del Mediterraneo per mezzo millennio. Infine, per cinque secoli, fu quell’Impero onnipresente e onnipotente, anche se spesso disfunzionale, che occupò il 25% del mondo conosciuto. Alla fine cadde sotto il peso della propria decadenza morale, politica ed economica dopo la deposizione nel 476 dell’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, da parte di invasori barbari.

Proprio come studiamo ancora il latino per comprendere meglio la nostra lingua moderna, riflettere sull’economia antica è utile per comprendere alcune delle leggi economiche fondamentali dei mercati e dei relativi sistemi culturali, che sono sopravvissuti fino alla stessa Città Eterna.

Avvertimento : Molte persone credono ingenuamente nella gloria dell’antica Roma. Vedendola attraverso un prisma di archi trionfali, palazzi di marmo, vasti fori [1] e iconici busti di uomini che hanno portato ordine, pace e prosperità in un’era primitiva della storia umana, sono abbagliati. Lo pensiamo anche noi, sapendo che la Roma pagana non era nell’insieme migliore, almeno moralmente e spiritualmente, dei cosiddetti barbari da essa conquistati.

Spesso, l’antica economia romana è essa stessa osservata attraverso questi occhiali idealistici. Non c’è dubbio che abbia creato il primo Commonwealth operativo transcontinentale e che abbia rappresentato il primo vero tentativo di globalizzazione, ma non si può dire che la sua vita commerciale sia sfuggita a tutte le crisi o che sia stata diretta con mano divina da guru degli affari.

È tuttavia affascinante osservare il funzionamento e, a fortiori , l’efficienza dell’economia romana in un tempo così lungo, con un flusso costante di invenzioni, connessioni e creazione di ricchezza su tre continenti. Questa serie “Romenomics” offrirà l’opportunità di esaminare diversi fattori importanti dell’economia antica, vale a dire:

  • Lavoro e salario;
  • centri commerciali;
  • Settori di mercato;
  • Offerta, domanda, distribuzione;
  • Prezzi, controlli, inflazione;
  • Moneta e politica monetaria;
  • Fiscalità e sussidi;
  • diritto commerciale;
  • Fede, Rischio e gli “Dei” del Commercio;
  • Miracoli e disastri economici

Leggi anche:  La caduta di Roma. Fine di una civiltà, di Bryan Ward-Perkins

Romanomica 1: Lavoro e salario

Poiché il cuore di qualsiasi mercato funzionante – antico o moderno – essendo il talento umano e la produzione dietro compenso, vale la pena iniziare con una panoramica dei mestieri, delle professioni, delle industrie e dei servizi quotidiani che esistevano nell’antica Roma, compreso il lavoro non retribuito o forzato ( servitù ). A meno che tu non abbia mai aperto un libro di storia antica o visto un peplo come Spartacus, tu sai che la schiavitù rappresentava proporzioni immense della produzione economica romana, per opere private e pubbliche. Si stima che al suo apice, l’Impero Romano avesse un PIL equivalente agli odierni 32 miliardi di dollari. Durante il periodo più intenso di costruzione finanziata dallo stato (strade, stadi, teatri, templi, ingegneria civile), il lavoro degli schiavi ha rappresentato circa il 20-30% dell’attività economica. Questo era particolarmente vero durante i regni di Traiano e Adriano, che costruirono alcuni dei monumenti più antichi di Roma.

Gli schiavi, serviti in latino, fornivano anche una serie di servizi di cui oggi nessuno si lamenterebbe troppo, tanto più che ora sono ben pagati: cucina, parrucchiere, massoterapia, e anche assistenza tecnica a professioni come avvocati, cartografi, ingegneri e persino coloro che hanno aiutato la nomenclatura a mantenere enormi elenchi di nomi e associazioni in rete per politici e l’élite degli affari (molto simile a un antico Rolodex o ai profili dei social network di oggi).

Va da sé che i servi erano chiamati a sfidare la morte negli spettacoli, nei combattimenti di gladiatori e nelle corse dei carri, e nella sicurezza alimentare, cioè nei compiti di garanzia della qualità, quando assaggiavano cibi e bevande per assicurarsi che non fossero avvelenati. Le schiave erano talvolta costrette alla prostituzione o alla sua forma domestica un po’ meno dura, il contubernium , un rapporto in cui un padrone viveva apertamente con il suo schiavo.

Cosa facevano della loro vita i cives , i liberi cittadini? Innanzitutto molti di loro, soprattutto i plebei di rango inferiore, vivevano in condizioni anche peggiori dei servi appartenenti o donati dai nobili patricii , cioè nei bassifondi delle insulae . Hanno dovuto lavorare sodo per raggiungere uno standard di vita molto modesto. I lavori della plebe non erano molto diversi da quelli degli operai o delle piccole imprese familiari di oggi [2]. Gestivano piccoli negozi, chioschi di mercato e taverne, noleggiavano muli, coltivavano piccoli appezzamenti, servivano come “meccanici dei carri armati”, mantenevano stalle e svolgevano compiti di segreteria e logistici. Alcuni erano guide poco pagate, ma il loro lavoro nelle terre straniere appena conquistate era importante. Per la maggior parte, i plebei erano riparatori, fornitori e prestatori di servizi quotidiani di base.

Reddito pro capite nelle province romane. (Credito fotografico: mappe brillanti)

 

Ma quanto era alto il salario dei plebei? Gli antichi economisti hanno tentato di stimare il reddito pro capite durante il periodo di massimo splendore dell’Impero. Alcuni stimare il reddito annuo di Roma all’inizio del I ° secolo a 570 dollari di oggi. Non è molto, anche se il pane e molti altri alimenti di base fortemente sovvenzionati erano più economici, spesso gratuiti. Quasi l’intero impero viveva ben al di sotto della soglia di povertà. Come oggi, molti redditi sono stati guadagnati “al buio” e non sono stati ufficialmente dichiarati per evitare il tributo (imposta sul reddito). I registri delle entrate pubbliche erano probabilmente imprecisi.

Nel I secolo, i soldati romani potevano guadagnare una miseria o essere tra i salariati più ricchi. Gli imperatori arruolavano ogni anno decine di migliaia di soldati, comandanti e tecnici, mentre Roma si espandeva in uno slancio inarrestabile. Certo, gli stipendi dei militari rappresentavano un pesante fardello per le finanze pubbliche. Un legionario , fante, guadagnava un misero sesterzio al mese. Ma quanto era questo misero stipendio? Cercare di convertire un sesterzio nell’odierna parità di potere d’acquisto (PPP) non è un’impresa facile. Fortunatamente, i romani avevano una sorta di gold standard, poiché siamo in grado di calcolare quanti sesterzi valevano una moneta d’oro ( aureus). Se l’oro è valutato in media, diciamo, di $ 1.200 per oncia troy [3] (che in realtà vale $ 1.700 oggi, a seguito del forte aumento dovuto alla crisi legata al Covid-19), allora una singola moneta di sesterzi era vale $ 3,25 alla conversione di oggi. Citazione da GlobalSecurity.org:

Se consideriamo il valore moderno dell’oro di circa $ 1000 l’oncia, un aureus varrebbe circa $ 300, il denaro d’argento [25 per fare un aureus ] circa 12 dollari e un sesterzio [4 per un denaro] circa $ 3. A metà del 2010, il prezzo dell’oro superava i 1.200 dollari l’oncia, posizionando un aureus a circa 325 dollari, un denario d’argento a circa 13 dollari e un sesterzio [4 denari] a 3,25 dollari.

In ogni caso i soldati romani non potevano vivere con 3,25 dollari al mese. Furono quindi massicciamente incoraggiati a vincere battaglie e conquistare nuovi territori. Ottime prestazioni sul campo di battaglia hanno fruttato loro generose somme aggiuntive, “commissioni”, attraverso la distribuzione del bottino e della guerra. Inoltre, i Legionari ricevevano concessioni terriere esentasse al momento del pensionamento in alcune delle regioni più fertili dell’impero, oltre a cibo, bevande, riparo e vestiti per la durata del loro servizio attivo. Un’altra parte del loro stipendio era il “pagamento in natura”. Infatti, la parola stipendio deriva dalla parola salche significa sale. Perché ? Gli ufficiali di rango inferiore godevano di vantaggi più speciali, come ricevere piccoli sacchi di sale, che valevano all’incirca una paga giornaliera, in cambio della protezione delle strade per le miniere di sale romane o dell’accompagnamento di carovane di sale in province aspre come la Germania. Gli ufficiali più talentuosi e più anziani, come i centurioni che gestivano truppe di un centinaio di soldati, invece, non avevano salari bassi, non lavoravano a fianco e non beneficiavano di incentivi. Erano solo molto ben pagati, fino a 300 sesterzi al mese ($ 10.000).

 

L’equivalente dello stipendio di un lavoratore oggi era di circa 120 sesterzi (390 dollari) al mese, nella migliore delle ipotesi. Non era ancora molto, quindi le persone che guadagnavano quello stipendio facevano lavori saltuari, come molti ora sono costretti a fare di notte e nei fine settimana. I lavoratori agricoli guadagnavano fino a 150 sesterzi (circa $ 500) al mese, più parte del raccolto e spesso alloggi locali.

Stipendi patrizi mensili molto più elevati venivano concessi all’élite istruita e politica e, allo stesso modo, a coloro che seguivano percorsi professionali che si andavano esaurendo, come professori specializzati, precettori o “allenatori” della famiglia imperiale (8.000 sesterzi), medici (30.000 sesterzi) e proconsoli governatori provinciali e coloniali, che avevano redditi molto alti (82.000 sesterzi al mese).

Per quanto riguarda gli artigiani e le loro PMI, spesso hanno guadagnato molto, soprattutto nelle città. Naturalmente, questi erano profitti fluttuanti e non salari fissi come quelli dei dipendenti di oggi. I piccoli imprenditori potevano quindi avere rendite nette molto allettanti, come quelle di proconsoli e medici, soprattutto se le loro competenze tecniche erano molto richieste (come vasai, gioiellieri, metalmeccanici, mugnai e pellettieri) o se l’amministrazione imperiale li assumeva. Poiché quasi tutti i documenti aziendali (conservati su rotoli di papiro e tavolette di legno) sono andati perduti, è possibile stimare solo una somma tonda di 1.000 sesterzi (circa $ 3.300) di profitto al mese nelle grandi città come Roma, Londinium eNeapolis [4] .

Secondo un antico storico, altri professionisti erano ben pagati, specialmente nelle arti dello spettacolo, sebbene non fossero della stessa specie degli odierni “stipendi di Hollywood”:

“Erano artisti, comici, ballerini e attori, che potevano guadagnare dagli 80 ai 150 sesterzi al giorno [dagli 8000 ai 14.500 dollari al mese] senza contare le spese di vitto e viaggio, e che avevano anche la garanzia di una serie di spettacoli annuali . Certo, gli artisti più famosi potrebbero ottenere molto di più. ”

In sintesi, era possibile vivere molto bene nell’antica Roma, anche se la stragrande maggioranza del populus romanus era estremamente povera.

Sulla base di quanto abbiamo osservato, ci sono alcune leggi economiche che vale la pena considerare.

Innanzitutto, più sei qualificato nel tuo talento individuale e più rara è la tua professione, più è probabile che tu sia generosamente remunerato dal mercato per lunghi periodi di tempo. Nell’antica Roma, un educatore d’élite, un retore come il medico di oggi, era pagato molto più di un professore moderno. Non che fosse più abile nel mondo accademico, ma 2000 anni fa c’erano significativamente meno intellettuali professionisti rispetto a oggi. Oggi i dottorati si contano sulle dita di una mano. D’altra parte, si potrebbe dire che i retori valevano “diecimila” una dozzina!

Un’altra legge insuperabile del mercato è la tendenza ad aumentare la retribuzione in base al costo della vita adeguato nelle aree urbane e suburbane. Il costo della vita corretto di un calzolaio attivo potrebbe essere di 100 sesterzi al giorno a Pompei, ma raggiungere i 200 sesterzi a Roma, ed essere molto inferiore nella Sicilia agraria o nelle province periferiche come la Dacia (Romania), raggiungendo i 20 sesterzi al giorno. In particolare, i calzolai erano più richiesti dove si camminava molto ogni giorno, soprattutto se servivano la fanteria vicino ai castra.militari e cittadini. Di conseguenza, la legge non è necessariamente quella dell’offerta, ma quella della domanda. Questo è ciò che alla fine rende i redditi dei calzolai romani rispettivamente molto più alti o più bassi.

 

In conclusione, il divario salariale nell’antica Roma era enorme. Era più simile a quello dei moderni mercati ricchi e povericome il Brasile e l’Argentina, dove i quartieri finanziari dei grattacieli corrono lungo le baraccopoli di Rio de Janeiro e Buenos Aires a poche strade di distanza. I differenziali salariali e gli standard di vita erano estremi, soprattutto perché (come nei paesi cosiddetti meridionali di oggi) le possibilità di avanzamento erano minori e più precarie. C’erano tasse soffocanti, corruzione dilagante, criminalità organizzata, scarsa istruzione, mercati neri disconnessi e livelli più elevati di malattie, sfortuna e vincoli geografici estremi. Montagne, paludi, regioni vulcaniche e terremotate potrebbero spazzare via intere economie in un solo giorno. Ricordi cosa è successo a Pompei? Questa antica città sarà una delle protagoniste del nostro prossimo blog:

 

[1] plurale latino di forum (NDT).

[2] “mamma e pop” (NDT).

[3] Unità di misura dei minerali (NDT).

[4] Attuale Napoli (NDT).

Eisenhower e il maccartismo, di George Friedman

A proposito di guerre intestine americane_Giuseppe Germinario

https://geopoliticalfutures.com/what-were-reading-eisenhower-and-mccarthyism/?tpa=NzAzZmU4M2NlZDBkMzIxYTFkY2YyYTE1OTkyMzM2NzYzYjBkNWQ&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fwhat-were-reading-eisenhower-and-mccarthyism%2F%3Ftpa%3DNzAzZmU4M2NlZDBkMzIxYTFkY2YyYTE1OTkyMzM2NzYzYjBkNWQ&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

Cosa stiamo leggendo: Eisenhower e il maccartismo

La vera pace non arriverà in Medio Oriente finché i pacificatori trascureranno questo problema.

Di: George Friedman

Ike: un eroe americano
Di Michael Korda

Il libro di Michael Korda è un eccellente studio di Dwight D. Eisenhower, sia come persona che come comandante supremo alleato della guerra contro la Germania, nonché del processo attraverso il quale divenne presidente. Avendo letto molto su Eisenhower, normalmente avrei poche novità da dire. Ma qualcosa mi ha veramente colpito in questo libro: l’affermazione che questo particolare eroe di guerra e forza politica fosse un devoto comunista.

L’accusa proveniva dalla fazione maccartista dei repubblicani che ha sostenuto Robert Taft per la nomina del loro partito. Volevano distruggere la reputazione di Ike. Nel 1952, Joseph McCarthy era una figura significativa nella politica e nella società americana. Ha terrorizzato tutte le aree della vita americana, distruggendo le vite dei cittadini e dei nemici politici allo stesso modo per migliorare la posizione politica della sua fazione. Era guidato dalla creazione di un sistema in base al quale chiunque poteva essere identificato come comunista. La paura di McCarthy significava la disponibilità a sottomettersi alla sua fazione.

Essere comunista nel 1952 era problematico, ovviamente. Un membro del Partito Comunista per definizione ha sostenuto il movimento comunista internazionale guidato dall’Unione Sovietica. Il capo dell’Unione Sovietica era un assassino di massa. Proprio come qualcuno guarderebbe un nazista americano con disgusto, guarderebbe un comunista allo stesso modo.

Ma McCarthy e i suoi seguaci non si sono concentrati sui membri dei partiti comunisti. Si sono concentrati sui comunisti chiaramente troppo intelligenti per essere membri. Eisenhower stava correndo contro Taft, e McCarthy non lo voleva. Credeva che dimostrare che Eisenhower era comunista lo avrebbe fermato. La prova, ovviamente, era sempre indiretta. In questo caso, era un’immagine di Ike che stringeva la mano al maresciallo sovietico Georgy Zhukov in una riunione tenuta poco dopo la resa tedesca. La cordiale stretta di mano indicava chiaramente amicizia. E poiché George Marshall, capo di stato maggiore dell’esercito, ha autorizzato l’incontro, chiaramente era lui stesso un comunista, ed entrambi erano conniventi per consegnare Berlino a Stalin.

Non ha funzionato contro Ike, ma ha funzionato contro tanti altri, ponendo fine alle carriere di persone così varie come gli scienziati e l’élite di Hollywood. (Oggi li chiameremmo “cancellati”.) C’erano, in effetti, agenti comunisti negli Stati Uniti, ma l’equipaggio di McCarthy non se ne preoccupava. McCarthy si preoccupava di spaventare i deboli e i potenti con la capacità di accusare, e quindi di condannare i cittadini per una parola pronunciata in un modo che fosse in sintonia con il comunismo. Sono stati accusati di qualcosa di cui pochi erano colpevoli e l’accusa è stata sufficiente per distruggerli. Ci è voluto un idiota per credere che Eisenhower fosse un comunista, ma ci sono voluti leader spietati e spietati per usare quegli idioti.

C’è una tradizione di evitamento che fa parte della storia americana. Diverse sette religiose evitavano o punivano coloro che avevano violato le loro regole. Nathaniel Hawthorne ne ha scritto magnificamente. È un passatempo americano, condiviso da tutte le convinzioni politiche e religiose, praticato anche da chi scenderà dal palco.

Le guerre segrete della Repubblica di Venezia e dello Stato Pontificio, di Giuseppe Gagliano

Partendo dal saggio di Eric Frattini di taglio storico-giornalistico “L’Entitá” e da quello storico di Paolo Preto “I servizi segreti di Venezia emerge con chiarezza che, al di là delle scelte ideologiche e/ o religiose, le istituzioni politiche hanno fatto ricorso a tutti gli strumenti a loro disposizione per salvaguardare il loro potere o per incrementarlo. In questo contesto i servizi di sicurezza hanno giocato – e giocano come ampiamente dimostrato anche dagli studi storici di Aldo Giannuli un ruolo fondamentale. Infatti l’uso di omicidi politici mirati, la realizzazione o il finanziamento di movimenti volti a destabilizzare politicamente i propri avversari, l’uso della tortura e l‘uso della guerra chimica sono stati strumenti usualmente posti in essere dalle istituzioni politiche e religiose come illustrano ampiamente sia Frattini che Preto. I confini tra cioè che è moralmente lecito o meno saltano in nome degli arcana imperii e della ragion di stato. Ieri come oggi.

Anche se i personaggi e i contesti storici sono necessariamente cangianti e mutevoli numerose sono le continuità e le costanti: l’uso degli omicidi mirati non può che farci pensare anche al Mossad, alla Cia o al KGB; l’uso della tortura ai regimi totalitari ma anche alla Guerra del Vietnam, all’Egitto e all’Iran attuali; l’uso della guerra chimica all’uso dei gas nella Grande Guerra. Infine la realizzazione di movimenti destabilizzanti, come la Fronda, come non può, per analogia, farci pensare ad Otpor o a Solidarnosc?

L’intelligence della Santa Sede

Fra i numerosi nemici della Chiesa di Roma nel 1600 vi era certamente la Francia del cardinale Mazzarino nei confronti della quale il servizio di informazioni Vaticano pose in essere diverse operazioni coordinate della cognata del pontefice Innocenzo X e cioè Olimpia Maidalchini. Il cardinale francese era riuscito a infiltrare nella Santa Sede alcune sue spie che lo informavano dettagliatamente sulle decisioni del Papa contro la Francia. Allo scopo di prevenire e di contrastare queste iniziative Olimpia Maidalchini realizzò un vero e proprio servizio di controspionaggio denominato Ordine Nero il cui compito era individuare gli agenti francesi al soldo di Mazzarino e ucciderli. Il simbolo di questa sezione della Intelligence era una donna vestita con una toga che reggeva la croce in un mana e nell’altra una spada. Tale operazione di grande successo portate avanti dalla intelligence della Santa Sede fu il sostegno al movimento della fronda nato per mettere fuori gioco il cardinale francese; un ‘altra operazione di grande successo fu la eliminazione del genovese Alberto Mercati che era al soldo del cardinale francese e che fu impiccato ad una trave nella sua casa a Roma,omicidio questo che fu attuato dall’Ordine Nero.

Per quanto riguarda l’Ottocento uno dei nemici temibili del Vaticano era certamente la Carboneria. L’Intelligence del Vaticano conosceva perfettamente l’organigramma delle sette segrete come la carboneria e proprio il responsabile dell’intelligence Vaticana Bartolomeo Pacca attuò contromisure efficaci. Nel novembre del 1825 i due principali responsabili della Carboneria, e cioè Targhini e Montanari, furono catturati, processati e decapitati. Un’altra operazione assolutamente spregiudicata fu quella di individuare le persone sospettate di appartenere o appoggiare la Carboneria che vennero sequestrate, interrogate e torturate e nella maggior parte dei casi furono giustiziate in modo sommario. Complessivamente un migliaio di persone sarà costretta all’esilio o sarà rinchiusa nella prigioni papali.

I servizi segreti a Venezia

Passiamo adesso a Venezia. Il 27 ottobre del 1511 il Consiglio dei dieci pattuisce un compenso a Niccolò Catellani per uccidere il re francese Luigi XII con la complicità del suo medico personale.

Allo scopo di sconfiggere il nemico austriaco Venezia decide di porre in essere diversi incendi dolosi nel 1512 in varie località austriache fatte da agenti veneziani e, tra maggio e luglio dello stesso anno, verranno bruciati in Austria circa 200 città. Questa tecnica si rivelò talmente efficace che nell’agosto del 1518 gli storici danno notizia dell’esistenza di una vera e propria organizzazione segreta veneziana specializzata negli incendi dolosi in territorio austriaco. L’artefice di questa operazione fu un nobile veneziano che d’accordo con il Consiglio dei dieci faceva agire gli agenti veneziani incendiari divisi in quattro gruppi vestiti da frati mendicanti.

Un altro temibile nemico di Venezia erano i turchi. Il Consiglio dei dieci progettò l’eliminazione del sultano per ben 12 volte. Più esattamente tra il 1456 e il 1647 furono numerosi i tentativi o i progetti veneziani di attentati alla vita del sultano. Ad esempio nel 1643, i Dieci accettano ben due offerte per assassinare il sultano la prima da parte di un rinnegato di nome Giorgio di Traù mentre la seconda da parte di un frate. Ma sono certamente altrettanto importanti due episodi per comprendere chiaramente l’uso della guerra segreta da parte di Venezia. Il primo episodio risale al luglio del 1652 quando fu avvelenato il turco Cassan Capigì in casa di una prostituta da parte di un certo Francesco Colletti che altro non era che un delinquente; il secondo episodio si colloca nel 1663 quando il nuovo direttore dei servizi segreti in Dalmazia, Nicolò Bollizza, fornisce al turco Ezzestabec veleni per minestra e condimenti destinati a uccidere il padrone Beico Bey .

Anche nei confronti dei prigionieri turchi Venezia mostrò sempre una cinica efficienza: nel luglio del 1505 il conte di Traù è invitato dal Consiglio a uccidere in gran segreto un turco divenuto cristiano; per quanto riguarda i prigionieri delle fuste corsare catturati il Consiglio ordinò al capitano di tagliare a pezzi tutti e di affondare le barche facendo bene attenzione che nessuno di loro rimanesse vivo perché se ciò fosse accaduto avrebbe certamente nuociuto all’immagine di Venezia. Nel 1556 il Duca di Spalato dal Consiglio ricevette l’ordine di uccidere in prigione in modo segreto un turco assassino di frati francescani.

Per quanto riguarda l’uso della guerra chimica, durante la guerra di Cipro, sarà usato il veleno che verrà messo nelle acque e più esattamente il 15 marzo del 1570 l’ingegnere Maggi offre al Consiglio numerosi consigli per la difesa della città di Famagosta fra i quali il lancio contro i nemici di vasi contenenti calce viva mescolata ai veleni e consiglia altresì di avvelenare con sublimato in polvere orzo e biade dei cavalli.E infatti il 18 agosto 1570 lo speziale Dalla Pigna fornisce la materia prima per i veleni e cioè un misto di sublimato, verderame, allume di rocca per avvelenare le acque bevute dai ciprioti.

Agli inizi del 1571 la guerra chimica si intensificherà e infatti il 5 febbraio il Provveditore Generale in Dalmazia riceverà l’ordine segreto di usare senza indugio il veleno.

Uno dei maggiori fautori della guerra chimica fu certamente il Provveditore generale in Dalmazia e Albania Lunardi Foscolo che nel 1646 studierà un piano per mettere fuori uso i turchi chiedendo agli Inquisitori di Stato abbondante veleno capace di operare in poche ore per distruggere il nemico. Sotto il profilo storico insomma l’avvelenamento dei pozzi in Dalmazia fu uno dei mezzi normali della campagna militare dell’estate del 1647.

http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/venezia-vaticano-intelligence/

Schiavismo, la storia rimessa al suo posto_di Bernard Lugan

Presentazione :
Tutti i popoli anno praticato la schiavitù. Ma solo i bianchi l’hanno abolita. Con la conquista coloniale costrinsero poi a rinunciarvi coloro che continuavano a praticarla. Tuttavia, solo il traffico di esseri umani praticato dagli europei è criminalizzato.
Il 10 maggio 2001, votando all’unanimità la “Legge Taubira”, i deputati francesi hanno così imposto una visione ideologica e manichea della tratta degli schiavi. Questa legge denuncia solo il Trattato praticato dagli europei, ignorando la tratta degli schiavi arabo-musulmana che si è conclusa solo con la colonizzazione.
Christiane Taubira ha giustificato questa singolare emiplegia storica in modo che “i giovani arabi (…) non portino sulle spalle tutto il peso dell’eredità dei misfatti arabi ” ( L’Express , 4 maggio 2006).
Con il loro voto, i deputati francesi hanno quindi cancellato dalla memoria collettiva decine di milioni di vittime. A cominciare da queste innumerevoli donne e ragazze berbere che hanno fatto irruzione in quello che i conquistatori arabi chiamavano il “raccolto berbero”. Ibn Khaldun ha evocato su questo argomento i ” bellissimi schiavi berberi, di vello color miele “. E che dire dei milioni di rapimenti di europei effettuati fino all’Ottocento in mare e lungo le sponde del Mediterraneo, a tal punto che si diceva allora che “ ad Algeri piove schiavi cristiani ”?
Questa legge ignora anche il ruolo degli stessi africani. Tuttavia, come gli europei aspettato sulla costa per i prigionieri da consegnare dai loro partner africani, è stato quindi in ultima analisi, spetta a quest’ultimo di accettare o rifiutare di vendere loro i loro “fratelli” neri. La realtà storica è che una parte dell’Africa si è arricchita vendendo l’altra parte. Poiché i prigionieri non apparivano per magia sui siti di scambio, furono effettivamente catturati, trasportati, ammassati e venduti da schiavisti neri. Cosa ha fatto dire ai vescovi africani:
“ Allora iniziamo ammettendo la nostra parte di responsabilità nella vendita e nell’acquisto dell’uomo nero… I nostri padri hanno preso parte alla storia dell’ignominia che era quella della tratta degli schiavi e della schiavitù nera. Vendevano l’ignobile tratta degli schiavi atlantica e transsahariana ”(Dichiarazione dei vescovi africani riuniti a Gorée nell’ottobre 2003).
Tuttavia, per odio verso tutto ciò che è “Bianco”, coloro che si sono battezzati “decoloniali” negano queste realtà storiche a favore di una falsa storia che introducono con il forcipe secondo metodi terroristici e che è vigliaccamente accettata da Le “élite” europee sono entrate nell’imitudine dottrinale. Il 19 giugno 2020, il Parlamento europeo ha votato a favore di una risoluzione surrealista che condanna “l’uso di slogan che mirano a minare o indebolire il movimento Black Lives Matter e ad attenuarne la portata”. Il gruppo LFI ha persino presentato un emendamento volto a riconoscere come “crimine contro l’umanità” solo il Trattato europeo, e non “la tratta degli schiavi” in generale, come previsto nel testo iniziale.
Questa impresa di sovversione sta vivendo sviluppi apparentemente insoliti. Così, lo scorso maggio, in Martinica, due statue di Victor Schoelcher, l’uomo del Decreto del 27 aprile 1848 che abolisce definitivamente la schiavitù, furono rovesciate a Fort de France e… Schoelcher. Tuttavia, non c’è né ignoranza né stupidità in questi crimini iconoclasti, ma al contrario un chiaro atteggiamento politico: un Bianco non può infatti porre fine alla schiavitù poiché è essenzialmente uno schiavo … le statue del padre dell’abolizionismo furono ribaltate, per rimpiazzarle quelle delle personalità nere “schiave” secondo il vocabolario “decoloniale”, che avrebbero combattuto contro la schiavitù.
Ecco quindi i “decoloniali” in mezzo a un complesso esistenziale divenuti “schiavi della schiavitù” per dirla con Franz Fanon, lui che si rifiutava di “lasciarsi imprigionare nel determinismo del passato”.
Questo libro che rivede completamente la storia della schiavitù era quindi una necessità. Lontano dalle nuvole e dalle incessanti manovre che inducono sensi di colpa, quest’opera, arricchita di decine di mappe e illustrazioni, una dettagliata bibliografia e un indice, è il manuale di confutazione di questa storia divenuta ufficiale, il cui scopo è quello di spianare la strada a pentimento per rendere gli europei stranieri nel loro stesso suolo.
Per ordinarlo, vai sul blog di Bernard Lugan facendo clic su questo link .

storia e ricordi, di Gianfranco la Grassa

UN PO’ DI STORIA RECENTE PER GLI IGNARI

 

  1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su “Nuovi Argomenti” nel 1956 con la “trovata” della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del Pci (verso la fine del ‘56), in cui svillaneggiò Krusciov, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche “disturbata” e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).

Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero “geopolitiche”. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale “coincidenza” ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto. Si ammette sempre una discrepanza tra teoria e realizzazioni pratiche, tuttavia mi sembrava che fosse venuta in evidenza una distanza “leggermente” eccessiva. Fui poi disturbato dal comportamento dei vertici del PCI (della “via italiana al socialismo”) nei confronti di chi traballò e fu preso da naturali dubbi, come ad es. Di Vittorio, di cui si dice che fu perquisito a casa e intimidito da parte di una sorta di “polizia interna” (che a mio avviso era giusto esistesse, ma non per agire con somma rozzezza e brutalità) mossa da quello che si riteneva allora una specie di “ministro dell’interno” del partito (lo stesso che nel 1978, in costanza di rapimento Moro, fece il viaggio, detto ridicolmente “culturale”, negli USA). E’, però, soltanto un “si dice”, mi raccomando, non prendetelo per sicuramente vero.

L’anno successivo (’57), fui comunque sostanzialmente dalla parte del “gruppo antipartito” nel PCUS (Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovič), perché Krusciov mi appariva un opportunista rozzo e furbastro. I quattro furono espulsi dal partito, dopo alterne vicende: iniziale maggioranza nella Direzione del partito e poi in minoranza nel successivo Comitato Centrale, convocato d’urgenza dal segretario e che, come sempre accade quando si passa ad un numero piuttosto consistente di “esseri umani”, era zeppo di tirapiedi silenziosi e conformisti. Ciò mi allontanò ancor di più dalle posizioni del PCI, sempre allineato con Mosca e dunque ormai con la mediocrità del krusciovismo.

Da allora accentuai la mia critica al partito in quanto “revisionista” (pensavo ad una riedizione, “riveduta e s-corretta”, del kautskismo) e mi avvicinai sempre più ai comunisti cinesi (allora non ancora divisi in “linea nera” di Liu-sciao-chi e “rossa” di Mao, divisione che avvenne nel ’66 con la “rivoluzione culturale”; è ovvio che le definizioni di “nera” e “rossa” erano di marca maoista). Quando nel ’60 si svolse a Mosca il Congresso degli 81 partiti comunisti (di tutto il mondo), si precisò la lontananza fra cinesi e russi e mi sentii viepiù consenziente con i primi. Infine vi fu la “crisi di Cuba” (ottobre 1962), su cui occorre un racconto a parte, data la somma di bugie raccontate. Nel 1963, si precisò con nettezza il dissidio ormai inconciliabile tra PCUS e PCC (in cui era ancora in auge Liu-sciao-chi) con il violento scambio di accuse contenute nelle lettere che si scambiarono i comitati centrali dei due partiti. Alle critiche al PCUS, i cinesi aggiunsero due importanti interventi (in specie il secondo) contro Togliatti e il PCI. Da allora ruppi in modo definitivo con il partito; per un bel po’ di tempo mi aggirai nella gruppistica (quella di tendenza m-l), da cui però mi allontanai nel corso degli anni ’70 (in specie dopo la morte di Mao nel settembre 1976).

Poiché ero però allievo del maggiore economista di tale partito (fra l’altro, l’unico citato assieme a Togliatti nel secondo degli interventi cinesi contro i comunisti italiani), in definitiva mantenni aperti i canali con esso e quindi ebbi modo di sapere molte “cosette”. In fondo ho avuto contatti amichevoli con membri dei vertici del PCI (sorprenderebbe sapere qualche “grosso” nome, che non posso fare), senza mai chiedere alcun favore ma solo notizie (assai interessanti e sovente non di dominio pubblico). Frequentai anche molto “Critica marxista”, fui pubblicato dagli Editori Riuniti, ecc. ecc. Tuttavia, ero nel contempo impegnato in tutto quell’ambaradan che fu detto “extraparlamentare”; vedevo come fumo negli occhi, perché ne rilevavo le ascendenze fondamentalmente anticomuniste (non solo antipiciiste), le correnti poi dette “operaiste” (e più tardi dell’“autonomia”) e fui più vicino ai cosiddetti emme-elle, ma certo con tanto sconcerto per la sclerosi e dogmatismo delle loro posizioni, salvo rarissimi casi.

  1. Passarono gli anni, morì nel giugno ‘63 il “Papa buono” (il primo della “S.S. Trinità” costituita da Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov), a novembre fu assassinato il presidente americano, nell’agosto ’64 morì Togliatti e in ottobre fu rimosso il leader sovietico. Si arrivò al fatidico ’68 (preceduto in Italia da un ’67 già turbolento) e anni successivi che, come ben si sa, furono definiti “anni di piombo” (quelli ’70 soprattutto) o del “terrorismo rosso”, mentre invece sono stati anni in cui quest’ultimo (indubbiamente messosi in moto dissennatamente) fu ampiamente infiltrato e sfruttato (insieme a quello, “secondario”, detto nero) per una serie di “giochi delittuosi” posti invece in atto dai vari Servizi dei paesi dei “due campi”. Venni a conoscenza abbastanza presto di quanto fosse falso il “racconto” che si stava facendo (e che continua ancor oggi!) di quel “terrorismo”. Ricordo intanto l’importante evento della repressione sovietica in Cecoslovacchia nel 1968, che questa volta condannai, ma più che altro per critica al cosiddetto “socialimperialismo” Urss e senza aderire minimamente alle idee, anzi aborrite, di Dubcek e soci; idee invece condivise da assai deboli “antirevisionisti”, in particolare dai “manifestaioli” in Italia che mostrarono fin da allora di non essere migliori dei piciisti. Alla fine degli anni ’60 iniziarono “discreti” contatti tra PCI e “ambienti statunitensi”; prese insomma avvio il lento e molto coperto trasferimento del PCI verso “ovest”. In un certo senso, se si vuol fissare una data, si deve indicare il 1969; detto “per inciso”, in quell’anno Berlinguer divenne vicesegretario.

Sembravano allora maggioritari nel partito gli “amendoliani” (il cui n. 2 era Napolitano), corrente (pur se non riconosciuta formalmente in nome dell’unità del partito, che si pretendeva ancora leninista) cui apparteneva anche il mio Maestro, corrente cui si deve l’espulsione di quelli de “Il Manifesto”. Il gruppo amendoliano era considerato appunto l’avversario principale (quello più “revisionista”) nell’ambito del piciismo. In effetti, detto gruppo era sostanzialmente socialdemocratico, critico del socialismo di tipo sovietico; peraltro con critiche non del tutto errate a quello che era un semplice statalismo esasperato, ormai incapace di promuovere un vero sviluppo. Vi era in esso una propensione ormai piuttosto evidente verso il capitalismo; solo moderata da più che fumosi e mai seriamente attuati propositi di sedicenti “riforme di struttura” e di “programmazione democratica” al posto della pianificazione statalista, con idee poco chiare circa la pretesa superiorità delle imprese “pubbliche” rispetto alle “private”. Insomma, fu evidente la debolezza teorica (del “marxismo all’italiana”) e anche l’ambiguità della loro linea politica. Gli “amendoliani” (almeno nella maggior parte) erano comunque contrari all’atlantismo (Usa) e quindi considerati tutto sommato filosovietici nell’ambito del PCI; furono dunque i più radicali avversari dei gruppuscoli extraparlamentari, che oscillavano tra il filo-maoismo (e la rivoluzione culturale) e il dubcekismo opportunista e filo-occidentale (soprattutto apprezzato da quelli del “Manifesto”).

Nel 1972 venne eletto segretario Berlinguer con l’appoggio di un composito assembramento di cui fece parte l’ormai “fu” (almeno per me) amendoliano Napolitano e la sedicente sinistra ingraiana, che aveva fili di collegamento con la gruppistica tramite i “manifestaioli”. Da allora, il cambio di casacca piciista procedette con più sicurezza e, nel contempo, prudenza; venne via via in evidenza l’“eurocomunismo”, l’ideologia che mascherava tale processo e cercava di dare dignità allo spostamento di campo nello schieramento internazionale.

  1. Nel 1967 vi fu il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (e venne ucciso in Bolivia il Che Guevara, altro argomento su cui occorrerebbe un discorso a parte). Tale colpo di mano militare fu chiaramente appoggiato dagli USA (nella sua politica “ufficiale”), mentre vide ovviamente contrario lo schieramento sovietico e l’insieme dei partiti comunisti occidentali. Quel regime non fu mai ben saldo, pur se si parlò di contatti con ambienti “destri” in Italia e qualcuno ebbe paura di eventi simili pure da noi (il cui unico risultato in definitiva fu il gustoso film di Monicelli “Vogliamo i colonnelli”). Nel 1973 il regime militare greco entrò in piena crisi e l’anno successivo ebbe termine; con l’instaurazione, però, di una “democrazia” apertamente filo-occidentale, di fatto filo-atlantica e pro-Usa, quindi avversaria del campo detto socialista. E questo era comunque il reale scopo perseguito dagli Usa con il colpo di Stato.

Le posizioni tra il 1967 e il ’74 nel nostro campo capitalistico sembravano molto chiare e nette: gli Usa per i colonnelli, l’Europa tiepida, in certi casi perfino antipatizzante ma senza troppo irritare il perno del campo stesso; i comunisti, orientati “ad est”, decisamente avversari dei militari. La politica è però sempre assai meno limpida delle sue apparenze e delle declamazioni “in pubblico”. Dati “ambienti statunitensi” (diciamo così, la qual cosa è in fondo sufficientemente corretta) si rendevano conto della debolezza del regime greco e quindi tramavano sotto traccia pure con l’opposizione “democratica” greca per preparare l’eventuale cambio di regime come poi avvenne. In queste trattative entrava pure una parte dei comunisti greci, la minoranza, mentre la maggioranza restava ostile e vicina all’Urss. La parte minoritaria costituì il “partito comunista dell’interno”, che si collegò con il nascente “eurocomunismo”, il cui centro direttivo si trovava nella parte ormai maggioritaria del PCI. Fu durante quel periodo che si accentuarono (almeno così si può arguire) i contatti tra i suddetti “ambienti statunitensi” e date correnti del PCI e, tramite queste, con il partito comunista greco dell’interno; colloqui non irrilevanti per quanto avvenne poi in Grecia nel 1974: caduta del regime, vittoria elettorale di “Nuova Democrazia”, partito appena fondato da Konstantinos Karamanlis, governo “democratico” (conservatore) che iniziò il suo iter filo-Nato.

In quegli anni, fra l’altro, ebbi modo di venire coinvolto di striscio nella vicenda. Nel 1971 avrei dovuto andare proprio in quel paese e incontrare qualcuno che apparteneva ai “comunisti dell’interno” (i futuri “eurocomunisti” con il PCI). Purtroppo, ho come soli testimoni le mie orecchie e la mia vista; non posso provare per conto di chi ci dovevo andare e chi dovevo incontrare. Da questa vicenda trassi però in seguito idee piuttosto precise su ciò che stava accadendo con i cambiamenti di campo in atto. Alla fine rifiutai di recarmi in Grecia perché mi sembrava troppo pericoloso, ma tutto sommato – come appunto capii meglio un po’ dopo – sarei stato protetto abbastanza (e proprio da certi “ambienti” USA) anche se certamente i colonnelli avrebbero masticato amaro e potevano quindi farmi qualche scherzo tipo “incidente” o qualcosa del genere.

In ogni caso, per quanto all’inizio assai sorpreso della proposta fattami di andare “laggiù” (io ero ben conosciuto come comunista e quindi certo non favorevole a quel regime), pian piano afferrai poi cosa stava avvenendo in certi ambienti dell’“opposizione” in Italia. Di più non posso chiarire, ma ebbi prove discrete di quanto sto raccontando circa gli spostamenti di “campo” in quel periodo. Non compresi comunque subito che aveva preso avvio, tra fine anni ’60 e inizio ’70, lo spostamento di almeno alcune frange della “destra” (amendoliana), che permisero l’ascesa a posizioni di comando nel PCI di coloro che furono fondamentali per il suo lento orientarsi verso l’atlantismo, sempre però assai ambiguo almeno fino all’accettazione della Nato, anche questa iniziata fin dal 1972, ma molto ambigua e “mascherata” per alcuni anni.

General Augusto Pinochet (L) poses with Chilean president Salvador Allende, 23 August 1973 in Santiago.
ANSA

  1. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il “comunismo” italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’Urss, alla truffaldina operazione “mani pulite”, ecc. ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone una buona parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori Dc (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto (oggi non esiste più già da tempo). Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito più che tanto gli USA.

Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della Dc italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente “ambienti statunitensi” che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere i suddetti ambigui ambienti negli USA; sempre pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri di tipo detto (ridicolmente) “democratico”.

Il PCI – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua “ufficialità”: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato a Pinochet da parte degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti poiché è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future. Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su “Rinascita”) un lungo articolo di Berlinguer (ricordo: segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli USA; però…..

Il però era un’apparentemente togliattiana valutazione intrisa di “realpolitik”, che taluni vollero assimilare alla scelta di Palmiro nella famosa “svolta di Salerno” del 1944, necessitata dai patti di Yalta e dal voler evitare la stessa sorte che toccò ai comunisti greci; sorte, lo si scorda sempre, che si compì per essi nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi, almeno fino al 1947. Anno in cui si ebbe la rottura tra Jugoslavia e URSS e l’uscita della prima dal Cominform; evento da cui conseguì l’impossibilità di adeguati aiuti (soprattutto dell’URSS) ai compagni greci poiché gli jugoslavi (geograficamente vicini a quel paese) li impedirono. Ci fu poi la sostituzione di Markos (notevole capo militare) con il molle Zachariadis al comando delle truppe comuniste greche con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine di migliaia di militanti.

Berlinguer, con “buon senso” (appunto tra virgolette), ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la Nato, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava secondo il suo parere almeno in parte “abbozzare” e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto “eurocomunismo”, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, dell’invenzione togliattiana denominata “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il Pci, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (dunque pure in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti” in genere) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (soprattutto dovuto alla struttura sociale interna, non tanto quale potenza militare) e che dunque si prepararono cautamente al cambio di campo.

S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra Pci e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del Pci negli Usa; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del Pci non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu il “compromesso storico” con la Dc, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-Usa), nella sostanza meno ambiguo di Dc e Psi verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire storicamente, non come fatto da storici “di sinistra” cui deve andare tutto il nostro disprezzo.

In ogni caso, non mi sembra che la Dc sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori più favorevoli all’avvicinamento del PCI agli statunitensi (e dunque al “compromesso storico”) fossero in sostanza guidati da Cossiga (comunque questi ne fu un esponente assai importante). Costui, dopo “mani pulite”, sembrò prendere negli anni ‘90 posizioni di contrasto con gli USA. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di fare cenno ai contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso con una “opportuna” azione tesa a mitigare la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo “mani pulite”, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.

  1. Tornando indietro agli anni ‘70, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra PCI e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione di certi “ambienti” statunitensi. Per quanto posso capire, il dirigente diccì – poi rapito e ucciso; e la si smetta di dire dalle BR – fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti come al solito si “destreggiò”; pagò più tardi, ma anche da “mani pulite” in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza (di quanto avvenuto negli anni ’70) che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri (ad es. a Craxi, che era stato a suo tempo favorevole a contatti tali da almeno cercare di salvare Moro). All’inizio degli anni ’70, il PSI faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il PCI; e anche la direzione del partito socialista prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose manovre del “nuovo” PCI di avvicinamento agli USA.

Nel ’76 vi fu però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’“antifascismo del tradimento”, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta “lotta di liberazione” in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga (anche se poi ritrattò e negò), l’80% di quell’evento storico – limitato di fatto, nella sua vera rilevanza, al nord Italia (o poco più) quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana – fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carteggi. La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi, consegnando carteggi tra Mussolini e il premier inglese? Mah!

Resta il fatto che né Moro né Craxi si opposero (c’è da dire: “et pour cause”?) al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole (sbagliando di grosso!). Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la “riabilitazione atlantica” del PCI. L’“antifascismo del tradimento” – lanciato fra l’altro con “Repubblica”, giornale non a caso uscito proprio nel 1976 – fece dimenticare l’infamia di badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di “Giustizia e Libertà” (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, in particolare dalla Fiat e dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 – effettiva caduta del “fascismo” al “Gran Consiglio” diretto da Achille Grandi con arresto di Mussolini e sua “custodia” al Gran Sasso, da cui fu liberato dai tedeschi scesi in Italia dopo il voltafaccia settembrino del Re e di Badoglio – per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori” (si dice che alcuni ambienti “industriali” abbiano iniziato segrete trattative con i già chiari vincitori della guerra già a fine ’42).

Quell’“antifascismo del tradimento” attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia, cosa che alla fine li perdette. E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo “antifascismo” è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. E’ veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo il nostro paese dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per molti e molti anni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra”, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio. Occorre ben altra forza politica, che ancora non appare minimamente in formazione; soprattutto perché tre quarti di secolo di “democrazia” (del tutto falsa e imbelle) hanno istupidito anche gran parte della popolazione, perfino le masse più popolari.

 

  1. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’Urss. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un non banale presidente americano, fatto fuori dall’FBI con il “Watergate” (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’Urss, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.

Con la liquidazione di Krusciov (1964) si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; sia per quanto concerne la coesione all’interno sia per il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito – con gli alti dirigenti dei grandi “Kombinat”, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali – e dagli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati trattati ancora, del tutto stancamente, da Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella “costruzione” del socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” – aveva fatto distinzione tra lavoro “semplice” e “complesso”, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) non inferiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.

In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’“associazione dei produttori” di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso “strategico”. L’Urss, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia “rivoluzionaria” e andò incontro a “rendimenti decrescenti” con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una solo apparente unità del PCUS.

Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali intermedi – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico e dunque di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’Urss. Basta con la favola del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se interprete in film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto invece al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella “formazione sociale”, definita del tutto impropriamente socialista. Alla morte di Breznev (1982), vi fu già un primo sussulto pre-distruttivo con l’elezione a segretario del partito di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Breznev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbaciov che restò fino alla dissoluzione dell’Urss (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio, assurto indegnamente alla direzione dell’URSS, cercò perfino di creare zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC e al segretario del partito, subito destituito) furono assai velocemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò in URSS con Eltsin che dissolse l’Unione sovietica alla fine del 1991. Formatasi la Russia, assai più debole e con la perdita di alcune “Repubbliche”, le sorti cominciarono a risalire molto lentamente con Primakov, ma ormai da posizioni compromesse. Infine, la ripresa di quel paese si rinsaldò con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.

  1. Dopo la cacciata di Krusciov nel 1964, l’Urss tornò solo apparentemente compatta e unitaria. In essa, per i motivi sociali sopra accennati, permanevano correnti sotterranee di opposizione, anche dentro lo stesso PCUS. Correnti che, in qualche modo, erano perfino in buon rapporto con l’“eurocomunismo” o erano comunque interessate a compromessi con l’occidente, anche a “prezzi” molto bassi, talvolta di svendita. Esse furono a lungo strettamente controllate, ma la loro opera corrosiva cresceva lentamente ed in modo coperto e cauto; soprattutto tenevano contatti con le corrispondenti frazioni dei partiti comunisti euro-orientali, infarcite dei soliti opportunisti che annusavano i mutamenti di atmosfera (pur tenuti molto segreti) e si preparavano ad ogni evenienza. Le frazioni maggioritarie – e solo apparentemente padrone assolute dei partiti: dal PCUS a quelli dei “satelliti” – non avevano capacità manovriere di grande rilievo per le carenze politico-ideologiche già accennate; esse usavano la forza e conducevano – tramite la parte più fedele dei Servizi e di altri apparati addetti ad operazioni varie anche all’estero – manovre segrete e deformate in guisa da non farne afferrare con facilità gli scopi realmente perseguiti.

Dette manovre miravano certamente a colpire e mettere in difficoltà le trame degli interessati a cedimenti compromissori più o meno gravi con l’occidente capitalistico. Lo facevano, tuttavia, in modo assai contorto, giungendo perfino a promuovere esse stesse pericolosi compromessi con gli USA e i paesi del campo capitalistico mediante mosse morbide e prudenti, alternate a scelte improntate ad estrema durezza (anche militare). Inoltre, cercavano prioritariamente di scompaginare le correnti compromissorie interne all’Urss e al “suo campo”, ma si rivolgevano pure all’esterno di quest’ultimo, imbastendo più o meno cauti e coperti rapporti con frazioni interne di alcuni partiti comunisti euro-occidentali ormai schierati in senso “atlantico”; frazioni rimaste fedeli al presunto socialismo e quindi nettamente contrarie all’eurocomunismo, ma soprattutto a chi aveva preso il sopravvento nel Pci, il principale di questi partiti, conducendolo a sempre più invischianti (e conosciuti dai Servizi dell’est) rapporti con gli USA e trasformandolo perciò nei fatti in una vera centrale di cospirazione antisovietica. In tale opera da voltagabbana, le frazioni ormai nettamente maggioritarie nel PCI sfruttarono pure il dissidio russo-cinese e, solo parzialmente, la fronda “gruppuscolare” fintasi quasi maoista; ad es. quella del “Manifesto”, che salvo lodevoli ma rare eccezioni, era la più “corrotta” fra coloro che si richiamavano, impudicamente e senza arrossire, al comunismo. Da qui gli eventi italiani degli anni ’70, degli anni detti “di piombo”.

 

  1. Nel ’68, il gruppo – composto in prevalenza, se ricordo bene, da cattolici divenuti comunisti (ma pure da comunisti “laici”), comunque tutti “ragazzi” in gamba – facente capo ad una rivista di orientamento marxista-leninista, “Lavoro politico” (una delle pubblicazioni apprezzabili di quell’area), entrò nel Pcd’I (m-l), quello che pubblicava “Nuova Unità” e che di fatto era in stretto collegamento con le “Edizioni Oriente”, nate a Milano nel ’63 con il principale compito, almeno per quanto io abbia potuto constatare, di diffondere le pubblicazioni della “Guozi Shudian”, casa editrice cinese in lingue estere, dalla quale provenivano le più importanti pubblicazioni dei comunisti di quel paese, appunto tradotte in italiano. Tralascio i rapporti da me intrattenuti con quest’area, conclusisi con una discussione (pubblica), polemica, tenutasi a Padova alla fine del maggio ’68 (proprio il 31), subito dopo la quale (ma non a causa della quale, sia chiaro) me ne andai a passare piacevolmente circa quattro mesi a Londra.

Quando tornai in autunno, trovai il Pcd’I (m-l) in scissione, con formazione della cosiddetta “linea rossa”, l’imbarazzante (perché un po’ ridicola) nascita di una “Nuova nuova Unità”, di “Nuove Edizioni Oriente”, e via dicendo. Il gruppo di “Lavoro politico” fu attivo nella scissione e nella nascita di questa “linea rossa”; va però affermato con la massima nettezza che tale gruppo si attenne, nel suo complesso, alla più assoluta legalità senza sfizi di lotte d’altro genere. E’ però vero che una parte minoritaria d’esso (con nomi poi divenuti noti) uscì sia dalla rivista sia soprattutto dal Pcd’I (anzi dai due Pcd’I ormai); e, per quanto ne so, andò a Milano dove nel ’69 fondò, immagino assieme ad altri, il “Collettivo politico metropolitano”, che gettò fuori un opuscolo programmatico non irrilevante. Da tale organismo, mi sembra proprio chiaro, nacquero le future BR. Mi dispiace di non trovare più quell’opuscolo (qualcuno certamente lo avrà) e la risposta che ne diedi, certo a circolazione assai più ridotta e totalmente ignorata, che purtroppo non trovo più. Tuttavia, la mia risposta conteneva una serie di obiezioni a quel “programma”, che a me sembra si siano rivelate con il tempo sensate.

Ricordo bene, ricordo male? Quel che ricordo di quello scritto da me criticato è la formulazione di due previsioni fondamentali, entrambe errate e foriere di sviluppi molto negativi. Innanzitutto, quella di un non troppo lontano scoppio della guerra tra “imperialismo” (USA) e “socialimperialismo” (URSS); per cui bisognava, “leninisticamente”, giocare sulle contraddizioni tra i due nemici, confidando nella tenuta della Cina maoista, di cui per la verità nessuno (per quanto ne so) immaginava la brusca svolta subito dopo la morte del “grande timoniere”. Ovviamente, mi sembra chiaro, l’idea centrale era un recondito riferimento alla “Rivoluzione d’ottobre”, avvenuta appunto verso la fine della prima guerra mondiale e nel da Lenin definito “anello debole della catena imperialistica”, in cui crollò il regime zarista; l’Italia sarebbe stata il nuovo “anello debole” in questa prevista terza guerra mondiale. La seconda previsione, su cui però ho ricordi più imprecisi, è quella di un probabile o almeno possibile colpo di Stato in Italia; il che, credo, scontasse l’impressione ricevuta da quello verificatosi nel 1967 in Grecia. Devo dire che, ancora nei primi anni ’70, in molti “giocavamo” un po’ troppo con questo timore.

In ogni caso, fui subito comunque molto contrario e critico dell’idea di entrare in clandestinità prima ancora che l’evento si producesse. Ricordo bene che ero addirittura stupefatto di simili intenzioni. Si poteva capire l’attuazione di preparativi per l’eventualità, preparativi di vario tipo e soprattutto organizzativi; e, se volete, anche in riferimento alla creazione di alcuni “depositi d’armi”. Tuttavia, che si proponesse l’entrata in clandestinità anticipando le mosse “dell’avversario” mi sembrava una trovata balzana, per non dire di più. Dove la mia contrarietà si espresse ancora più netta e senza esitazioni fu sulla previsione di una guerra tra le due superpotenze (con i loro alleati/subordinati al seguito) con il ripetersi di un quadro simile a quello che permise l’“ottobre bolscevico”.

Non ero ancora stato a Parigi da Bettelheim (lo feci nel 1970-71). Tuttavia, ero già ben convinto dell’ingrippamento dell’Unione Sovietica, messo in luce a partire dal XX Congresso (1956) e aggravatosi negli anni successivi. Ricordo vivaci polemiche con coloro che insistevano addirittura sulla superiorità del “socialimperialismo” in quanto “capitalismo di Stato”, pensato quale gradino superiore (e ultimo o supremo) della società capitalistica, con riferimento un po’ scolastico ad una vecchia impostazione del marxismo “d’antan”. Ho succintamente accennato sopra ai motivi dell’indebolimento dell’Urss (per non parlare dei paesi “socialisti” euro-orientali, in netta difficoltà); li avrei approfonditi ben di più a Parigi, con anche una qualche informazione sulla solo apparente coesione di quei paesi, percorsi dalle correnti che condussero al crollo dell’89 (“campo socialista” europeo) e del ’91 con dissoluzione dell’URSS dopo qualche anno di “agonia” gorbacioviana, scambiata (non da me!) per ripresa del “socialismo”. Nel ’69-’70 non avevo quelle informazioni né avevo approfondito con Bettelheim la corrosa struttura sociale sovietica. Tuttavia ero già convinto della stasi di quel paese e dunque dell’improbabilità, per me pressoché assoluta, di uno scontro mondiale tra le due superpotenze; in realtà, ne esisteva ormai una sola di effettiva, gli USA.

  1. Arriviamo quindi al punto cruciale per quanto concerne la storia italiana di quell’epoca infelice e con il quale interromperò, almeno per adesso, questo racconto. Le direzioni dei partiti comunisti dei paesi euro-orientali avevano la sensazione di pericolo per opposizioni interne, ma soprattutto perché consapevoli di un’Unione Sovietica meno forte di quanto sembrava a prima vista. La rottura con la Cina – in continuo aggravamento, che non terminò nemmeno con la svolta post-maoista del 1976, subito dopo la morte di Mao con arresto della cosiddetta “banda dei quattro (fra cui la moglie di Mao) – rendeva i pericoli ancora maggiori. E bisogna ben dire che la politica Kissinger-Nixon di “apertura” ai cinesi e a una possibile pace in Vietnam – politica non certo fiorita all’improvviso nel 1972 con il viaggio nixoniano a Pechino, poiché occorreva prepararla, senza pubblicità, prima che apparisse alla luce del giorno – rendeva il pericolo ancora più grave. Diciamo pure che gli ostacoli frapposti dall’interno al presidente statunitense, e poi la sua eliminazione tramite il “Watergate”, diedero al “campo socialista” un periodo di respiro, consentendo fra l’altro all’Urss una stretta alleanza con il Vietnam, dove esisteva una minoritaria, ma forte, corrente filo-cinese nel partito comunista, sconfitta appunto dopo gli approcci tra Cina e Usa, che diedero un loro contributo a possibili sbocchi della guerra in Vietnam con gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973), finiti però male anche (e direi soprattutto) a causa delle difficoltà di Nixon. Quegli accordi condussero comunque al ritiro di buona parte delle truppe statunitensi dal Vietnam del sud; il che alla fine favorì la vittoria dei nordvietnamiti e la loro conquista di Saigon nell’aprile 1975. Il Vietnam riunito si schierò infine apertamente con l’Urss ed entrò in conflitto (perfino una breve guerra di un mese nel 1979) con i cinesi.

Ripeto che tali avvenimenti diedero solo una boccata d’ossigeno al “campo socialista” europeo centrato sull’Urss; e proprio grazie alla miopia di quegli ambienti statunitensi che misero in moto la manovra contro Nixon (con l’azione del Fbi, ecc.). In ogni caso, non si può pensare che i partiti comunisti euro-orientali non avvertissero che cosa stava avvenendo. Immagino che anche importanti settori del partito comunista sovietico (anzi maggioritari nel periodo brezneviano) stessero in allerta ben conoscendo l’azione corrosiva di quelle correnti più tardi (1985) responsabili della nomina di Gorbaciov a segretario del partito. E’ ovvio che la storia avrebbe avuto ben altro andamento se in Urss si fosse compresa la necessità di smantellare quella struttura politica che cristallizzava una situazione non più confacente alla “composizione sociale” ormai in formazione nel paese.

Fra l’altro, si sarebbero dovuti regolare, in qualche modo, i conti con la Jugoslavia (avamposto più importante di quanto non si creda, anche durante la direzione titoista, di varie manovre di “infiltrazione” nel blocco sovietico provenienti da “occidente”), accomodare i rapporti pure con la Romania (costretta a rapporti amichevoli con la Cina proprio dall’atteggiamento ostile dell’Urss, sfociato poi apertamente nell’aiuto fornito al colpo di Stato di Iliescu contro Ceausescu durante la “gestione” gorbacioviana). Meno importante l’attrito con l’Albania, comunque anch’essa schierata con la Cina, pur essendo invece critica nei confronti del maoismo; e ne fanno prova gli aiuti dati da Enver Hoxha alle frazioni di cosiddetta “linea nera” nei vari, pur irrilevanti, gruppuscoli m-l, soprattutto nei paesi euro-occidentali, Italia compresa.

La posizione di debolezza dell’Urss, accompagnata dalla presenza di correnti filo-occidentali nei paesi europei “socialisti”, rendeva in ogni caso più fastidiosa la presenza nei paesi europei della NATO di partiti comunisti (rilevanti comunque solo in Francia e ancor più in Italia) con tendenza a “sbandare” (ma così nettamente soltanto nel nostro paese) in senso dichiarato riformista, in realtà di sostanziale accettazione della formazione sociale esistente in occidente, quella che veniva ritenuta “il capitalismo” in aperto antagonismo con “il socialismo”; non mi soffermo sulla questione di detta schematica contrapposizione, a tutt’oggi non risolta da politici (e storici) incompetenti e faziosi.

Una Unione Sovietica forte – con il suo “campo” (sfera d’influenza) ben controllato, con un migliore sistema di alleanze (o di non inimicizia) con Cina, Jugoslavia, ecc. – avrebbe determinato un diverso andamento degli eventi storici; per quanto ci riguarda, sarebbero stati meno forti, e immagino meno determinanti, quegli influssi che invece si produssero negli anni ’70, i cosiddetti “anni di piombo”, in cui si è posto in forte risalto il dichiarato “terrorismo rosso” (e anche nero in certi casi) per coprire le mene internazionali condotte in varia guisa in quegli anni.

La situazione era invece quella appena delineata: l’Urss apparentemente molto forte, ma in posizione di sostanziale stallo rispetto agli anni della grande ascesa (soprattutto gli anni ’30), della vittoria nella seconda guerra mondiale, dell’allargamento del “campo socialista”, ecc. Nei paesi euro-orientali, i partiti comunisti (i loro vertici ovviamente) erano consapevoli delle difficoltà esistenti soprattutto al loro interno, ma comunque aggravate da quanto avveniva, sia pure in modo poco appariscente, nel paese centrale del sistema. Vi fu la succitata boccata d’ossigeno quando si pose in mora la politica nixoniana verso la Cina (e anche il Vietnam), si verificò la creduta grande vittoria dei nordvietnamiti contro il gigante statunitense e l’altrettanto sopravvalutata crisi interna statunitense a causa di quella guerra, ecc.

Un conto sono i “movimenti” che si credono sulla cresta dell’onda e blaterano di vittorie sull’imperialismo, in via di presunto indebolimento. Un altro sono i vertici politici delle varie organizzazioni che conoscono la POLITICA (le strategie del conflitto), sanno come questa deve essere condotta, sono ben informati circa le mosse segrete di cui quella vera si sostanzia; e di cui, invece, i poveri “giovinotti” di detti “movimenti” nemmeno avevano il più blando sentore. O forse sarebbe meglio dire che alcuni ne avevano un qualche sentore, ma secondo quanto avevano deciso di far sapere (e far credere) loro i vari “Servizi”, che sono una delle nervature cruciali di detta POLITICA, quella seria e non fatta di dissennate valutazioni degli effettivi rapporti di forza esistenti.

In nessun momento degli anni ’70, i partiti comunisti, sia all’est che all’ovest, crederono a ciò che magari sostenevano ufficialmente. All’est è probabile che si comprendessero le proprie debolezze e i pericoli che si correvano. E all’ovest forse pure. L’eurocomunismo, cioè in definitiva il suo nucleo centrale, il PCI (con i vertici in mano alla nuova maggioranza), non defletté certamente mai dal suo cauto, coperto, spostamento verso l’atlantismo. Tuttavia, credo che sia rimasta molto in ombra – per il solito motivo che la storia la raccontano i vincitori – l’esistenza, soprattutto proprio in Italia, di frazioni del tutto minoritarie, ma non proprio inconsistenti, in opposizione (anche all’interno di quel partito) a simili approcci verso gli Usa e l’occidente in genere. Non credo però ci fosse una effettiva consapevolezza delle manovre “eurocomuniste”. Purtroppo, la visione ideologica del tempo faceva credere che la lotta nell’ambito del movimento comunista fosse una sorta di ripresa dello scontro tra “neokautskismo” (neorevisionismo) e neoleninismo (in buona parte identificato con il maoismo); un errore non decisivo ma comunque rilevante per far prevalere gli ambienti più opportunisti e miserabili del PCI e dei partiti consimili in altri paesi europei.

Fu in ogni caso del tutto impossibile formare un fronte in qualche misura comune – al di là delle divergenze, non solo ideologiche ma pure politiche – tra tutti quelli che si opponevano ai piciisti degli anni ’70 e seguenti: chi perché appunto neoleninista, chi invece sostanzialmente socialdemocratico (ad es. gli “amendoliani”) ma comunque relativamente favorevole ad una “ostpolitik” e chi, come fu un po’ più tardi Craxi, semplicemente antagonista della supremazia del PCI sulla “sinistra” e sospettoso del “compromesso storico”, una buona leva per l’avanzata di tale partito, ormai degenerato, lungo la via di una politica filo-occidentale con tutto ciò che comportò più tardi. Tale divisione fra gli oppositori a quel PCI favorì, infatti, quel che accadde in seguito con il viaggio “culturale” di Napolitano negli USA nel 1978; e soprattutto dopo la fine del “socialismo reale” e dell’Urss. Quanto appena ricordato può forse in parte spiegare anche l’azione di certi Servizi orientali (io penso soprattutto a quelli della  DDR e della Cecoslovacchia) per mettere comunque delle “zeppe” tra i piedi del PCI nel suo spostamento a ovest. E tra queste, almeno a mio avviso, ci fu anche un almeno iniziale appoggio alla poco assennata “lotta clandestina” (non solo delle BR), poi ampiamente sfruttata, come già detto, nell’ambito di una conflittualità tra est e ovest, ecc. ecc.

  1. Mi fermerei per il momento a questo punto per non allungare eccessivamente il mio “racconto”. Tuttavia sia chiaro che bisognerà riflettere a lungo su quanto è poi accaduto dopo la “caduta del muro” e la dissoluzione dell’URSS. In particolare in Italia, dove si è verificato un vero rovesciamento dei precedenti assetti politici tramite quella viscida manovra giudiziaria (“mani pulite”), che si prolunga ancor oggi in una continua invasione della politica da parte della sedicente “giustizia” e della “Legge”. Di questo abbiamo parlato comunque più volte nei nostri interventi; così come stiamo seguendo i netti mutamenti della politica internazionale, in cui cresce il “multipolarismo” e si accentua un dissidio politico all’interno degli USA forse più acuto che in passato e che mi sembra delineare un certo declino di quel paese, pur ancora il più potente economicamente, militarmente e anche in termini di avanzamento tecnologico.

Siamo tuttavia a mio avviso in un’epoca di “transizione” ad altra, cui dovremo faticosamente riadattarci abbandonando vecchie convinzioni senza lasciarci trasportare in visioni avveniristiche, che nemmeno la fantascienza ha avuto il coraggio di predire con tanta improntitudine e “falsa coscienza”. Lancio un ultimo avvertimento: la storia di tutto il ‘900 è stata gravemente falsificata e distorta da politicanti e storici attivi soprattutto negli ultimi decenni e che si qualificano come “sinistra”. Le nostre popolazioni non sanno un bel nulla di ciò che è stato il nostro passato. Per “risaperlo” e valutarlo adeguatamente dobbiamo rovesciare il predominio di questi falsificatori, che stanno provocando una vera crisi di cultura, di tradizioni di cui non dobbiamo per nulla vergognarci; insomma ci stanno conducendo ad una crisi della nostra civiltà. Reagiamo.

tratto da facebook

 

 

 

 

apocalisse: la guerra dei mondi 1953-1965, di Hugo Morice

France 2 propone una nuova serie di Apocalisse dedicata alla guerra fredda. Analisi degli episodi 4 e 5, relativi agli anni 1953-1965.

 

Questo quarto episodio inizia con la morte di Giuseppe Stalin nel marzo del 1953. Gli autori tornano alle conseguenze della scomparsa di Iron Man, una fonte di speranza per i paesi occupati, ma anche di paure per il mondo: quale dei complici di Stalin gli succederà e quali saranno le conseguenze?

Un’immagine decisamente positiva del Cremlino dopo la morte di Stalin viene offerta agli spettatori. Le azioni di Lavrenti Beria che cumula le posizioni di Ministro degli Interni e di Vice-Presidente del Consiglio dei Ministri dell’URSS che gli consentono di godere di una relativa libertà d’azione sono sgretolate (amnistia per un milione di prigionieri della Gulag, prima imputazione di una colpa all’URSS …) omettendo, tuttavia, la parte oscura dei tre mesi di questo uomo a capo dell’Unione Sovietica e in particolare le sanguinose repressioni a seguito dell’insurrezione del giugno 1953 in Germania dell’Est. Ma un collegamento tra la repressione legata a questa rivolta popolare, la fuga di massa di tedeschi dall’est alla Germania occidentale, così come la costruzione del muro avrebbe dovuto essere fatto. Sarebbe stato solo un ritratto più giusto di Lavrenti Beria.

Guerra dell’Indocina a mezzo tono

Il film continua a tornare alla guerra in Indocina, inclusa la battaglia di Dien Bien Phu. Il narratore racconta l’importanza di questa guerra per Mao Zedong, leader della Cina comunista, che vide in questa vittoria un modo per aumentare il suo prestigio, rivendicare l’eredità di Stalin contro Nikita Krusciov, ma anche e soprattutto arrivare in una posizione di forza alla Conferenza di Ginevra del luglio 1954.

Infine, questo episodio si chiude con il sentimento provocato da questa guerra diecimila chilometri dalla Francia: “La guerra in Indocina non fu una guerra nazionale, ma una guerra condotta da un esercito professionale la cui popolazione non la afferrò. non il significato.

Vedi anche: Apocalypse: The Cold War, 1965-1991

Il quinto episodio si apre con Nikita Krusciov a capo del Consiglio dei ministri dell’URSS. La rappresentazione di Krusciov ritratta in questo film risale alla politica di distensione avviata da quest’ultimo verso l’Occidente senza dimenticare di specificare che, sebbene riconciliandosi con il superfluo, rimane comunque intransigente sull’essenziale . Questo film, tuttavia, non è riuscito a specificare che, sebbene lavorasse per una politica di rilassamento, l’uomo del famoso discorso segreto, l’uomo che consentiva di nuovo ai cittadini sovietici di viaggiare era anche e soprattutto l’uomo che disse di sì la costruzione del muro di Berlino che desiderava da ciò porre fine all’emorragia umana degli esiliati.

Alcuni crimini dimenticati

Il narratore sembra determinato a concedere un posto preponderante, nonché a concedere una certa stima nei confronti di Nikita Krusciov, e questo può essere visto in particolare nelle scorciatoie fatte. In effetti, il dono offerto da Krusciov a Eisenhower nel 1959 durante la sua visita negli Stati Uniti, ovvero una replica degli emblemi dell’URSS lanciati sulla luna pochi giorni fa, i produttori traggono un evento che avrebbe messo in dubbio gli Stati Stati Uniti e avrebbe messo in dubbio l’equilibrio del terrore. Infine, la narrazione analizza la crisi cubana in questo modo: una situazione in cui Nikita Krusciov è emerso vittorioso, ma ha accettato di perdere la faccia a favore di Kennedy che è uscito dal conflitto.

Nonostante questi punti di vista discussi e discutibili, dobbiamo riconoscere la bellezza della conclusione del quinto episodio del discorso di Kennedy Ich bin ein berliner sui gradini del Municipio di Berlino Ovest. 26 giugno 1963: “La nostra democrazia non è perfetta. Tuttavia, non abbiamo mai avuto bisogno di erigere un muro per impedire alla nostra gente di scappare. Il muro fornisce una vivida dimostrazione del crollo del sistema comunista “.

La costruzione della storia degli episodi quattro e cinque di questa serie è qualitativa. Il narratore si attenua nei momenti giusti per consentire allo spettatore di affrontare le immagini. L’insieme del rapporto, sebbene inevitabilmente soggettivo dalla scelta degli eventi proposti, nel suo insieme, è equilibrato.

https://www.revueconflits.com/guerre-froide-nikita-khrouchtchev-urss/

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, di Pierluigi Fagan

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO. Esistono diverse definizioni e letture del “sistema totalitario”, un termine -pare- inventato nel 1923 dall’italiano G. Amendola. Quasi tutte però, si riferiscono a sistemi socio-politici del Novecento, come se il “totalitarismo” fosse una invenzione recente. Amendola, ne dava questa definizione: “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato –del sistema totalitario- nel campo della vita politica ed amministrativa”.

Lasciando il campo della sintetica ovvero della forma con contenuto e retrocedendo a quello dell’analitica, ovvero della forma pura, il totalitarismo è un irrigidimento del potere politico e sociale (economico e culturale). Tale irrigidimento è evidentemente chiamato da minacce di disordine a cui si risponde con più ordine. Quando dosi incrementali di ordine non riescono a mettere ordine, la forma ordinante diventa sempre più rigida ed imperativa. Questa è l’origine del totalitarismo, origine che nulla a che fare in esclusiva col Novecento e che si ripete in vari modi e forme sin da quando sono nate le società complesse, cinquemila anni fa. Naturalmente poi la forma pura, avrà diverse applicazioni storiche in cui variano sia le società, sia i loro contesti, ma ha scarsissima utilità se non negli studi storici del Novecento dare sproporzionata attenzione a questa declinazione, dimenticandosi che essa è appunto una declinazione di un tipo ideale che ha storicità millenaria.
Ma quali sono le fonti del disordine a cui il totalitarismo reagisce?

Primo, il disordine può provenire da un ben individuato esterno di una data società. Un contesto geo-storico, presenta attori in competizione le cui azioni premono contro l’ordine di una certa specifica società o civiltà, nella quale si formano risposte ordinative sempre più rigide com’è in ogni strategia di sopravvivenza biologica.

Ma, secondo, il disordine può provenire da un esterno non ben individuato e precisato. Si tratta in questo caso di una sorta di incipiente dis-adattamento. Le società umane sono veicoli adattivi, strategia socio-biologica di lunghissima data che ha trovato utile unire individui in gruppi perché “l’unione fa la forza”. La “forza” di tale unione, ha scopi adattativi, ci si adatta meglio e si resiste meglio alla selezione naturale (quindi ci sono ragioni di “difesa” e di “offesa” nella relazione gruppo-mondo), laddove gli individui si uniscono in “individui di ordine superiore” quali i gruppi. I gruppi o società animali e quindi umane, hanno finalità adattive. Quando questo adattamento è non problematico, le forme interne ai gruppi di rilassano e diversificano in varie possibilità, quando questo adattamento è problematico, le forme si irrigidiscono unificandosi. Lì, compare la coazione totalitaria.

Terzo, specificatamente alle società tra umani, nei cinquemila anni di società complesse, l’unica forma di ordine sociale, estesa nello spazio e nel tempo, è stata quella per cui Pochi comandano su Molti. Questi Pochi potranno essere anche un bel po’ quando l’adattamento è facile e positivo, mentre tenderanno ad Uno quando l’adattamento è più problematico. Qui allora, la nozione di “ordine” prende un duplice significato. Non si tratta solo di una astratto “ordine” nel novero di quelli possibili relativo al corpo sociale, si tratta più spesso di quella precisa ed unica forma di “ordine” che determina il potere di una precisa élite. A dire che il totalitarismo può anche essere una reazione di una élite che a fronte di una non decisiva pressione di forze esterne disordinanti o a fronte di semplici accenni di dis-adattamento o non più totalmente positivo adattamento, reagiscono irrigidendo le forme del proprio potere sull’intero sistema che vogliono dominare.

Ci sono dunque due tipi di pressioni esterne, quelle portate da forze concorrenti e quelle di contesto a cui ci si deve adattare ed una interna che può esser la reazione alla pressione esterna in una o entrambe le forze pressanti, ma anche la semplice reazione di una élite al rischio venga posto in dubbio la legittimità della sua interpretazione del potere sociale ovvero del suo “diritto di poter dare l’ordine”.

Nell’Occidente contemporaneo, a partire dalla società guida del sistema ovvero gli Stati Uniti d’America, si contano tutte e tre queste dinamiche che precedono irrigidimenti totalitari.

Ci sono pressioni portate da società concorrenti, quella cinese in sé ma anche a nome di una sorta di possibile fronte dei secondi livelli geopolitici che vorrebbero aprire il tavolo da gioco a dinamiche multipolari per giocarsela con, per loro, maggior condizioni di possibilità (unione spalleggiata dalla Russia con forza ma anche dall’India sebbene con più ambiguità che è poi strategia di bilanciamento). Si tenga conto che il peso percentuale degli occidentali sul totale mondo, negli ultimi centoventi anni di forte inflazione demografica, è sceso da più del 30% a meno della metà. Anche il loro potere qualitativo si sta -tendenzialmente- livellando.

Ci sono poi anche diversi segnali di dis-adattamento al contesto a partire dalle questioni ambientali, per proseguire con quelle demografiche, quelle economiche e finanziarie (ad esempio ruolo del dollaro ma non solo), quelle militari (relativa impotenza non di distruzione bellica ma di successivo potere amministrativo del “conquistato”). Financo quelle culturali che attengono ai sistemi di pensiero che riflettono forme concrete della vita associata, che ereditiamo da tempi del tutto diversi e verso i quali si mostra una pronunciata difficoltà alla revisione ma forse necessaria, sostituzione integrale.

Quanto all’ordine sociale interno alle varie società, ci sono evidenti segnali di fallimento ordinativo delle élite che da cinquanta anni, sembrano per alcuni non aver capito, per altri aver invece capito benissimo, a che tipo di molteplice dis-adattamento andava incontro la forma occidentale di vita associata, reagendo con un lento ma costante ed inizialmente sottile accentramento di potere nelle loro sempre più ristrette mani. Qui, quello che alcuni leggono come “recente”, altri leggono come relativa “lunga durata”, io tra questi.

La dinamica di fondo del potere occidentale, tanto quello delle società occidentali nei loro rapporti di gerarchia di sistema (ordine interno alla civilizzazione occidentale), che quello del rapporto Occidente vs Resto del mondo (West vs the Rest), che quello ordinativo di una ben precisa élite che corrisponde ad un ben precisa forma sociale internamente ad ogni singola declinazione di società occidentale, disegna scenari tipici dell’approssimarsi di una fenomenologia totalitaria.

Dannarsi dopo non ha alcuna utilità, pensarci prima sarebbe meglio.

Nessuna descrizione della foto disponibile.
1 2 3 4 5