Germania, un astro nascente?_ una conversazione con Giacomo Gabellini

La Germania viene rappresentata il più delle volte come l’unico paese europeo in grado di sostenere il gioco geopolitico sempre più complesso che si sta profilando. E’ veramente così? In realtà la costruzione europea che per gentile concessione le ha consentito di lucrare significative rendite di posizione e di tenere a bada i propri vicini più importanti sembra vacillare ogni giorno di più. La classe dirigente tedesca sembra reagire con la tentazione e la speranza di un ritorno al recente passato; quasi che l’avvento di Trump possa essere considerato ancora una parentesi inquieta ma ancora addomesticabile. Un singolare processo di rimozione che lascia presagire un esito funesto e inatteso della condizione di gran parte dei paesi europei e, soprattutto, della Germania stessa. Una situazione che sta spingendo ad una crescente conflittualità intraeuropea, piuttosto che alla ricerca di un denominatore comune in grado di trasformare  gli stati europei, almeno i più importanti, soggetti politici autonomi ed autorevoli. Le avvisaglie di un esito funesto cominciano ad essere numerose. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

VIP E CICISBEI, di Giuseppe Germinario

La settimana ormai all’epilogo è stata caratterizzata dal via vai. È iniziata con il viaggio di Matteo Salvini negli Stati Uniti; si è conclusa con l’arrivo di Obama a casa Clooney, sulle rive del Lario. Nel mezzo il soggiorno del Presidente del Consiglio Conte a Bruxelles, al Consiglio Europeo.

Una coincidenza di eventi, probabilmente casuale, comunque sorprendente dal punto di vista simbolico. Sembra offrire, sotto traccia, qualche barlume di verità su alcune dinamiche nello scacchiere geopolitico europeo e mediterraneo.

La gran parte degli addetti all’informazione però sembra sempre più attratta, se non accecata, dagli aspetti mondani di questi appuntamenti. Da produttori e portatori di informazione si stanno trasformando irreversibilmente in moderni cicisbei, maestri di colore, di costumi e di pettegolezzi.

Tra i tre, paradossalmente, chi ci ha rimesso in efficacia di immagine è stato Giuseppe Conte, notoriamente maestro in bon ton e passi felpati. In un Consiglio Europeo impegnato a concordare le nomine della Commissione Europea, della Presidenza del Consiglio Europeo e della BCE, si è trovato nella condizione di dover rintuzzare la procedura di infrazione annunciata proditoriamente dalla Commissione Europea uscente. Tra le due opzioni opposte di una reazione d’orgoglio a un atto strumentale e provocatorio e un atteggiamento pragmatico teso a contenere i danni accettando logica e spirito della lettera, ha prevalso la seconda e con esso qualche atteggiamento di troppo da questuante verso i pari grado più potenti, pur se ormai sempre meno autorevoli. Non lo ha certo aiutato una consuetudine pluridecennale di totale accondiscendenza e complicità di un ceto politico ed una classe dirigente nazionale; accondiscendenza che ha disabituato a trattative serie le varie élites europee. Peggio ancora, come insegna il mercimonio truffaldino operato dal “rottamatore” Renzi tra la resa sottobanco sull’approdo in Italia di immigrati (Operazione Triton) e la concessione di pochi decimi di deficit, le ha incoraggiate ad operazioni di vera e propria corruttela utile ad alimentare un sottobosco di attività assistenziali e parassitarie necessarie a garantire la sopravvivenza politica del sistema. Non lo ha sostenuto in autorevolezza, per altro, il suo comportamento deludente e rinunciatario seguito al promettente avvio e alla conclusione della Conferenza sulla Libia, tenutasi a Palermo l’autunno scorso. Un appuntamento organizzato con il beneplacito del Presidente Americano, accettato a denti stretti da Francia e Germania e conclusosi addirittura trionfalmente, con l’investitura di Conte a mediatore ad opera del Ministro degli Esteri russo, Lavrov. In quel momento Conte avrebbe dovuto comprendere l’insostenibilità della figura di al Serraji come Presidente capace di unire le varie tribù della Libia, in quanto privo di forza propria e mantenuto a galla da una delle tre principali fazioni in lotta. Avrebbe dovuto puntellare la sua sopravvivenza per impedire il pieno successo del Generale Haftar, espressione delle tribù di Cirenaica e nel contempo favorire l’emersione di una figura terza, capace di mediare e riunire il paese. Questa figura può emergere con migliori possibilità, dalla tribù più numerosa e centrale di quel paese e non è escluso che, ad osservare i fatti, possa essere uno dei superstiti dei figli del colonnello Gheddafi. Una operazione certamente ardua e complessa, che richiederebbe grandi capacità diplomatiche e sufficienti coperture militari. Ipotizzabile sotto la Presidenza di Trump, ma decisamente più traumatica se il rospo dovesse essere offerto ad eventuali epigoni di Obama, Sarkozy e Macron. Con l’offensiva in corso di Haftar, fortunatamente esauritasi, l’atto più significativo di Conte è stato la sua richiesta di aiuto americano, evitando così il disastro ma perdendo così ogni parvenza di autonomia verso i vari contendenti libici ed esterni e gran parte della credibilità verso il suo stesso principale estimatore, Trump. Alla luce di ciò, il memorandum con la Cina e la posizione sul Venezuela, di per sé poco rilevanti nell’agone geopolitico, hanno assunto un significato dirimente per l’amministrazione statunitense. Il cerchio si è chiuso quasi del tutto con il suo progressivo avvicinamento a Mattarella e la gestione partigiana, piuttosto che calmieratrice, del conflitto giallo-verde durante l’ultima campagna elettorale.

Di queste difficoltà sembra approfittare a piene mani Matteo Salvini. Il suo viaggio a Washington ha assunto l’aspetto di una vera e propria investitura a leader. L’incontro con Mike Pompeo, Segretario di Stato e Pence, Vicepresidente sono un riconoscimento che va certamente oltre lo status proprio di un Ministro dell’Interno. È un lustro che, se prematuro ed improprio, espone il personaggio ad un rischio da non sottovalutare. Quello di apparire come uno dei tanti pellegrini che hanno dovuto recarsi a Washington per ottenere una investitura che dovrebbe essere in realtà prerogativa esclusiva delle istituzioni e del popolo italiano; viandante dotato magari di una aura più fulgida e lucente, ma sempre di luce riflessa più che propria. L’intero sistema mediatico ha indugiato sulle dichiarazioni di Salvini, tanto su quelle di politica economica, quanto soprattutto quelle in politica estera, riguardanti il Venezuela e il memorandum con la Cina. Queste ultime sono di fatto una sconfessione delle posizioni ufficiali del Governo Conte ed un allineamento pedissequo e a buon mercato alle posizioni dell’Amministrazione Trump. Pedissequo, perché acriticamente allineate, a buon mercato perché esulano dalle competenze del suo ministero. Risulta quindi evidente l’apparente e impropria investitura di leader politico da parte di esponenti di un governo straniero. Il mancato incontro con il Presidente Trump non è solo la residua cautela sulle esigenze di etichetta e di correttezza istituzionale. Rivela soprattutto una persistente diffidenza di Trump verso una forza politica che non ha superato del tutto i retaggi delle proprie origini secessioniste; poco importa se sia una diffidenza di tipo culturale e/o di mero interesse politico, legato a possibili ritorni di fiamma filobavaresi, nemmeno filotedeschi nel prossimo futuro. Visto lo spessore e le funzioni di uno degli ospiti e del pellegrino è probabile che la parte più succosa e pertinente, prosaica dei colloqui riguardi l’implicazione, pur in filoni secondari, di tanta parte del ceto politico e dei funzionari di settori nevralgici dello Stato Italiano nella costruzione del Russiagate. Nei blog e in numerose testate americane circolano da tempo apertamente numerosi nomi di politici ed alti funzionari italiani. Segno di insofferenza e volontà di rivalsa verso gli artefici di una caccia alle streghe congelata malamente al prezzo però di paralisi politica e di numerose vittime. A questo riguardo le prossime elezioni presidenziali americane potrebbero essere il prodromo ad una definitiva resa dei conti nella quale Trump non avrebbe più l’esclusiva della figura di vittima designata.

Il soggiorno di Obama, famiglia e seguito similpresidenziale, presso la sontuosa residenza sul lago di Como, ospite del suo amico e attore George Clooney, sembra assecondare la bramosia dei cicisbei più accaniti; non ha in realtà, probabilmente, un esclusivo carattere mondano e godereccio. Accecati dal gossip e dalla vacuità, i nostri pennuti cicisbei si sono dilettati sulle frivolezze le più varie del soggiorno, compresi i fuochi d’artificio di borbonica memoria. In realtà Obama, abbandonata a malincuore la Casa Bianca e il suo orto, già altre volte ha pedinato e tampinato, sovrapponendosi con appuntamenti ed itinerari paralleli, il proprio odiato successore. Poiché uno dei bersagli grossi di un possibile ribaltamento della direzione delle inchieste sul Russiagate potrebbe essere, ancor più della Clinton, proprio lui, quanto meno come responsabile politico, il suo interesse per l’Italia si arricchirebbe di ulteriori aspetti, questa volta più politici. Alcuni giornali italiani sussurrano di un incontro con Matteo Renzi, ma solo per affinità elettiva. Alcuni giornali inglesi, invece, più smaliziati, ipotizzano una investitura di Clooney a prossimo candidato democratico Presidente. Non si conosce il grado di superstizione di Obama. Tenuto conto che l’ultima consumazione alla Casa Bianca tra i due, Renzi e Obama, da sanzione di investitura reciproca si è risolta repentinamente in una sorta di “ultima cena” con scarse possibilità di resurrezione, si presume che gli incontri politici, quantunque riservati, riguarderanno personaggi più titolati e meno predisposti a naufragi fragorosi.

Ipotizzando temerariamente cotante intenzioni, a Matteo Salvini si presenterebbe una occasione d’oro, per quanto rischiosa, per garantirsi un futuro da leader riconosciuto.

La concomitanza di interessi con l’attuale inquilino d’oltreatlantico potrebbe rendere più praticabile una azione di riforma istituzionale, a cominciare dal ruolo e dalle competenze della magistratura e una operazione di rinnovamento del personale, specie dirigenziale, degli apparati di sicurezza. Se e come riuscirà a portarla avanti, potrà fare di lui un personaggio politico di statura, capace di sostenere alla pari un confronto con alleati ed avversari o piuttosto, in caso di sopravvivenza, l’ennesimo emissario di una delle fazioni in lotta nei centri decisionali che contano; uno dei tanti che con valigia o borsello, vuoti o pieni che fossero al ritorno, hanno costellato le vicende italiche dal dopoguerra.

Il contesto è proibitivo, le qualità soggettive, se esistono, appaiono dissimulate sin troppo bene, lo scetticismo prevale, ma………………….chissà!?

ANCORA IRAN_QUESITI INQUIETANTI, di Antonio de Martini

Le acute considerazioni di Antonio de Martini iniziano con due interrogativi inquietanti, giustamente inquietanti. Il giudizio impietoso e senza attenuanti sulla Presidenza Trump, senza dubbio più severo e senza attenuanti rispetto a quello espresso su altre presidenze, oscura e sottovaluta alcuni dati di fatto:

  • sino ad ora Trump non si è invischiato in nessun conflitto militare e ha sempre sottolineato l’intenzione di uscire al più presto da quelli ereditati dalle precedenti presidenze; uno dei paletti fissati da Trump ai componenti del suo staff avvicendatisi sino ad ora è stato proprio quello di evitare di innescare confronti armati aperti
  • l’andamento schizofrenico della politica estera è legato oltre che alla complessità delle attuali dinamiche geopolitiche, alla contrapposizione inedita, nella loro evidenza e virulenza, tra strategie e tattiche antitetiche dei vari centri decisionali statunitensi, gran parte dei quali fuori dal controllo della Presidenza
  • l’affermazione di strategie, alleanze e tattiche chiaramente alternative comporta la destrutturazione degli attuali sistemi di alleanze. Ciò che appare come un desolante isolamento, potrebbe rivelarsi come un isolamento relativo teso a creare un sistema di alleanze più limitato, ma più coeso in una cornice di multipolarismo sempre più definita. Una fase di transizione che porti al logoramento definitivo delle vecchie élite, in particolare europee. Da questo punto di vista è eloquente la discrezione e la prudenza coltivata da Putin verso Trump, pur in presenza di pesanti provocazioni americane

Detto questo, l’attuale gioco con l’Iran potrebbe in effetti rivelarsi alla fine la trappola perfetta per far cadere o annichilire l’inquilino della Casa Bianca, in un confronto che all’interno del paese lo vede altrimenti vincente, almeno per il momento. Una trappola che potrebbe scattare sulla base di una quantomeno oggettiva convergenza di interessi tra le componenti oltranziste e antitrumpiane americane e dei loro alleati esterni e quelle iraniane, responsabili in buona parte anch’esse, anche se non in prevalenza, della situazione caotica in Medio Oriente, ad iniziare dal sacrificio della questione palestinese. Anche in questa oggettiva convergenza le visioni strategiche sono piegate spesso, in ultima analisi, ai fini dei conflitti politici interni. Una dinamica valida per tutti gli schieramenti, non solo per quello che risale a Trump_Germinario Giuseppe

ANCORA IRAN_QUESITI INQUIETANTI

Quante volte andrà fino al limite della guerra per poi ritornare indietro in sicurezza?
Quante volte ancora prima di restare solo, con la May?

Mentre si avvicina la data del 27 giugno in cui – in base al trattato Iran-EU e potenze europee- l’Iran si renderà libero di riprendere la marcia al nucleare,
l’Iran annunzia di aver abbattuto un drone della Marina USA MQ-4C Triton.

L’accusa è di violazione dello spazio aereo a scopo di spionaggio.

In pratica, ad ogni passo indietro americano dal “brinkmanship”, corrisponde adesso un passo avanti iraniano.

Il controllo dell’area dello stretto di Hormuz diventa sempre più difficile dato che gli USA accusano la perdita di due drone ( un Reaper il 6 giugno e un Triton ieri). Niente morti per fortuna, ma così si facilitano gli scontri.

Il tentativo di creare una “coalizione dei volenterosi “ in Asia – dopo il “fin de non recevoir” europeo sembra essersi rivelato inefficace. Nessun ritiene che il duo Trump- Netanyahu sia dalla parte della ragione.

Se pensiamo che, agli inizi della vicenda “ nuovo ordine mondiale” di Bush senior i “ volenterosi” erano 34 abbiamo la misura di quanto la politica estera americana sia stata piegata alle esigenze di politica interna elettorale.

E di come siano considerati gli alleati dal governo degli Stati Uniti. Entità sacrificabili sull’altare dell’elettorato del Massachusetts.

SOR SALVINI VIEN DA ROMA CON
LE SCARPE ROTTE AI PIÈ

Se il piano USA era quello di piegare l’Iran e la sua dirigenza ai voleri angloamericani e trascinarli a un nuovo tavolo di negoziati, ebbene, è fallito.

Se volevano mostrare al mondo chi comanda, non ci sono riusciti.

Per questi due fallimenti hanno pagato un ulteriore prezzo di immagine in medio Oriente.

Sembra però che questa volta l’ abbiano capita in meno dei nove anni che ci sono voluti per la Siria.

l’Iran ha subìto, tacendo, ogni genere di pressioni economiche e procedure diplomatiche, ma ha reagito unicamente nei tempi e termini previsti dal trattato che lo ha legato all’occidente.

Trascorso un anno dal recesso unilaterale USA, ha applicato i termini usati dal trattato ( e pensati per un Iran violatore del patto) e dato i sessanta giorni di preparazione previsti agli altri partner perché procedessero al richiamo del dissenziente a rientrare nei termini del patto.

Il primo successo persiano è stato che nessuno degli altri sottoscrittori – in questo anno trascorso- ha rinnegato l’impegno preso. Nemmeno l’Onu e nemmeno l’Inghilterra.

Il secondo è l’espressione di stizza e meraviglia del dipartimento di Stato che si è trovato di fronte al muro di gomma degli europei e all’intransigenza iraniana che ha rifiutato ogni dialogo .

La meraviglia si è trasformata in stupore quando di fronte all’accusa del Presidente Trump di sabotaggio al traffico petrolifero, gli iraniani gli hanno dato del bugiardo ed è venuto un gesto di solidarietà dal solo governo inglese dimissionario ( non di denunzia del trattato però ).

A questo punto, il fido Bolton (detto “ due baffi appesi sul nulla”) dalla certezza di colpevolezza, è passato alla quasi certezza ( “almost sure”) e due giorni dopo il CENTCOM medio oriente ( che aveva diffuso il filmato ) ha cambiato apparentemente discorso lamentando che gli Houtis ( tribù yemenita in guerra con l’Arabia Saudita da tre anni ) tentavano, a volte – e di recente con successo – di abbattere i drone americani. ( un MQ 9 Reaper il 6 giugno).

Dopo aver dato questa anticipata spiegazione circa l’assenza di filmati che mostravano DOVE si era ritirato il pattugliatore IRGC classe Gashti del film, hanno ripreso la marcia indietro parlando di missili S A 6 ( automontati) e poi di S A 7 ( missili da spalla) di cui la penisola arabica è gonfia come un otre.

La ragione per cui l’Iran si rifiuta ostinatamente di trattare è duplice.
Da una parte, perché rifiuta di trattare sotto minaccia ( il sistema fu inventato da loro tremila anni fa e citato nel trattato di strategia dell’imperatore di Costantinopoli Maurizio, citato da Luttwark ne “ la grande strategia dell’impero bizantino”) .

Seconda e decisiva ragione è che gli iraniani ( e nemmeno noi) hanno/abbiamo capito quali siano le richieste USA, stante che ancora oggi gli iraniani – persino nello scontro diplomatico- hanno scrupolosamente seguito quanto stabilito dal trattato e non rispondono alle incursioni israeliane in Siria.

Per rimediare a questa sconfitta isolante, il povero Pompeo fa un giro dell’Asia-Pacifico in cerca di alleati per una azione comune non meglio specificata, perché inesistente, contro l’Iran che è tra i principali se non il principale fornitore di petrolio di India, Indonesia, Malesia. Pakistan, Corea e Giappone. ( tanto che alle Sanzioni precedenti furono esonerati dall’embargo dagli stessi USA) .

In questo frangente, giunge la visita a Washington di un vice presidente italiano ( con delega all’interno) che offrirà il sostegno di mezzo governo.

Tornerà indietro con foto ricordo e la notizia che Trump si lamenta di Draghi
“ che ha svalutato l’Euro” ( Deo gratias) e dichiara che si ricandiderà per un altro quadriennio.

Lo rileggeranno trionfalmente, salvo poi accorgersi che saranno rimasti soli assieme a questi moderni voltagabbana sovranisti de Milan.

LA GUERRA COME POLITICA DEGLI USA a cura di Luigi Longo

LA GUERRA COME POLITICA DEGLI USA

a cura di Luigi Longo

La distruzione dei territori siriani, in particolare della provincia di Idlib, da parte degli USA, tramite le diverse sigle dei Jihadisti, non si ferma. Si va dall’attacco chimico ad Idlib da parte del gruppo Tahrir as-Sham (il nuovo nome di Al Nusrah) per addossare la colpa al governo di Damasco con pronta dichiarazione del Dipartimento di Stato statunitense che vede i“ […] segnali che il regime di Assad potrebbe ripetere il suo uso di armi chimiche, incluso un presunto attacco di cloro nella Siria nord-occidentale la mattina del 19 maggio 2019 […] Stiamo ancora raccogliendo informazioni su questo incidente, ma ripetiamo il nostro avvertimento: se il regime di Assad usa armi chimiche, gli Stati Uniti e i nostri alleati risponderanno rapidamente e in modo appropriato […] la colpevolezza del regime di Assad negli orribili attacchi di armi chimiche è innegabile”. Alla distruzione di migliaia di ettari di grano per affamare la popolazione (la risorsa grano come arma di guerra) ad opera dell’Isis con l’intervento dell’ONU (a servizio degli Stati Uniti d’America) che insinua la mano del governo di Assad dietro i campi di grano bruciati.

L’obiettivo statunitense è l’asse Iran-Siria come configurazione di una potenza regionale egemone nel Medio Oriente (a danno dei loro sicari israeliani) da sottrarre all’area di influenza russa e cinese sempre più in coordinamento tra di loro. Sullo sfondo il conflitto tra le potenze mondiali per l’egemonia: gli USA per un dominio monocentrico, la Russia e la Cina per un dominio multicentrico.

Per quanto sopra riporto l’articolo di Leone Grotti, Siria. L’Isis brucia i campi di grano e affama la popolazione di Idlib apparso su www.tempi.it del 11/6/2019 e una sintesi dell’intervista rilasciata da Noam Chomsky curata da Salvo Ardizzone con il titolo Chomsky spiega l’ostilità degli USA verso l’Iran uscita su www.ilfarodelmondo.it del 12/6/2019.

 

 

 

SIRIA. L’ISIS BRUCIA I CAMPI DI GRANO E AFFAMA LA POPOLAZIONE DI IDLIB

Leone Grotti

 

La Stampa spiega come i jihadisti utilizzano il cibo come «arma di guerra». Ma l’Onu porta avanti la sua guerra dell’informazione e accusa in modo surrettizio l’esercito di Bashar Assad

 

 

La provincia siriana di Idlib è controllata da decine di migliaia di ribelli e jihadisti. Eppure, quando le Nazioni Unite hanno dato settimana scorsa la notizia che «migliaia di ettari di campi» di grano sono stati bruciati, ha accusato dei generici «combattenti». L’Onu ha aggiunto poi che la zona interessata è quella dove il governo di Bashar Assad appoggiato dalle truppe russe sta attaccando. L’insinuazione su chi stesse utilizzando il cibo come «arma di guerra» era evidente.

 

È L’ISIS A BRUCIARE I CAMPI

 

Oggi, a una settimana di distanza, l’inviato a Beirut della Stampa, Giordano Stabile, racconta però un’altra storia. Non è il regime di Assad che affama volontariamente la popolazione, ma l’Isis. Scrive Stabile:

«All’inizio gli incendi sono stati collegati all’offensiva governativa lanciata alla fine di aprile nella provincia di Idlib. Un giornale critico con il regime come «Asharq al-Wasat» ha scoperto però che il grosso degli incendi è stato applicato da gruppi jihadisti che volevano impedire ai contadini di vendere il raccolto al governo. Damasco offre 185 lire siriane per ogni chilo di frumento, un prezzo allettante. La reazione è stata spietata. Secondo «Asharq al-Wasat» nel mese di maggio fra i 15 mila e i 20 mila ettari di campi coltivati a cereali sono andati in fiamme nelle zone controllate dai ribelli e dai curdi»

 

GUERRA DELL’INFORMAZIONE

 

Il conflitto siriano è entrato nel suo nono anno e la provincia di Idlib è l’ultima roccaforte jihadista in Siria. Ma l’Onu e la comunità internazionale non sembrano stanchi di pubblicare notizie false o tendenziose per orientare l’opinione pubblica a riguardo. I jihadisti non si fanno scrupoli ad affamare la popolazione di Idlib su cui esercitano ancora il controllo pur di protrarre la guerra. I civili usati come scudi umani sono una triste realtà a Idlib.

Eppure un’importante fetta della stampa mondiale e degli organi internazionali continuano a difendere in modo inspiegabile ribelli e terroristi islamici. Persino il Washington Post, che non è mai stato tenero con Assad, ha riportato le testimonianze di contadini che si sono visti i campi bruciati dall’Isis solo perché hanno osato vendere il proprio grano al governo per guadagnarsi da vivere. In Siria è cominciato l’ultimo capitolo di una guerra estenuante, ma la guerra dell’informazione non accenna a finire.

 

 

 

CHOMSKY SPIEGA L’OSTILITÀ DEGLI USA VERSO L’IRAN

a cura di Salvo Ardizzone

 

Noam Chomsky, il noto storico e filosofo americano, spiega che gli Usa sono ostili verso l’Iran perché non possono accettare uno stato indipendente in Medio Oriente. In un’intervista, Chomsky ha dichiarato che l’establishment e i media Usa considerano la Repubblica Islamica il Paese più pericoloso del pianeta perché sostiene i movimenti della Resistenza come Hezbollah e Hamas.

Secondo la narrazione bugiarda di Washington, l’Iran è una doppia minaccia, perché sarebbe il principale sostenitore del terrorismo e i suoi programmi nucleari costituirebbero una minaccia esiziale per Israele, una minaccia talmente grave da aver costretto gli Usa a posizionare un sistema antimissile sui confini russi per proteggere l’Europa dalle (inesistenti) testate nucleari iraniane, malgrado non si comprenda come e perché la leadership della Repubblica Islamica avrebbe dovuto lanciare un simile attacco, dando agli Usa l’opportunità d’incenerirla un attimo dopo.

Chomsky ha denunciato la mistificazione statunitense, affermando che nella realtà il cosiddetto sostegno iraniano al terrorismo si traduce nel supporto dato a Hezbollah, il cui crimine principale è di essere il solo deterrente contro un’altra rovinosa invasione israeliana del Libano, e ad Hamas, colpevole di aver vinto una libera elezione nella Striscia di Gaza, un crimine che ha suscitato immediate e severe sanzioni, oltre ad aver portato gli Usa a tramare per scalzarla dal governo della Striscia.

Lo storico ha continuato affermando che le colpe principali per cui Hezbollah e Hamas sono considerate organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti, risiedono nella loro ferma opposizione all’espansionismo aggressivo del regime israeliano; i sionisti hanno sempre aspirato al Grande Israele, o Terra Promessa, che secondo Theodor Herzl si sarebbe dovuto estendere dal Nilo all’Eufrate, da buona parte della Turchia alla Penisola Arabica. Se non ci fossero stati i movimenti di Resistenza come Hezbollah o Hamas, i sionisti si sarebbero impadroniti di gran parte del Medio Oriente.

Riagganciandosi a questo, Chomsky ha spiegato che l’inconciliabile ostilità di Usa e Israele nei confronti dell’Iran sta nel fatto che essi non possono tollerare una potenza indipendente in una regione che essi pretendono di dominare. Per questo la Repubblica Islamica non può essere perdonata per aver rovesciato il regime dittatoriale insediato da Washington nel 1953.

Lo studioso americano ricorda che allora un colpo di Stato ordinato dagli Usa e messo in atto dalla Cia ha rovesciato Mohammad Mossadeq, il Primo Ministro iraniano colpevole agli occhi dell’Occidente di voler nazionalizzare le risorse petrolifere dell’Iran e usarle per far progredire il Paese. Una colpa grave che ha spinto l’Inghilterra (allora padrona di quel petrolio) a chiedere l’aiuto degli Stati Uniti che diedero il via all’Operazione Ajax, ufficialmente ammessa dalla Cia 60 anni dopo; fu la fine della prima esperienza democratica in Iran e l’inizio del risentimento del Popolo iraniano verso le ingerenze americane.

Ma gli Usa non si limitarono a questo, Chomsky ricorda che per 26 anni Washington ha sostenuto Reza Pahlavi, un brutale dittatore che regnava torturando e uccidendo ogni oppositore grazie alla Savak, la sua polizia segreta. Tuttavia, malgrado il costante appoggio degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente al regime sanguinario, nel 1979 il Popolo iraniano, sotto la guida dell’Ayatollah Khomeini, è riuscito a far crollare il potere dei Pahlavi.

Nel descrivere la costante ostilità statunitense verso l’Iran, lo storico americano ha affermato che negli ultimi 60 anni non è passato un giorno senza gli Usa non si accanissero contro gli iraniani: a parte il colpo di stato ed il sostegno a un dittatore descritto nel peggiore dei modi da Amnesty International, dopo il rovesciamento di Pahlavi ci fu l’aggressione che Washington condusse attraverso Saddam Hussein; a causa di essa, nel corso di una guerra durata 8 anni, centinaia di migliaia di iraniani sono stati uccisi, molti di essi con armi chimiche, senza che nessuno protestasse.

Chomsky ha ricordato che gli Usa intervennero apertamente al fianco di Saddam Hussein, allora considerato uno strettissimo amico da Reagan, tanto che l’attacco iracheno all’Uss Stark, che causò la morte di 37 marinai Usa, fu seguito solo da un blando richiamo. Saddam era un dittatore utile per gli Usa ed essi tentarono anche d’incolpare l’Iran per le stragi di curdi che egli commise con i gas. Più tardi, George Bush padre invitò negli Stati Uniti ingegneri nucleari iracheni per formarli alla produzione di ordigni nucleari che minacciassero l’Iran senza “sporcare” Washington. E naturalmente, ha continuato lo studioso, Washington è stata la causa prima e determinante delle sanzioni contro l’Iran, che nei fatti gli Usa mantengono ancora oggi.

Nella sua analisi Chomsky ha denunciato la retorica anti iraniana di Trump, che critica l’Iran ma si accosta ai peggiori regimi repressivi; mentre egli compiva il suo viaggio in Medio Oriente, la Repubblica Islamica ha tenuto le sue elezioni, evento impensabile nell’Arabia Saudita che l’ospitava, il Paese che è la fonte del wahabismo che avvelena la regione e il mondo islamico. Ma non è solo il Presidente ad essere ostile all’Iran, lo è tutta l’Amministrazione in quanto espressione dell’establishment.

Nel descrivere l’Arabia Saudita, il maggior alleato mediorientale degli Usa e nemica giurata dell’Iran, Chomsky l’ha descritta come una dittatura brutale e repressiva, dove i diritti umani vengono calpestati, ma un luogo dove Trump si sente a proprio agio. A Riyadh, il Presidente americano ha stipulato accordi per 320 Mld di dollari, essenzialmente enormi forniture di armi per la felicità dell’industria degli armamenti, ma le conseguenze immediate sono state il via libera agli “amici” sauditi a continuare le loro atrocità in Yemen, e ad isolare il Qatar, colpevole di voler essere troppo indipendente.

Ancora una volta è principalmente l’Iran il motivo: il Qatar condivide con la Repubblica Islamica un enorme giacimento di gas naturale ed intrattiene con essa rapporti commerciali e culturali, cosa intollerabile per i sauditi (e per gli Usa).

Nella sua analisi Chomsky ha tratteggiato le ragioni profonde dell’irriducibile ostilità che gli Usa hanno verso l’Iran, e i tanti crimini che nel corso di sessant’anni hanno perpetrato nei confronti del Popolo iraniano per tentare di dominarlo; un atteggiamento che permea l’establishment statunitense e che è praticamente impossibile sradicare. Un atteggiamento a cui si somma la dichiarata inimicizia di Israele, che vede nella Repubblica Islamica e nella Resistenza che essa sostiene i suoi peggiori nemici, coloro che gli sbarrano la strada al dominio della regione, e che minacciano l’esistenza stessa dell’entità sionista e il permanere della sua occupazione della Palestina.

 

 

Le celebrità che vaneggiano di ammazzare Trump: una storia vecchia, noiosa e pericolosa di  Victor Davis Hanson

 

Le celebrità che vaneggiano di ammazzare Trump: una storia vecchia, noiosa e pericolosa

di  Victor Davis Hanson, 2 giugno 2019

 

 

Di recente, la scrittrice newyorkese Fran Lebowitz, invitata da Bill Maher nel suo programma HBO, gli ha detto che il governo USA dovrebbe sbolognare il presidente Trump “ai suoi amichetti sauditi, sai quelli che si sono sbarazzati di quel giornalista?”

Secondo la Lebowitz è spiritoso dire in diretta TV che il presidente degli Stati Uniti andrebbe fatto a pezzi come il giornalista e attivista politico saudita Jamal Kashoggi.

Ormai, la mini-industria di celebrità che invocano la morte violenta o l’assassinio del presidente Trump è una storia vecchia e noiosa, e sta diventando pericolosa.

Come seguissero un copione, attori, cantanti, comici e banali entertainer gareggiano a chi fantastica il modo più splatter di ammazzare il presidente: ma così facendo, insinuano nelle menti degli squilibrati immagini sempre più atroci di violenze immaginate, forse persino approvate da icone del cinema e celebrità della cultura pop.

Il celebre chef Anthony Bourdain, recentemente scomparso, meditava di avvelenare Trump.

David Crosby, il musicista, pensava di incenerirlo.

L’attore Johnny Depp and il rapper Snoop Dogg preferivano sparargli.

L’ex presentatrice della CNN Kathy Griffin,  il comico George Lopez, e il cantante Marilyn Manson immaginavano una decapitazione.

Il gruppo rock Pearl Jam ha presentato l’immagine di Trump come carogna decomposta.

La cantante Madonna e il musicista Moby hanno optato per gli esplosivi.

Il teatro pubblico di New York City ha fantasticato di pugnalarlo.

L’attore Robert De Niro pare abbia la patetica fissazione di colpirlo ripetutamente alla testa.

La comica Rosie O’ Donnell ha sognato Trump che precipita in un burrone.

L’attore Mickey Rourke ha minacciato di bastonare Trump, mentre a quanto pare Charlie Sheen ha pregato per un intervento divino che lo elimini.

Il comico Larry Wilmore dice che si contenterebbe di un buon vecchio strangolamento.

 

Hollywood, naturalmente, si è fissata nell’odio per Trump fin dal primo annuncio della sua candidatura: un’ossessione condivisa dalla CIA dell’era Obama, dalla FBI e dal Dipartimento di Giustizia.

Eppure, che celebrità, autori ed entertainer liberal fantastichino in pubblico di ammazzare un presidente conservatore non è proprio una cosa nuova.

L’ex presidente George W. Bush era un bersaglio preferito degli auguri di morte di questa gente. Ricordate l’episodio di “Game of Thrones” del 2012 dove si vedeva la testa di Bush infissa su una picca? Il columnist del “Guardian” Charles Brooker ha evocato gli assassini di ex presidenti: “John Wilkes Booth, Lee Harvey Oswald, John Hinckley Jr.: dove siete adesso che abbiamo bisogno di voi?”

La Alfred A. Knopf  ha pubblicato il romanzo di Nicholson Baker Checkpoint, un libro che consta interamente di dialoghi monotoni tra personaggi noiosi che propongono vari modi di ammazzare Bush. Nel 2006 il cineasta Gabriel Range ci ha beneficiato del  “docudrama” Death of a President, dove si mette in scena un tentativo – riuscito – di assassinare George W. Bush.

Ma le nostre celebrità d’ élite non si limitano a immaginare la violenta dipartita di presidenti conservatori come George W. Bush e Donald Trump. Va benissimo qualsiasi eletto conservatore, la sua famiglia compresa.

Proprio ora, l’attore e comico Jim Carrey ha twittato che gli piacerebbe che l’attuale governatrice repubblicana dell’Alabama Kay Ivey fosse stata abortita. “Secondo me, se interrompete una gravidanza lo dovreste fare prima che il feto diventi governatore dell’Alabama”. Così, pensa Carrey, Kay Ivey non avrebbe potuto varare la legge restrittiva sull’aborto. Per migliorare l’effetto, Carrey ha allegato al suo tweet la macabra illustrazione di uno strumento chirurgico che risucchia la testa della Ivey, fotomontata sul corpo di un feto nel grembo materno.

L’estate scorsa Peter Fonda, un’icona del cinema anni Sessanta, ha immaginato una forma di violenza particolarmente patologica ai danni del figlio più piccolo di Trump, Barron: “Dovremmo strappare Barron Trump dalle braccia di sua madre e chiuderlo in una gabbia insieme a dei pedofili. Poi vediamo se sua madre trova il coraggio di mettersi contro al gigantesco str… che ha sposato.”

Provate a sostituire il nome di Obama al nome di Trump: attacchi così abietti garantirebbero a chi li porta l’ostracismo, la distruzione della carriera e persino conseguenze legali.

Ci ricordiamo lo sconosciuto clown di un rodeo che nel 2013 fu bandito a vita dalla Fiera dello Stato del Missouri perché uno dei suoi assistenti s’era comprato una normalissima maschera da Obama e l’aveva indossata lavorando nell’arena?

Lo scandalo universale contro il clown del rodeo si fondava su questa tesi dei liberals: dileggiare il presidente degli Stati Uniti non solo era razzista, ma pericoloso, perché istigava chi odiasse Obama a passare dal pensiero all’atto.

E allora perché  le celebrità di sinistra manifestano tanto odio politico?

Primo, danno per scontato che i loro pretesi fini, eguaglianza e giustizia, giustifichino qualsiasi mezzi atto ad approssimarvisi, oscenità e incitamenti alla violenza compresi. Per i militanti della giustizia sociale, i “social justice warriors”, anche le morbosità sono segno che si sta dalla parte giusta. E se qualche squilibrato prendesse sul serio le celebrità che parlano a vanvera di ammazzare o colpire Trump, e realizzasse una delle loro numerosissime fantasie? Ne proverebbero rimorso, le celebrità? Forse no, visto l’odio speciale che nutrono per il conservatorismo in generale e per la famiglia di Trump in particolare.

Secondo, le celebrità (molte neanche hanno finito le scuole superiori) sono per natura un po’ arroganti, e spesso proprio stupide. Confondono la loro bravura di attori o cantanti con una specie di intelligenza o erudizione. Ma sin da Platone, i filosofi ci hanno avvisato che le capacità attoriali sono piuttosto un talento naturale che acquisito, e possono non aver nulla a che fare con l’intelligenza, la saggezza o la sapienza.

Terzo, le celebrità non temono conseguenze. La maggior parte dei boss dell’industria dello spettacolo sono anche loro di sinistra. Persino gli attacchi più ignobili ai conservatori possono diventare utili mosse di carriera. Come le élites dei ricchi, pensano che essendo privilegiati e influenti, dovrebbero andare esenti dalle conseguenze legali di pubbliche dichiarazioni in cui si auspica la morte di un presidente in carica.

Quarto, le celebrità adorano l’attenzione del pubblico, e più ne hanno meglio è, specie se la carriera o l’età è sul viale del tramonto. Per i vanitosi in declino, anche la cattiva pubblicità è buona pubblicità. La carriera di Madonna, Moby, Robert De Niro, o Rosie O’ Donnell non è in fase ascendente.

Quinto, molti tra coloro che manifestano tanto odio e scurrilità sono prodotti diretti o indiretti degli anni Sessanta e Settanta, che hanno distrutto le norme sociali e sdoganato l’oscenità. Per celebrità del genere, parlare a vanvera della morte di un presidente fa parte della cultura di tutta una vita, è il tipo di volgarità che danno per scontata nella musica, nel cinema e nella comicità. Parlando in generale, gli attori che da giovani sono rozzi e volgari invecchiano male. Il Peter Fonda che in Easy Rider era uno spirito libero che parla a ruota libera in sella alla moto, adesso che replica il suo gergo da ribelle a settant’anni e passa sembra un vecchio rimbambito.

Ultimo, Hollywood e le celebrità vivono in un mondo che non c’entra niente con il resto dell’America. Ricchezza, isolamento, governanti, camerieri, giardinieri, il clima e il privilegio di Malibu, Montecito, Beverly Hills o Santa Monica non sono la normalità americana. Praticamente nessun americano vive la vita regale di un Jim Carrey o di un Johnny Depp. Il teatro pubblico di New York non ucciderebbe ritualmente sulla scena ogni sera Trump se rappresentasse il Giulio Cesare nelle campagne dell’Alabama o al centro dell’Oklahoma.

Se qualcuno crede che la spiaggia di Malibu rifletta la norma del comportamento o del modo di pensare americani, ha dei seri problemi con il principio di realtà. Dunque, aspettatevi che la voga delle celebrità che fantasticano l’assassinio di Trump continui, finché non succederà una di queste due cose: o il paese, collettivamente, gli dice “adesso basta”; o le chiacchiere morbose sull’assassinio portano all’omicidio reale.

 

Victor Davis Hanson

Victor Davis Hanson è uno storico militare americano, editorialista, ex professore di studi classici, e uno studioso della guerra nell’antichità. E’ stato professore di Studi Classici alla California State University di Fresno, e oggi è il Martin and Illie Anderson Senior Fellow presso la Hoover Institution, Stanford University.  Il suo libro più recente è: The Second World Wars: How the First Global Conflict was Fought and Won (Basic Books).

D-DAY DOPO 75 ANNI

 

D-DAY DOPO 75 ANNI

Di Paul Craig Roberts

 

Oggi è il 75 ° anniversario dell’invasione della Normandia. Ancora una volta l’evento è celebrato con la demonizzazione della Germania nazionalsocialista e dalla glorificazione della grandezza dell’America nel vincere la guerra.

In realtà, l’invasione della Normandia non contribuì in modo significativo alla sconfitta della Germania. Una piccola forza statunitense / britannica / canadese / francese di circa 150.000 soldati, di cui circa 73.000 americani, si trovava di fronte a poche divisioni tedesche dimezzate e a corto di carburante e munizioni. La vera guerra era sul fronte orientale dove milioni di soldati avevano combattuto per diversi anni.

L’Armata Rossa vinse la seconda guerra mondiale. Il costo per i sovietici fu tra 9 milioni e 11 milioni di morti solo militari. Aggiungendo le morti civili russe, l’Unione Sovietica vinse la guerra dal costo compreso fra 22 milioni e 27 milioni di vite sovietiche.

Al contrario, gli Stati Uniti persero  405.000 soldati uccisi durante la seconda guerra mondiale, di cui 111.600 morirono combattendo i giapponesi nel Pacifico.

La falsificazione della storia si applica alla seconda guerra mondiale così come a qualsiasi altra cosa in Occidente, e il discorso alla celebrazione del D-Day del Presidente Trump esemplifica quanto sia falsa la nostra storia. La Russia è semplicemente esclusa dalla storia. Putin non è stato nemmeno invitato alla celebrazione. I celebranti erano il primo ministro uscente britannico May, il presidente francese fallito Macron e l’estroverso cancelliere tedesco Merkel, che era lì per celebrare la sconfitta del suo paese, ma avrebbero potuto anche non essere presenti. Trump ha sfruttato l’occasione per celebrare la grandezza dell’America. Abbiamo sconfitto la Germania a un costo inferiore di 300.000 soldati morti. I russi che hanno perso 36 volte più soldati non sono considerati sufficientemente importanti per la vittoria sulla Germania da essere invitati alla celebrazione…

 

 

https://www.paulcraigroberts.org/2019/06/06/d-day-after-75-years/

 

Trump, Pareto e la caduta delle élite, di Norman Rogers

Il significativo manifesto di una élite emergente

https://www.americanthinker.com/articles/2019/05/trump_pareto_and_the_fall_of_the_elites.html

Trump, Pareto e la caduta delle élite

Il sociologo ed economista italiano Vilfredo Pareto morì nel 1923. Vide le credenze e le azioni degli uomini motivate dal sentimento e dall’interesse personale. Le motivazioni apparenti date per certe credenze e azioni, come aiutare i non privilegiati, sono spesso la copertura di azioni realmente motivate dal desiderio di proteggere i privilegi delle élite – la struttura del potere. Ad esempio, i democratici sostengono di essere motivati ​​dal desiderio di aiutare i meno abbienti. Ma le loro azioni sono chiaramente motivate dal desiderio di proteggere il proprio potere e privilegi. Incoraggiare l’immigrazione di massa di clandestini che competono per posti di lavoro di livello inferiore non aiuta i diseredati, ma crea un nuovo gruppo di elettori che sosterrà i democratici. Aiuta anche gruppi privilegiati fornendo manodopera a basso costo.

Prendiamo, ad esempio, la ricca contea di Marin , in California. Marin è in gran parte popolato da professionisti benestanti e altamente istruiti. Una sottoclasse di immigrati spesso illegali fornisce servizi a prezzi accessibili come il lavoro in giardino e il servizio di babysitting. Nelle elezioni presidenziali del 2012, Marin ha votato il 74% per Obama . Nelle elezioni del 2016, Marin ha votato il 77% per Hillary e solo il 16% per Trump. Un’altra ricca contea della California, Santa Clara County, è il cuore della Silicon Valley. Nelle elezioni del 2016, la Contea di Santa Clara ha votato solo il 21% per Trump. La Contea di Fresno, in California, una contea a maggioranza ispanica con un tasso di povertà molto elevato, ha votato il 43% per Trump. La California nel suo complesso ha votato il 32% per Trump. La nazione nel suo complesso ha votato il 46% per Trump. Nel distretto di Manhattan, a New York City, uno dei posti più ricchi del paese, solo il 10% dei voti è andato a favore di Trump. Chiaramente la classe privilegiata vota democratica e si oppone fortemente a Trump.

In luoghi abitati da élite, i democratici dominano. La vittoria di Trump è stata costruita con il voto pesante delle persone della classe operaia che non condividono il patrocinio che i Democratici conferiscono ai gruppi di identità considerati vittime. I gruppi che sono vere vittime, come le persone il cui lavoro è stato esternalizzato a paesi a basso reddito, si sono ribellati ai democratici ed hanno eletto Trump. Chiaramente i democratici rappresentano l’élite, classe dominante. Questo non vuol dire che i repubblicani non sono compagni di viaggio con i democratici. Gran parte delle classi intellettuali e politiche di destra si schiera con i democratici nel loro odio per Trump. Molti politici nascondono la loro antipatia per Trump per paura di essere primari.

La reazione delle élite all’elezione di Trump fu di lanciare un attacco extra-giudiziario con accuse false di collusione russa. L’FBI e il Dipartimento di Giustizia hanno adottato tattiche di stato di polizia come intercettazioni, intrappolamento e persino il collocamento di sospetti in isolamento per lunghi periodi al fine di esercitare pressioni su di loro per testimoniare contro Trump. La maggior parte della stampa, a sua volta parte dell’élite, ha partecipato con tutto il cuore a questo sforzo per distruggere Trump e rimuoverlo dall’incarico.

Trump ha, finora, respinto gli attacchi dell’élite establishment. La sua prestazione come presidente è stata molto forte. Ha cambiato le leggi fiscali con l’effetto di migliorare notevolmente la competitività dell’economia statunitense. Ha risollevato l’industria del petrolio e del gas. Gli Stati Uniti ora sono indipendenti dal punto di vista energetico e diventeranno uno dei maggiori esportatori di energia. È in procinto di rinegoziare le condizioni commerciali di vecchia data che sono state sfavorevoli ai lavoratori statunitensi e americani, in particolare con la Cina. Ha cambiato la relazione tra gli Stati Uniti e i nemici della Corea del Nord e dell’Iran, mettendo quei nemici sulla difensiva. Ha fatto queste cose di fronte agli attacchi implacabili dei media e dell’élite establishment.

L’élite, i democratici e i repubblicani, che gestivano il paese prima che Trump presiedesse a un lento declino nazionale.L’economia era incatenata dalla regolamentazione e dalle tasse. I problemi non sono stati risolti ma buttati giù per la strada.La crisi del riscaldamento globale è un esempio di una crisi fasulla, credenza in cui è diventata una necessità politicamente corretta.Le soluzioni proposte per il riscaldamento globale non in crisi, come capovolgere l’economia e alimentarla con mulini a vento, sarebbero comiche se non che i sostenitori di tali politiche sono seri. Ovviamente le misure per ridurre le emissioni di CO2 sono inutili perché l’86% delle emissioni proviene da altri paesi, molti dei quali non hanno intenzione di aderire al Green New Deal suicida. Prima di Trump, gli Stati Uniti erano alla deriva senza direzione e distratti da mode irrilevanti e problemi immaginari.

Trump è entrato in carica con una serie di politiche completamente diverse che hanno rimesso in discussione la precedente saggezza convenzionale sull’economia, il commercio, la difesa e l’energia. Le sue politiche stanno cambiando opinione pubblica e intellettuali. È arrivato un nuovo paradigma e sta guadagnando terreno. Questa è una minaccia per il vecchio establishment dell’élite. Devono fermare Trump e screditarlo, altrimenti il ​​vecchio establishment sarà ulteriormente screditato e perderà la sua capacità di governare.

Pareto ha visto la vita di un paese influenzato dalla crescita e dal declino delle classi dirigenti d’élite. Quando una classe dirigente perde la sua vitalità, è probabile che una nuova classe dominante sorgerà e sostituirà la vecchia classe dominante. In questa transizione, la vecchia classe dominante potrebbe tentare di preservare i suoi privilegi attaccando selvaggiamente l’aspirante classe dominante. Trump è il capo dell’aspirante classe dominante. Lui e i suoi sostenitori sono selvaggiamente attaccati. Trump è raffigurato come un criminale, un eccentrico conoscitore, come qualcuno guidato da una mancanza di controllo degli impulsi o da un razzista. Ma Trump è un vero talento politico. Ha astutamente respinto gli attacchi e ha un’eccellente possibilità di essere rieletto. È aiutato dalla disorganizzazione e dall’estremismo dei suoi avversari nella classe dirigente in declino.

Se una nuova classe dirigente, ispirata da Trump, consolida il potere, molti degli occupanti di sinecure nel governo e nell’istruzione correranno il rischio di perdere il lavoro. Sotto la vecchia élite, le università sono diventate mostri sovrafinanziati, sfruttando gli studenti il ​​cui futuro è ipotecato dal debito degli studenti. Questo oltraggio può continuare perché le università fanno il lavaggio del cervello ai giovani per sostenere la vecchia classe dirigente e perché le università forniscono supporto intellettuale per le politiche della vecchia classe dominante. Sotto la vecchia classe dominante, il governo è diventato pesantemente popolato da server temporali il cui impiego continuato sarebbe diventato inutile in seguito a una riorganizzazione del governo ispirata da Trump.

Il cambiamento è un pericolo chiaro e presente per i responsabili. Questo è ciò che sta dietro gli attacchi feroci e illegali contro Trump. Trump è chiaramente la migliore speranza per il futuro degli Stati Uniti. Siamo molto fortunati che Trump sia riuscito a superare in astuzia l’establishment e rimanere presidente.

Norman Rogers è l’autore del libro: Dumb Energy: A Critique of Wind and Solar Energy .

Trump e la decinesizzazione degli Stati Uniti, a cura della redazione

Qui sotto il testo tradotto di due brevi articoli apparsi sulla stampa americana. Rivela un aspetto, quello del recupero del controllo della logistica, della vera e propria guerra economica intrapresa con sempre maggior convinzione dagli Stati Uniti. Non è solo un confronto di natura economica, quanto l’aspetto economico di un confronto politico sempre più serrato, aperto e ampio. Spazia ormai dall’ambito militare, a quello tecnologico più raffinato, al controllo delle comunicazioni e dei trasporti. La permeabilità della formazione sociale statunitense, contestuale al processo di globalizzazione così come si è sviluppato negli ultimi trenta anni, sta subendo una battuta di arresto che nemmeno un eventuale rovesciamento della Presidenza Trump potrà rimettere interamente in discussione. E’ il prodromo alla formazione di più sfere di influenza entro le quali la potenza egemone dovrà mantenere un fermo controllo. Il corollario nel frattempo è che negli Stati Uniti si è innescato un processo di reindustrializzazione e di ricostruzione delle infrastrutture in grado di garantire maggiore coesione e forza alla formazione sociale, registrando tassi di crescita sino ad ora sconosciuti in questo millennio_Buona lettura_Giuseppe Germinario

 

ll Dipartimento per la Sicurezza Interna (Department of Homeland Security) dell’Amministrazione Trump ha costretto, per motivi di sicurezza, la compagnia statale cinese Cosco a cedere il controllo del porto di Long Beach in California. Long Beach è uno dei maggiori porti degli Stati Uniti (il quarto per esattezza). Il terminal di Long Beach ha registrato, nel 2018, un valore contabile netto di 345,24 milioni di dollari. Il suo utile netto lo scorso anno ha raggiunto 85,86 milioni di Dollari, in aumento di quattro volte rispetto all’anno precedente, il 2017.

Orient Overseas (International) Limited (OOCL) ha dichiarato di aver venduto il 100% del terminal container di Long Beach (LBCT) per $ 1,78 miliardi a un consorzio guidato da Macquarie Infrastructure Partners. Macquarie Infrastructure Partners Inc. è una società specializzata in investimenti infrastrutturali. L’azienda investe in strade, ferrovie, progetti di ponti, aeroporti, porti, acqua e acque reflue, energia e servizi pubblici, nonché infrastrutture sociali e di comunicazione. Gli investimenti di Macquarie Infrastructure Partners Inc si concentrano in Nord America, in particolare Stati Uniti e Canada. Macquarie Infrastructure Partners ha sede a New York.

OOCL è stato obbligato a vendere il terminale, uno dei più automatizzati del paese, ai sensi dell’Accordo sulla sicurezza nazionale con il Dipartimento di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.

Il governo federale ha intimato la cessione del terminale dopo che una verifica dell’anno scorso, ha confermato l’acquisto di OOCL da parte di COSCO Shipping Holdings. La società cinese Cosco Shipping Holdings, acquirente di OOCL (Orient Overseas International), con sede ad Hong Kong, è stata costretta quindi a vendere la proprietà del Terminal californiano.

L’amministrazione Obama aveva concesso nel 2012 il via libera ad OOCL per la firma di un contratto di locazione di 40 anni con la Città di Long Beach per il controllo del porto. La maggior parte dei movimenti di container Asiatici (Cinesi)in America, passa per Long Beach. L’accordo faceva parte del “Middle Harbor Redevelopment Program” per finanziare l’espansione per 1,5 miliardi di dollari del porto di Long Beach entro il 2020.

Ma una delle prime azioni del Department of Homeland Security, sotto l’amministrazione Trump, è stata la formazione, nel marzo 2017,  del Comitato per gli  Investimenti Esteri negli Stati Uniti. Una commissione di revisione e controllo su investimenti fatti da compagnie straniere che potrebbero minare la sicurezza nazionale. La commissione era nata sulla scia di una denuncia dell’acquisizione da parte di Cosco di un ex impianto portuale della Marina statunitense.

La Cina gestisce sei dei dieci porti container più trafficati del mondo. Il governo cinese ha anche finanziato la costruzione e la gestione di 43 porti in 35 paesi nell’ambito dell’iniziativa “One Belt and One Road” (OBOR) lanciata cinque anni fa dal Ministero dei Trasporti Cinese.

A complemento dei suoi sforzi per ottenere il predominio sulle attività, la Cina ha indotto le proprie compagnie statali ad acquistare esclusivamente prodotti e servizi da altre imprese statali cinesi.

Di conseguenza, il China International Marine Containers Group è diventato il più grande produttore mondiale di container e Shanghai Zhenhua Heavy Industries ha guadagnato una quota di mercato internazionale del 70% per le gru portuali e ora esporta in 300 porti di 100 paesi.

Secondo i termini dell’acquisizione di Macquarie, Orient Overseas International intascherà un guadagno di 1,29 miliardi di dollari; continuerà a controllare il traffico di navi e ferrovie negli impianti di container per i prossimi vent’anni, poiché i termini del precedente accordo fatto durante il regno dell’amministrazione Obama, non è annullabile in tutte le sue forme.

 

 

https://www.americanthinker.com/blog/2019/05/trump_administration_forces_china_to_sell_the_port_of_long_beach.html

https://www.americanshipper.com/news/macquarie-consortium-buying-long-beach-container-terminal?autonumber=848093

https://www.bloomberg.com/research/stocks/private/snapshot.asp?privcapId=8642218

CARO ZIO JOE, LA VECCHIAIA TI FA BELLO? di Gianfranco Campa

 

CARO ZIO JOE, LA VECCHIAIA TI FA BELLO?

 

Il vecchio caro Joe Biden rompe gli indugi e si presenta alle primarie democratiche per giocarsi la possibilità di sfidare Donald Trump alle presidenziali del 2020. Zio Joe dovrà scalare una montagna molto ripida. Il partito democratico di zio Joe non esiste più. Quello di oggi è un partito democratico orientato decisamente verso l’estrema sinistra. Zio Joe rappresenta il vecchio establishment democratico centrista Clintoniano (Bill…), mentre la nuova leva del partito democratico si è spostata su tematiche e politiche decisamente lontane dai parametri dell’establishment tradizionale del vecchio asinello.

L’ ex vicepresidente Joe Biden ha 76 anni e dovesse vincere le elezioni, il senatore democratico del Delaware, sarebbe il più vecchio presidente Americano mai insediatosi alla Casa Bianca. Il più vecchio fino ad ora è l’attuale presidente Donald Trump, investito nel gennaio del 2017 a 70 anni. Prima di Trump, il più anziano presidente è stato il repubblicano Ronald Reagan, che la momento della sua inaugurazione, nel Gennaio del 1981, aveva 69 anni. Un eventuale presidenza di Biden prenderebbe l’avvio nel gennaio del 2021 alla veneranda età di 78 anni; un record assoluto che lo vedrebbe alla fine della sua prima legislatura oltre la soglia degli 82 anni e dovesse vincere un secondo mandato, alla fine della sua presidenza, Biden supererà gli 86 anni. Con tutto il rispetto per zio Joe, le interviste i giornalisti le andrebbero a fare in una Casa Bianca trasformata in casa di cura presidenziale.

A livello di salute Biden sembra per il momento abbastanza vitale; quello che più preoccupa è lo stato mentale di zio Joe. Per chi non lo sapesse, nel febbraio del 1988, a 45 anni, Joe Biden ha subito un intervento chirurgico per correggere un aneurisma che gli aveva procurato un ictus emorragico ad un’arteria del lato destro del cervello. Biden svenne in una stanza d’albergo poco dopo aver tenuto un discorso sulla politica estera. Biden perse i sensi per oltre quattro ore prima di svegliarsi in un ospedale di Wilmington, nel Delaware. La situazione risultò subito talmente grave che venne trasferito al Walter Reed Medical Center, il tutto mentre riceveva l’estrema unzione dal prete. Il chirurgo, che ha eseguito l’intervento al cervello, all’epoca disse che l’operazione era stata più seria di quanto inizialmente si fosse pensato. Biden infatti fu sull’orlo di muorire.

Trattandosi di un rappresentante democratico, lo stato di salute mentale e fisico di Biden non è mai stato messo in discussione dai mass media. Quelle poche volte infatti che si sono sollevate obiezioni, ci sono sempre state potenti levate di scudi tese a proteggere Biden con dichiarazione di medici e di esperti lesti a minimizzare i problemi riguardanti la sua reale condizione fisica e soprattutto mentale. Ma se dobbiamo tenere conto delle dichiarazioni fatte di impeto durante l’emergenza medica di Biden, tutte sono, meno che rassicuranti.  La moglie di Biden, Jill, disse all’epoca che “Il nostro medico ci ha detto che c’era il 50% di possibilità al che Joe non sarebbe sopravvissuto all’operazione. Il medico ha anche detto che era ancora più probabile che Joe avrebbe avuto danni permanenti al cervello se fosse sopravvissuto…” Questo potrebbe spiegare le ripetute gaffe e atteggiamenti compromettenti dei quali Biden ha dato ampio sfoggio negli ultimi trenta anni. Biden è certamente un uomo fortunato ad essere sopravvissuto fino ad ora nonostante una miriade di altri problemi medico/fisici, tra i quali un battito cardiaco irregolare. Fortuna che potrebbe esaurirsi da un momento all’altroIn questo contesto bisognerà porre particolare attenzione alla scelta di chi sara` il suo vicepresidente, quella scelta ci dirà molto su quale reale binario la campagna elettorale di Biden si indirizzerà. E`più che probabile che il vicepresidente di Biden sarà quello/a che finirà la legislatura e avrà quindi il comando della situazione alla casa Bianca.

Bisogna in ogni caso chiarire che Biden non aveva nessuna intenzione di presentarsi alle primarie democratiche del 2020; dopo le elezioni presidenziali del 2016 riteneva ormai concluso il suo ciclo in politica. A quel tempo Biden, vice presidente uscente dell’amministrazione Obama, avrebbe voluto presentarsi alle primarie democratiche con la concreta possibilità non solo di vincere le primarie ma di ottenere senza problemi la presidenza. Biden sarebbe stato un avversario formidabile per Trump poiché avrebbe vinto in molti dei cosiddetti  stati del Rust Belt, quegli stessi stati che hanno consegnato la presidenza a Donald Trump. Biden politicamente parlando è sempre stato visto come un moderato centrista molto vicino alle cause dei colletti blu. Figlio della Pennsylvania, vicino ai movimenti sindacali, Biden avrebbe vinto senza problemi proprio in quegli stati che la Clinton non si è neanche degnata di visitare. Biden fu costretto a farsi da parte per non ostacolare la corsa della Clinton, poiché la avrebbe di sicuro relegata a un ruolo secondario, senza se e senza ma. La presidenza del 2016 era stata promessa alla Clinton; era il suo turno e nessuno poteva opporsi alla sua potenza e richiesta di lasciapassare. La scusa per giustificare la messa da parte di Biden fu la morte per un tumore al cervello del figlio, Beau Biden, avvenuta qualche mese prima delle primarie Democratiche. Biden e la sua famiglia non sono nuovi a tragedie simili. Nel Dicembre del 1972, la prima moglie di Biden, Neilla Hunter e la figlia di un anno, Naomi, rimasero uccise in un incidente automobilistico mentre facevano lo shopping natalizio a Hockessin, nel Delaware. I due figli maschi che erano nella macchina con la madre e la sorellina rimasero feriti non gravemente. A quell’epoca Biden era stato appena eletto al Senato e fu incoraggiato a continuare la sua carriera politica nonostante la tragedia personale e famigliare.

Fonti vicino alla famiglia hanno sempre sostenuto che zio Joe avrebbe espresso il desiderio di presentarsi alle primarie del 2016 ma fu sempre scoraggiato dai vertici del partito Democratico. Per bocca dello stesso Biden, il figlio morente avrebbe chiesto al padre di presentarsi alle elezioni del 2016. Ora quegli stessi vertici democratici presi dallo scoramento emotivo nel vedere Bernie Sanders in testa ai sondaggi, hanno supplicato Biden di salvare il salvabile e presentarsi alle primarie del 2020.  Un grido di aiuto arrivato anche dai Mass Media, dall’Establishment repubblicano e da molti dei componenti dello stato ombra. Biden come cura contro il Trumpismo e il Sanderismo, l’ultima speranza di salvare il salvabile e rinsaldare una struttura composta da capitalismo sfrenato, complesso della macchina militare, establishment politico e stato ombra che vedono in Trump e nel cambiamento politico in atto nel partito democratico i nemici principali e mortali.  Quello stesso Biden che era stato confinato, relegato al ruolo comprimario prima con Obama e poi con Hillary Clinton è ora diventato il salvatore della patria. Il problema però è che ormai, come ho detto prima, il partito democratico di Biden è in via di estinzione. L’ostacolo maggiore per Biden non è superare Trump e vincere le prossime presidenziali bensì vincere le primarie democratiche ed aver la meglio sugli altri candidati democratici.

La disperazione dell’establishment politico si rivela nella volontà di voler Joe Biden candidato a tutti i costi. Lo stesso Biden ha dichiarato che molti esponenti dei poteri forti, inclusi alcuni leaders politici mondiali (sarei curioso di sapere chi siano questi leaders mondiali) lo avrebbero supplicato di presentarsi alle presidenziali del 2020. Non sono mancate dichiarazioni di sostegno da entrambe gli schieramenti politici; per esempio dalla famiglia di John Mccain la quale avrebbe sostenuto che alle presidenziali, in un’ipotetica corsa Biden contro Trump, loro avrebbero votato sicuramente per Biden. Questo ardente desiderio di voler Biden, candidato a tutti i costi, si scontra con le molte ombre che affliggono il vecchio zio Joe. Obama per esempio è rimasto muto all’annuncio di Biden di rendere ufficiale la sua candidatura alle presidenziali, cosa alquanto strana. Di solito un presidente uscente sostiene il suo vice presidente come candidato a succedergli più che altro per ragioni di eredità politica. Un presidente uscente vede benevolmente la candidatura del suo vicepresidente come una opportunità di continuare a costruire e consolidare il retaggio amministrativo del presidente uscente. Stranamente, sia nel 2016, sia ora Obama su Biden è rimasto in silenzio. Cosa sa Obama di Biden? Il silenzio e il mancato supporto di Obama e solo dovuto ad una diversità di opinione politica oppure dietro questo silenzio si nasconde qualcosa  di più sinistro? Biden nel giorno dell’annuncio della sua candidatura ufficiale ha dichiarato che avrebbe detto lui stesso ad Obama di non sostenerlo ufficialmente durante le primarie. Questa dichiarazione di Biden non è assolutamente credibile e porta a speculare sui motivi del mancato sostegno di Obama.

Biden era già stato candidato alla presidenza in due precedenti tornate elettorali; nel 1988 e nel 2008. Nel 1988 dovette scusarsi e abbandonare la corsa presidenziale per accuse di plagio e per aver mentito sul suo curriculum accademico. Le bugie e le gaffe verbali di zio Joe sono apertamente ben note nei circoli di Washington.

Joe Biden ha sempre affermato che nel 1972, la responsabilità del tragico incidente stradale in cui persero la vita la sua prima moglie e sua figlia, era dell’autista del camion ubriaco. Accusa sempre smentita dalla polizia e dai documenti che affermano al contrario che purtroppo l’incidente fu causato da una manovra maldestra della moglie. La famiglia del camionista coinvolto nel tragico incidente, Curtis C. Dunn, ha sempre respinto le accuse di Joe Biden e  ha  sempre manifestato l’angoscia che pervade la famiglia per la continua menzogna perpetrata da Biden ai loro danni. Pamela Hamill, una delle figlie, ha  chiesto più volte a Biden di smetterla di infangare la memoria del suo defunto padre, scomparso nel 1999 e quindi non più in grado di difendersi. Dunn era il conducente del camion a rimorchio coinvolto nell’incidente del dicembre 1972. Secondo il giudice della Corte Suprema del Delaware, Jerome O. Herlihy, che ha supervisionato le indagini della polizia come procuratore capo, non ci sono prove a sostegno della accusa di Biden: “Le voci sulla guida in stato di ebbrezza come fattore di corresponsabilità, in particolare per il camionista (Dunn), non sono corrette.” La polizia ha stabilito che la prima moglie di Biden aveva tagliato involontariamente la strada al camion, senza accorgersi del suo arrivo. Nonostante il tentativo di Dunn di evitare la collisione, nella sterzata per evitare una collisione,  il mezzo si è rovesciato distruggendo la macchina dei Biden. Dunn fu il primo a fornire assistenza, una scena che ha lasciato un segno indelebile per il resto della vita di Dunn fino alla sua morte.

Ci sono altre ombre nel passato e presente di zio Joe; le ha sommarizzate bene l’altro nostro vecchio indipendente, esponente di spicco di questa pazza stagione della politica  americana, Bernie Sanders: “Il popolo americano è stanco di sentire parlare del nepotismo, del vezzeggiare, del plagio, della corruzione in Ucraina, della corruzione nelle Isole Vergini, del tentativo di colpo di stato contro il presidente Trump, del mentire sulla morte di sua moglie, dell’installare un governo mondiale aprendo i confini degli Stati Uniti.” Infatti una degli aspetti più ombrosi di Biden è la partecipazione attiva dell’altro figlio, Hunter Biden, negli affari loschi del governo Ucraino di Poroshenko e nel ruolo attivo che Biden e i suoi associati hanno probabilmente avuto nella costruzione del Russiagate.

Strana famiglia quella dei Biden; ricorda molto quella dei Kennedy. Una famiglia attraversata da tragedie e controversie, incluso la scioccante relazione di Hunter Biden, che nel 2017 avrebbe divorziato da sua moglie Kathleen Buhle, madre dei suoi tre figli, per mettersi insiema alla cognata, la vedova del fratello Beau, Hallie Olivere. La stessa Buhle ha accusato più volte Hunter di essere un cocainomane e giocatore d’azzardo.

Zio Joe in tempi normali avrebbe potuto essere il candidato principale dei Democratici. In tempi normali Biden avrebbe un percorso relativamente facile per la nomina. Ma questi non sono tempi normali e Joe Biden non è un candidato normale. Per zio Joe si prospettano delle primarie ostiche nel Partito Democratico. Dovrà correre inventandosi una nuova formula politica, denunciando e negando tutto ciò che è stato nel passato; tutto da capo per cercare di adeguarsi al volo a questo nuovo spirito che aleggia nel partito democratico.

Biden nel video della presentazione alla sua candidatura ha dichiarato che “Se diamo a Donald Trump otto anni alla Casa Bianca, cambierà per sempre e fondamentalmente il carattere di questa nazione e non posso quindi restare a guardare e assistere che ciò accada… ” Bisognerà vedere se il nuovo partito democratico, avverso al vecchio uomo bianco, rappresentante del decadente establishment politico americano, gli offrirà la possibilità di fermare Donald Trump. Io ho piu` di qualche dubbio su questo…

 

Introduzione a geopolitica e Internet Di  Laurent BLOCH

Introduzione a geopolitica e Internet

Di  Laurent BLOCH , 23 marzo 2017  Stampa l'articolo  lettura ottimizzata  Scarica l'articolo in formato PDF

Precedentemente responsabile dell’informatica scientifica presso l’Institut Pasteur, direttore del sistema informativo dell’Università Paris-Dauphine. È autore di numerosi libri sui sistemi di informazione e sulla loro sicurezza. Si dedica alla ricerca nella cyberstrategia. Autore di “Internet, vettore di potenza degli Stati Uniti”, ed. Diploweb 2017.

Internet è un fattore di potenza degli Stati Uniti? Se sì, come? Perché? fino a quando? Lo scopo di questo libro è di fornire alcune risposte a queste domande.

Laurent Bloch presenta in questa introduzione il suo approccio e il suo piano.

Diploweb.com , pubblica questo libro di Laurent Bloch, Internet, vettore del potere degli Stati Uniti?; fornisce a tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della situazione. Questo libro è già disponibile su Amazon in formato digitale Kindle e in formato cartaceo stampato . Sarà pubblicato qui in serie, capitolo per capitolo, ad una velocità di circa uno per trimestre.

introduzione

Internet è un fattore di potenza degli Stati Uniti? Se sì, come? Perché? fino a quando?

Lo scopo di questo libro è di fornire alcune risposte a queste domande.

Il primo capitolo ricorda brevemente il processo di creazione di Internet , non come spesso si legge per scopi militari, ma attraverso finanziamenti militari statunitensi, e in gran parte da cittadini statunitensi, nonostante importanti contributi europei come French Louis Pouzin  [ 1 ] . Il fatto di essere gli inventori di Internet ha dato agli Stati Uniti un’egemonia in quest’area. Sarebbe irragionevole aspettarsi che desistessero di propria iniziativa.

Il secondo capitolo specifica precisamente la natura di questo dominio che è Internet e introduce a questo scopo la nozione di cyberspazio , a cui verrà data una definizione e un modello operativo. Il cyberspazio sarà paragonato ad altri spazi pubblici globali (Global Commons) come l’alto mare, lo spazio aereo e lo spazio esterno. Come si esercita l’egemonia nel cyberspazio? Come si muovono gli Stati Uniti e le aziende statunitensi? Perché ora nel cyberspazio viene decisa l’attribuzione dell’egemonia globale?

Le polemiche sulla corsa alle elezioni presidenziali americane del 2016 hanno suggerito che la Russia sarebbe in grado di sfidare il dominio degli Stati Uniti sul cyberspazio: vedremo che non è così, anche supponendo che la Russia sia stata in grado di trarre vantaggio abilmente delle sue abilità in un approccio classico da debole a forte. Se l’egemonia americana nel cyberspazio è effettivamente soggetta a sfide, vengono piuttosto dall’Asia orientale, così come le debolezze interne della società americana, incluso il suo sistema educativo (vedi capitolo 7).


Un libro pubblicato da Diploweb.com, Kindle e formato tascabile


Il capitolo 3 analizza il funzionamento delle istituzioni di fatto che regolano il funzionamento di Internet e la posizione dominante degli americani. Capitolo 4 è dedicato alle grandi dati (Big Data) e il suo utilizzo da parte delle imprese (quasi tutti americani) per aumentare il loro potere . Il capitolo 5 esamina gli aspetti legali degli equilibri di potere nel cyberspazio . Nessuna egemonia politico-militare duratura è possibile senza egemonia culturale: questo è il tema del capitolo 6 sull’egemonia culturale nel cyberspazio . In un universo economico dove avere ricercatori e ingegneri di alto livello è un fattore di successo cruciale,il sistema educativo , che è l’argomento del capitolo 7, ha un ruolo decisivo.

Per comprendere le lotte di potere nel cyberspazio è necessario collocarle nel loro contesto storico, e per far ciò tornare alla guerra economica che ha contrapposto il Giappone agli Stati Uniti negli anni ’70 e ’80 , riassunto nel capitolo 8 Cercheremo di estrapolare le lezioni di questo conflitto all’ipotesi di conflitti sino-americani e russo-americani nel futuro (anche nel presente!).

Nel cyberspazio, come in altri spazi, le questioni topografiche hanno una grande influenza sull’esito delle battaglie, e nel Capitolo 9 esamineremo le ragioni che fanno di una posizione centrale una risorsa decisiva nel cyberspazio; questa posizione è occupata oggi dagli Stati Uniti .

Per comprendere tutti gli eventi che avvengono nel cyberspazio, oggi a vantaggio degli Stati Uniti, è necessario collocarli nel contesto di una rivoluzione industriale in atto dalla metà degli anni ’70, che mette il calcolo e Internet nel cuore del sistema industriale contemporaneo, al posto dell’elettricità industriale e del motore a combustione interna che dominava la grande industria del secolo precedente. Per fare luce sul nostro argomento, abbiamo aggiunto al nostro testo un allegato A che spiega brevemente la nozione della rivoluzione industriale e come si applica al nostro oggetto.

Molti aspetti dell’equilibrio di potere descritti nelle linee seguenti sono difficili da capire se non abbiamo un’idea abbastanza precisa degli aspetti materiali del cyberspazio, l’enorme quantità di investimenti da fare per occupare una posizione di potere. , la pesantezza dell’infrastruttura di Internet. Queste realtà devono essere lette, che è l’argomento dell’Appendice B, per capire che il cyberspazio non è solo uno spazio “virtuale” .

1 ]  Louis Pouzin, ingegnere e ricercatore francese, ha inventato alcuni importanti artefatti ancora in uso nell’informatica contemporanea: la shell per comunicare con un sistema operativo, e specialmente il datagramma, descritto nel primo capitolo di questo libro, concetto base rivoluzionaria del funzionamento di Internet

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