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Immaginate la scena, se volete. Il Reichstag brulicante di eccitazione e addobbato di bandiere, i funzionari del Partito in uniforme marrone che cercano di intravedere il loro leader. Un piccolo uomo con i baffi sale sul podio e la piazza esplode: Heil Shicklgruber! Heil Shicklgruber!.
Naturalmente poteva essere così. Non sapremo mai con esattezza cosa spinse Alois Shicklgruber a cambiare il suo nome di famiglia nel 1877, tranne che sembra avere a che fare con la successione delle proprietà. Avrebbe potuto scegliere il più difficile Hiedler, o forse altri nomi di famiglia. Così oggi potremmo avere stanze piene di libri sulla vita e la malvagità di Winifried Schicklgruber o Hans-Joachim Nepomuk.
O forse no. Il più fervente materialista/razionalista ammetterà che i nomi hanno effetti su di noi. Hollywood sapeva benissimo cosa stava facendo cambiando il nome di Roy Scherer in Rock Hudson, o Norma Jeane Mortensen in Marilyn Monroe. Nello stesso spirito, Ivo Livi ha cambiato il suo nome in Yves Montand, così come Declan MacManus è diventato Elvis Costello.
Banale, direte voi? Beh, la Seconda Guerra Mondiale non è iniziata solo per un nome di famiglia, certo, ma userò questo esempio volutamente banale come caso estremo dell’argomento di questa settimana: la terrificante contingenza della storia e degli eventi contemporanei e le strategie che usiamo per cercare di portare una parvenza di ordine dal caos ambientale. Alcune di queste strategie sono ragionevoli e necessarie, altre sono più dubbie e altre ancora sono del tutto disoneste. Tutte hanno origine in diverse modalità letterarie, ma a questo punto ci arriveremo più avanti.
Che la storia sia in realtà molto contingente è generalmente accettato. È sufficiente ricordare che Napoleone Buonaparte nacque appena un anno dopo che i francesi avevano preso il controllo della Corsica dai genovesi e, sebbene la Corsica non fosse diventata parte della Francia vera e propria fino al 1789, poté comunque arruolarsi nell’esercito francese. (Per tutta la vita parlò il francese imparato da bambino con accento italiano e, a quanto pare, la sua ortografia era pessima). Inoltre, Stalin proveniva dai margini esterni e recentemente acquisiti dell’Impero russo, per breve tempo ancora uno Stato indipendente prima dell’ingresso dell’Armata Rossa nel 1921).
Quando si legge la storia con attenzione, i “e se” diventano quasi paralizzanti. Dopo tutto, il caporale Hitler è riuscito a sopravvivere alla Prima guerra mondiale: molti dei suoi compagni non ce l’hanno fatta. E quanti altri potenziali leader nazionali, dittatori e presunti salvatori dei loro popoli sono morti in trincea? È impossibile saperlo. Andate a Sarajevo e qualcuno vi porterà sul ponte indistinto dove fu sparato l’arciduca Ferdinando nel 1914: leggete l’incidente e sembra che Ferdinando – che era già sopravvissuto a un attentato quel giorno – fosse davvero determinato a farsi uccidere.
E così via. Se i tedeschi non avessero mandato Lenin alla stazione di Finlandia con il famoso treno sigillato? Se, più recentemente, i francesi non avessero accettato di ospitare l’ayatollah Khomeini in Francia per qualche mese, prima di rispedirlo con grande pubblicità nel bel mezzo della rivoluzione iraniana?
A volte, le piccole decisioni fanno scorrere le generazioni. L’amarezza suscitata dalla guerra boera rese molto controversa la decisione del governo sudafricano di permettere ai volontari di combattere a fianco degli inglesi nella Seconda Guerra Mondiale. In effetti, si attribuisce a questa decisione il merito di aver permesso al Partito Nazionalista di entrare in carica nel 1948, di cacciare l’establishment anglofono dal potere e di introdurre il sistema dell’apartheid. Ma, al contrario, molti di quei volontari erano membri del Partito Comunista, in seguito bandito dal governo, che fornirono l’addestramento alle armi per l’ala militare dell’ANC e successivamente costituirono una buona parte della leadership. Strana cosa, la storia.
C’è, ovviamente, un’intera industria della storia controfattuale, sia di fantasia che non, che si diverte con storie alternative e con i futuri a cui avrebbero potuto dare origine. In molti casi, non si tratta altro che di “ipotizzare un miracolo”, con la vittoria del Sud nella guerra civile o dei tedeschi nella seconda guerra mondiale. Gran parte di queste storie è a scopo di intrattenimento, ma in alcuni casi, come nel classico di Philip K. Dick L’uomo nell’alto castello, si sta facendo un’importante riflessione filosofica su ciò che è reale e ciò che non lo è, e se possiamo conoscere la differenza.
Ma anche a prescindere da questo, è un dato di fatto che la storia avrebbe potuto svilupparsi molto facilmente in modi molto diversi da quelli che conosciamo. Il biologo Stephen Jay Gould ha notoriamente sostenuto che l’effettiva evoluzione della vita sulla Terra è stata così contingente che se potessimo tornare indietro di centinaia di milioni di anni e rieseguire l’evoluzione, la vita di oggi avrebbe un aspetto totalmente diverso. Lo stesso vale per la storia. In L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, un personaggio minore chiamato Brigadiere Pudding sta cercando di scrivere un libro intitolato Cose che potrebbero accadere nella storia europea, che inizia subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Ma naturalmente non ha ancora finito il primo capitolo che già si sono verificati eventi che non aveva previsto, per cui è costretto a ricominciare tutto da capo. Questo è un modo in cui il romanzo sovverte sottilmente i deliri paranoici del suo apparente narratore (o dei suoi narratori), le fantasie sempre più diffuse di dominio del mondo da parte di misteriosi cartelli, banche e cospirazioni finanziarie internazionali. Se il romanzo è, tra le altre cose, una satira rumorosa sulla mentalità cospiratoria che esige che assolutamente tutto debba essere collegato (“Vorrai causa ed effetto” sospira Pynchon a un certo punto “molto bene”.”), ritrae anche molto chiaramente il terrore esistenziale provato dai suoi personaggi in un mondo senza senso, dove ogni presunta causa ed effetto è meglio di niente.
Ma anche se la storia non è preordinata e controllata da misteriose cabine, e anche se alcuni elementi della storia, come sostiene Thompson, sonocompatibili con l’analisi materialista condotta su base empirica, cosa dobbiamo fare di questi eventi ostinati che accadono di continuo, spesso inaspettatamente, e sono difficili da inserire in strutture preesistenti?.
Mi permetto di suggerire una tipologia molto semplice che traggo dalla mia esperienza personale di crisi politica e che propongo di estendere agli esempi storici. Si potrebbe descrivere come la differenza tra il Cosa e il Quando, tra la dinamica di fondo di una crisi e il momento in cui accade qualcosa di eclatante che attira l’attenzione della politica e dei media. Come ho sottolineato molte volte, l’Occidente è molto bravo a farsi “sorprendere” da eventi che “nessuno si aspettava”. Gran parte di questa sorpresa deriva da una confusione tra il Cosa e il Quando: in altre parole, quello che è successo era molto probabile, se non inevitabile, in un certo modo e in un certo momento, ma non era possibile prevederne l’esatta tempistica e natura. (Possiamo paragonare questo alla distinzione di Thompson tra cause necessarie e sufficienti nella descrizione degli eventi storici). Ci sono molti esempi solo negli ultimi anni: la presa di potere dei Talebani in Afghanistan, le guerre civili in Etiopia e in Sudan, la caduta della Casa di Assad, la guerra israeliana a Gaza, erano tutti prevedibili nel senso che gli ingredienti erano tutti al loro posto, era una questione di quando. A livello nazionale, l’ascesa della cosiddetta “estrema destra” e la popolarità dei cosiddetti leader “autoritari” sono il risultato di sviluppi che sono stati ampiamente trattati e sui quali non c’è alcun mistero. Ma la nostra attuale classe politica, e la Casta Professionale e Manageriale (PMC) che la serve, hanno la capacità di attenzione di un moscerino e la curiosità intellettuale di un ravanello, per cui non sono in grado di riflettere a fondo sugli eventi contemporanei, né sono inclini ad ascoltare gli avvertimenti di coloro che lo fanno. Il risultato è che, non conoscendo le tendenze di fondo, sono sorpresi dalla natura e dalla tempistica spesso inaspettata di incidenti che erano prevedibili nei contorni ma non nei dettagli.
Gli specialisti sapevano quindi che la posizione del regime di Assad in Siria era precaria. La vittoria del regime nella guerra civile non era stata sfruttata politicamente per liberalizzare il sistema politico o per allentare il ferreo controllo di Assad sul Paese. Le sanzioni stavano continuando ad avere effetto. L’occupazione curda dei giacimenti petroliferi stava interrompendo un’importante fonte di entrate. La produzione e il contrabbando di Captagon, una potente anfetamina molto richiesta negli Stati del Golfo e che aveva contribuito a compensare la perdita di introiti petroliferi, erano stati intercettati dagli Stati Uniti e dall’esercito libanese, con il risultato che l’Esercito arabo siriano veniva pagato a malapena e il suo morale era ai minimi termini.
Ma tale precarietà può durare a lungo, come una casa traballante in assenza di un forte vento. Quando e come erano domande molto indecise. Ma pochi si sarebbero aspettati che la caduta di Assad derivasse in ultima analisi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. La risposta iraniana, attraverso Hezbollah, ha portato a un conflitto totale in cui Hezbollah è stato duramente colpito e costretto a ritirare molte delle sue truppe in Libano. Vedendo la mancanza di sostegno iraniano e per procura, l’HTS ha lanciato un attacco opportunistico che ha portato alla disintegrazione dell’SAA e alla fine del regime. (Il punto è che, pur sapendo che il regime era fragile, nessuno avrebbe potuto ragionevolmente prevedere, nell’ottobre 2023, cosa sarebbe successo poco più di un anno dopo, e soprattutto quando.
Gli storici sono consapevoli di questa distinzione, naturalmente. L’esempio classico è quello della Prima Guerra Mondiale, che non aspettava altro che di scoppiare, viste le tensioni politiche dell’Europa dell’epoca e la diffusa convinzione che la maggior parte di esse potesse essere risolta solo con la guerra. Se la causa immediata era l’ossessione austriaca di creare un motivo per attaccare la Serbia, c’erano anche tutta una serie di altre opportunità di conflitto. Una guerra (non necessariamente la guerra come la conosciamo) era altamente probabile, ma sarebbe potuta accadere prima o dopo e il cast sarebbe stato diverso. In tempi più recenti, gli esperti sapevano che la posizione dello Scià dell’Iran nel 1978 era molto più debole di quanto sembrasse e che gli islamisti erano forti, ma il momento della sua caduta, il momento e il luogo della sua decisione di andare in esilio, i punti di forza delle varie forze in lotta per il potere, il ritorno dell’ayatollah Khomeini, le tattiche adottate dagli islamisti e l’eventuale proclamazione della Repubblica islamica erano tutti sviluppi altamente contingenti.
Questa distinzione tra sfondo e primo piano, tra il ragionevolmente prevedibile e il largamente contingente, si applica tanto alle conseguenze (di solito “inaspettate”) dei grandi eventi quanto alle loro cause. Così, le politiche occidentali di “stabilizzazione” dei Balcani degli ultimi trent’anni hanno avuto l’effetto involontario di consegnare la criminalità organizzata in Europa alle mafie della regione. Una mossa intelligente. Inoltre, hanno dato il via a conseguenze che “nessuno aveva previsto”, quando l’UCK ha dichiarato l’indipendenza del Kosovo (cosa che l’Occidente aveva detto essere inaccettabile) e ora, naturalmente, si trova ad affrontare un’elezione difficile questa settimana perché la minoranza serba si sente perseguitata. Tutto ciò, ovviamente, era del tutto inaspettato.
Quindi, se torniamo per un attimo alla Siria, possiamo vedere una catena di conseguenze. La caduta della Casa di Assad è stata un duro colpo per l’Iran e per la sua politica dell’Asse della Resistenza. Insieme alle perdite subite e alla forzata rinuncia agli attacchi contro Israele, ha ridotto radicalmente la forza politica interna di Hezbollah e ha sbloccato il blocco politico degli ultimi anni. Con l’Iran e gli Hezbollah ora pronti ad accettare sia l’elezione di un Presidente che la nomina di un Primo Ministro, queste due cose sono avvenute molto rapidamente e ora è stato formato un nuovo governo. La combinazione di un Presidente severo e senza fronzoli, che molto pubblicamente non voleva nemmeno l’incarico, e di un Primo Ministro riformista proveniente da un ambiente estraneo alla politica libanese quotidiana, insieme al rinnovato interesse dell’Arabia Saudita, ha portato al più blando ottimismo sul fatto che le cose potrebbero davvero smettere di peggiorare in quel povero Paese. Ma non è solo che nessuno avrebbe potuto prevedere questo risultato un anno fa o giù di lì, è anche che tali risultati sono così contingenti che non vale nemmeno la pena di provarci.
Se da un lato trovo che questa distinzione tra lo sfondo e il dettaglio, il ragionevolmente prevedibile e l’irrimediabilmente contingente, abbia un valore analitico, dall’altro è ovvio che non serve pretendere “i fatti” per esprimere giudizi, poiché i fatti non si allineano come soldati pronti per essere schierati. Quanto più ci si avvicina ai “fatti”, allora, come in un diagramma di Mandelbrot, le sottigliezze si rivelano e sono necessarie più qualifiche, e quando si tratta di interrelazioni tra “fatti”, il problema è geometricamente peggiore.
Perciò, negli ultimi paragrafi, ho dovuto innanzitutto selezionare gli esempi, decidere come descriverli, decidere quali “fatti” includere, decidere quali giudizi era giusto dare e presentare tutto nel modo più onesto possibile. Un’altra persona che avesse fatto più o meno lo stesso ragionamento avrebbe potuto selezionare o enfatizzare “fatti” diversi, mentre ovviamente sarebbe stato possibile presentare molti degli stessi “fatti” sotto una luce negativa, se si fosse stati sostenitori dell’Iran/Hezbollah.
Lo facciamo continuamente nella nostra vita privata, nel decidere quali notizie leggere, a quali credere, cosa dire ad amici e parenti, cosa dire sui social media (se ne abbiamo voglia)… Forse occasionalmente lasciamo commenti su siti Internet. A meno che non facciamo parte di quel gruppo di noiosi che commentano tutto solo per dimostrare quanto sono intelligenti, in genere facciamo commenti su cose che ci interessano o che crediamo di capire, e allora ci troviamo di fronte allo stesso problema: cosa includere, cosa tralasciare, quali giudizi dare.
Se avete mai scritto un’opera sostenuta di storia o di attualità, e ancor più un libro, conoscerete dolorosamente il problema. In teoria, la storia narrativa dovrebbe essere facile: “cosa è successo?”. Ma, nella sua forma più semplice, ogni narrazione deve decidere cosa includere e cosa escludere, e perché, e non ci sono due autori che esprimono lo stesso giudizio. La somma di tali giudizi, a volte su questioni di dettaglio, può produrre due narrazioni il cui contenuto generale può essere lo stesso, ma il cui trattamento dettagliato può essere molto diverso. (Si noti che questo riguarda solo la scelta del contenuto: i due autori possono essere fondamentalmente d’accordo l’uno con l’altro su questioni importanti). L’idea di una storia “neutrale” o “priva di valori” è quindi in definitiva una fantasia, per quanto si cerchi di affrontarla con determinazione. Allo stesso modo, scrivendo degli eventi attuali in Ucraina, alcuni scrittori fanno un gran parlare dell’affermazione russa che il governo di Kiev non è legittimo. Non ne ho parlato, perché penso che sia un problema che ha certamente una soluzione pragmatica e non ostacolerà una soluzione: non è quindi abbastanza importante.
Questo ci porta alla seconda parte di questo saggio. In una misura che sarebbe apparsa impensabile ai tempi in cui scrivevo per la prima volta di storia e di attualità, oggi siamo i beneficiari di una quantità di scritti di ogni genere su ogni argomento e da ogni punto di vista immaginabile. In teoria, questo dovrebbe essere un bene: in pratica, il paradosso della scelta colpisce ancora. Scoprire semplicemente cose di qualità da leggere, annotarle e ricordarle, organizzarle in una qualche forma e recuperarle richiede molto lavoro. Quando si ottengono nuovi abbonati su Substack, il sito ci dice a quali altri Substack sono abbonati. In alcuni casi, i miei nuovi abbonati hanno già altri sessanta o settanta abbonamenti. Se sono seri e leggono un articolo alla settimana con i commenti di ogni sito, ciò significa forse 12-15 ore alla settimana dedicate solo a questa attività, il che mi sembra un po’ eccessivo. E questo si aggiunge al tempo che le persone passano a spulciare senza sosta in Internet, seguendo link e raccomandazioni, cercando di trovare qualcosa che valga davvero la pena di leggere.
Era meglio prima? Beh, al giorno d’oggi non ci sono barriere all’ingresso e non c’è bisogno di qualifiche. In sostanza, chiunque può scrivere di qualsiasi cosa e sperare di attirare un pubblico. È importante? In linea di principio, non dovrebbe, perché si può lasciare che un migliaio di siti Internet fioriscano, eccetera, ma in pratica credo che lo faccia, perché consente una forma di micro-targeting consensuale, in cui i lettori trovano siti che riproducono le loro opinioni, e i proprietari dei siti si assicurano che tali opinioni siano debitamente riprese. Spesso c’è una componente finanziaria in tutto questo, come pagare un busker per cantare una canzone per voi.
“Sai che gli Stati Uniti sono responsabili dello spargimento di sangue nella RDC?”.
“Sì, è nel mio repertorio. Sono cinque dollari, per favore”.
Non ho la presunzione di istruire i lettori su quali siti frequentare e quali evitare, e comunque molto dipende dai vostri gusti. ma penso che potrebbe essere utile dire una parola ora sui generici approcci dei diversi siti e dei diversi scrittori, perché possono variare selvaggiamente, e non è sempre ovvio cosa stanno facendo. Gli opinionisti di Internet e di altri settori, forse non abituati a scrivere in forma lunga su eventi contemporanei e recenti, rientrano per lo più in uno dei tre tipi di struttura tradizionale, senza rendersene conto. (Per quanto mi piaccia scrivere di letteratura, la descrizione dei tipi di struttura sarà molto breve).
La prima possiamo semplicemente definirla tradizionale. Qui c’è un narratore, un raccontatore di storie, che conosce il passato, il presente e il futuro, che commenta l’azione e che sa cose sui personaggi che essi stessi non sanno. Questo stile di scrittura (ancora presente, soprattutto nella narrativa popolare) fa sì che alla fine di un romanzo come Middlemarch, il lettore sappia effettivamente tutto quello che c’è da sapere sui personaggi e sul loro eventuale destino dopo la fine della storia vera e propria. I personaggi vengono descritti, compresa la loro vita interiore, piuttosto che definirsi in base alle loro azioni. L’autore è dappertutto, per sciogliere i nodi della trama e lasciarci con la sensazione che la vita sia, in effetti, un insieme razionale, dove causa ed effetto hanno un senso. Dumas, in un certo senso la caricatura stessa del romanziere del XIX secolo, non ci fa mai dimenticare che stiamo leggendo una storia (“Ora, dove abbiamo lasciato Aramis?…”).
Questo è abbastanza corretto per la letteratura, ma è molto più discutibile quando applichiamo lo stesso approccio alla storia, per non parlare degli eventi attuali. È possibile riconoscerne i segni quando gli autori emettono giudizi generalizzati basati su poche prove, ma sulla convinzione di aver compreso, in qualche modo gnostico, i significati più profondi delle cose. Mi sono imbattuto per la prima volta in questo modo di pensare durante la Guerra Fredda, quando gran parte della generazione dei miei genitori, e i giornali che leggevano, vedevano la mano di Mosca ovunque in ogni evento spiacevole. Tutti questi eventi inspiegabili e potenzialmente spaventosi e scollegati in tutto il mondo potevano essere razionalizzati e compresi se solo si accettava che dietro di essi ci fosse Mosca. E in effetti, sono stati scritti numerosi libri, con una trama identica a quella dei romanzi del XIX secolo, che fornivano una narrazione coerente della minaccia rossa (oggi i nomi sono cambiati, ma questa modalità di scrittura è ancora popolare). (Oggi i nomi sono cambiati, ma questa modalità di scrittura è ancora popolare).
Al limite, questo approccio presume di psicanalizzare personaggi del passato o del presente, penetrando nei loro pensieri più intimi. È stato meritatamente deriso (“Cosa avrà pensato Napoleone mentre guardava il mare da Sant’Elena quella mattina di Capodanno del 1816? Sicuramente…”) Sicuramente non potremo mai saperlo, e sarebbe inutile fare congetture. Ma, ignorando la famosa ingiunzione di Wittgenstein nell’ultima tesi del suo Tractatus (“se non hai nulla di interessante e utile da dire, STFU”- traduzione mia), il web è pieno di persone che affermano con sicurezza di sapere “cosa pensa Putin”, chi comanda davvero a Washington, quali sono i veri piani di Netanyahu, e così via, senza alcuna indicazione di avere un’idea di ciò di cui stanno parlando. Non ho idea di cosa pensi Putin, e non pretendo di averla.
Questo modo di pensare porta alla maledizione della Geopolitica, che a mio avviso non è affatto una disciplina, anche se alcuni sostengono di praticarla. Un geopolitico si riconosce tanto dai suoi riferimenti ossessivi a Stati e attori “filo-occidentali”, “filo-russi” o “allineati alla Cina”, quanto dalla sua mancanza di curiosità per la situazione reale sul terreno e per ciò che vogliono gli attori locali. Questo modo di pensare, che ironicamente ha le sue origini nella letteratura popolare dell’epoca imperialista (“Scramble for Africa”, “Great Game”), insiste sul fatto che tutto ciò che accade nel mondo riguarda noi, i nostri interessi e i nostri nemici. Gli abitanti del luogo sono solo attori secondari. Questo ha ovviamente il vantaggio di facilitare l’analisi. Non è necessario conoscere alcunché sulle dinamiche di una crisi, basta guardare cosa stanno facendo i principali Stati del mondo e magari consultare rapidamente alcuni dati economici. In mezz’ora ci si può trasformare da opinionisti sull’Ucraina a opinionisti su Gaza, Sudan o Myanmar. Ma vende.
Il movimento culturale che seguì il narratore onnisciente fu il modernismo, poiché prima l’industrializzazione e la secolarizzazione, poi Freud e soprattutto la Prima guerra mondiale resero sempre più problematica la posa divina e il funzionamento ordinato di causa ed effetto. La scrittura modernista era essenzialmente soggettiva e frammentata, ed evitava le grandi dichiarazioni e i grandi progetti: James Joyce, naturalmente, ma anche Virginia Woolf, Rilke, Kafka, Pirandello e, emblematicamente, la poesia di TS Eliot, che notoriamente riusciva a collegare “il nulla con il nulla”. È interessante notare che questo approccio si è riversato sulla scrittura di entrambe le guerre principali: tutta la letteratura di guerra di spicco è modernista, frammentata e in parte autobiografica, da Goodbye to All That a Catch-22. (Non esiste un equivalente occidentale dell’epopea di Grossman Life and Fate, per esempio). E la saggistica popolare sulle Guerre, e persino gli studi accademici, hanno infine seguito lo stesso modello frammentario e personale, trattando sempre più spesso di eventi decontestualizzati su piccola scala. Oggi, a ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’immagine che se ne ha è quella di un insieme sconnesso e quasi casuale di incidenti, la maggior parte dei quali sono atrocità di un tipo o di un altro.
Sin dai combattimenti nell’ex Jugoslavia, questa è stata la tecnica di base con cui i media hanno affrontato la complessità e la contingenza: ignorarla, a favore di storie decontestualizzate di “interesse umano”, spesso scritte da una posizione di superiorità morale. In effetti, il solo fatto di voler discutere del contesto più ampio viene spesso liquidato come una “scusa” per qualsiasi gruppo politico o nazione sia attualmente in disgrazia. Il narcisismo insito nel modernismo (Joyce che passa diciassette anni a scrivere un libro che solo lui può davvero capire, poeti come Lowell e Plath che scrivono solo di quanto si sentano infelici) è l’antecedente di molti commenti politici moderni, che oggi sono in gran parte incentrati sul “cosa provo per questa situazione”, piuttosto che su un serio tentativo di illuminare o di produrre un’argomentazione coerente. Alla fine del 2023, ho iniziato (ma non ho finito) di leggere un certo numero di saggi strappalacrime di sionisti di una vita che descrivevano le agonie mentali che stavano vivendo: come hai potuto farmi questo, Oh Israele? E naturalmente c’è un modello di business molto popolare su Internet che potrebbe essere descritto come “Non so nulla dell’argomento, ma ho forti sentimenti riguardo a ciò che leggo su Internet e sono abile nell’esprimere i miei sentimenti in una prosa rabbiosa e violenta, quindi per favore mandatemi dei soldi”.
Il modernismo alla fine si è scontrato con un muro di mattoni, per ragioni che saranno evidenti. Se i suoi autori erano ancora preoccupati per la frammentazione del mondo, i loro successori, generalmente chiamati postmodernisti, la celebravano attivamente e ritraevano un mondo di caos in cui il significato era intrinsecamente assente, in opere autoreferenziali, giocose e piene di parodia, e spesso senza alcun tentativo di essere credibili. Autori come Pynchon e Nabokov, Borges, Beckett, John Barth e Umberto Eco, i realisti magici dell’America Latina sono rappresentativi. Tuttavia, l’influenza della letteratura postmoderna sulla scrittura politica è stata in realtà molto minore rispetto all’influenza della teoria postmoderna, e di alcune idee culturali marxiste che erano in circolazione nello stesso periodo.
Si può sostenere che hanno fatto più danni i libri che non sono stati letti che quelli che lo sono stati, perché i primi persistono solo in frammenti nella coscienza popolare, come frammenti (ironicamente) decontestualizzati. È vero che Roland Barthes ha scritto un saggio nel 1967, intitolato “La morte dell’autore”. Tutto ciò che Barthes diceva, in termini tipicamente ludici, era che un’opera d’arte non era un cruciverba, da risolvere scoprendo le intenzioni e le influenze dell’autore, e che ogni lettore poteva avere una valida reazione personale a un testo. In realtà non c’è nulla di nuovo in questo: quando mi occupavo di letteratura, una cinquantina di anni fa, venivamo severamente messi in guardia dalla “fallacia intenzionale”. Ma la sorprendente formulazione di Barthes ha portato coloro che non avevano letto il suo saggio a supporre che egli stesse dicendo che il significato previsto di qualsiasi testo è irrilevante, o almeno solo uno dei tanti, il che non è quello che intendeva.
Parimenti, il suo connazionale Jacques Derrida disse in un libro pubblicato nel 1967 che “il n’y a pas d’hors-texte”, una frase gnomica che molti che non avevano letto il libro presero per significare “non c’è nulla tranne il testo”, cioè che lo sfondo e l’intenzione autoriale non avevano nulla a che fare con il significato di un testo, che poteva quindi essere interpretato come un lettore desiderava. In realtà, Derrida protestava che in realtà intendeva il contrario: che è necessario tenere conto di tutti questi fattori, perché sono tutti rappresentati da qualche parte nel testo: in francese, l’hors-texte, è il contenuto di un libro (frontespizio, illustrazioni) che si trova al di fuori del testo principale, ma che, secondo Derrida, deve essere considerato parte di esso.
Se Barthes e Derrida sono stati fraintesi quando hanno parlato di parole, Louis Althusser è stato capito correttamente quando ha parlato di “fatti”, e la sua influenza è stata duratura e quasi completamente distruttiva. Althusser ha scartato ogni forma di conoscenza materiale o “fattuale” (pur rimanendo un membro del Partito Comunista Francese) e ha sostenuto che i “fatti” sono solo “concetti di natura ideologica”. Pertanto, la conoscenza procede da teoria a teoria, non da fatto a fatto. Le teorie vengono testate per verificarne la congruenza con il pensiero marxista (che per definizione è perfetto) e la loro verità viene giudicata di conseguenza. La verità non è quindi una questione di prove, ma di dimostrazione teorica, come nel caso della matematica. E, cosa importante per il nostro scopo, non esiste una “realtà storica”, il passato cambia letteralmente come cambia la teoria. (Non è chiaro se Althusser considerasse l’omicidio di sua moglie e la sua successiva reclusione in un ospedale psichiatrico come “fatti” nel senso banale del termine, o solo come costrutti ideologici).
Althusser fu fortemente attaccato, non solo da Thompson ma anche da altri marxisti dissidenti come Koloakowski, che sostenevano che il suo pensiero fosse a tratti banale, oscuro e semplicemente pieno di errori. Ciononostante, la sua influenza fu enorme negli anni Sessanta e Settanta, non da ultimo nell’élite dell’École normale supérieuredove trascorse la sua carriera professionale. Ma queste idee, come quelle di Barthes e Derrida, sono state entusiasmanti e liberatorie per intere generazioni di studenti e per coloro che hanno successivamente insegnato. In questo mondo marxista-decostruzionista, la Seconda guerra mondiale, ad esempio, non era un “evento” ma una “produzione ideologica”, i cui “eventi” fittizi erano “veri” solo nella misura in cui erano coerenti con la teoria marxista. Allo stesso modo, la Carta delle Nazioni Unite o l’ultima dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti sono solo testi: il significato dei loro redattori è irrilevante e ognuno può interpretarli come vuole.
In alcuni casi, ciò ha prodotto semplicemente un intrattenimento innocuo: Interpretazioni sioniste di Mein Kampf, per esempio, o letture femministe di Moby Dick. Ma queste idee, proliferando in forme sempre più banalizzate, hanno prodotto intere scuole di controstoria e contro-narrazione, sostenute da letture selettive e spesso ridicole di testi le cui origini e intenzioni sono altrimenti ben note. Nel mio piccolo, mi sono abituato a leggere o a sentirmi dire che non sono accaduti eventi di cui sono stato testimone, ma eventi puramente immaginari, che i documenti che ho contribuito a redigere hanno un significato diverso da quello che si supponeva, che le decisioni a cui ero presente non sono mai state prese o che documenti il cui significato semplice è ovvio hanno tuttavia profondità segrete. Ironia della sorte, i postmodernisti (in gran parte inconsapevoli) che proliferano su Intertubes in questi giorni usano questi metodi di decostruzione proprio per costruire una visione del mondo coerente, anche se irrimediabilmente difettosa, che li salvi dai terrori della contingenza.
Morson definisce “prefigurazione” la tecnica con cui gli autori fanno uso di un “tempo chiuso”, in cui il futuro di cui si conosce l’esito determina il presente, poiché il presente deve inevitabilmente condurlo. Ciò è immediatamente rilevante per tutte le storie che precedono grandi eventi, come le Rivoluzioni francese e russa, in cui gli storici inconsciamente ma deterministicamente selezionano ed enfatizzano solo gli eventi che a loro avviso li hanno “preceduti”. È necessario un grande sforzo di volontà per scrivere di ciò che le persone pensavano e facevano quando erano all’oscuro dell’imminenza di un grande evento, come la Seconda guerra mondiale. Nel corso dei decenni ho tentato in diverse occasioni di scrivere e tenere conferenze su ciò che i politici e la gente comune degli anni Trenta pensavano e facevano, e perché. Trovo che questo destabilizzi e preoccupi i lettori e gli ascoltatori, abituati come sono alla presentazione dell’inevitabile, prevedibile marcia degli eventi che portano al 1° settembre 1939, e ai confortanti giudizi morali che ne possono derivare. “Ma non possono veramente averlo pensato!”è la risposta abituale, anche se è abbastanza chiaro che lo hanno fatto. Allo stesso modo, “dovevanosapereche sarebbe successo” (ciò che Morson chiama “backshadowing”), anche se è chiaro che non l’hanno fatto. E naturalmente chiunque abbia assistito a una lezione su Barthes, Derrida o Althusser sa come trovare un’ambiguità o una frase vagante che può da sola ripristinare la narrazione convenzionale, moralmente soddisfacente.
Più in generale, la narrazione del tempo chiuso rafforza la convinzione di vivere in un mondo di esiti inevitabili, dove segni e presagi rivelano il futuro predeterminato per chi ha occhi per vedere. Così, non so quante volte negli ultimi tre anni ho letto che la crisi ucraina “diventerà inevitabilmente nucleare”, come se la crisi avesse una mente e una serie di obiettivi propri, distinti dai molti tentativi contrastanti di influenzarne l’esito. In questo caso, l’esempio di crisi asseritamente “inevitabili”, come quella del 1914, viene elevato al rango di legge storica. Eppure, qualsiasi analisi di eventi recenti, come quelli che ho fornito sopra per la Siria e il Libano, mostra come le presunte conseguenze “inevitabili” (una guerra nucleare con l’Iran, ad esempio) non si siano effettivamente verificate, e al momento non c’è motivo di pensare che lo faranno.
Anche se l’argomentazione di Morson è più complessa di questa, il suo principale modello alternativo alla prefigurazione è quello che lui chiama “sideshadowing”: una narrazione in cui il tempo è aperto e in cui in tutte le fasi si riconosce che sono possibili esiti diversi. Alcuni scrittori, ovviamente, hanno cercato di farlo, non solo i postmoderni, ma anche autori classici come Tolstoj, i cui romanzi, scritti a puntate, erano deliberatamente aperti e presentavano vicoli ciechi, personaggi che scompaiono senza spiegazione, e la deliberata riduzione della causalità, come quando in Guerra e pace un gruppo di personaggi passa per caso davanti a un villaggio chiamato Borodino, senza pensarci..
È difficile scrivere in questo modo come storico: è praticamente impossibile come opinionista istantaneo. Eppure la realtà è che la storia e le crisi contemporanee non si svolgono in un tempo chiuso ma aperto, e la terrificante apertura e contingenza del mondo è un fatto bruto che va riconosciuto, senza lasciarsi sopraffare. Un possibile approccio, che ho utilizzato in questi saggi, è cercare di comprendere il mondo non come un sistema chiuso o una lotta tra poteri misteriosi, ma come l’interazione di una serie di processi politici noti (come esistono processi fisici noti) la cui interazione non determina il futuro, ma può aiutare a comprendere i limiti di ciò che potenzialmente potrebbe essere. E senza dubbio anche voi avrete le vostre idee.
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L’ARTEFICE DELL’IMMAGINARIA COSTELLAZIONE DELL’ITALIA LAICA, IL SUO CONTRADDITTORIO REALISMO POLITICO NELLA FINE DELL’UTOPIA DELL’ITALIA DELLA RAGIONE E DEL PRI COME PARTITO DELLA DEMOCRAZIA NELLA NUOVA EPOCA DELL’ “IMPÉRIALISME EN FORME” INAUGURATA DALLA SECONDA PRESIDENZA TRUMP
Cattedratico, storico, giornalista e, infine, uomo politico che in questa sua ultima dimensione ottenne i massimi risultati venendo eletto nel 1972 senatore nella lista del PRI, nel 1979, dopo la morte di Ugo La Malfa divenendo, carica che ricoprì ininterrottamente fino al 1987, segretario del Partito Repubblicano Italiano, poi dal 28 giugno 1981 al 30 novembre 1982 ricoprendo il ruolo, incaricato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini e primo laico nella storia dell’Italia repubblicana, di presidente del Consiglio, divenendo successivamente, dal 1983 al 1987, ministro della difesa nei due governi Craxi, riuscendo a far raggiungere al PRI nelle elezioni politiche del 1983 il 5,08%, il massimo storico di quel partito e, infine, venendo il 2 luglio del 1987 nominato presidente del Senato, carica che ricoprì fino al 14 aprile del 1994 quando il Parlamento gli preferì Carlo Scognamiglio con una votazione con pesantissimi punti interrogativi sulla sua correttezza e Spadolini provò una grandissima sofferenza per questo esito opaco, una sofferenza che lo accompagnò fino alla morte che sarebbe avvenuta da lì a poco il 4 agosto 1994, era nato il 21 giugno 1925 (nel frattempo Spadolini nel 1992 aveva mancato la presidenza della Repubblica perché il Parlamento, in seguito all’attentato a Falcone preso dalla frenesia di eleggere in fretta e furia un presidente della Repubblica, gli preferì Oscar Luigi Scalfaro), Giovanni Spadolini, presso il vasto pubblico dei suoi ammiratori del tempo, non solo i c.d. laici e non solo i repubblicani, risultava non solo come un personaggio estremamente simpatico (la sua stessa barocca corpulenza non gli procurava in nessun modo scherno ma anzi ne accresceva la popolarità, si vedano a questo proposito le amichevoli vignette di Forattini che lo ritraevano quasi sempre come un obeso putto nudo e questo concorse a renderlo ancora più simpatico, quasi un barbapapà prestato alla politica) ed affidabile (nessuno mise mai in dubbio, in quell’epoca come l’odierna squassata dagli scandali politici, la sua integrità personale ed anzi il modo come da presidente del Consiglio riuscì a gestire lo scandalo della loggia massonica P2 consacrò giustamente questa sua immagine) ma anche come una specie di genio che era riuscito ad eccellere sia, appunto, come storico che come giornalista (giovanissimo collaboratore de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, direttore del Resto del Carlino dal 1955 al 1968 e poi fino al 1972 direttore del Corriere della Sera!). E se oggi presso le giovani generazioni (giovani si fa per dire, qui ci riferisce soprattutto agli appartenenti alla generazione dei Millenians, per quelle che seguono manco parlarne, e da queste parole si può ben capire la vetustà dello scrivente, un baby boomer, per non scendere in ulteriori imbarazzanti dettagli…) il nome di Spadolini non dice praticamente niente, ma questo è dovuto non tanto alla mancanza di spessore del personaggio ma al fatto che oggi e da molto tempo ormai si vive in un eterno presente, è singolare il fatto che, proprio mancanti pochi anni al trentesimo anniversario della sua scomparsa, anche presso coloro che furono i suoi più stretti collaboratori e coloro che, molto più giovani, afferiscono a quello che può essere definito il cenacolo spadoliniano, la figura intellettuale e professionale di Spadolini fosse stata un po’, anche se soltanto un po’, ridimensionata. Cosa allora in questo ambiente viene anche detto di Spadolini? In pratica, si dice che Spadolini fu un grande storico ma non un grandissimo storico, cioè si afferma che i suoi lavori per quanto estremamente interessanti e dissodanti per molti versi territori ancora in larga parte incolti, non costituiscono pietre miliari della scienza storica e si continua dicendo che se anche professionalmente come giornalista raggiunse, come s’e visto, le più altre vette, egli non fu assolutamente né un rinnovatore del linguaggio giornalistico né un grande organizzatore della carta stampata, come per esempio un Eugenio Scalfari o un Indro Montanelli che arrivarono alla fine a fondare nuove testate giornalistiche fortemente influenti sulla pubblica opinione.
Ovviamente, in quest’opera di piccolo, piccolissimo, ridimensionamento del personaggio, viene salvata, oltre alla figura del cattedratico di grande successo e prestigio (e non potrebbe essere diversamente: «Già nel 1950 Spadolini è incaricato dell’insegnamento di Storia Moderna II alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze «Cesare Alfieri », primo titolare di quella che diverrà dieci anni più tardi la prima cattedra in Italia di Storia Contemporanea: secondo della terna Gabriele De Rosa, terzo Aldo Garosci. I suoi studi sono anticipatori di originali, successivi filoni di indagine e di ricerca storiografica: i rapporti fra Stato e Chiesa, le vicende dei partiti e dei movimenti politici, la revisione del Risorgimento, la storia di Firenze e della Toscana nel contesto italiano ed europeo. Molte sue opere sono ancora considerate autentici classici della storiografia italiana. In aspettativa per mandato parlamentare, non avrebbe mai lasciato la titolarità della cattedra del «Cesare Alfieri» »: Cosimo Ceccuti, Giovanni Spadolini. Giornalista, storico e uomo delle istituzioni, introduzione di Carlo Azeglio Ciampi, Firenze, Mauro Pagliai, 2014, p. 58, quindi in Cosimo Ceccuti, il più stretto collaboratore di Spadolini, mancanti però più di dieci anni dal trentesimo anniversario della sua scomparsa, si propone l’immagine di un Giovanni Spadolini grande storico) in toto la figura dell’uomo pubblico, del politico, anzi il politico viene innalzato come nessun altro sugli scudi sottolineando, molto opportunamente, oltre alla grande impresa di essere stato il primo laico ad assumere la carica di presidente del Consiglio, il suo successo nel riavvicinare la gente alla politica, oggi come allora totalmente screditata ma il fatto che questo sia stato un successo effimero – hanno buon gioco di sostenere costoro – non è certo imputabile a Spadolini e io su questo sono parzialmente d’accordo ma anche parzialmente in disaccordo. E mi spiego perché ho usato questa circonlocuzione che sa molto di linguaggio moroteo – o di necessità di una seduta psicoanalitica dello scrivente – ma penso che non solo presso il lettore sia d’aiuto a far affiorare i contrastanti e contraddittori odierni sentimenti di una persona, il sottoscritto, che visse in pieno e con convinzione i fasti spadoliniani (ricordo la grande emozione che provai quando nel 1986 con estrema gentilezza – bontà d’animo e disponibilità che apparentemente contraddittoriamente alla esibita consapevolezza del suo valore che sfiorava l’egocentrismo e, soprattutto, ai suoi terribili scatti umorali, era un tratto distintivo del suo carattere – Spadolini siglò il frontespizio della mia prima fatica nel campo della letteratura politica, Gloria alla Repubblica Romana. Compendio de «La Repubblica Romana del 1849 di Giovanni Conti», Ravenna, Edizioni Moderna, 1986 e per chi voglia rendersi direttamente conto di quella che può essere considerata l’ultima pubblicazione palesemente e senza infingimenti retorica generata dal già morente mondo della religione politica mazziniana, può andare all’ URL di Internet Archivehttps://archive.org/details/massimo-morigi-gloria-alla-repubblica-romana-compendio-de-la-repubblica-romana-d/mode/2updove potrà apprezzare la scansione del documento col frontespizio siglato da Giovanni Spadolini) ma anche perché è proprio il lascito storico-culturale spadoliniano che, in ultima istanza, visto oggi ex post, non poteva che lasciare dietro di sé che un cumulo di macerie anche sul piano più prettamente politico.
Una caratteristica, anzi l’autentica peculiarità distintiva di Spadolini è che, contrariamente ad altri intellettuali che ad un certo punto della loro vita decidono di dedicarsi alla politica, fu che, in un certo senso, tutta la sua precedente attività come cattedratico, storico e giornalista, può considerarsi una preparazione ai ruoli politici che egli avrebbe ricoperto in seguito. Egli non fu, quindi, il classico intellettuale, ma senza una specifica autoformazione riguardo alla vita pubblica, prestato alla politica e che magari sogna di divenire in finale di carriera una sorta di consigliere del Principe, egli, al contrario, fu un intellettuale che sin dagli inizi volle farsi Principe e che, come intellettuale, inizia sin da subito a forgiare gli strumenti per ottenere questo risultato. E quali sono questi strumenti? Molto semplicemente, il cercare in maniera indefessa e diuturna di costruire attraverso l’attività di cattedratico, di storico e di giornalista la narrazione che, al di là della cultura marxista e di quella più umile ma altrettanto pervasiva cattolica, in Italia è sempre esistita una cultura alternativa, che egli definisce come Italia laica o Italia della ragione (vedi i titoli dei suoi più significativi lavori storici al riguardo: Gli uomini che fecero l’Italia, L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento, L’Italia dei Laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa (1925-1980) e, infine, Autunno del Risorgimento, libro pervaso da una vena malinconica e dalla sottesa consapevolezza che il Risorgimento ci ha lasciato profondissime e forse insanabili contraddizioni). Ora, il punto è che è vero che mai politicamente gli italiani si sono riconosciuti in blocco nei due predetti filoni ma non era proprio detto, anzi era una totale distorsione cognitiva spadoliniana, che coloro che non erano né “rossi” né “bianchi” potessero – allora come oggi! – essere considerati e quindi impiegati come una compatta falange politico-culturale prendendo come esempio – come fece Spadolini in queste ed altre sue pubblicazioni ed in moltissimi suoi interventi sulla stampa – gli illustri personaggi del passato che erano stati fuori dall’orbita marxista o da quella confessionale. Invece, proprio questo Spadolini cercò di fare: dagli Uomini che fecero l’Italia, all’Italia della ragione, all’Italia dei laici ed anche con Autunno del Risorgimento, tutti gli sforzi di Spadolini furono indirizzati alla costruzione di una narrazione politica (non dico ideologia politica, perché l’ideologia comporta il proporre uno schema di società che vada al di là della esaltazione degli eroi che devono porsi alla guida del processo di trasformazione, che poi l’ideologia rapidamente degradi nell’agiografia questo è un altro discorso ed appartiene comunque alla fase successiva della presa del potere quando necessitano ancor più facili schemi propagandistici per manipolare le masse) dove le virtù morali di coloro che non furono né marxisti né cattolici costituiscono il collante della narrazione spadoliniana e l’esempio da seguire, secondo Spadolini, per la futura Italia.
E il fatto veramente singolare di tutta questa costruzione – che potremmo definire una costellazione di medaglioni biografici che costituiscono la struttura delle predette pubblicazioni e costellazione e non galassia perché, come tutti sanno, al contrario di altre nomenclature celesti, le costellazioni sono solo una costruzione mentale e fantastica dell’osservatore che nulla di reale ci dicono sulle reali dinamiche dell’Universo – è che Spadolini, da vero, anche se non grandissimo, storico quale egli era, non sorvola affatto sulle caratteristiche culturali e politiche dei personaggi da lui presi in considerazione, da questo punto di vista egli è onestissimo e, a mio giudizio, è un esempio di deontologia applicata al lavoro dello storico, ma pretende che queste differenze non contino o contino poco o nulla rispetto alla dimensione caratteriale quiritaria, come lui amava definirla, che idealmente accomuna questi personaggi e che avrebbe dovuto costituire, questa dimensione, il tratto morale base per i partecipanti alla costruzione del futuro soggetto politico né cattolico né marxista. E così culturalmente egli liberale profondamente crociano, con una sorta di autentica devozione per Gobetti, il Gobetti della Rivoluzione liberale ma soprattutto del Risorgimento senza eroi, si trova costretto, in ragione di questo progetto politico, a dovere inserire nella sua teleologia storico-politica personaggi che non sono rivoluzionari anche se solo nel senso gobettiano della rivoluzione liberale e che talvolta potrebbero essere definiti semplicemente come conservatori della più bell’acqua o che non sono nemmeno liberali, anzi sono consapevolmente e decisamente antiliberali. Come esempio di personaggio giudicato molto correttamente e perspicuamente da Spadolini come antiliberale, valga per tutti Giuseppe Mazzini e a tal proposito riproduciamo qui per intero il suo primo articolo su Mazzini, sul quale in seguito Spadolini cercherà di svolgere un’operazione palinodica ma, per sua stessa ammissione, molto parziale: «Esiste il “mito di Mazzini”. È il tipico mito italiano, eclettico e confusionario: riassume tutto, concilia tutto, giustifica tutto. In questo senso, Mazzini si è prestato, si presta e si presterà sempre a esser sfruttato da tutti i regimi: liberali, democratici, trasformisti, fascisti, socialisti, comunisti. Ma pochi conoscono la “realtà”, del pensiero e dell’azione mazziniana, ciò che è morto, oggi, e che è vivo di lui. Cosa c’era di caduco nel mazzinianesimo? Quel riflettere gli atteggiamenti più estremi della “Weltanschauung”, massonica, di quella visione della vita che s’era formata nel Settecento e che era tutta intrisa e compenetrata di umanitarismo, di egualitarismo, dei principi della pace, della giustizia, della fratellanza, dell’armonia e del progresso universale.
E cosa c’era di genuino nel Mazzini? Quel dipingere il popolo come “profeta della rivoluzione”, quell’affermare il nesso fra Dio e popolo, quell’insistere su un’impossibile “iniziativa popolare”, quell’illusione, quella fissazione, quella passione “popolaresca”, che mai egli perse nonostante le delusioni del ’48 e le smentite del ’59.
E cosa c’era di retorico? Quell’inseguire il mito della “Terza Roma”, e anzi assegnare alla terza Roma, quale “mente della terra”, “verbo di Dio fra le razze”, centro della religione dell’umanità, il compito di unificare tutte le genti disperse d’Europa e d’America sotto un sol senso comune (quale poi fosse precisamente, nessuno sapeva). E quanto di derivato dalle dottrine straniere o antiche? A chi guardi il volto complesso e composito del mazzinianesimo, non sfuggiranno i sedimenti del gioachimismo, i ricordi e le eresie medievali, i residui della Riforma, le tracce del giansenismo, le influenze di Saint-Simon, le ripercussioni di Lamennais, i riflessi del Quinet o del Vinet, le risonanze del socialismo utopistico: del suo pensiero, ben poco resterà di originale.
Qual è dunque, la ragione dell’attuale e forse immortale vitalità del pensiero di Mazzini? Mazzini è in primo luogo l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto, a carattere essenzialmente politico-diplomatico che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo. In un paese, che non aveva più sentito una profonda istanza di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di un’interiore “metanoia” prima ancora d’una riforma delle strutture sociali e politiche. In secondo luogo, Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità, in Italia, non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il paese delle città e dei Comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del Pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità. Il “mito” unitario non era per Mazzini limitato al fatto nazionale. Egli voleva l’unità fra gli italiani, in quanto, fosse a sua volta principio e premessa dell’unità fra popolo e stato, fra Stato e Chiesa, fra cielo e terra. Unità nazionale d’Italia; unità internazionale d’Europa; unità universale del mondo; unico dogma quello del progresso; unica religione quella dello spirito; unica educazione quella del vero; unico Stato quello ispirato alla democrazia e alla giustizia. L’ “unità”: ecco la grande forza di Mazzini. In un paese tendente alla molteplicità, alla diversità, alla discordia, Mazzini gettava questo seme di unità, e lo consacrava col sangue dei martiri. Se oggi si celebra il ’48 come rivoluzione nazionale, lo si deve a lui, non certo ai Principi e ai Granduchi in onore dei quali si organizzano le varie e inutili mostre commemorative. Essendo unitario, Mazzini non poteva essere, non fu mai liberale. È l’ultimo equivoco che bisogna dissipare. La visione del liberalismo moderno era per Mazzini il prodotto complessivo dell’individualismo, dell’utilitarismo e del materialismo: tutto ciò a cui bisognava opporsi nella fondazione della nuova società. Se il liberalismo rappresentava la concezione dei diritti individuali rispetto ai poteri dello Stato, Mazzini vagheggiava una concezione in cui fossero ben stabiliti i doveri “individuali” rispetto ai diritti dello Stato. Se il liberalismo era laicismo, religione della laicità, Mazzini sognava uno “Stato teocratico”, dove “fossero sacerdoti tutti con uffizi diversi”. Se il liberalismo era immanentismo, Mazzini sognava una trascendenza, sia pur diversa da quella cattolica. Se il liberalismo era umanesimo, Mazzini auspicava una rivelazione divina, che si attuasse attraverso i geni “angeli di Dio sulla terra” e il popoli “profeti di Dio in terra”. Se il liberalismo, insomma, era dialettica, dialettica di forze e di idee, di istituti e di uomini, libertà di iniziative e senso di autonomia, capacità dell’autogoverno e vigore di individuale creazione, Mazzini era, invece, per la riduzione a unità delle forze e delle idee, degli istituti e degli uomini, per il controllo delle iniziative e la subordinazione dell’autonomia personale alla nazione e allo stato, per l’educazione impartita dall’alto e secondo uno schema unitario, infine per l’opera sociale, lo sforzo collettivo, l’azione dei molti, l’associazione. Mazzini non fu mai un liberale, perché in fondo non fu mai un “politico”. Egli fu un anticipatore, un apostolo, un profeta: e io non conosco nella storia un apostolo e un profeta che sia mai stato liberale.»: Giovanni Spadolini, Mazzini oggi, in “Il Messaggero”, 5 agosto 1948 ma anche in Id.,Autunno del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 1971, pp. 306-308 e nel blog “Termometro politico” all’URLhttps://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250201085119/https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html.
Ora, a parte il fatto che ingenuamente, molto ingenuamente, verrebbe da chiedersi come abbia fatto uno storico che pronuncia questi giudizi su Mazzini diventare segretario del Partito repubblicano che, anche se solo a livello di lip service, riteneva – e ancor meno razionalmente proclama tuttora, viste le sue posizioni politiche – Mazzini come una specie di Dio in terra e l’incisore delle tavole della legge per la fuoruscita dell’Italia dal suo stato di minorità che la accompagna sin dalla fine del Risorgimento, si tratta quello appena mostrato di uno scritto giovanile ma su questo giudizio una vera palinodia non verrà mai fatta, e quindi che un uomo valentissimo ma liberale sin nelle midolla come Spadolini sia potuto diventare segretario del PRI si spiega e con la debolezza politica di questo partito che dopo la morte di La Malfa richiedeva una altrettanto grande e rappresentativa figura da mettere al suo posto e alla sempre più declinante crisi della religione politica che formalmente ispirava (ed ispira del tutto superficialmente tuttora) il Partito repubblicano, cioè il mazzinianesimo (e sulla sempre più declinante religione politica del mazzinianesimo cfr. il mio Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo. Una Riflessione Transpolitica per il suo Legittimo Erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di Trent’anni Dopo alla Dialettica Olistico-Espressiva-Strategica-Conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note Biografiche, Documenti e Testimonianze per una Storia dell’Antifascismo Democratico Romagnolo, pubblicato in quattro puntate sul presente sito di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, sempre sull’ “Italia e il Mondo” in un’unica puntata in data 8 marzo 2023 all’URLhttps://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/, Wayback Machine:http://web.archive.org/web/20230330090857/https://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/e, infine, caricato su Internet Archiveagli URLhttps://archive.org/details/lo-stato-delle-cose-dell-ultima-religione-politica-il-mazzinianesimo-repubblican/page/n39/mode/2upehttps://ia801605.us.archive.org/31/items/repubblicanesimo-repubblicanesimo-geopolitico-neomarxismo-monica-vitti/Repubblicanesimo%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo%2C%20Monica%20Vitti.pdf), in realtà il punto più interessante per il nostro discorso è quando Spadolini afferma che «Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità in Italia non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il Paese delle città e dei comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità.», dove emerge ben chiara la vera nota di fondo di tutta la produzione spadoliniana sul Risorgimento, vale a dire la consapevolezza che l’unificazione italiana era stato un processo debolissimo, con scarsa base sociale ed opera quasi esclusivamente di élite. E questa consapevolezza attraversa come un sordo rintocco tutta la costellazione dei personaggi della narrazione storico-politica spadoliniana, non si rivela solo trattando di Mazzini ma trova anche sorprendenti manifestazioni che espresse come vengono espresse mettono palesemente in crisi, se ben osservate in controluce, anche la rappresentazione pubblica del disegno politico spadoliniano. Ecco cosa scrive Spadolini riguardo a Gramsci:«Dal Cinquecento ad oggi[…], il pensiero cattolico ha sempre combattuto, nel machiavellismo, lo spettro dello Stato laico, dello Stato forte, dello Stato sovrano: la logica della teocrazia, che presuppone la perfetta unione fra la politica e la morale, non potrà mai giustificare una rottura che esalta il primo termine nel suo valore assoluto e totale. Molto meno si comprende la opposizione di certi spiriti liberali al pensiero di Machiavelli. Non sarà male ricordare innanzitutto che, alle origini del nostro Risorgimento, Machiavelli fu considerato un maestro di libertà repubblicana: e come tale lo esaltarono i giansenisti della fine del Settecento, come tale lo vide Niccolini, come tale lo guardarono i neoghibellini del ’48 impegnati a respingere le suggestioni e i fantasmi del ritorno neoguelfo. Lungi dal giudicarlo come un amico dei tiranni, molti dei patrioti dell’Ottocento glorificarono in lui non solo il profeta dell’unità nazionale, quello della chiusa del Principe, ma ancor più l’anticipatore degli ideali repubblicani e democratici brillati nelle pagine dei Discorsi. Non era difficile ribattere, ai detrattori “moderati” del Segretario fiorentino, come Balbo e Cantù, non era difficile ribattere allo stesso Mazzini, sempre pronto ad accettare la logica della teocrazia sia pure al servizio di un altissimo ideale democratico, che la più violenta polemica contro il “machiavellismo” era venuta proprio da un re come Federico II, pronto a sacrificare ogni ideale di libertà alla grandezza e alla potenza dello Stato. […] Ma se Voltaire aveva ispirato la satira del principe prussiano, se l’illuminismo e il razionalismo si erano opposti alle dottrine politiche di colui che presupponeva la fede nella storia e quindi la coscienza di una lotta implacabile contro la natura ed il male, il suo difensore più efficace Machiavelli lo trovò nel filosofo, che doveva giustificare idealmente tutte le audacie del liberalismo moderno ed essere quindi scambiato per un conservatore: Giorgio Federico Hegel. Pochi ricordano che nel suo scritto giovanile Libertà e fato, che vide la luce postumo nel 1893, Hegel esaltò la tesi del Principe come la concezione più alta e più vera di un’autentica mente politica animata dai più grandi sentimenti. Profondamente consapevole com’era del problema nazionale tedesco, ansioso di promuovere la liberazione del suo popolo dal giogo straniero, Hegel esaltò in Machiavelli l’italiano, il patriota, il cittadino che per primo aveva sentito la necessità di comporre l’Italia in unità di Stato, affrancandola dalle discordie interne e dalle dominazioni esterne. […] Il dissidio fra l’essere e il dover essere, fra l’esigenza etica e quella politica, fra la voce dell’utile e quella della coscienza – dissidio che Machiavelli aveva aperto col suo libro famoso – non apparve neppure a Hegel giovane, che affermò risolutamente che “uno stato di cose nel quale il veleno e l’assassinio sono diventati armi abituali, non sopporta rimedi miti. Una vita prossima alla corruzione può essere riorganizzata soltanto per mezzo del procedimento più forte”. […] L’unico fra i recenti pensatori italiani, che abbia avuto l’esatta percezione della funzione attuale del Machiavellismo, secondo la logica storicistica e dialettica, è stato Antonio Gramsci. Nelle pagine inedite, apparse nel quadro dell’opera postuma einaudiana, sulla concezione machiavellica della politica e della vita, il teorico del comunismo italiano ha identificato il “moderno principe” col partito della classe operaia e ne ha riassunto la missione nella costruzione dello Stato rivoluzionario che risolve il contrasto fra la tecnica e la teologia, che annulla il dualismo fra i mezzi e i fini. Di fronte al pensiero di Gramsci, di fronte alla polemica dei comunisti, i liberali e i democratici italiani non saranno capaci di rivendicare l’eredità di Machiavelli? Per il solitario pensatore sardo, coerente a tutte le premesse dell’ “umanesimo marxista”,la funzione creatrice e liberatrice che Machiavelli aveva assegnato allo Stato trapassa naturalmente alla “classe”, secondo la stessa logica inesorabile per cui la guerra internazionale ha ceduto il posto a quella civile o il conflitto di nazioni si è spostato sul piano della lotta sociale. In ogni caso, qualunque sia oggi la posizione dei marxisti o dei liberali, lo Stato moderno non sarebbe mai nato senza l’intuizione di Machiavelli. Ma quell’intuizione non avrebbe dato i suoi frutti, se non fosse passata attraverso il vaglio di Hegel. Machiavelli era ancora soltanto un “laico”; Hegel era già un “credente”. Questa è la differenza. Lo stato moderno, nella sua sostanza ultima, non è altro che la “Chiesa” del liberalismo.»: Ivi, pp. 263-268).
Ora, a parte la difesa del machiavellismo, aspetto sul quale torneremo fra breve, quello che sorprende è il ragionamento di Spadolini su Gramsci che ci porta ad una prima considerazione 1) che il moderno Principe di Gramsci, il Partito comunista della classe operaia e della classe contadina che organizza queste masse, viene in linea di principio giudicato nient’affatto con sospetto, anzi è quasi un modello da imitare, e ciò pone Spadolini ai margini della tradizione politica liberale cui appartiene, per la quale Gramsci e il suo moderno Principe sono sempre stati visti con estrema avversione, come una premessa, in altre parole, del totalitarismo. E sorprende anche che, però, il moderno Principe à la Spadolini non debba organizzare le masse operaie e contadine ma i democratici e i liberali, insomma già da questo si vede la debolezza della narrazione spadoliniana concepita non in funzione dell’organizzazione di vaste masse elettorali e quindi di una grande mobilitazione interclassista ceti medi più masse operaie e contadine da contrapporre al moderno Principe à la Gramsci che organizza le masse proletarie contadine ed operaie – e che, per quanto riguarda i ceti medi, guarda quasi esclusivamente agli intellettuali in via di proletarizzazione, o sempre a ceti medi non meglio specificati professionalmente ma solo se e in quanto se, come gli intellettuali, in via di rapidissimo declassamento –, che devono costituire il cervello pensante del moderno Principe-Partito comunista ma unicamente per compiere un’operazione esclusivamente all’insegna di una politique d’abord e senza alcuna pretesa di egemonia politico-culturale su tutta la società ma accatastando caoticamente e disorganicamente in un solo partito quell’Italia minoritaria di ceti intellettuali medio-alti (e come da noi già sottolineato, tutt’altro che omogenea dal punto di vista ideologico) che non si riconosceva né nella cultura cattolica né in quella comunista; 2) secondo critico aspetto della narrazione politica spadoliniana, è che a Spadolini non è affatto estranea la visione realistico-machiavelliana della politica, solo che,ahimè, questo realismo deve costantemente fare i conti con il suo progetto politico-culturale di costruzione di una costellazione di personaggi e di racconti biografici tutti diversi fra loro ma uniti non in virtù di una concezione realista della società e della politica, una concezione machiavelliana in altre parole, ma in ragione del valore morale di questi personaggi. Un valore morale che Spadolini, ricorrendo ad un lemma richiamante emotivamente la Roma antica (e in questo possiamo udire l’ eco del mito della Roma repubblicana filtrato attraverso Machiavelli), sovente definisce con l’aggettivo di ‘quiritario’, virtù quiritaria che avrebbe dovuto costituire quell’elemento distintivo di quell’ ‘Italia della ragione’ o di quell’ ‘altra Italia’ – termini entrambi carissimi a Spadolini anche se il secondo non era di conio spadoliniano ma che prima di Spadolini era stato impiegato come titolo per un serie di articoli che Ugo La Malfa aveva pubblicato su “Il Mondo” ma che, a sua volta, Ugo La Malfa aveva preso da Piero Gobetti, uno degli intellettuali che Spadolini ebbe fra i suoi più amati – che non si riconosceva né nella cultura cattolica né in quella marxista e tratto morale ‘quiritario’ come fomento generatore di quel ‘partito della democrazia’, altro termine molto caro a Spadolini, che avrebbe dovuto sorgere sulle basi del mazziniano PRI ben poco mazziniano già a quei tempi e ancor meno partito con possibilità di espansione. E che il realismo politico fosse una delle più vive contraddizioni del pensiero spadoliniano lo vediamo in questo rapido passaggio dove Spadolini ricorda lo storico Federico Chabod: «Munito di tutte le cautele del più agguerrito storicismo, lo Chabod non indulgeva mai alle pregiudiziali deterministiche e si guardava dalle pregiudiziali classificatorie: la sua sensibilità storiografica ripudiava gli schematismi e le astrazioni, respingeva le suggestioni delle “dottrine pure” e delle “pure strutture”, rifiutava il monopolio delle statistiche e dei diagrammi e, pur nell’indagare il giuoco degli interessi, non piegava alle assurde regole della “geopolitica”, non si muoveva sul piano della esclusiva e particolare storia diplomatica (pronto invece a cogliere la vibrazioni degli uomini, le sfumature delle correnti, le reazioni dell’opinione). »:Ivi, pp. 448-449.
Singolarissimo passaggio che oltre a restituirci una vivida rappresentazione dello storico valdostano, proprio per il difficoltosamente rattenuto pathos che lo pervade si presta anche ad essere un (molto poco) involontario ritratto di Spadolini stesso, in realtà un autoritratto dal quale possiamo estrarre due elementi.
Primo) Lo Spadolini-Chabod, da vero storicista crociano rifiuta il determinismo marxista o meglio rifiuta il determinismo marxista di scuola marxista-leninista(semmai verrebbe da chiedersi quanto nell’Italia di inizio anni ’70 fosse egemone in seno alla sinistra il marxismo-leninismo mentre nel partito comunista era sicuramente più seguito il marxismo umanistico di Antonio Gramsci tradotto per le masse del PCI e come instrumentum regni ideologico per i quadri e i dirigenti nella versione geneticamente modificata di Palmiro Togliatti del partito Nuovo e che del moderno Principe gramsciano, in pratica, non sapeva che farsene perché in questo partito Nuovo era solo il momento politico che avrebbe dovuto organizzare le masse e l’apporto degli intellettuali all’organizzazione e direzione del partito Nuovo non era visto alla luce di una continua prassistica dialettica momento intellettuale/momento politico ma solo come subordinazione degli intellettuali alla dirigenza politica – come infatti sempre fu il PCI di Togliatti e dei suoi successori – e abbandonando il partito Nuovo togliattiano ogni velleità egemonica sulla società, una egemonia che, secondo Gramsci, avrebbe dovuto essere il prodotto politico della dialettica fra momento intellettuale e momento politico che nel partito comunista-moderno Principe avrebbe trovato la sua più alta entelechia ed efficacia perchè volto al coinvolgimento diretto delle delle masse proletarie e contadine in questa stessa dialettica, in un processo sì egemonico su tutta la società ma egemonico non per l’esito autoritario in senso politico-istituzionale ma perchè realmente trasformatore di tutti i rapporti di classe e reali rapporti di forza fra queste – e in questo empito totalitario di Gramsci, totalitario cioè nel senso di trasformazione totale della società, come non vedere anche dei riflessi del totalitarismo mazziniano, per il quale repubblica significava trasformazione totale della società imponendone un imperativo di miglioramento etico-sociale: certo Gramsci guardava alla lotta di classe, Mazzini invece alla collaborazione di classe ma in entrambi incombe la presenza, o si registra la presenza se vogliamo usare un verbo meno urticante, di uno Stato etico mazziniano o di un moderno Principe gramsciano, se si preferisce, che progetta di rivoltare come un calzino la società in dispregio a tutte le “conquiste” individualiste del liberalismo; inteso, invece, il partito Nuovo togliattiano esclusivamente come il generatore, seppur autoritario, di una inclusività puramente addizional-matematica e non organica di tutte le classi sociali all’interno del partito, partito Nuovo di Togliatti, quindi, autoritario ma non nel senso del Partito comunista-moderno Principe di Gramsci per il quale la decisione verticistica ed inappellabile era solo giusticata dalla finalità di far scaturire una libera dialettica sociale annientatrice della sottomissione di classe del regime capitalista, ma profondamente connotato da un autoritarismo che rinunciando ad una reale egemonia sulla società, aveva anche abbandonato ogni pretesa alla trasformazione dialettica della stessa come invece avrebbe fatto il Partito comunista-moderno Principe, limitandosi il partito Nuovo a dovere tracciare una linea mediana di sintesi puramente geometrico-calcolatoria fra le varie e divergenti istanze della società; ma su queste sottigliezze preferiva sorvolare Spadolini tutto teso a compattare un fronte liberaldemocratico che, per quanto più a sinistra del partito liberale non poteva certo transigere sulla contrapposizione al comunismo o, meglio, sulla contrapposizione di quello che oramai solo nel nome e nella ingenua rappresentazione dei suoi detrattori e dei suoi militanti poteva essere definito Partito comunista. Un partito Nuovo togliattiano meramente addizionatore matematico delle spinte e controspinte che provengono dalla società – insomma, una sorta di Democrazia Cristiana più di sinistra e che ha rinunciato ad ogni riferimento identitario alla religione cattolica, in altre parole, l’attuale PD – e non momento fondamentale della loro sintesi dialettica che conduce all’egemonia culturale e politica del partito sulla società e che perciò è veramente la pallida e svirilita caricatura del partito comunista-moderno Principe di Antonio Gramsci, come cerca di farcelo accettare con debolissimo ragionamento – in realtà dimostrando di non crederci nemmeno lui – Cino Tortorella:«Così il partito di cui Gramsci traccia l’idea ha un compito altissimo, politicamente e moralmente. Viene di qui una concezione che tende a fare del «moderno Principe» un soggetto che può porsi come assoluto: «Il “moderno Principe”, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il “moderno Principe” stesso, e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Q. XIII, l). Questa concezione del partito in Gramsci non può dunque essere ridotta e banalizzata – come è stato fatto – quasi che essa costituisse l’imitazione o l’eco di quel che intanto andava accadendo nell’Urss e del ruolo che vi acquistava il partito. Era una concezione che, tuttavia, andava superata; e così è già in Togliatti con l’idea del «partito nuovo», cui si aderisce su base programmatica. Il laicismo moderno e la laicizzazione integrale che Gramsci considerava come finalità essenziale avrà bisogno di un partito comunista che, senza nulla perdere del proprio impegno ideale e morale, sappia considerarsi come un soggetto tra gli altri: capace di battersi per i propri convincimenti e per i propri programmi senza ignorare le ragioni degli altri.»: Cino Tortorella, Partito come moderno principe, da noi citato all’URL dell’ “Associazione Enrico Berlinguer. Per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale della sinistra italiana”https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20221205104904/https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html, messo in Rete dall’“Associazione Enrico Berlinger” senza data ma sicuramente non dopo il congelamento Wayback Machine avvenuto in data 15 agosto 2022 e articolo a sua volta originariamente in Aldo Tortorella, Partito come «moderno Principe», in Carlo Ricchini, Eugenio Manca e Luisa Melograni (a cura di), Gramsci. Le idee nel nostro tempo, Roma, Editrice L’Unità, 1987, pagine del collocamento all’interno del documento ugualmente non disponibili).
Secondo) Spadolini rifiuta sempre, in nome di una visione antideterminista, anche la geopolitica e su questo punto occorre soffermarsi. Oggi si fa un gran parlare e straparlare di geopolitica, la geopolitica serve per condire qualsiasi immangiabile pietanza ed effettivamente da parte dei suoi più beceri turiferari la geopolitica viene tirata in ballo per giustificare immancabilmente e deterministicamente tutto e il contrario di tutto. Lo si è ben visto nel corso dell’attuale guerra Nato-Russia, che dai sopraddetti turiferari viene raccontata come una guerra Russia-Ucraina dove la Russia sarebbe l’aggressore e l’Ucraina l’aggredito, mentre in realtà l’Ucraina non fa altro che agire per procura della Nato la quale sin da prima dello scoppio del conflitto, da Euromaidan del 2013 in poi, aveva sempre più aumentato la sua pressione sull’Ucraina per renderla nemica della Russia allo scopo di diminuire la profondità strategica di questa in un processo che nei disegni Nato avrebbe dovuto portare ad uno smembramento della stessa Federazione russa (geopolitica non racconti di fate per masse incolte e credulone, please!), una geopolitica dove i Russi, per questi esimi autoproclamati esperti in questa disciplina, starebbero immancabilmente collassando in ragione del fatto che sarebbero costretti ad andare all’assalto con le pale per poi scoprire che l’apparato bellico russo è superiore come livello di produzione (e come qualità dei sistemi d’arma prodotti e dispiegati) a quello di tutti i paesi dell’Unione europea messi assieme, una geopolitica che ci diceva che le sanzioni contro la Russia l’avrebbero schiantata in pochi mesi mentre ora la Russia prospera e quella che si sta economicamente schiantando a causa delle sanzioni è l’Europa (discorso diverso per gli Stati Uniti, che ha come non mai lucrato per le sanzioni europee contro la Russia in campo energetico: da questo punto di vista, se la Russia ha praticamente vinto il conflitto armato, l’altro vincitore, almeno dal punto di vista economico, sono gli Stati uniti. Ma su questo i nostri grandi geopolitici da talk show nulla dicono. Aspettiamo fiduciosi…) e una geopolitica che, nonostante le sue deliranti affermazioni sulle immense perdite umane inflitte dagli Ucraini ai Russi, non riesce a dare una spiegazione minimamente razionale sul fatto gli ucraini sono costretti ad una sempre più pervasiva mobilitazione, progettando di richiamare alle armi anche i diciottenni (già fatto per i malati oncologici ed anche per chi soffre di gravi malattie mentali e deficit cognitivi, tanto per fare la carne da cannone…), delirando di costringere i paesi europei a farsi consegnare i più o meno patriottici profughi ucraini per spedirli immantinente al fronte, in uno sconsiderato, inefficace e criminale richiamo alle armi anche di coloro precedentemente risparmiati, dove le squadre dei reclutatori girano per strada compiendo rapimenti nello stile della vecchia marina britannica e che per questo rischiano regolarmente di incappare in schioppettate da parte dei reclutandi mentre in Russia fanno la fila per essere volontariamente arruolati nell’esercito, invogliati da ciò sia dalle alte paghe che vengono corrisposte ai militari ma anche dall’innegabile dato di realtà che per un militare russo questo mestiere non corrisponde al suicidio mentre il contrario si può dire per un militare ucraino. Caposcuola di questa esimia figliata di geopolitici fai da te è un certo personaggio, una sorta di Fantomas (o se si preferisce, di Lex Luthor o anche di Kurtz-Marlon Brando di Apocalypse Now di Coppola) de Noantri, certamente loquace nel presentare la sua mercanzia sciorinandoci le sue profonde verità geopolitiche ma al, al contrario, afasico e poco trasparente nel rappresentarci con dovizia di altrettanto illuminanti particolari i suoi quarti di nobiltà accademici, che di per sé non fanno un geopolitico ma che, come in questo caso, nelle modalità con cui costui ce li rende di pubblico dominio, gettano un’ombra sulla pubblica affidabilità del suo sentenziare, quarti di nobiltà, comunque, con i quali o senza i quali il nostro eroe in questione è un campione del mondo di analisi geopolitiche sballate e regolarmente smentite e ridicolizzate dai fatti successivi ma mai da lui pubblicamente riconosciute come tali e rettificate.
Ma questo riguarda l’oggi ma agli inizi degli anni ’70, quando Spadolini scrive quelle parole qual è la situazione della conoscenza presso il più vasto pubblico – ed anche presso gli intellettuali – della geopolitica? A questo si può rispondere che la geopolitica in quegli anni era praticamente sconosciuta, ma anche aggiungere che, nonostante questo, si può dire che Spadolini ne aveva una buona conoscenza che in virtù del difetto principale in cui può incorrere la geopolitica – e incisivamente rilevato, come s’è visto, da Spadolini scrivendo su Chabod –, e cioè una visione troppo sovente determinista delle dinamiche politiche, economiche e geostrategiche, gli consentiva di rigettarla nel suo insieme. Ma avanziamo ora un’ipotesi su questa esibita diffidenza di Spadolini verso la geopolitica, una idiosincrasia che, riteniamo, fosse più un atteggiamento pubblicamente rappresentato che profonda convinzione perché a Spadolini non era affatto estranea la dimensione machiavelliana e quindi realistica, e l’ipotesi è – ma ipotesi molto forte perchè totalmente compatibile con tutto il suo profilo intellettuale e politico fin qui tracciato – che questa contrarietà verso la geopolitica fosse stata pubblicamente ostentata perché questa scienza tendeva, pur nelle varie sfumature dei suoi autori, a mettere assolutamente in secondo piano, fino a ritenere del tutto ininfluenti, tutti quei fattori sovrastrutturali di tipo quiritario e morale (meglio: moralistici tout court) che Spadolini aveva tanto cari e per l’edificazione del suo progetto politico in Italia ed anche per il mantenimento della narrazione filoccidentale e filoatlantica cui il Professore tanto teneva non so quanto per convinzione personale ma certamente fondamentale per posizionare il futuro partito della ragione – al tempo di quel giudizio sulla geopolitica Spadolini non era ancora segretario del PRI, ma certamente più di un pensiero in proposito doveva averlo fatto! e se divenire segretario del Partito repubblicano non era certo obiettivo programmabile in anticipo, non altrettanto si può dire di una carriera politica da notabile all’interno della c.d. area laica, per Spadolini preferibilmente il Partito repubblicano o quello liberale – come il più affidabile guardiano del dogma atlantista (già il PRI, i liberali e i socialisti di Saragat lo erano ma Spadolini Segretario del PRI riuscirà ad accentuare ancor di più questa caratteristica del Partito repubblicano). Per farla breve, nel novero dei personaggi pubblici e politici, egli fu il più accanito filoatlantista ed anche filoisraeliano che mai fosse apparso e mai più apparirà in Italia e un posizionamento che a livello pubblico venne sempre giustificato da Spadolini in base a ragionamenti di natura extrastorica ed intrinsecamente antigeopolitica di matrice unicamente moralista basati sulla necessità di difesa dell’occidente e della democrazia e mai perché magari si doveva fare così e schierarsi così perché le alternative, geopolitiche o geostrategiche o storiche che dir si voglia, non consentivano di far diversamente.
Ritengo molto opportuno a questo punto, per dare forma compiuta a questo discorso su Spadolini, sul suo progetto politico, sulle sue contraddizioni e, soprattutto, su quanto queste contraddizioni possano farci da segnalatore d’incendio sulle attuali, intese come costituzione materiale ideologica di un paese che – destra e sinistra in questa Stimmung ideologica accomunate indifferentemente – non riesce a darsi una decente narrazione che faccia veramente gli interessi globali dell’ Italia vista come comunità nazionale dotata di una sua peculiare identità, che è il suo bene più prezioso da tutelare (insomma, per mettere a fuoco quanto questo discorso su Spadolini possa essere d’aiuto per un’Italia formata in senso rigorosamente ed autenticamente mazziniano), ricorrere al Nomos della Terra di Carl Schmitt: «Nell’epoca interstatale del diritto internazionale, databile tra il secolo XVI e la fine del XIX, si conseguì un reale progresso nel campo della civiltà: quello di circoscrivere e definire giuridicamente la guerra in ambito europeo. Come osserva Alfred von Verdross nella sua recensione al Nomos, è di importanza centrale il passaggio, avvenuto attorno ai secoli XVI-XVII, dall’analisi teologico-morale della justa causa belli a quella puramente giuridica dello justus hostis (e quindi del bellum justum interstatale). Questo passaggio è realmente importante e merita di essere evidenziato, anche perché il concetto di “equilibrio interstatale” che esso introduce si sarebbe mantenuto sostanzialmente inalterato fino a tutto il secolo XIX. Cessata l’unitarietà medievale dei punti di riferimento e di orientamento spaziale, è l’uguaglianza tra le nuove figure (o “persone”) statali che determina la limitazione dei mezzi bellici consentiti nel bellum justum. Non più valutazioni contenutistiche tese a giustificare (o ingiustificare) il ricorso alle armi in base a verità ultime ed esclusive, ma solo la precisa definizione giuridico-formale delle parti contendenti come Stati sovrani titolari di un potere effettivo può consentire l’esercizio del bellum justum. La guerra statale si contrappone allora alla guerra di religione che alla guerra civile, assumendo un’inconfondibile forma giuridica, facendosi cioè guerre enforme. Se gli Stati territoriali, nella veste di personae publicae, si considerano sempre cavallerescamente l’un l’altro come justi hostes, ne consegue che la guerra riesce a diventare qualcosa di analogo a un duello, a un combattimento tra personae morales individuate territorialmente e radicate nell’ambito spaziale europeo. A confronto con la brutalità espressa dalle guerre di religione e di fazione, che sono per la loro stessa natura guerre di distruzione in cui i nemici si discriminano a vicenda come criminali, e a confronto con le guerre coloniali, condotte contro i popoli “selvaggi”, ciò significa una razionalizzazione ed un’umanizzazione di grande valore. Ad entrambe le parti in lotta spetta lo stesso riconoscimento giuridico-formale, con la conseguenza di poter distinguere, grazie a criteri certi, il nemico dal criminale. Il concetto di nemico non corrisponde più a “qualcosa da annientare”, ovvero ad un assoluto negativo, al quale non è dovuto neppure alcun rispetto umano e morale. Ora aliud est hostis, aliud rebellis. Diventa pertanto possibile procedere ad un trattato di pace con i vinti e – cosa egualmente importante – diventa possibile agli Stati estranei al conflitto mantenersi in uno status giuridico-internazionale di neutralità, quali terzi. Ora, va riconosciuto che con il secolo XX proprio questa funzione, limitativa del diritto internazionale è venuta meno, determinandosi un quadro segnato: a) dalla sempre possibile guerra di annientamento totale (dove il passaggio dall’uso delle armi convenzionali a quello delle armi nucleari non è ‘trattenuto’ se non da occasionalismi storico-politici); b) dalla perdita irreversibile del senso di una normatività naturale (che era stata, per il passato, la condizione di possibilità, quasi l’a priori metafisico, del nomos della terra); c) dalla falsa ipotesi teorica, che informa assai spesso la prassi dei governi, secondo cui cause di tipo economico-strutturale (ad esempio relative alla distribuzione delle risorse materiali) sono sufficienti a spiegare il problema dell’equilibrio mondiale e le ragioni profonde del conflitto (escludendo quindi tra l’altro che le leggi del ‘politico’ abbiano una loro ben chiara autonomia nei confronti di quelle dell’ ‘economico’ o del ‘giuridico’).»: Carl Schmitt, Il Nomos della Terra Nel Diritto Internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, traduzione e postfazione di Emanuele Castrucci, cura editoriale di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 20064, pp. 437-439.
Con una piccola modifica della locuzione ‘guerre en forme’ possiamo dire che con la seconda presidenza Trump siamo passati da un imperialismo che aveva bisogno di giustificazioni politico-morali per agire (la difesa della democrazia e/o dell’occidente ed altre autentiche corbellerie come la difesa dei diritti delle minoranze, solo che vallo a far capire a queste assatanate zucche vuote – od autosvuotate, «Attacca ‘o ciuccio addò vo’ ‘o padrone», come si dice dalle parti di Partenope – di imperialisti old style che, ammesso e non concesso che in una data area del globo vi siano queste minoranze conculcate, fare una guerra in loro nome non ne accresce certo la popolarità presso i loro oppressori. Ma niente paura: empiricamente, nella stragrande maggioranza dei casi, queste minoranze sono pienamente rispettate e tutelate e i problemi arrivano dopo i salvifici interventi occidentali, nel senso che coloro che subentrano agli immaginari conculcatori, si mettono di buzzo buono a fare il contrario di quello di coloro che hanno rovesciato con l’aiuto occidentale, Siria docet, con l’odierna pietosa condizione, fra le altre minoranze, dei cristiani dopo il criminale rovesciamento del legittimo presidente Bashar al-Assad ad opera dei jihādisti ed altre variopinte formazioni di tagliagole appoggiate logisticamente e foraggiate finanziariamente dalla Nato, dalla Turchia e da Israele, ad ognuno di questi signori della guerra il suo tagliagole preferito fino al prossimo definitivo smembramento della Siria e vicendevole macello fra queste salvifiche formazioni di tagliagole con aggiunta dello sterminio delle minoranze che si diceva di volere proteggere) ad un ‘impérialisme en forme’ per il quale per agire sono dannose ed assurde le astratte regole del diritto internazionale ma vale solo l’interesse dell’agente statale imperiale, che per raggiungere i suoi obiettivi può anche ricorrere alla guerra che non si giustifica più in quanto avviene contro un nemico dell’umanità (egli, infatti, da ora da demone si tramuta in justus hostis: se notiamo, per Trump Putin non è più un pazzo criminale ma un amico, o un quasi nemico, col quale si deve trattare, e che se non ragiona, si tramuterà in justus hostis da colpire con sanzioni verso la Russia ma non certo un pazzo criminale, come espressamente faceva intendere Biden, da cancellare dalla faccia della Terra, solo che, ovviamente, ciò non era tecnicamente possibile ma per Biden, per tutto la sua amministrazione e più in genere, per tutta la genia dei suoi amici imperialisti infrolliti non ‘en forme’, nulla poteva essere escluso – non poteva, cioè, essere esclusa una bella guerra nucleare in Europa ma solo in Europa perché si può essere dal punto di vista del realismo politico e della salute mentale ‘fuori forma’ quanto si vuole ma lo spettro di una guerra termonucleare totale e combattuta anche sul territorio degli Stati uniti contro la Russia che detiene l’indiscusso primato in questo tipo di armamenti è capace di far rinsavire anche le menti più tarde e a gelare anche i più bollenti ed ottusi spiriti …) ma in quanto la guerra (e nel nostro caso, le mire imperialistiche) sono una modalità corretta e naturale dei rapporti internazionali fra Stati. Ci prendiamo il canale di Panama perché è nostro ed è stato un errore cederlo a Panama, ci prendiamo la Groenlandia perché ci conviene e non ha senso che un insignificante regno come la Danimarca voglia negarne il possesso a noi che siamo tanto più forti e capaci di farla fruttare e se così agendo si sovverte l’ordine internazionale basato sull’ipocrita precedenza del diritto sulla forza chissene …, e, infine, ci prendiamo il Canada perché siamo due fratelli e non ha senso che si viva in case separate mentre vivendo assieme potremmo dividere le spese, rectius: così gli Stati uniti possono spalmare meglio il loro immenso debito pubblico e l’altrettanto pauroso deficit della bilancia commerciale. Sovviene un dubbio: non è che Trump, al contrario di tutti i gallinacci impagliati liberal-liberisti e senescenti imperialisti vecchio stile, sia stato ispirato tramite una seduta spiritica – dubitiamo che sia un accanito lettore della letteratura economica ma non si sa mai! – dall’economista austriaco Kurt W. Rothschild laddove disse, già nel 1947, che per capire come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith e i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege? Vista la timida ed introversa natura del nuovo presidente degli Stati uniti nel quale la discrezione sulla sua vita privata e formazione è il tratto dominante della sua personalità e la natura altamente spirituale, per non dire esoterica, della domanda, forse non lo sapremo mai… ma per chi volesse approfondire la più prosaica questione dello sconcertante consiglio per le deboli menti degli imperialisti ‘fuori forma’di Rothschild, si cita, tanto per iniziare, da p. 135 di Michael Landesmann, Kurt Rothschild’s ‘Price Theory and Oligopoly’ Revisited, in Altzinger, Wilfried, Guger, Alois, Mooslechner, Peter, Nowotny, Ewald, Economics as a Multi-Paradigmatic Science. In Honour of Kurt W. Rothschild (1914-2010), Oesterreichische Nationalbank, Vienna, 2014, pp. 132-136: «Kurt Rothschild throughout his article prefers the language of Clausewitz (‘Principles of War’) to that of either game theory or to biological or psychological terms to characterise the behaviour of oligopolists (see pp. 305-07). This is also linked to Rothschild’s life-long interest in the role of power in economics; see his well known Penguin volume (Rothschild, 1971) [versione PDF del documento all’URLhttps://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf, Wayback Machine:https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf ].», da p. 8 di Eckhard Hein and Achim Truger, Interview with G.C. Harcourt. The General Theory is not a book that you should read in bed!:«Doing my undergraduate dissertation I was very much influenced by K.W.Rothschild. He published this extraordinary paper Price theory and oligopoly (1947) about using Clausewitz’s Principles of War to examine oligopolist behaviour, about how secure profits are as important as maximum profits, in price wars and in the intervals between wars. [documento disponibile solo nella versione PDF all’URLhttps://www.elgaronline.com/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro “congelamento” autonomo su Wayback Machine:http://web.archive.org/web/20250204213148/https://www.elgaronline.com/downloadpdf/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro caricamento autonomo su Internet Archive:https://archive.org/details/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigiehttps://ia904504.us.archive.org/35/items/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi/Kurt%20W.%20Rothschild%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Massimo%20Morigi.pdf] » e, infine, citando direttamente dal Price theory and oligopoly di K.W. Rothschild, dove alle pp. 299-320 di “The Economic Journal”, vol. 57, n° 227 (Sep., 1947) viene pubblicato il predetto documento e dove a p. 307 si può apprezzare la famosa sentenza dello stesso Rothschild su Clausewitz e il suo Vom Kriege: «The oligopoly-theorist’s classical literature can neither be Newton and Darwin, nor can it be Freud; he will have to turn to Clausewitz’s Principles of War. There he will not only find numerous striking parallels between military and (oligopolistic) business strategy, but also a method of a general approach which – while far less elegant than traditional price theory – promises a more realistic treatment of the oligopoly problem. To write a short manual on the Principles of Oligopolistic War would be a very important attempt towards a new approach to this aspect of price theory; and the large amount of descriptive material that has been forthcoming in recent years should provide a sufficient basis for a start. [documento da noi raggiunto all’URLhttps://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf, Wayback Machinehttps://web.archive.org/web/20210308202431/https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdfe nostro caricamentoautonomo su Internet Archive agli URLhttps://archive.org/details/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massiehttps://ia600608.us.archive.org/29/items/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi/Kurt%20Wilhelm%20Rothschild%2C%20Kurt%20W.%20%20Rothschild%2C%20Price%20Theory%20and%20Oligopoly%2C%201947%2C%20Massimo%20Morigi%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf]».Ma a questo punto della nostra acribia citatoria, siamo fiduciosi di aver reso un buon servizio non solo ai lettori de “L’Italia e il Mondo” ma anche al neoeletto presidente Trump che così, sulla scorta di questo documento di cui forse non era a conoscenza, potrà rendere ancora più teoricamente scaltriti e concretamente operativi ed efficaci i suoi imérialisme en forme e le appena iniziate guerre doganali che ne sono il necesssario corollario e dal quale ci aspettiamo, per questo, un cenno di ringraziamento, anche privatamente, vista la discrezione che è il suo marchio di fabbrica. Attendiamo speranzosi…
Non possiamo sapere come Spadolini avrebbe reagito politicamente e pubblicamente di fronte a questa rozza manifestazione di geopolitica à la Trump, (espressa per ora solo verbalmente ma siamo agli inizi del suo secondo mandato e diamo tempo al tempo), un ‘impérialisme en forme’ che ha letteralmente disintegrato tutti i velami ideologici della difesa dell’occidente, della democrazia et similia. Su un piano strettamente interiore, sono sicuro che avrebbe condiviso, come la quasi totalità della pubblica opinione ma anche come la quasi totalità di coloro che, pur addentro negli arcana imperii, della politica non hanno una visione informata ad un concetto di realismo di marca predatoria, lo sdegnato orrore che naturalmente e giustamente ispira questa inedita situazione di ‘impérialisme en forme’. (Come predatorio non è il realismo del Repubblicanesimo Geopolitico, machiavellianamente conflittualista ma tutt’altro che predatorio perché basato su una filosofia della prassi che implica un rapporto dialettico fra soggetto ed oggetto, che non sfocia mai nella soppressione di uno di questi due momenti, che rifiuta espressamente, cioè, al contrario che in Carl Schmitt, l’eliminazione del nemico, ma è consustanziale e quindi necessariamente complementare alla continua trasformazione dell’amico e del nemico attraverso il loro incessante confronto dialettico di vicendevole superamento ma non annientamento, lungo una linea di pensiero dialettico che parte dal realismo del conflittualismo civile e repubblicano di Niccolò Machiavelli, passa per l’ Aufhebung delle forme storiche e politico-sociali e della dialettica continuamente evolutiva e trasformatrice del rapporto servo-padrone concepiti da Hegel, comprende in sé l’impostazione olistica della comunità nazionale di Giuseppe Mazzini, per il quale repubblica non significa la mera sostituzione di un re con un presidente ma quella forma di Stato che sappia garantire, al contrario della monarchia, il continuo rafforzarsi di questa natura olistica della società contro tutte le spinte disgregatrici ed anomizzanti ingenerate dalla concezione del diritto individuale che dovrebbe sempre prevalere sui doveri sociali così come vorrebbe il liberalismo, mentre, per Mazzini, l’organizzazione politico-sociale deve poggiare su una teoresi e pratica politica dove i doveri dell’uomo verso la società sono sempre gerarchicamente superiori ai diritti che la società concede – per Mazzini: concede come corrispettivo dei doveri compiuti ma non che deve concedere per una sorta di inesistente diritto naturale, diritto naturale inesistente ma molto presente nella mente dei moderni a causa dell’ideologia liberal-liberista che, in realtà, con questa menzogna vuole rendere gli uomini schiavi e l’un contro l’alto armati attraverso l’azione anomizzante e disgregatrice del vincolo sociale di questi “diritti naturali” – ai suoi componenti, fino a giungere al marxismo cultural-volontaristico ed antideterministico e alla filosofia della prassi di Antonio Gramsci, gemmazione diretta quest’ultima, attraverso il suo rifiuto di un marxismo positivista e sotto la forte influenza di una Weltanschauung profondamente segnata dal volontarismo sorelliano, dell’idealismo italiano nella versione dell’attualismo di Giovanni Gentile: idealismo italiano che come fiume carsico attraversa, anche se a monte di fine percorso dividendosi in corsi gettantisi in mari politici di diverso nome e vocazione, il rivoluzionario Gramsci e il patriota liberale ma anche gobettiano nel senso della Rivoluzione Liberale Giovanni Spadolini!)
Ma siccome Spadolini, oltre che l’immaginifico assemblatore di costellazioni di personaggi che, in fondo, in comune avevano ben poco, era anche, quando lo voleva, un solido realista, in chiusura di questo ragionamento, mi sia consentito di sintetizzare la Gestalt più profonda di questo profilo di Giovanni Spadolini, citando le parole conclusive che egli stesso, negli Uomini che fecero l’ Italia impiegò nel suo medaglione su Salandra, dove il nome del biografato può non solo essere sostituito, mantenendo la moralità del testo, con quello del compianto Professore ma anche con i nomi di tutti quelli che, lo scrivente compreso, forse non hanno compreso in tempo il ‘compiuto peccato’ di un’Italia che forse perché non poteva fare diversamente ma anche perché non l’ha voluto si è adagiata, dopo il secondo conflitto mondiale, sui comodi ma falsi concetti, miti e parole dei più potenti pseudoamici d’oltreoceano: «Ora che tante di quelle passioni sono spente, nessuno può valutare esattamente il posto che Salandra occuperà nel quadro della storia italiana. Con le sue stesse contraddizioni, le sue intransigenze ideali ed i suoi compromessi politici, Salandra rappresenta un momento della vita del paese, riflette passioni che furono anche generose ed alte. Difficile pensare che sopravviva, di lui, una vera e propria concezione politica; altrettanto difficile pensare che basti, a difenderne la popolarità, il giurista, pur così eminente. Più facile supporre che il suo nome, affidandosi alle memorie dell’intervento e della prima guerra mondiale, sarà ricordato con affettuoso rispetto da generazioni di ragazzi e giovani, da tutti coloro che crederanno ancora ai valori della patria e alla sua continuità. E che non si porranno mai quei problemi che interessano solo lo storico di professione.»: Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, vol. II, Il Novecento, Milano, Longanesi, 1972, p. 185.
Giovanni Spadolini «È sepolto nel cimitero monumentale delle Porte Sante, ai piedi della basilica di San Miniato, nel piccolo prato che sovrasta Firenze, accanto a Vasco Pratolini, Pietro Annigoni, Giorgio Saviane e Mario Cecchi Gori. Davanti alla cappella della famiglia, dove riposano, fra gli altri, i genitori.»: Cosimo Ceccuti, cit., p.63. Per sua disposizione volle che sulla sua lapide – una lapide che nella forma ci vuole suggerire l’immagine di fogli sparsi e libri, quei libri che egli tanto amò – fosse incisa unicamente la scritta ‘Un Italiano’.
S. Non so se queste mie parole possano costituire una risposta alle considerazioni suscitate a ws dai miei precedenti interventi in tema di Risorgimento, mazzinianesimo e Partito repubblicano. Personalmente, ricostruire il profilo politico-intellettuale di Giovanni Spadolini, non è stato solo un esercizio di conio di un medaglione biografico e ulteriore chiarificazione di teoria politica dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico ma è stato, anche sotto l’aspetto sentimentale, una recherche du temps perdu, che mi ha profondamente toccato. Spero solo che un po’ di questa emozione, non per le limitate capacità espressive dello scrivente, ma per il valore umano e di inattingibile esempio di pubblica moralità – al di là dell’ attualità delle sue concezioni ideali e delle sue azioni politiche – di Giovanni Spadolini che volle incarnare le speranze o le illusioni per un Italia migliore e lo ha fatto nei momenti in cui c’era ancora una gioventù e un popolo che, al di là delle appartenenze politiche, credeva ancora in questa possibilità, siano state trasmesse ai gentili lettori dell’ “Italia e il Mondo”, anche – se non soprattutto– a coloro di diversa origine politica ma che, fondamentale, sono accomunati nell’amore per l’Italia, un amore che fu l’unica vera passione che costantemente ispirò l’operato e le speranze di Giovanni Spadolini.
Massimo Morigi, terzo intervento sul mazzinianesimo pubblicato dal blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” in data IX Febbraio 2025, 176° anniversario della proclamazione della Repubblica Romana del 1849
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Sono imbarazzato nel proporre ai miei lettori un concetto già esposto pochi mesi orsono (v. “Salvini e Montesquieu” e “Processare il politico”) relativo al carattere degli ultimi contrasti tra uffici giudiziari e potere governativo: di concernere materia oggettivamente politica. A differenza di gran parte dei processi a governanti nell’ultimo trentennio, dove li si accusava per lo più di reati a carattere non politico (furto, appropriazione indebita, violenza carnale, evasione fiscale, ecc. ecc.).
Invece nei casi di rilevanza mediatica degli ultimi mesi il connotato comune è che la materia è squisitamente politica. Si tratta cioè della sicurezza dei cittadini e della difesa del territorio dello Stato. Come scriveva Montesquieu:
“In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…
Per il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”.
Ossia è attività che da secoli se non da millenni è considerata di competenza del potere esecutivo. E V.E. Orlando notava che la differenza di “natura” o di “materia” era soprattutto differenza di scopo: si operavano deroghe e talvolta rotture dell’ordinamento, al fine di soddisfare una necessità pubblica.
A differenza dell’attività giudiziaria il cui nocciuolo fondamentale è accertare la conformità di una condotta ad una regola onde è essenziale la correttezza del giudizio e l’imparzialità del giudice (almeno se si vuole una giustizia reale). E la cui conformità allo scopo (cioè l’opportunità) è poco o per nulla rilevante.
Tali funzioni e attività vantano dei brocardi latini che le sintetizzano. Per la prima questa è salus rei publicae suprema lex esto, ossia lo scopo prevale sulla regola, l’esistente sul normativo e il criterio principe per valutarla è il risultato; dell’altro fiat iustitia, pereat mundus, per cui il diritto dev’essere applicato, anche se provoca danni e il criterio è la conformità della decisione giudiziaria alla norma applicanda.
La conseguenza è che se da una applicazione esatta della legislazione derivano gravi danni è corretto sopportarli. Ad esempio qualche migliaio di morti affogati nel mediterraneo, problemi interni di sicurezza, miliardi di euro per l’accoglienza cedono rispetto al gradino alto dei valori costituito dalla giustizia, (qua) intesa come conformità al diritto.
Al contrario se si pone sul gradino superiore l’altro brocardo, è il contrario.
Ma tenuto conto come anche nell’ordinamento giuridico l’esistenza precede la regolamentazione (si può regolare ciò che non esiste? È una pratica inutile) la risposta non può essere che suprema lex prevale. E questo dovrebbe dirsi la sinistra che, a quanto pare, è tutta propensa al pereat mundus (verso il quale ha una certa propensione). Ma finché col non dirlo o appesantendo il proprio argomentare con clausole e cavilli si distoglie l’attenzione dall’essenziale, va tutto bene.
Teodoro Klitsche de la Grange
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DeepSeek: L’Intelligenza che anche voi avreste preferito non avere
L’abbiamo sospettato fin dal principio! DeepSeek non era ciò che sembrava.
Mentre il coro degli apologeti, abbagliato, si spellava le mani applaudendo alla “rivoluzione dell’AI open-source cinese”, l’olezzo della truffa aleggiava già nell’aria. Non era solo un prodotto scadente, ma un test sociale e un’arma geopolitica: un perfetto specchietto per allodole progettato per misurare la reazione e la permeabilità del pubblico, manipolare l’informazione e valutare il livello di assuefazione globale alla narrazione prefabbricata.
E la verità è che non si trattava di un’arma esclusiva della Cina contro l’Occidente, come le apparenze hanno indotto all’inizio. No, DeepSeek è stato un esperimento e un’arena globale, per meglio dire bipolare; un Running Man digitale, in cui Arnold Schwarzenegger siamo tutti noi, costretti a muoverci in un labirinto virtualizzato dove la menzogna è la regola e la verità dev’essere scovata con il bisturi della spietata lucidità.
Non è solo una piattaforma mal funzionante! È un esperimento sulla percezione collettiva, per vedere quanto velocemente si potesse imporre una narrativa fittizia e censurare ogni dissenso, quanto potesse durare una bolla costruita sul nulla prima di scoppiare, e quante persone sarebbero rimaste intrappolate a credere nella favola anche quando i numeri stessi dimostravano il fallimento. Con il corollario non trascurabile di sferrare qualche colpo basso alle élites emergenti negli States.
Noi, per fortuna o per grazia ricevuta, riteniamo di aver compreso in tempo reale che eravamo di fronte a un’operazione di ingegneria dell’illusione.
Il vero esperimento non era il giocattolo DeepSeek in sé. Le cavie eravamo noi. Perché oggi, per non farsi ingannare, non basta più essere informati. Bisogna essere spietati. Serve una mentalità tech-rinascimentale, una fusione tra cinismo geopolitico, competenza informatica, diffidenza strutturata, lettura dei segnali subliminali, comprensione dei pattern di manipolazione e fiuto per le truffe. Un’epoca in cui l’inganno è la regola e l’informazione è un campo di battaglia. Un’epoca in cui solo chi sa leggere tra le righe ha qualche possibilità di capire cosa stia realmente accadendo.
Lo ripeto: DeepSeek è stato un fallimento? No, è stato un test. Il vero test era su di noi. E chi ha abboccato alla narrazione, chi ha esultato per un’illusione, chi ha difeso l’indifendibile senza porsi domande, ha dimostrato di non aver ancora capito le regole del gioco.
Rathbones 27 gen 2026
La Lista Nerd a Sei Punti: L’Esperimento sul Campo
Abbiamo voluto provare DeepSeek di persona, non per fideismo sulle magnifiche sorti, ma per smanioso desiderio di smascherarne la reale natura. Ecco che cosa è emerso, :
Sreenshot dal nostro profilo personale di DeepSteek antecedente il blocco. Improvvisamente sono sparite tutti i prompt e le risposte. Il flusso di tutti questi dati dove è finito?
1. Investitori misteriosi
Gli abbiamo chiesto chi c’è dietro. DeepSeek ha risposto con dichiarazioni all’estremo della sua “creatività”, spesso contraddicendosi tra un prompt e l’altro. Un caleidoscopio di nomi inventati, falsi storici e sigle inesistenti, come se ci trovarsi in un romanzo di spionaggio di bassa lega trash. L’esito delle nostre domande vi confesso è stato tra il comico e uno schema predeterminato e fuorviante
ChatGPT riporta le incongruenze della indicizzazione e delle informazioni fuorvianti su vari portali 28 gen 2026
2. Dati di mercato incongruenti
Volevamo capire se ci fosse un business plan serio. Risultato? Numeri gonfiati, trend economici da “mondo dei desideri” e previsioni prive di alcun fondamento. Se chiedi conferma, cambia versione con l’agilità di un prestigiatore da fiera di paese.
Variazioni imbarazzanti dei benchmark dei vari tester . 29 gennaio
3. Emissione di token
La narrazione ufficiale parlava di decentralizzazione, coin e libertà digitale. La verità è che mancava qualsiasi documentazione su blockchain, governance e obiettivi reali. Un’operazione di finanza creativa più simile allo schema di una truffa che a una “rivoluzione open-source”.
report Mike Genovese (analista di Rosenblatt)- da Investing.com
4. Shadow banning e indexing manipolati
Ogni post o articolo critico è stato declassato, nascosto o rimosso. Reddit, Twitter/X, blog specializzati: tutto setacciato. Nel frattempo, i contenuti elogiativi salivano in testa alle ricerche come per magia, accompagnati da commenti entusiastici prefabbricati. Chiunque chiedesse prove o cifre era tacciato di essere un “agente del discredito”.
(dai grafici, incrociati con i successivi, si evince un’incongruenza con l’effettiva operatività possibile)
5. Selezione matematica, non logica
DeepSeek si rifugia nelle operazioni di base (somme, moltiplicazioni, calcoletti) per apparire affidabile. Appena si passa alla logica complessa, all’analisi geopolitica o alle interpretazioni storiche, crolla in un mare di banalità e incoerenze. Un centralino, non un’AI. Un proxy intelligente che fornisce illusioni di scelta invece di elaborare un pensiero autonomo. Un organismo che vive di memoria parassita, privo di “motu proprio”
6. L’Effetto Tetris
L’apoteosi del grottesco. Abbiamo visto gente esaltarsi perché DeepSeek era riuscito a generare un Tetris. Gente che urlava al “Miracolo!” con la stessa enfasi di uno sciamano che assiste a un’eclissi solare, ignorando il fatto che un Commodore 64 gestiva ben di più. Il Tetris è diventato il simbolo di una manipolazione collettiva: è bastato un giochino anni ’80, ed ecco i “guru” tech in estasi mistica.
Il risultato di questa lista?
Ci conferma, senza ombra di dubbio, che DeepSeek non era un’avanguardia tecnologica, ma uno specchietto per le allodole con il quale testare il livello di creduloneria e plasmabilità dell’ecosistema digitale. Una macchina che non produce conoscenza, ma indirizza e filtra quella già esistente, riportandoci all’analogia del “centralino”: un sistema di smistamento, non un modello cognitivo evoluto.
Chi ha creduto davvero in DeepSeek senza fare domande ha perso la partita due volte: una sul piano tecnico, scambiando un colabrodo per un cappello, e l’altra sul piano dell’analisi critica, perché ha dimostrato di non saper riconoscere i segnali di un esperimento di disinformazione organizzata.
Chi, invece, l’ha usata come poligono di tiro per svelarne i limiti, ha confermato ciò che avevamo intuito: c’è un abisso tra l’apparenza “open-source rivoluzionaria” e la realtà di un proxy manipolativo, progettato per raccogliere dati, falsificare metriche e alimentare un hype del tutto sganciato dalle prestazioni reali con in non secondario accessorio dei guadagni speculativi sui ribassi.
È da qui che poi partono le implicazioni geopolitiche e la parte caustica sull’Europa-cervo e la “ghigliottina”, perché se DeepSeek è stato un test, l’Europa è stata il laboratorio perfetto, con una classe dirigente che si fa turlupinare dai Tetris colorati e da una propaganda scadente, invece di chiedere numeri e verità. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Abbiamo provato di persona cosa significhi interagire con DeepSeek. Non ci siamo limitati a leggere recensioni o report degli esperti: abbiamo messo le mani nel motore, cercando di capire se davvero questa IA fosse l’erede designata a surclassare ChatGPT e soci. Gli abbiamo chiesto tutto: dagli investitori dietro al progetto (risultato: silenzio o menzogne), ai dati di mercato su se stesso (risultato: cifre inventate o assurde), fino alle missioni future dell’IA (risultato: un collage tra Mago di Oz e Orsetti del Cuore, pieno di risposte motivazionali, ma vuote di contenuto). I numeri parlano chiaro: tra il 63% e l’86% delle risposte fornite da DeepSeek risulta errato o fuorviante.
Ma il punto più assurdo non è solo la quantità di risposte sbagliate, bensì il modo risentito in cui le critiche sono state trattate. Nel giro di poche ore, si è scatenata un’operazione di shadow banning sulle piattaforme più importanti: post critici spariti da Reddit, articoli scettici deindicizzati o schiacciati dalle lodi sperticate di qualche testata “alternativa”. A chi osava chiedere trasparenza, si rispondeva gridando al complotto. L’accusa ricorrente? “Non capire la rivoluzione open-source”. Senza mai, ovviamente, presentare uno straccio di prova contraria.
Ed ecco l’Effetto Tetris: c’è gente che gridava al miracolo perché DeepSeek aveva generato un Tetris. Un Tetris, nel 2024.
Come se fosse la prova suprema dell’intelligenza artificiale. A quel punto, ci siamo detti: se la nuova frontiera del futuro è replicare un gioco dell’84, tanto valeva chiedere a un Commodore 64 di scrivere un paper sulla rivoluzione quantistica. Eppure questi erano i “guru” della contro-informazione digitale, estasiati come se avessero assistito allo sbarco su Marte.
Il sospetto è diventato certezza quando abbiamo visto quanto fosse blindata la narrativa. Questo non è marketing aggressivo, è una campagna di manipolazione su larga scala, in cui chiunque chieda dati reali viene bannato, e chiunque applaude viene premiato con l’eco mediatica. Non è un caso di hype gonfiato: è qualcosa di stratificato, come se qualcuno avesse non solo prenotato il campo da calcio, ma comprato i giocatori, l’arbitro e pure la genetica dell’erba del prato all’inglese. Un’operazione che ha scelto la matematica invece della logica complessa, perché il calcolo si verifica subito e illude i gonzi, mentre il ragionamento va dimostrato. È lì che DeepSeek crolla miseramente.
Cos’è quindi veramente DeepSeek? Non è un prodotto tecnologico evoluto. È un centralino, un router di informazioni, un proxy intelligente che non crea nuove sintesi, ma smista richieste e fornisce output preconfezionati. Un generatore di illusioni di scelta che, in realtà, nasconde la mancanza di alternative reali. Se gli chiedi qualcosa di matematico, ti risponde. Se gli chiedi una visione geopolitica o storica, ti svicola con banalità o bug clamorosi.
È un call center, non un’AI autonoma.
(i commenti di natura tecnic su reddit iniziano e riemergere appena dopo il blocco dell’applicazione)
Il suo ruolo strategico è stato far credere al mondo che la Cina avesse sfornato in pochi mesi una IA in grado di rivaleggiare con anni di ricerca e miliardi di dollari investiti da colossi americani. In realtà, DeepSeek non rappresenta la Cina come blocco, bensì la guerra ibrida condotta da chi tiene le fila di un gioco più grande: il Cerbero a due teste, dove una testa politica in grado di coordinare parte della finanza angloamericana con il motore manifatturiero cinese; in mezzo c’è l’Europa che si crede giocatrice, ma è solo un campo di battaglia dove testare le armi di manipolazione.
Le cronache su come la Cina avrebbe “asfaltato” il mondo occidentale si basano spesso su letture semplificate di dati macroeconomici e su una retorica che confonde il ruolo del partito al potere con l’idea stessa di socialismo. In realtà, la traiettoria cinese è frutto di un compromesso tra pianificazione statale e incentivi di mercato, con un coinvolgimento capillare dei privati su cui lo Stato esercita un controllo certo meno liberale di quanto vorrebbero i fautori del capitale occidentale, ma ben distante dalle società egualitarie che la parola “socialismo” potrebbe evocare. Il risultato è un modello ibrido che ha permesso alla Cina di diventare un gigante produttivo, contando inizialmente sulla delocalizzazione industriale e sulla enorme disponibilità di manodopera a buon mercato; tuttavia, ciò non significa che abbia eliminato le diseguaglianze o instaurato un sistema veramente “collettivistico”.
La spinta alla crescita cinese poggia su alcuni pilastri difficilmente replicabili altrove: un bacino demografico sterminato, una struttura industriale sorretta da investimenti colossali in infrastrutture, e una classe dirigente che pianifica per obiettivi pluriennali—avvantaggiata, almeno nel suo stato nascente, dal non dover rispondere alla frenesia di scadenze elettorali immediate e dall’essere sottoposta a criteri di selezione più rigorosi. Questo però porta con sé problemi di sostenibilità e squilibri interni (debitamente mascherati dalla governance), dalla pressione sull’ambiente alle tensioni socioeconomiche nelle aree rurali e periferiche. Il “socialismo con caratteristiche cinesi” non punta tanto a emancipare le classi subalterne, quanto a garantire la stabilità del sistema, accettando e promuovendo ampie sacche di capitalismo privato e concentrando la ricchezza in poche mani, purché esse restino fedeli al piano generale del partito. La stessa espansione dei ceti medi professionali è il frutto tipico di una società in fase espansiva, attenta alle esigenze di coesione e complessità.
Dal punto di vista macro, l’idea che la Cina abbia superato definitivamente l’Occidente ignora i vincoli strutturali interni (come la dipendenza energetica e la necessità di sbocchi di mercato) e la stessa interdipendenza con gli Stati Uniti in settori come la tecnologia, i semiconduttori e la finanza. Più che una vittoria di un socialismo coerente, è un caso di “capitalismo di Stato” che ha saputo sfruttare la globalizzazione—spesso ai danni dei lavoratori, cinesi ed esteri, pur con tuti i vantaggi offerti dal superamento di una civiltà prevalentemente agricola. Sbandierare la “superiorità” cinese come panacea universale è, dunque, una scorciatoia intellettuale: il sistema cinese funziona nell’ottica di una crescita accelerata e di un controllo centralizzato, riduce ma non elimina né povertà né diseguaglianze, tantomeno si oppone davvero ai meccanismi di mercato. L’unico aspetto in cui si discosta dal liberalismo occidentale è la minore tolleranza per il dissenso politico; per il resto, siamo di fronte a una superpotenza che usa in modo sistematico e spregiudicato i canali commerciali mondiali, più che a un modello socialista “puro” o rivoluzionario.
I russi se ne sono accorti da un pezzo: Kazan doveva sancire la fine del dominio del dollaro, ma si è trasformato nel trionfo della strategia cinese del “falco e della pentola sul fuoco”. Lula ha fatto il sabotatore, e Putin ha guardato con più interesse a Teheran, perché l’Iran, per quanto scomodo, si è rivelato un alleato appena più sincero, non un opportunista di passaggio. Nel frattempo, negli Stati Uniti si sta consumando una lotta interna che vede emergere figure come Kennedy Jr. e Tulsi Gabbard, mentre il vecchio establishment demoneocon vacilla e in Europa invece si celebra il funerale dell’autonomia politica, con Starmer, Scholz e i falchi baltici a recitare il copione del feudo bancario nero.
È troppo facile immaginare la Cina come un monolite che incarna un “nuovo socialismo trionfante” o, all’opposto, un capitalismo di Stato pronto a schiacciare tutti i competitor. In realtà, Pechino opera secondo logiche che sfuggono alle categorie novecentesche di “mercato vs. piano”: da un lato, si proclama erede del marxismo (riadattato alla storia nazionale), dall’altro, è fortemente integrata nell’economia globale, al punto che il principale cliente dei suoi prodotti rimane proprio quel “Occidente decadente” che si vorrebbe superare. Da questo intreccio discende una dipendenza reciproca: non solo gli USA assorbono una parte enorme, anche se in via di ridimensionamento, dell’export cinese, ma la Cina è anche tra i maggiori acquirenti di Treasury bond americani, con un’esposizione che negli ultimi anni si è aggirata intorno ai 1000 miliardi di dollari (circa un terzo delle riserve in valute estere di Pechino). Questo significa che, in caso di collasso finanziario degli Stati Uniti, Pechino vedrebbe evaporare parte del proprio tesoretto, vanificando la narrazione di un “Socialismo di Mercato” impermeabile agli scossoni esterni. Allo stesso modo, se la Cina smettesse di sostenere il debito americano, l’economia globale subirebbe scossoni imprevedibili, inclusa la stessa manifattura cinese, che prospera grazie ai consumi occidentali. È dunque una partita a scacchi in cui Washington e Pechino non possono (ancora) permettersi di ribaltare la scacchiera e andarsene: si tratta di una relazione post-ideologica, che supera il vecchio schema bipolare e si fonda su un macro-equilibrio di costrizioni reciproche, più che su una sfida puramente ideologica. Presentare Xi Jinping come il nuovo Messia del socialismo e gli Stati Uniti come un gigante dai piedi d’argilla significa ignorare la rete di interessi tangibili che lega le due potenze e scambia vendite di T-bond con approvvigionamenti di semiconduttori e import-export di beni essenziali. In altre parole, la Cina non è un blocco coerente di “socialismo rinato”, ma un ibrido che oscilla fra pianificazione e libera concorrenza, dettato tanto dal pragmatismo geopolitico quanto dai rapporti di forza sul mercato mondiale. Pronta a confliggere e colludere.
DeepSeek andrebbe visto, quindi, almeno in parte come un episodio di questo rapporto di odio/amore tra i due contendenti o parti di essi.
E l’Europa? Il continente più stupido della Storia Contemporanea, che, invece di giocare per vincere, gioca per perdere bene, paralizzato come un cervo sotto i fari di un tir lanciato a tutta velocità. Il paradosso è che il cervo, come una fenice, resuscita, ma solo per farsi investire di nuovo, magari urlando contro Putin per sentirsi ancora più eroico mentre si fa maciullare. Perché oggi, la coerenza è un crimine, la strategia è un optional, e la classe dirigente UE sembra specializzata nell’aggiornare regolamenti green e quote arcobaleno di un mercato che non gestisce, senza accorgersi che la realtà si è spostata altrove.
Meglio la ghigliottina di un tempo che l’ipocrisia dei salotti televisivi, verrebbe da dire.
Nel frattempo, DeepSeek rimane lì, a farci da monito: non era un’IA potente, ma un’illusione studiata con cura per vedere chi ci sarebbe cascato, come un bambino che crede di aver scoperto la televisione a colori nel 2024. Un call center intelligente che smista, registra e cataloga, venduto come rivoluzione tecnico-culturale, mentre dietro le quinte si muovono poteri più antichi e più spietati di quanto l’entusiasta medio possa immaginare. Una Cina polimorfa che gioca a incassare vantaggi e un blocco angloamericano che finge di combatterla mentre in realtà la utilizza come partner in un duopolio malsano, con la Russia relegata a giocare partite alternative e l’Iran pronto a esser l’alleato di chiunque sappia riconoscere che i veri nemici non sono i popoli, ma i poteri politici, finanziari e industriali annessi, che muovono i fili.
Il problema non è DeepSeek in sé, ma la facilità con cui un bluff di questa portata può prendere piede se organizzato da chi conosce bene le leve della propaganda, i meccanismi di SEO e la psicologia di un’umanità pronta a credere in qualsiasi “rivoluzione” pur di sentirsi contro il sistema. E allora Tetris diventa il simbolo di un’epoca in cui il ridicolo non è più un’anomalia, ma la norma. E la prossima volta, potremmo vedere gente gridare al miracolo perché un’IA cinese “aperta” avrà ricreato Pang in 4K. E lì, gli applausi diventeranno ancora più assordanti.
Ma forse siamo noi a esagerare. Forse i tempi sono così maturi da coltivare l’arroganza in convento e il convento alla Rocco Academy. Forse gli angeli caduti vanno in ferie a Cervia e gli influencer si candidano da soli per manifesta incapacità. E forse, dopo tutto, DeepSeek non è il fallimento di un modello, ma la prova che la Storia ha deciso di farsi beffe di noi, come quell’adolescente viziata che dice di essere rimasta incinta per caso. E voilà, ecco la prossima rivoluzione che nasce. O forse no.
In fondo, la vera magia è saper generare la singolarità dove non è il guru a sperare di essere testimonial, ma il testimonial a essere già guru senza saperlo. Scegli me, e così sia. Un errore di calcolo della realtà, un salto triplo di un ovulo ai campionati di tuffi. Eccoci qui a rimirare un’illusione chiamata DeepSeek, che ci ricorda che siamo nel Truman Show di noi stessi, un eterno esperimento dove la verità non interessa a nessuno, e la menzogna è la valuta preferita del mercato e della narrazione globale. Finché avremo la forza di ridere e puntare il dito, forse resteremo un po’ meno prigionieri.
Perché l’unico valore, in questo gioco, è il potere. E chi non ce l’ha, semplicemente non esiste.
DeepSeek: L’Intelligenza che anche voi avreste preferito non avere
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Trump ha scioccato il mondo oggi con i suoi piani spensierati e senza scuse per la pulizia etnica di massa e la terraformazione di Gaza, dopo aver ricevuto un ricordo del “cercapersone d’oro” da un Netanyahu sorridente: difficilmente si potrebbe immaginare un quadro più cretino:
La quantità di contraddizioni fa girare la testa come un dreidel. “Nessuno può vivere lì, quel posto è un inferno”, spiega Trump con gli occhi gonfi, solo pochi istanti prima di dichiarare trionfante che il posto sarà trasformato in una “Riviera levantina” simile a un casinò per “la gente del mondo”; forse si tratta di persone elette ?
Trump sostiene che i palestinesi meritano di vivere in un luogo in cui non saranno ignominiosamente “morti”, ecco perché un campo profughi artificiale (o meglio, una città) dovrebbe essere costruito in Giordania, eppure dimentica di menzionare che l’uomo accanto a lui è la ragione per cui quegli indigeni di quella terra stanno “misteriosamente” morendo a frotte.
L’intera conferenza stampa sapeva di un surreale teatro dell’assurdo, come guardare dei “carini” Munchkins del Paese di Oz che sbranano voracemente una carcassa con le bocche intrise di sangue. Un Trump dall’aria servile blatera i suoi piani per il più grande genocidio e la più grande campagna di pulizia etnica della storia moderna con l’aria disinvolta di qualcuno che ordina un panino per la colazione. Come al solito, però, il vero schiaffo del tradimento sta nell’indifferenza dei fanatici dei media istituzionali, il cui lavoro avrebbe dovuto essere quello di mettere in discussione e indagare a fondo, appiccare una fiamma giornalistica a tali oltraggi della coscienza comune e della decenza.
Notate come Trump eluda in modo untuoso la domanda su chi vivrà a Gaza, non una, ma due volte. Nel video qui sopra, un reporter chiede a Trump se saranno costruiti insediamenti ebraici a Gaza: Trump finge di non aver sentito e risponde alla domanda con il pretesto che erano gli insediamenti palestinesi a essere stati interrogati.
Poi nel video qui sotto, afferma che gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza e ne “saranno proprietari”, quindi un mandato americano per il mondo moderno?
Infine, Kaitlan Collins della CNN gli chiede direttamente se i gazawi potranno tornare e, in caso contrario, chi Trump immagina che viva a Gaza dopo che gli USA si saranno trasformati in un “bel posto”? La risposta di Trump è uno studio storico di artificio scivoloso e deve essere vista per essere creduta:
“Immagino…persone del mondo che vivono lì.”
Popoli del mondo ? Sono forse imparentati con i misteriosi Popoli del Mare , per caso? Sono venuti a saccheggiare e reclamare il Levante per la seconda volta in altrettanti millenni? Gli antropologi di tutto il mondo sono in sospeso.
Si è mai vista una dimostrazione più esasperante di apologia del genocidio, sfoggiata e ricoperta di rossetto arancione?
Ebbene, cosa si può dire, Israele ha trovato il suo perfetto servitore fedele:
Qualcuno vuole un po’ di pilates proskynesis prima di pranzo?
Netanyahu ha regalato a Trump due cercapersone durante un incontro del 4 febbraio: “uno normale e uno placcato in oro”, ha dichiarato l’ufficio del primo ministro. Trump ha risposto dicendo che “è stata una grande operazione”.
Prima della sua elezione, Trump aveva definito la Striscia di Gaza “un luogo di prim’ordine” in una telefonata con Netanyahu e gli aveva chiesto di riflettere su quali tipi di hotel avrebbero potuto essere costruiti lì.
Sono l’unico a pensare che un cercapersone sia più un promemoria discretamente minaccioso per restare in fila, piuttosto che un grazioso ricordo di un vecchio amico?
Bene, quindi un giornalista è riuscito a mettere in discussione in modo piuttosto diretto i coraggiosi piani di acquisizione di Trump:
Quindi, secondo quanto sopra, Trump vuole togliere completamente la situazione di Gaza dalle mani di tutti i soggetti coinvolti e marchiarla veramente come una specie di protettorato degli Stati Uniti. C’è forse una minuscola possibilità che Trump stia effettivamente sovvertendo Israele a lungo termine con una specie di mossa di “scacchi olografici 5D”. Persino il famoso esperto di Medio Oriente Alastair Crooke, nella sua ultima intervista con la gente di Duran , ha suggerito che Trump ha essenzialmente “salvato” Netanyahu con queste ultime aperture per impedire ai veri estremisti di destra del Likudnik di prendere il sopravvento, perché “meglio il diavolo che conosci” . In altre parole, Trump almeno sa come lavorare con il più prevedibile Netanyahu e tenerlo in qualche modo in riga.
Penso che alcune persone sottovalutino le astuzie di Trump, quindi dobbiamo lasciarlo un po’ aperto per ora, ma a prima vista non sembra una bella cosa. Dopotutto, proprio ieri Trump ha tacitamente invocato il Grande Israele lamentando le piccole dimensioni di Israele rispetto al resto del Medio Oriente:
Quindi Israele ha finalmente ottenuto il suo più alto e autorevole riconoscimento per essersi finalmente liberato di quegli indigeni fastidiosi e combattivi: è un colpo di grazia israeliano senza precedenti, non è vero?
Be’, non proprio .
Le nuvole continuano ad addensarsi appena oltre il confine, come abbiamo sottolineato fin dall’inizio.
Jolani, ora ribattezzato con il nome di visir puro e semplice Ahmed al-Sharaa, è arrivato ad Ankara per prostrarsi finalmente davanti al suo più grande benefattore:
Finalmente, eminenza! Ho riportato indietro alcuni dei vostri camion Toyota, non ne abbiamo più bisogno.
E cosa ne sai? Come previsto, ci si aspetta che tra i due Paesi si mettano in moto cose importanti:
Il nuovo leader siriano offre a Erdogan di schierare basi militari turche nel paese, — Reuters
Durante i colloqui ad Ankara, Ahmed al-Sharaa discuterà del patto di difesa siro-turco, che include la creazione di basi aeree turche nella Siria centrale, scrive l’agenzia.
Nel frattempo, al-Sharaa ha già incontrato il presidente turco Erdogan e lo ha invitato a visitare Damasco.
Esatto, al centro delle discussioni c’è lo spiegamento di un esercito turco e di basi aeree in tutta la Siria centrale , nonché l’addestramento di un nuovo esercito siriano da parte delle forze turche.
Un funzionario dell’intelligence regionale, un responsabile della sicurezza siriana e una delle fonti di sicurezza estera con sede a Damasco hanno affermato che i colloqui includerebbero l’istituzione di due basi turche nella vasta regione desertica centrale della Siria, nota come Badiyah.
Un funzionario della presidenza siriana ha dichiarato alla Reuters che Sharaa avrebbe discusso con Erdogan “dell’addestramento del nuovo esercito siriano da parte della Turchia, nonché di nuove aree di dispiegamento e cooperazione”, senza specificare i luoghi dello spiegamento.
Seguono suggerimenti secondo cui la Turchia sarebbe in grado di difendere lo spazio aereo siriano:
Un alto funzionario dell’intelligence regionale, un responsabile della sicurezza siriana e una delle fonti di sicurezza estera con sede a Damasco hanno affermato che le basi in discussione consentirebbero alla Turchia di difendere lo spazio aereo siriano in caso di futuri attacchi.
Gli S-400 turchi potrebbero tornare a far parte del menu?
Le possibili sedi delle basi aeree turche sono state indicate come l’aeroporto militare di Palmira e la famigerata base T4 a Homs. Naturalmente, ciò darebbe anche alla Turchia un nuovo dominio sulle regioni curde dall’aria.
Tutto questo è accaduto pochi giorni dopo che Jolani si è finalmente dichiarato formalmente presidente della Siria, anziché un ambiguo “leader di transizione”:
Israele sta diventando così nervoso che i suoi apologeti sono costretti a scrivere tesi sempre più assurde, come quella seguente dell’ex funzionario del Pentagono Michael Rubin per 19FortyFive:
Un rischio maggiore è la possibilità che la Turchia possa utilizzare il suo impianto nucleare per acquisire materiale fissile per un’arma nucleare. I funzionari turchi, e persino le controparti americane, potrebbero dire che l’impianto di Akkuyu è a prova di proliferazione. Tralasciando che “a prova di proliferazione” non è mai assoluta. Come nel caso del reattore nucleare civile iraniano di Bushehr, il problema non è mai stato lo sviamento presso l’impianto energetico civile, ma piuttosto l’utilizzo del programma civile come copertura per acquisire e dirottare beni verso un programma segreto.
Vedete quanto velocemente la Turchia sta sostituendo l’Iran, quasi nello stesso ruolo? Presto sarà la Turchia nel paese a rischio di essere colpita dalle bombe dell’IAF mentre convoglia armi in Siria, e accusata di essere perennemente “prossima a ricevere la bomba atomica”.
Da quanto sopra:
Se la Turchia acquisisse un’arma nucleare, potrebbe non solo dare seguito alle sue minacce contro altri stati della regione, ma potrebbe anche sentirsi così immune dietro il suo deterrente nucleare da poter aumentare la sua sponsorizzazione del terrorismo senza timore di ritorsioni o responsabilità. Tale preoccupazione politica rispecchia quella con cui molti paesi occidentali considerano la possibilità di un’acquisizione nucleare iraniana.
Quanto è comodo!
L’articolo cita come precedente l’attacco di Israele all’impianto nucleare iracheno di Osirak nel 1981. L’autore sostiene che le difese della Turchia non hanno alcuna possibilità contro gli F-35 israeliani, proprio come non ne hanno avute quelle dell’Iran. Oh, aspetta, proprio oggi l’Iran ha appena pubblicato un nuovo video che mostra i suoi sistemi missilistici Bavar-373 e S-300 in piena operatività, dimostrando che gli attacchi fasulli di Israele che “hanno spazzato via l’intera flotta iraniana di S-300” mesi fa erano in realtà una fantasia, come la maggior parte delle persone dotate di cervello ha dedotto:
L’Iran mostra i sistemi missilistici Bavar-373 e S-300 potenziati in esercitazioni in tandem.
Le esercitazioni, che si sono svolte l’ultimo giorno delle imponenti esercitazioni Eqtedar 1403 (letteralmente “1403 maggio”), hanno visto l’impiego di sistemi di difesa aerea a lungo raggio di fabbricazione iraniana e russa, impegnati in attacchi contro nemici fittizi nel deserto di Kavir, nel nord del Paese.
Oltre a testare l’efficacia dei sistemi, le esercitazioni hanno sfatato le affermazioni israeliane sulla distruzione degli S-300 iraniani durante gli attacchi dell’ottobre scorso e hanno consentito alla Forza di difesa aerea dell’esercito iraniano di presentare una nuova versione del Bavar-373, che ora è dotato di un proprio radar che consente operazioni completamente indipendenti.
-Ho visto i due sistemi collegati alla potente rete di difesa aerea nazionale dell’Iran
Negli ultimi mesi, l’Iran ha svelato e dispiegato una serie di nuovi sistemi di difesa aerea e missili balistici, nonché una base missilistica sotterranea, nel contesto delle crescenti tensioni con gli Stati Uniti e Israele.
In ogni caso, nei prossimi mesi e anni ci si aspetta di sentire altre dichiarazioni simili a quelle sopra riportate sulla Turchia, mentre la scimitarra ottomana si avvicina sempre di più alla gola scoperta di Israele.
Per quanto riguarda Riyadh, si dice che il re non sia rimasto impressionato dai piani di Trump di riqualificare la Striscia di Gaza trasformandola in un lido di lusso per i ricchi goy occidentali dello Shabbos:
In definitiva, dobbiamo aspettare e vedere esattamente cosa Trump ha in mente per la presunta presa di controllo “americana” di Gaza; potrebbe esserci più di quanto non sembri. Israele, ovviamente, gioca sempre a lungo termine, con Netanyahu che probabilmente acconsente al piano di Trump anche se apparentemente non dà a Israele il controllo della Palestina, per ora, perché Netanyahu sa nel profondo della sua milza che i presidenti americani vanno e vengono, ma la colonia di coloni continuerà sempre a pullulare come un tumore, molto tempo dopo che i mandati mortali dei suoi burattini requisistiti saranno scaduti. In altre parole, per ora, salvate le apparenze, ma contate sul prossimo vigliacco in capo americano che restituirà i territori “appena riqualificati” a Israele, de jure.
E per quanto riguarda quei muscolosi congressisti americani? Beh, potete anche scordarvi della Cisgiordania: la nuova “guida” dall’alto è la parola d’ordine dell’uccello, e l’uccello è stato messo nella lista nera. Niente più “Cisgiordania”, vi presento le province israeliane di Giudea e Samaria:
Venerdì, i legislatori repubblicani alla Camera e al Senato hanno presentato proposte di legge che vieterebbero l’uso del termine “Cisgiordania” nei documenti e nei materiali del governo degli Stati Uniti, sostituendo la frase con “Giudea e Samaria”, i nomi biblici per la regione ampiamente utilizzati in Israele e il nome amministrativo utilizzato dallo stato per descrivere l’area.
Ti piacciono le mele avvelenate?
Nel frattempo, Trump si starebbe preparando a ritirarsi definitivamente dalla Siria, se ci potete credere:
Il rapporto di cui sopra sostiene un imminente piano di ritiro entro i prossimi “30, 60 o 90 giorni” – questa volta giuriamo sul mignolo, promesso! Ricordiamo l’ultima volta che lo staff generale traditore ha letteralmente mentito a Trump e “ha giocato a giochi di prestigio” riguardo agli schieramenti di truppe statunitensi in Siria per impedirgli di ritirare le truppe. Sarà più o meno lo stesso escamotage questa volta?
È l’ultimo esempio della politica estera erraticamente schizofrenica di Trump. Dopo aver promesso di non fare più guerre o di non coinvolgere più militari stranieri, Trump è pronto a ritirare le truppe statunitensi dalla Siria, mentre ne invia un nuovo gruppo nella “Riviera Rossa” sull’ex Striscia di Gaza: parliamo di giochi di prestigio!
Infine, se non siete ancora sazi della vittoria di “America First” per oggi, godetevi il vostro ultimo boccone emetico:
Ricordate il video precedente del discorso di Trump, che ha suscitato molte risposte riguardo al fatto che Trump abbia semplicemente “letto” una dichiarazione datagli dal suo “responsabile AIPAC”? Sapete, questo:
Ebbene, pare che non sia molto lontano dalla verità, come riportato dal Times of Israel qui sopra:
Kushner è stato coinvolto nella stesura delle dichiarazioni preparate da Trump, rilasciate insieme al Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, riporta Puck News, citando una fonte anonima a conoscenza della questione.
A proposito, avete colto il terzo atto di ambiguità farinosa di Trump nel frammento qui sopra? Ascoltate di nuovo:
“[Creeremo] uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e alloggi per… la gente della zona. ”
Ah, di nuovo quelle persone enigmatiche .
Per chi riesce a sopportarlo, vi lascio con quest’ultimo video di Mike Waltz, il portavoce di Trump, che decanta lo splendore della rivoluzionaria donazione di Trump a Gaza:
Pesante è la corona dell’Egemone. Il cielo non voglia che la Russia erediti mai un destino così gravoso da condannare Putin al poco invidiabile compito di radere al suolo una nuova Riviera sul lungomare di Odessa tra gli applausi scroscianti, o le approvazioni silenziose, della galleria di arachidi della “rettitudine morale” occidentale. Facciamo penitenza per aver minimizzato la pesante croce di Trump: Signore, perdonaci, amen!
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Ottant’anni fa, il 4 febbraio 1945, i leader dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale – Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna – aprirono la Conferenza di Yalta per determinare i contorni del mondo postbellico. Nonostante le differenze ideologiche, concordarono di sradicare il nazismo tedesco e il militarismo giapponese. Gli accordi raggiunti in Crimea furono riaffermati ed elaborati nella Conferenza di Potsdam del luglio-agosto 1945.
Uno dei risultati dei negoziati fu la creazione delle Nazioni Unite e l’approvazione della Carta delle Nazioni Unite, che a tutt’oggi rimane la principale fonte di diritto internazionale. La Carta stabilisce obiettivi e principi per il comportamento dei Paesi, volti a garantirne la coesistenza pacifica e lo sviluppo sostenibile. Il principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati ha gettato le basi del sistema di Yalta-Potsdam: nessuno può rivendicare una posizione dominante, poiché tutti sono formalmente uguali, indipendentemente dal territorio, dalla popolazione, dalle capacità militari o da altri parametri.
Per tutti i suoi punti di forza e di debolezza, sui quali gli studiosi ancora discutono, l’ordine di Yalta-Potsdam ha fornito il quadro normativo-giuridico del sistema internazionale per otto decenni. L’ordine mondiale basato sull’ONU assolve il suo compito principale: salvaguardare tutti da una nuova guerra mondiale. In verità, “l’ONU non ci ha portato in paradiso ma ci ha salvato dall’inferno”[1]. Il potere di veto sancito dalla Carta – che non è un “privilegio”, ma un onere di speciale responsabilità per la salvaguardia della pace – funge da solida barriera contro le decisioni avventate e offre spazio per trovare un compromesso basato su un equilibrio di interessi. Nucleo politico del sistema di Yalta-Potsdam, l’ONU è stata una piattaforma universale unica per sviluppare risposte collettive alle sfide comuni, mantenere la pace e la sicurezza internazionali e promuovere lo sviluppo socio-economico.
È stato all’ONU che, con un ruolo chiave svolto dall’URSS, sono state gettate le basi per il mondo multipolare che sta nascendo sotto i nostri occhi. In particolare, il processo di decolonizzazione è stato attuato legalmente attraverso la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali, adottata nel 1960 su iniziativa dell’Unione Sovietica. In quell’epoca, decine di popoli, precedentemente oppressi dalle potenze coloniali, ottennero per la prima volta l’indipendenza e la possibilità di costituire un proprio Stato. Oggi, alcune di queste ex colonie possono vantare di essere centri di potere nel mondo multipolare, mentre altre appartengono a unioni sovranazionali di portata civile regionale o continentale.
Come notano giustamente gli studiosi russi, ogni istituzione internazionale è soprattutto “un modo per limitare l’egoismo naturale degli Stati”[2]. L’ONU, con la sua Carta concordata e adottata per consenso, non fa eccezione. L’ordine incentrato sull’ONU si basa quindi sul diritto internazionale – veramente universale – da cui consegue che ogni Stato dovrebbe attenersi a tale diritto.
La Russia, come la maggior parte della comunità mondiale, non ha mai avuto difficoltà a farlo. Ma l’Occidente non è mai guarito dalla sua sindrome di eccezionalismo e conserva le sue abitudini neocoloniali, cioè di vivere a spese degli altri. Le relazioni interstatali basate sul rispetto del diritto internazionale non sono state, fin dall’inizio, di gradimento dell’Occidente.
L’ex sottosegretario di Stato americano Victoria Nuland una volta ha ammesso francamente, in un’intervista, che “Yalta non è stato un buon accordo per noi, non era un accordo che avremmo dovuto concludere”. Questo tipo di atteggiamento spiega molto bene il comportamento internazionale dell’America; nel 1945, Washington fu praticamente costretta ad accettare a malincuore l’ordine mondiale postbellico, già percepito come un ostacolo dall’élite americana, che ben presto cercò di rivederlo. La revisione iniziò con il famigerato discorso della Cortina di ferro di Winston Churchill a Fulton nel 1946, che dichiarò essenzialmente una guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Percependo gli accordi di Yalta-Potsdam come una concessione tattica, gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno mai seguito il principio fondamentale della Carta delle Nazioni Unite sull’uguaglianza sovrana degli Stati.
L’Occidente ha avuto la fatidica occasione di raddrizzare la rotta, di dimostrare prudenza e lungimiranza, quando l’Unione Sovietica è crollata insieme al campo socialista mondiale. Tuttavia, gli istinti egoistici hanno prevalso. Rivolgendosi al Congresso l’11 settembre 1990, inebriato dalla “vittoria nella Guerra Fredda”, il Presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush proclamò l’avvento di un nuovo ordine mondiale[3], un ordine che gli strateghi americani intendevano come un completo dominio degli Stati Uniti nell’arena internazionale, come una finestra di opportunità per agire unilateralmente senza alcun riguardo per le restrizioni legali incorporate nella Carta delle Nazioni Unite.
Una manifestazione dell'”ordine basato sulle regole” è stata la politica di Washington di assorbimento geopolitico dell’Europa orientale. La Russia è stata costretta a eliminarne le conseguenze esplosive con l’operazione militare speciale.
Nel 2025, con il ritorno al potere dell’amministrazione repubblicana di Donald Trump, l’interpretazione di Washington dei processi internazionali a partire dalla Seconda Guerra Mondiale ha assunto una nuova dimensione, come descritto vividamente in Senato dal nuovo Segretario di Stato Marco Rubio il 15 gennaio: non solo l’ordine mondiale del dopoguerra è superato, ma è stato trasformato in un’arma contro gli interessi statunitensi[4]. In altre parole, non solo l’ordine di Yalta-Potsdam è indesiderabile; lo è anche l'”ordine basato sulle regole” che sembrava incarnare l’egoismo e l’arroganza dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti dopo la Guerra Fredda. “L’America prima di tutto” assomiglia in modo allarmante allo slogan hitleriano “La Germania prima di tutto” e la scommessa sulla “pace attraverso la forza” potrebbe essere il colpo finale alla diplomazia. Per non parlare del fatto che tali dichiarazioni e costruzioni ideologiche non mostrano nemmeno un minimo di rispetto per gli obblighi legali internazionali di Washington ai sensi della Carta delle Nazioni Unite.
Tuttavia, oggi non siamo nel 1991 e nemmeno nel 2017, quando il Presidente degli Stati Uniti in carica ha preso il timone per la prima volta. Gli analisti russi notano giustamente che “non ci sarà un ritorno allo stato precedente delle cose, ancora ricercato dagli Stati Uniti e dai loro alleati, perché le condizioni demografiche, economiche, sociali e geopolitiche sono cambiate in modo irreversibile”[5]. Probabilmente è vera anche la previsione secondo cui alla fine “gli Stati Uniti capiranno che non devono estendere eccessivamente la loro area di responsabilità negli affari internazionali e vivranno abbastanza armoniosamente come uno degli Stati leader, ma non più come egemone”[6].
Il multipolarismo sta guadagnando slancio e, invece di opporvisi, gli Stati Uniti potrebbero diventare nel prossimo futuro un centro di potere responsabile insieme a Russia, Cina e altri Stati del Sud, dell’Est, del Nord e dell’Ovest del mondo. Per il momento, sembra che la nuova amministrazione statunitense lancerà incursioni da cowboy per testare i limiti e la durata dell’attuale sistema ONU-centrico rispetto agli interessi americani. Ma sono certo che anche questa amministrazione comprenderà presto che la realtà internazionale è molto più complessa delle caricature che è libera di distribuire davanti al pubblico interno americano o agli obbedienti alleati geopolitici.
Nell’attesa che gli americani smaltiscano la sbornia e se ne rendano conto, continueremo a lavorare coscienziosamente con i nostri partner che la pensano allo stesso modo per adattare i meccanismi delle relazioni interstatali al multipolarismo e al consenso giuridico internazionale di Yalta-Potsdam, incarnato nella Carta delle Nazioni Unite. Vale la pena ricordare la Dichiarazione di Kazan dei BRICS del 23 ottobre 2024, che riafferma chiaramente l’impegno unitario della Maggioranza Mondiale “per il multilateralismo e per la difesa del diritto internazionale, compresi gli scopi e i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite come sua indispensabile pietra angolare e il ruolo centrale dell’ONU nel sistema internazionale”[7]. Questo approccio è stato formulato dai principali Stati che danno forma al mondo moderno e rappresentano la maggioranza della sua popolazione. Sì, i nostri partner del Sud e dell’Est hanno desideri abbastanza legittimi per quanto riguarda la loro partecipazione alla governance globale. A differenza dell’Occidente, loro e noi siamo pronti a discussioni oneste e aperte su tutte le questioni.
La nostra posizione sulla riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è ben nota[8]. La Russia cerca di rendere questo organo più democratico ampliando la rappresentanza della Maggioranza Mondiale: Asia, Africa e America Latina. Sosteniamo le candidature del Brasile e dell’India per ottenere seggi permanenti nel Consiglio di Sicurezza, e allo stesso tempo lavoriamo per correggere – con mezzi concordati dagli stessi africani – l’ingiustizia storica nei confronti del continente africano. L’assegnazione di ulteriori seggi ai Paesi dell’Occidente collettivo, già sovrarappresentati nel Consiglio di Sicurezza, è controproducente. Germania e Giappone, avendo delegato gran parte della loro sovranità ai loro patroni d’oltremare e avendo iniziato a far rivivere i fantasmi del nazismo e del militarismo in patria, non possono apportare nulla di nuovo al lavoro del Consiglio di Sicurezza.
Siamo fortemente impegnati nell’inviolabilità delle prerogative dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Data la politica imprevedibile della minoranza occidentale, solo il potere di veto può garantire che le decisioni del Consiglio tengano conto degli interessi di tutte le parti.
La politica del personale del Segretariato delle Nazioni Unite rimane un insulto alla Maggioranza Mondiale, poiché gli occidentali continuano a predominare in tutte le posizioni chiave. L’allineamento della burocrazia delle Nazioni Unite alla mappa geopolitica del mondo non può essere rimandato, come affermato in modo inequivocabile nella già citata Dichiarazione di Kazan dei BRICS. Vedremo quanto la leadership delle Nazioni Unite, abituata a servire gli interessi di un ristretto gruppo di Paesi occidentali, sarà ricettiva a questo appello.
Per quanto riguarda il quadro normativo della Carta delle Nazioni Unite, sono convinto che esso risponda in modo ottimale alle esigenze dell’era multipolare, un’era in cui tutti devono osservare – non solo a parole, ma anche nei fatti – i principi dell’uguaglianza sovrana degli Stati, della non ingerenza nei loro affari interni e altri principi fondamentali. Tali principi includono il diritto dei popoli all’autodeterminazione, la cui interpretazione consensuale è sancita dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui principi del diritto internazionale del 1970: l’integrità territoriale di uno Stato deve essere rispettata se il suo governo rappresenta l’intera popolazione. Va da sé che, dopo il colpo di Stato del febbraio 2014, il regime di Kiev non rappresenta il popolo della Crimea, del Donbass o della Novorossiya più di quanto le potenze occidentali rappresentassero i popoli dei territori coloniali che sfruttavano.
I tentativi sfacciati di riordinare il mondo nel proprio interesse, violando i principi delle Nazioni Unite, possono portare instabilità, scontri e persino catastrofi. Considerato l’attuale livello di tensioni internazionali, un rifiuto sconsiderato del sistema di Yalta-Potsdam, con al centro l’ONU e la sua Carta, porterà inevitabilmente al caos.
Si sente spesso dire che è prematuro parlare dell’ordine mondiale desiderato in un momento in cui stiamo ancora combattendo per sopprimere le forze sostenute dall’Occidente del regime razzista di Kiev. A nostro avviso, si tratta di un approccio sbagliato. I contorni dell’ordine mondiale postbellico e i punti chiave della Carta delle Nazioni Unite sono stati discussi dagli alleati al culmine della Seconda guerra mondiale, tra cui la Conferenza dei ministri degli Esteri di Mosca e la Conferenza dei capi di Stato e di governo di Teheran nel 1943, e durante altri contatti tra le future potenze vincitrici, fino alle Conferenze di Yalta e Potsdam nel 1945. Sebbene i nostri alleati avessero già un’agenda segreta, ciò non ha sminuito l’importanza duratura dei principi supremi dell’uguaglianza, della non ingerenza negli affari interni, della soluzione pacifica delle controversie e del “rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”.
L’Occidente ha evidentemente sottoscritto questi principi con secondi fini, per poi violarli gravemente in Jugoslavia, Iraq, Libia e Ucraina, ma questo non significa che dovremmo sollevare gli Stati Uniti e i loro satelliti dalle responsabilità morali e legali, o che dovremmo abbandonare l’eredità unica dei fondatori dell’ONU, incarnata nella Carta delle Nazioni Unite[9]. Se, Dio non voglia, qualcuno tenta di riscriverla (con il pretesto di sbarazzarsi del sistema “obsoleto” di Yalta-Potsdam), il mondo non avrà più valori guida comuni.
La Russia è pronta a un lavoro comune e onesto per bilanciare gli interessi delle parti e rafforzare i principi legali delle relazioni internazionali. L’iniziativa del Presidente Vladimir Putin del 2020 per un incontro dei leader dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che hanno “una responsabilità speciale per la conservazione della civiltà”[10], cercava un dialogo equo su tutte queste questioni. Per le note ragioni che sfuggono al controllo della Russia, questa iniziativa non è andata oltre. Ma noi continuiamo a sperare, anche se i partecipanti e il formato di questi incontri potrebbero ora essere diversi. La cosa più importante, secondo Putin, è “ritrovare la comprensione di ciò per cui le Nazioni Unite sono state create e seguire i principi enunciati nei loro documenti fondanti”[11]. Questa dovrebbe essere la principale linea guida per regolare le relazioni internazionali nell’era multipolare che si è aperta.
[1] RGP, 2020. Можно ли представить мир без ООН? [Possiamo immaginare un mondo senza l’ONU?]. Tavola rotonda della CFDP e della Fondazione Gorchakov Rossiya v globalnoi politike, 26 novembre. Disponibile a: https://globalaffairs.ru/articles/mozhno-li-predstavit-mir-bez-oon/ [Consultato il 31 gennaio 2025].
[8] Si veda: Lavrov, S.V., 2023. Multilateralismo e diplomazia autentici contro l'”ordine basato sulle regole”. Russia in Global Affairs, 21(3). Disponibile all’indirizzo: https://eng.globalaffairs.ru/articles/genuine-multilateralism/ https://eng.globalaffairs.ru/articles/genuine-multilateralism/[Consultato il 31 gennaio 2025].
[9] Cfr: Lavrov, S.V., 2023. Соблюдение принципов Устава ООНо всей их совокупности и взаимосвязи – залог международного мира и стабильности [L’osservanza dei principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro totalità e congiunzione è una garanzia di pace e stabilità internazionale]. Rossiya v globalnoi politike, 21(6). Disponibile a: https://globalaffairs.ru/articles/soblyudenie-princzipov-ustava-oon/ [Consultato il 31 gennaio 2025].
[10] Putin, V., 2020. Ricordare l’Olocausto: Forum sulla lotta all’antisemitismo. 23 gennaio 2020 Presidente della Russia. Disponibile su: http://en.kremlin.ru/events/president/news/62646 [Consultato il 31 gennaio 2025].
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Ho scritto diverse volte su come potrebbe finire la guerra in Ucraina e su cosa potrebbe seguirla. Ho parlato dell’incapacità dell’Occidente di capire cosa stia realmente accadendo nella guerra, e perché, e cosa questo significhi, così come della sua ossessione per gli ultimi gadget e aggeggi. Ho sottolineato che risposte facili come “spendere più soldi” e “riportare il servizio di leva” non sono possibili, e che se fossero possibili non sarebbero comunque efficaci.
Ma le cose stanno andando avanti e l’Occidente sta cominciando a riconoscere che non può ottenere tutto ciò che vuole, che non potrà dettare i termini della pace o i termini di un futuro rapporto con la Russia e che dovrà avere un qualche tipo di strategia per affrontare l’Europa e il mondo che sono ora in fase di costruzione.
Ma le cose sono andate più o meno così: una breve pausa nel dominio occidentale, un “accordo”, mediato dagli Stati Uniti come parte neutrale, alcune concessioni a malincuore mentre l’Ucraina viene riarmata, e poi via di nuovo. Non credo ci siano parole per descrivere adeguatamente quanto queste idee siano lontane dalla realtà, ma al momento questa realtà è troppo strana e spaventosa per essere contemplata, e la finestra di Overton dei possibili pensieri sul futuro non si è mossa abbastanza da permettere anche al più coraggioso politico o opinionista occidentale di parlarne. Arriverà; non facilmente e non rapidamente, ma arriverà.
Quindi dovremo fare il lavoro per loro, o almeno stabilire in cosa potrebbe consistere una parte del lavoro. Il problema è che farlo significa disimparare quel poco che le élite politiche occidentali e la Casta Professionale e Manageriale (PMC) pensano di sapere sulla strategia e sulla politica di sicurezza, e iniziare un processo di educazione correttiva dalle fondamenta. Non sono la persona adatta a farlo – non sono sicuro di chi lo sia – ma posso forse offrire alcune idee, con la solita avvertenza che non sono un esperto militare di alcun tipo.
Permettetemi di spiegare innanzitutto perché questo è necessario. Le élite politiche contemporanee e i loro parassiti sono essenzialmente ignoranti (se i maiali mi perdonano) in materia di politica di sicurezza, strategia e questioni militari. A dire il vero, sono ignoranti anche su molte altre cose, ma l’ignoranza in questo settore è forse più preoccupante che in molti altri. Ha origini complicate e disordinate, che probabilmente non sono identiche in nessuno dei due casi. Storicamente, la guerra e la strategia sono state questioni importanti per gli Stati. Tendevano a interessare in modo sproporzionato la destra tradizionale (anche se c’erano delle eccezioni, come in Francia), ma i politici di tutte le convinzioni durante la Guerra Fredda erano obbligati a pensarci, e alle loro conseguenze pratiche, in una certa misura.
Ma al giorno d’oggi la classe politica occidentale funziona in base a una strana miscela di neoliberismo economico di destra e di polvere normativa liberale, nessuna delle quali è particolarmente simpatica dal punto di vista intellettuale alla strategia e agli affari militari, e può persino essere apertamente sprezzante nei loro confronti. In assenza di una grande guerra in Europa, o anche solo della reale prospettiva di una guerra, le operazioni militari erano diventate una bizzarra miscela di “mantenimento della pace” o “costruzione della nazione”, e di violente punizioni inflitte ai Paesi che non facevano quello che volevamo. L’effettivo interesse politico per le lezioni militari e strategiche dell’Afghanistan durante il periodo di massima presenza occidentale, ad esempio, è stato pietosamente ridotto. Non è stato necessario che la classe politica e la PMC imparassero nulla sugli affari strategici e militari e, quindi, all’improvviso, si sono trovati completamente smarriti.
Ora, naturalmente, è altrettanto sbagliato lamentarsi del fatto che la classe politica non sia specializzata in questioni militari. Nessuno si aspetta che un Ministro della Difesa sia un esperto militare, così come non si aspetta che un Ministro dei Trasporti sia un ex macchinista. Il loro compito è la direzione politica e la gestione delle forze armate, e questo richiede una serie di competenze diverse. Allo stesso modo, i militari occidentali di alto livello hanno trascorso la loro carriera operativa in guerre su piccola scala o nel mantenimento della pace, e in ogni caso hanno bisogno di tutta una serie di altre competenze per svolgere il loro lavoro oltre al semplice comando in guerra. Ma – ed è un grosso ma – gli istituti di difesa occidentali possono essere ragionevolmente criticati per non essersi tenuti aggiornati sugli sviluppi in Russia e in Cina e sulla possibilità di una guerra convenzionale su larga scala, e sui preparativi che sarebbero necessari per essa. Come ho già detto in diverse occasioni, un conto è fare i dispetti ai russi quando ci si è preparati per un potenziale conflitto, un altro è fare i dispetti ai russi senza nemmeno pensare, per quanto ne so, alla produzione, alle scorte e alla mobilitazione, è una colpevole incompetenza. (A proposito, non mi sembra ovvio cosa abbiano fatto i ministri della Difesa delle nazioni occidentalinell’ultima generazione o giù di lì).
In questo contesto non sorprende che circolino essenzialmente due concetti vaghi sulla futura sicurezza occidentale, soprattutto nel contesto della Russia. Uno è la corsa all’ultima tecnologia intelligente che in qualche modo ci “proteggerà” e ripristinerà il “vantaggio tecnologico” dell’Occidente, l’altro è una sorta di nuova strategia, che forse coinvolge un rilancio della NATO, che qualcuno elaborerà, che farà qualcosa o altro per migliorare le cose. Affronterò entrambe le questioni, ma non in modo isolato l’una dall’altra perché, come dovrebbe essere ovvio, gli aggeggi tecnologici, per quanto intelligenti, sono inutili se non si sa cosa si vuole fare con essi e come si inseriscono nei propri piani generali. Pertanto, l’intelligenza artificiale non vincerà la guerra in Ucraina, ma può aiutare in modi specifici: i russi stanno già utilizzando l’intelligenza artificiale per consentire ai droni di selezionare i propri obiettivi. Ho già detto abbastanza sull’ignoranza dell’Occidente in materia di strategia e sulla sua conseguente incapacità di comprendere ciò che sta accadendo in Ucraina: qui voglio spostare l’accento su come potremmo pensare al futuro. Ciò richiede un chiaro concetto di interesse collettivo, che alla fine potrebbe essere impossibile da trovare, ma richiede anche, come minimo, un’idea coerente di quali tecnologie potrebbero essere rilevanti e utili in un’ampia gamma di scenari. Ciò richiede a sua volta una comprensione adeguata delle dinamiche di sviluppo delle tecnologie militari, argomento che quasi nessuno nei governi occidentali sembra conoscere.
Consideriamo ad esempio i “droni”. I veicoli aerei senza equipaggio (UAV) esistono in varie forme dalla Seconda Guerra Mondiale e, come ogni tecnologia militare, devono essere usati correttamente per essere utili. Nella vostra infanzia potreste aver giocato a Sasso, Forbici, Carta o a un gioco simile. In sostanza, nessuna scelta è sempre dominante: le forbici tagliano la carta, la carta avvolge la pietra e la pietra smussa le forbici. Tutto dipende dalla scelta che fa l’avversario. Così con i droni o con qualsiasi altra tecnologia: i droni danno visibilità a lungo raggio e la possibilità di attaccare con precisione piccoli bersagli. D’altra parte, la loro efficacia è limitata dalle condizioni atmosferiche, d’altra parte cominciano a comparire i raggi infrarossi e altre versioni più esotiche, d’altra parte sono più costose e difficili da utilizzare. Allo stesso modo, i droni possono essere molto precisi e letali, ma d’altra parte le contromisure EW sono ormai ampiamente diffuse, d’altra parte i russi stanno ora distribuendo droni controllati da cavi a fibre ottiche che non possono essere disturbati, d’altra parte sembrano esistere droni killer in grado di abbattere i droni nemici.
Quindi la risposta a qualsiasi domanda sul valore della tecnologia militare è: dipende. In particolare, i tecno-entusiasti hanno l’abitudine di consegnare le vecchie tecnologie alla spazzatura perché le contromisure esistono e spesso sono molto più economiche della piattaforma. Bene, ma questo vale per tutte le tecnologie, ovunque e in ogni momento. Una spada costosa e sofisticata poteva essere smussata da uno scudo molto più economico. Inoltre, le lance erano generalmente più economiche delle spade e richiedevano un minore addestramento. Buttate via le spade. L’essere umano Mk 1, con anni di addestramento e masse di attrezzature costose, può essere sconfitto da un singolo proiettile a basso costo. Sbarazziamoci della fanteria.
Il punto, naturalmente, è che tutto dipende dal contesto, dal mix di armi sul campo di battaglia, agli obiettivi tattici e operativi della missione, fino allo scopo strategico del conflitto. Poiché sembra che i governi occidentali non stiano riflettendo su nessuno di questi tre livelli, vediamo se possiamo farlo noi per loro. Ma prima vediamo alcuni esempi di capacità militari del tipo che i governi dovranno prendere in considerazione e perché tutto dipende dal contesto.
La prima cosa da tenere a mente è di stare molto attenti all’argomento che “X” è “superato sul campo di battaglia”. Prendiamo l’esempio più apparentemente lampante: il cavallo. Gli eserciti del 1914 sono stati derisi da allora per aver schierato la cavalleria, ma all’epoca era il mezzo migliore per condurre ricognizioni e schermare le proprie forze. Nelle prime fasi della guerra, prima che i fronti si solidificassero, la cavalleria fu molto utilizzata nella sua funzione tradizionale. E questo è solo l’Occidente: sul fronte orientale ci furono enormi battaglie di cavalleria, fino alla guerra russo-polacca del 1921. (I cavalli furono ovviamente utilizzati in modo massiccio dai tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale e, come amava sottolineare un ufficiale di cavalleria che conoscevo, un’unità di cavalleria tedesca fu l’unica a penetrare nei sobborghi di Mosca nel 1941. Peraltro, l’esercito francese usava i cavalli in Algeria: potevano attraversare praticamente tutti i terreni, non richiedevano manutenzione o pezzi di ricambio e si rompevano raramente.
Piuttosto, le tecnologie militari – e questo sarà altrettanto vero in futuro – sono generalmente progettate per un contesto specifico, possono essere successivamente adattate ad altri e possono essere vulnerabili, o avere poco valore, in altri ancora. Farò tre esempi. Cominciamo con il carro armato principale.
Una volta che le linee del fronte si erano assestate alla fine del 1914, le tradizionali manovre di aggiramento divennero impossibili e la densità delle forze rese gli attacchi frontali difficili e costosi. Sebbene l’artiglieria potesse causare morte e distruzione nelle linee tedesche, i suoi effetti potevano essere solo intuiti, data la distanza a cui veniva sparata, e le truppe dovevano essere inviate alla cieca. I tedeschi impararono presto a lasciare relativamente poche truppe in prima linea e a ripararsi durante i bombardamenti. Mentre le truppe britanniche (in particolare) si facevano strada attraverso il campo di battaglia devastato, i tedeschi sopravvissuti uscivano dai loro rifugi con le loro mitragliatrici e le truppe dietro la linea del fronte si schieravano per fermare ulteriori avanzamenti. Poiché era impossibile sapere dove fossero state distrutte le difese, e poiché era anche impossibile per le truppe d’assalto comunicare con i loro quartieri generali, gli attacchi erano costosi e spesso inutili.
Gli inglesi pensarono quindi a un “distruttore di mitragliatrici corazzate”, in grado di attraversare il terreno aperto, sfondare le difese di filo spinato e consentire alle truppe di avanzare. Dopo la guerra, visionari come Tukhachevsky e De Gaulle svilupparono l’idea fantastica di interi eserciti di carri armati che sciamavano senza opposizione sul campo di battaglia. Sebbene sia vero che le contromisure disponibili all’epoca fossero molto scarse, l’affidabilità e la mobilità dei carri armati non erano lontanamente compatibili con tali fantasie già nel 1940. Mentre i tedeschi fecero un uso efficace dei carri armati, combinati con gli aerei e le comunicazioni radio, per disturbare l’esercito francese nel 1940, la potenza aerea rese presto difficile la vita dei carri armati e verso la fine della guerra furono sviluppate armi anticarro trasportabili dall’uomo. (I carri armati che combattono contro i carri armati, tra l’altro, erano uno sviluppo che gli ideatori non avevano previsto).
La morte del carro armato è stata proclamata a gran voce dopo la guerra del Medio Oriente del 1973, quando gli israeliani tentarono cariche di cavalleria su larga scala contro la fanteria armata di armi anticarro, ottenendo risultati peggiori. Ma si trattò di un classico esempio di eccessiva fiducia in un’arma, senza pensare al contesto più ampio. Gli inglesi avevano già iniziato a sviluppare corazze composte per resistere alle armi anticarro, e negli ultimi cinquant’anni si è assistito a un’incredibile profusione di misure difensive attive e passive contro le armi anticarro. A loro volta, come si è visto in Ucraina, i missili sono stati ottimizzati per attaccare la superficie superiore dei carri armati, solitamente meno protetta. E naturalmente sono iniziati a comparire dei contatori sotto forma di gabbie anti-drone.
Sarà evidente, quindi, che “il carro armato è obsoleto?” è la domanda sbagliata da porre. Dipende dal contesto, dipende dall’obiettivo, dipende dal nemico, dipende da quali altre armi vengono utilizzate. Soprattutto, dipende da cosa si vuole fare. La vera domanda per i governi occidentali può essere riassunta come segue:
“Dopo la guerra in Ucraina, e per almeno la prossima generazione, l’Occidente prevede la necessità di una potenza di fuoco blindata, altamente mobile e protetta, meglio armata e protetta dei veicoli da combattimento di fanteria, e in aggiunta ad altre armi impiegate in parallelo, e se sì in quale contesto strategico?”
Naturalmente anche questa è solo una parte della questione. C’è una domanda preliminare che riguarda la possibilità che l’Occidente preveda un conflitto con un avversario di pari livello sulla terraferma. C’è poi la questione secondaria se il carro armato (e in tal caso quale tipo di carro armato) sia il mezzo migliore per soddisfare una parte di questa esigenza. Per quanto ne sappiamo, i russi in Ucraina non hanno fatto un uso estensivo dei carri armati moderni e ci sono stati pochi dei previsti duelli carro armato contro carro armato. Sembra che li usino nel loro ruolo tradizionale di potenza di fuoco mobile e protetta a distanza. Dai video disponibili, sembra che i russi conducano la maggior parte dei loro attacchi con veicoli della serie BMP, piuttosto che con carri armati, e con il supporto di droni e artiglieria. Queste tattiche sembrano funzionare abbastanza bene in Ucraina, ma ovviamente quel contesto è molto specifico.
Non ho visto alcun tentativo tra gli opinionisti occidentali di affrontare tali questioni in modo approfondito. In effetti, la saggezza diffusa sembra essere ancora quella di ritenere che gli equipaggiamenti e la dottrina occidentali siano intrinsecamente superiori, per cui non c’è bisogno di alcun ripensamento. Lo stesso, a quanto vedo, vale per la potenza aerea, dove la domanda “l’aereo con equipaggio è obsoleto?” è raramente posta e, anche se lo fosse, è comunque una domanda sbagliata.
In questo caso, la speranza era quella di “scavalcare” le difese nemiche e attaccare le aree posteriori vulnerabili. Alcuni appassionati vedevano nell’aeroplano un modo per sferrare un rapido “colpo di grazia” al Paese nemico e porre fine alla guerra in pochi giorni. Altri speravano che avrebbe dominato il campo di battaglia e distrutto concentrazioni di truppe e fortificazioni. All’epoca si riteneva generalmente che, secondo le parole di Stanley Baldwin nel 1932, l’aereo d’attacco sarebbe “sempre riuscito a passare”.
All’epoca, in effetti, c’erano tutte le ragioni per pensare che fosse così. Non c’era modo di rilevare e identificare in modo affidabile gli aerei fino a quando non erano molto vicini, né di trasmettere e amalgamare tali informazioni e ordinare una risposta. Nel momento in cui si potevano far decollare i caccia, gli aerei che attaccavano avevano già rilasciato le loro armi, ed era impossibile comunicare con i caccia (la cui resistenza era comunque piuttosto limitata) una volta in volo. Questo permetteva a un attacco di sorpresa di distruggere gran parte delle forze aeree del nemico, come accadde alla Polonia nel 1939, alla Francia nel 1940 e persino all’Unione Sovietica nel 1941. Ma non alla Gran Bretagna nel 1940. Perché?
La risposta breve è il radar, che permetteva agli inglesi di vedere gli aerei tedeschi in attacco e di organizzare una risposta. Ma in realtà il radar era solo una parte, anche se molto importante, di una capacità che fu sviluppata a partire dalla metà degli anni Trenta. La piena capacità si basava su una valutazione della situazione strategica e sulla convinzione che i bombardamenti diurni con equipaggio fossero una minaccia. Il risultato fu lo sviluppo di veloci caccia monoplani, la costruzione di nuovi aerodromi, la creazione di un efficace sistema di comando e controllo e l’integrazione del radar con altre forme di allarme e segnalazione. Naturalmente, il radar non era la fine della storia. Le contromisure ai radar furono sviluppate anche durante la guerra, furono sviluppati nuovi tipi di radar, le contromisure elettroniche e le contromisure proliferarono in seguito, e furono sviluppati missili appositamente per colpire i sistemi radar.
Gli aerei con equipaggio sono cambiati radicalmente nelle dimensioni e nella velocità, sono passati dal volare al di sopra del raggio di intercettazione a volare a livello molto basso per evitare il rilevamento radar e i missili, fino a diventare una piattaforma multiuso che spesso agisce in piccoli numeri contro obiettivi che non possono rispondere al fuoco. In Ucraina, i russi hanno cercato il controllo dell’aria attraverso l’uso di missili e, quando hanno usato direttamente gli aerei, spesso lo hanno fatto a lungo raggio, lanciando armi a distanza. I droni a lungo raggio sono stati utilizzati da entrambe le parti, ma sono soggetti a inceppamenti e, se pilotati automaticamente, non possono cambiare bersaglio o far fronte agli imprevisti.
Dove ci porta questo? Beh, come minimo ci lascia con la seguente domanda:
“Dopo la guerra in Ucraina, e almeno per la prossima generazione, l’Occidente prevede la necessità che gli aerei con equipaggio svolgano una o più funzioni di combattimento definite, in quale rapporto con altre armi come i missili impiegati in parallelo, e se sì in quale contesto strategico?”.
Non sto trattenendo il fiato in attesa di una risposta, o addirittura che la domanda venga posta. Ma se non si sa quale capacità si vuole e perché la si vuole, gli entusiasmi transitori per questo o quel pezzo di equipaggiamento militare sono inutili.
Ci sono molti altri esempi possibili, ma mi limiterò a toccarne rapidamente uno completamente diverso. La portaerei è stata dichiarata morta più volte di quanto riesca a ricordare, ma oggi sono in servizio più Paesi che in qualsiasi altro momento della storia. Ancora una volta, però, il problema non è un pezzo di equipaggiamento, ma una capacità.
Una portaerei è il cuore di una capacità di proiezione della forza. In altre parole, consente a un Paese di proiettare forze terrestri, marittime e aeree più lontano di quanto potrebbe fare operando dal proprio territorio nazionale. A sua volta, ciò offre tutta una serie di potenziali vantaggi politici e strategici. Una portaerei moderna può trasportare aerei da combattimento, velivoli da allarme rapido, elicotteri di vario tipo e un contingente di truppe, spesso fino a un battaglione equivalente. Avrà anche un ospedale completamente attrezzato e strutture per la riparazione e la manutenzione dell’equipaggiamento. Avrà capacità di raccolta di informazioni, comunicazioni sicure verso l’interno e capacità di comando e controllo delle operazioni. Tuttavia, ha bisogno di scorte per la protezione antiaerea e antisommergibile e di solito è accompagnata da una nave da rifornimento.
Le navi così grandi sono sempre state vulnerabili: per quanto ne so, la prima portaerei ad essere affondata in azione è stata la HMS Glorious al largo della Norvegia nel 1940. Come per tutte le capacità, il trucco consiste nello sfruttare i punti di forza delle armi evitando il più possibile le debolezze. Dire che una portaerei può essere affondata da un missile a basso costo non ha senso: è sempre stato così. L’idea è di tenere la portaerei al riparo dai pericoli e di proteggerla dagli imprevisti. Ci sono alcune aree, in particolare gli stretti marittimi o le zone vicine alla costa, in cui le portaerei non dovrebbero comunque essere schierate.
Una delle ragioni principali dello schieramento delle portaerei è il controllo del mare: la capacità di controllare quali navi passano in quali aree. Spesso lo scopo principale di questa attività è politico e di deterrenza, e il sottomarino, che può certamente affondare navi ostili, è un’arma essenzialmente discreta e nascosta che non può essere usata a scopo di deterrenza o di applicazione della legge: al giorno d’oggi i sottomarini non hanno cannoni di coperta e passano il loro tempo sommersi. Se si vogliono effettuare pattugliamenti in elicottero, inseguire i pirati con piccole imbarcazioni, abbordare navi o interrogare avvistamenti su vasta scala e organizzati, è necessario disporre di una base terrestre/marittima sicura (e costosa) da cui operare, oppure avere una portaerei da qualche parte. Lo stesso vale per l’evacuazione di cittadini in caso di emergenza, il salvataggio di ostaggi e così via, dove il mare è il mezzo di passaggio preferito. Quindi, ancora una volta, la questione non riguarda l’equipaggiamento, ma il mantenimento o meno di una capacità. Si potrebbe eseguire:
“Dopo la guerra in Ucraina, e almeno per la prossima generazione, l’Occidente prevede la necessità di una capacità di proiezione di potenza marittima a qualsiasi livello di forza, benevola o conflittuale, in quale rapporto con altre armi come i sottomarini impiegati in parallelo, e se sì in quale contesto strategico?”.
Ancora una volta, mi stupirei se una riflessione di questo tipo fosse effettivamente in corso.
Spero che quanto sopra sia sufficiente a sfatare l’idea che la salvezza dell’Occidente dopo l’Ucraina derivi dal perseguimento di questo o quell’aggeggio, o di questa o quella nuova tecnologia. Il fatto è che, dalla fine della Guerra Fredda, l’Occidente è stato strategicamente alla deriva, con le sue filosofie di approvvigionamento e le sue strutture di forza spinte da pressioni politiche e finanziarie, e ostacolato dall’oscillazione tra il generale disinteresse della classe politica ignorante e i suoi improvvisi e violenti entusiasmi. Inoltre, dal momento che le leadership politiche avevano ben poca idea di cosa fare con i loro militari, questi ultimi, come il resto del settore pubblico occidentale, sono stati trattati come tele su cui inscrivere i disegni sociali ed economici della PMC. Solo ora, all’ombra dell’Ucraina, si comincia a chiedersi se un po’ più di attenzione alla strategia, alle strutture e alla dottrina non avrebbe fatto male. In realtà, oggi c’è una confusione totale tra ciò che le forze armate occidentali dovrebbero fare e ciò che in pratica viene chiesto loro di fare. (David Hume sospira e dice: “Perché la gente confonde ancora Is e Ought?”) Gli Stati occidentali non hanno politiche di sicurezza in quanto tali; tutto ciò che hanno è un elenco di cose che fanno. Alcune di queste cose sono una questione di abitudine, altre sono vincoli del passato, poche sono scelte liberamente e razionalmente tra una serie di alternative.
Senza dubbio ci saranno revisioni della sicurezza dopo l’Ucraina: alcune potrebbero essere utili. Ma la maggior parte, purtroppo, seguirà probabilmente lo schema degli ultimi trent’anni, limitandosi a dire (1) il mondo è un posto complesso con ogni sorta di questioni difficili e quindi (2) dobbiamo continuare a fare quello che stiamo facendo, ma anche comprare le attrezzature X, Y e Z. Sarebbe sbagliato criticare troppo: le persone che scrivono questi documenti (io sono stato coinvolto in piccola parte) sono generalmente molto limitate politicamente in quello che possono dire e nelle conclusioni a cui possono arrivare, oltre che dall’enorme peso del passato e del presente.
Ma forse possiamo fare meglio di così. Se potessimo partire da un foglio di carta pulito, come potremmo progettare una politica di sicurezza per l’Europa dopo l’Ucraina che non sia solo un insieme di espedienti e di politiche attuali riconfezionate? Penso che si possa partire da due giudizi di base.
Il primo è che la politica di contenimento della Russia dopo il 2014 si è ritorta contro di noi in modo disastroso. L’Ucraina, lungi dall’essere un argine all’attacco russo, una postazione avanzata dell’Occidente ben armata e dotata di massicce fortificazioni difensive, ha provocato proprio l’attacco che intendeva prevenire. Invece di essere un deterrente, è stata vista come una provocazione: un risultato che non avrebbe dovuto sorprendere nessuno con la minima conoscenza della storia russa. E anche i trogloditi che avrebbero accolto con favore un attacco russo, leccandosi i baffi al pensiero di una sconfitta e di un cambio di regime a Mosca, dovranno accettare che le loro speranze sono andate disastrosamente in fumo. Da ogni punto di vista – militare, politico, strategico, economico – l’Occidente è più debole oggi di quanto non fosse prima della guerra, e non c’è un modo evidente per rimediare a queste debolezze.
Pertanto, tentare di ripetere la stessa politica sarebbe inutile e potenzialmente disastroso, anche se i russi lo permettessero in qualche modo. L’Occidente (compresi gli Stati Uniti) non ha, e non può acquisire, una capacità convenzionale tale da “bilanciare” o anche solo avvicinare quella della Russia: anche un numero molto elevato di navi di superficie, sottomarini e jet da combattimento non è rilevante in questo caso. (Quindi, cercare di ricostruire grandi forze convenzionali di terra e di aria per un ipotetico conflitto convenzionale con la Russia non vale la pena, anche se fosse possibile. Questo non significa abbandonare del tutto le forze di terra, come vedremo, ma significa usarle per cose sensate.
In ogni caso, dove si svolgerebbe questo ipotetico conflitto e di cosa si tratterebbe? Guardiamo una mappa. In primo luogo, sembra improbabile che la Russia, il più grande Paese del mondo, abbia bisogno di altro territorio, e ancor meno che sia disposta a combattere per ottenerlo. Ci sono quindi solo due possibilità. La prima è una disputa territoriale o di confine con un vicino. Supponendo che l’Ucraina sia governata da un governo neutrale e ragionevole, quali altre possibilità ci sono? Tanto per cominciare, è molto difficile immaginare che l’Estonia o la Romania entrino deliberatamente in conflitto con la Russia per i confini (o viceversa, se è per questo): che senso avrebbe e cosa potrebbero sperare di guadagnare? Allo stesso modo, mentre la NATO, assorbendo la Finlandia, si è premurosamente dotata di un confine molto lungo e indifendibile, è difficile capire perché una delle due parti dovrebbe voler combattere per questo.
Il secondo, anche se altrettanto improbabile, sarebbe una grande crisi tra la Russia e “l’Occidente” o “l’Europa”, che portasse a un conflitto su larga scala. Come in precedenza, però, le aree in cui ciò potrebbe avvenire sono molto poche. In questo caso, siamo ancora una volta vittime concettuali della Guerra Fredda, in cui eserciti massicci si sono effettivamente affrontati direttamente (come del resto hanno fatto spesso nel corso della storia). Anche in questo caso, è sufficiente guardare la mappa. Ma se, per qualche ragione ultraterrena, la Russia decidesse di attaccare attraverso la Romania, l’Occidente non potrebbe opporsi in modo utile. Questo non perché i russi siano superuomini, né perché la loro tecnologia sia necessariamente enormemente superiore, ma piuttosto a causa della geografia, che si può cambiare solo prosciugando l’Atlantico. Inoltre, anche in un conflitto con uno Stato (relativamente) ben armato come la Polonia, è probabile che i russi usino principalmente missili a lungo raggio per distruggere campi d’aviazione, concentrazioni di truppe, depositi logistici, centri di comando e controllo e snodi di trasporto, dopodiché si tratterebbe in gran parte di raccogliere i pezzi.
La seconda è che la sconfitta in Ucraina cambierà sostanzialmente il panorama strategico occidentale, in modi che non possiamo davvero prevedere. Quello che possiamo dire è che rischia un altro congelamento delle differenze politiche che sono state soppresse durante la Guerra Fredda, per poi emergere molto brevemente alle sue conclusioni. Chiunque abbia seguito la crisi ucraina saprà che ha portato a ogni sorta di idee selvagge su chi debba possedere quale territorio, chi lo possedeva prima, chi vuole un po’ dell’Ucraina post-1991 e così via. Ciò non sorprende, poiché i massicci spostamenti di confini e popolazioni dopo il 1945, decisi essenzialmente da Stalin per motivi di sicurezza, hanno lasciato eredità che non si sono mai realmente concretizzate e che comunque non hanno una soluzione “giusta” o “equa”. Questo problema è emerso brevemente dopo la Guerra Fredda, ma è stato in generale contenuto, con la significativa eccezione della Jugoslavia. Una ragione ampiamente misconosciuta per l’espansione della NATO è stata quella di cercare di portare il maggior numero possibile di Stati all’interno di una struttura che limitasse le loro aspirazioni territoriali più selvagge e i loro rancori storici.
Ma semmai la sconfitta in Ucraina rischia di liberare ancora una volta queste tensioni. La stessa NATO sarà nel migliore dei casi poco convincente, nel peggiore ridondante come organizzazione. Probabilmente continuerà in qualche forma perché nessuno vorrà assumersi la responsabilità di ucciderla, ma non è attrezzata per gestire dispute territoriali e politiche di questo tipo. Nemmeno l’UE lo è: gestire le grandi tensioni politiche non è come gestire le quote latte.
Da generazioni ormai gli europei si servono degli Stati Uniti come contrappeso alle dimensioni e alla potenza sovietica e poi russa. Come ho sottolineato più volte, gli Stati Uniti non hanno mai “difeso” l’Europa, ma potrebbero essere portati in gioco come forza politica equilibratrice in caso di una grave crisi in Europa. Dopo il primo test dal vivo di questa ipotesi, si scopre che era sbagliata, e probabilmente lo è sempre stata. Gli Stati Uniti non sono ora in grado di offrire all’Europa nulla di importante e, dato lo stato della loro economia e delle loro forze armate, questo probabilmente non è un male per loro. Per molto tempo, gli europei hanno temuto che le voci isolazioniste di Washington prendessero il sopravvento. Ora probabilmente lo faranno, ma si è tentati di dire che alla fine probabilmente non farà molta differenza. D’altra parte, alcuni Paesi europei potrebbero decidere che, in realtà, sarebbe meglio migliorare leggermente le loro relazioni con la Russia.
Un’Europa frammentata e abbandonata dovrà quindi riflettere a fondo. Dobbiamo sperare che, per la prima volta da molto, molto tempo, l’Europa prenda finalmente sul serio la Russia e le sue preoccupazioni, superando la paura della guerra fredda e l’altrettanto irragionevole senso di superiorità che l’ha seguita. Si tratterà di uno sviluppo massiccio, che richiederà un cambiamento politico altrettanto massiccio: forse equivalente a quello successivo al 1945, quando molti raggruppamenti politici esistenti furono semplicemente spazzati via. L’epico broncio di cui ho spesso parlato può durare solo fino a un certo punto, quando la capacità di azione è così limitata, e la storia suggerisce che in tali situazioni nuove forze politiche finiranno per sorgere e trovare popolarità.
L’Europa si troverà quindi in una situazione familiare: una serie di Stati deboli nelle vicinanze di uno grande e potente, che in questa occasione si sono deliberatamente alienati. La Russia non invaderà l’Europa, ma non è questo il problema. Il semplice fatto esistenziale delle sue dimensioni e della sua potenza, insieme alla debolezza dei suoi vicini, condizionerà le relazioni politiche tra la grande potenza e gli altri. Per alcuni occidentali questo è difficile da capire (gli americani, secondo la mia esperienza, lo trovano impossibile), ma è un dato di fatto e viene compreso nella maggior parte del mondo.
La risposta migliore, a mio avviso, sarebbe duplice. La prima sarebbe il riconoscimento di interessi comuni da parte degli Stati europei, compresa la percezione che alcuni interessi potrebbero non essere in realtà comuni, o condivisi in modo molto disomogeneo. Questo sconsiglia la creazione di ulteriori burocrazie e trattati di sicurezza, ma piuttosto una cooperazione ad hoc (che potrebbe includere gli Stati Uniti e altre potenze esterne) su questioni di interesse comune. Tale cooperazione porterà naturalmente a strutture di forza e ad approvvigionamenti per sostenerle. Il più grande interesse comune sarà l’affermazione dell’indipendenza e dell’identità collettiva: non in modo aggressivo, perché sarebbe inutile, e non cercando faticosamente di individuare interessi comuni dove non esistono, ma in modo da agire, per quanto possibile, positivamente nell’equilibrio di potere tra Russia ed Europa.
Classicamente, ciò avviene attraverso l’affermazione di confini e interessi. Avrebbe quindi senso disporre di aerei da combattimento per il pattugliamento dei confini dello spazio aereo e dei mari del Nord e del Baltico, spesso organizzato a livello multilaterale. Allo stesso modo, aerei ottimizzati per il pattugliamento antisommergibile sarebbero un buon investimento, mentre quelli per la penetrazione e l’attacco al suolo sarebbero uno spreco di denaro, oltre che potenzialmente destabilizzanti. I sottomarini e le fregate e i cacciatorpediniere antisommergibile potrebbero essere adatti alle circostanze. Allo stesso modo, il mantenimento di almeno alcune forze di terra è un modo tradizionale di esprimere la sovranità nazionale e la volontà di difenderla. Tutto ciò farebbe parte di una strategia coerente, essenzialmente politica, per aumentare l’indipendenza e la libertà d’azione dell’Europa di fronte al suo gigantesco vicino: carta per avvolgere la pietra, pietra per smussare le forbici. Senza dubbio le forze paranoiche di Mosca potrebbero considerare tali azioni potenzialmente aggressive, ma questo è un rumore del sistema internazionale con cui bisogna convivere.
Al di là di questo, è necessario prendere decisioni strategiche sulla proiezione di forze, tenendo presente che non ci sono vuoti in politica, e si può presumere che altri, da altre parti del mondo, faranno i loro piani di intervento quando sarà chiaro che gli europei non possono farlo. Ma queste decisioni saranno difficili e comunque lontane nel tempo.
Certo, non avremmo mai dovuto partire da qui. Posso solo pensare che se trent’anni fa fossero state prese decisioni migliori, ora non ci troveremmo in questa situazione. All’epoca alcuni di noi pensavano che fosse urgente trovare un modo di convivere con Mosca, ma nessuno di noi aveva lo status o l’influenza per influenzare le politiche che furono scelte. Ora c’è un’altra opportunità di prendere decisioni sensate, in una situazione in cui l’Europa è enormemente più debole e gli Stati Uniti sono di fatto fuori dai giochi. La migliore speranza, ironia della sorte, è che tali decisioni siano spesso imposte agli Stati da fattori che essi non possono controllare, e che siano loro gradite o meno.
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Una newsletter dedicata non alla polemica, ma al tentativo di dare un senso al mondo di oggi.
Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto, Oaks Editrice, 2024, pp. 111, € 12,00.
Da parecchi anni, nel dibattito sulla giustizia, la contrapposizione assolutamente prevalente, frutto evidente di una generalizzata naïveté, è tra cd. giustizialisti e cd. garantisti. Questo saggio (sulla giustizia civile ed amministrativa) ha un taglio del tutto diverso (e originale) che include il rapporto giustizia/garanzie. L’autore si ispira, mutuandone e mutandone ai propri fini argomentativi il titolo, ad una celebre opera di Jhering “La lotta per il diritto” nella quale il grande giurista tedesco sostiene che senza la lotta per il diritto soggettivo degli individui lesi, cioè l’esercizio dell’azione da parte di questi (nei sistemi dispositivi), il diritto oggettivo viene meno, ritenendo così essenziale per l’ordine sociale l’apporto dei singoli soggetti che lottando per il proprio diritto rendono effettivo e vivente quello oggettivo.
Scrive Klitsche de la Grange che la legislazione “italiana, nella Seconda Repubblica, ha reso più difficile, lento, costoso e defatigante l’esercizio dell’azione in giudizio e conseguentemente l’attuazione dei provvedimenti giudiziari”. A tal riguardo l’autore afferma che sono proliferate leggi e anche comportamenti volti a rendere più difficile, costosa, lunga la realizzazione della pretesa giudiziale. Il tutto nonostante la riforma (1999) dell’art. 111 della Costituzione volta ad aumentare le garanzie dei cittadini, prima e dopo ripetutamente contraddetta dalle fonti normative sottostanti.
Klitsche de la Grange ritiene che il connotato ricorrente di quella che appare una legislazione dilatoria sia di favorire la parte pubblica aumentando le disparità tra le parti del rapporto (processuale e sostanziale). Ricorda a tal proposito la tesi di Maurice Hauriou secondo la quale ogni Stato ha due diritti (istituzionale e comune) e due giustizie (tra parti uguali e non) che egli chiamava Temi (non paritaria) e Dike (paritaria). La Seconda Repubblica, per l’autore, pare aver fatto crescere il peso di Temi senza che con ciò ne derivasse alcun beneficio per la giustizia in generale, finendo anzi per determinare la scarsa efficienza dell’insieme. Il corollario di quanto precede, se si considerano ad esempio le pretese pecuniarie avanzate dal privato nei confronti dello Stato, è stata la produzione di norme orientate non a salvare i creditori dallo Stato quanto piuttosto lo Stato dai suoi creditori. Klitsche de la Grange riportando un passaggio dell’opera di Jhering così scrive “La lotta per il diritto è un dovere della persona verso se stesso. Affermare la propria esistenza è legge suprema di tutto il creato vivente, perché rispetto al debitore è per me un dovere sostenere il diritto mio, non importa cosa possa costare. E se non lo faccio, non metto solo allo sbaraglio questo diritto, ma il Diritto.”
Parole quelle di Jhering che ancora oggi risuonano con immutato vigore. In fondo, secondo il racconto di Eschilo, da Temi nacque il testardo Prometeo che non si sottrasse ai tanti patimenti cui fu sottoposto per via di quella sua smania di far del bene agli umani.
Nel complesso “La lotta contro il diritto”, che ricollega la situazione odierna alle conclusioni della migliore dottrina dello Stato e del diritto, appare una lettura non appannaggio esclusivo dei tecnici o degli esperti rivolgendosi anzi a qualunque uomo che non rinunci ad invocare il Diritto per far valere le proprie pretese.
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La tragedia e l’autolesionismo delle nazioni europee: dopo aver tagliato volontariamente i ponti con la Russia, sono tagliati fuori dall’Africa, grazie alla loro subordinazione atlantista e al retaggio coloniale. Su quali basi vorranno preservare la loro parvenza di autonomia, le loro forniture energetiche e la loro capacità industriale sarà un mistero_Giuseppe Germinario
Il ritiro militare della Francia e la fine degli accordi di difesa
La rottura strategica del Ciad:La Francia ha concluso la sua presenza militare in Ciad, trasferendo formalmente la sua ultima base al governo locale. Questo segna la fine di un patto di difesa che esisteva da decenni, risalente agli accordi post-indipendenza che posizionavano la Francia come fornitore di sicurezza chiave. Le forze francesi hanno svolto un ruolo cruciale nelle operazioni antiterrorismo e negli sforzi di stabilizzazione regionale, ma la crescente insoddisfazione locale per il coinvolgimento e l’influenza militare della Francia ha portato alla decisione di separarsi.
Uno schema di espulsioni: Mali, Burkina Faso e Niger hanno tutti estromesso le forze militari francesi e le hanno sostituite con accordi di sicurezza alternativi. Questi governi, spesso guidati da giunte militari, hanno cercato di affermare la propria sovranità e di allontanarsi dall’influenza storica della Francia, rivolgendosi invece a partner non occidentali per il sostegno alla difesa e alla sicurezza. In particolare, i consiglieri militari sostenuti dalla Russia sono intervenuti per colmare il vuoto di sicurezza, promettendo misure di controinsurrezione più incisive.
Futuro incerto per i restanti avamposti francesi: Con solo Gibuti e Gabon che ospitano basi militari francesi, la longevità dell’impronta di sicurezza della Francia in Africa è in discussione. Gibuti rimane un avamposto critico grazie alla sua posizione strategica lungo lo stretto di Bab el Mandeb, che ospita diverse basi militari straniere, tra cui quelle di Stati Uniti, Cina e Giappone. Il Gabon, tuttavia, si trova ad affrontare l’instabilità politica dovuta alle recenti transizioni di governo, il che solleva la possibilità che la sua leadership possa riconsiderare i legami militari con la Francia. Se il Gabon seguirà la tendenza regionale, la Francia potrebbe perdere un’altra base chiave, erodendo ulteriormente la sua influenza sul continente.
L’ascesa di nuove alleanze e nuovi attori di potere
La crescente impronta della Russia: Mali, Burkina Faso e Niger si sono orientati verso il sostegno militare russo, in particolare attraverso l’Africa Corps, affiliato a Wagner, in cambio di garanzie di sicurezza e accordi economici. Le forze russe stanno capitalizzando il sentimento antifrancese per espandere la loro influenza nella regione, offrendo assistenza militare con minori condizioni politiche rispetto ai governi occidentali.
L’espansione della leva economica cinese: Mentre la Francia si ritira, le imprese cinesi stanno perseguendo in modo aggressivo progetti infrastrutturali e minerari, assicurandosi un accesso critico alle risorse naturali dell’Africa. La Belt and Road Initiative (BRI) della Cina ha guadagnato terreno, con le nazioni africane che guardano sempre più a Pechino per finanziamenti e partnership di sviluppo, in particolare in settori come i trasporti, l’energia e le telecomunicazioni.
La Turchia e gli Emirati Arabi Uniti entrano in scena: Il Ciad e altre nazioni guardano sempre più alla Turchia e agli Emirati Arabi Uniti per l’addestramento militare, l’approvvigionamento di armi e la cooperazione strategica. La crescente presenza militare della Turchia in Africa è sostenuta dalla sua industria della difesa, che fornisce droni e veicoli blindati, mentre gli Emirati Arabi Uniti hanno approfondito i legami attraverso patti di sicurezza e investimenti economici, in particolare nella regione del Sahel.
Problemi di sicurezza e sfide dell’antiterrorismo
Minacce terroristiche in crescita: Il vuoto lasciato dalle forze francesi ha incoraggiato gruppi militanti come Boko Haram e ISWAP, permettendo loro di riorganizzarsi, espandere gli sforzi di reclutamento e lanciare attacchi transfrontalieri più frequenti. La rinascita di questi gruppi è particolarmente preoccupante nella Nigeria settentrionale, nel bacino del Lago Ciad e nella regione tri-frontaliera tra Mali, Burkina Faso e Niger. Con le forze di sicurezza ridotte al lumicino, queste fazioni estremiste stanno sfruttando la debolezza delle strutture di governance e la porosità dei confini per riaffermare la loro influenza.
Stabilità di confine a rischio:Il movimento di armi e militanti nella regione ha acuito le tensioni, mentre le fazioni militanti tuareg e le forze governative competono per il dominio territoriale. Il crescente ricorso a gruppi paramilitari russi, soprattutto in Mali e Burkina Faso, ha portato a scontri con le fazioni locali e ha sollevato crescenti preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani e le azioni extragiudiziali.
Perdita di risorse chiave di intelligence: L’abbandono della Francia significa che le nazioni africane perdono l’accesso a sofisticati meccanismi di condivisione dell’intelligence, tra cui la sorveglianza con i droni e il coordinamento dell’antiterrorismo. In precedenza, le basi militari francesi fornivano dati critici in tempo reale sui movimenti degli estremisti, aiutando a prevenire gli attacchi. Senza queste risorse, le forze locali si trovano ad affrontare una significativa lacuna nel monitorare e rispondere alle minacce emergenti. Il passaggio a partner alternativi, come la Russia e la Turchia, potrebbe non compensare immediatamente questo deficit di intelligence, aumentando la probabilità di avanzamenti militanti inaspettati e di destabilizzazione.
Ricadute economiche e conseguenze politiche
Un clima commerciale ostile per le aziende occidentali: i governi del Mali e del Niger stanno dando priorità al controllo nazionale sulle risorse, attuando misure restrittive nei confronti delle aziende occidentali e favorendo invece le aziende russe e cinesi.
La migrazione come leva strategica: Con l’affermazione del dominio della sicurezza da parte della Russia, cresce la preoccupazione che le rotte migratorie dall’Africa all’Europa possano essere manipolate per ottenere una leva geopolitica. L’aumento dell’instabilità e delle difficoltà economiche nel Sahel potrebbe spingere ondate migratorie verso l’Europa, intensificando la pressione sui governi europei affinché negozino con i nuovi mediatori di potere regionali.
Nazionalismo antifrancese in aumento: I leader politici in tutta l’Africa occidentale stanno facendo leva sul sentimento antifrancese per consolidare il sostegno interno, rafforzando le richieste di sovranità economica e politica. Le manifestazioni pubbliche contro la Francia sono aumentate, con richieste di risarcimenti e cambiamenti di politica che limitino ulteriormente il coinvolgimento occidentale negli affari nazionali.
Implicazioni strategiche e prospettive future
Per la Francia:
L’erosione dell’influenza militare indebolisce la sua capacità di proiettare potere in Africa e di mantenere un punto d’appoggio strategico.
Le imprese francesi devono affrontare crescenti ostacoli economici e normativi, poiché i governi africani favoriscono partner alternativi.
Gli sforzi di Macron per rivitalizzare le relazioni della Francia con l’Africa sono falliti, segnando di fatto la fine della “Françafrique” come realtà geopolitica.
La diminuzione dell’influenza avrà probabilmente un impatto sulla più ampia politica estera della Francia, costringendo Parigi a ripensare i suoi impegni strategici in altre ex colonie e oltre.
Per riconquistare una posizione di rilievo nella regione, la Francia potrebbe dover ricorrere a strategie di soft power, come la diplomazia culturale e i partenariati economici.
Per l’Europa:
Una potenziale ondata migratoria dal Sahel metterà a dura prova le politiche europee di gestione delle frontiere.
Gli Stati membri dell’UE devono ricalibrare le loro politiche estere e di sicurezza per rispondere alla diminuzione della presenza francese nella regione.
Il crescente dominio della Cina sui mercati africani rappresenta una sfida a lungo termine per l’influenza economica europea.
Le aziende europee che operano nell’Africa francofona potrebbero trovarsi ad affrontare una maggiore concorrenza da parte delle imprese russe e cinesi, rendendo necessarie politiche commerciali e di investimento più incisive.
L’UE potrebbe dover prendere in considerazione iniziative diplomatiche ed economiche alternative per contrastare la perdita di influenza in Africa.
Per gli Stati Uniti:
Washington deve rivalutare il suo approccio all’antiterrorismo in Africa senza che la Francia guidi le operazioni di sicurezza, in particolare nelle regioni in cui gruppi jihadisti come Boko Haram e Al-Qaeda nel Maghreb islamico rimangono attivi. Senza una solida presenza di sicurezza occidentale, il rischio che le reti estremiste espandano la loro influenza aumenta in modo significativo.
Assicurarsi partner affidabili per la stabilità regionale sarà fondamentale, dato che Russia e Cina stanno guadagnando terreno. Gli Stati Uniti dovranno rafforzare i legami diplomatici con le nazioni africane e migliorare la cooperazione economica e militare per contrastare la crescente influenza degli attori non occidentali.
L’ascesa di attori non occidentali potrebbe complicare gli impegni diplomatici e militari degli Stati Uniti in tutto il continente, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza delle risorse strategiche e il mantenimento dell’accesso alle reti di condivisione dell’intelligence. Le mutevoli alleanze delle nazioni africane potrebbero richiedere a Washington di adattare il proprio quadro politico per garantire una continua influenza e stabilità.
Il Pentagono potrebbe anche dover riconsiderare l’ubicazione delle sue basi e i suoi dispiegamenti militari per mantenere una presenza operativa in regioni chiave come il Sahel e il Corno d’Africa.
Per la Russia e la Cina:
La Russia rafforza la sua influenza geopolitica: Mentre la Francia si ritira, la Russia si inserisce nel vuoto della sicurezza, espandendo la sua portata e assicurandosi l’accesso alle risorse strategiche dell’Africa. Gli appaltatori militari e le iniziative diplomatiche russe stanno aumentando di importanza, radicando ulteriormente l’influenza di Mosca nei principali Stati africani.
Il dominio economico della Cina cresce: Con il ritiro delle imprese occidentali, gli investimenti cinesi nelle infrastrutture, nella tecnologia e nell’estrazione delle risorse africane stanno accelerando, rafforzando ulteriormente l’influenza di Pechino. I progetti cinesi della Belt and Road Initiative (BRI) continuano ad espandersi, consolidando le relazioni economiche a lungo termine di Pechino con i governi africani e aumentando la dipendenza dal sostegno finanziario cinese per le infrastrutture critiche.
Il ritiro della Francia dal Ciad e da altre nazioni africane è più di una riconfigurazione militare: rappresenta un profondo cambiamento geopolitico. Le nazioni africane stanno affermando la propria indipendenza e perseguendo partnership globali diversificate, allontanandosi dalla loro storica dipendenza dalle potenze occidentali. Con l’ingresso nel vuoto di Russia, Cina e altri attori emergenti, l’equilibrio di potere in Africa sta subendo una trasformazione fondamentale. Questa transizione segna la fine del dominio decennale della Francia e inaugura una nuova era di impegno multipolare, riallineamento strategico e geopolitica competitiva in Africa.
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QUESTIONE: Signor Segretario, grazie mille per averlo fatto.
SEGRETARIO RUBIO: Grazie. Mi sembra ancora strano sentirlo, ma grazie.
QUESTIONE: È così, vero? Quindi è già una settimana che sei dentro?
SECRETARIO RUBIO: Otto giorni, ma non li sto contando. Dico solo che sono passati otto giorni. Sì, otto, nove giorni.
QUESTIONE: Ci sono così tante cose che vorrei approfondire, come il cambiamento tra il Senato e qui, come sei – com’è essere al centro dello Stato profondo, ma lasciami iniziare con l’incidente aereo. È così terribile.
SECRETARIO RUBIO: Lo è. È orribile. Voglio dire, solo da un punto di vista umano, pensare che queste sono persone che erano – voglio dire, stavano atterrando.Siamo stati tutti su questi aerei, ci si prepara ad atterrare, si è eccitati, si è pronti a partire, magari il telefono è già collegato perché si è pronti a scendere a terra.E poi una cosa del genere arriva all’improvviso, ed è una tragedia orribile. E non dimentichiamo che c’erano anche dei militari coinvolti che hanno perso la vita in questo terribile incidente;
Ovviamente, non si tratta di una funzione del Dipartimento di Stato, ma la chiave di tutto è innanzitutto onorare coloro che sono passati e comprendere il dolore di queste famiglie; in secondo luogo, capire perché è successo, in modo che non si ripeta mai più. Si tratta di un aeroporto molto trafficato e c’è molto traffico che entra ed esce da questa città, quindi – ma è semplicemente straziante. E sono sicuro che quando sentiremo le storie individuali delle persone coinvolte, sarà ancora più triste.
QUESTIONE: Sottolinea il motivo per cui il Presidente Trump ha bisogno che le sue nomine siano confermate rapidamente?
SECRETARIO RUBIO: Sì, soprattutto per quanto riguarda la parte di risposta, giusto? Voglio dire, in definitiva c’è stato un fallimento a un certo punto, come elicotteri e aerei non dovrebbero schiantarsi l’uno contro l’altro nella capitale degli Stati Uniti in uno degli aeroporti più trafficati del paese.Quindi è successo per un motivo, e qualcuno deve guidare un processo per capire perché, e poi si deve guidare un processo per assicurarsi che non accada di nuovo.E, guarda, è successo qui; potrebbe succedere anche in un’altra città. E quindi devi avere qualcuno a capo di questi dipartimenti che si occupano di questo. E potrebbe trattarsi di più dipartimenti, perché coinvolgerà il Dipartimento della Difesa, coinvolgerà il Dipartimento dei Trasporti, ma potrebbe coinvolgere altri elementi del Governo degli Stati Uniti, e devi avere qualcuno che diriga le agenzie o non saranno – non otterrai la stessa reattività senza questo.
QUESTIONE: Sì. Dio non voglia che succeda qualcosa a livello internazionale. Lei è stato insediato, ma Tulsi – quello potrebbe richiedere un po’ di tempo, e c’è stato un po’ di tira e molla.
Va bene. Quindi è al lavoro da otto giorni. Qual è la più grande differenza tra essere un senatore degli Stati Uniti ed essere il Segretario di Stato?
SEGRETARIO RUBIO: Beh, due cose. Prima di tutto, il mio capo è – il Presidente Trump è una persona che si muove molto velocemente. Le faccio un esempio perfetto.Questo fine settimana abbiamo avuto un disaccordo non con la Colombia, ma con il presidente della Colombia, che alle 4 e qualcosa del mattino ha deciso di invertire i voli che aveva concordato. L’abbiamo messo per iscritto. Erano d’accordo.Si tratta di cittadini colombiani che si trovano illegalmente negli Stati Uniti, e loro – voglio dire, in base agli accordi internazionali devono riprendersi i loro cittadini, e loro erano d’accordo. Alle 4:30 del mattino, per qualche motivo era sveglio o stava per andare a letto, e ha deciso di andare su X e scrivere che aveva ordinato che – un aereo era a metà strada e l’altro era appena decollato, e ha ordinato di invertire i voli.
In un’amministrazione tradizionale ci sarebbero voluti circa due anni e mezzo per reagire alla situazione; si sarebbe dovuto esaminare tutto questo e tutte queste opzioni politiche; con il Presidente Trump è successo nel giro di poche ore; è stato molto rapido.Il Senato e la Camera svolgono un ruolo molto importante, ma non hanno il ruolo esecutivo, e la parte esecutiva è quella che ritengo sia la differenza più grande: la capacità di vedere un problema e, in base alle nostre autorità, affrontarlo. E quando lavori per qualcuno come il Presidente Trump, accadrà molto rapidamente. Non ci saranno molti dibattiti in corso.
QUESTIONE: Sulla scia di quell’incidente aereo, ieri sera mi sono chiesto se i loro predecessori della precedente amministrazione stessero chiamando Pete Hegseth, stessero chiamando Sean Duffy. Ha parlato con Antony Blinken? Le è stata mandata qualche buona notizia?
SECRETARIO RUBIO: Beh, non è – non al Dipartimento di Stato, ed è possibile perché quando siamo nei nostri uffici non abbiamo i nostri telefoni qui in questo edificio per motivi di sicurezza, quindi è possibile che abbiano contattato da questa mattina.Ma la verità è che, sebbene ci possa essere una componente di Stato, se sui voli fossero presenti cittadini internazionali, cittadini di un altro Paese, ovviamente informeremmo la loro ambasciata o il loro consolato e le loro famiglie e i loro cari.Ma mi aspetterei che lo facessero anche al Dipartimento della Difesa, perché ovviamente si trattava del Dipartimento della Difesa e di un elicottero militare; tre militari hanno perso la vita; e poi sicuramente al Dipartimento dei Trasporti, perché ha la giurisdizione primaria sulla FAA e sulle sfide più ampie della sicurezza degli aerei;
QUESTIONE: E da quando ha assunto l’incarico? C’è – è come – le ha dato una lettera come Biden ne ha lasciata una per Trump?
SECRETARIO RUBIO: L’ha fatto. Ha lasciato un biglietto molto carino e in pratica ha detto: “Benvenuti nel miglior lavoro del mondo e sono qui per aiutarvi, per qualsiasi cosa abbiate bisogno”. Ed è – come ho detto, è un lavoro davvero importante. Deve diventare ancora più importante.Il Dipartimento di Stato, a mio avviso, nel corso degli anni è diventato sempre meno rilevante nella definizione della politica estera per una serie di ragioni, e non perché non ci siano persone di talento al Dipartimento di Stato – ce ne sono, e l’ho capito in passato, interagendo con loro – ma perché si muoveva troppo lentamente, perché ci voleva troppo tempo per agire, perché – si dava una direttiva e ci voleva così tanto tempo perché il Dipartimento di Stato facesse qualcosa a causa di processi interni o altro, che in gran parte le amministrazioni iniziavano a lavorare intorno al Dipartimento di Stato.Io voglio che il Dipartimento di Stato torni ad essere rilevante, voglio che sia al centro della politica estera e che questo avvenga fornendo consigli al Presidente, che alla fine decide cosa fare;
Quindi è un ottimo lavoro. E ti dico che non è solo la posizione, ma essere Segretario di Stato per Donald Trump è un ottimo lavoro perché sai che non perderai molto tempo.
QUESTIONE: No.
SECRETARIO RUBIO: Una volta presa la decisione, dovrete agire.
QUESTIONE: È un momento così difficile per essere Segretario di Stato, soprattutto come repubblicano, perché si guarda al Partito Repubblicano ed è fratturato al suo interno su dove dovremmo essere in politica estera.Non è come durante gli anni di Bush, dove la destra era molto più neocon, mentre ora c’è una vera e propria divisione all’interno della destra, persino all’interno del MAGA, su come – cosa dovremmo fare con l’Ucraina, dato che la maggior parte del partito credo non voglia più averci niente a che fare; come – che tipo di saber-rattling dovremmo fare – fare con l’Iran.C’è un’ampia fetta che ritiene che non dovremmo concentrarci sulla Cina e che dovremmo smetterla di demonizzare l’Iran e la Russia e tenere d’occhio la nostra più grande minaccia. So che anche lei pensa che siano la nostra più grande minaccia. Quindi, come – mi dia una visione a livello di 30.000 piedi di come intende navigare in questa frattura.
SECRETARIO RUBIO: Sì. Beh, penso che passiamo molto tempo nella politica americana a discutere di tattiche, come cosa faremo, chi sanzioneremo, quale lettera invieremo o altro. Penso che debba davvero iniziare con la strategia: Qual è l’obiettivo strategico?Qual è lo scopo, la missione? E credo che la missione della politica estera americana – e questo può sembrare ovvio, ma credo che sia stato perso;
QUESTIONE: Prima l’America.
SECRETARIO RUBIO: Beh, è così che il mondo ha sempre funzionato. Il modo in cui il mondo ha sempre funzionato è che i cinesi faranno ciò che è nel miglior interesse della Cina, i russi faranno ciò che è nel miglior interesse della Russia, i cileni faranno ciò che è nel miglior interesse del Cile, e gli Stati Uniti devono fare ciò che è nel miglior interesse degli Stati Uniti.Laddove i nostri interessi si allineano, si creano partnership e alleanze; laddove le nostre differenze non sono allineate, il compito della diplomazia è quello di prevenire i conflitti, pur promuovendo i nostri interessi nazionali e comprendendo che essi promuoveranno i loro;
E credo che questo si sia perso alla fine della Guerra Fredda, perché eravamo l’unica potenza al mondo, e quindi ci siamo assunti questa responsabilità di diventare in molti casi il governo globale, cercando di risolvere ogni problema.Non è normale che il mondo abbia semplicemente una potenza unipolare. Non è stata un’anomalia. È stato il prodotto della fine della Guerra Fredda, ma alla fine si sarebbe tornati a un mondo multipolare, con più grandi potenze in diverse parti del pianeta.Lo stiamo affrontando ora con la Cina e in parte con la Russia, e poi ci sono Stati canaglia come l’Iran e la Corea del Nord con cui bisogna fare i conti.
Ora più che mai dobbiamo ricordare che la politica estera dovrebbe sempre essere finalizzata a promuovere l’interesse nazionale degli Stati Uniti e a farlo, per quanto possibile, evitando la guerra e i conflitti armati, che abbiamo visto due volte nell’ultimo secolo essere molto costosi. Quest’anno si celebra l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale.Credo che, se si considerano la portata e l’entità della distruzione e della perdita di vite umane che si sono verificate, sarebbe di gran lunga peggiore se avessimo un conflitto globale ora. Potrebbe porre fine alla vita sul pianeta.E sembra un’iperbole, ma è così: oggi ci sono più Paesi che hanno la capacità di porre fine alla vita sulla Terra. E quindi dobbiamo impegnarci per evitare il più possibile i conflitti armati, ma mai a scapito dei nostri interessi nazionali. È questo il difficile equilibrio.
Quindi penso che, tornando a questo, ora si possa avere un quadro di riferimento per analizzare non solo la diplomazia, ma anche gli aiuti all’estero e con chi ci schiereremmo e il ritorno del pragmatismo; e non si tratta di un abbandono dei nostri principi; non sono un fan o un sostenitore esaltato di qualche orribile violatore dei diritti umani da qualche parte nel mondo.Allo stesso modo, la diplomazia ci ha sempre richiesto e la politica estera ci ha sempre richiesto di lavorare nell’interesse nazionale, a volte in collaborazione con persone che non inviteremmo a cena o da cui non vorremmo necessariamente essere guidati. Si tratta quindi di un equilibrio, ma è il tipo di equilibrio pragmatico e maturo che dobbiamo avere in politica estera.
QUESTIONE: Come pensa che abbiamo fatto nell’ultima amministrazione? Perché Jake Sullivan, ex consigliere per la sicurezza nazionale – ora ex – sotto Joe Biden ha detto: “Le nostre alleanze sono [ora] più forti”, quando hanno lasciato l’incarico.I nostri avversari e i nostri concorrenti sono più deboli… La Russia è più debole, l’Iran è più debole, la Cina è più debole, e tutto questo mentre abbiamo tenuto l’America fuori dalle guerre”;
SECRETARIO RUBIO: Beh, un paio di punti. Il primo è – e stiamo guardando avanti e andando avanti, ma dobbiamo analizzare la nostra posizione e il mondo che abbiamo ereditato, e non sarei d’accordo con questa valutazione.Penso che tutto cominci perché l’amministrazione Biden, dal mio punto di vista, ha avuto fratture interne tra il Dipartimento di Stato e il Consiglio di Sicurezza Nazionale, tra diversi elementi del loro partito. L’avete visto realizzarsi, per esempio, con la nostra posizione su Israele, dove c’era un gruppo che voleva andare in una direzione diversa. Questa è davvero una frattura anche all’interno del Partito Democratico.
Se si guarda in giro per il mondo, direi che in molti casi i nostri avversari sono più forti di quanto siano mai stati e lo sono diventati negli ultimi quattro anni. Certamente la Russia non si considera più debole di quanto non fosse quattro anni fa. Ora controllano un territorio che non avevano quando Donald Trump ha lasciato l’incarico.
Penso che se si guarda al Medio Oriente, abbiamo avuto lo scoppio di una guerra che può – che è stata incredibilmente costosa e divisiva. È iniziata il 7 ottobre quando questi selvaggi sono arrivati e hanno commesso queste atrocità.
Abbiamo una guerra anche in Europa, in Ucraina, come ho detto poc’anzi. Quindi abbiamo dovuto – e credo che uno dei cardini che ha innescato tutto questo sia stato il caotico ritiro dall’Afghanistan. Credo che questo abbia mandato un segnale molto chiaro a qualcuno come Vladimir Putin che l’America era in realtà in declino o distratta – possiamo muoverci – e lo ha fatto.
Penso che lo si veda nell’Indo-Pacifico, dove ogni giorno – non solo Taiwan, ma anche le Filippine – vengono sfidate militarmente in modo aggressivo dai cinesi, o la coercizione si sta diffondendo in tutto il mondo, i cinesi stanno usando tattiche coercitive, non solo nel loro – vicino estero, ma anche in altre parti del mondo.
Quindi non sono d’accordo con questa valutazione. Penso che abbiamo molto lavoro da fare. E vi dirò – e questo è un aspetto che non viene spesso apprezzato abbastanza – che i Paesi si lamentano apertamente del fatto che gli Stati Uniti siano molto fermi e si impegnino in queste cose in modo molto deciso; ma in privato, in molti casi, lo accolgono con favore.Vogliono sapere – vogliono chiarezza nella nostra politica estera, e poi vogliono che agiamo per essere affidabili. E non conosco nessun presidente nella storia americana moderna che sia più chiaro di Donald Trump, e non conosco nessuno che sia più orientato all’azione del Presidente Trump. E quindi questo è ciò che il Dipartimento di Stato rifletterà nel modo in cui procederemo.
QUESTIONE: Mi chiedo solo, mentre la ascolto, se pensa che l’infermità mentale di Joe Biden, di cui tutti siamo stati testimoni, soprattutto durante il suo ultimo anno di mandato, ci sia costata qualcosa con questi avversari.
SECRETARIO RUBIO: Sì, guardi, i nostri – sia gli avversari che gli alleati analizzano tutto, proprio come facciamo noi, giusto? Osserviamo i leader stranieri su come si comportano e prendiamo decisioni in base a questo.E non c’è dubbio che gli avversari stranieri guardino come reagiscono i nostri leader – non solo i presidenti, ma chiunque altro – e facciano delle ipotesi sulla base di questo.La percezione che la Cina ha del mondo è che loro sono in una fase in cui – inevitabilmente – saranno la più grande potenza mondiale entro il 2035, 2050. Qualunque sia la data che hanno fissato nella loro mente, credono di essere in un’ascesa irreversibile e che noi siamo in un inevitabile declino, che l’Occidente in generale, ma gli Stati Uniti in particolare, sia un’entità stanca.E credono che la politica estera consista nel gestire il nostro declino e la loro ascesa, e non vogliono che nulla la interrompa. È così che vedono l’Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare.
E così, ogni volta che i nostri leader personificano la loro visione dei nostri problemi, non fanno altro che rafforzare la loro convinzione e, francamente, li invitano a fare cose che forse non farebbero se avessero un calcolo diverso di noi;
QUESTIONE: E secondo questa logica, siamo diventati più sicuri il giorno in cui Trump è stato inaugurato.
SECRETARIO RUBIO: Non c’è dubbio. L’ho visto. Voglio dire, vi dico che per – se guardate a quello che è successo con la Colombia, in generale, se un leader avesse detto ho intenzione di respingere questi aerei, non li prenderò, avremmo inviato una nota – una demarche la chiamano – lamentandoci di questo.E avremmo avuto un contatto ad alto livello e avremmo risolto la questione in sei settimane o poco più;
In questo caso particolare, abbiamo presentato al Presidente Trump delle opzioni; lui ha agito immediatamente; e i canali di ritorno esistevano; c’erano molte conversazioni con altre figure del governo colombiano che erano d’accordo e stavano cercando di capire come ottenere questo risultato; ma non ci sono volute sei settimane o sei mesi; ci sono volute sei ore;
QUESTIONE: Sono rimasti scioccati quando Trump ha inviato il suo tweet?
SECRETARIO RUBIO: Scioccati? No, non credo che siano rimasti scioccati. Penso che abbia riaffermato ciò che credono di lui, e cioè che non si tratta di un presidente americano tradizionale, ortodosso, che si farà ingarbugliare da impedimenti interagenzie nel nostro governo.Si tratta di qualcuno che è orientato all’azione e che farà le cose – che farà davvero quello che dice. Quindi sì, voglio dire, non credo che siano rimasti scioccati. Penso che sia stato un buon promemoria.
E voglio essere chiaro: la maggior parte delle persone nel governo colombiano sono amiche degli Stati Uniti. Erano inorriditi da ciò che stava accadendo. C’erano leader del loro ramo congressuale che stavano scrivendo messaggi su X come questo è folle, il nostro presidente è un pazzo;
Ma penso che riaffermi ciò che molti leader credono dell’America sotto Donald Trump, e cioè che siamo guidati da qualcuno che non è molto misterioso. Ti dirà cosa farà e lo farà davvero. E penso che la politica estera funzioni molto meglio quando sei guidato da qualcuno così.
QUESTIONE: Ora, questo… questo renderà il suo lavoro più facile?
SECRETARIO RUBIO: Più facile, senza dubbio.
QUESTIONE: Così si può semplicemente dire: “Ehi, guardate, il capo ha detto esattamente come la pensa, credetegli”
SECRETARIO RUBIO: Sì. Voglio dire, penso che spesso le persone pensino che ci sia un atteggiamento posticcio – “beh, non lo pensano davvero” o “non lo faranno davvero”. Penso che nel mio caso particolare – non devo fare questo argomento, giusto? Voglio dire, penso che lo capiscano.
Penso che sia anche molto – voglio dire, ogni conversazione che ho avuto con i leader stranieri, nella misura in cui è stata conflittuale o abbiamo avuto aree di conflitto di cui parlare, sono stato molto chiaro. E cioè: Guarda, mi aspetto che tu faccia quello che stai facendo perché è – stai agendo nel tuo interesse nazionale.E so che vi siete abituati a una politica estera in cui voi agite nell’interesse nazionale del vostro Paese e noi nell’interesse del mondo o dell’ordine globale, ma ora siamo guidati da una persona diversa e sotto il Presidente Trump faremo quello che fate voi;
E uno dei termini che il Presidente Trump ama è reciprocità. Ed è molto semplice, ma credo che la gente lo capisca. Se voi ci fate pagare una tariffa del 50% per l’ingresso di un prodotto americano nel vostro Paese, noi dovremmo farvi pagare una tariffa del 50% qui, forse del 55. Anche al Presidente Trump piace avere un’influenza. E chi non direbbe che questo non è giusto, e come si può discutere contro di esso?Ma questa è stata la nostra politica in molti casi. In un paese dopo l’altro in tutto il mondo, non abbiamo accesso ai loro mercati, ma i loro prodotti hanno accesso aperto e libero ai nostri. Come può continuare? È assurdo. Penso che chiunque abbia buon senso lo sosterrebbe. Francamente, penso che molti di questi leader si siano chiesti perché ci abbiamo messo così tanto a capirlo, ma sotto il Presidente Trump sanno che lo abbiamo fatto.
QUESTIONE:IlNew York Times ha detto: “Ok, l’avete fatta franca con la Colombia, ma non riuscirete a fare lo stesso con la Russia, la Cina e l’Iran.Se cercate di intimidire queste nazioni più forti in questo modo, non andrà molto bene. È una giusta osservazione?
SECRETARIO RUBIO: Beh, non siamo interessati a fare i prepotenti con nessuno e non ci sentiamo come se avessimo fatto i prepotenti con la Colombia. Ci sentiamo come se avessimo un accordo. La Colombia ha firmato un accordo. Hanno firmato un pezzo di carta che diceva sì, mandateci questi aerei, e poi a metà del volo lo hanno rotto.E così la nostra risposta è stata: “Beh, ora abbiamo fatto volare questi aerei, li abbiamo dovuti riportare negli Stati Uniti, quindi ora verrete a prenderli”. Perché dovremmo pagare per quei voli perché li avete cancellati?
Ovviamente, guardate, la Cina ha armi nucleari. Sono persone dure. Non c’è dubbio. Sono persone dure, hanno armi nucleari, sono una grande potenza con una grande economia – diventeranno una potenza globale. Ma non possono farlo a nostre spese.E quindi, in ultima analisi, quando si ha a che fare con grandi potenze come la Cina, la discussione avverrà ai livelli più alti del loro presidente e del nostro o del loro premier e del nostro presidente, e questa interazione avverrà. Nel caso della Russia, lo stesso. Ovviamente, ci sarà – qualsiasi cosa accada con la Russia sarà una dinamica Putin-Trump.
Ma penso che certamente, certo, il mondo è – il modo in cui si tratta – non il modo in cui si trattano i Paesi, ma il modo in cui ci si approccia a una nazione deve essere basato sull’equilibrio strategico. Ma non credo che abbiamo maltrattato la Colombia, né penso che questi articoli su oh, si rivolgeranno alla Cina – è assurdo.Credo che la stragrande maggioranza della popolazione colombiana, un Paese che conosco molto bene, non ami nemmeno il proprio presidente;
QUESTIONE: È un uomo strano.
SECRETARIO RUBIO: Beh, perderebbe. Voglio dire, è impopolare in Colombia. Voglio dire, non dipende da noi. La gente lì voterà e deciderà chi vuole guidare. Ma penso che molti dei loro cittadini e della loro classe imprenditoriale pensino: “Cosa sta facendo questo tizio?E’ assurdo.” Voglio dire, è normale che – stavamo deportando persone in Colombia proprio come deportiamo persone in tutti i paesi del mondo. E comunque, se ci sono immigrati americani illegali in un altro paese, dovremmo accettare che vengano da questa parte.
QUESTIONE: Giusto.
SECRETARIO RUBIO: Quindi non pago molto – la maggior parte delle persone, purtroppo, che opinano – più mi sono addentrato nella politica estera e più leggo persone che affermano di saperne di politica estera, più mi rendo conto che molte delle persone che crediamo siano esperti non hanno idea di cosa stiano parlando.
QUESTIONE: C’è un grande delta. E per quanto riguarda – ha menzionato la Cina. Ha recentemente avuto una telefonata con il – il loro – ministro degli Esteri?
SECRETARIO RUBIO: Il ministro degli Esteri.
QUESTIONE: E c’è stato un rapporto in cui lei è stato – ha ricevuto una sorta di avvertimento che doveva sostanzialmente guardare –
SECRETARIO RUBIO: Sì, qualcuno me l’ha detto. Ed è – quindi due cose che – il gioco che fanno. Il numero uno è che mettono una traduzione in inglese e una in cinese, e non sempre si sovrappongono.La telefonata è stata molto diretta, e in sostanza ho detto che voi state agendo nell’interesse della Cina, noi agiremo nell’interesse dell’America.Siamo due grandi potenze. E nelle aree in cui possiamo lavorare insieme, probabilmente non c’è problema al mondo che non potremmo risolvere lavorando insieme; nelle aree in cui abbiamo dei disaccordi, abbiamo la responsabilità di gestirli in modo che non si trasformino in qualcosa di catastrofico;
Non ho – almeno il traduttore che era al telefono non mi ha detto nulla che mi sembrasse esagerato. Ma poi hanno messo in giro questi giochetti. A loro piace fare questi giochetti. Hanno messo in giro queste traduzioni in cui si dice una cosa in inglese e poi viene tradotta in un altro – usano un termine diverso in mandarino – così come è stato avvertito di non oltrepassare i limiti – non hanno mai detto questo.E se l’avessero fatto, gli avrei detto: “Beh, anch’io ti direi di non oltrepassare i limiti”. Ma non è successo, almeno non durante la telefonata, o forse il loro interprete non ha voluto interpretarlo in quel modo;
QUESTIONE: Giusto.
SECRETARIO RUBIO: Ma questa non era la lettura che abbiamo ricevuto. Ma è sciocca e irrilevante. Ciò che conta davvero sono le decisioni che prendiamo andando avanti.E la Cina vuole diventare il Paese più potente del mondo e vuole farlo a nostre spese, e questo non è nel nostro interesse nazionale, e lo affronteremo. Non vogliamo una guerra per questo, ma lo affronteremo.
QUESTIONE: Beh, questo ci porta – beh, abbiamo altro sulla Cina, ma questo ci porta a Panama, dove state per andare. E la Cina sta ovviamente giocando un ruolo laggiù, è una delle ragioni per cui Trump ha detto – il presidente Trump ha detto che rivogliamo il canale; non abbiamo mai avuto intenzione di darlo ai cinesi.Non è mai stato questo il piano di gioco. Non controllano tecnicamente il Canale di Panama, ma hanno degli interessi laggiù;
SECRETARIO RUBIO: Sì. Allora, beh, sono dappertutto a Panama. Qualche anno fa, Panama ha preso la decisione di de-riconoscere Taiwan e di allinearsi con Pechino. E con questo sono arrivati tutti i tipi di soldi che sono stati forniti all’amministrazione dell’allora presidente per – per progetti e cose di quella natura, ma anche investimenti cinesi.E uno dei principali investimenti è in queste due strutture portuali su entrambi i lati del canale e in tutti gli altri tipi di infrastrutture, gru e simili.È simile all’argomentazione su ByteDance e TikTok: ogni azienda che opera dalla Cina o da Hong Kong, che è controllata dalla Cina – più che mai controllata dalla Cina; non è più autonoma – deve fare tutto ciò che il governo le dice.E se il governo cinese, in un conflitto, dice loro di chiudere il Canale di Panama, dovranno farlo. E in effetti, non ho alcun dubbio che abbiano dei piani di emergenza per farlo;
Quindi è un cavillo, ma in realtà se la Cina volesse ostacolare il traffico nel Canale di Panama, potrebbe farlo. Questo è un dato di fatto. Ed è mia opinione che sia una violazione dell’accordo del trattato, ed è quello che il Presidente Trump sta sollevando, e affronteremo questo argomento. È una delle preoccupazioni.Questa dinamica non può continuare, non solo perché l’abbiamo costruito a caro prezzo in vite e tesori, ma perché è contraria al nostro interesse nazionale. Non è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti che un canale che abbiamo pagato e costruito venga usato come leva e arma contro di noi;
QUESTIONE: Quindi qual è la soluzione?
SECRETARIO RUBIO: Beh, è di questo che dovremo parlare. E penso che il Presidente sia stato abbastanza chiaro sul fatto che vuole amministrare di nuovo il canale. Ovviamente, i panamensi non sono grandi fan di questa idea.E ci sono molte altre aree su cui possiamo lavorare a stretto contatto con Panama. Voglio dire, il loro governo è generalmente pro-americano su una serie di fronti.Possiamo lavorare insieme su molte cose, e ci sono molte cose su cui possiamo lavorare con loro che sono molto positive per quanto riguarda la migrazione, e possono essere molto utili su tutti i tipi di cose.Ma questo non sostituisce in alcun modo la realtà fondamentale che il Canale di Panama, non possiamo permettere a nessuna potenza straniera – in particolare alla Cina – di avere quel tipo di controllo potenziale su di esso che hanno. Questo non può continuare.
QUESTIONE: Ma cosa potrebbero fare? Voglio dire, ci sono – queste aziende cinesi controllate o cinesi lungo il canale, sono molto grandi che potrebbero facilmente essere trasformate in strutture militari – devono sbarazzarsene? Devono – tipo, quali – quali sono i tipi di cose che potremmo chiedere che ci soddisferebbero?
SECRETARIO RUBIO: Le società con sede a Hong Kong che hanno il controllo dei punti di entrata e di uscita del canale sono del tutto inaccettabili. Questo non può continuare. A causa del – e se c’è un conflitto e la Cina dice loro, fate tutto il possibile per ostruire il canale in modo che gli Stati Uniti non possano impegnarsi nel commercio e negli scambi, in modo che la flotta militare e navale degli Stati Uniti non possa raggiungere l’Indo-Pacifico abbastanza velocemente, dovrebbero farlo. Dovrebbero farlo.Se la Cina dicesse di fare tutto il possibile per ostruire il canale, in modo che gli Stati Uniti non possano impegnarsi nel commercio e negli scambi, in modo che la flotta militare e navale degli Stati Uniti non possa raggiungere l’Indo-Pacifico abbastanza velocemente, lo farebbe. Dovrebbe farlo, e lo farebbe. E ora avremmo un grosso problema tra le mani. Questo è il numero uno.
Numero due, dobbiamo parlare del fatto che abbiamo costruito questa cosa. L’abbiamo pagata. Migliaia di persone sono morte per farlo – americani. E in qualche modo le nostre navi militari che passano di lì, e le navi americane che passano di lì, pagano tariffe in alcuni casi più alte di quelle che pagano altri Paesi – per esempio, una nave dalla Cina. Anche questo non è accettabile.Vi diranno che le tariffe sono stabilite da un’entità amministrativa indipendente e non dal governo; è un loro problema interno. Dovranno risolverlo. Ma non dovremmo trovarci nella posizione di dover pagare di più rispetto ad altri Paesi. In realtà, dovremmo ottenere uno sconto o forse essere gratuiti, perché abbiamo pagato per questo.
QUESTIONE: Anche in questo caso, come ha detto con la Colombia, c’è il rischio che se facciamo troppo i duri li trasciniamo tra le braccia dei cinesi?
SECRETARIO RUBIO: Beh, direi che il canale è già nelle braccia dei cinesi. Quindi, voglio dire, questo è un aspetto che direi. E non possiamo operare in questo modo.Non possiamo operare nel mondo dicendo: “Non possiamo difendere i nostri interessi nazionali, perché altrimenti questi Paesi si rivolgeranno alla Cina contro di noi”;
Quindi – ma detto questo, spero che non arriveremo a quel punto, giusto. Abbiamo un – su tanti argomenti, un ottimo rapporto di lavoro con Panama e con il suo governo, e voglio che continui. Ma abbiamo un interesse nazionale fondamentale che è in gioco, dovrebbero capirlo, e penso che lo capiranno, e deve essere affrontato. E lo faremo; lo faremo nella giusta sede.Non sono qui per – non siamo qui per mettere in imbarazzo nessuno o per causare attriti interni o problemi per loro. Ma posso assicurarvi che se fosse il contrario, e questo fosse un canale costruito dai cinesi, sarebbero molto energici al riguardo. Quindi non possiamo più operare nel mondo con due mani legate dietro la schiena.
QUESTIONE: La gente deve capire che Panama non è esattamente una questione di Panama; è una questione di cinesi, di cui lei ha parlato con insistenza per un po’, avvertendo che la gente potrebbe non rendersi conto di quanto sia grave la minaccia.E lei ha detto qualcosa – credo sia stato all’udienza di conferma – sul fatto che se la Cina ottiene ciò che vuole, tra circa 10 anni la vita potrebbe apparire molto diversa;
SECRETARIO RUBIO: Forse anche più velocemente
QUESTIONE: – per noi, per l’America.
SECRETARIO RUBIO: Sì. Quindi, voglio dire, oggi controllano – voglio dire, amiamo la nostra tecnologia e ne abbiamo bisogno per tutti i tipi di progressi. Tutto questo dipende da minerali critici, alla fine della giornata – che vanno alluminio, cobalto – si può dire.Sono andati in giro per il mondo a comprare i diritti minerari e controllano non solo l’estrazione, ma anche la raffinazione e la produzione e l’uso per scopi industriali. Forse ricorderete che durante il COVID tutti si sono spaventati perché non riuscivamo a procurarci le maschere perché erano tutte prodotte in Cina.E poi non riuscivamo a procurarci questo, perché era tutto fatto in Cina. Avevamo perso e dato via la nostra capacità industriale.L’80 per cento dei principi attivi dei farmaci generici negli Stati Uniti sono prodotti in Cina, non possiamo produrli;
Quindi, se decidessero di tagliarvi fuori da queste cose, si troverebbero in un mare di guai, perché abbiamo dato via la nostra capacità industriale su queste cose.Per la prima volta, hanno imposto controlli sulle esportazioni di minerali critici per danneggiare la nostra sicurezza nazionale, ma anche la nostra capacità tecnologica;
Quindi si tratta di argomenti diversi, ma alla fine se la Cina controlla i mezzi di produzione sia per le materie prime che per l’industria, allora siamo – hanno un’influenza totale su di noi dal punto di vista economico. E questo è il mondo verso cui siamo diretti. E mi sbagliavo; forse non tra 10 anni. Forse tra 5.
QUESTIONE: Quindi, voglio dire, è una situazione rischiosa. Trump – il Presidente Trump sa tutto questo.
SECRETARIO RUBIO: Sì.
QUESTIONE: Eppure uno dei principali leader cinesi ha partecipato al suo insediamento. Capisce che c’è – deve essere giocato con molta attenzione. Non vogliamo fare di loro un nemico aperto, da guerra calda. Ma siamo stati passivi per troppo tempo.
SECRETARIO RUBIO: Sì. Prima di tutto, una delle cose interessanti del Presidente Trump è che è incredibilmente accessibile.La gente non ci crede, ma voglio dire, se sei un membro del Congresso, anche se non sei un leader, e chiami il Presidente degli Stati Uniti, è probabile che ti richiami, e che ti richiami lui, e potresti essere richiamato il giorno stesso, forse entro un’ora o due.È incredibilmente accessibile, sia agli americani che ai leader stranieri. La sua politica in generale è stata: “Incontrerò qualsiasi leader mondiale, mi impegnerò con qualsiasi leader mondiale”;
Nel caso della Cina, ci sono due cose: una l’ho appena descritta, ovvero la grave minaccia che rappresenta per i nostri interessi nazionali; l’altra è la matura consapevolezza che, qualunque cosa accada, la Cina diventerà un Paese ricco e potente e che dovremo farci i conti.In effetti – e l’ho detto durante la telefonata con il loro ministro degli Esteri, ma l’ho detto anche pubblicamente – il futuro – la storia del XXI secolo sarà in gran parte incentrata su ciò che è accaduto tra gli Stati Uniti e la Cina. Quindi, fingere che in qualche modo non ci impegneremo con loro è assurdo.
Ora, dovremmo impegnarci per i nostri interessi nazionali. Non è così: impegno e concessioni sono due cose diverse. Ciò che è stato orribile è che per 25 o 30 anni abbiamo trattato la Cina come un Paese in via di sviluppo e abbiamo permesso loro di continuare a fare cose ingiuste.Abbiamo detto: fate pure, lasciateli imbrogliare sul commercio, lasciate che rubino la nostra tecnologia, perché quando diventeranno ricchi diventeranno proprio come noi. Sono diventati ricchi, non sono diventati come noi, e ora vogliono continuare ad avere questi vantaggi ingiusti. Questo deve finire.
QUESTIONE: E hanno costruito il loro esercito.
SECRETARIO RUBIO: Il loro esercito, la loro capacità industriale, ma in tutto il mondo il loro controllo dei minerali critici. Ancora una volta, torno a loro perché la gente non ci pensa.
QUESTIONE: Acquistare terreni negli Stati Uniti.
SECRETARIO RUBIO: Acquistano terreni agricoli in particolare negli Stati Uniti, perché hanno bisogno di produrre cibo e vogliono essere in grado di controllarlo. Lo fanno perché è nel loro interesse nazionale.Stanno facendo, francamente, quello che farei io – beh, forse non le violazioni dei diritti umani, ma stanno facendo quello che farebbe chiunque se fosse il leader della Cina. Stanno agendo nell’interesse della Cina. Quello che è mancato sono le politiche americane che agiscono nel nostro interesse. E questo deve tornare.
QUESTIONE: Come si inserisce la Groenlandia in tutto questo?
SECRETARIO RUBIO: Beh, l’Artico, che ha ricevuto pochissima attenzione, ma il Circolo Polare Artico e la regione artica diventeranno fondamentali per le rotte di navigazione, per il modo in cui si ottiene parte dell’energia che sarà prodotta sotto il Presidente Trump – queste energie si basano sulle rotte di navigazione.L’Artico ha alcune delle rotte marittime più preziose al mondo; con lo scioglimento dei ghiacci, le rotte sono sempre più navigabili e dobbiamo essere in grado di difenderle;
Quindi, se si proietta ciò che hanno fatto i cinesi, è solo una questione di tempo prima che – poiché non sono una potenza artica – abbiano una presenza nell’Artico, quindi devono essere in grado di avere un posto da cui poter fare una tappa.Ed è del tutto realistico credere che i cinesi alla fine – forse anche a breve termine – cercheranno di fare in Groenlandia quello che hanno fatto al Canale di Panama e in altri luoghi, cioè installare strutture che diano loro accesso all’Artico con la copertura di una società cinese, ma che in realtà servano a un duplice scopo: in un momento di conflitto, potrebbero inviare navi militari a quella struttura e operare da lì.E questo è assolutamente inaccettabile per la sicurezza nazionale del mondo e per la sicurezza degli Stati Uniti;
Quindi la domanda diventa: Se i cinesi iniziano a minacciare la Groenlandia, ci fidiamo davvero che non sia un luogo in cui si faranno questi accordi? Ci fidiamo davvero che non sia un luogo in cui non interverranno, magari con la forza?
QUESTIONE: Non crede che la Danimarca li fermerebbe?
SECRETARIO RUBIO: Penso che questo sia stato il punto del Presidente, e cioè che la Danimarca non può fermarli; si affiderebbero agli Stati Uniti per farlo. E quindi il suo punto è che gli Stati Uniti sono in grado di fornire – come lo siamo ora; abbiamo un accordo di difesa con loro – per proteggere la Groenlandia se viene attaccata.Se siamo già in ballo per doverlo fare, allora perché – potremmo anche avere un maggiore controllo su ciò che accade lì. E quindi so che è un argomento delicato per la Danimarca, ma è, ancora una volta, un elemento di interesse nazionale per gli Stati Uniti.
QUESTIONE: C’è stata una teleconferenza tra il presidente Trump e il primo ministro danese. A quanto pare non è andata molto bene; si dice che abbia comportato una sorta di crollo da parte del primo ministro.Non vogliono rinunciarvi. Quindi cosa ci lascia questo? Perché il Presidente Trump non ha escluso un uso economico o potenzialmente militare.
SECRETARIO RUBIO: Beh, penso che il Presidente Trump – quello che ha detto pubblicamente è che vuole comprarlo. Vuole pagarlo.E il modo in cui lavoriamo su una cosa del genere, il modo in cui una cosa del genere viene affrontata – ovviamente, è probabilmente fatto meglio nelle sedi appropriate, come – un sacco di cose sono fatte pubblicamente e non è utile perché mette l’altra parte in una posizione difficile a livello nazionale.
Quindi quelle conversazioni avverranno, ma non è uno scherzo. Quello che sta dicendo è abbastanza – voglio dire, la gente ne parla da anni. Abbiamo – non si tratta di acquisire terra allo scopo di acquisire terra. Questo è nel nostro interesse nazionale, e deve essere risolto. Il Presidente Trump ha messo fuori quello che intende fare, che è quello di acquistare.Non ero al corrente della telefonata, ma immagino che sia andata come molte di queste telefonate, e cioè che abbia parlato senza mezzi termini e con franchezza con le persone;
QUESTIONE: Quindi, quando il Presidente Trump ha detto che potrebbe usare la coercizione economica o militare, cosa significa? Cos’è la coercizione militare?
SECRETARIO RUBIO: Beh, non ricordo che abbia detto coercizione militare.
QUESTIONE: L’ha fatto.
SECRETARIO RUBIO: Credo che gli sia stato chiesto cosa – escluderebbe –
QUESTIONE: Lo escluderebbe?
SECRETARIO RUBIO: Esatto. Non credo che sia nel – lui – senta, anche lui porta a questo –
QUESTIONE: Ha detto, no, non lo escludo.
SECRETARIO RUBIO: Perché lui porta a questo – questo è un uomo d’affari che è coinvolto nella politica, non un politico coinvolto nella politica. Quindi si avvicina a queste questioni da un punto di vista commerciale transazionale. Quindi non ha intenzione di iniziare quello che vede come un negoziato o una conversazione prendendo –
QUESTIONE: Qualsiasi cosa fuori dal tavolo.
SECRETARIO RUBIO: – leva fuori dal tavolo.
QUESTIONE: Ok.
SECRETARIO RUBIO: Ed è una tattica che si usa sempre negli affari. Si sta applicando alla politica estera, e credo con grande effetto nel primo mandato.Se si guarda agli Accordi di Abramo – e i Democratici hanno deriso gli Accordi di Abramo quando sono stati stipulati, e poi alla fine dell’amministrazione Biden sono diventati il perno di molto di ciò che speriamo di costruire. Non sarebbe mai successo se non ci fosse stato un approccio transazionale.Se si guarda a ciò che ha ottenuto il suo inviato in Medio Oriente, Steve Witkoff, l’amministrazione Biden ha chiesto a Witkoff di essere coinvolto in queste conversazioni. Ha portato un approccio da uomo d’affari a una sfida di politica estera molto delicata e intrattabile, e ha ottenuto un cessate il fuoco che ovviamente è tenue e ha sfide a lungo termine, ma ci sono ostaggi che vengono rilasciati ogni giorno.Questo non è successo per più di un anno e mezzo fino a quando non è stato coinvolto, e questo è l’inviato del Presidente e un amico molto stretto che ha portato lo stesso tipo di approccio commerciale ad alcune di queste sfide.
QUESTIONE: Quindi guardiamo avanti di quattro anni: Gli Stati Uniti possiedono la Groenlandia?
SECRETARIO RUBIO: Vedremo. Voglio dire, ovviamente, questa è la priorità del Presidente, e lui ha fatto questo punto. Penso che – quello che posso dirle sui quattro anni senza entrare nello specifico, perché non – non sono – non siamo ancora in una posizione per discutere esattamente come procederemo tatticamente.Quello che penso possiate essere certi è che tra quattro anni i nostri interessi nell’Artico saranno più sicuri, i nostri interessi nel Canale di Panama saranno più sicuri, i nostri partenariati nell’emisfero occidentale saranno più forti, saranno più forti;
Quello che dovete capire è che molti di questi Paesi dell’America Centrale non sono luoghi di destinazione, ma sono Paesi da cui passano i migranti e attraverso cui passano le organizzazioni di trafficanti di esseri umani.Sarebbero lieti di essere aiutati a fermare questo corridoio migratorio, perché sta destabilizzando i loro Paesi. Quindi penso che avremo un Emisfero Occidentale più sicuro e i nostri interessi nazionali in tutte le parti del mondo – questo è l’obiettivo – saranno più sicuri, dall’Artico, all’America Centrale, fino all’Africa e certamente all’Indo-Pacifico.
QUESTIONE: Abbiamo parlato della Colombia. Fa parte dello sforzo del Presidente Trump di rafforzare i nostri confini e di sbarazzarsi degli stranieri illegali che sono arrivati sotto Joe Biden. Parte di questo includerà, sì, il Canada – ha detto anche questo – ma anche ovviamente il Messico.E il Presidente Trump minaccia di imporre tariffe a entrambi se non si metteranno in riga e non inizieranno a fare alcune delle cose che vogliamo che facciano già questo sabato;
SECRETARIO RUBIO: Abbiamo avuto colloqui con funzionari del governo messicano e ieri ho incontrato il ministro degli Esteri del Canada.Penso che ci siano due argomenti, che devono essere separati, ma che sono interconnessi – il primo è la migrazione, in particolare con il Messico. Ci sono parti del Messico – molte parti del Messico – in cui il governo non controlla quelle aree. Sono controllate dai cartelli della droga.Sono la forza più potente sul campo e stanno penetrando negli Stati Uniti. Stanno facilitando l’immigrazione clandestina, ma stanno anche portando nel nostro Paese fentanyl e droghe letali.È una minaccia per la sicurezza nazionale e deve finire. Quindi ci aspettiamo la loro collaborazione su questo punto, perché è giusto che sia così. Se fosse il contrario, si aspetterebbero anche questo;
In secondo luogo, il Presidente ritiene che ci sia uno squilibrio commerciale e un’iniquità con il Messico su una serie di prodotti, compresi quelli agricoli, che vengono scaricati sui nostri mercati, ma anche con i cinesi; i cinesi stanno creando queste società di facciata, investendo nella produzione messicana e poi facendo backdooring, utilizzando l’USMCA, l’accordo di libero scambio, per far entrare i prodotti cinesi in America.Quindi, quando il Presidente parla di tariffe, lo fa su due fronti: come leva e punto di pressione per la cooperazione in materia di migrazione, ma a parte questo, è anche legato all’iniquità delle nostre relazioni commerciali;
Con i canadesi, ovviamente, il confine è uno dei più grandi – se non il più grande – confine terrestre del mondo. Condividiamo un interesse comune. Penso che nemmeno loro vogliano vedere il loro Paese pieno di fentanyl. Penso che – se fossi in loro, sarei preoccupato che con il giro di vite sull’immigrazione clandestina negli Stati Uniti, la gente fugga a nord verso il Canada.E poi c’è un più ampio squilibrio commerciale con loro che il Presidente vuole affrontare.Ed è per questo che queste conversazioni sono importanti.Non si tratta di mosse ostili;
QUESTIONE: Queste tariffe entreranno in vigore sabato?
SECRETARIO RUBIO: Beh, vedremo. Voglio dire, è una decisione che spetta al Presidente. E noi saremo pronti ad affrontarla da una prospettiva di politica estera.Qualunque sia la sua decisione in merito, è una decisione che spetta a lui. Sia che la prenda questo fine settimana, sia che la prenda tra una settimana o tra un mese, è chiaro che vuole affrontare il problema dell’immigrazione illegale, ma anche i nostri interessi economici;
QUESTIONE: Chi ha più probabilità di diventare il 51° Stato? Il Canada o la Groenlandia?
SECRETARIO RUBIO: Beh, ancora una volta – (risate) – guarda, penso che siamo molto lontani da quel punto. Penso che il Presidente abbia espresso molto chiaramente il suo punto di vista su questo, e cioè che i nostri interessi in Groenlandia sono in pericolo e che questo deve essere affrontato, e lui è disposto a comprarlo.E i nostri interessi con il Canada in particolare – credo che se si torna indietro – e credo che l’abbia detto pubblicamente – abbia avuto una conversazione con Trudeau, e ha chiesto a Trudeau, beh, cosa succederebbe se imponessi queste tariffe a voi?E lui ha risposto: “Beh, saremmo finiti come Paese”. E il suo punto di vista è: “Beh, se l’unico modo per sopravvivere come Paese è avere uno squilibrio commerciale con gli Stati Uniti, allora forse dovreste diventare uno Stato”;
QUESTIONE: Giusto.
SECRETARIO RUBIO: E questa è stata la genesi di quella conversazione. Quindi abbiamo delle questioni da affrontare con il Canada. Sono buoni amici. Voglio dire, lavoriamo con loro su molte cose. Abbiamo una profonda partnership con loro, e – ma ci sono alcune questioni che dobbiamo affrontare.
QUESTIONE: Ma quali sono i rischi per noi? Perché il premier dell’Ontario ha detto che non possiamo portare il coltello in uno scontro a fuoco.Se ci faranno questo con queste tariffe, dovremo reagire allo stesso modo. Forniamo loro un sacco di elettricità; spegniamola. Quindi il Canada può spegnere le nostre luci?
SECRETARIO RUBIO: Beh, allora a chi la venderebbero? Dove altro manderebbero quell’elettricità? Voglio dire, danneggerebbe anche loro. Non avrebbero un mercato a cui venderla. E direi anche che gli Stati Uniti – e che – guardi, è una – non credo che il Canada sia una minaccia strategica per gli Stati Uniti.Non li sto paragonando alla Cina o altro, ma mi viene in mente il punto dell’indipendenza energetica e di quanto sia fondamentale. Non vogliamo trovarci in una situazione – lei ha parlato del Canada. Immagini se in futuro l’argomentazione non sarà che il Canada minaccia questo; beh, chi minaccia questo è la Cina, chi minaccia questo è la Russia.
Voglio dire, uno dei grandi errori che sono stati commessi è stato quello di disarmare unilateralmente quando si tratta di produzione di energia, non utilizzando appieno le nostre risorse energetiche in questo paese – altri paesi non hanno seguito la stessa linea. Essi – per esempio, la Cina oggi ha la più grande capacità di non utilizzare – sono in grado di elaborare più petrolio di qualsiasi paese al mondo in questo momento. Hanno – e costruiscono più impianti di carbone di chiunque altro al mondo in questo momento.Parlano di energia verde, di batterie e di automobili, ma stanno usando una strategia “all-of-the-above” per l’energia; abbiamo disarmato unilateralmente l’energia; tutto ciò che hanno fatto è continuare ad aumentare le loro capacità energetiche, perché sanno che c’è bisogno di energia per alimentare tutto questo.L’IA da sola richiederà una quantità straordinaria di energia che il mondo in questo momento non è in grado di produrre per alimentarla. Qualunque Paese abbia risorse energetiche efficienti dal punto di vista dei costi dominerà l’IA, che dominerà molti, molti settori.
Quindi penso che, in fin dei conti, quando si parla di Canada, ci si ricordi perché l’energia è una questione di sicurezza nazionale e perché gli Stati Uniti devono essere in grado di avere una fonte affidabile e costante di energia, altrimenti siamo in un mare di guai. I nostri aerei non voleranno, le nostre navi non saranno in grado di navigare e la nostra economia non funzionerà senza energia.
QUESTIONE: Una delle questioni che è diventata spinosa all’interno del Partito Repubblicano è la NATO. Abbiamo parlato molto di questi altri Paesi che fanno la loro parte e fanno la loro parte, e questo è il motivo per cui la NATO è diventata controversa. Perché ci sono molte persone che credono – per cosa lo stiamo facendo?E gli Stati Uniti tendono ad essere l’attore dominante. Gli europei possono sostenersi da soli, non hanno bisogno che gli Stati Uniti siano la grande babysitter del mondo. E questo crea più opportunità per noi di essere coinvolti in conflitti stranieri in cui non dovremmo essere coinvolti;
SECRETARIO RUBIO: Io dico – beh, la posizione del Presidente sulla NATO è la stessa che hanno avuto tutti gli altri presidenti, e cioè che i nostri alleati, molti dei nostri alleati nella NATO, non fanno abbastanza per provvedere alla propria sicurezza. Tutti gli altri presidenti hanno fatto la stessa lamentela; lui è solo stato serio al riguardo, ed è questo che sta indicando.E guardate, è interessante – e in tutta onestà, Polonia, Lituania, Estonia, più si è vicini alla Russia e più spendono in percentuale del PIL per la difesa nazionale. Ma poi ci sono Paesi come la Francia, ok, o Paesi come la Germania.Sono grandi economie, economie potenti, e non spendono altrettanto per la sicurezza nazionale. Ora, loro – perché? Perché fanno affidamento sulla NATO. Dicono, beh, non abbiamo bisogno di spendere così tanto per –
QUESTIONE: Noi.
SECRETARIO RUBIO: Sì. Non abbiamo bisogno di spendere tanto per la difesa perché l’America ha soldati qui, e se vengono attaccati, saranno la nostra difesa nazionale. Così possiamo invece spendere tutti quei soldi per questa enorme rete di sicurezza sociale.Quando si chiede a questi Paesi perché non potete spendere di più per la sicurezza nazionale, l’argomentazione è che dovremmo tagliare i programmi di welfare, i sussidi di disoccupazione, la possibilità di andare in pensione a 59 anni e tutte queste altre cose;
Quindi penso che se dovessi – se dovessi articolare il punto del Presidente sulla NATO, è il numero uno, devono fare di più. E penso che, a lungo termine, ci sia una conversazione da fare se gli Stati Uniti devono essere in prima linea per la sicurezza del continente o come backstop per la sicurezza del continente.E se si parla con i Paesi della periferia orientale, quelli più vicini alla Russia, tutti stanno costruendo la capacità di essere in prima linea – i polacchi, i cechi, tutti questi luoghi diversi.E se ci si sposta più a ovest, verso le economie più ricche – Germania, Francia – non spendono – Spagna – abbastanza per la sicurezza nazionale. Si affidano a noi per essere il front-stop. E questa non è un’alleanza. È una dipendenza, e noi non la vogliamo.
Vogliamo la NATO – vogliamo una NATO in cui abbiamo alleati forti e capaci. La Finlandia è un alleato molto capace. Producono armi. Sono – portano qualcosa al tavolo. Abbiamo bisogno di più Paesi come questo, che si comportino in questo modo nell’Alleanza.E allora sarà un’Alleanza più forte, e sarà in grado di lavorare in modo cooperativo non solo in Europa, ma anche in altre sfide che dobbiamo affrontare in tutto il mondo, auspicabilmente anche nell’Indo-Pacifico, potenzialmente.
QUESTIONE: L’Ucraina è un’altra questione che ha diviso il partito.
SECRETARIO RUBIO: Sì.
QUESTIONE: Ci sono molti – ora mi limito ai repubblicani, perché c’è tutto un altro dibattito con l’altra parte del corridoio – che dicono che no, Putin è un cattivo attore; la Russia è una minaccia crescente, e stiamo facendo la cosa giusta sostenendo l’Ucraina. E direi che la maggioranza dei repubblicani ora è contro questo punto di vista e pensa che abbiamo perso – abbiamo speso troppo.Si parla di una cifra che va dai 105 ai 187 miliardi di euro e loro hanno perso. Dobbiamo essere realistici sul fatto che l’Ucraina ha perso e non recupererà nulla di questo terreno.E abbiamo bisogno di un accordo negoziato prima di continuare a buttare soldi buoni su soldi cattivi, e non possiamo permettercelo. Abbiamo degli americani che stanno soffrendo ora;
SECRETARIO RUBIO: Si dà il caso che sia anche la realtà sul campo. Innanzitutto, lasciatemi dire questo. Pensiamo che ciò che Putin ha fatto sia stato terribile: invadere un Paese, le atrocità che ha commesso. Ha fatto cose orribili.Ma la disonestà che c’è stata è che in qualche modo abbiamo indotto la gente a credere che l’Ucraina sarebbe stata in grado non solo di sconfiggere la Russia, ma di distruggerla, di riportarla a quello che era il mondo nel 2012 o nel 2014, prima che i russi prendessero la Crimea e simili.E poi il risultato, quello che hanno chiesto nell’ultimo anno e mezzo, è stato quello di finanziare uno stallo, uno stallo prolungato, in cui la sofferenza umana continua. Nel frattempo l’Ucraina è tornata indietro di 100 anni; la sua rete energetica è stata spazzata via.E quanti ucraini hanno lasciato l’Ucraina e vivono ora in altri Paesi? Potrebbero non tornare mai più;
Il punto di vista del Presidente è che si tratta di un conflitto prolungato e che deve finire. Ora, deve finire attraverso un negoziato. In qualsiasi negoziato, entrambe le parti dovranno rinunciare a qualcosa. Non ho intenzione di pre-negoziare questo. Voglio dire, questo sarà il lavoro di una dura diplomazia, che è quello che abbiamo fatto nel mondo in passato, e siamo stati realistici al riguardo.Ma entrambe le parti in un negoziato devono dare qualcosa. E ci vorrà tempo, ma almeno abbiamo un Presidente che riconosce che il nostro obiettivo è che questo conflitto deve finire, e deve finire in un modo che sia duraturo, perché è un conflitto insostenibile – da tutte le parti, è in definitiva insostenibile. La Russia sta pagando un grosso prezzo per questo nella sua economia, nel suo tasso di inflazione e simili.
Ma alla fine, questa è la posizione del Presidente, ed è la verità. E penso che anche un numero crescente di Democratici riconoscerebbe ora che ciò che abbiamo finanziato è una situazione di stallo, un conflitto prolungato, e forse anche peggio di una situazione di stallo, in cui l’Ucraina viene progressivamente distrutta e perde sempre più territorio. Quindi questo conflitto deve finire ed entrambe le parti –
QUESTIONE: Chi è il più grande – chi è il più grande problema nel raggiungere un accordo negoziale finale, giusto? È Putin o è Zelenskyy? C’è un rapporto che dice che gli ucraini contano solo sul fatto che Putin si impunti e diventi fastidioso per il Presidente Trump su questo, perché non cederà di un centimetro.E sperano che il Presidente Trump torni indietro, più vicino alla loro visione del mondo su Putin, sulla Russia e su questo conflitto;
SECRETARIO RUBIO: Beh, penso che ci sia il pubblico e poi c’è il privato, giusto? Quindi, in quello che si vede ritratto pubblicamente nelle conversazioni e in quello che dicono i leader, molto è parlare – hanno politica interna e considerazioni politiche.Persino Vladimir Putin, che controlla i media, deve ancora preoccuparsi dell’opinione pubblica russa, della sua immagine e di come la sua intera personalità sia costruita intorno a questo;
QUESTIONE: Secondo lei, perché si fa fotografare a torso nudo?
SECRETARIO RUBIO: Non le fa più. Credo sia passato un po’ di tempo. (Risate.)
QUESTIONE: Gliel’ho chiesto. Gli ho chiesto: “Perché lo fai?” quando l’ho intervistato. E lui mi ha risposto: “Do alla gente quello che vuole.”
SECRETARIO RUBIO: No. (Risate.) Beh, il punto è che lui ha le sue considerazioni interne. E anche Zelenskyy, giusto?Voglio dire, alla fine della giornata ha… se sei un ucraino, i russi ti hanno fatto soffrire così tanto, e ora lascerai che si tengano la terra?E poi ci sono le realtà mature della vita su questo pianeta, ed è qui che questo lavoro dovrà essere definito.
Entrambe le parti stanno pagando un prezzo pesante per questo. Entrambe le parti sono incentivate a porre fine a questo conflitto. Entrambe le parti si trovano in una situazione che non finirà con gli obiettivi massimalisti di nessuna delle due parti, e ci sarà bisogno di un duro lavoro.E credo che solo gli Stati Uniti, sotto la guida del Presidente Trump, possano renderlo possibile. Ma non sarà facile, e ci vorrà un po’ di tempo. Ma è certamente qualcosa che so che è fortemente impegnato a essere – a vedere realizzato.
QUESTIONE: E poi c’è ancora Israele e la restituzione degli ostaggi – che includono ancora degli americani.
SECRETARIO RUBIO: Giusto.
QUESTIONE: Si suppone che riavremo tre americani nella prima – la prima tranche, la prima fase di questo accordo sugli ostaggi. Crede che lo faremo? E cosa faremo se non lo faremo?
SECRETARIO RUBIO: Beh, mi aspetto che lo faremo, perché questo è l’accordo che è stato fatto.E – ma il problema centrale rimane, e cioè, in ultima analisi, finché ci sarà un’entità come Hamas che insegna – il cui scopo esplicito è la distruzione dello Stato ebraico, che è disposta a commettere atrocità orribili contro i civili, contro le ragazze adolescenti a un concerto, e a fare le cose che hanno fatto, e a prendere in ostaggio per un anno e mezzo, bambini e anziani, e a uccidere, e tutte le cose che hanno fatto – questa è una minaccia alla sicurezza nazionale di Israele.Quale Paese al mondo può aspettarsi di vivere a fianco di un nemico armato, capace e disposto a commettere atrocità orribili?
QUESTIONE: Sì, è terribile.
SECRETARIO RUBIO: Quindi penso che il cessate il fuoco sia importante, perché ha posto fine ad alcune distruzioni, e certamente ha permesso di liberare gli ostaggi – ad un costo straordinario.Stiamo parlando di un rapporto di uno a uno: si ottiene un ostaggio adolescente in cambio di 250 assassini, assassini di Hamas, che vengono rilasciati dalla prigione. Pensate quindi a quanto sia ingiusto questo scambio, ma questo vi dice quanto noi diamo valore alla vita rispetto a come la vede l’altra parte, gli animali di Hamas.
Ora, detto questo, la vera sfida sarà cosa succederà quando il periodo di cessate il fuoco scadrà: chi governerà Gaza? Chi ricostruirà Gaza? Chi sarà a capo di Gaza? Perché se le persone che sono a capo di Gaza sono le stesse che hanno creato il 7 ottobre, allora abbiamo ancora lo stesso problema lì.
QUESTIONE: Il passato è prologo.
SECRETARIO RUBIO: Lo è. E così ora, la buona notizia nella regione è che in Libano abbiamo un governo che si spera diventi più potente di Hizballah, nel governo libanese, e c’è un cessate il fuoco che è stato esteso lì che alla fine porterà a questo.In Siria, un gruppo ha preso il controllo. Non si tratta di persone che passerebbero necessariamente un controllo dell’FBI, di per sé. Ma se c’è un –
QUESTIONE: No. Non verrebbe a cena domenica.
SECRETARIO RUBIO: Ma se c’è un’opportunità in Siria – se c’è un’opportunità in Siria di creare un luogo più stabile di quello che abbiamo avuto storicamente, specialmente sotto Assad, dove l’Iran e la Russia dominavano e dove l’ISIS operava con impunità, dobbiamo perseguire quell’opportunità e vedere dove porta.
E se si ha una regione in cui la Siria è più stabile, un Libano più stabile, in cui Hizballah non è in grado di fare le cose che fa per conto dell’Iran, un Iran indebolito che ora ha perso tutti questi proxy, si apre la porta a cose come un accordo tra l’Arabia Saudita e Israele, che cambierebbe la dinamica della regione, e quindi in ultima analisi non renderebbe facile, ma più facile risolvere alcune delle sfide che abbiamo di fronte con la questione palestinese e in particolare con la questione di Gaza;
Quindi c’è molto lavoro da fare lì. Niente è certo. Tutto è difficile. Ma ci sono opportunità reali che non avremmo potuto nemmeno immaginare 90 giorni fa.
(Pausa.)
QUESTIONE: A livello nazionale, Trump ha tolto la sicurezza a Mike Pompeo, che era il suo Segretario di Stato. E mi chiedo se questo – quale sia stata la sua reazione a questo, perché i suoi difensori dicono che è un oltraggio e che ora è esposto.
SECRETARIO RUBIO: Beh, questo è – guardi, il Presidente ha – il Presidente ha l’autorità di prendere queste decisioni e di eseguire questi ordini. Posso dirle che sono tutti – sono stati eseguiti attraverso il processo che esiste per valutare la minaccia rispetto al costo. Quel processo è stato eseguito. C’era accordo che questo era qualcosa che poteva essere fatto.Non ho mai preso alla leggera – e se le circostanze cambiano ed emergono nuove minacce o ulteriori minacce, questa sarà sempre un’opzione da affrontare. Ma io – se si guarda ad alcune di esse, non è nemmeno sostenibile. Voglio dire, teoricamente se l’Iran decidesse – o si venisse a sapere che l’Iran vuole continuare a uccidere le persone, dovremmo fornire a tutti una scorta di sicurezza.
Quindi c’è un equilibrio. Non vogliamo che venga fatto del male a nessun americano, ma le decisioni su chi fornire la sicurezza devono essere basate su una valutazione del rischio. E queste valutazioni del rischio sono state fatte, e hanno portato a questo risultato e a questa conclusione.
QUESTIONE: Per quanto riguarda la valutazione del rischio, abbiamo ritirato gli aiuti esteri degli Stati Uniti – abbiamo messo in pausa gli aiuti esteri degli Stati Uniti con eccezioni umanitarie, e poi c’è stata una serie di reazioni negative sul fatto che questo stava bloccando i farmaci critici e altri aiuti umanitari che venivano forniti ai nostri alleati del terzo mondo.Ora abbiamo allentato di nuovo il rubinetto. Quindi la critica è che ci siamo spinti troppo in là con gli sci tirando troppo e troppo presto, e lei – risposta direbbe cosa?
SECRETARIO RUBIO: No, questo – voglio dire, non abbiamo emesso un ritiro. Abbiamo emesso un chiarimento. Abbiamo sempre detto fin dall’inizio, con l’eccezione di Israele e dell’Egitto – perché l’assistenza alla sicurezza è una pietra miliare degli accordi di Camp David e degli accordi che sono stati fatti lì e sono fondamentali per quella regione.Con l’eccezione di questo, abbiamo detto che tutti gli aiuti esteri sono sospesi per 90 giorni, tranne che per le cose che salvano vite umane, e ciò che è stato menzionato nell’ordine esecutivo sono cose come cibo e simili.Siamo tornati indietro e la gente ha detto: “Beh, gente, abbiamo medicine che abbiamo pagato e che sono state distribuite e che sono sedute su uno scaffale da qualche parte, e non siamo autorizzati a darle alla gente”. Così ho detto: “Va bene, non ha senso per noi – abbiamo già pagato per le medicine – non distribuirle e darle alla gente”. Non vogliamo vedere la gente morire e cose simili.
Ma questo – penso che sia importante parlare dello scopo di questa pausa, ok? Se andassi da questi paesi stranieri – 60 miliardi di dollari all’anno – se andassi da loro e dicessi, ok, mostratemi i vostri programmi di aiuto all’estero e cosa fanno, storicamente abbiamo ottenuto pochissima cooperazione. Ma se andassi da loro e dicessi, ok, i vostri soldi sono fermi finché non ci dite cosa fate, ora otterreste molta più cooperazione.
Quindi ora esiste un processo, che consiste nel richiedere una deroga. E tutti sanno come richiedere una deroga. Sanno come farsi avanti e dire: questo è ciò che fa il nostro programma e questo è il motivo per cui è importante; questo è il motivo per cui rende l’America più sicura, più forte o più prospera; questo è il motivo per cui è nel nostro interesse nazionale.
Ora otterremo i dettagli di questi programmi. E potremmo dire, ok, il programma ottiene una deroga. O potremmo dire, bene, il programma ottiene una deroga parziale. Si fanno cinque cose; tre di esse sono critiche, due rimangono in pausa.Questo è ciò che ci dà l’opportunità di fare ora, pensandolo quasi come un audit, ma non un audit in cui stiamo chiedendo volontariamente la cooperazione;
E quindi penso che con il passare delle settimane vedrete sempre più programmi tornare online, perché abbiamo avuto la possibilità di rivedere ciò che sono effettivamente. Alcuni saranno parziali, altri saranno completi. Ma dobbiamo avere il controllo di questo.
Abbiamo questa cosa che ho chiamato il complesso industriale degli aiuti esteri: tutte queste entità nel mondo che ricevono milioni e milioni di dollari dagli Stati Uniti. Dobbiamo assicurarci che sia allineato con il nostro interesse nazionale, che stiamo dando priorità e che lo stiamo spendendo per cose che contano davvero e che producono davvero.
QUESTIONE: Come se non volessimo 50 milioni in preservativi per i palestinesi?
SECRETARIO RUBIO: È –
QUESTIONE: Negano che sia vero. La prima – l’amministrazione Biden lo nega.
SECRETARIO RUBIO: Beh, ma… ok, ma parte di esso era… possono negare il numero, ma non possono negare che ci sono cose che stavamo facendo a Gaza che non avevano nulla a che fare con la salvezza di vite umane nel breve termine o addirittura con l’aiuto per un cessate il fuoco.
Ecco il punto più ampio. E non conosco i dati – sto arrotondando i numeri. Ma per quanto riguarda l’USAID, circa l’11, meno del 12% – siamo onesti, diciamo il 12,5% di ogni dollaro – quindi 12 centesimi di ogni dollaro alla fine hanno raggiunto il destinatario finale. Ciò significa che il resto del denaro è andato a finanziare qualche ONG da qualche parte, qualche organizzazione. Forse c’è una giustificazione per questo.Ma prima di presentarmi davanti a una commissione del Congresso o al popolo americano e dire che abbiamo inviato un dollaro per aiutare questa causa, ma solo 12 centesimi sono arrivati davvero alle persone che stiamo cercando di aiutare; il resto è finito nelle mani di un’organizzazione – come lo giustifichiamo?
QUESTIONE: Così otteniamo la responsabilità.
SECRETARIO RUBIO: E alla fine i nostri aiuti all’estero devono essere uno strumento che usiamo per promuovere l’interesse nazionale. Il governo degli Stati Uniti non è un ente di beneficenza. Spende denaro per conto del nostro interesse nazionale.Ci sono molte grandi cause nel mondo, e il settore privato può raccogliere tutti i fondi che vuole per queste cause; noi – i contribuenti – investiremo nelle cose che promuovono il nostro interesse nazionale, e questo è il processo che stiamo attraversando in questo momento, e la pausa ha contribuito ad accelerarlo;
QUESTIONE: Sto per concludere, ma vorrei chiederle solo un altro paio di cose. Numero uno, otto anni fa lei ed io eravamo uno di fronte all’altro sul palco di un dibattito. Donald Trump era al centro del palco, e ci stava insultando entrambi. (Risate.)
SECRETARIO RUBIO: Sì.
QUESTIONE: E le cose sono davvero cambiate in otto anni.
SECRETARIO RUBIO: Sì. Voglio dire, prima –
QUESTIONE: Può parlarci di questa evoluzione per lei?
SECRETARIO RUBIO: Sì. Cioè, io amo le arti marziali miste e il pugilato, giusto? Vedo la gente salire sul ring e non ho mai – no, non ho mai sentito nessuno chiedere a un pugile: perché gli hai dato un pugno in faccia al terzo round?E il pugile rispondeva: “Beh, perché era un incontro di pugilato”. E così, le campagne elettorali sono un ambiente competitivo, e Trump – il Presidente Trump è un duro, e quindi queste cose sarebbero diventate dure e tumultuose;
Ma c’è un’altra differenza: Non conoscevo Donald Trump quando si è candidato alla presidenza. Cioè, sapevo chi era, ma non lo conoscevo come persona. Poi è diventato presidente. Ero al Senato.Sono stati i quattro anni migliori che abbia mai trascorso al Senato, perché abbiamo ottenuto molti risultati lavorando con lui; ho avuto modo di lavorare intorno a lui; ho avuto modo di conoscerlo come persona, non come la caricatura in televisione, ma come persona, sul modo in cui lavora, sul modo in cui prende le decisioni.Impari anche stando vicino a una persona come lui, le cose che fa a livello interpersonale con le persone, gli atti di gentilezza che non saranno mai riportati, le cose che fa per le persone che non sentirete mai, ma che lui – ho solo – e col tempo c’è una grande differenza tra il modo in cui conosci una persona e quando non la conosci.
E vorrei anche dire questo: Ho lavorato al Senato. Novantanove dei miei – beh, 98 dei miei colleghi perché ho votato per me stesso. Novantotto dei miei colleghi – sono persone con cui sono in forte disaccordo.Sono persone che hanno accusato coloro che detengono alcune delle mie posizioni politiche di essere tra i peggiori esseri umani del pianeta. Eppure, a livello personale, ho dovuto trovare un modo per lavorare con loro e andare d’accordo con loro, e sono nell’altro partito.
Quindi non capisco questa idea per cui se io – se un democratico e un repubblicano corrono l’uno contro l’altro, perdete le elezioni, ci si aspetta che ora – ok, le elezioni sono finite; voi ragazzi dovete lavorare insieme nell’interesse del nostro Paese. Se questo ci si aspetta tra persone che sono in partiti opposti, cosa ci si dovrebbe aspettare da persone che sono nello stesso partito? Ci si dovrebbe aspettare che anche loro lavorino insieme.
Nel caso del Presidente Trump, ho lavorato al suo fianco e ho imparato a conoscerlo nel corso degli anni, e spero che abbiamo acquisito un rispetto reciproco l’uno per l’altro;
QUESTIONE: Davvero?
SECRETARIO RUBIO: E così tanto che sono stato onorato di essere il suo candidato a Segretario di Stato, e ora lo sono.
QUESTIONE: Già.
SECRETARIO RUBIO: Ed è un momento emozionante per essere qui.
QUESTIONE: Tu gli hai risposto altrettanto bene, e anch’io gli ho dato qualche pugno, quindi… è stato un gioco leale. Eravamo entrambi un gioco leale quando è successo. Sono passati quasi 10 anni da quel dibattito, quello del 15 agosto.
All’inizio dell’intervista ho accennato con leggerezza alla questione dello “Stato profondo”. È una preoccupazione reale per molte persone che ci sia un gruppo di persone allo Stato e altrove che lavorerà attivamente per minare il suo programma e quello del Presidente Trump.
SECRETARIO RUBIO: Beh, penso che questo sia vero in qualsiasi grande organizzazione.E credo di essere sempre attento a questo aspetto, non perché io sia contrario all’idea in sé, ma perché penso anche che ci siano persone molto competenti che possono non essere d’accordo con me sulla politica, ma che – sono – faranno ciò che è la missione. Porteranno a termine la missione. E credo che ci aspettiamo sempre questo dalle persone.
Voglio dire, se ci pensate, non so chi sia il pilota – forse è un’analogia terribile in un giorno come questo. Ma non sappiamo quando saliamo su un aereo commerciale per chi abbia votato il pilota o chi sia il suo – ma non credo che ci faranno del male. Non – quando si va da un medico, non controllo necessariamente la sua iscrizione elettorale, e ci aspettiamo che i medici ci trattino bene.E penso che lo stesso valga per le persone al lavoro. Ci sono molti professionisti che lavorano al Dipartimento di Stato che porteranno a termine la missione, ma devono avere una missione chiara e vogliono che il Dipartimento di Stato torni a essere rilevante e abbia una profonda competenza sui temi, per cui abbiamo bisogno del loro sostegno;
Ora, sentite, se qualcuno ha intenzione di minare attivamente il lavoro dell’amministrazione eletta, questo è un problema, e credo che qualsiasi agenzia lo sosterrebbe, e credo che qualsiasi presidente lo sosterrebbe. Alla fine, il Dipartimento di Stato e la politica estera non sono separati dalla nostra repubblica. Nella nostra repubblica, il popolo americano elegge un presidente, e quel presidente è l’ufficiale esecutivo del nostro Paese ed è incaricato di eseguire la nostra politica estera. E il lavoro della nostra agenzia è quello di eseguire la politica estera del presidente.Non abbiamo una politica estera indipendente, indipendente dal nostro pubblico, indipendente dal nostro popolo, indipendente dall’esito delle elezioni. E quindi la nostra aspettativa è che, a prescindere da ciò che la gente possa pensare dei leader politici o di me o del Presidente o di chiunque altro, il loro compito sia quello di eseguire le politiche che il popolo americano ha scelto attraverso i suoi rappresentanti eletti.Ed è quello che faremo al Dipartimento di Stato, e credo che la stragrande maggioranza dei nostri dipendenti lo rispetterà;
QUESTIONE: I suoi genitori erano originari di Cuba. Sono immigrati qui alla fine degli anni ’50, credo. Suo padre era un custode.
SECRETARIO RUBIO: 27 maggio 1956.
QUESTIONE: Tua madre lavora in un albergo come cameriera. Ed eccoti qui, Segretario di Stato. Un’ultima riflessione su ciò che questo dice degli Stati Uniti d’America?
SECRETARIO RUBIO: Che rimane l’unico posto dove chiunque, da qualsiasi luogo, può ottenere qualsiasi cosa. E penso che il nostro esempio sia quello che altri Paesi speriamo cerchino di emulare nelle loro nazioni. E quindi è una testimonianza non solo del Paese, ma della gente di questo Paese.
E il dono più grande che i miei genitori mi hanno lasciato è che non si sono mai scoraggiati, non mi hanno mai detto: “Non puoi essere così, le persone come noi non potranno mai essere così”; ci hanno sempre incoraggiato ad avere grandi sogni e a perseguirli, qualunque cosa portino, e se si lavora duramente, si può raggiungere ciò che si vuole.Per alcuni il sogno è di avere un buon lavoro, di crescere una famiglia e di lasciare i miei figli in condizioni migliori delle loro, mentre per altri si tratta di sogni professionali e io ho la fortuna di essere un cittadino dell’unico posto nella storia dell’umanità in cui questo è accaduto per così tanti;
QUESTIONE: Quei cambiamenti ti hanno portato a questa posizione e presto a Panama, dove abbiamo bisogno di te. Hai un lavoro importante. Buona fortuna.
SECRETARIO RUBIO: Grazie.
QUESTIONE: Grazie mille.
SECRETARIO RUBIO: Grazie per averlo fatto.
QUESTIONE: È un piacere rivederla.
SECRETARIO RUBIO: Grande. Molto divertente. Grazie.
Il Segretario di Stato Marco Rubio ha rilasciato un’intervista a Megyn Kelly il 30 gennaio 2025 che potrebbe segnare l’inizio della fine della strategia di sicurezza egemonica americana. Rubio ha riconosciuto che l’unipolarismo, ovvero l’avere un unico centro di potere nel mondo, è stato un fenomeno temporaneo ormai superato: “non è normale che l’America abbia un centro di potere nel mondo”.
“Non è normale che il mondo abbia semplicemente una potenza unipolare. Quella non era – era un’anomalia. È stato un prodotto della fine della Guerra Fredda, ma alla fine si sarebbe tornati a un punto in cui c’era un mondo multipolare, con più grandi potenze in diverse parti del pianeta”.
Rubio ha suggerito che la posizione egemonica degli Stati Uniti ha portato a un indebolimento del sistema westfaliano basato su Stati sovrani, sostituendolo con un sistema globalista in cui gli Stati Uniti rivendicano il ruolo di poliziotto mondiale:
“E credo che questo sia andato perso alla fine della Guerra Fredda, perché eravamo l’unica potenza al mondo, e quindi ci siamo assunti la responsabilità di diventare in molti casi il governo globale, cercando di risolvere ogni problema”.
Rubio si riferisce alla fine dell’ordine mondiale unipolare emerso dopo la Guerra Fredda e alla necessità per gli Stati Uniti di adattarsi alle realtà multipolari.
Che cos’è il multipolarismo?
Se l’unipolarismo è finito, qual è il sistema multipolare che sta tornando? L’ordine mondiale moderno, a partire dalla Pace di Westfalia del 1648, si basa sul principio del multipolarismo e dell’equilibrio di potenza per limitare le ambizioni espansionistiche ed egemoniche degli Stati. Una distribuzione multipolare del potere determina ciò che produce sicurezza e lo scopo della diplomazia.
La sicurezza in presenza di molti centri di potere implica la gestione della competizione per la sicurezza tra gli Stati. I conflitti derivano dalla competizione per la sicurezza, poiché gli sforzi di uno Stato per aumentare la propria sicurezza, ad esempio espandendo il proprio potere militare, ridurranno la sicurezza degli altri Stati. La “sicurezza indivisibile” è quindi il principio chiave di un sistema multipolare, che suggerisce che la sicurezza non può essere divisa: o c’è sicurezza per tutti o non ci sarà sicurezza per nessuno. Qualsiasi sforzo da parte di uno Stato di diventare dominante scatenerà quindi conflitti tra grandi potenze, in quanto costringerà le altre potenze a bilanciare collettivamente l’aspirante egemone.
La diplomazia in un sistema multipolare mira a migliorare la comprensione reciproca degli interessi di sicurezza in competizione e a raggiungere un compromesso che elevi la sicurezza di tutti gli Stati. È indispensabile mettersi nei panni dell’avversario e riconoscere che, se si risolvono i problemi di sicurezza di quest’ultimo, si migliora anche la propria sicurezza.
Unipolarità
L’unipolarismo è stato celebrato dopo la Guerra Fredda, poiché si basava su alcune buone intenzioni. L’idea era che le grandi potenze non si sarebbero impegnate in rivalità e competizione per la sicurezza se l’egemone benigno degli Stati Uniti non avesse potuto essere contestato. La strategia di sicurezza degli Stati Uniti si basava sul primato globale e si pensava che non ci fosse la possibilità e la necessità di competere con l’egemonia benigna degli Stati Uniti. Inoltre, il primato globale degli Stati Uniti avrebbe garantito anche l’elevazione dei valori liberaldemocratici. Tuttavia, l’unipolarismo dipenderebbe dal contenimento delle potenze in ascesa, che avrebbero quindi interesse a bilanciare collettivamente gli Stati Uniti. I valori liberaldemocratici verrebbero corrotti perché usati per legittimare la disuguaglianza sovrana necessaria per interferire in ogni angolo del mondo. Persino Charles Krauthammer, che ha coniato e celebrato l’espressione “momento unipolare”, ha riconosciuto che si trattava di un fenomeno temporaneo, nato dal crollo dell’Unione Sovietica.
La sicurezza nel sistema unipolare non implicava la gestione della competizione per la sicurezza. Al contrario, la sicurezza dipendeva dalla capacità di dominare a tal punto che nessun rivale poteva nemmeno aspirare a sfidare gli Stati Uniti. Nel 2002, la Strategia di sicurezza degli Stati Uniti sottolineava esplicitamente che il dominio globale avrebbe “dissuaso la futura competizione militare” e che gli Stati Uniti dovevano quindi perpetuare “la forza senza pari delle forze armate statunitensi e la loro presenza in avanti”. La strategia egemonica è il motivo per cui l’Occidente ha abbandonato tutti gli accordi per un’architettura di sicurezza paneuropea inclusiva con la Russia, per tornare invece alla politica dei blocchi espandendo la NATO verso i confini russi. La NATO avrebbe minacciato la sicurezza russa, ma non ci sarebbe stata alcuna competizione per la sicurezza perché la Russia sarebbe stata troppo debole. Il sentimento era che la Russia avrebbe dovuto adattarsi alle nuove realtà o confrontarsi con la NATO che l’aveva circondata.
Anche la diplomazia sotto l’unipolarismo è finita. La diplomazia non significava più riconoscere i problemi di sicurezza reciproci per trovare soluzioni per una sicurezza indivisibile. Piuttosto, la diplomazia è stata sostituita dal linguaggio degli ultimatum e delle minacce, in quanto gli altri Stati avrebbero dovuto accettare concessioni unilaterali. In passato, i politici e i media occidentali discutevano dei problemi di sicurezza degli avversari per mitigare la competizione in materia di sicurezza. Dopo la Guerra Fredda, i politici e i media occidentali hanno in gran parte smesso di discutere le preoccupazioni degli avversari in materia di sicurezza, poiché non si voleva “legittimare” l’idea che l’egemonia occidentale come “forza del bene” potesse essere considerata una minaccia. Quando l’Occidente piazzava le sue forze militari ai confini di altri Paesi, si sosteneva che portasse democrazia, stabilità e pace. Inoltre, i conflitti non potevano essere risolti con la diplomazia se sfidavano il dominio dell’Occidente. Ad esempio, prendere in considerazione le preoccupazioni della Russia per l’incursione della NATO in Ucraina rappresenterebbe un rifiuto del sistema egemonico. Mentre la NATO ha rifiutato la diplomazia per tre anni, mentre centinaia di migliaia di uomini morivano in prima linea, Rubio ora suggerisce che la diplomazia e i negoziati devono iniziare: “Dobbiamo solo essere realistici sul fatto che l’Ucraina ha perso”.
Una ragione per l’ottimismo
Alla fine degli anni Venti, Antonio Gramsci scriveva dei tempi difficili come di un periodo di interregno. Gramsci scrisse: “La crisi consiste proprio nel fatto che il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere; in questo interregno appare una grande varietà di sintomi morbosi”.
I conflitti tra grandi potenze nel mondo di oggi sono in gran parte il risultato di una transizione tra unipolarismo e multipolarismo. L’Occidente cerca di sconfiggere i suoi rivali per ripristinare l’unipolarismo degli anni ’90, mentre la maggior parte del mondo cerca di completare la transizione verso il multipolarismo. Mentre gli Stati Uniti si preoccupano del debito insostenibile, del bilanciamento collettivo da parte degli avversari e della crescente possibilità di una guerra nucleare, sembra che ci sia una crescente volontà di ritirare il progetto temporaneo dell’unipolarismo.
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