NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA …, di FF

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA ALLA LUCE DELLA QUESTIONE (NEO)FASCISTA E DELLA TRASFORMAZIONE IN SENSO ANTISOCIALISTA DELLA SINISTRA EUROPEO-OCCIDENTALE

Non è facile trattare in una semplice nota un argomento come quello che concerne il problema del fascismo e del neofascismo nell’attuale fase storica, contraddistinta da una crisi che non è solo economica ma concerne i fondamenti stessi della civiltà europeo-occidentale. Mi limito quindi ad alcune “sintetiche” (forse, secondo alcuni, anche troppo “sintetiche”) considerazioni di carattere generale. Ritengo comunque necessario, per evitare “spiacevoli equivoci”, precisare che si deve sempre distinguere tra le persone che si definiscono o vengono definite fasciste e neofasciste e, rispettivamente, il fascismo e il neofascismo (e lo stesso vale naturalmente per i nazional-populisti rispetto al nazional-populismo, per i “liberal” rispetto alla sinistra neoliberale, ecc.).

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Il fascismo nella sua fase iniziale (il “sansepolcrismo”, per capirsi) si presentò come una mescolanza, peraltro assai confusa, di elementi social-rivoluzionari e nazionalismo, in un contesto storico sociale completamente diverso da quello che c’era prima della Grande Guerra. Infatti, l’Italia, benché fosse tra i Paesi vincitori, era uscita dalla guerra con le “ossa rotte” sotto il profilo economico, ma al tempo stesso nutriva ambizioni di grande potenza (la “vittoria mutilata”, ecc.). Inoltre, la rivoluzione russa aveva cambiato l’intero quadro geopolitico e ideologico, diffondendo la paura del “pericolo rosso” tra le file della borghesia europea.

Tuttavia, nelle elezioni politiche del 1919 a Milano il fascismo cosiddetto “rivoluzionario” venne nettamente sconfitto e la stessa “impresa di Fiume”, contraddistinta anch’essa da aspetti social-rivoluzionari e sciovinisti, terminò con un sanguinoso fallimento nel dicembre 1920. Il fascismo comunque riuscì a sopravvivere e a rafforzarsi, grazie soprattutto al sostegno da parte del capitalismo agrario (e poi pure del capitale industriale), ossia diventando il “manganello” della borghesia contro i socialisti e i comunisti.

Nel 1921 entrò quindi a far parte dei Blocchi nazionali (una coalizione di destra) conquistando comunque solo 35 seggi (i Bocchi nazionali ne conquistarono in tutto 105, mentre i socialisti ne conquistarono 123 e i comunisti 15). Nondimeno, nel 1921-22 si moltiplicarono le violenze dello squadrismo fascista, appoggiato anche dagli apparati di coercizione dello Stato, contro i quali, come dimostrarono i fatti di Sarzana del luglio 1921, ben poco poteva fare lo squadrismo fascista. La stessa marcia di Roma, difatti, sarebbe miseramente fallita se l’esercito avesse avuto ordine di impedirla (anche se non è assolutamente certo che l’esercito avrebbe obbedito ciecamente a quest’odine; ma i carabinieri avrebbero certo obbedito, e per sconfiggere lo squadrismo fascista i carabinieri sarebbero stati più che sufficienti, se – s’intende – l’esercito non si fosse schierato con i fascisti).

Il fascismo quindi non conquistò il potere ma si alleò con il potere (a differenza del nazismo, anche se lo stesso nazismo, ispirandosi al fascismo, sfruttò le “debolezze” della repubblica di Weimar, inclusa la mancanza di un forte apparato di coercizione statale, a causa delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles; ma se durante il regime fascista le camicie nere giuravano fedeltà al re, durante il regime nazista le SS e la Wehrmacht non giuravano fedeltà al Kaiser ma solo ad Hitler).

Il regime fascista comunque non fu certo un regime social-rivoluzionario (lo stesso Stato corporativo fu nella sostanza un fallimento, tranne per il grande capitale), nonostante il “dirigismo” (una scelta giusta e, in un certo senso anche inevitabile) degli anni Trenta (una politica economica che avrebbe però dato i suoi migliori frutti nel dopoguerra). Difatti, nonostante la relativa modernizzazione attuata negli Trenta (sia pure in un quadro di “irreggimentazione” delle masse), il regime fascista non ebbe nemmeno il totale controllo degli apparati dello Stato – tranne una fascistizzazione superficiale, che in pratica era frutto del “matrimonio di convenienza” del fascismo con la monarchia e il grande capitale – come avrebbero dimostrato la disastrosa impreparazione bellica e la ancora più disastrosa e perfino criminale impreparazione (geo)politica e strategica che portarono il Paese sull’orlo della catastrofe già nella primavera del 1941(evitata solo per l’intervento in Africa Settentrionale dei tedeschi) e poi al totale sfacelo all’inizio del 1943.

“Scaricato” dalla monarchia e dal grande capitale (che però pensavano a salvare sé stessi più che a salvare il Paese mettendo fine ad una ignominiosa alleanza che aveva ridotto il nostro Paese a semplice strumento della politica di potenza nazista), il fascismo si dissolse di colpo nell’estate del 1943, e solo per l’incredibile viltà e/o irresponsabile negligenza dei vertici politici e militari – che non diressero, com’era loro preciso dovere, la battaglia di Roma contro i tedeschi, ma lasciarono senza ordini l’esercito, tradendo così l’intero Paese non certo la Germania nazista – si crearono le condizioni per una guerra civile, in cui “riemersero” pure alcuni aspetti del cosiddetto “fascismo movimento” ma in un contesto “segnato” irrimediabilmente dalla alleanza con i tedeschi  e dalle stragi nazi-fasciste, nonché dai fallimenti del “fascismo regime”, di modo che, al di là delle intenzioni di alcuni fascisti, la repubblica sociale tutto poteva essere fuorché una repubblica socialista.

Il vero patriottismo fu dunque quello della Resistenza (scelte diverse si possono comprendere tenendo conto solo del contesto storico, dacché non sono giustificabili sotto il profilo politico), che seppe scrivere delle pagine di storia di alto valore politico e morale, anche se non riuscì ad evitare che il nostro Paese venisse trattato come un Paese sconfitto (un “trattamento” che ha “pesato” non poco nella storia della I Repubblica e di cui ancora oggi l’Italia paga le conseguenze).

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In sostanza, il fascismo “morì” nell’estate del 1943, e la repubblica sociale fu solo, per così dire, una “appendice storica” di un movimento e di un regime politicamente e storicamente “defunti”.

Lo stesso neofascismo quindi è un fenomeno nettamente distinto dal fascismo e comprende aspetti così diversi – una caratteristica comunque dello stesso fascismo – che lo fanno apparire come un fenomeno storico e politico tutt’altro che “unitario”. Comprende “nostalgici” ma pure filonazisti, antisemiti e filo-sionisti, atlantisti e anti-atlantisti, e via dicendo. Peraltro, si dovrebbe pure distinguere tra “semplici nostalgici” e la cosiddetta “destra sociale” più attenta a “valorizzare” gli elementi social-rivoluzionari (ma sempre “in chiave” antisocialista) presenti nel “fascismo movimento” che non la politica del regime fascista. (Un discorso diverso vale per coloro che identificano nel nichilismo il nemico da combattere, e, quindi – basandosi soprattutto sulla storia comparata delle religioni, le opere di Jünger, ecc. – privilegiano un approccio di tipo esistenziale al Politico. Ma in questo caso non si tratta di neofascismo, bensì di una forma di “anarchismo di destra” – inteso come una  sorta di “via esistenziale” anti-nichilista, contrassegnata da una particolare concezione della “trascendenza” – sempre che non si “intrecci” – e non mancano numerosi esempi di tali “intrecci” – con posizioni neofasciste o addirittura esplicitamente filo-naziste).

Ma, oltre al fatto di “richiamarsi” a questo o quell’aspetto del regime fascista o nazista, ciò che accomuna le diverse forme di neofascismo è l’odio per il socialismo e il comunismo nonché l’esaltazione di qualità cosiddette “virili” (compresa la concezione secondo cui l’uso della forza è “positivo” in quanto tale), che si accompagna non raramente ad un disprezzo per la “ragione” (nel senso di “logon didonai”) che può giungere a negare l’identità sostanziale del genere umano.

Di conseguenza anche il volontarismo e l’irrazionalismo sono tratti costitutivi delle varie formazioni neofasciste, benché si debba tener presente che c’è pure un neofascismo più “moderato” (perlopiù atlantista e filosionista), che non è ostile alla democrazia liberale nella misura in cui sia radicalmente antisocialista e anticomunista. Insomma, l’anticomunismo (incluso, al di là di certi “equivoci lessicali”, l’antisocialismo) sembra essere il tratto distintivo delle varie forme di neofascismo e questo “minimo comune denominatore” ((si badi, necessario ma non sufficiente per definire il neofascismo) ha reso (e rende) possibile pure l’alleanza tra il neofascismo e il liberalismo più marcatamente anticomunista e antisocialista.

Ovviamente, si deve sempre tener conto dei diversi contesti storici. Si pensi ad esempio all’America Latina ovverosia al cosiddetto “fascismo di mercato”, agli “squadroni parafascisti”, ecc. In Europa e soprattutto in Italia, “patria del fascismo”, il neofascismo si è manifestato e non poteva che manifestarsi in forma diversa. In particolare in Italia, oltre ai “nostalgici” (presenti una volta soprattutto nel Movimento sociale italiano) c’è stato un neofascismo ben più “aggressivo”, che si ispirava più al nazismo che al fascismo, e che oltre a scontrarsi nelle piazze e nelle scuole con le varie formazioni comuniste negli anni di piombo, è stato “usato” in chiave anticomunista da centri di potere atlantisti per attuare la “strategia della tensione”, compiere atti terroristici, ecc. (una strumentalizzazione indubbiamente favorita dalle caratteristiche del neofascismo, ossia dal culto della forza e dall’odio per il comunismo oltre, che, almeno in certi casi, da una forma di nazionalismo estremista).

D’altra parte, pure il neofascismo ha “mutato pelle” per così dire, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della I Repubblica e la nascita del “berlusconismo”. Da un lato il neofascismo “moderato” si è riciclato in forma nazional-liberale mirando a rappresentare i “valori” della cosiddetta “maggioranza silenziosa” (media e piccola borghesia) secondo gli schemi concettuali “semplicistici” del berlusconismo. Dall’altro, terminato lo scontro con il comunismo a livello mondiale, i vari gruppetti neofascisti sono diventati sempre più “marginali” e politicamente “insignificanti”.

Del resto, il neofascismo, in tutte le sue forme, in Italia (ma pure in Europa) non può che essere “politicamente parassitario”, non avendo un progetto politico che possa essere condiviso dalla maggioranza degli italiani (e degli europei). Deve quindi necessariamente “appoggiarsi” a qualche formazione liberal-democratica o indossare le “vesti liberal-democratiche” per potere contare sul piano politico.

La crisi del sistema neoliberale, soprattutto a partire dal 2007-08, ha però nuovamente cambiato il quadro politico non solo in Europa ma pure in America, facendo crescere su entrambe le sponde dell’Atlantico una forma particolarmente “aggressiva” di populismo di destra, che, per semplicità, si può definire nazional-populismo. Si è cioè venuta a formare una situazione che offre anche ai gruppetti neofascisti l’opportunità di stabilire nuove alleanze con formazioni politiche nazional-populiste (in cui sono presenti ancora dei “semplici nostalgici”), giacché il nazional-populismo si configura come un estremismo di centro, contraddistinto da un radicale antistatalismo, da anti-intellettualismo e da antisocialismo, nonché, perlomeno in alcuni casi, da una certa xenofobia.

Peraltro, il nazional-populismo trae vantaggio pure dalla progressiva “involuzione” politico-culturale della sinistra, che in buona misura si è trasformata nella “guardia bianca” del grande capitale, rinunciando a rappresentare non solo gli interessi dei ceti sociali subalterni ma pure della piccola e di parte della media borghesia, ossia di ceti sociali penalizzati da una globalizzazione che favorisce soprattutto il grande capitale “transnazionale” o “cosmopolita”.

In questo senso l’accusa generica di fascismo nei confronti dei nazional-populisti può favorire paradossalmente solo i neofascisti e lo stesso nazional-populismo. L’ideologia “politicamente corretta” della sinistra neoliberale porta difatti a formulare dei paragoni e dei giudizi privi di ogni fondamento, che non solo non spiegano le ragioni della nascita e della diffusione del nazional-populismo, ossia del malcontento popolare a causa dei danni causati dall’attuale sistema neoliberista, ma al tempo stesso spingono la piccola borghesia e perfino buona parte dei ceti sociali subalterni ancor più verso le posizioni del nazional-populisti in quanto, in pratica, il nazional-populismo è rimasto l’unico soggetto politico a rappresentare gli interessi di questi ceti sociali.

Il fatto che il nazional-populismo proponga una “terapia” che è se non peggio altrettanto perniciosa del male che dovrebbe curare, dovrebbe invece far comprendere che solo non ignorando le ragioni del malcontento popolare e rappresentando gli interessi dei ceti sociali medio-bassi e subalterni secondo una prospettiva che riconosca il primato della funzione pubblica, e di conseguenza riconosca allo Stato il ruolo di mettere il mercato al servizio della collettività, è possibile sconfiggere il nazional-populismo e al tempo stesso relegare in un ruolo” marginale” e politicamente “insignificante” lo stesso neofascismo.

Cercare quindi di combattere il nazional-populismo senza “accorgersi” del pericolo che rappresenta la sinistra neoliberale equivale a farsi soffocare dal “boa neoliberale” per sfuggire alla “tigre” o, se si preferisce, al “gatto selvatico” nazional-populista. Del resto, se si dovesse usare il termine fascista allo stesso modo dei “liberal”, non sarebbe difficile definire pure questi ultimi “liberal-fascisti”, dato che controllano quasi tutti i gangli vitali dello Stato e della società civile (industria culturale, media, sistema educativo, ecc.), di modo da reprimere ogni forma di “dissenso”. Il neocapitalismo “a guida culturale gauchista” è una realtà che non lascia ormai spazio (politico-culturale) a nessun’altra “voce”. Certo vi è pur sempre la “rete”, ma com’è noto, “in rete” vi è tutto e il contrario di tutto, di modo che è sempre più difficile distinguere tra (la poca) informazione e (la molta) disinformazione.

Di fatto, la sinistra neoliberale (ma anche in questo caso si deve ricordare che non tutte le persone che si definiscono ancora di sinistra si identificano con le posizioni della sinistra neoliberale) non è l’erede della sinistra storica né, a maggior ragione, della Resistenza. Anch’essa ha “mutato pelle” con la fine della I Repubblica (e invero il mutamento era già cominciato alla fine degli anni Settanta) e ormai, dopo tre decenni (un periodo quindi più lungo dello stesso ventennio fascista), può non vedere che il “re è nudo” solo chi non vuole vederlo.

D’altronde, se l’irrazionalismo è tratto distintivo del nazional-populismo, la razionalità meramente strumentale che caratterizza la sinistra neoliberale è anch’essa “negazione” di quella idea di “polis” come spazio sociale e politico della ragione che la civiltà europea ha ereditato dalla cultura greca. Una razionalità al servizio del grande capitale, e che si configura quindi come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (c’è differenza tra dominio e controllo), è una razionalità “dimidiata” che alimenta essa stessa le peggiori forme di irrazionalismo e di alienazione (la sinistra europea, difatti, tranne alcune importanti eccezioni, cerca, tutt’al più, di porre la tecnologia sociale e lo stesso “agire comunicativo” al servizio dei cosiddetti “diritti individuali” – che concernono soprattutto determinati gruppi di pressione -, a scapito dei diritti sociali ed economici, nonché del benessere morale e materiale dell’intera collettività).

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Non è quindi questione di scelta tra nazional-populismo e sinistra neoliberale. Entrambi sono parte dello stesso sistema neoliberale, anche se la sinistra neoliberale occupa i “piani alti”, e l’alternativa non può certo essere quella di “invertire le posizioni” o addirittura di cercare riparo nei “bassifondi” del sistema neoliberale. Occorre piuttosto avere il coraggio civile e intellettuale di “staccare la spina”, ossia di compiere una sorta di “delinking, in un’ottica che sappia ridefinire la concezione socialista tenendo conto del quadro geopolitico mondiale.

La lotta per l’egemonia a livello mondiale, infatti, nella misura in cui si configura come uno scontro tra la potenza (ancora) egemone (ovvero gli Stati Uniti) e un centro di potenza anti-egemonico (la Cina) caratterizzato da una società “con” mercato anziché “di” mercato (e che ripropone quindi la questione della pianificazione, sia pure in un’ottica diversa da quella che contraddistinse il “socialismo reale”), acquista un significato politico che non si può ignorare, nemmeno alla luce della sconfitta del “socialismo reale” e della stessa fine della socialdemocrazia. In questo senso, “staccare la spina” non equivale a muoversi nel “vuoto”, ma piuttosto significa che si deve agire in una fase storica che proprio perché è estremamente “fluida” lascia ancora spazio per costruire una valida e realistica alternativa all’attuale società di mercato neoliberale.

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2020/11/nota-sulla-tentazione-nazional.html

La guerra economica da ieri ad oggi, Di Frédéric Munier

La guerra economica non è una novità: alcuni la fanno risalire ai Fenici! Sembrava a suo agio durante il boom del dopoguerra, ma non era mai scomparsa del tutto. Lo shock petrolifero del 1973 e soprattutto la globalizzazione le hanno dato una crescita eccezionale.

In De Esprit des lois , Montesquieu ha affermato che “l’effetto naturale del commercio è portare la pace. Due nazioni che negoziano insieme diventano reciprocamente dipendenti: se una ha interesse a comprare, l’altra ha interesse a vendere. Il commercio sarebbe quindi un antidoto alla guerra. Con la globalizzazione, alcuni potrebbero aver creduto che questa pacificazione sarebbe stata realizzata: mentre Alain Minc celebrava una “globalizzazione felice”, Francis Fukuyama vedeva nella fine della guerra fredda e nella generalizzazione del capitalismo liberale una “fine del mondo”. ‘storia’. Sulla scia dei classici, questi autori credevano che un mondo di crescente interdipendenza fosse portatore di una pace duratura.

Vent’anni dopo, tuttavia, sembra che il pianeta non sia così. La guerra tradizionale non è scomparsa, tutt’altro, soprattutto in Europa, dall’ex Jugoslavia all’Ucraina. Quanto alle relazioni economiche tra gli Stati, non assomigliano a un “commercio morbido”. Inoltre, nel 1990, Edward Luttwak aveva proclamato l’era della geoeconomia quando Bernard Esambert pubblicò The World Economic War.. Eccedenze tedesche contro deficit francesi, dollaro debole contro euro forte, difficili negoziati tra Stati Uniti e Unione Europea sul tema del trattato transatlantico, avidità di ricchezza africana… il mondo ora sembra un’arena. La guerra economica è onnipresente tanto che l’espressione è vittima del suo successo. Occorre quindi definire con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico, valutarne il reale ambito, i suoi mezzi di azione.

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La guerra economica è figlia della globalizzazione

Se la guerra economica nel senso più ampio del termine non è nuova, la sua forma contemporanea ha radici relativamente recenti. Possiamo considerare che dopo la seconda guerra mondiale, con la rinascita di un sistema monetario internazionale e la firma degli accordi GATT nel 1947, le regole per la concorrenza commerciale tra economie in gran parte nazionali furono stabilite all’interno del blocco occidentale. . Così, le lotte economiche che hanno avuto luogo in questi anni sono state confinate in un’arena di dimensioni limitate.

Inoltre, quando Bernard Esambert pubblicò Le Troisième Conflit mondial nel 1968 , tracciò i contorni di una guerra economica con virtù positive: non solo questa guerra “morbida” sostituì la guerra reale in Occidente, ma fu anche uno stimolo per i paesi industrializzati, impegnati in una proficua competizione per tutti. Inoltre, la guerra fredda ha costretto le nazioni del blocco occidentale a una solidarietà di fatto che ha ulteriormente limitato gli effetti delle loro rivalità economiche.

È stato proprio questo equilibrio a essere rotto nel 1991 con la caduta dell’URSS e la fine del comunismo. Da quel momento in poi, nulla ha ostacolato il modello capitalista e di libero scambio che, fino ad allora, rappresentava solo uno dei due sistemi economici all’opera sul pianeta. D’ora in poi l’arena è globale e quasi nessuno contesta le regole del gioco, allo stesso tempo la fine della guerra non fa scadere, tutt’altro, le politiche di potere; li sposta dal terreno militare e geopolitico (scontro di blocchi, conflitti periferici, ecc.) al terreno economico e commerciale (rivalità tra poteri sulle risorse, lotta per la quota di mercato, ecc.). Secondo Luttwak, ” in futuro sarà forse la paura delle conseguenze economiche a regolare le controversie commerciali, e certamente più gli interventi politici motivati ​​da potenti ragioni strategiche [1]  ”. Mentre probabilmente Luttwak sottovalutava l’importanza che avrebbero mantenuto le questioni geopolitiche, ha puntato il dito sulla nuova dimensione della nostra globalizzazione: quella della competizione tra le nazioni. Lungi dal pensare come gli uomini dell’Illuminismo che il commercio ammorbidisce i costumi, crede che il commercio sia solo una delle modalità della guerra quando il suo lato armato si indebolisce.

La dichiarazione di guerra

Vincitori della guerra fredda, gli Stati Uniti sono stati i primi a fare il punto sul cambiamento che il mondo stava attraversando. E’ vero, avevano praticato nei decenni precedenti il ​​versamento di parte del capitale militare verso le proprie aziende per promuovere la ricerca e lo sviluppo e per meglio armarle nella competizione internazionale. Fondamentalmente, la guerra fredda ha dato loro l’opportunità di sovvenzionare interi segmenti della loro economia per le migliori ragioni.

All’inizio degli anni ’90, l’argomento geopolitico è crollato; il discorso economico rimane in tutta la sua purezza. Carla Hills, rappresentante commerciale degli Stati Uniti, non dice allora: “Apriremo i mercati esteri con il piede di porco, se necessario”? Quanto a Bill Clinton, appena eletto, crede che ogni nazione sia ormai in competizione con le altre sui mercati mondiali. Nello stesso anno, il Segretario di Stato Warren Christopher dichiarò ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva essere elevata al primo posto della politica estera degli Stati Uniti.

In altre parole, i vincitori della Guerra Fredda hanno ufficialmente dichiarato guerra economica al resto del mondo. La prospettiva è certamente ampiamente liberale; ognuno ha le sue possibilità e può vincere a questa partita, ma il discorso è ambiguo perché si tinge di difesa degli interessi nazionali. Alla fine mescola una retorica che è sia liberale che mercantilista, principi che sono difficilmente compatibili agli occhi degli economisti ma perfettamente legittimi per i politici.

Lo stato , comandante in capo della guerra economica

Su questo punto Bernard Esambert non ha dubbi. Perché un Paese possa combattere nella guerra economica, ha bisogno di uno Stato, “un signore della guerra risoluto, che conosca il mestiere delle armi e che ridia morale e spirito di conquista all’economia”.

Eppure negli anni ’80 e ’90, nell’era del neoliberismo e del consenso di Washington, lo stato era stato malmenato; era visto come un ostacolo allo sviluppo economico, quindi il presidente Reagan non aveva paura di affermare che “il problema è lo Stato”. La globalizzazione finanziaria, la transnazionalizzazione delle imprese, l’intensificazione del commercio internazionale hanno suonato la campana a morto per questa reliquia del passato. Tuttavia, è quasi una logica freudiana di ritorno del represso a cui stiamo assistendo oggi, ancor di più dalla crisi economica del 2008: nel 2009, The Economist non ha esitato a coprire ”  The Return of the Nazionalismo economico“. Non solo lo stato ha resistito alla pozione neoliberista, ma ora sta tornando in auge. Lo Stato ha continuato a svolgere il suo ruolo di supervisione dello spazio privato creando un ambiente legale, fiscale e infrastrutturale favorevole alla promozione dell’economia. Nel contesto attuale, gli Stati hanno, inoltre, assunto il ruolo di leader militare, nella conquista dei mercati e delle risorse, sia per assicurare il loro potere sia per l’arricchimento delle loro imprese e dei loro concittadini.

Questo perché lo Stato ha un certo numero di prerogative o capacità di cui le aziende sono prive per natura. Lo Stato, per usare l’espressione di Philippe Delmas, è un “maestro degli orologi [2]  “: solo può pensare a lungo termine, finanziare a lungo termine quando le aziende prediligono il breve o il medio termine. Inoltre può predisporre costosi strumenti al servizio delle proprie aziende per distinguere i settori del futuro, i campi in cui hanno interesse ad investire; in breve, lo stato ha una visione molto migliore del campo di battaglia di qualsiasi delle sue truppe. L’esempio giapponese del MITI, spesso qui citato, ha un valore paradigmatico. Ma la Commissione di pianificazione creata per la liberazione in Francia aveva ambizioni simili.

 

È anche lo Stato che guida le dinamiche di domani fissando degli obiettivi: così, la strategia di Lisbona che i paesi membri dell’UE hanno adottato nel 2000 intende fare dell’Unione “la prima economia della conoscenza” entro il 2010 collegando esplicitamente questo obiettivo a quello della piena occupazione. Solo uno Stato può affrontare questo tipo di compiti, la cui portata supera di gran lunga le capacità di finanziamento e le motivazioni di un’impresa. Aggiungiamo a questo che i capi di stato, generali in capo della guerra economica, talvolta guidano le operazioni sotto le spoglie di un VRP: si ricorda come Margaret Thatcher fosse personalmente impegnata nella negoziazione di un contratto aeronautico con Arabia Saudita negli anni ’80, pochi anni prima che Bill Clinton adottasse la stessa strategia di vendita nei confronti di Riyadh. È ovvio che il peso di un capo di Stato o di governo può essere decisivo in questo tipo di trattativa.

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Compagnie, semplici soldati?

Gli stati non fanno guerre senza truppe. Queste sono imprese, grandi e piccole. Bernard Esambert vede in esso “  i combattenti della guerra economica […] se sono al fronte esportando in maniera massiccia, dietro difendendo un mercato regionale o se attraversano i confini atterrando su territorio “ nemico ” come le multinazionali  ”. Se l’immagine è attraente, lascia da parte alcuni elementi fondamentali del dibattito sulla guerra economica.

Il primo riguarda una questione semplice ma allo stesso tempo tremendamente delicata in un’epoca di globalizzazione: la nazionalità delle aziende. Non è illusorio dire che sempre più società multinazionali, di proprietà di capitali stranieri, siano francesi? Nel 2012, più della metà del capitale del CAC 40 era detenuta da residenti stranieri. Si può immaginare un esercito i cui soldati sarebbero stati pagati dal campo di fronte? Aiutare le società cosiddette “nazionali” ha ancora senso in questo contesto?

Infatti, gli economisti hanno dimostrato che, nonostante la logica della transnazionalizzazione, l’idea di “nazionalità delle imprese” non era obsoleta [3]. Primo, perché un certo numero di società strategiche sono tutelate dagli Stati: direttamente quando sono azionisti – nel caso di Areva, Thalès o anche Dassault in Francia – indirettamente quando sono garanti della loro indipendenza dalle società estere. Ricordiamo quindi che nel 2006 l’amministrazione Bush ha costretto la compagnia Dubai Port World a vendere ad AIG International la gestione dei sei maggiori porti americani effettuata dalla compagnia P&O che DPW aveva acquistato. Allo stesso modo, nel 2005 è stato impedito alla società pubblicitaria China National Offshore Corporation di acquistare la società americana Unocal. Cosa significa questo se non che gli Stati riconoscono facilmente le società nazionali, anche se la loro capitalizzazione è ormai internazionale?

Quindi, anche nell’era dei ”  Global Players  “, si può parlare di nazionalità delle imprese. Se ci limitiamo ad alcuni esempi francesi, il tasso di partecipazione degli investitori francesi nel 2010 è stato il seguente: totale, 30%; Vivendi, 36%; Universale, 45%; Danone, 49%; BNP-Paribas, 39%; Crédit Agricole 44%, ecc. Questi esempi sono sufficienti a dimostrare che i titolari nazionali, se sono effettivamente in minoranza, costituiscono nondimeno la base dell’azienda. Quanto a manager e direttori, quasi tutti sono francesi. La capitale è internazionale ma l’azienda resta francese sia agli occhi dei suoi manager, dei suoi dipendenti che dei suoi azionisti stranieri.

Infine, possiamo assimilare le attuali grandi compagnie, a maggior ragione le FMN, alle legioni del tardo impero romano  ; misti, variegati, composti da quadri romani e truppe barbare, sono comunque l’esercito dell’Impero. Le aziende attuali, nonostante la loro natura globale, mantengono comunque un punto d’appoggio nazionale. Inoltre, il recente salvataggio di Peugeot intorno a un’alleanza tra la famiglia, lo Stato francese e il produttore cinese Dongfeng dimostra che l’idea di un’azienda nazionale non è morta con la globalizzazione, è solo  più complessa che in passato.

I nuovi obiettivi della guerra economica

La guerra economica contemporanea può essere letta come un conflitto tradizionale, con i suoi obiettivi di guerra. Il primo è simile per le vecchie potenze industriali a un imperativo difensivo: salvare posti di lavoro nell’industria. Questa sfida è diventata un’ossessione poiché le delocalizzazioni o il subappalto in paesi con bassi costi salariali stanno dissanguando i nostri paesi industrializzati.

 

Perché questa ossessione per i lavori industriali nel nostro mondo terziarizzato? Questo perché le nostre società postindustriali, nel senso che la maggior parte del PIL non proviene più dal settore secondario, sono tuttavia industrializzate come non lo sono mai state. Non solo i lavori industriali generano posti di lavoro terziario ma, inoltre, ce ne sono molti che richiedono una qualifica. Bernard Esambert parla di una “simbiosi industria-servizio” per designare questa coppia formata dall’industria high-tech e dal settore dei servizi che l’accompagna. Perdere le prime a vantaggio delle nuove potenze industriali significa perdere le seconde e rischiare di regredire, per non parlare del rischio di disoccupazione o sottoccupazione, che nessuna democrazia può sopportare a lungo termine. I sostenitori della guerra economica quindi ritengono che l’occupazione industriale debba essere difesa e persino mantenuta. Al di là dei dibattiti economici sul loro rapporto costi-benefici, la distruzione di posti di lavoro è difficile da accettare agli occhi degli elettori e, quindi, dei responsabili delle decisioni. Comprendiamo quindi lo zelo, almeno a parole, di Nicolas Sarkozy per salvare la fabbrica Gandrange o quella di François Hollande a Florange.

L’altro obiettivo della guerra, decisivo per gli Stati, non è più la difesa, ma la conquista dei mercati e delle scarse risorse. Bernard Nadoulek ha chiaramente dimostrato l’intensificazione della guerra per il controllo delle risorse naturali [4] , principalmente gli idrocarburi.

Niente forse di meglio di questo esempio illustra agli occhi dei suoi sostenitori l’evidenza della guerra economica: il petrolio è una risorsa scarsa e limitata. Ogni goccia guadagnata da uno viene persa dall’altra. Pertanto, poiché è la base dello sviluppo, è necessario che ogni Stato garantisca un approvvigionamento sicuro e continuo. La feroce lotta che Stati Uniti e Cina stanno conducendo per il petrolio africano ma anche per le altre risorse del sottosuolo di questo continente ne è un esempio. Assente dall’Africa 25 anni fa, la Cina è ora il suo terzo partner commerciale dietro Stati Uniti e Francia; per due terzi importa petrolio, ma anche metalli, cotone e pietre preziose.

Guerra economica per risorse scarse

Questa guerra per le risorse naturali è teatro di un’inversione dei rapporti di forza tra i paesi occidentali da un lato e paesi emergenti e / o in via di sviluppo dall’altro. L’ascesa della Cina , dei BRICS, l’ascesa dei fondi sovrani nei paesi arabi esportatori di petrolio lo dimostrerebbero. Nella guerra economica, le risorse sono potenti munizioni. E tutto suggerisce che questo conflitto si intensificherà.

L’Agenzia internazionale dell’energia stima che il fabbisogno energetico aumenterà del 50% entro il 2030, in particolare a causa della crescita indiana e cinese. La ricerca delle materie prime diventerà, infatti, un tema cruciale per gli Stati. Già nel 2007, il Committee on Critical Mineral Impacts on the US Economy ha pubblicato un rapporto in cui elenca undici minerali che sono particolarmente cruciali per l’economia americana a causa della loro scarsità, del loro bisogno nelle industrie ad alta tecnologia … il più ambito, è il rodio, utilizzato in particolare nei convertitori catalitici, e trovato in Russia ma anche in Sud Africa, un alleato molto migliore di Mosca. Metallo raro, è oggi oggetto di lotte in cui Stati e multinazionali combattono fianco a fianco. Garante dell’economia nazionale,

 

Sotto la “scarsità di risorse” compaiono anche le aziende che stanno diventando oggi, più che mai, preda non solo delle controparti private ma anche degli Stati. In quanto tale, la crisi ha facilitato l’ingresso nel capitale di aziende molto grandi dei paesi del sud via i potenti fondi sovrani. I grandi fondi di investimento degli Emirati Arabi Uniti, in particolare Dubai e Abu Dhabi, hanno ampiamente investito a favore della crisi economica in prestigiose società in difficoltà: EADS, AMD, Sony, Citigroup … Il fondo sovrano cinese detiene quanto a lui quasi il 10% di Morgan Stanley. Quanto al fondo Singapore, è entrato allo stesso livello nel capitale di Merril Lynch. Qui troviamo l’idea di rivoluzione nella gerarchia Nord / Sud, cara a Bernard Nadoulek; essere un vincitore nella guerra economica non è dato in eredità. I nuovi arrivati ​​stanno scuotendo la vecchia gerarchia. Si stima generalmente che l’Arabia Saudita sia responsabile del 5% del PIL degli Stati Uniti grazie alla creazione di ricchezza resa possibile dall’uso del petrolio arabo.

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Infine, c’è una merce rara e strategica che costituisce un obiettivo relativamente nuovo della guerra: l’informazione. Ora è importante che le aziende e gli Stati conoscano i loro avversari, il loro esatto livello tecnologico, la loro strategia, al fine di essere in grado di anticiparli. A volte parliamo di guerra cognitiva per designare l’arma principale della guerra economica. Éric Delbecque, specialista in intelligenza economica, afferma che “in un gioco competitivo duro che impone uno stile di gestione strategico reattivo e preciso, anche l’acquisizione di informazioni ad alto valore aggiunto si rivela essenziale per lo sviluppo dell’attività economica. che l’accumulazione di capitale finanziario e il coordinamento delle competenze umane [5] “. Se gli Stati vogliono oggi aiutare le loro imprese a conquistare quote di mercato, devono dotarsi di programmi di intelligence economica, pena il rimanere notevolmente indietro in una forma di lotta che appare sempre più cruciale.

Nel commercio multilaterale, oppositori multilaterali

Il nostro tempo è tessuto di contraddizioni; da un lato, gli Stati tengono un discorso ufficiale sostenendo, a volte con sfumature, un multilateralismo sostenuto dalle principali istituzioni internazionali come l’ONU, l’OMC, il FMI … Dall’altro, tutti vedono chiaramente che gli Stati si stanno sviluppando ragionamenti abbastanza diversi. L’imperativo della solidarietà in campo finanziario, auspicato dal G20, risponde alla necessità di non perdere quote di mercato in un contesto di tensione. Nel pieno della crisi, i Quaderni della Competitività titolava: “Alla conquista dei mercati esteri. Approfitta della globalizzazione e recupera la crescita ”. Inoltre, lo Stato sostiene i suoi imprenditori attraverso Ubifrance, l’Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese, che riporta direttamente alla Segreteria per il commercio estero. Basti dire che la logica mostrata e assunta è proprio quella di una guerra economica.

Uno stato schizofrenico quindi? Diciamo piuttosto uno Stato emerso dalla logica della Guerra Fredda in cui l’appartenenza a un blocco implicava un comportamento almeno benevolo, se non unito, nei confronti dei suoi partner. Spetta a Christian Harbulot aver meglio mostrato questo passaggio dal manicheismo della Guerra Fredda alla guerra economica multilaterale che gli Stati stanno conducendo oggi. Secondo lui, la coppia alleato / avversario ha sostituito quella partner / concorrente. Questa trasformazione di possibili alleanze è accoppiata, secondo Harbulot, con una riorganizzazione del campo dei partner e dei concorrenti in termini geografici. I due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti a tre blocchi: il primo è l’area degradata del mondo occidentale da cui si possono eventualmente estrarre gli Stati Uniti, il secondo è lo spazio di manovra ampliato delle nuove potenze, il terzo, infine, è lo spazio di sopravvivenza di altri paesi. Ciascuno di questi spazi segue strategie di potere molto diverse. Inoltre, i membri di ogni blocco non sono necessariamente alleati come abbiamo appena visto.

Pertanto, qualsiasi affermazione perentoria diventa impossibile. Gli Stati Uniti e la Cina stanno conducendo una guerra implacabile per le risorse dell’Africa. Ma la Cina, attraverso l’acquisto di titoli del Tesoro USA, è il Paese che permette agli Stati Uniti di vivere di credito. Per quanto riguarda gli IDE americani, svolgono un ruolo significativo nella crescita cinese. Un altro esempio, Cina e Taiwan sono nemici politici ma partner economici… Christian Harbulot ha proposto un’immagine della guerra economica mondiale che riproduciamo qui. Fornisce una migliore comprensione delle ragioni e dei problemi che strutturano questo conflitto agli occhi delle persone coinvolte.

Armi e parate di guerra economica

Se la guerra economica è una lotta, si basa sulle armi e sulle parate. Nel contesto di una guerra coperta, un gran numero di strumenti sono utili come armi. Il primo di tutto è senza dubbio l’allenamento; nelle nostre società in costante cambiamento, la formazione iniziale aiuta a creare una forza lavoro o manager preparati al cambiamento.

Allo stesso modo, l’importanza data alla ricerca è fondamentale. Dal 2010 la Cina ha più ricercatori degli Stati Uniti, anche se questi ultimi godono, grazie alla pratica della fuga dei cervelli , delle menti più acute del pianeta. In questo ambito è fondamentale la collaborazione pubblico-privato; negli Stati Uniti, il Bayh-Dole Act del 1980 prevede che i brevetti finanziati con fondi pubblici – da università o centri di ricerca pubblici – siano assegnati principalmente sotto forma di diritti esclusivi a società private americane.

In altre parole, agli occhi degli Stati in guerra economica, la ricerca dei brevetti è davvero un affare nazionale, una garanzia di produttività, un’arma decisiva nella prospettiva di una lotta commerciale tra le nazioni. Questi strumenti si mettono al servizio della competitività, questa capacità di affrontare la concorrenza sui mercati esterni ed interni. Non c’è dubbio in questo campo che l’Agenda 2010 proposta dal Cancelliere Schröder dal 2003 al 2005 abbia restituito alla Germania il vantaggio che le consente di raccogliere favolosi avanzi commerciali, compreso quello del 2013 che, con quasi 200 miliardi di euro, è il più grande mai registrato nella sua storia… a scapito dei suoi vicini europei, Francia compresa.

 

L’ultima arma della guerra coperta si basa sull’intelligence economica. È simile sia a un’arma, a uno stivale segreto – che anticipa il movimento del nemico per sorprenderlo e rubargli la vittoria – ma anche a una tattica di difesa – anticipando un rischio di alleanza, praticando disinformazione, proteggiti dalla concorrenza conoscendo i progressi dei tuoi principali avversari. Gli Stati Uniti sono gli attori principali di questa guerra dell’informazione. Ora sappiamo che la NSA, inizialmente creata in una logica di controspionaggio durante la Guerra Fredda, avrebbe utilizzato la rete Echelon per conoscere la posizione dell’Unione Europea nel 1994 durante i negoziati finali dell’Uruguay Round. Nel 2014, il New York Times ha rivelato che l’Agenzia aveva spiato uno studio legale americano che difendeva un paese straniero in una controversia commerciale con gli Stati Uniti … L’informazione è diventata una delle questioni chiave nella guerra economica .

Dalla guerra coperta alla guerra aperta

Man mano che gli stati passano dalla guerra coperta alla guerra aperta, le armi cambiano. Questi attacchi possono assumere la forma di ritorsioni geoeconomiche in risposta a una crisi geopolitica; questo è attualmente il caso dell’embargo su frutta e verdura tra Unione europea e Russia.

Anche le restrizioni volontarie all’importazione sono simili a misure di ritorsione. Il noto esempio delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti alle auto giapponesi negli anni ’80 testimonia la violenza del conflitto. Di fronte alla crescita delle vendite di auto giapponesi, Washington ha cercato di proteggere i ”  Tre Grandi  “. Piuttosto che procedere unilateralmente, il governo statunitense ha chiesto ai giapponesi di limitare le loro esportazioni. Tokyo ha preferito negoziare questa misura perfettamente anti-liberale piuttosto che correre il rischio di imporre restrizioni ancora più sfavorevoli: questo è l’ accordo di restrizione volontaria del 1980.

Un certo numero di controversie tra Stati portano all’adozione di picchi tariffari come ritorsione; gli Stati Uniti hanno quindi deciso nel gennaio 2009 di triplicare i dazi doganali sul Roquefort in risposta al divieto di esportazione in Europa di carne bovina contenente ormoni. In ognuno di questi casi, il miglior attacco è stato la difesa.

Quando si preoccupano di evitare conflitti frontali, gli Stati preferiscono un approccio alternativo che consiste nel facilitare l’assalto delle loro aziende sui mercati esteri. Per questo il potere politico è l’ardente promotore delle sue imprese. Questa vecchia pratica è stata sistematizzata negli Stati Uniti sotto forma di “diplomazia commerciale”. Ciò si basa su tre principi: preparare il terreno liberalizzando il commercio con il paese di destinazione; utilizzare l’intelligence economica, l’intelligence industriale e commerciale per fornire alle aziende americane tutti i dati sul campo da conquistare; infine, allestire strutture ad hoc come la War room. Questa strategia pubblica offensiva è interamente al servizio delle società private che sono la forza degli Stati Uniti. È nello stesso spirito che Washington sta ora aumentando la firma di trattati bilaterali di libero scambio: con la maggior parte dei paesi dell’America centrale negli anni 2000, con il Marocco nel 2006, la Corea del Sud nel 2010. Ma le due questioni principali che li occupano ora sono il trattato transpacifico da un lato e il trattato transatlantico con l’UE dall’altro.

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Infine, c’è un’ultima arma che, singolarmente, è oggi quasi prerogativa di pochi paesi emergenti: i fondi sovrani. Anche se lo negano, questi fondi prendono piede in gruppi a volte strategici e aiutano a guidare la loro strategia.

Strategie di difesa

Per affrontare questi pericoli, coloro che sono coinvolti nella guerra economica hanno sviluppato politiche simili a scudi o persino contrattacchi. In un contesto in cui le barriere doganali sono storicamente basse, ci sono altri mezzi per preservare il suo mercato: sussidi all’esportazione, standard, favoritismi dati alle aziende nazionali in una forma o nell’altra (pensiamo allo Small Business Act che riserva -United alcuni appalti pubblici alle PMI) … tutti i mezzi sono buoni.

È il caso del denaro, che è stato a lungo e continua ad essere un’arma difensiva nelle mani degli Stati, in particolare sotto forma di svalutazione. Il Regno Unito ci ha fornito un recente esempio dell’uso geoeconomico che si potrebbe fare di una valuta: nel pieno della crisi, Londra si è lasciata sfuggire la sterlina mentre l’euro è rimasto forte. In questo modo, le esportazioni britanniche sono state stimolate. Potremmo riprodurre l’analisi per lo yuan o anche per lo yen in un momento in cui Shinzo Abe ha lanciato una politica di espansionismo monetario.

Per i grandi Stati occidentali si tratta prima di tutto di proteggere i propri mercati in un momento in cui il protezionismo di vecchio tipo è quasi bandito. Per i paesi emergenti, la posta in gioco è diversa: aumentando il numero delle fonti normative (statali, internazionali, private, pubbliche, ecc.), Indeboliscono il sistema giuridico universale progettato dagli Stati dominanti. Paradossalmente, il desiderio di unificare il commercio mondiale ha portato a una frammentazione giuridica di quest’ultimo.

 

Le regole del commercio sono diventate in pochi decenni un campo di battaglia. Ne è testimone l’emergere in Francia della nozione di “patriottismo economico”. Diffusa nel 2005 da Dominique de Villepin, allora Primo Ministro, la dottrina del patriottismo economico si basa sull’idea che spetterebbe allo Stato difendere le aziende considerate appartenenti a settori strategici. In pratica, il successo è misto: se Suez si era sposata con GDF nel 2008 per far fronte a un potenziale acquisto da parte dell’italiana Enel, Arcelor è stata assorbita da Mittal.

Ma colpisce il fatto che l’idea trascenda le divisioni politiche: Arnaud Montebourg, durante il suo breve soggiorno a Bercy, fece adottare un “decreto Alstom” che estendeva il decreto Villepin a nuovi settori, sottoponendo così gli investimenti stranieri in Francia a autorizzazione del governo. Non è esclusa la Germania di Angela Merkel, che ha anche indicato di voler vigilare sugli investimenti di fondi sovrani in società tedesche. Attraverso questi esempi, troviamo il tradizionale antagonismo tra economisti e politici: i primi insistono sul costo economico e sociale della guerra economica e sul protezionismo che essa genera, i secondi sottolineano l’indipendenza e il potere nazionale.

Considerando il pianeta nel 2014, si è tentati di concludere che la guerra ha un futuro radioso; guerra economica, ovviamente, ma anche guerra tradizionale. Forse più grave, è possibile che le guerre economiche di domani degenerino in conflitti armati. Il “dolce mestiere” caro a Montesquieu sembra lontano. Forse più che mai il mondo assomiglia alla descrizione di Nietzsche in The Will to Power  : “Un mare di forze in tempesta e flusso perpetuo, eternamente mutevole, eternamente declinato con giganteschi anni di ritorno regolare. ”

 


  1. Edward Luttwak, Il sogno americano in pericolo , op. cit., p. 40.
  2. Philippe Delmas, The Master of Clocks: Modernity of Public Action , Parigi, Odile Jacob, 1991.
  3. A questo proposito si veda Elie Cohen, La Tentation hexagonale: sovereignty put to test of globalization , Paris, Fayard, 1996.
  4. Bernard Nadoulek, L ‘ É popée des civilisations , Parigi, Eyrolles, 2005. Possiamo anche fare riferimento, dello stesso autore, a “La guerra economica mondiale per il controllo delle risorse naturali”, Géoéconomie , n ° 45, p. 23-32.
  5. Éric Delbecque, Economic Intelligence , Parigi, PUF, 2007, p. 29.    https://www.revueconflits.com/guerre-economique-histoire-mondialisation-entreprises-etats-frederic-munier/

EUROPRONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

EUROPRONI

L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.

Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.

Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.

Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.

Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.

Ma la questione che qui affronto è diversa: per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).

Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.

Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.

Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?

Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.

Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.

Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO DENG, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO DENG

Diceva Deng Tsiao Ping, con un’espressione rimasta famosa, che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi. Con ciò il grande statista, padre dell’attuale potenza (e “sistema) cinese, cui è riuscita la conversione di un immenso paese da una economia agraria (e povera) a una post-industriale, intendeva che, nella scelta e selezione delle classi dirigenti, la capacità di raggiungere gli obiettivi fissati e/o voluti (dall’agente) debba prevalere su quello della conformità ad imperativi – nella specie politico-ideologici – ma potrebbero essere anche a fondamento religioso, estetico o della corrispondenza ad una “causa” (e ai relativi “precetti”) – intesi come superiori e determinanti.

Quando, da tanto tempo, e se in particolare con la pandemia del Covid, si ammira (anche) la capacità della Cina di affrontare con efficacia le conseguenze del virus, le spiegazioni (prevalenti) hanno carattere ideologico: la possibilità di un regime autoritario che comanda senza o pochi limiti – naturali a quelli di sistemi più rispettosi dei diritti individuali. Salvo poi a mettere in guardia contro il consenso all’autoritarismo che ne può derivare. Giustificazione (e preoccupazione) declinata in diverse forme, non esclusa – anzi forse la più ricorrente – del comunismo che, per le proprie istituzioni-tipo (centralismo, gerarchia, assenza di opposizione politica) è ancora (in parte) vivo nel sistema cinese.

Non si può escludere del tutto l’incidenza di tale fattore: anzi occorre concordare che è una componente importante del successo. Tuttavia si pensi a cosa sarebbe successo in Cina se il grande paese fosse stato fermo al comunismo agrario di Mao-Dse-Dong: il Covid avrebbe fatto un’ecatombe o comunque causato una mortalità assai superiore, un po’ come capitato all’India – paese per dimensioni demografiche paragonabili – la cui percentuale di decessi (e contagiati) da Covid è assai peggiore di quella cinese: per cui anche lo sviluppo economico (e di condizioni di vita) dovuto all’abbandono del modello comunista e l’adozione di un “socialismo di mercato” ha avuto conseguenze positive nel contenimento della pandemia.

Senza insistere nell’elencare cause concorrenti (probabili o possibili), occorre considerare quanto può aver inciso la massima – pragmatica e laica di Deng sul modello di sviluppo.

E qua occorre rifarsi a Max Weber. Scriveva il grande sociologo che “come ogni azione anche l’agire sociale può essere determinato” in modo “razionale rispetto allo scopo” ossia da aspettative sul successo rispetto al fine voluto e considerato razionalmente; ovvero “in modo razionale rispetto al valore – dalla credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalle sue conseguenze”; e poi affettivamente (da affetti e da stati attuali del sentire); o tradizionalmente (da un’abitudine acquisita). Pur non potendosi escludere contaminazioni tra i diversi tipi (per cui spesso l’agire è determinato in base sia a valori quanto allo scopo, ovvero razionale rispetto ai valori, ma allo scopo (scelto) per i mezzi da impiegare1.

Tuttavia, sostiene Weber “Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò poiché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore” (il corsivo è mio); il quale di solito è “la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta conformità al dovere”.

Proprio l’attenzione dell’agire razionale rispetto allo scopo ai (probabili) risultati e la valutazione decisiva (per confermarne la congruità) delle conseguenze rende, a un tempo, tale agire più “utile” e più verificabile. Se per giudicare una razionalità rispetto al valore è sufficiente confrontare valori e (intenzioni) dell’agire, nel primo caso sono le conseguenze, il risultato/i concreto/i a misurarne la validità – e quindi l’effettiva razionalità. Per cui una comunità che tenga nella maggiore considerazione – ed orienti le scelte dei dirigenti – in base alla massima di Deng ha una superiore capacità di affrontare la realtà e conseguentemente l’emergenza (cioè la fortuna machiavellica), predisponendo argini, terrapieni e canali per contenerne l’effetto distruttivo.

Dai risultati economici (e non solo) della Cina negli ultimi quarant’anni (dopo la “sterzata” di Deng) risulta che il “criterio del gatto”, evidentemente applicato, ha contribuito all’eccellenza cinese. Dato che a partire dagli anni ’90 è cominciata la stagnazione-recessione dell’Italia, occorre vedere quale dei tipi weberiani dell’agire sociale sia stato qui più praticato (e predicato). Scriveva Weber che “Per agire «sociale» si deve però intendere un agire che sia riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo”; per chiarire quale sia il criterio (prevalente) applicato può dare un notevole aiuto l’immagine e i messaggi comunicati dalla classe politica (più che dalla classe dirigente). I quali prevalentemente sono riconducibili alla “razionalità” rispetto al “valore”. È chiaro che i valori sono, in parte, col tempo cambiati. Un tempo prevalevano bontà, rivoluzione, socialismo, comunismo, resistenza, nazione, potere, cristianesimo, libertà, costituzione (e così via), dopo il crollo del comunismo, buona parte dei “vecchi” sono stati sostituiti dal mercato, dai diritti dell’uomo, dall’ambiente.

È interessante notare come, con qualche eccezione, pur cambiando i valori di riferimento (in particolare a sinistra, più colpita dal crollo del comunismo) l’attitudine (e perfino l’apparenza) a propagandarli sia cambiata – o sia mutata di poco. Tra le rarità (parzialmente) contrarie rispetto alla regola Berlusconi, il quale rivendica per se d’essere l’ “uomo del fare” (anche se, spesso, quel fare era il minimo sindacale).

Tutti (quasi) gli altri, ancor più quelli dell’area sinistra appaiono nel linguaggio, nella mimica e nell’immagine dei predicatori2.

Tali prediche, come scriveva Hobbes sono il mezzo di comunicazione dei sacerdoti i quali hanno il compito di persuadere ed insegnare (la parola di Cristo) ma cui Dio non ha mai dato il potere di costringere, concesso al potere temporale. Questo così ha la responsabilità: a predicare fa bene ma dimezza (almeno) la propria funzione: che è quella di proteggere, anche con la forza.

Diversamente dalla razionalità rispetto allo scopo, quella ai valori si misura sulla conformità della condotta ai valori (indipendentemente dalle conseguenze) e sull’intenzione dell’agente, ossia sulla “purezza di cuore”. È chiaro che con un criterio del genere, ogni profeta disarmato (scriveva Machiavelli), ogni predicatore di successo diventa un buon governante.

Certo si potrebbe notare che spesso su quelle buone intenzioni si sono costruite fortune (economiche), come recita un detto americano sul bene perseguito dai quaccheri. Ma questo è un altro – anche se assai spesso ricorrente – discorso.

Resta il fatto che conformare la propria condotta non al perseguimento degli interessi concreti della comunità, ma ai valori esternati è una buona strada per “trovare la ruina più tanto che la preservazione sua”, predicando una condotta sostanzialmente indifferente al concreto risultato – il bene comune – (concreto) degli individui e dell’insieme sociale. Per cui portarlo a modello diventa la via maestra per la decadenza della comunità: come applicare il detto di Deng inverso.

Il solo predicarlo (prevalentemente) è già un errore, perché induce il pensiero che per ben governare occorre essere buoni (predicatori): a comportarsi di conseguenza si agevola l’emergere di una classe dirigente composta di simil-preti, buoni ma poco utili, con parecchi ipocriti che vi si nascondono. Proprio la categoria che assicura quanto capitato all’Italia, che da trent’anni ristagna. Meglio meno buone intenzioni e prediche, ma più risultati.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Ovvero, come scrive Weber: “individuo che agisce può – prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di «imperativi» e di «esigenze» – disporre gli scopi concorrenti e contrastanti, considerati” per cui “di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione principio dell’«unità marginale»” Wirtschaft und Gesellshaft trad. it. Economia e società, vol. I, Milano 1980, p. 23.

2 D’altra parte già un secolo orsono il Presidente Wilson, con la sua insistenza sui principi da applicare nella pace di Versailles appariva a un acuto economista come J. M. Keynes un “predicatore presbiteriano”; quando Keynes descrive Wilson è palese – riportandolo alla pagina di Weber sui “tipi ideali” dell’agire – che non aveva coordinato scopo e mezzi. Perché sostiene Keynes “non aveva nessun piano, nessun progetto, non idee costruttive di sorta per rivestire di carne viva i comandamenti che aveva tuonato dalla Casa Bianca. Avrebbe potuto fare un sermone su ognuno di essi o rivolgere all’Onnipotente una solenne preghiera per il loro adempimento; ma non era in grado di formulare la loro concreta applicazione allo stato effettivo dell’Europa”, v. ora trad. it. in J. M. Keynes Sono un liberale?, Milano 2010, p. 43.

Soft power: attrazione e manipolazione _ Di François-Bernard Huygue

La nozione di soft power evoca dolcezza, assenza di costrizioni, seduzione. Tuttavia, se vediamo in esso il potere di modificare la volontà degli altri, è un passo strategico tanto quanto l’ hard power . Si tratta di conquistare “cuori e menti” con tutti i mezzi. Il soft power , l’effetto e l’opinione, si trova da qualche parte tra l’attrazione e la manipolazione.


 

Se siamo d’accordo sul fatto che il potere si acquisisce o aumenta lavorando contro o eliminando la concorrenza, considera il soft power come una forma lieve di propaganda e di formattazione delle menti, che non è tutto la definizione data da Nye. In particolare come l’estensione, dopo la caduta del Muro, della “diplomazia pubblica” della Guerra Fredda che avrebbe propagato, soprattutto verso l’Oriente, una cultura e un’informazione capaci di sovvertire la rigida ideologia marxista.

 

Il contenuto e il vettore

Da una prospettiva persuasiva, la prima idea è inviare un messaggio convincente ai suoi destinatari stranieri, anche se significa acquisire i media per questo. Chiamiamola strategia di contenuto e vettoriale. Questo è ciò che hanno fatto gli Stati Uniti creando radio multilingue come Voice of America o Radio Liberty, le cui onde radio hanno attraversato il Muro per combattere l’ideologia sovietica . Oggi il Global Engagement Center svolge più o meno la stessa funzione di azione contro-narrativa e psicologica, prima contro il jihadismo e poi contro la propaganda russa. Il messaggio strettamente politico è tanto più efficace quando è combinato con la popolarità dei prodotti culturali ” tradizionali “.  “, Quelli che piacciono a tutti, come i blockbuster del cinema o la musica” giovane “che seduce oltre i suoi confini. Secondo la formula 2H / 2M (Harvard e Hollywood, McDonald’s e Microsoft), l’eccellenza accademica e tecnologica completa il consumo culturale quotidiano per dare la migliore immagine.

Oltre al messaggio e ai media, l’influenza richiede relè e codici. Si tratta quindi di favorire i gruppi e le istituzioni che a loro volta promuoveranno i vostri valori e le vostre idee, per scommettere su persone, standard o comportamenti al servizio a priori dei vostri obiettivi. E se possibile formattare fonti di informazione prestigiose e credibili. Per imporre il suo “software” insomma.

Pertanto la classifica annuale dei paesi, ”  The Soft Power 30  ” (Portland public diplomacy center), classifica i paesi in base a criteri oggettivi (relativi a società, digitalizzazione, società, livello di istruzione, ecc.). ) ma anche soggettiva, misurata da sondaggi in 25 paesi: buona opinione su cultura, cucina, politica estera, ecc. Sorpresa, è la Francia ad essere la numero 1 nel 2017. Tuttavia, precisa lo studio, ciò è in gran parte dovuto alla sconfitta del Fronte nazionale, all’elezione di Macron e alla probabilità di riforme ”  pro-business e pro. -USA  “. Quindi ad un’immagine aperta e moderna tipica della visione occidentale dominante in contrasto con quella degli Stati Uniti appesantita dall’elezione di Trump, La Francia in qualche modo incarna l’ideale americano meglio dell’America “piegata”.

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Le armi del soft power

In generale, i criteri di ranking internazionale, quelli delle università o delle riviste, dei ristoranti o dei film, la predominanza di una modalità gestionale o contabile, la tendenza ad adottare sistemi di  common law(una legge anglosassone in cui prevarranno giurisprudenza e contrattuale), tutto ciò contribuisce, se non a servire direttamente gli interessi americani, almeno a unificare le abitudini mentali delle classi superiori, già favorevoli alla globalizzazione occidentale. Ciò può essere integrato in modo più deliberato portando le élite nelle sue università o individuando elementi promettenti della futura arena internazionale e familiarizzando con il suo sistema. In quest’area, la Francia, il paese per eccellenza della diplomazia culturale che ha inventato l’Alliance Française, per propagare la nostra lingua e la nostra influenza culturale tra le élite straniere dal 1884, difficilmente può obiettare.

Mentre gli individui ei loro codici mentali possono trasmettere l’influenza di un paese, le organizzazioni – società di comunicazioni o gruppi di cittadini – lo fanno con professionalità. Esistono generalmente tre metodi principali: agire principalmente diffondendo idee (il modello del think tank ), inviando un messaggio persuasivo e difendendo gli interessi con i leader (questo è il lavoro delle lobby ) o con l’opinione pubblica in generale (agenzie pubbliche relazioni o spin doctor ). Infine, le organizzazioni non governative senza scopo di lucro (a differenza delle lobbye agenzie), dovrebbero riunire la buona volontà: agiscono positivamente per promuovere cause e realizzare azioni concrete; possono anche agire negativamente denunciando e combattendo aziende o governi. O anche sostenendo “rivoluzioni di colore”.

 

La patria delle armi di influenza di massa

Queste tre secolari forme di organizzazioni di influenza, anche se non furono inventate dall’altra parte dell’Atlantico, vi fiorirono molto presto, aiutate dal sistema amministrativo. Corrispondono a una predisposizione culturale a far pesare iniziative private sul processo decisionale politico sia internamente che esternamente. Quindi il fatto che ci siano diverse centinaia di think tank negli USA, la maggior parte a Washington, molti con budget di milioni di dollari, mostra il posto di un’istituzione di analisi e orientamento perfettamente integrata. Si è distinta con nomi come Rand , Brookings Institute , Council of Foreign Relations , Carnegie , Heritage…, Fornendo categorie intellettuali e suggerimenti quale all’esercito, quale ai partiti, quale all’amministrazione, quale alle élite internazionali.

Per quanto riguarda le lobby , protette dal Secondo Emendamento, fioriscono negli Stati Uniti dove hanno un’esistenza legale e sono registrate. Si ammette anche che la Corea del Sud o l’ Arabia Saudita hanno la loro a Washington, o che dozzine di lobbisti americani vanno a Bruxelles. Sotto l’etichetta di pubbliche relazioni (un termine la cui paternità andrebbe a Bernays, vedi riquadro), di “comunicazione d’influenza” o “affari pubblici”, anche sciami di farmacie specializzate nella “vendita” di cause politiche, compresa la guerra. Ciò è particolarmente vero per quelle che sono state chiamate “guerre di scelta”, interventi esterni che rispondono a una preoccupazione “morale”.

Senza tornare a prima della caduta del muro, è da più di un quarto di secolo che i conflitti ispirati (in teoria) dalla sola preoccupazione dei diritti umani, sono stati preceduti da una campagna di giustificazione – e quindi di demonizzazione del avversario designato come quello dell’umanità. È affidato a professionisti. A seconda del periodo, per contratti del valore di milioni di dollari con l’esercito statunitense o con oppositori o governi in esilio kuwaitiani, bosniaci, afgani, iracheni, kosovari …, sarà il Rendon Group, Hill & Knowlton , Karl Rove o Alastair Campbell (rispettivamente spin doctordi GW Bush e Tony Blair). E a seconda dell’epoca, l’opinione internazionale crederà che l’esercito di Saddam sia il quarto al mondo (e che scolleghi gli incubatori a Kuwait City), che Milosevic abbia aperto campi di concentramento, che il Kosovo sia pieno di fosse comuni. Albanesi, che Saddam è a poche settimane dall’avere la bomba atomica e altre armi di distruzione di massa … Allo stesso modo, questi spin doctor forniranno aiuti ai governi alleati in tempo elettorale come l’Iraq, progetterà strumenti di lotta ideologica per la deradicalizzazione dei jihadisti o, più sottilmente, come l’agenzia britannica Bell Potinger, girerà falsi filmati islamici per il Pentagono (un conto di milioni di dollari).

Quanto alle ONG, con il doppio vantaggio della loro presenza sul campo e della rispettabilità morale, si prestano a potenti effetti leva. Già nel 1961, USAID ( Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale ), che avrebbe dovuto combattere la povertà, aiutare le popolazioni e promuovere la democrazia e lo sviluppo economico, e finanziare le ONG, è noto come uno strumento per contrastare l’influenza sovietica. Le finanze di USAID in particolare (parallelamente alle più grandi società statunitensi) fanno leva su fondazioni come il famoso National Endowment for Democracy che guida azioni per esportare la democrazia liberale.

La Freedom House , una ONG fondata durante la seconda guerra mondiale e finanziata dal governo federale e da varie fondazioni, che stabilisce classifiche di libertà nel mondo e aiuta movimenti e governi nel rispetto dei diritti civili, è un altro buon esempio, lei afferma che ”  il dominio dell’America negli affari internazionali è essenziale per la causa dei diritti umani e della libertà  “.

In un altro registro, ONG come UANI ( United Against a Nuclear Iran ) possono essere strumenti di pressione (per timore in particolare di denunce pubbliche) contro aziende non americane tentate di commerciare con Teheran.

Quello che c’è in comune tra tutte le forme di influenza, che implicano tutte la diffusione di informazioni sugli eventi e la loro interpretazione, è che riflettono le relazioni tra interessi nazionali (come evidenziato da compresi i finanziamenti pubblici diretti o indiretti) e le convinzioni. Queste – certamente sincere con molti – riguardano l’eccezione americana o, se si preferisce, l’identificazione delle tradizioni politiche ed economiche di un Paese dai valori universali che è naturale esportare come conforme. alla profonda tendenza delle società umane.

 

Il mezzo è più importante del messaggio?

Il soft power si manifesta in modo più sottile anche dal suo rapporto con la tecnologia dell’informazione sia oggettivamente favorevole alla prima società mondiale dell’informazione sia soggettivamente pensieri come vettori di influenza di questa azienda.

Negli anni ’80, il dibattito sul Nuovo Ordine Mondiale dell’Informazione e della Comunicazione (Nomic) contrappone l’America di Reagan e l’Unesco sostenuti da paesi che lamentano che le informazioni sono prodotte principalmente da agenzie situate negli stati sviluppati e privilegiando il loro punto di vista.

Negli anni ’90, subito dopo la caduta del Muro (che alcuni attribuiranno in parte all’effetto vetrina della televisione della Germania occidentale ricevuta nella DDR), il predominio della CNN – ad esempio il suo monopolio virtuale delle immagini nella prima guerra du Golfe: è ovvio. Un canale satellitare privato fornisce le informazioni al mondo, o almeno ai decisori, e questo ovviamente riflette una visione molto americana di una globalizzazione felice.

Negli anni 2000, Internet, con la sua immaginazione della nuova società digitale e del mondo, era soggetta agli standard tecnici americani, ma questi sembravano trasmettere una visione altrettanto americana del mondo, un misto di ottimismo tecnologico e liberalismo culturale.

Negli anni 2010, soprattutto con la Primavera araba, la convinzione che i social network, impossibili da censurare e favorevoli alle mobilitazioni democratiche, fossero destinati a superare le dittature e promuovere un modello aperto è ampiamente sostenuta attraverso l’Atlantico.

Naturalmente queste tesi saranno spesso contraddette dai fatti: l’apparizione di canali globali non americani come Al Jazeera, la chiusura di alcuni paesi per “balcanizzazione” della Rete, la scoperta che i social network trasmettono anche influenze non americane e discorso populista. Resta il fatto, tuttavia, che l’idea – ampiamente anticipata da Mc Luhan – che i media contino più del messaggio e che una forma di comunicazione porti con sé una forma di rappresentazione della realtà è perfettamente integrata nella politica di influenza americana. Un esempio tra cento: gli Stati Uniti finanziano un equivalente cubano di Twitter, Zunzuneo, nella speranza che uno spazio libero di discussione sollevi automaticamente proteste e faccia cadere il regime, cosa che non è avvenuta.

 

Contro il soft power , il soft power

Né i dollari che finanzierebbero tutto, comprese le rivoluzioni, né le azioni della CIA che si infiltrerebbero in ogni cosa sono spiegazioni sufficienti per l’efficacia del soft power americano: “soft power” non dovrebbe essere usato come un eufemismo chic per cospirazione. Ma non è nemmeno oggetto di un naturale consenso di popoli che, ben informati, aderirebbero a qualsiasi senso della storia. Che si tratti di rovesciare un governo o di formare le élite di un paese, il metodo soft funziona solo dove c’è un vuoto o una contraddizione. L’ascesa di strategie di influenza russa, cinese, indiana … ne è una dimostrazione a contrario . : Il conflitto di valori e visioni del mondo non è stato eliminato a beneficio degli Stati Uniti, né dalle immagini “giuste” né dal consenso online di una società civile planetaria e aperta.

Dopo aver eletto un presidente che è tutt’altro che morbido (almeno a parole), gli Stati Uniti hanno scoperto che questo processo non stava raggiungendo la metà della loro popolazione. È ironico vedere la spiegazione che la signora Clinton, proclamata discepola di Nye, trae da essa: colpa dell’influenza russa attraverso il cyberspazio e i social network populisti che diffondono fake news (e quindi unanimemente ribelle dai media ed élite). Come tutti gli altri, il soft power genera la propria debolezza.

https://www.revueconflits.com/soft-power-influence-strategie-propagande-huygues/

INIMICIZIA, CONFLITTO E BLOCCO SOCIALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

INIMICIZIA, CONFLITTO E BLOCCO SOCIALE

1. In relazione all’esito delle elezioni presidenziali americane è stata ripetuta la tesi – formulata oltre vent’anni fa da Christopher Lasch – che le élite dirigenti sono vieppiù separate dal popolo; e che queste non riescono a comprenderlo, né a capire le ragioni per cui ciò è avvenuto, né perché il tutto permane. La frattura ormai è consolidata: il giudizio, condiviso da tanti, che Trump ha perso le elezioni ma il trumpismo è quanto mai in buona salute (a differenza di quanto avviene per altri movimenti populisti – come i 5 Stelle) lo corrobora.

La tesi di Lasch (e di altri) è essenzialmente sovrastrutturale, e cioè relativa a differenze nei modi di pensare, negli stili di vita, nei valori di riferimento della classe dirigente e del popolo, più che strutturale, cioè dipendente dai rapporti di produzione o economici in genere. Il che caduca comunque la distinzione marxiana della lotta di classe nell’età capitalista come conflitto economico tra proletariato e borghesia.

Se comunque è condivisibile la tesi della caducazione/neutralizzazione della lotta borghesia/proletariato come distinzione politica prevalente nel “secolo breve”(ora non più)1 occorre vedere se, nell’attuale contrapposizione emersa (e in parte emergente) globalisti/populisti ci sia un conflitto d’interessi economici che se non determina, rafforza ed enfatizza un contrasto cui concorrono vari elementi sovrastrutturali di guisa da trasformarlo – congiuntamente – in discriminante politica prevalente.

2. Scriveva Berlinguer in un noto saggio, di poco successivo al golpe di Pinochet contro il Presidente Allende che “tra proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio»” e che “per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica” (il corsivo è mio); ne deduceva la necessità di una strategia di alleanze (con i ceti medi): “la strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia di alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno”. La politica di alleanze inizia con la ricerca di punti di convergenza tra la classe operaia e le altre forze sociali “di modo da non sospingere in posizione di ostilità vasti strati di ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione… Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari” (i corsivi sono miei). Concludeva con la proposta del “compromesso storico” e il rifiuto di un’alternativa di sinistra.

3. In quel saggio del segretario del PCI oltre a Marx c’è tanto altro, Gramsci soprattutto, con la sua teoria del blocco storico e dell’egemonia, esercitata attraverso la direzione ideale e il consenso che la classe dirigente riscuote, e non solo nel potere praticato attraverso gli apparati coercitivi statali. Quanto al blocco storico (maggioritario) questo è il sistema di alleanze sociali della classe operaia che guarda, nello specifico della situazione italiana (di allora), ai contadini del Nord e del Sud. Il proletariato, scriveva Gramsci «può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle masse contadine»”. Tale blocco storico (operai del nord – contadini del sud) era speculare a quello dirigente, composto da industriali del nord ed agrari del Mezzogiorno. Per Gramsci il blocco storico è collegato alla concezione del Partito come “moderno Principe” e (ancor di più) alla funzione dell’intellettuale organico, peraltro di difficoltosa applicazione alla situazione italiana contemporanea, caratterizzata da partiti sicuramente più leggeri di quello bolscevico (e anche del Partito comunista di Gramsci); e neppure giovantesi dell’opera di intellettuali organici (semmai di non – o poco – intellettuali e neppure tanto organici). Tuttavia appare abbastanza coeso un “blocco sociale” o almeno socio-politico di orientamento sovran-popul-identitario, largamente maggioritario, che perdura ed ha una continuità a dispetto delle vicende e degli insistenti tentativi – interni ed anche internazionali – di dividerlo, così da ridurne la capacità d’incidenza.

4. Il tutto è evidente da quanto capitato negli ultimi decenni in Italia. Dopo il risultato delle politiche del 2018, i partiti che esprimevano le aspirazioni dei gruppi sociali riconducibili al “blocco” (grillini, leghisti e Fratelli d’Italia)2 hanno avuto un elettorato costante e fidelizzato più che al singolo partito, all’insieme di appartenenza. Se le somme dei tre “attori” principali – ancorché qualche punto in più lo si ottiene sommando le liste minori – era alle politiche 2018 di circa il 55%, alle europee del 2019 del 57,5%, mentre nelle successive elezioni regionali e sondaggi è all’incirca pari alle europee, il totale complessivo è costante, anzi in lieve aumento. Accompagnato, negli ultimi sondaggi, da un trasferimento di gradimento dalla Lega e dal M5S a Fratelli d’Italia, ormai oltre il 16%3. Consegue da questi dati che la base sociale dei partiti “populisti” è fluida al loro interno, ma solida verso l’esterno. D’altra parte a fare la somma dei partiti globalisti, cioè essenzialmente PD + LEU+ FI e minori, la somma non oltrepassa mai un terzo (abbondante) dell’elettorato: anch’essa è relativamente stabile, attestata su un’inferiorità di almeno 20 punti percentuali rispetto agli avversari.

In questa situazione, la mossa di far nascere il Conte-bis staccando il M5S dall’alleanza è, come ho ripetuto, l’applicazione di una delle regole fondamentali della politica: dividere gli avversari. Da sempre praticata, dal divide et impera dei romani al “mai la guerra su due fronti” del Quartiere generale tedesco del secolo scorso4.

Tuttavia, anche in tal caso, la persistenza dello schieramento anti-establishment è continuata, con: a) il progressivo svuotamento del M5S a favore dei partiti affini più coerenti nella contrapposizione all’establishment b) nelle difficoltà del governo, almeno a prendere decisioni incidenti sul crinale discriminatorio (v. MES e “aiuti europei”). Né cambia molto che, attualmente, Lega e Fratelli d’Italia siano alleati di un partito disomogeneo allo schieramento populisti versus globalisti come FI, perché il di esso ridimensionamento costante e progressivo lo rende meno rilevante, nè è facile per Berlusconi, indicato per un ventennio come l’arcidiavolo dalla sinistra (ora sostituito, nel ruolo, da Salvini), raggiungere un accordo con gli storici avversari5.

È interessante, anche in rapporto a situazioni non dissimili di altri paesi occidentali, chiedersi le ragioni di tale persistenza e in che misura rifletta la differenziazione economico-sociale tra i rispettivi elettorati.

5. Mi è capitato più volte di notare come, dopo il crollo del comunismo, il discrimine politico, nel senso della distinzione amico-nemico, era passato da quello marxiano (nel secolo breve) cioè borghesia/proletariato a un altro, non percepito come economico – almeno in gran parte – ma socio-culturale, come anticipato da Lasch. Tuttavia, senza trascurare i voti degli operai bianchi americani, (passati, secondo quanto si legge, da un voto – in maggioranza – ai democratici a quello a Trump – v. risultati negli Stati della Rustbelt) la “crescita” economica italiana, successiva al crollo del comunismo, è stata la peggiore dell’area UE come dell’area euro.

Il ristagno dei redditi, delle aspettative di vita (e molto spesso la loro riduzione), politiche economiche volte a favorire il capitale (finanziario, in primo luogo), il trasferimento di capitali, l’importazione di manodopera a basso costo (le migrazioni), la delocalizzazione, l’aumento (e la distribuzione) degli oneri fiscali ha provocato, in Italia (e non solo, ma soprattutto) una serie di cambiamenti nell’ultimo trentennio i quali, negli aspetti più rilevanti sono: elevato tasso di disoccupazione, incremento della pressione fiscale (e para-fiscale), peggiore distribuzione della stessa, contrazioni delle prestazioni previdenziali e assistenziali, oltre alla consueta scarsa efficienza dell’apparato amministrativo.

In gran parte dovute a scelte che colpiscono soprattutto (o soltanto) i ceti medi e gli strati popolari (ossia a basso reddito)6.

E il tutto evidentemente, non è molto distante da quanto praticato in altri paesi, se la tesi che le élite dirigenti in occidente hanno “tosato” i ceti medi e popolari è stata, in modo non tanto dissimile espresso da molti: dal filosofo spagnolo Dalmacio Negro Pavon, il quale ha affermato come la crisi economica, successiva al 2008 è stata fatta pagare ai ceti medi, al socialista proudhoniano francese Jean Claude Michéa, per il quale (come per molti altri) sono stati i “perdenti della globalizzazione”, ossia quell’80-90% della comunità che non fa parte delle élite né del loro seguito sociale a sostenere il costo.

6. In Italia abbiamo avuto la sfortuna del governo Monti, il cui pregio maggiore è di aver svolto la politica più coerente nell’accollare ai “perdenti della globalizzazione” gli oneri, senza peraltro riuscire ad avviare una ripresa, anzi, peggiorando il deficit (e così facendo da levatrice all’alternativa).

Restano i fatti: l’IMU – con gettito quasi triplicato rispetto all’ICI – colpisce gran parte della popolazione, essendo gli italiani – a leggere le statistiche – all’80% proprietari di casa; le pensioni “d’oro” e “d’argento”, così sono denominate rispettivamente, le pensioni superiori agli € 2.500 e a € 1.300,00 (netti) mensili, sono bloccate o semi-bloccate da ormai 8 anni, a carico quindi dei ceti medi (e non solo); l’aumento del prelievo fiscale che all’epoca del governo “tecnico” raggiunse il livello più alto; la legislazione volta a dilazionare i pagamenti pubblici (questa e il precedente praticati anche da gran parte dei governi della “seconda repubblica”) il c.d. “rigore” che riduceva, oltre alla possibilità di ripresa anche l’occupazione. E si potrebbe continuare con molto altro, praticato da Monti (e, in misura minore, dai governi successivi)7 ispirato dalla medesima filosofia. Il tutto condito dalle consuete litanie o meglio, paretianamente – derivazioni – (ce lo chiede l’Europa…così fan tutti, ecc. ecc.), una delle quali è – in particolare – rivelatrice dell’espediente tattico d’indicare ai contribuenti il nemico cui addebitare il prelievo: l’evasione fiscale. Pertanto attribuita, dai salmodianti (al servizio delle élite) ai lavoratori autonomi. Così il nemico, il rapace predatore non è l’esattore, ma l’idraulico, il ragioniere, il geometra, il medico. Manifesto artifizio volto a dividere l’opposizione sociale e politica e a sterilizzarnene preventivamente la resistenza.

Di fronte a ciò le misure economiche del governo Conte 1 costituivano – anche se nella durata breve di tale esecutivo – un limitato, quanto deciso cambio di direzione. Le modifiche alla legge Fornero e l’aumento della soglia del prelievo forfettario ai lavoratori autonomi hanno dato un sollievo ai ceti medi (e non solo); il reddito di cittadinanza a quelli più disagiati come i disoccupati. Tutti tartassati o trascurati dai governi precedenti, e in qualche misura, rappresentati dalle due componenti del governo; Lega e M5S.

E preconizzava così un nuovo “blocco storico” al governo, fondato sull’alleanza tra classe media e ceti popolari. Data la dimensione di tali gruppi sociali, la maggioranza elettorale era (ed è tuttora) assicurata. Di qui l’esigenza vitale di dividerli e la nascita del Conte 2.

7. Le vicende successive – in cui un ruolo perturbatore è stato svolto dalla pandemia – stanno dimostrando tuttavia che, sia pure riuscito il processo di divisione al vertice, non lo è altrettanto alla base. L’elettorato sta semplicemente trasmigrando dai grillini agli anti-establishment più conseguenti. L’opposizione politica e sociale alle élite non demorde e nemmeno si attenua. I provvedimenti (spesso discriminatori) presi dal governo PD-grillini, a quanto pare, la stanno attizzando.

Il carattere discriminatorio degli – effettuati ed annunciati – “ristori” relativamente protettivi per i lavoratori dipendenti, molto meno per le imprese (termine che ricorre con preoccupante frequenza nelle dichiarazioni al miele dei politici), e quasi nulli per i lavoratori autonomi (che spesso sono piccole imprese) conferma l’espediente di dividere il blocco sociale; ma come detto, almeno finora, al culmine della “seconda ondata” del Covid, pare non riuscito. Anzi è socialmente diffusa una diffidenza e crescente insofferenza, rappresentata dalla stampa mainstream come (addirittura) negazionista (della pandemia, del virus, ecc. ecc.), ma in effetti rivolti contro le insufficienti misure – perché a carattere non generale, più che economicamente insufficienti. Si aggiunge a ciò che, per alcune categorie il ristoro è pieno (o quasi); anzi tenuto conto della pratica dello smart-working la prestazione lavorativa è così ridotta e/o più comoda8; pertanto a parità di retribuzione, il lavoro prestato è minore.

8. È comunque evidente che, a con-causare la contrapposizione, è anche un conflitto economico-sociale9. Conflitto antico, almeno quanto quelli enumerati nell’apertura del “Manifesto” di Marx ed Engels, e spesso considerato in epoca moderna, dai pensatori italiani (e non solo): quello di appropriazione delle risorse tra governanti e governati10.

All’uopo è utile ricordare che studiosi italiani di scienze delle finanze da Pantaleoni in poi distinguono i rapporti economici tra governanti e governati in tre categorie: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i governati sono sottomessi e sfruttati al fine di procurare durevole vantaggio a favore della élite dirigente e delle categorie da questa preferite); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile, in particolare “a breve periodo”), laddove l’appropriazione delle risorse è sregolata e soprattutto depressiva della ricchezza della comunità.

Nella c.d. “seconda repubblica”, le cui forze politiche prevalenti sono quelle ora in costante diminuzione elettorale, l’andamento è stato predatorio più che parassitario. L’aumento fiscale rispetto al PIL è stato tra i più alti in Europa ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%); nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%11. Nello stesso periodo l’aumento del reddito individuale degli italiani è stato mediamente dello0,3% l’anno, ma è crollato dopo il 2008, aiutato nella discesa dalle politiche “rigorose” del governo Monti (e successive).

Dalla persistenza e dalla irreversibilità da ciò derivano due conseguenze: dalla stagnazione/recessione che il reddito degli italiani è stabilmente in calo; all’altra che il prelievo fiscale è, altrettanto stabilmente in aumento.

La somma di tali risultati è che gli italiani – salvo minoranze privilegiate – sono più poveri12. Il rapporto debito/PIL che sarebbe stato il motivo per le politiche rigorose poi è sempre in aumento, ad onta della scienza e tecnica profuse per ridurlo.

Tanto e durevole sconquasso non poteva sfuggire alla maggioranza degli italiani malgrado gli sforzi fatti per nasconderlo o edulcorarlo, sviando così l’attenzione. Piuttosto, di fronte all’argomento decisivo dei governi di centro-sinistra che i lavoratori autonomi evadono di più (paghiamone meno, paghiamole tutti) pare che gli italiani, sospettino che se grandi imprese nate e cresciute in Italia mettono la sede in Olanda, qualche beneficio societario e fiscale lo dovrebbero avere, altrimenti sarebbero amministrate da minus habentes. Ma un beneficio legale a favore di colossi economici a quante evasioni di “partite IVA” corrisponde? A qualche centinaia di migliaia cadauno?13. Non è da escludere che l’elusione fiscale di grandi imprese sia pari a centinaia di migliaia di contribuenti. E che l’aumento delle imposte e l’istituzione di nuove sia dovuta – anche – a ciò.

9. Ciò stante occorre, per concludere, chiarire la “natura” del conflitto, e non solo delle cause – plurime – che l’hanno indotta e alimentata.

Miglio sosteneva che il concetto marxista di classe è di limitata utilità per spiegare il conflitto politico14. Con un giudizio che ricorda Gramsci (oltre Hegel) scrive “La verità è che una classe diventa traente – qui uso il concetto in senso hegeliano – una classe diventa ‘generale’ in un processo storico, quando riesce a trascinare anche le altre”15; e le classi sociali “sono protagonisti ‘occasionali’ della storia. Di fatto, protagonista della storia è invece soltanto la classe politica, con le sue frazioni e il loro continuo alternarsi… le classi economico-sociali contano in quanto diventano seguito di frazioni di classe politica e operano nella storia essenzialmente come seguiti di classe politica”16; ma la classe sociale, non è tanto costituita dall’appartenenza a un gruppo (imprenditori, operai, redditieri, ecc. ecc.) ma dalla rappresentazione da parte dei componenti dell’appartenenza stessa, ossia “l’autoascrizione e la consapevolezza, in cui giuoca l’elemento politico dell’identificazione”. Se si sviluppano queste valutazioni di Miglio a determinare il blocco storico è principalmente e politicamente la condivisione del nemico, interno ed esterno17.

Per l’Italia del XXI secolo, le élite della seconda repubblica hanno, con le loro politiche, alimentato l’ostilità (a loro) di vasti strati sociali – largamente maggioritari – come sopra (brevemente) ricordato. Con l’emergenza Covid il tutto è peggiorato: basti notare che, se altre categorie sono state appena toccate (gli impiegati pubblici); altre relativamente protette (i dipendenti privati); altre ancora risarcite al minimo come i lavoratori autonomi18, infine taluni – qualche trascurabile milione di cittadini – non ha ricevuto né riceverà nulla (neanche le mascherine gratuite). É significativo notare poi che per le categorie più trascurate, si provveda non a cali d’imposte, ma a rinvii per pagare le medesime. Come a dire che comunque i gruppi sociali alimentati dall’apparato pubblico (tax-consommers) e che non sono solo i dipendenti, ma, soprattutto, i beneficiati dalle spese, devono essere salvaguardati al meglio (ossia, in realtà, alla meno peggio); gli altri assai meno, e, talvolta, niente.

In questa situazione di crisi nella crisi e (in parte conseguente alla stessa) di contrapposizione occorre concludere se si tratti di un conflitto concausale (politico – economico – culturale) o di altro in che misura sia componibile (istituzionalizzabile).

Quanto al primo quesito, il conflitto populisti/globalisti è concausale – cioè a cause plurime. Resta comunque evidente che è politico, coinvolgendo essenzialmente e complessivamente situazioni di tale natura (e intensità). Ad esempio: la stagnazione e poi la contrazione del PIL e del reddito individuale negli ultimi trent’anni in Italia è un fatto non soltanto economico, perché se, come sosteneva Miglio, l’oggetto dell’obbligazione politica e la garanzia del futuro19, a lungo andare di futuro per la comunità e gli individui non ce ne sarà o sarà un futuro di miseria ed asservimento.

Analogamente può dirsi per il calo demografico mutatis mutandis; in prospettiva si vede la fine dell’esistenza comunitaria. Se la politica è soprattutto un’attività di garanzia dell’esistenza e lo scambio politico, come scriveva Hobbes è tra protezione (dei governanti) e obbedienza (dei governati) l’affare è a perdere. Così per i modi di esistenza e gli stili di vita, che coinvolgono la cultura, già attentamente evidenziato non solo da Lasch, ma anche da qualche film italiano (negli aspetti di costume).

Il fatto che la distinzione amico-nemico sia originata da una pluralità di cause concorrenti, non la depotenzia, ma semmai la rafforza. Se il nemico è non solo colui che mi opprime e/o mi minaccia, ma anche mi sfrutta economicamente, sottraendo risorse, e pretende di farlo perché ha la laurea e sa come ci si comporta in società, il senso di alterità e di contrapposizione è potenziato20.

D’altra parte la politicità e la robustezza della contrapposizione nell’aver cementato gruppi sociali differenti è data dalla di essa solidità, a scapito (e a differenza) dei movimenti politici che la rappresentano e la organizzano. La sorte del movimento 5 stelle è emblematica: ha perso circa metà dei propri voti, quasi tutti a favore della LEGA, con il governo Conte 1, perché Salvini si è dimostrato assai più determinato, energico e coerente nel combattere il nemico e perseguire obiettivi condivisi; col governo Conte 2, originato da un ribaltone con il principale partito globalista, ne ha perso almeno un altro terzo abbondante (v. risultati elezioni regionali e locali). Già si legge che il M5S sarà non la nuova DC (come taluno credeva 2-3 anni orsono) ma il prossimo Partito radicale (soprattutto per le dimensioni).

In qualche misura questa indifferenza tra comportamento della base sociale rispetto alla (propria) rappresentanza politica da alla prima una coerenza e persistenza che ne fa un soggetto (movimento sociale) autonomo il quale (diversamente dal blocco storico di Gramsci) prescinde dalla (propria) istituzionalizzazione (in strutture sia politiche-partitiche che statali).

Probabilmente questa solidità della base sociale è stata prodotta più dalla comunanza dell’avversario che dal resto; d’altra parte l’effetto unificante del nemico su un gruppo sociale è cosa risaputa da Eschilo in poi. Per questo appare di efficacia assai modesta e non risolutiva il modello di reazione praticato dagli avversari, connotato dal personalismo e dalla divagazione (varia, morale come estetica, etico-legalitaria come di costume ecc. ecc.); anche se la manovra può riuscire con Salvini (come con altri da Berlusconi a Trump), non risolve il problema, essenzialmente politico. In sostanza perché morto un populista, il movimento sociale ne genera un altro. E l’opposizione continua.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Su cui, per esposizione più dettagliata mi sia consentito rinviare ai miei scritti… Identitari e globalisti (Italia e il mondo); Sentimento ostile, Zentragebiet y criterio de lo politico, in Ciudad de los Césares n. 110 (2017), entrambi in rete.

2 Quest’ultimo, geneticamente non di matrice populista, appare però sicuramente contrapposto alle élite in declino – v. seguito.

3 I sondaggi – tutti – lasciano spesso perplessi, specie negli ultimi decenni, per la costante tendenza a sottovalutare i partiti poco graditi alle élite e sopravvalutare quelli ortodossi (non solo in Italia). Dato il cambio di maggioranza col governo Conte bis, i grillini sono stati trasferiti: da nemici a quasi amici. L’attribuzione a loro negli ultimi sondaggi del 15% dei suffragi, quando alle elezioni regionali del 2019-2020 hanno riportato, a seconda delle Regioni, da un terzo alla metà dei voti conseguiti alle europee 2019, appare quanto mai dubbio, atteso che basandosi su detti risultati il Movimento dovrebbe oscillare tra il 6% e il 10%.

4 Che infatti, non osservandola, la Germania perse le due guerre mondiali.

5 Il che, come tutte le cose in politica, dati gli esempi storici di rovesciamento di alleanze, è poco probabile, ma non da escludere del tutto.

6 Un efficace sintesi di ciò si può leggere nel libro di L. Barra Caracciolo Lo strano caso Italia, Roma 2020, Ed. Eclettica, pp. 109/143. In particolare la riduzione della progressività dell’IRPEF ha fatto sì che “in questi ultimi 26 anni lavoratori dipendenti e pensionati abbiano pagato proporzionalmente più dei ricchi: riducendosi il numero delle aliquote e aumentando l’aliquota minima (dal 10 al 23% del 2007) in proporzione al reddito basso mostrato…, i lavoratori hanno sostenuto l’80% degli introiti di tutta la tassazione diretta” anche se con deduzioni e detrazioni che “serve ormai soprattutto a coprire i redditi degli “incapienti”, ossia di quei lavoratori e pensionati al di sotto della soglia della povertà assoluta”. E aggiungiamo noi, serve anche all’ “illusione finanziaria”

7 Come l’ultimo aumento IVA al 22%, deciso dal governo Letta, nell’ottobre 2013.

8 Più volte il prof. Cassese ha – giustamente – chiamato vacanza (o pausa) tale pratica nelle P.P.A.A.; l’argomento a sostegno, semplice e ineccepibile, è la proroga, decisa – e ripetuta – dal governo, dei termini dei procedimenti amministrativi.

9 Senza scomodare la lotta di classe e la celeberrima apertura del “Manifesto del partito comunista”, che la storia è la storia delle lotte di classe (nella sua perentorietà e universalità non condivisibile) è utile ricordare che Marx ed Engels poche righe dopo affermavano “Nei periodi della storia anteriori al nostro, noi incontriamo quasi da per tutto una completa spartizione della società in ordini e ceti” e subito dopo “Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha già distrutte le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche”.

10 È inutile ricordare tanti che se ne sono occupati (economisti, sociologi, politologi). Onde ci si limita ai più noti oltre al classico di A. Puviani L’illusione finanziaria, ai (diffusi e ricorrenti) passi di V. Pareto, G. Fortunato, ricordiamo M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica. Da ultimo è da ricordare G. Miglio Lezioni di politica 2, Scienza della politica (a cura di A. Valle) Bologna 2011 – che tante e interessanti pagine vi ha dedicato.

11 Fonte Sole 24 Ore.

12 La confluenza delle due serie (meno reddito + pressione fiscale) è, probabilmente, unica in Europa). Ad andare a vedere le statistiche di altri Stati europei, quanto all’incremento del PIL abbiamo: Svezia 41,7%, Francia 20,7%, Germania 28,7%, Spagna 23,9%, Grecia 13,5%, Portogallo 19,1%, Italia 1,9% (fonte Termometro politico).

13 È noto che FCA e Mediaset hanno portato le loro sedi ad Amsterdam (FCA quella fiscale a Londra). Ovviamente anche tante medie imprese sono scappate dal fisco italiano. Si dubita che l’abbiano fatto per il profumo dei tulipani. E ancor più, che rispetto alla situazione di venti-trent’anni orsono, le imposte così eluse siano state poste a carico di coloro che sono rimasti a produrre (e soprattutto pagare) in Italia.

14 Il giudizio è esposto in Lezioni di politica 2, Scienza della politica, Bologna 2011, pp. 392 ss., le ragioni addotte da Miglio sono varie.

15 Op. cit., p. 396

16 op. cit., p. 399

17 Ovviamente “nemico” e ”inimicizia” vanno intesi non nel senso comune, di colui cui si muove guerra, ma come li impiega Schmitt; ossia come colui contro il quale si conduce la lotta, la quale può essere incruenta, ed all’interno come all’esterno della sintesi politica. “Nemico – scrive Schmitt – è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere” (Der begriff des Politishen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pp. 111), anche in politica interna “All’interno dello Stato in quanto unità politica organizzata, che, come tutto, avoca a sé la decisione sull’amico-nemico, esistono, sempre però accanto alle decisioni politiche primarie e in difesa della decisione scelta, molti concetti secondari di ‘politico’” ed anche qui “continua ad essere essenziale per il concetto di ‘politico’ un contrasto o antagonismo all’interno dello Stato, anche se esso risulta relativizzato dall’esistenza dell’unità politica dello Stato stesso che è comprensivo di tutti gli altri contrasti” (op. cit., pp. 112-113); la guerra stessa non è l’unica conseguenza dell’ostilità ma “la ultima ratio del raggruppamento amico-nemico” (op. cit., p. 117 – nota); inoltre “guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico” (op. loc. cit.).

18 É interessante quanto si legge che in Germania la cattivissima Merkel avrebbe previsto “ristori” pari al 70% del calo del fatturato. In confronto gli indennizzi “a scacchiera” (e minimi) del governo Conte bis sono misera cosa.

19 V. op. cit., p. 156.

20 In alcune canzoni rivoluzionarie francesi si prendevano in giro gli aristocratici per il bon ton, così come oggigiorno lo si fa per i populisti che sbagliano i congiuntivi e non usano le cravatte.

Il Kamalometro, di Giuseppe Masala

Il Kamalometro.
Forse ho trovato il termometro corretto per capire come andrà a finire la contesa giudiziaria sulle elezioni presidenziali in Usa.
Kamala Harris, vice presidente eletta o presunta tale a 25 giorni dalle elezioni Usa ancora non si è dimessa dal Senato come sarebbe dovuto. Ho controllato un po’ per fare qualche raffronto e ho scoperto che Obama si dimise a 12 giorni dalle elezioni che lo incoronarono Presidente.
Il Kamalometro segna +25 ed è già oltre la soglia d’allarme. Quando e se Kamala si dimetterà vorrà dire che i giochi saranno fatti. Al contrario, se non si dimetterà entro i prossimi 10 giorni possiamo parlare di gravi problemi.
[E’ un po’ buffa questa cosa, ma non essendo in grado di capire la battaglia legale in corso, mi affido a questo indicatore empirico]
NB_tratto da facebook

Malesia! La tigre asiatica e il pachiderma cinese, con Giuseppe Malgeri

Le nazioni del sudest asiatico hanno conosciuto e sperimentato i tre modelli sinora conosciuti di sperimentazione di sortita dal sottosviluppo: quello autarchico ispirato al modello socialista e ad alcune dittature satrapo-militari; quello aperto e dogmaticamente liberista; infine quello pragmatico che ha cercato e saputo dosare l’apertura selettiva dei mercati, l’accettazione selettiva degli investimenti esteri in un quadro di compartecipazione nelle società, l’incentivazione delle esportazioni, le opportunità legate alla globalizzazione. La Malesia può essere considerato un esempio di livello intermedio tra quello modesto della Cambogia e del Laos e quello più brillante di Singapore e di seguito della Thaynlandia e del Vietnam in un contesto di crescente predominio economico cinese ed equilibrio geopolitico sinoamericano. Una esperienza da cui trarre qualche insegnamento per il nostro paese ormai avviato verso un mesto e remissivo declino. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Relazioni transatlantiche: opportunità di Biden e suoi limiti, di Hajnalka Vincze

Un interessante articolo dell’analista ungherese Hajnalka Vincze sulle possibili dinamiche future della “alleanza” USA/stati europei. Qualche approfondimento maggiore meriterebbero le posizioni della Presidenza Trump e soprattutto la loro contraddittorietà dovuta in gran parte alle lacerazioni politiche interne agli Stati Uniti e alla scarsa disponibilità, se non alla aperta ostilità delle gerarchie militari americane nella NATO a seguirne le indicazioni; per il resto un testo ricco di spunti di riflessione, fermo restando che i giochi dell’insediamento alla Casa Bianca non si sono ancora conclusi; anzi, più si trascineranno, più la figura presidenziale assumerà la sostanza di una “anatra zoppa”_Giuseppe Germinario

Hajnalka Vincze:

https://europatarsasag.hu/sites/default/files/open-space/documents/magyarorszagi-20201115vinczetransatlanticrelationsbiden.pdf

Relazioni transatlantiche: opportunità di Biden e suoi limiti

(Hungarian Europe Society, 15 novembre 2020)

Fedele alla forma, le elezioni presidenziali statunitensi del 2020 hanno innescato una valanga di passioni nelle relazioni transatlantiche. Ansia corrispondente alla semplice domanda “Ci ameranno di nuovo, vero?” era diffusa dal lato europeo. Sfortunatamente, questo tipo di approccio non fa che rafforzare la decennale matrice emotiva delle montagne russe del legame euro-americano. Si alimenta nell’oscillazione senza fine tra clamorosi “litigi” e spettacolari “riconciliazioni”. Questa è una spirale nefasta, perché più ci sforziamo di mostrare la nostra presunta armonia, più anche gli scontri minori assumeranno l’aspetto di una tragedia. E più quegli scontri sono percepiti come sconvolgenti, più dobbiamo insistere sull’armonia, per tornare alla “normalità”, cioè a un altro giro sulle montagne russe.

Anche se i primi incontri tra l’amministrazione Biden e le loro controparti europee si adatteranno sicuramente a quel modello (una felice riunione di famiglia, dopo una caduta di quattro anni), tutti questi sconvolgimenti emotivi stanno iniziando a farsi sentire. Gli europei sconvolti da alcune impennate dell’era Trump ricordano ancora di essere stati traumatizzati anche durante i tanto attesi anni di Obama, in particolare dal cosiddetto perno asiatico. Di conseguenza, il diffuso sollievo, persino il giubilo, in Europa per il cambio di amministrazione statunitense è questa volta sfumato con più cautela rispetto a dodici anni fa, quando Barack Obama era atteso e salutato come il “salvatore”.

Parlando dinanzi al Parlamento europeo nel luglio 2020, il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer ha avvertito in anticipo che solo il “tono” sarebbe cambiato dopo la vittoria di Biden.1 Il presidente francese Emmanuel Macron, nella sua ormai famigerata intervista di “morte cerebrale” , ha anche sottolineato: “non è stata solo l’amministrazione Trump. Devi capire cosa sta succedendo nel profondo del processo decisionale americano ”. 2

Un’alleanza congelata (més)

La scomoda realtà è che trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, gli europei hanno consentito ancora che l ‘”Occidente” fosse squilibrato come lo era durante la Guerra Fredda. La maggior parte dei governi europei spera di continuare a cavalcare, per quanto possibile, gli Stati Uniti per la loro difesa, a costo di ciò che ex alti funzionari americani e britannici chiamavano “un’eccessiva deferenza verso gli Stati Uniti” .3 Negli ultimi tre decenni, gli osservatori americani sono stati continuamente stupiti dalla riluttanza degli europei a uscire dal loro status di “protettorato” degli Stati Uniti .4 All’inizio degli anni 2000, Charles Kupchan ha sottolineato: “Nonostante tutto ciò che è cambiato dal 1949, e soprattutto dal 1989 l’Europa è rimasta dipendente dagli Stati Uniti per la gestione della propria sicurezza ”. Ha poi aggiunto: “Il controllo sulle questioni di sicurezza è il fattore decisivo per stabilire l’ordine gerarchico e determinare chi è al comando” .5

Quindici anni dopo, nulla è cambiato.

Come osserva Jeremy Shapiro: “Le nazioni d’Europa contano sull’America per la propria sicurezza e l’America non fa affidamento sull’Europa. Questa dipendenza asimmetrica è la caratteristica fondamentale e apparentemente permanente delle relazioni transatlantiche, il fatto scomodo alla base di decenni di retorica sui valori condivisi e sulla storia comune. ”6

Essa porta anche inevitabilmente alla cosiddetta logica transazionale. Non esiste una cosa come la difesa gratuita; prima o poi, in una zona o nell’altra, c’è sempre qualcosa da aspettarsi in cambio. La revisione dal basso dell’amministrazione Clinton è stata piuttosto chiara: “I nostri alleati devono essere sensibili ai collegamenti tra un impegno costante degli Stati Uniti per la loro sicurezza da un lato e le loro azioni in aree come la politica commerciale, il trasferimento di tecnologia e la partecipazione a operazioni multinazionali di sicurezza dall’altro. “7 In modo simile, già nel 1962 il vicepresidente statunitense Johnson minacciò di ritirare le truppe americane dal continente, se il mercato comune avesse bloccato le esportazioni di pollame americano in Europa …

Sebbene la fine della Guerra Fredda costituì un momento di svolta, i leader su entrambe le sponde dell’oceano fecero del loro meglio per ignorare questo fatto. Con la notevole eccezione dei politici francesi che si sono sforzati di risvegliare i loro partner dell’UE sulle realtà dell’imminente ordine mondiale “multipolare” – ma senza alcun risultato. Durante gli anni 2010, un allineamento unico dei pianeti (iniziato con il “perno asiatico” e culminato con la presidenza Trump) ha aiutato gli europei ad aprire gli occhi sulle realtà del dopo Guerra Fredda. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha parlato di “fare piani per un nuovo ordine mondiale” e ha avvertito: “Il fatto che l’Atlantico si sia allargato politicamente non è in alcun modo dovuto esclusivamente a Donald Trump. Gli Stati Uniti e l’Europa si stanno allontanando da anni. La sovrapposizione di valori e interessi che ha plasmato il nostro rapporto per due generazioni sta diminuendo. La forza vincolante del conflitto Est-Ovest è la storia. Questi cambiamenti sono iniziati ben prima dell’elezione di Trump e sopravviveranno alla sua presidenza anche in futuro “. 8

Maas ha continuato dicendo: “Usiamo l’idea di una partnership equilibrata come modello, in cui ci assumiamo la nostra eguale quota di responsabilità. In cui formiamo un contrappeso quando gli Stati Uniti oltrepassano il limite. Dove mettiamo il nostro peso quando l’America si ritira. E in cui possiamo iniziare un nuovo dialogo. ” Gli eccessi dell’amministrazione Trump hanno sicuramente dato slancio in questa direzione. Per quattro anni, gli europei hanno dovuto affrontare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, gli svantaggi della loro dipendenza. Resta da vedere se trarranno le lezioni e, in tal caso, che tipo di reazione ci si può aspettare da Washington.

Il momento Biden: hit o miss

Nonostante i prevedibili discorsi su un “nuovo inizio” e un clima notevolmente migliorato nella diplomazia transatlantica, la politica degli Stati Uniti si sforzerà innanzitutto di tornare alla “normalità”. Questo è certamente rassicurante per gli alleati, ma non significa automaticamente che ne trarranno vantaggio. Anche sui più graditi cambiamenti di politica, su organizzazioni e alleanze multilaterali, un risultato positivo, da una prospettiva europea, è lungi dall’essere garantito. Per non parlare della lunga serie di disaccordi persistenti, o lacune politiche, dove il meglio che si può sperare è uno scambio civile di argomenti, forse un certo grado di avvicinamento, ma soprattutto un educato riconoscimento delle divergenze.

Non ci sono dubbi sul rinnovato sostegno dell’amministrazione Biden al multilateralismo e sul rafforzato impegno verso le alleanze tradizionali. Una volta che gli Stati Uniti saranno di nuovo in gioco, la domanda, per gli europei, è se ci sarà spazio per il coordinamento o se Washington parteciperà solo per guidare (qualcuno potrebbe dire dettare).

Come sottolinea un recente rapporto del Congressional Research Service “i funzionari europei si lamentano periodicamente delle frequenti aspettative degli Stati Uniti di un sostegno europeo automatico”. 9 In effetti, quando sentono Joe Biden dire che “io, ancora una volta, farò guidare dall’America il mondo” esprimono sentimenti misti. Per quanto apprezzino che Washington prenda l’iniziativa ogni volta che gli interessi si sovrappongono, sono meno entusiasti quando in altre situazioni sono invitati ad allinearsi semplicemente agli Stati Uniti.

La NATO è un esempio calzante. Sentire Joe Biden affermare con forza che “la NATO è al centro della sicurezza americana” è senza dubbio musica per le orecchie europee, soprattutto dopo gli ultimi quattro anni. Tuttavia, sanno anche che il prossimo presidente degli Stati Uniti spingerà le priorità degli Stati Uniti di lunga data e si aspettano concessioni in cambio di un nuovo impegno con la NATO.

Il problema è: non tutti gli alleati sono desiderosi di espandere il mandato dell’Alleanza guidata dagli Stati Uniti ad altre questioni (come spazio, cyber, energia) e ad altre aree geografiche (allargamento e designazione di nuovi nemici). Aggiungete ad esso gli sforzi rinvigoriti per ridurre la libera scelta degli alleati attraverso una più profonda integrazione (maggiori finanziamenti comuni e una delega più automatica dell’autorità al comandante SACEUR / USA in Europa), e arrivate a un mix non consensuale.

Il commercio è un altro settore in cui gli europei sono soddisfatti della posizione iniziale di Joe Biden che dichiara che “le regole dell’economia internazionale dovrebbero essere modellate per essere eque”. Eppure, iniziano a diventare diffidenti le dichiarazioni dello stesso Biden: “quando le imprese americane competono in condizioni di equità, vincono”. Riapre vecchie ferite – specialmente sulle sanzioni extraterritoriali – e solleva dubbi su come esattamente il nuovo governo degli Stati Uniti intenda plasmare quelle regole internazionali. Sapendo che la disputa Boeing-Airbus, così come il puzzle sulla tassazione GAFA, saranno probabilmente temi ricorrenti nei negoziati transatlantici.

Indicare la Russia come “la più grande minaccia” (come ha fatto Joe Biden) potrebbe certamente sembrare rassicurante per alcuni europei, sul versante orientale, ma sicuramente non starà bene ad altri, soprattutto Germania e Francia. Pur essendo critici nei confronti del regime di Vladimir Putin, vedono anche Mosca come un indispensabile partner strategico (per la Francia) ed economico (per la Germania). I presidenti francesi sottolineano ripetutamente che “la Russia non è un avversario”, e l’ex ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel ha parlato in modo sprezzante delle attività della NATO al confine con la Russia come “sciabola che tintinna”.

In Cina, gli europei accolgono con favore la volontà degli Stati Uniti di affrontare seriamente la violazione delle regole del commercio internazionale da parte di Pechino. Allo stesso tempo, non sono entusiasti che la NATO si allinei dietro Washington per affrontare la Cina.10 L’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera, Josep Borrell, afferma: “Non dobbiamo scegliere tra Stati Uniti e Cina. Alcune persone vorrebbero spingerci a scegliere, ma non dobbiamo scegliere, deve essere come la canzone di Frank Sinatra, ‘My way’ “. 11 Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha avvertito che senza una propria politica indipendente , gli europei “avranno solo la scelta tra due dominazioni”, da parte della Cina o degli Stati Uniti ”.12

Per coronare il tutto, l’amministrazione Biden dovrà affrontare due questioni, più immediate e più tecniche, in relazione all’Europa. Entrambi saranno esaminati come una cartina di tornasole dell’interferenza degli Stati Uniti contro l’autonomia europea. In primo luogo, gli Stati Uniti insistono per avere accesso al Fondo europeo per la difesa recentemente creato dall’UE, finanziato dal bilancio dell’Unione. Gli europei non sono contenti della prospettiva che potenti società americane sottraggano denaro al tesoro comune dell’UE, creato esplicitamente con l’obiettivo di rafforzare l’autonomia dell’Europa. Sotto la pressione incessante degli Stati Uniti, hanno escogitato una soluzione di compromesso che garantisce l’accesso caso per caso, pur mantenendo una condizione generale di “non dipendenza”. In tal modo gli europei manterrebbero almeno il controllo sull’esportazione e sui diritti di proprietà intellettuale. Un compromesso finora respinto con veemenza dagli Stati Uniti.

La seconda questione spinosa è il gasdotto russo-tedesco in fase di completamento, Nord Stream 2. Joe Biden, in qualità di vicepresidente, lo ha definito “inaccettabile”, e gli Stati Uniti hanno già imposto sanzioni drastiche alle società europee che partecipano alla costruzione. Ancora una volta, questo atteggiamento americano è visto da molti, anche se non da tutti, gli Stati membri dell’UE come un’ingerenza negli affari europei. Nel 2017, il cancelliere federale austriaco e il ministro degli Esteri tedesco hanno avvertito: “L’approvvigionamento energetico dell’Europa è una questione che riguarda l’Europa, e non gli Stati Uniti d’America”. Nel dicembre 2019, il ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz ha definito le sanzioni statunitensi “un grave intervento negli affari interni tedeschi ed europei”, e il ministro degli esteri Heiko Maas ha affermato che “la politica energetica europea è decisa in Europa, non negli Stati Uniti”.

In sintesi, tutto il cambiamento positivo di tono da parte degli Stati Uniti non significa necessariamente negoziati più facili o vantaggi per l’Europa a lungo termine. Abbastanza paradossalmente, più l’atmosfera è gioviale, più alcuni governi europei saranno tentati di fare concessioni, abbandonare le posizioni comuni dell’UE e abbandonare persino l’idea di autoaffermazione nei confronti degli Stati Uniti. Ciò non farebbe che aumentare l’asimmetria del rapporto. La sfida, per gli europei, è trovare il giusto equilibrio: cogliere l’opportunità di una posizione americana meno conflittuale, senza tornare ai vecchi riflessi di eccessiva deferenza.

La maledizione di una parola

L’autonomia è stata, fin dall’inizio, il nodo della questione nei dibattiti transatlantici. La parola “a”, come talvolta viene chiamata, ha segnato il ritmo delle relazioni euro-americane negli ultimi tre decenni. Ogni volta che eventi esterni (come la guerra in Kosovo del 1999 o la crisi in Iraq del 2003) danno impulso alla linea autonomista guidata dalla Francia, gli Stati Uniti iniziano a mostrare ostilità, pongono limiti rigorosi e le controversie relative ai membri dell’UE si svolgono in pubblico. Al contrario, quando il vento è nell’area “priorità NATO / USA.”, Washington sostiene le iniziative di difesa dell’UE (entro i limiti già determinati) e gli europei passano il loro tempo a spazzare via i disaccordi.

Dietro queste fluttuazioni periodiche le rispettive posizioni rimangono invariate. Da parte americana, i vantaggi dello status di dipendente dell’Europa sono innegabili. In primo luogo, a causa della logica transazionale sempre presente, la protezione militare degli Stati Uniti rende gli europei più accomodanti in altre aree. Sulle questioni commerciali, ad esempio, la maggioranza dei membri dell’UE chiede apertamente di attenuare le posizioni dell’UE per “non mettere a rischio le più ampie relazioni transatlantiche”. In secondo luogo, gli alleati europei molto obbligati tendono a essere arruolati al servizio della strategia globale americana. L’ex ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO, Robert Hunter, ha dichiarato: “Pochissimi paesi europei credono che vincere in Afghanistan sia necessario per la propria sicurezza. La maggior parte di loro lo fa … per compiacere gli Stati Uniti. ”13 Infine, la tutela americana sull’Europa ha anche lo scopo di tenere sotto controllo un potenziale rivale. Nelle parole di Brzezinski: “Un’Europa politicamente potente, in grado di competere economicamente mentre militarmente non è più dipendente dagli Stati Uniti, potrebbe limitare l’ambito della preminenza degli Stati Uniti in gran parte all’Oceano Pacifico”. 14

Da parte europea, la maggior parte dei governi sarebbe felice di non dover mai menzionare la parola “a”. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, è diventato sempre più difficile nascondere che l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea è altamente, e doppiamente, condizionato. È sia incerto (vedi le riserve del presidente Trump sull’articolo 5) sia condizionato da un buon comportamento da parte degli europei. Di conseguenza, l’ambizione dell’autonomia ha acquisito un certo slancio. La strategia globale dell’UE, nel 2016, si è articolata intorno all’idea tabù di lunga data dell’autonomia strategica. Il discorso del 2018 sullo “Stato dell’Unione europea” del presidente della Commissione Juncker era intitolato “l’ora della sovranità europea” e la nuova Commissione europea si dichiara fin dall’inizio “geopolitica”.

Detto questo, gli europei sono più preoccupati che mai di non fare alcun passo che potrebbe alienare gli Stati Uniti.

Il cancelliere tedesco è il perfetto esempio di queste ambivalenze. Un giorno Angela Merkel dice: “L’era in cui potevamo fare pieno affidamento sugli altri è finita. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani ”.15 Il successivo, assicura:“ Ancor più che durante la Guerra Fredda, mantenere la NATO è oggi nel nostro migliore interesse. L’Europa attualmente non può difendersi da sola, noi dipendiamo. ”16 L’autonomia europea è sia il problema nelle relazioni transatlantiche, sia l’unica soluzione in vista. All’interno della tradizionale relazione squilibrata, l ‘ “altro” è percepito a ciascuna estremità dell’Atlantico o come un peso (free-rider contro l’interferente estraneo) o come un rivale (“sfidante” contro “potere dominante”), ma molto spesso i due , peso e rivale, allo stesso tempo. Questo crea incessantemente risentimenti da entrambe le parti. Per quanto controintuitivo possa sembrare, l’autonomia strategica europea potrebbe essere l’unica via d’uscita. È anche praticamente l’unica cosa rimasta che non è stata provata finora …

Conclusione: le virtù della chiarificazione

I quattro anni dell’amministrazione Trump sono stati per molti versi una rivelazione transatlantica. Semmai, il suo mandato ha chiarito quanto profondamente le istituzioni di politica estera siano attaccate alle relazioni, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, una lunga serie di audizioni e votazioni al Congresso – intese a proteggere l’Alleanza dal furore del Presidente – ha rivelato un appoggio bipartisan generale per la NATO. Hanno anche avuto il merito di evidenziare le basi molto razionali di questo supporto. Come ha affermato il presidente del Consiglio per le relazioni estere Richard N. Haass: “Gli Stati Uniti rimangono e sostengono la NATO come un favore non agli europei ma a se stessi. L’adesione alla NATO è un atto di interesse strategico egoistico, non filantropico ”. 17

In Europa, l’impegno degli alleati per il collegamento transatlantico si è tradotto in sforzi instancabili per accogliere, o addirittura placare, il presidente Trump. Questo approccio è stato mostrato in modo spettacolare in un esercizio di simulazione di alto livello, tenutosi nel 2019.

Il Körber Policy Game ha riunito esperti senior e funzionari governativi di Francia, Germania, Regno Unito, Polonia e Stati Uniti. Anche quando i team europei hanno dovuto affrontare uno scenario di ritiro degli Stati Uniti dalla NATO, seguito dallo scoppio di crisi ai margini dell’Europa, la maggior parte di loro si è concentrata soprattutto nel persuadere gli Stati Uniti a tornare alla NATO. Al prezzo di “concessioni prima impensabili”. 18

Sulla base di questa rinnovata consapevolezza dell’impegno di entrambe le parti nei confronti del legame euro-americano, il riflesso naturale potrebbe essere quello di godere del temporaneo sollievo dopo la vittoria di Joe Biden, andare con il pilota automatico e continuare lo stesso vecchio schema nelle relazioni transatlantiche. Sarebbe un difetto, e doppiamente così.

In primo luogo, se gli europei – per mera gratitudine per non aver avuto a che fare con Donald Trump – rinunciano alla loro ambizione di autonomia e rifiutano di difendere la propria posizione all’unisono, perderebbero un’occasione senza precedenti per porre le relazioni transatlantiche su un piano più equilibrato. . Avrebbero solo perpetuato la matrice emotiva delle montagne russe: dal giubilo alla disperazione, dalla disperazione al giubilo, per l’eternità.

In secondo luogo, la chiave è l’accoglienza da parte degli Stati Uniti. Troppo spesso, la reazione americana ai disaccordi è impegnarsi nella “nostra partnership” in quanto tale, sostenendo che questa o quella posizione europea metta a rischio le relazioni transatlantiche (o, come sulla questione del sistema di navigazione satellitare Galileo, “renderebbe la NATO un reliquia del passato ”). La maggior parte degli europei ha già questa paura, ecco perché evita l’idea stessa di autonomia. Washington potrebbe indicare la strada: assicurati che le due parti possano convergere su alcune questioni, divergano su altre, senza che gli Stati Uniti mettano in dubbio l’intera relazione ogni volta che gli europei affermano il loro punto di vista.

Perché ciò avvenga, è necessario riconoscere che, contrariamente alle accuse di routine, l’ambizione dell’autonomia europea non viene da un mitico antiamericanismo. O si preserva la propria indipendenza rispetto a qualsiasi paese terzo, oppure no. Se gli europei decidono di rinunciarvi una volta, in particolare nei confronti degli Stati Uniti, il modello di sottomissione che determina li metterà in balia di qualsiasi altra potenza in futuro. Un’Europa che non riesce ad assumere la propria piena autonomia diventa una facile preda per chiunque. Emmanuel Macron spiega: “Se non può pensare a se stessa come una potenza globale, l’Europa scomparirà”.

Henry Kissinger sembra essere d’accordo. La leggenda vivente della politica estera statunitense dice sul quotidiano tedesco Die Welt: “Mi piacerebbe vedere un’Europa capace di svolgere un ruolo più storico, vale a dire con alcune affermazioni di se stessa come policy maker globale”. Poi aggiunge: “Spero che l’Europa svolga il suo ruolo globale in modo che ci sia un forte parallelismo tra il pensiero americano ed europeo”. 19

Qui sta il paradosso atlantista. Coloro che tengono i discorsi più appassionati sui valori transatlantici condivisi e sugli interessi comuni sono di solito quelli che si oppongono con più veemenza ai progetti europei guidati dall’autonomia. A loro sembra che le relazioni transatlantiche possano reggere solo finché gli europei sono dipendenti, non funzionerebbe tra partner alla pari. D’altra parte, coloro che credono seriamente nella forza di ciò che è comune tra i nostri valori e interessi, non hanno motivo di vedere l’autonomia europea come una minaccia. Preferirebbero considerarlo come una possibilità …

Quo vadis Europa Centrale?

Come regola generale, i paesi dell’Europa centrale non definiscono gli attori su queste questioni transatlantiche. Ci sono alcune rare eccezioni quando la loro posizione attira l’attenzione immediata, come nel caso della Lettera degli otto e della Lettera di Vilnius, a sostegno dell’invasione statunitense dell’Iraq del 2003 – provocando quel famoso sfogo del presidente francese Jacques Chirac: “hanno perso una buona opportunità per tenere la bocca chiusa ”. Tradizionalmente, sulle questioni NATO-UE e su altre questioni relative all’autonomia, sono saldamente nel campo atlantista, poiché considerano gli Stati Uniti come il principale, se non l’unico, garante della loro difesa.

Alcuni di loro sono ora a disagio per la posizione di promozione della democrazia della prossima amministrazione americana, specialmente quando si applica all’interno dell’Alleanza. Joe Biden afferma che “il crescente autoritarismo, anche tra alcuni membri della NATO” è una minaccia per l’Alleanza: “In qualità di presidente, chiederò una revisione degli impegni democratici dei membri della NATO”. 20

Questi non sono solo slogan della campagna.

Nell’Assemblea parlamentare della NATO, la delegazione statunitense ha già spinto in questa direzione, presentando un rapporto che punta a “fautori interni dell’illiberalismo” e raccomanda “che la NATO istituisca un Centro di coordinamento della resilienza democratica con lo scopo esplicito di aiutare gli Stati membri a rafforzare istituzioni democratiche “. 21

Detto questo, le considerazioni geopolitiche non possono essere e non saranno trascurate.

L’Europa centrale è la zona cuscinetto tra il confine occidentale dell’Eurasia e le potenze dominanti nel resto di questo vasto continente combinato. Alcuni dei paesi della regione CEE hanno instaurato relazioni sempre più strette con Mosca e tutti sono attratti dalla Belt and Road Initiative cinese, firmata nel trattato per la cooperazione 17 + 1, sperando in investimenti esteri e opportunità commerciali.

Ciò potrebbe essere disapprovato dalla nuova amministrazione statunitense, le cui principali priorità strategiche saranno: isolare la Russia, contenere la Cina (e ovviamente impedire all’Europa di andare da sola).

Se i paesi dell’Europa centrale si dimostreranno partner affidabili su questi temi, la loro politica interna sarà probabilmente di scarso interesse per Washington. Tuttavia, se si avvicinano a Mosca o Pechino, i loro affari interni potrebbero ricevere maggiore attenzione.

Per quanto riguarda il loro posto nell’enigma transatlantico, i paesi dell’Europa centrale rivelano la loro facilità nello scivolare da una dipendenza all’altra. I più accesi sostenitori della linea atlantista – sabotando costantemente l’autonomia dell’UE dall’interno – sono anche tra i primi tentati di cedere al dominio russo o cinese. Come un ammonimento su come un giorno l’ostacolo all’autonomia europea potrebbe ritorcersi contro.

1 Germany sets up European defense agenda with a waning US footprint in mind, Defense News, 15 July 2020.

2 Transcript: Emmanuel Macron in his own words, The Economist, 7 November 2019.

3 Jeremy Shapiro – Nick Witney, Towards a post-American Europe: A Power Audit of EU-US Relations, European Council on Foreign Relations, 2 November 2009.

4 Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, Perseus Books, 1997, p59.

5 Charles A. Kupchan, The End of the American Era, Vintage Books, 2003, pp152, 267.

6 Jeremy Shapiro, Dina Pardijs, The transatlantic meaning of Donald Trump: a US-EU Power Audit, European Council on Foreign Relations, 21 September 2017.

7 Report on the Bottom-Up Review, DoD, October 1993.

8 Heiko Maas, Making plans for a new world order, Handelsblatt, 22 August 2018.

9 Transatlantic Relations: U.S. Interests and Key Issues, CRS report, 27 April 2020.

10 Stephen M. Walt, Europe’s Future Is as China’s Enemy, in Foreign Policy, 22 January 2019.

11 Borrell: EU doesn’t need to choose between US and China, EU Observer, 2 June 2020.

12 President Macron’s speech at the annual conference of ambassadors, 27 August 2019.

13 U.S.-NATO: Looking for Common Ground in Afghanistan, Interview with Robert E. Hunter, Council on Foreign Relations, 8 December 2009.

14 Zbigniew Brzezinski, The Choice: Global Domination or Global Leadership, Perseus Books, 2004. p91.

15 Chancellor Angela Merkel’s speech in Munich, 28 May 2017.

16 Chancellor Angela Merkel at the Bundestag, 27 November 2019.

17 Testimony before the Senate Committee on Foreign Relations, on “Assessing the Value of the NATO Alliance”, 5 September 2018.

18 Körber-Stiftung – International Institute for Strategic Studies, European security in Crisis: what to expect if the US withdraws from NATO, 23 September 2019.

19 Interview with Henry Kissinger, Die Welt, 8 November 2020.

20 Statement from Vice President Joe Biden on NATO Leaders Meeting, 2 December2019.

21 Gerald E. Connolly, NATO@70: Why the Alliance Remains Indispensable, 12 October 2019.

Imperialisti buoni, imperialisti cattivi_a cura di Giuseppe Germinario

La crisi pandemica, oltre ad essere uno dei maggiori fattori scatenanti e soprattutto di accelerazione di dinamiche profonde di cambiamento dei rapporti sociali di produzione, delle catene di produzione e degli equilibri economici e geoeconomici, dei rapporti sociali stessi, sarà di per sé un arma, uno strumento di regolazione dei rapporti di potere interni ai paesi e delle relazioni geopolitiche. Non scommettiamo sulla piena attendibilità delle informazioni offerte dall’articolo; sta di fatto che sin dall’inizio il gruppo dirigente cinese ha cercato di attribuire l’origine della pandemia a svariati paesi oltre a quelli già citati dall’articolo. Uno strattagemma per sfuggire alle responsabilità politiche, ai danni di immagine, alle richieste possibili di risarcimento; soprattutto, un modo per scacciare il sospetto denso di implicazioni di una crisi originata da una manipolazione incontrollata di un virus. Considerazioni che devono spingere ad una riflessione di fondo! Quanto più avanza il multipolarismo, quanto più si avvicina una fase di policentrismo tanto meno sarà proficua una suddivisione manichea tra paesi “buoni” e paesi “cattivi”, soprattutto per quei paesi e quelle classi dirigenti con qualche ambizione di indipendenza ed autonomia, ma con forze strettamente misurate_Giuseppe Germinario

 

Dal New York Post

China suggests Italy may be the birthplace of COVID-19 pandemic

La Cina è all’opera su di un nuovo studio sulla diffusione precoce e nascosta del coronavirus in Italia per mettere in dubbio la ferma convinzione che la nazione asiatica sia stata il luogo di origine della pandemia, stando ai rapporti.

Funzionari di Pechino stanno spingendo su di un nuovo studio che suggerisce che il contagio potrebbe essersi diffuso nella nazione europea già a settembre, tre mesi prima che fosse confermato che si stava diffondendo nel presunto epicentro della città cinese di Wuhan, come il Times of London ha sottolineato .

La nazione asiatica ha anche in precedenza  ipotizzato la Spagna alle origini della pandemia, così come anche l’esercito americano, sresponsabile di aver portato il virus a Wuhan nell’ottobre dello scorso anno durante i Giochi mondiali militari; così afferma il rapporto.

Secondo il quotidiano britannico, i media statali cinesi stanno ora sostenendo con forza l’idea che il nuovo studio del National Cancer Institute dimostri che il contagio probabilmente è iniziato in Italia, non in Cina.

“Questo dimostra ancora una volta che rintracciare la fonte del virus è una complessa questione scientifica che dovrebbe essere lasciata agli scienziati”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian, secondo il Times britannico. “[È] un processo in via di sviluppo che può coinvolgere più paesi.”

Zhao Lijian
Zhao LijianGetty Images

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ammesso che è possibile che il virus “circolasse silenziosamente altrove” prima di essere rilevato a Wuhan.

Tuttavia, molti scienziati sono scettici sulla ipotesi italiana dello studio e altri osservano che non ciò esclude che il coronavirus sia originario della Cina.

“Sappiamo che la Cina ha ritardato l’annuncio del suo focolaio, quindi non si sa quando è iniziato lì; la Cina del resto ha legami commerciali molto forti con il nord Italia”, ha detto allo UK Times Giovanni Apolone del National Cancer Institute di Milano.

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