Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, _ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri Macerata, pp. 240, € 17,00.

L’amministrazione, scriveva Weber, è quel “potere quotidiano” il quale, anche se quasi sempre non provvede con atti normativi primari, condiziona di più l’esistenza individuale (e collettiva). Ciò non è per lo più compreso dall’opinione pubblica – e dai soggetti che la guidano o almeno la condizionano come i media – i quali focalizzano l’attenzione sugli atti degli altri poteri (intesi à la Montesquieu): sul decreto-legge, sul D.P.C.M. (atto governativo) o sul mandato di cattura per il Sindaco o il Ministro.

Ne consegue che non è percepito come l’assetto del potere amministrativo – teoricamente servente di quelli governativo e, mediatamente, legislativo – condiziona la forma politica cioè l’assetto costituzionale. Questo libro parte da una considerazione diversa: che “Il principio di competenza ha eroso gli spazi e le responsabilità recati dal principio democratico; la tecnica e la politica si sono progressivamente sovrapposte; le comunità sono state spodestate da istituzioni lontane e burocratiche”; e prosegue “Come scrisse Carl Schmitt in Dialogo sul potere «anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri […] Davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Non c’è potere umano che non abbia questa anticamera e questo corridoio». Un’anticamera che, nel regime demo-burocratico moderno, la tecno-democrazia, è popolata da tecnici che talvolta eseguono meramente e talaltra desiderano oppure esercitano direttamente il potere”.

La tecnocrazia sia nella sua “branca” pubblica (la P.A.) sia in quella privata (che accede o influenza le funzioni pubbliche) fonda il proprio ruolo e potere sul “sapere specializzato” ossia sulla competenza “tecnica”; così la democrazia, fondandosi anche sulla competenza specialistica degli “esecutori-consiglieri” si trasforma in una tecno-democrazia, la quale da un lato si basa sulla legittimità del principio democratico, dall’altro sul possesso del sapere, cioè su un’aristocrazia non di spada, ma di penna. “La tesi di questo libro è, dunque, semplice: nelle società avanzate il principio aristocratico ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore rispetto a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere… Questo principio aristocratico-gerarchico convive con il principio democratico-rappresentativo di cui, negli ultimi decenni, ha progressivamente eroso significativi spazi. Di conseguenza i poteri non elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non fosse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi”. Pertanto “lo sviluppo di questo potere parallelo, tuttavia, può essere compreso solo tenendo insieme i due demoni della vita politica moderna: lo Stato e il capitalismo”. Così “lo Stato-Leviatano e il capitalismo-Behemoth si corrompono a vicenda, ed in questo legame di reciproco clientelismo mirano a edificare uno stabile apparato di potere, un sistema di élites, che proprio per mantenere la sua stabilità tende a limitare la libertà di individui e comunità” e “l’osmosi tra burocrazia pubblica e grande capitalismo produce tecnocrazia, che non a caso sul piano storico si è sviluppata pienamente con l’avvento della società industriale, ma affonda le sue radici nello Stato moderno”.

Il saggio prosegue poi analizzando i vari aspetti del problema del nichilismo politico, la mentalità tecnocratica, la razionalità, spirito della politica e della burocrazia, le prospettive future. Tutti aspetti considerati con attenzione dall’autore ma non esaminati perché esulano dalla dimensione di una recensione. Ma su due punti è il caso di intervenire. Il primo è che tra le leggi (la regolarità della politica) c’è quella della classe politica (dell’aiutantato come scriveva Miglio), per cui non c’è governo senza “classe” politica. Talvolta non professionale, in altre si. Spesso riservata per nascita (in un ceto privilegiato); in altri casi dalla considerazione sociale (come per le democrazie classiche) e dall’elezione; in altri, come in molte “società idrauliche” favorita dalle mutilazioni sessuali (gli eunuchi in Cina, e nel tardo impero romano). Ma accanto a quella c’è il rapporto tra vertice e base, tra capo/i e governati, anch’esso necessario. Il problema, uno dei principali che si presentano all’uomo politico è come tener in equilibrio questi due “circuiti”. Perché a squilibrarli il rischio è che si mandi in rovina l’istituzione politica (e, spesso, la stessa comunità): come avvenne nel tardo impero romano d’occidente, la cui caduta fu co-determinata, o grandemente favorita dallo squilibrio a favore della “classe” burocratica. Dall’altro che la democrazia moderna è uno status mixtus: Schmitt la considerava tale sia per la compresenza di organi risalenti a principi politici diversi: democratico (per la nomina/elezione dei componenti dei maggiori organi di direzione politica); aristocratico (per il carattere del parlamento); monarchico (per il ruolo del capo dello Stato). E inoltre per l’equilibrio tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese. Nell’analisi di Castellani si aggiunge la compresenza di elementi democratici e tecnocratici: un’altra antitesi da sussumere nella concezione dello Status mixtus, e da addizionare alle altre. Spesso identificata come opposizione tra politica ed economia (ma non è solo questo), specie in momenti d’emergenza come l’attuale. Resta comunque il fatto che negli stati di crisi il problema si presenta nella risposta al quis judicabit: cioè chi decide come superare la crisi?

E chi ha la forza di rispondere efficacemente è il (reale) sovrano. Che diventi poi legittimo è, come scrivevano Hauriou e Santi Romano, solo la durata a poterlo dire.

Teodoro Klitsche de la Grange

AFRICA 2021…come il 2020, di Bernard Lugan

In Africa, l’anno 2020 è finito come era iniziato, con diverse ampie aree di conflittualità:
– In Libia, paese tagliato in due entità, Tripolitania in Occidente e Cirenaica nell’est, Turchia attraverso il governo di Tripoli e L’Egitto, tramite il marescialloHaftar hanno la pistola ai piedi. Il maresciallo Haftar controlla i terminali petroliferi del Golfo di Syrtes che la Turchia vuole conquistare. Per l’Egitto sarebbe un casus belli e ha avvertito che, in questo caso, il suo esercito sarebbe intervenuto.
– Nella BSS (Sahelosaharan Band), la grande novità è una guerra aperta tra Daesh
il cui obiettivo è stabilire un califfato transetnico e transnazionale, e Aqmi che si è evoluto verso un etno-jihadismo territoriale.
– Nel corno, la principale la domanda è se l’Etiopia è sì o no alla vigilia di uno sviluppo di tipo jugoslavo, o al contrario in fase di ricomposizione attorno all’Oromo che emarginò l’Amhara e schiacciò il Tigrayans.
– In Africa centrale, dalla CAR alla regione del Lago Albert, il buco nero non è pronto per essere riempito. Quanto al Mozambico, il jihadismo sembra mettere radici nel gioco della
parte settentrionale del paese vicino alla Tanzania.

Alla fine del 2020, il conflitto “vecchio” cincischiava nel Sahara occidentale dove in agonia il Polisario ha tentato senza successo di tagliare la strada che collega il Senegal al
Mediterraneo, strada che attraversa il Sahara marocchino. Ora la domanda è se l’Algeria ha ancora interesse a sostenere a distanza di un braccio un Polisario, una sorta di testimone delle guerre del tempo della “guerra fredda” prima del 1990, e del quale alcuni degli ultimi
membri si sono uniti allo Stato islamico (Daesh), nemico mortale di Algeri.
Politicamente, l’anno 2020 ha visto tenere una serie di elezioni le quali, nella quasi totalità,
hanno solo consolidato e confermato i rapporti etnodemografici, grazie ai quali i più numerosi matematicamente sovrastano i meno numerosi. Tuttavia, questa etnomatematica elettorale è la chiave della questione politica africana.
Nel 2020, dieci anni dopo l’inizio dell’ondata disastrosa di “Primavera araba”, l’Africa
del Nord è tornata al punto di partenza, ovvero al suo principale problema, quello demografico.
Mentre le nascite procedono più veloci dello sviluppo, dall’Egitto al Marocco, i problemi sociali costituiscono tante bombe a orologeria. A questo si aggiungono problemi specifici. Così la questione delle acque del Nilo che ha creato una situazione quasi conflittuale tra l’Egitto e l’Etiopia, i disperati tentativi del “sistema” algerino di sopravvivere a se stesso.

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

La svolta realistica dell’ecologia politica, di Pierre Charbonnier

Proseguiamo con la pubblicazione di questo terzo articolo, il primo e il secondo hanno trattato delle posizioni politiche di Trump e Biden, il dibattito sui nuovi temi e sui nuovi oggetti di scontro nel confronto geopolitico. Il tema dell’ambientalismo è e sarà sempre più uno dei fili di conduzione che disegneranno gli scenari prossimi venturi. Già il Forum Economico Mondiale di tre anni fa e quello del 2019 hanno iniziato a porre ed imporre il tema. Abbiamo visto la loro versione dozzinale, popolare e manipolatoria nel fenomeno Greta Turnberg e quella culturale divulgativa, ma di basso livello espressa da autori, tali Hariri e Schwab. Il Forum e la musa ispiratrice di questo lancio, tale George Soros, non sono però che due degli attori e agenti di influenza e nemmeno i più importanti. L’articolo qui sotto lo dice chiaramente: l’ambientalismo è diventato un tema, uno strumento e una linea di ispirazione di centri decisionali strategici e di stati nazionali. L’impostazione offerta però da Charbonnier pecca, a mio avviso, su diversi punti. Il confronto geopolitico non può essere ridotto ad uno scontro tra capitalismo fossile, rappresentato dagli Stati Uniti e centro decisionale politico-statale rappresentato dalla Cina. Primo perché la forma capitalistica americana non ha più prevalentemente questo aspetto e ne sta pagando pesantemente le conseguenze in termini di coesione sociale della propria formazione sociale e di vulnerabilità geopolitica, semplicemente perché Ha trasferito all’estero, soprattutto beffardamente in Cina queste attività; né la Cina potrà facilmente sganciarsi dal sistema di predazione ed estrazione intensiva di materie prime e minerali che sostengono la sua economia, parte integrante queste ultime dei problemi ecologico-ambientali. Del resto la questione è mal posta se i contendenti da una parte risultano essere un centro politico-statuale, la Cina e dall’altro un centro di potere capitalistico, gli Stati Uniti. Questo solo perché si tende a rimuovere, si fatica a riconoscere nella Cina l’esistenza di un modo di produzione prettamente capitalistico, anche se dalle caratteristiche diverse plasmate dal regime politico, dalla particolare formazione sociale e dal passato sociopolitico dalle cui ceneri è sorto. Ma anche perché si tende troppo ad assimilare ed indentificare pedissequamente l’appartenenza e la condotta dei centri decisionali strategici politici statunitensi con il business se non addirittura con la sola finanza; questi ultimi in realtà sono solo parte dei primi e non è detto che siano il più delle volte componente determinante. Secondo perché è ancora tutta da dimostrare l’incapacità del rapporto sociale di produzione capitalistico di adattarsi agli imput ambientali, se non addirittura l’improbabilità a farne occasione di business sistematico attraverso anche lo sviluppo tecnologico. Del resto l’umanità ha vissuto altre fasi di crisi ambientale e la fase capitalistica ne ha vissute già almeno tre nella sua breve vita. Chi si ricorda della letteratura legata al famoso “fumo di Londra”? Sono temi che ci troveremo ad affrontare ed imposti nel prossimo futuro. Una dinamica che ci dice che la forma capitalistica è tutt’altro che morta, che i centri decisionali strategici si sono già posti il problema di assumere una postura positiva e creativa nel proporre ed imporre i propri punti di vista e su questi ci si dovrà confrontare in futuro. Giusto l’appello dell’autore, quindi, a superare l’atteggiamento ecumenico ed accomodante del movimento ambientalista sinistrorso. Non vedo proprio come nelle attuali condizioni possa assumere una postura alternativa e, forse nelle aspirazioni dell’autore, antisistemica; tanto più che il livello di confronto e scontro tra movimenti è diverso da quello tra stati e centri decisionali strategici. La netta impressione è che, volenti o nolenti, i primi siano al momento parte integrante ed integrata delle dinamiche tra i secondi. Non solo! Allo stato rischiano di cadere nell’infatuazione globalista funzionale alla creazione di un nuovo mondo unipolare o più realisticamente ad egemonia prevalente, magari con cambio della guardia annesso. Si tratta comunque di una dinamica di confronto da osservare con estrema attenzione; una dinamica che non a caso sta interessando oltre alla Cina, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna dando ad essa un titolo ben più impegnativo: il Grande Reset_Buona lettura, Giuseppe Germinario

La svolta realistica dell’ecologia politica

Perché gli ambientalisti devono imparare a parlare la lingua della geopolitica.

Il 22 settembre, il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping ha annunciato un piano per ridurre le emissioni di gas a effetto serra mirato a raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2060. Questo paese a volte è considerato il “camino del mondo”, il primo emettitore di CO 2 , la prima potenza industriale planetaria, sembra dunque intraprendere un percorso di sviluppo fino ad ora sconosciuto. Perché è davvero una scelta di sviluppo, e in nessun caso di rinuncia; e anche se si tratta davvero di attuare gli impegni presi nell’Accordo di Parigi del 2015, essi assumono un significato politico inaspettato nel contesto attuale.

In un testo pubblicato pochi giorni dopo, lo storico Adam Tooze ha spiegato i diversi significati geopolitici di questo annuncio, che considera un punto di svolta importante nell’ordine internazionale. Il peso economico, ecologico e strategico di questo Paese è infatti sufficiente a fare di questo annuncio – anche indipendentemente dalla sua successiva attuazione – una leva archimedea che dovrebbe provocare un profondo riallineamento delle politiche industriali e commerciali contemporanee.

In Europa, e ancor di più in Francia, questi annunci sono stati accolti con la massima cautela, anche in un certo silenzio. Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare. Vorrei qui cercare di andare oltre la riluttanza a vedere tutta la portata di questi annunci, per considerare come possono trasformare il rapporto tra ecologia e potere, così come è stato concepito finora nelle nostre province occidentali. .

Solo il tempo dirà se si tratta davvero di un clima di Pearl Harbor o di un annuncio incompiuto, ma quando si parla di Cina e clima, ci buttiamo subito nelle questioni. di gigantesca grandezza, che sarebbe sbagliato ignorare.

PIETRA DI CARBONE

Il primo punto che va sottolineato, e che è solo implicitamente esposto da Adam Tooze, è il monumentale paradosso storico che consiste nel portare avanti nel 2020 una dimostrazione di potere politico intraprendendo un programma di disarmo fossile. Dall’avvento delle società industriali, e ancor più dall’era post-seconda guerra mondiale, la capacità di mobilitare risorse , e ancor più risorse energetiche, è stata identificata quasi perfettamente con l’influenza sulla scena politica globale. Carbone e petrolio non sono solo i primi motori di una capacità produttiva che deve generare alti livelli di consumo e una relativa pacificazione dei rapporti di classe, ma anche le sfide delle proiezioni transfrontaliere di potenza destinate a garantire una fornitura continua a prezzi bassi. L’ordine politico derivante dalla seconda guerra mondiale, totalmente ossessionato dalla ricerca di stabilità (in assenza di vera pace) dopo l’episodio del fascismo, ha trovato nello schieramento delle forze produttive uno strumento di ineguagliabile potere che consente sia di calmare le tensioni interne nelle società industriali, sia di mantenere lo status quo tra queste nazioni e i nuovi attori derivanti dalla decolonizzazione.

È questa dinamica storica che spiega la riluttanza a seguire il percorso di una rivoluzione ecologica. Se l’imperativo climatico è stato esposto in dettaglio dalle scienze del sistema Terra, l’inerzia del paradigma evoluzionista e il suo effetto macchia sulle relazioni internazionali così come sulle relazioni di classe hanno a lungo paralizzato la biforcazione verde. Ci si chiede come si possa salvaguardare il “modello sociale”, francese o no, se ci si priva di un motore essenziale di crescita, e dall’altra parte del mondo ci si chiede come potranno essere capaci le richieste di sviluppo di accontentarsi di un pianeta che mostra i suoi limiti.

Di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, davanti alle ambiguità del piano europeo di ripresa ecologica, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica di potere senza il supporto di combustibili fossili.

PIETRA DI CARBONE

L’annuncio del presidente cinese rompe questa logica, ed è per questo che riveste un’importanza storica: di fronte alla stagnazione degli Stati Uniti in una crisi democratica, di fronte alle ambiguità del piano di ripresa ecologica europea, la Cina prende l’iniziativa e apre una breccia segnalando che ora è possibile, anzi necessario, perseguire una politica energetica senza il supporto dei combustibili fossili. In questo contesto ovviamente il piano per finanziare un’infrastruttura produttiva a basse emissioni di carbonio non significa che la Cina stia abbandonando il suo sogno di sviluppo e influenza geostrategica. Sta semplicemente annunciando che ora baserà il suo potere – sia il suo motore economico che la sua base strategica – su altre possibilità materiali. Questi sono ancora poco conosciuti e ovviamente lasceranno gran parte al nucleare1, ma contengono i semi di un cambiamento nelle relazioni di potere tra la Cina e il mondo.

La Cina sta così facendo un doppio colpo. Risponde prima alla scienza e immagina un futuro in cui il riscaldamento globale è limitato, e allo stesso tempo consolida la sua legittimità interna ed esterna apparendo come un attore responsabile, in linea con gli obiettivi annunciati durante l’Accordo di Parigi. . Adam Tooze, storico delle economie di guerra, ha perfettamente gettato luce sul carattere sia realistico che morale di questo annuncio: non possiamo accontentarci di un dibattito che si opponga a intenzioni egoistiche orientate al guadagno di potere e altro puro, finalizzato a un bene comune globale. Entrambe le dimensioni sono presenti nell’annuncio della Cina e dobbiamo prepararci affinché siano costantemente intrecciate l’una con l’altra negli anni a venire.

Ma ha anche senso in termini di filosofia politica, ed è senza dubbio quello che ci è mancato in Europa. Se, come ho suggerito in Abbondanza e libertà, la composizione degli interessi umani nella sfera politica è sempre sostenuta da possibilità materiali, allora dobbiamo ammettere che stiamo attraversando un cambiamento fondamentale in questi assemblaggi geo-ecologici. Mentre da tempo ci siamo posti la questione della perpetuazione di un potere politico legittimo, vale a dire di una democratizzazione del capitalismo, nel contesto di un cambiamento energetico ed ecologico percepito come necessario senza sapere esattamente come attuarlo, dobbiamo ora accettare l’idea che questi cambiamenti alimenteranno piuttosto processi di relegittimazione e consolidamento del potere. Questo rovesciamento assolutamente cruciale della materialità delle politiche moderne si sta verificando davanti ai nostri occhi: dare forma a politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo degli interessi condivisi., ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra. Se l’escalation delle politiche di produttività basate sui combustibili fossili, soprattutto tra Stati Uniti e Cina, potesse essere paragonata a una guerra latente, anche il processo di disarmo e smantellamento di questa infrastruttura sarà profondamente conflittuale.

La formazione di politiche post-carbonio non è un approdo pacifico nel mondo di interessi condivisi, ma uno spazio di rivalità organizzato attorno a nuove infrastrutture, nuovi assemblaggi tra potere politico e mobilitazione della Terra.

PIERRE CHARBONNIER

Il secondo punto da sottolineare riguarda più direttamente il movimento per il clima e l’ecologia, l’universo rosso-verde o rosa-verde, così come esiste in Europa e negli Stati Uniti. Negli ultimi anni si è assistito al riavvicinamento tra l’immaginario politico della sinistra sociale classica, erede del movimento operaio, e quello dell’ecologia politica, spinto dal potere crescente dell’imperativo climatico. Se il compromesso intellettuale tra questi due mondi rimane piuttosto fragile, visto che si può discutere l’allineamento tra lo sfruttamento dell’uomo e la natura, sta prendendo forma un patto strategico attorno alla riattivazione dell’interventismo economico, in una serie di riferimenti al dopoguerra. Il Green New Deal, nelle sue versioni americana ed europea, è oggetto di significative variazioni, terreno comune delle sinistre occidentali.

Ma la forza del Green New Deal è anche la sua debolezza. Questo piano di ricostruzione economica e sociale intende superare l’ostacolo che la questione occupazionale costituiva subordinando la transizione energetica a un’esigenza di ridistribuzione, controllo dei canali di investimento e perfino garanzia di occupazione. Così definito, questo progetto corre il rischio di perpetuare le disuguaglianze strutturali tra Nord e Sud, poiché i paesi cosiddetti “in via di sviluppo” saranno probabilmente privati ​​dei mezzi per finanziare tali piani, quando i loro partner del Nord potranno reinvestire il loro capitale tecnologico e scientifico in una ristrutturazione che aumenterà il loro “vantaggio” e la loro sicurezza. Questo è un paradosso, peraltro, sottolineato di recente da Tooze,

Almeno dagli anni ’90, l’ambientalismo occidentale è stato oggetto di aspre critiche, in particolare dall’India. Ramachandra Guha, ad esempio, ha svelato le radici razziste e coloniali dell’immaginazione Wilderness ., che ha permesso ai nordamericani di lavare via la loro cattiva coscienza urbana e industriale nei parchi naturali creati dallo sgombero delle comunità indigene. Questo tumulto coloniale, che accompagna le politiche ambientali dei ricchi, continua in un modo con il paradosso del Green New Deal. Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare e compensare. Sappiamo quindi che la superiorità morale dell’ecologia dipende da poco e che è da costruire piuttosto che da postulare, perché molto spesso si tratta di idee pacifiche forgiate in un mondo violento.

Per molto tempo c’è stata una falsità tra il discorso morale e universalista dell’ecologia, anche quando è associato alla questione sociale, e la realtà più oscura delle disuguaglianze materiali strutturali che si sforza di superare. compensare.

PIERRE CHARBONNIER

E anche qui la decisione cinese capovolge il gioco. Infatti, il piano di uscita dai combustibili fossili annunciato da Xi Jinping non si basa su un argomento morale riguardante i depredamenti ambientali causati dal regime estrattivo e industriale, né una risposta alle manifestazioni della società civile o il desiderio di inquadrare o abolire il regime di sfruttamento del capitalismo. Cerca solo di modificare la base materiale, in una prospettiva che si potrebbe dire eco-modernista, non contraddittoria con il mantenimento delle ambizioni di potere. Risulta, a causa del peso dell’economia cinese su scala globale, che questo piano deciso verticalmente avrebbe conseguenze benefiche per il clima globale, e quindi per tutta l’umanità (questo è ciò che la differenzia da un piano simile che verrebbe deciso, ad esempio, in Francia), ma è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con cui il presidente e i cinesi possono giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale – più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euro-americano. In altre parole, mentre la Cina è desiderosa di presentarsi nelle arene internazionali nel campo dei paesi “in via di sviluppo”, e quindi legittimata a rivendicare un recupero economico rispetto al Nord, è davvero in una posizione di leader mondiale quale è quando assume posture attraverso questi annunci; in realtà è una conseguenza laterale delle decisioni prese a Pechino con le quali il presidente cinese sa giocare. È solo per il suo peso materiale che la Cina tiene voce a ciò che si potrebbe dire universale, più universale della superiorità morale dell’ambientalismo euroamericano.

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In Europa siamo abituati a pensare, ed è così anche per me, che la questione ecologica stia subentrando a un movimento di emancipazione senza fiato. In altre parole, ritradurrebbe le richieste sociali di uguaglianza e libertà inserendole in un nuovo sistema di produzione e consumo che offrirebbe minori opportunità di sfruttamento economico e anomia individualista. Si tratta, insomma, di favorire l’emergere di una nuova tipologia sociale, rompendo con quella che ha accompagnato il periodo di rapida crescita, e affidandosi ad essa per riattivare un processo di democratizzazione e inclusione sociale ormai impantanato. Questo progetto può essere utilizzato per squalificare gli annunci cinesi, sostenendo che non sono all’altezza del lavoro, o che risolvono il problema con mezzi autoritari. Forse. Ma adottando questa strategia (e credo che sia la mentalità dominante in questi ambiti), rischiamo di non comprendere appieno in quali acque geopolitiche e ideologiche stiamo navigando, che lo vogliamo o no, e quindi non riescono a cogliere il significato storico del nostro progetto.

Sarebbe infatti riduttivo immaginare che il conflitto in cui siamo presi si opponga da un lato a un capitalismo sfruttatore, alienante ed estrattivo, e dall’altro a un’ecologia politica di riconciliazione tra umani e tra umani e non umani. . Questa sarebbe la conseguenza della fusione del lessico controculturale dell’ambientalismo e del lessico della critica sociale nell’universo rosso-verde: un’alternativa semplicistica tra ecologia e barbarie. Piuttosto, ora ci troviamo in una situazione in cui coesiste un capitalismo fossile che invecchia, impigliato nelle sue contraddizioni sociali e materiali, un capitalismo di stato nel processo di decarbonizzazione accelerata e, forse, un percorso più impegnativo e radicale, che sarebbe la reinvenzione del senso di progresso e del valore sociale della produzione. Se accettiamo di descrivere la situazione in questi termini, ovviamente ancora molto rudimentali, la sinistra rossoverde europea assume un altro significato. Perché non è più intrappolato in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto all’interno del quale incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico.

L’ecologia politica perde il proprio statuto di contro-modello unico; perde la capacità di imporsi nel dibattito come forma politica antiegemonica. Le conseguenze sono di due ordini. Perché non è più preso in un confronto binario con il capitalismo (reputato immancabilmente fossile), un confronto in cui incarnerebbe il fronte del progresso, investito di una missione universale. Il modello cinese in fase di sviluppo costituisce un terzo termine, un terzo modello di sviluppo, entrambi compatibili con gli obiettivi climatici globali definiti nel 2015 a Parigi e quindi con l’interesse universale dell’umanità, ma un modello che è anche in tensione con l’ideale di democrazia verde difeso dal movimento socio-ecologico, investito di una missione universale.

L’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica.

PIERRE CHARBONNIER

In altre parole, l’ecologia politica perde il suo status di contro-modello unico: perde la capacità di imporsi nei dibattiti come forma politica antiegemonica. E le conseguenze sono duplici. Innanzitutto, che tipo di alleanza stringerà con il modello cinese per salvaguardare almeno l’essenziale sul rigoroso livello climatico – a rischio di non avere più “mani pulite”? E simmetricamente, come farà sentire la sua specificità rispetto a questo nuovo paradigma?

Per la sinistra socio-ecologica europea la posta in gioco è sapere se gli annunci cinesi hanno in qualche modo “rubato la scena”, incarnando ormai la via centrale per uscire dalla situazione di stallo climatico, o se per gioco a tre bande più complesse e che impegna anche il rapporto di Trump con gli Stati Uniti, aprono una breccia in cui bisogna precipitarsi senza indugio. Questa rottura è semplicemente il definitivo indebolimento sulla scena economica e politica globale del capitalismo fossile, dello stile di vita americano, che risulta essere l’attore più fragile tra i tre sopra descritti, e quindi l’apertura di un dibattito più diretto tra Cina e noi. Per dirla più semplicemente: quali forme politiche sostenere contro la biforcazione ecologica? Perché se teniamo presente il carattere autoritario e verticale del percorso di decarbonizzazione cinese, dunque che il suo focus per il momento esclusivamente sulla dimensione climatica dei temi a scapito delle altre dimensioni dell’imperativo ecologico globale (biodiversità, salute, inquinamento dell’acqua e del suolo), resta aperto un ampio spazio politico. L’integrazione delle rivendicazioni democratiche nella biforcazione ecologica e la volontà di imporre una frenata d’emergenza sull’illimitatezza economica possono essere i due supporti di un’escalation che lungi dall’essere moralizzante, sarà pienamente politica.

L’ecologia europea deve fare la sua svolta realistica. Deve abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su una scena politica complessa.

PIERRE CHARBONNIER

L’ecologia europea deve quindi fare la sua svolta realistica. Ciò non significa che debba entrare in un dibattito aggressivo e marziale con altri attori geopolitici, ma che debba abbandonare l’abitudine dannosa di esprimersi in termini consensuali e pacificatori, per accettare di giocare su un scena politica complessa.

Dopo tutto, questa dimensione è sempre esistita nella storia della questione sociale. Anche se queste sono cose che non sempre ci piace ricordare, la costruzione di sistemi di protezione è iniziata in Prussia – e in un certo senso Xi Jinping è una sorta di Bismarck dell’ecologia: non non era così ansioso di ascoltare e sostenere le richieste di giustizia ambientale per metterle a tacere. Dopo la guerra, i progressi del diritto sociale in Europa sono incomprensibili se non parte del gioco geopolitico che combina lo spettro del fascismo, la guerra da estinguere, la possibilità bolscevica e l’influenza americana. Come disse un rappresentante laburista britannico nel 1952, il servizio sanitario nazionale è un sottoprodotto del Blitz2. Insomma, l’emancipazione non si conquista sempre, e nemmeno principalmente, con espressioni di generosità morale: è anche questione di potere. La figura di Lenin sembra in questi anni essere oggetto di un ritorno nel pensiero critico, forse proprio perché l’ecologia non ha ancora trovato il suo Lenin.

In un certo senso Xi Jinping è un po ‘il Bismarck dell’ecologia: non desiderava tanto ascoltare le richieste di giustizia ambientale, perché le mettesse a tacere.

PIERRE CHARBONNIER

L’ecologia può quindi accettare abbastanza di parlare di strategia, conflitto, sicurezza, può presentarsi come una dinamica di costruzione di una forma politica che assume l’idea di potere, senza ricadere sulle sue esigenze democratiche e sociali e senza perdere di vista il suo ideale di limitazione della sfera economica – al di là dello stretto problema delle emissioni di gas serra. Al contrario: è probabile che queste richieste vengano realizzate solo se investite in riflessioni e pratiche specificamente politiche. Ma affinché ciò sia possibile, dobbiamo lasciarci alle spalle la tendenza a invocare valori più elevati, perché non abbiamo il monopolio sulla critica del paradigma dello sviluppo fossile, né abbiamo la massa economica critica che ci consente di affermarci come attori di portata universale. Si sta formando una nuova arena in cui non abbiamo altra scelta che entrare.

COMPITI PER IL PENSIERO, di Pierluigi Fagan

COMPITI PER IL PENSIERO. (Lungo, ma l’argomento è vasto e complicato). Da un paio di giorni, nei titoli dei giornali, gira l’annuncio che -causa COVID-, la Cina dovrebbe raggiungere il vertice della classifica mondiale dei Pil assoluti con cinque anni di anticipo, dal precedentemente previsto 2033 all’attualizzato 2028 (fonte: Centre for Economics and Business Research nel Rapporto rilasciato lo scorso 26.12).
La “Cina” è un vero e proprio caso cruciale della distorsione della nostra immagine di mondo. La Cina non gioca secondo le regole, la Cina performa meglio perché ha un governo autoritario, no performa meglio perché è “socialista”, la Cina non è una democrazia, forse addirittura ha lei diffuso il coronavirus apposta per mettere in difficoltà i suoi principali competitors. Tutti questi giudizi possono esser dati ed argomentati, ma non si capisce cosa c’entrino a commento del fatto in questione.
Il fatto in questione, che la Cina si avvia in tempi storici brevi a diventare la prima potenza economica del mondo (se tra otto o dodici anni mi pare l’ultimo dei problemi), è noto da anni solo che non è preso in consapevolezza obiettiva dalla nostra immagine di mondo. Due e molto semplici le ragioni: la prima è che sono 1,4 miliardi di persone, la seconda è che dagli anni ’80 hanno abbracciato i principi dell’economia moderna iniziando così una traiettoria che porta dal sottosviluppo all’ipersviluppo, come è accaduto a noi in tre secoli. Applichi la formula del successo moderno ad 1,4 mld di persone, ne viene fuori una ipergigante rossa, l’oggetto stellare di maggior massa dell’Universo (dopo le stelle a neutroni).
Tali ragioni obiettive e per altro abbastanza semplici da comprendere, portano due angosce a noi occidentali. La prima è che il mondo si va ad equalizzare per dimensioni, paesi più grandi –a parità (circa) di modo economico-, avranno volume economico più grande. Qui l’angoscia è soprattutto europea poiché l’Europa eredita una forma stato-nazionale che origina dal ‘500, quando per gli europei, il “mondo” era appunto il loro subcontinente. Quindi, il fenomeno storico stato-nazionale che comincia dalla Francia del ‘400, aveva a contesto i rapporti con l’Inghilterra e viceversa, la Spagna aveva a contesto di riferimento ciò che avveniva in Francia ed il Portogallo ciò che avveniva in Spagna. Così, il fenomeno stato-nazionale è andato avanti sino alla seconda metà del XIX secolo, quando sono arrivati gli ultimi Stato-nazione, l’Italia e la Germania. S’intenda, le forze che portarono allo Stato-nazione non riguardavano solo l’esterno ma come per tutti gli enti, la relazione tra le loro condizioni di possibilità interne (territorio e confini “naturali” che nel tempo hanno sedimentato lingue ed habitus più o meno comuni in una dato “popolo”, tipo lingua, tradizioni religiose, cultura materiale etc.) ed appunto l’esterno ovvero pari dinamiche per l’ente o gli enti vicini in competizione per risorse e territori. Infatti, la nascita dei primi Stato-nazione (F-I-S-P) fu -più o meno- sincronica in termini di tempo storico.
Così, nel 2035 rispetto anche al solo 2005, tra le prime dieci economie del mondo, irrompono i cinesi (1,4 miliardi), gli indiani (1,3 mld), l’Indonesia (0.270-0.300 mld), il Brasile (0.210-0.240 mld) e financo la Russia (0.150 mld) mentre Italia, Canada e Spagna escono dalla top ten ed USA, Giappone, Germania, UK e Francia scalano di qualche posizione. Ovviamente non è una legge meccanica (cioè “precisa” e quando le “leggi” non sono precise si chiamano “regole”), UK, Francia ed Italia non hanno popolazioni molto diverse per volume, ma performance economiche sì. Questo nuova regola del volume è inquietante per gli occidentali poiché -in prospettiva- dopo gli USA che hanno comunque la terza popolazione mondiale per volume, i campioni occidentali Germania-UK-Francia, sono solo al 19°-20°-21° posto per popolazione, ed in prospettiva perderanno posizioni per ragioni di curva demografica. In più è inquietante perché introduce un elemento di materialismo volgare che limita la nostra innata foga idealistica concettuale quasi che i concetti che riflettono il mondo, non debbano fare i conti con la sottostante consistenza di “numero-peso-misura”.
La seconda ragione obiettiva dice che i pesi delle potenze del mondo vanno a modificarsi in ragione del fatto che il modo economico moderno (che tu ti ostini a chiamare “capitalismo” infilandoti in una foreste di inestricabili aporie concettuali di cui “ma la Cina è capitalista o no?” è il più frequentato luogo comune del dibattito colto) ormai è applicato ovunque, una specialità che ha segnato la potenza occidentale degli ultimi tre-quattro secoli non è più una differenza. Per “modo economico moderno” intendiamo la formula: IDEE (scienza e tecnica) + ENERGIA e MATERIA + CAPITALI + ATTIVITA’ ECONOMIA (produzione e commercio) + MERCATO, con alcune varianti di interpretazione e peso, ma nella sostanza con partitura sostanzialmente simile. Poi c’è il rapporto tra economia e politica ma questo è un altro tema. Se quindi, non c’è più una vantaggio comparato di modo, allora il peso volumetrico del Paese-economia, farà la differenza.
Ma poi l’angoscia aumenta perché si va scoprendo anche un’altra legge naturale assai semplice e volgare ovvero che essere all’inizio o alla fine del ciclo di sviluppo, fa la differenza. All’inizio è tutto molto semplice, serve tutto, c’è domanda potenziale che traina senza problemi. Alla fine, non sai più cosa inventarti per trainare il fatto economico. Hai già fatto la rivoluzione energetica, meccanica, elettrica, chimica, dopo la guerra euro-mondiale dei trenta anni hai ricostruito quello che ti eri buttato giù da solo, hai inventato il consumismo, ma negli ultimi decenni hai inventato solo il digitale e cominciato ad applicare la tecno-scienza al biologico. Per carità, strade interessanti ma non del volume ed intensità economica della quadruplice rivoluzione a cavallo tra XIX-XX secolo o della ripresa post bellica. Pensi di tenere in piedi la tua complessa società del “benessere per il maggior numero” con le app? Auguri!
Ecco dunque che improvvisamente (“improvvisamente” perché la tua idm era impostata per leggere altre cose del mondo ed i segnali obiettivi, del tutto concreti e palesi, non sei stato in grado di leggerli per tempo) scopri che sei diventato un peso medio in un mondo di pesi massimi, che tali pesi massimi diventeranno demograficamente sempre più voluminosi e tu sempre meno, che non ti protegge più alcuna specialità competitiva, che sei alla fine del ciclo di sviluppo ed arranchi ad inventarti cose che ti ridiano la potenza della giovinezza mentre la megafauna demografica ha davanti a sé decenni di case, auto, strade, porti, aeroporti, televisioni, telefoni e computer da poter produrre per saziare la fame di benessere delle loro giovani e voluminose popolazioni.
In termini di geoeconomia poi, ti accorgi che 7+1 delle prime dieci posizioni del 2005 erano occidentali mentre nel 2035 saranno solo 4 ed il Giappone che prima potevi contare come del tutto “occidentale”, ora rischia di dover esser contato come asiatico. Su le prime 11 posizioni, 5 saranno asiatiche sempre che tu non voglia contare anche la Russia che stai ostracizzando e spingendo in tutti i modi lì dove non sembra ti convenga poi così tanto, così saranno 6, saranno un “sistema”, un sistema basato su un contesto che conterà il 60% della popolazione mondiale, che con un 20% di Africa farà l’80% del mondo. Quel mondo di cui solo un secolo fa eri un terzo. E che tu potrai continuare a contare USA-UK-Germania e Francia come appartenenti ad un unico sistema è anche molto dubbio. Poiché dalla geoeconomia alla geopolitica il passo è breve, ne dovresti dedurre la auto-evidenza del nuovo formato multipolare ed il problema del “con”-“dominio” sul mondo, ma l’argomento non ti piace e quindi fai finta di niente. Oppure sbraiti contro il Nuovo Ordine Mondiale perché hai letto o fai finta di aver letto qualche romanzo distopico che ti ha turbato.
Tutto questo dice già abbastanza cose da meritare una riflessione ponderata. Devi solo aggiungere altre tre cose. La prima è il tempo estremamente breve in cui questi potenti fenomeni si sono prodotti. Forse meno brevi di quanto tu ti sia accorto visto che non vedevi certe cose perché la polarizzazione dei tuoi occhiali non permetteva ai fotoni di quei fenomeni in atto di raggiungere la tua cornea e poi la tua corteccia prefrontale (La regione implicata nella interpretazione del mondo attorno, nella pianificazione dei comportamenti cognitivi complessi, nell’espressione della personalità, nella presa delle decisioni e nella condotta sociale). Inoltre, chi domina il tuo mondo, s’è votato al “buying time” (guadagnar tempo) perché non trovava soluzioni secondo lui “idonee” a risolvere la brutta equazione e quindi ha evitato si tematizzasse il tema. La seconda cosa è che è molto dubbio che il modo economico moderno nato in Europa da quattro secoli fa quando sul pianeta si era 650 milioni in tutto, possa funzionare in un mondo di 8-9 e passa miliardi di persone. A cominciare dal punto di vista ambientale. La terza è riflettere sul perché tu ti ostini a parlare soprattutto di economia, ma anche di società, politica e geopolitica con categorie e giudizi forgiati almeno due secoli fa, il pensiero riflette il suo tempo, cambia il tempo dovresti cambiare anche le forme del pensiero, o no?
Non ti sembra quindi opportuno e prioritario cominciar dal fare una riflessione su come rifletti? Se perdi la facoltà di comprendere il mondo, come potrai darti un futuro?

La risposta democratica alla dottrina Trump 2a parte, di Maya Kandel

La prima parte di questo sondaggio in due parti può essere trovata qui .

Trump ha aperto il più grande dibattito di politica estera negli Stati Uniti da decenni, dopo essere stato eletto nel 2016 sulla sua promessa di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo. La sua risposta, “America First”, ha sfidato alcuni postulati dell’azione estera del paese e ha posto la questione del legame tra politica estera e politica interna al centro del dibattito democratico. Dopo una prima sezione dedicata alla  dottrina Trump , questa seconda sezione si concentra sulla visione, o più precisamente sulle visioni democratiche in politica estera: la dottrina Biden non esiste ancora, e si cristallizzerà solo sotto la prova di potere ed eventi dei prossimi anni. Ma è stato costruito da un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

Ricostruisci dopo Trump

Il campo democratico condivide la diagnosi trumpiana di una crisi nella politica estera americana. La specificità del 2016, al di là di Trump, era legata alla specificità del momento per la politica estera, cristallizzando una doppia crisi, e in particolare una crisi interna di legittimità della politica estera: il fatto che gli americani non sostenessero più, e non capiva più l’azione esterna del Paese. Le élite democratiche specializzate in politica estera hanno visto questa crisi e hanno trascorso quattro anni cercando di trarne le conseguenze. 

Così va inteso lo slogan “  Build back better  ” della campagna Biden: ricostruire meglio e in modo diverso, come dopo un disastro naturale. La frase è il filo conduttore del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, che lo ha già assunto nel gennaio 2019. Non è un promemoria del truismo democratico che da tempo ripete che il potere esterno deve basarsi sul potere interno: l’ondata populista è passata da qui, ed è una riflessione sul 2016 e sul voto di Trump che lasciano i Democratici di oggi.

La dottrina Biden non esiste ancora e si cristallizzerà solo sotto la prova del potere e gli eventi dei prossimi anni. Ma si basa su un’eredità di Trump che non negherà del tutto.

MAYA KANDEL

Al centro della formula, portata dallo stesso Sullivan, troviamo questa  diagnosi  secondo la quale gli americani non sostengono più la politica estera perché sentono che non serve più i loro interessi: il che porta al secondo slogan del E ‘l’era Biden, già indossata da  Elizabeth Warren  durante le primarie, ovvero la volontà di fare “una politica estera per la borghesia” (americana, ovviamente). Questo è anche il titolo di un rapporto del think tank Carnegie, pubblicato a fine settembre ma frutto di un lavoro durato diversi anni lontano da Washington, per sondare gli americani nel “cuore del Paese” sulla loro visione e sulle loro aspettative. -politica estera visibile: questo rapporto, giustamente intitolato ”   Far funzionare la politica estera per la classe media  »Chiede di ripensare il ruolo internazionale del paese; tra i suoi coautori troviamo Jake Sullivan.

La nuova amministrazione democratica eredita altri elementi, grazie ancora a Trump, che lo ha reso possibile, proprio perché non era un esperto (eufemismo) e voleva scuotere il sistema, per mettere in discussione alcuni presupposti: esso È qui che troviamo l’altro slogan comune a entrambe le parti, la “fine delle guerre infinite” in Medio Oriente, un altro modo per porre fine al periodo successivo all’11 settembre 2001 (l’accelerazione degli annunci di ritiro – Afghanistan , Iraq, Somalia – dal momento che la sconfitta di Trump è adatta ai Democratici, che hanno protestato meno dei loro omologhi repubblicani). Vale anche la pena menzionare qui la messa in discussione del libero scambio su uno sfondo di critiche populiste sia da destra che da sinistra, considerando che la globalizzazioneavvantaggiavano le multinazionali e i loro profitti molto più degli interessi dei cittadini (anche se i consumatori potevano comprare a meno). Aggiunto alla fine del ruolo americano di “poliziotto del mondo”, già respinto da Obama con il pretesto di diminuire i mezzi, è infatti il ​​periodo del dopo Guerra Fredda che si chiude anche per i Democratici, con la comune constatazione del fallimento. del principio guida della politica estera americana dal 1990 che postulava l’idea che l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li avrebbe resi partner responsabili (anche, idealmente, democrazie liberali): Cina e Russia non sono diventate nessuno dei due, mentre la relativa potenza americana è diminuita di fronte all’ascesa dei paesi emergenti, a cominciare dalla Cina.di un “realismo” a lungo diffamato nell’intellighenzia di politica estera: ”   realismo con principi   ” nella dottrina Trump (una formula usata nella strategia di sicurezza nazionale del 2017), ”   realismo progressista   ” per la sinistra del partito democratico, il che suona in entrambi i casi come ammettere i limiti del potere americano.

La visione democratica differisce dalla dottrina Trump su due caratteristiche centrali: minacce e mezzi (il punto di partenza e il cuore della strategia). La prima divergenza strategica riguarda non solo la gerarchia delle minacce, ma anche più profondamente la loro natura. L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, ampiamente ignorate dai repubblicani, e si colloca persino ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la guerra fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico. La divergenza sui mezzi deriva principalmente da questa visione più ampia delle minacce, poiché la cooperazione internazionale diventa una condizione necessaria per affrontarle laddove l’amministrazione Trump aveva fatto dell’unilateralismo (o bilateralismo) il suo approccio unico alle relazioni internazionali. . Riscopre la tradizionale insistenza democratica sulla diplomazia e contro l’eccessiva militarizzazione della politica estera americana. Il multilateralismo nasce da questo per i Democratici, come metodo ma anche come principio, quello basato sulla convinzione che alleati e partner siano ancora il principale moltiplicatore di potere degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Questa prospettiva non contraddice in alcun modo il fatto che un presidente americano abbia come priorità la difesa degli interessi americani, e non impedirà un approccio più nazionalista o patriottico alla definizione di questi stessi interessi; ma implica l’esistenza di una comunità internazionale, un’esistenza che il team di Trump aveva negato fin dall’inizio attraverso la voce del suo secondo segretario alla sicurezza nazionale, HR McMaster. Anche un simile approccio si opponela visione hobbesiana di uomo Trump affare , per i quali le relazioni internazionali non può essere un gioco a somma zero: i democratici ritengono che siamo in grado di proporre i propri interessi senza necessariamente danneggiare degli altri, anche spostandoli anche in avanti. Infine, Biden e la sua cerchia ristretta vogliono anche ricostruire una base bipartisan per la politica estera, al fine di garantire la stabilità dei principali orientamenti esterni del Paese: questo risponde a una preoccupazione di efficienza, ma anche al fatto che il principale  pericolo di polarizzazione  della politica estera è la perdita di fiducia dei partner di fronte alla cronica instabilità degli impegni internazionali degli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda.

L’agenda democratica enfatizza le minacce globali e transnazionali, largamente ignorate dai repubblicani, e pone addirittura ai vertici come minaccia “esistenziale” – alla pari del comunismo durante la Guerra Fredda – non la Cina, ma il cambiamento climatico.

MAYA KANDEL

Ripoliticizzare la politica estera

Il filo conduttore del pensiero democratico, logica conseguenza della polarizzazione della politica estera americana, è quello della ripoliticizzazione della politica estera nel suo insieme, anche nella definizione degli interessi nazionali. Sullivan ha menzionato, nel suo articolo del 2019, uno scambio sintomatico con l’economista Jennifer Harris che gli ha chiesto perché la sua amministrazione seguisse comunque esattamente la stessa politica economica internazionale, quando la politica estera di Obama doveva essere una rottura con quella di Bush. Questa critica evoca il grilletto per la critica populista della politica estera (rifiuto di TINA,  There Is No Alternative, un altro nome del consenso neoliberista prevalente dagli anni ’80 fino alle sue recenti critiche), ricorda la necessità di studiare la base elettorale della politica estera, perché le questioni interne ed esterne sono intrecciate – ciò che i cittadini sanno. Si pone la necessità di ripensare la natura e il posto della politica economica internazionale al centro della strategia, argomento su cui hanno lavorato anche gli stessi Sullivan e Harris   in un articolo dal titolo originale premonitore ( Neoliberalism is done ), mettendo in discussione il postulati neoliberisti che hanno guidato la politica economica dall’era Reagan-Thatcher.

L’ ambizione di spazzare via quello che altri chiamano il “Washington consensus” sopravviverà ai vincoli politici americani? La domanda può essere posta, sia alla luce delle attuali condizioni politiche a Washington, sia per la molteplicità dei punti di vista democratici. Thomas Wright, analista presso la Brookings Institution di Washington, ha  proposto una dicotomia tra restaurazione o riforma come griglia per interpretare la politica estera di Biden, visto che il dibattito principale si svolge all’interno di circoli centristi, tra lealisti della linea Obama (restaurazione) e desiderio di diritti di inventario (riforma) . Siamo tentati di aggiungere “rivoluzione” per tener conto del peso dei progressisti della tendenza AOC-Sanders (i Warrenisti sono più dalla parte dei riformatori della griglia di Wright) nel dibattito di politica estera. Il fatto che la sinistra della sinistra democratica intenda influenzare il dibattito di politica estera è già un fatto nuovo che guida le scelte della prossima amministrazione. La differenza si giocherà, per il mondo come per gli americani, sulla politica economica internazionale, soprattutto sul commercio, in particolare nelle sue variazioni sulla tecnologia e sul clima. Con speronela questione cinese , come per la dottrina Trump – uno sprone che potrebbe diventare il motore o addirittura la principale continuità, a causa  delle condizioni politiche degli Stati Uniti contemporanei evidenziati dalle elezioni del 2020: una vittoria democratica molto netta a livello nazionale, ma una base elettorale trumpista consolidata e ampliata, risultante in termini politici da un equilibrio di potere quasi uguale, con forse il mantenimento di un Senato repubblicano (risposta dopo il 5 gennaio 2021 e risultati dei due secondi turni delle elezioni senatoriali in Georgia). Ma l’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

Se il suo margine di manovra fosse limitato a livello nazionale da un Senato repubblicano, Biden potrebbe essere spinto ad agire più a livello internazionale dove l’azione del Presidente è meno vincolata dal Congresso. Tuttavia, l’amministrazione dovrà fare i conti da un lato con i due poli di un partito repubblicano diviso tra tendenze trumpiste all’isolazionismo e fautori di un internazionalismo militarista ora anti-cinese, e dall’altro si scontrerà con le divisioni del Campo democratico sulla politica estera. La ricerca di un sostegno bipartisan potrebbe in particolare irrigidire la politica cinese dell’amministrazione Biden, con conseguenze per il posizionamento europeo e lo sviluppo delle relazioni transatlantiche .

L’agenda molto ambiziosa di Biden deve passare attraverso la legislazione. Il suo margine di manovra dipenderà quindi in larga misura da questo “terzo turno” delle elezioni, i due senatori georgiani, che determineranno gli equilibri politici all’interno del Senato.

MAYA KANDEL

Ridefinire la sicurezza nazionale: l’offensiva progressiva

La pandemia e l’anno 2020 hanno fatto luce sulla  portata dei movimenti  nati o decollati dall’inizio della presidenza Trump, e soprattutto hanno permesso la loro cristallizzazione in una mobilitazione di massa popolare dopo la diffusione dell’assassinio di George Floyd. Sono infatti la reclusione, la disoccupazione forzata e gli effetti della pandemia che non solo hanno alimentato la frustrazione, ma hanno anche permesso la consapevolezza e le manifestazioni massicce, insolite e storiche della popolazione americana. Le mobilitazioni riunite ben oltre gli attivisti di  Black Lives Matter , hanno illustrato i legami e le convergenze di questi movimenti (dal  Sunrise Movement  al  Working Families Party attraverso i  Justice Democrats e molti gruppi femministi, etnici, LGBTQA +, ecc.), e hanno mostrato la forza dei “nuovi attivisti” – per citare l’espressione  nell’eccellente libro di  Mathieu Magnaudeix, movimenti nati o che hanno ha acquisito uno slancio notevole durante i quattro anni di presidenza di Trump. Questi sviluppi hanno trasformato la candidatura di Biden, costringendo il candidato a coinvolgere da vicino i progressisti nello sviluppo del suo progetto, con la costituzione di gruppi di lavoro tra il suo team e quello di Sanders, e più in generale alla sua futura amministrazione, con il  reclutamento all’interno del suo stretto staff di personalità appartenenti a minoranze etnico-razziali. Senza la fine delle primarie e la rinuncia e il chiaro raduno di Sanders da marzo 2020, possiamo immaginare che il campo democratico non si sarebbe avvicinato alla campagna generale nello stesso stato, e probabilmente non avremmo conosciuto una tale collaborazione. durante la campagna tra le due ali nemiche. Questa trasformazione ha colpito per la prima volta il clima economico del  programma , incluso Biden, a metà luglio dal programma soprannominato  Sunrise Movement , che era molto critico nei confronti del piano Biden di pochi mesi fa.

La progressiva offensiva per realizzare un vero cambiamento sistemico si è manifestata anche in politica estera. Questo aspetto segna una rottura con i Democratici – un segno della fine dell’era post-Guerra Fredda – al di là anche della messa in discussione di ciò che aveva guidato l’atteggiamento della sinistra durante la Guerra Fredda almeno fino a «la guerra del Vietnam: l’accettazione di un accantonamento nella politica interna, lasciando agli esperti di strateghi la conduzione degli affari esteri a causa dell’imperativo imperativo di lottare contro l’Unione Sovietica; a quel tempo, la politica estera era destinata anche a servire le classi medie perché garantiva la crescita economica (che in genere era il caso all’epoca). Dopo il Vietnam, la sinistra di sinistra si è poi trovata in una posizione pacifista e antimilitarista, senza però investire in politica estera al di là dell’opposizione aperta. Dopo la Guerra Fredda, alcuni pacifisti storici, come il rappresentante Ron Dellums, si erano persino uniti ai sostenitori degli interventi umanitari, in particolare negli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per affascinanti dibattiti sulla definizione di a in particolare durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a soprattutto durante gli anni ’90 (Bosnia, Haiti). Nel 2016, Sanders stava ancora relativamente trascurando la politica estera. Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di a politica estera di sinistra . Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema. Dopo ulteriori vittorie progressiste alle primarie del 2020, la sconfitta a New York del rappresentante Elliot Engel (presidente della commissione per gli affari esteri della Camera) ha portato a una lettera di quasi  70 organizzazioni progressiste, di solito incentrato sulla politica interna, chiedendo alla presidenza di questa Commissione decisiva di tradurre le idee progressiste nella politica estera americana: “moderazione e realismo progressista”, rivalutazione degli strumenti di politica estera (diplomazia, interventi militari, sanzioni, ecc.) e ridefinizione degli obiettivi (lotta alla corruzione, tutela della biodiversità, trattamento di alleati e avversari, ecc.).

Le primarie democratiche del 2019, al contrario, sono state l’occasione per dibattiti affascinanti sulla definizione di una politica estera di sinistra. Questo sviluppo è indicativo delle crescenti ambizioni e del peso dell’ala progressista nel dibattito sulle idee democratiche e della strategia, in particolare del gruppo  Justice Democrats , di esercitare influenza dall’interno del sistema.

MAYA KANDEL

Alla sua nomina, Jake Sullivan ha annunciato di voler ampliare la definizione del concetto di “sicurezza nazionale” che determina gli obiettivi dell’azione internazionale del Paese. Lo sviluppo più interessante finora è la scelta di John Kerry come inviato speciale per il clima e, soprattutto, la  decisione  di dargli un seggio e quindi una voce nel Consiglio di sicurezza nazionale alla Casa Bianca. , al centro dello sviluppo della politica estera. Il segnale è chiaro ed è stato richiamato sia da  Kerry  che da  Sullivan durante le rispettive nomine: il cambiamento climatico deve essere integrato nel pensiero della sicurezza nazionale e la diplomazia climatica sarà al centro della politica estera. Se c’è un argomento in cui europei e americani dovrebbero essere alleati naturali, è quello del clima; questa considerazione del clima si può trovare anche su tutte le questioni di politica interna, dall’agricoltura ai trasporti e alle infrastrutture,     essendo l ‘” ambizione climatica ” apparentemente un criterio per il reclutamento nel team di Biden. È anche un argomento su cui la conversazione deve includere la Cina, e apre orizzonti emozionanti (chiariti qui da  Pierre Charbonnier), per trasformare il pensiero geopolitico e geoeconomico, anche per l’Europa che dovrebbe coglierlo. È qui che si gioca anche una parte dell’ambizione dell’amministrazione Biden.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden. Il suo slogan sarà con tutta probabilità ereditato anche da Trump, che ha aggiornato i principi geoeconomici definiti da Edward Luttwak alla fine della Guerra Fredda: la sicurezza economica è sicurezza nazionale. Da questo punto di vista, la sicurezza economica ha la precedenza sulle alleanze geopolitiche, e non il contrario. Yellen giocherà anche un ruolo di primo piano nella politica cinese, dal momento che gli elementi più decisivi messi in campo dall’amministrazione Trump sono stati posti dal Tesoro (elenco di entità e sanzioni extraterritoriali in generale). fiscalità  nazionale e internazionale nel programma Biden. Avrà il controllo sul destino dei decreti e dei regolamenti messi in atto dall’amministrazione Trump dopo il voto sulla riforma fiscale da parte del Congresso repubblicano alla fine del 2017, in particolare per quanto riguarda la tassazione delle multinazionali. Il suo tandem con il nuovo capo del commercio della Casa Bianca, Katherine Tai, sarà sicuramente una parte fondamentale delle prossime relazioni transatlantiche.

Un aspetto cruciale – soprattutto per l’Europa – sarà sicuramente il ruolo di Janet Yellen, nominata alla carica di Segretario del Tesoro e che sarà responsabile come tale della diplomazia economica dell’amministrazione Biden.

MAYA KANDEL

Ripensare le relazioni internazionali nel XXI °  secolo: la sfida cinese, l’emergenza clima

La Cina  divide i Democratici  (come i Repubblicani), e questo anche all’interno del campo progressista: tra chi rifiuta una nuova guerra fredda ma intende lottare contro un asse autoritario internazionale, e chi preferisce concentrarsi sui temi della cooperazione e un disimpegno militare americano. Ci sono molti intorno a Biden, tuttavia, soprattutto nella comunità strategica, che vedono la sfida cinese alla superpotenza statunitense come la principale sfida per la politica estera degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo   come l’unico modo per ricostruire una politica estera. solido e affidabile perchébipartisan . Alcuni vanno anche oltre, vedendo nella questione cinese il  modo migliore  per Biden, in caso di Senato repubblicano, di fare politica estera   politica interna: una forma di inversione dell’adagio del senatore Vandenberg ( politica si ferma al bordo dell’acqua, il che significava che l’interesse nazionale era superiore – e indipendente da – qualsiasi posizione politica interna e quindi di parte); La Cina, come unico punto di convergenza della politica interna, diventa così il pretesto per la politica interna (per il commercio, la tecnologia, le infrastrutture, ecc. Tutto sotto l’ombrello della concorrenza con la Cina). Ovviamente non sarebbe la prima volta nella storia americana che un evento esterno servisse da pretesto per la trasformazione interna, essendo numerosi gli esempi storici da Hamilton a Roosevelt e Reagan. Ma sarebbe anche un ritorno a una gestione “tecnocratica”, presumibilmente “politicamente neutrale” della politica estera e degli interessi nazionali – precisamente il cuore dell’attuale protesta.

In un  ottimo articolo elencando diversi lavori recenti, l’economista Adam Tooze ha ricordato che la fine del periodo post-Guerra Fredda ha chiuso anche il periodo in cui gli Stati Uniti credevano di poter considerare le sfere economiche e strategiche come separate artificialmente o indipendenti da una delle Un’altra: nella tesi di Fukuyama sulla fine della storia c’era proprio questa idea che la crescita economica grazie alla globalizzazione potesse essere “geopoliticamente neutra”. Si volta pagina su quella che non è mai stata una finzione basata sull’idea che la globalizzazione americana fosse, come l’egemonia americana, necessariamente “benevola”, e sull’euforia globalizzante legata alla fine del guerra fredda. Nella comunità strategica americana, è davvero la realtà e “l’enormità” (come la chiamava giustamente Fareed Zakaria ) del potere cinese che spiega la svolta strategica dell’era Trump, l’adozione di un atteggiamento ostile – molto più che la preoccupazione per il deficit commerciale o la scomparsa dei lavori non qualificati dei colletti blu del Rust Cintura. È così che dobbiamo intendere il rilancio del concetto di “geoeconomia”, che Luttwak  aveva avanzato  proprio alla fine della Guerra Fredda. Il Pentagono ne è consapevole da tempo e il legame tra sicurezza nazionale e sicurezza economica è onnipresente nella  Strategia di difesa 2018 . La questione della leadership tecnologica e del futuro di Internet è al centro di questo nuovo approccio.

Mentre i leader americani (ed europei) hanno appena ammesso il legame tra la globalizzazione delle democrazie di mercato guidata dalle amministrazioni Clinton e Bush e l’attuale regressione democratica nella stessa area euro-atlantica, il concorrente progetto cinese di Routes de La seta riguarda una parte crescente dell’umanità e il suo modello di governo tecno-autoritario viene esportato in tutto il mondo. Il risveglio americano è troppo tardi? Adam Tooze conclude sulla necessità di pensare e fare il passo successivo, immaginare una forma di rilassamento sullo sfondo di una nuova era segnata dalla consapevolezza della sfida esistenziale posta dall’Antropocene – la pandemia del 2020 è il segno che questa era è iniziato. La domanda quindi è se americani ed europei, che lì potrebbero svolgere un ruolo veramente geopolitico, si daranno i mezzi per diventare loro stessi quello che lui voleva dai cinesi: partner responsabili e competenti, impegnati a gestire – se non risolvere – i rischi e le sfide di questa nuova era.

Dottor Giletti, non è l’arena, ma solo perché manca uno dei contendenti_di Giuseppe Germinario

Al dottor Massimo Giletti

conduttore della trasmissione “Non è l’arena”

Dottor Giletti,

ho seguito con attenzione la puntata di “Non è l’arena” del 20 dicembre scorso. Guardo ormai di rado la televisione, ma capita spesso di osservare la sua produzione quasi sempre interessante, incalzante, il più delle volte con una rappresentazione sufficientemente completa della realtà, altre volte con una intensità ed una partecipazione drammatica talmente forte da spingere ad una visione unilaterale, distorta, deleteria e spesso tribunizia dei problemi posti. Nella fattispecie mi riferisco alla parte di trasmissione dedicata ai problemi di inquinamento e sanitari legati al complesso industriale dell’ILVA di Taranto. Sono originario di quelle parti, ne sono andato via ormai da più di trenta anni, ci torno comunque molto volentieri in vacanza quasi ogni anno, conosco la radicale e particolare combattività di quella popolazione ma osservo anche il progressivo degrado di quell’area, simile purtroppo ad altre del paese e in particolare del Mezzogiorno. Negli anni ‘70 ho esercitato funzioni pubbliche relativamente a margine di quell’area, ma sufficientemente prossime da poter conoscere e nel mio piccolo influenzare la situazione sociopolitica del tarantino. Ho conosciuto il fervore, le aspettative generate dall’insediamento dell’acciaieria, ma anche le enormi problematiche che avrebbe generato progressivamente, ma allora già incipienti se non adeguatamente affrontate. Oggi siamo certamente di fronte forse nemmeno ancora all’epilogo, ma di sicuro all’agonia di una tragedia sanitaria ed ambientale certamente, ma anche economica di quella zona e di tutto il paese, in particolare nella fattispecie nella capacità di controllo delle leve economiche. Un dramma che però deve essere risolto positivamente di pari passo con l’altro. Lascio perdere la narrazione a buon mercato e facilona di un paese intero, ma anche di un territorio così esteso e popolato che possa vivere di solo turismo ed agricoltura. Di quale turismo e di quale agricoltura ci sarebbe comunque da discutere, viste le luci e le ombre che caratterizzano quelle attività in quell’area, come in tante altre per la verità. Non è questo il cuore del problema. Ci sono ormai innumerevoli esperienze di paesi di una certa importanza e dimensione che hanno scelto questa strada e che sono finite velocemente nell’irrilevanza politica e nella tragedia economica e sociale. Un paese che abbia a cuore il proprio benessere, la propria autonomia, la propria indipendenza, la propria coesione e progressione sociale non può rinunciare all’industria.

Non voglio dilungarmi eccessivamente; ci sarebbe da scrivere interi tomi e il blog di Italiaeilmondo.com nel suo piccolo ritiene di aver dato un proprio contributo al tema.

In sintesi cerco di affrontare il tema e rispondere ad alcuni luoghi comuni ricorrenti ed apparsi in modo unilaterale e senza contraddittorio nella sua trasmissione:

  • L’ILVA di Taranto, ex Italsider, è una delle attività superstiti che fornisce il prodotto di base all’industria cantieristica, meccanica, di utensileria, mezzi di produzione e quant’altro in Italia. Rappresenta l’esito di una grande battaglia politica simboleggiata da personaggi come Mattei, condotta da vari esponenti degli schieramenti politici sin dagli anni ‘50 contro altri ben insinuati nei gangli vitali; battaglia che pose le basi dello sviluppo industriale del paese

  • il IV centro siderurgico di Taranto non è nato in una fase di sovrapproduzione dell’acciaio, precisando che quando si parla di acciaio non si parla di un prodotto di base indistinto buono per tutti gli usi. Esistono delle precise e finalizzate specializzazioni di prodotto. Fuori dal contesto economico apparvero invece in parte il V e soprattutto il VI centro, del resto mai sorto a Gioia Tauro non ostante la costruzione del porto ad esso finalizzata

  • il fatto che un paese disponga di una propria industria di base non è affatto un fattore irrilevante e lo sarà sempre meno in una fase di crescente multipolarismo e di incipiente costruzione di diverse e tendenzialmente contrapposte sfere di influenza politiche ed economiche. Il parametro di sovrapproduzione su cui hanno più volte insistito tutti i partecipanti alla trasmissione sottende un contesto geopolitico e geoeconomico del tutto sorpassato se mai esistito

  • il gruppo Arcelor-Mittal non è un gruppo indiano; è un gruppo franco-indiano. La sua attività, il suo comportamento predatorio e i condizionamenti posti in essere e subiti da esso rientrano a pieno titolo per altro nel sordido scontro tutto interno all’Europa, in particolare alla Francia, alla Germania e all’Italia riguardo alla ripartizione delle quote di produzione di acciaio che vedeva l’Italia nei tempi andati detenere ampiamente il primato di produzione ed ora subire pesantemente la riduzione proporzionalmente maggiore delle quote sino a posizionarsi nelle retrovie tra i produttori europei

  • sulle vicende dell’ILVA agiscono sotto traccia dinamiche geopolitiche e logiche di posizionamento militare legate alla presenza dell’Arsenale, del porto militare e delle vicine basi aeree e di osservazione

  • i problemi di ristrutturazione e risanamento dello stabilimento si sono cumulati, acuiti progressivamente e di fatto saturati con la dissennata privatizzazione, purtroppo nemmeno l’unica, in favore della famiglia Riva, con il discutibile nelle modalità e tardivo intervento della magistratura e con l’insipienza politica legata alla scelta dell’affidatario, alle clausole e alle modalità di affidamento dello stabilimento al gruppo Arcelor-Mittal, alla gestione da parte del Governo e dei vari pesci in barile della Regione Puglia a dir poco dilettantesca la quale ha offerto all’impresa numerosi pretesti per la sua condotta predatoria e dilatoria

  • i problemi ambientali e sanitari di Taranto sono legati, oltre alle attività predominanti dell’ILVA, alla combinazione delle attività prospicienti della raffineria, del tutto passate sotto silenzio anche dalla stampa e dai contestatori; sono problemi cumulativi che riguardano la responsabilità a vari livelli, diretta ed indiretta, dei vari imprenditori avvicendatisi, degli organi di controllo e delle autorità politiche

  • buona parte dei problemi sanitari ed ambientali sulle popolazioni sono determinate anche dalla criminale vicinanza di insediamenti urbani sviluppatisi successivamente a quello industriale, in particolare il quartiere Tamburi, più che prossimi, praticamente all’interno dello stabilimento e delle correnti d’aria metereologiche peculiari della zona. Su questa prospicienza si dovrebbe in realtà agire per cominciare quantomeno a ridurre gli effetti immediati dell’inquinamento

  • la chiusura dello stabilimento di Taranto rappresenterebbe una sconfitta tragica del paese e della popolazione locale, per altro nient’affatto compatta nella richiesta di chiusura dello stabilimento e la conferma e consolidamento purtroppo duraturi nel tempo ai danni di una intera nazione di un ceto politico e di una classe dirigente miserabilmente ignavi

  • Ritengo non sia cinismo, ma realismo ed esperienza di chi in altri tempi qualche ruolo positivo pensa di averlo avuto. La chiusura dello stabilimento rappresenterebbe di fatto e purtroppo, mi duole il cuore dirlo, una sconfitta sonora anche dello stesso movimento ambientalista e di denuncia e contrasto dell’emergenza sanitaria che non è stato in grado nemmeno di pretendere con successo in questi anni la banale copertura dei depositi di minerali, figuriamoci di promuovere uno sviluppo alternativo e controllato dell’area, di un attivo processo di risanamento ambientale pur a spese degli interessi strategici di una nazione. Il miraggio della monocoltura del turismo e dell’agricoltura è l’ennesimo esempio dell’abitudine, purtroppo sempre più presente in quelle aree, ad affidare alle parole e agli slogan un valore taumaturgico destinato ad ingannare ed illudere in cambio del nulla o quasi

Dottor Giletti,

la concretezza e la verità, almeno a mio parere, è alla fine apparsa nella sua trasmissione, ma sul suo finire. Non la hanno proferita gli esperti, i giornalisti e i politici cosi animati, ben motivati ed animosi in quella trasmissione; l’ha espressa Vittorio, nel modo ingenuo, elementare e diretto proprio di un ragazzino: la salute, un ambiente vivibile ed una vita sociale serena devono convivere con l’esistenza ed il risanamento di quella industria. Evidentemente Vittorio ha saputo esprimere l’angoscia di una tragedia sanitaria ed ambientale che deve essere risolta con l’esistenza di una attività produttiva altrettanto indispensabile e propedeutica al benessere di una comunità e aggiungo io alla solidità di una nazione,

Giuseppe Germinario

https://www.la7.it/nonelarena/rivedila7/non-e-larena-puntata-del-20122020-21-12-2020-356659

NB_ l’intera trasmissione è interessante; l’argomento trattato parte dall’ora 1:45 della registrazione

La dottrina Trump, di Maya Kandel

La prima parte di un articolo tratto da “Le Grand Continent” su Trump e il prosieguo dello scontro politico negli Stati Uniti. Ho detto prosieguo, non ho parlato di eredità. Per il resto affidatevi agli ormai innumerevoli scritti e podcast del sito_Giuseppe Germinario

Trump è solo un sintomo di tendenze più profonde è probabilmente la frase che sentiamo più spesso su questo straordinario presidente. È corretto, se capiamo anche che è un sintomo di uno stadio avanzato, ma di cosa? Non è un presidente “normale”, al di là anche del carattere e dei suoi eccessi, nel senso dell’arrivo attraverso di lui dell’estrema destra alla Casa Bianca. Ma rappresenta effettivamente il risultato logico.di due sviluppi americani: quello del connubio tra politica e “spettacolo” mediatico, e quello del Partito Repubblicano per 40 anni, prodotto di una strategia teorizzata in particolare da Newt Gingrich per rilevare il Congresso negli anni ’80, e i cui segni distintivi sono un discorso sempre più disinibito “anti-sistema e anti-élite”.

La presidenza Trump rappresenta anche un momento specifico per la politica estera americana, di cui cristallizza una doppia crisi: crisi interna, perché la politica estera non è più sostenuta dal popolo americano, e in particolare dalle classi medie e popolari; crisi esterna, che è allo stesso tempo crisi di mezzi, credibilità e legittimità della politica estera, legata al relativo declino del potere e della capacità di influenza degli Stati Uniti. Questa crisi è germogliata dalla fine della Guerra Fredda, e qui va ricordato che lo slogan America First , che risale alla fine degli anni ’30, era già riapparso nel 1992 con la candidatura di Pat Buchanan, considerato il padre spirituale. Trumpismo. Ma Trump, dopo Bush e Obama, sta in qualche modo portando a compimento il processo. E la prima cosa da riconoscere è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui anche ambizione, non era riuscita. Nel 2016 ci siamo chiesti se la “moderazione strategica” di Obama, il suo desiderio di disimpegnarsi e rinnovare la leadership americana fosse un’eccezione, un semplice riequilibrio dopo l’eccessiva espansione degli anni di Bush, o una nuova tendenza nella politica estera americana: con Trump che segue Obama, abbiamo la conferma che c’è una forte tendenza al lavoro.

La prima cosa che dobbiamo riconoscere in Trump è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui era anche ambizione, non era riuscita.

MAYA KANDEL

Ciò solleva la questione della natura e della portata della rottura di Trump in politica estera, e in particolare del suo punto di riferimento: fine del periodo aperto dalla fine della Guerra Fredda, messa in discussione delle basi della Pax Americana. post-1945, o addirittura indietro nel diciannovesimo secolo politico e … il dibattito non è ancora risolto, e per tutto il suo mandato, le grandi linee guida sono state oggetto di intense lotte all’interno del amministrazione come tra la Casa Bianca e il Congresso. Analisi del processo decisionalefa luce su questa lotta costante tra il presidente populista e il “sistema”, definito come il gruppo formato dagli alti funzionari della pubblica amministrazione e dalle nomine politiche (più di 8.000), e più in generale dall’insieme della burocrazia e da altri istituzioni che partecipano alla politica estera, in primo luogo il Congresso. Tieni presente che la macchina della politica estera degli Stati Uniti è una nave di linea enorme e un cambio di direzione richiede tempo. Oltre a ciò, è anche necessario interessarsi alla battaglia delle idee, perché se Trump non è un intellettuale, è circondato da ideologi che hanno teorizzato per lui e hanno partecipato alla definizione di una nuova visione del mondo, ancora in gestazione.

Foto ritratto Donald Trump Kim Jong-un La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Questa domanda è cruciale anche perché la ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane centrale nelle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere al mondo. immigrazione e commercio, questione delle alleanze o modalità dell’azione internazionale del Paese. Con l’idea che la politica estera non fosse più al servizio degli americani, che gli alleati come avversari stessero “approfittando” dell’America, con un fortissimo rifiuto dell’istituzione della politica estera, dei Democratici repubblicani e in particolare della neoconservatori, considerati colpevoli delle guerre costose e “infinite” (e infruttuose).

La ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane al centro delle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere all’immigrazione e al commercio, la questione delle alleanze, ovvero le modalità dell’azione internazionale del Paese.

MAYA KANDEL

L’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, in particolare della classe media e operaia, di riconciliare la politica estera e quella interna, è presente anche su entrambi i lati dello spettro politico americano, e soprattutto ai suoi estremi, una base trumpista. come base progressista dei Democratici. L’evoluzione del contesto internazionale sotto il doppio effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati. Si legge spesso, come nel 2016, che la politica estera non conta nelle elezioni: ma anche affrontata dal punto di vista della politica interna, questioni come la Cina, la Russia, il commercio o il clima rimangono soggetti internazionali, oggetto di politica estera. Infine, la polarizzazione si è estesa alla politica estera, comprese le questioni regionali, rendendo definitivamente obsoleto il classico adagio americano secondo cui “la politica si ferma in riva al mare” (la politica si ferma in riva al mare ), un detto rivelatore pronunciato dal senatore Vandenberg all’alba della Guerra Fredda: questo è anche ciò che oggi viene messo in discussione, e lo testimonia la polarizzazione della politica estera.

Ciò che colpisce di più alla fine del primo mandato di Trump, quando si guarda all’opinione americana, non è solo l’estrema polarizzazione, ma anche l’estrema stabilità del suo sostegno: qualunque cosa faccia o dica, Trump mantiene un base del 40% di parere favorevole; la sua popolarità tra l’elettorato repubblicano ha raggiunto il 90%, anche se nel 2020 risente della gestione della pandemia. Questa base elettorale del Trumpismo non scomparirà, anche se perde le elezioni. Ci costringe a mettere in discussione ciò che dice del Trumpismo, della sua visione del mondo in particolare e del suo peso nelle future ridefinizioni del Partito Repubblicano.

L’evoluzione del contesto internazionale sotto il duplice effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati.

MAYA KANDEL

Trump e la fine del periodo post-guerra fredda

La presidenza di Donald Trump segna la fine dell’era post-Guerra Fredda. La politica estera americana di questo periodo potrebbe essere riassunta da un doppio paradigma. Il primo è quello della globalizzazione, che caratterizza un’evoluzione globale ma che designa anche la linea guida della dottrina Clinton di “estensione delle democrazie di mercato”, e più in generale la globalizzazione dell’ordine internazionale creato e sostenuto dagli Stati Uniti. all’indomani della seconda guerra mondiale, le cui istituzioni, norme e principi sembravano quindi poter essere estesi a tutto il globo con la caduta dell’Unione Sovietica e del blocco omonimo. Il secondo, dall’11 settembre 2001, è quella della “guerra mondiale al terrore” di Bush, portata avanti anche se con mezzi più discreti da Obama.

Foto ritratto Melania Donald Trump Regina Elisabetta II La dottrina Trump Trumpismo politica estera populismo stile populismo Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Trump voleva rivoluzionare la politica estera americana e questo desiderio di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo era al centro delle sue promesse elettorali. Quattro anni dopo, sembra che il cambio di paradigma sia effettivamente avvenuto: la competizione strategica e più precisamente la rivalità “sistemica” con la Cina.ha sostituito la lotta al terrorismo come obiettivo principale della politica estera; la pagina sull’estensione delle democrazie di mercato è voltata. La sua presidenza ha sancito il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici degli Stati Uniti. L’amministrazione si apre sull’osservazione del fallimento di questa politica. Mettendo in discussione il multilateralismo e le sue istituzioni, l’America di Trump sembra trasformarsi in un “partner irresponsabile” che rifiuta questo ordine internazionale che aveva finora garantito,

L’era Trump sancisce il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici dell’amministrazione Trump aperta all’osservazione del fallimento di questa politica.

MAYA KANDEL

Tuttavia, resta difficile definire il “trumpismo” in politica estera: mettere in discussione i principi guida della politica estera non significa tornare all’isolazionismo degli anni Trenta, o alla politica estera essenzialmente commerciale del XIX secolo. secolo. La difficoltà nell’interpretare la politica estera di Trump deriva dalle molteplici contraddizioni di questa politica su più temi, legati al caotico processo decisionale, oggetto di continue lotte, ma anche alla personalità del presidente; soprattutto il trumpismo, che qui caratterizza la mutazione del Partito Repubblicano sotto l’influenza della base elettorale di Trump, è ancora in gestazione, oggetto di lotte interne che si intensificheranno dopo le elezioni e di un vivace dibattito di idee, che non può prescindere dall’evoluzione demografica dell’America.

Trump non è un ideologo o un intellettuale ma ha istinti e ossessioni, e ha governato per la sua base elettorale, che fa luce sulle motivazioni interne di molte decisioni di politica estera, soprattutto in Medio Oriente. Soprattutto altri hanno teorizzato per lui, se sono ancora alla Casa Bianca dopo quattro anni, come Stephen Miller, Pete Navarro o Matt Pottinger, o sono stati solo un compagno di viaggio, come Steve Bannon o John Bolton. La longevità di Miller, Navarro e Pottinger dà già indicazioni sull’eredità: nazionalismo “giudeo-cristiano”, governance anti-global e anti-multilateralismo ( anti-immigration); politica commerciale anti-libero e anti-cinese; adottare una posizione dura contro la Cina. La   dichiarata “   nuova guerra fredda ” contro la Cina è stata avallata ai massimi livelli nell’ottobre 2018 con il discorso del vicepresidente Mike Pence: ma per farlo ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni per Trump. si è ripreso nel marzo 2020, approvando il consenso.

Ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni affinché Trump si radunasse nel marzo 2020 sulla dottrina della “nuova guerra fredda”, approvando il consenso.

MAYA KANDEL

Mirare e premiare i gruppi identificati ha portato ad alcune decisioni soprattutto su Israele, a causa del patto fatto tra Trump e gli evangelici nel 2016, ovvero il clima, con la scelta del “primato energetico” visualizzato come obiettivo strategico, sempre determinato in buona parte da un accordo concluso nel 2016 con i maggiori gruppi petroliferi. Alcune scelte di politica industriale e commerciale hanno soddisfatto anche le aspettative degli elettori chiave che hanno vinto Trump nella Rust Belt (Michigan, Pennsylvania), una regione più colpita dalle delocalizzazioni ma anche dall’abbandono del carbone. L’agenda anti-Obama risponde a un’ossessione personale di Trump, ma anche al movimento del Tea Party (di cui l’elezione di Trump è anche l’espressione di maggior successo), e ha portato alla distruzione metodica dell’eredità La politica estera di Obama (uscita dall’accordo di Parigi, accordo sul nucleare iraniano, apertura a Cuba e ovviamente denuncia immediata del TPP). Mentre alcuni elementi avrebbero potuto trovare il loro posto in un’amministrazione repubblicana più classica (Iran, clima), altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Ciò spiega la natura schizofrenica, anche la duplice politica estera che ha colpito principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: è stato il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, in particolare tra la Casa Bianca e il Congresso. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca.

Queste contraddizioni illustrano la sostenibilità di diverse correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano, anche se il partito si è schierato con Trump (hanno gli stessi elettori), segno di tensioni persistenti all’interno della nuova alleanza portata da Trump tra isolazionisti. e nazionalisti, a scapito degli interventisti assimilati ai neoconservatori e respinti dagli elettori trumpisti. Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e il controllo della corrente sovranista sul Partito Repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.America Firstin una parola sarebbe nazionalismo (o nazional-populismo per evocare la circolazione transatlantica e l’importanza del contesto). Troviamo qui l’influenza di Bannon e Miller, ma anche del Claremont Institute, think tank sulla West Coast e fornitore ufficiale di idee al Trumpismo, che si è mobilitato molto presto alla candidatura di Trump, con Michael Anton, appunto. sulla politica estera. Altri si sono mobilitati, con obiettivi meno chiari (sintesi difficile) come l’Hudson, dove Pence ha tenuto il discorso di apertura delle ostilità sulla Cina nell’ottobre 2018 – ma ci sono voluti meno la pandemia e un’improvvisa scadenza elettorale ben avviato affinché Trump si mobiliti dietro il consenso tra agenzie della sua stessa amministrazione. Una “nuova guerra fredda” contro la Cina permette anche di mobilitare gli internazionalisti, compresi i primi e ancora neoconservatori. Tuttavia, sul piano della politica estera appunto, la sintesi intellettuale non è completata – e il dibattito non è risolto: permane una forte tensione tra la tentazione isolazionista, favorevole a un trinceramento degli Stati Uniti dietro i loro confini, e tendenza egemonica in cui la supremazia militare rimane essenziale.

Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e la morsa della corrente sovranista sul partito repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.

MAYA KANDEL

Una nuova sintesi repubblicana: il ritorno degli isolazionisti

Il politologo americano Colin Dueck, specializzato nello studio della politica estera del Partito Repubblicano, ha dimostrato che ci sono tre principali correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano. La prima corrente, dominante nelle élite del partito dal 1945, è la corrente internazionalista. Tutti i presidenti repubblicani, da Eisenhower a Trump, erano internazionalisti, favorevoli a un’attivista politica estera americana, che difendevano l’ordine internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale e si affidavano soprattutto alle istituzioni internazionali e ad un sistema di alleanze tra Stati Uniti al centro e in posizione di leadership. Questa corrente è composta da realisti e neoconservatori, questi ultimi che hanno ottenuto l’ascesa con la presidenza Reagan.

La seconda corrente può essere definita isolazionista e ha dominato il Partito Repubblicano in particolare negli anni ’20 e ’30. È particolarmente contrario alle alleanze vincolanti e agli interventi militari non difensivi (si pensi, ad esempio, alla mancata ratifica del Trattato di Versailles nel 1919 e alla non partecipazione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni). Di ispirazione libertaria, è stata ancorata nel DNA americano sin dall’inizio ma è stata emarginata durante la Guerra Fredda a causa dell’imperativo di combattere il comunismo. È riemerso con forza alla fine della Guerra Fredda, con una pausa dopo gli attacchi del 2001, ed è rappresentato tra gli altri da Rand Paul (e suo padre Ron prima di lui), oggi uno dei convinti sostenitori di Trump. al Senato.

Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, a favore di un alto livello di spesa militare e di un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump.

MAYA KANDEL

Infine, la terza corrente è soprattutto nazionalista, e fino a quando Trump è rimasto poco rappresentato a livello di élite e nei think tank , un vuoto che il Claremont Institute è venuto a colmare, cui si sono aggiunti altri che si sono uniti al Trumpismo abbracciando la lotta contro la sfida cinese alla supremazia americana (Hudson). Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, favorevole ad un alto livello di spesa militare e ad un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump. I nazionalisti non sono né pacifisti né isolazionisti, ma sono davvero ostili agli interventi umanitari o di costruzione della nazione , agli aiuti esteri, alle istituzioni internazionali in generale e allel’idea di governance globale   : sono feroci difensori della sovranità americana.

Storicamente, i nazionalisti sono stati la spina dorsale del Partito Repubblicano sulle questioni internazionali, un gruppo il cui sostegno era indispensabile per qualsiasi intervento militare importante e duraturo. La loro alleanza con gli internazionalisti ha sostenuto l’attivismo americano durante la Guerra Fredda, così come nell’immediato periodo successivo all’11 settembre 2001. In tutto questo periodo, gli internazionalisti hanno dominato ei non interventisti sono stati emarginati. Ma Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta marginalizzando gli internazionalisti, identificati con i neoconservatori e quindi con le élite di partito in politica estera. È questa alleanza che non ha precedenti dagli anni ’30. Dopo quattro anni del presidente Trump, sembra aver prodotto una nuova postura se non una dottrina, articolata attorno a una politica estera soprattutto economico-legale (sanzioni), e una nuova guerra fredda almeno in campo commerciale e tecnologico con la Cina . L’ultimo libro di Colin Dueck è intitolato altroveAge of Iron: sul nazionalismo conservatore .

Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta emarginando internazionalisti, identificati con neoconservatori e quindi con élite di partito in politica estera.

MAYA KANDEL

Una politica estera “jacksoniana”: sovranità e bilateralismo

Molti osservatori insistono giustamente sugli elementi di continuità tra la politica estera di Trump e quella del suo predecessore democratico, Barack Obama, in particolare il duplice desiderio di disimpegnarsi dal Medio Oriente e di orientarsi verso l’Asia. A questo potremmo aggiungere il rifiuto di essere il “poliziotto del mondo”, cioè il garante dell’ordine internazionale, per Obama perché gli Stati Uniti non avrebbero più i mezzi, per Trump perché che non sarebbe più nel loro interesse: in entrambi i casi gli alleati sono chiamati a fare di più, gli avversari trovano nuove opportunità. Ma questi elementi non dovrebbero mascherare la vera rottura, il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nell’architettura internazionale (istituzioni e regole) dovrebbe renderli “partner responsabili” degli Stati Uniti nella difesa della sicurezza e della prosperità globali (Cina all’OMC, Russia al G7). Ildocumenti  strategici dell’amministrazione Trump aperti sull’osservazione del fallimento di questo approccio. La sua amministrazione ritiene che questa architettura internazionale non sia più adatta all’attuale sistema internazionale e intende aggiornare i suoi elementi principali per adattarli al nuovo contesto, quello della rivalità americano-cinese: si tratta infatti di reinventare le istituzioni, alleanze e determinate regole, in particolare a livello commerciale e tecnologico.

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Il “trumpismo” in politica estera è stato chiamato Jacksonian: nella tipologiadefinito dallo storico Walter Russell Mead, Jacksonism, in riferimento ad Andrew Jackson, un presidente populista e nazionalista che ha ampliato il voto popolare e accelerato la “pulizia etnica” dei nativi americani, descrive una politica estera basata su una ristretta ridefinizione degli interessi americani , sollevando soprattutto l’imperativo della sovranità, necessaria per preservare la libertà d’azione americana: la politica estera jacksoniana rifiuta ogni missione universale a favore della sola realpolitik. Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è tradotto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentati da americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a vantaggio di una “élite globalizzata” vista come il nemico, anche come anti-americano. Si è manifestato attraverso gli attacchi sistematici contro le alleanze e le istituzioni internazionali – dalla NATO all’ONU, al G7 e all’OMC , il cui meccanismo di risoluzione delle controversie è stato reso de facto inoperante da Washington, o oggi contro l’OMS; o anche attraverso il ritiro definitivo dell’UNESCO o della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il tutto riflette questo assalto generalizzato a ciò che Trump e la sua base chiamano “globalismo” e al quale si oppongono al nazionalismo dell’America First line .

Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è risolto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentata dagli americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a favore della una “élite globalizzata” considerata come il nemico, anche come anti-americano.

MAYA KANDEL

Gli americani erano soliti chiamarsi “multilateralisti quando possiamo, unilateralisti quando dobbiamo”. L’attuale rifiuto del multilateralismo riflette anche il relativo declino del potere americano, dovuto all’ascesa della Cina, molto visibile all’interno delle organizzazioni internazionali. Gli Stati Uniti erano multilateralisti, o perché erano abbastanza potenti perché la loro volontà si imponesse, o perché potevano permettersi un risultato meno ottimale, ma alla fine giustificato dall’imperativo superiore. per mantenere la stabilità egemonica. Questo margine di manovra è ormai scomparso e gli Stati Uniti sono unilateralisti soprattutto perché non sono più così potenti relativamente. Sono anche piuttosto “bilaterali”, per usare l’ analisi di David Haglund, gestione ottimale di un potere che ancora domina qualsiasi rapporto bilaterale.

Questa scelta è inseparabile dall’evoluzione ideologica del Partito Repubblicano in un partito sovranista, uno dei cui slogan è l’opposizione viscerale al governo mondiale in nome dell’indipendenza nazionale, della libertà di azione e legittimità unica della Costituzione degli Stati Uniti. Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati. Pertanto, anche trattati come quello delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o il trattato sui diritti delle persone disabili ( Disability Treaty), tuttavia un’iniziativa americana, non poteva essere ratificata dal Senato americano.

Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati.

MAYA KANDEL

Dobbiamo tornare a un articolo pubblicato nel 2000 da John Bolton (allora vicepresidente del think tank American Enterprise Institute), che ha respinto il progetto di “governance mondiale” simbolo della “globalizzazione felice” degli anni ’90, rappresentato negli Stati Uniti dalla dottrina Clinton dell’espansione delle democrazie di mercato e dall’intervento umanitario sotto l’egida della ONU (o almeno NATO). Questo progetto multilateralista assimilato ai Democratici è denunciato dal Partito Repubblicano del dopo Guerra Fredda come una minaccia per la sovranità e la libertà di azione degli Stati Uniti. È in nome della difesa dell’identità americana che la governance mondiale e ciò che ne consegue – diritto internazionale, multilateralismo – sono qui considerati anti-americani. Questa frattura è ora ampiamente familiare, soprattutto perché si è diffusa in tutto il mondo, contrapponendo i nazional-populisti ai “globalisti”,

Il trumpismo è nazionalismo 

Il movimento conservatore, colonna portante intellettuale del Partito Repubblicano, ha cercato, dopo tre anni di presidenza Trump e l’avvicinarsi di una nuova scadenza elettorale, di “teorizzare gli istinti” di questo presidente straordinario, in accordo con la nuova base campagna elettorale, al fine di trattenere questi nuovi elettori che hanno portato al potere Trump e il Partito Repubblicano, sia il Presidente che il Congresso. Questa ”   teorizzazione inversa   ” del trumpismo in “conservatorismo nazionale” getta luce sull’evoluzione di questo nazional-populismo in stile americano, le cui risonanze sono numerose con i populismi europei e in particolare con la teorizzazione orbaniana della democrazia cristiana “illiberale”.. Ma questo revival nazionalista americano ha anche le sue specificità, legate alla storia degli Stati Uniti, alla costruzione della sua identità e del suo rapporto con il mondo. Il rifiuto della recente politica estera americana occupa infatti un posto centrale: ma la questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro lo scontro con la Cina. Soprattutto, è solo uno dei movimenti di idee che stanno combattendo per la base elettorale di Trump – e l’eredità del Trumpismo.

La questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro il confronto con la Cina.

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Tra i conservatori nazionali troviamo una visione del mondo che mescola la lettura civilizzazionista di Samuel Huntington , il prisma dei “nazionalisti contro i globalisti” ripreso da Trump nei testi scritti da Stephen Miller, ma anche l’ossessione sovranista di lunga data di alcuni. Settori repubblicani e intellettuali come quelli del Claremont Institute, il cui principio fondante, ricordiamolo, è che è necessario “ripristinare i principi di fondazione del Paese”: la Costituzione americana è considerata come unica fonte di legittimità e di diritto, il che spiega anche perché l’Unione Europea figura a tal punto da eresia, nemico da distruggere. La politica estera di Mike Pompeo, vicino a Claremont, va quindi spesso intesa nelle sue due dimensioni, interna ed esterna, nel quadro di un doppio confronto, interno e globale: contro un’élite internazionalista favorevole alla governance mondiale e multilateralismo (“globalista”), ma anche multiculturalismo interno (“cosmopolita”); e contro chi vuole la fine dell’Occidente (Cina e Islam politico). Ma dove Pompeo (come Yoram Hazony, autore di The Virtue of Nationalism ) parla di ridefinire le alleanze in conformità con questi principi e di incoraggiare i nazionalisti di tutti i paesi, altri, come Tucker Carlson, vicino a Trump e conduttore di Fox News , il cui spettacolo è il secondo più visto a livello nazionale, difendere un autentico isolazionismo che vede nella politica estera la difesa dell’interesse americano ridefinito al minimo  : sicurezza territoriale, protezione delle frontiere, difesa delle aziende americane dalla concorrenza cinese; con questo in mente, non dobbiamo solo lasciare il Medio Oriente ma anche la Corea del Sud e l’Europa, l’idea di fare la guerra per difendere Taiwan non viene presa sul serio e la NATO è obsoleta (e “Perché non dovremmo essere amici della Russia”). In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

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Un “blocco nazionalista”, base elettorale del Trumpismo

Un fl nel 2019 think tank di sinistra Center for American Progress sullo sviluppo dell’opinione americana sulla politica estera ha indicato l’esistenza di un “blocco nazionalista” secondo l’opinione: un terzo degli elettori , il gruppo più numeroso individuato dallo studio, potrebbe essere definito un blocco nazionalista, definito dal desiderio di ritirarsi dal mondo e dall’adesione alle posizioni di Trump su immigrazione e commercio. Uno dei marker più importanti è stata la dimensione generazionale, evidenziata anche da altri studi., dimostrando che la maggior parte degli internazionalisti sono nella popolazione che invecchia, mentre la maggioranza degli under 40 pensa che gli Stati Uniti dovrebbero “stare alla larga dagli affari mondiali”. Senza giustificarli, i cambiamenti demografici fanno luce su queste posizioni segnate dalla paura. Secondo uno studiodal Pew Research Center nel 2017, la popolazione statunitense nata all’estero ha raggiunto i 44,4 milioni; la percentuale di immigrati residenti negli Stati Uniti era del 13,6% della popolazione, appena sotto il record del 1890 al 14,8%. Dal 1990 al 2007, la popolazione di immigrati clandestini è triplicata, raggiungendo i 12,2 milioni nel 2007. Attualmente è stimata in 10,5 milioni. Queste cifre sono vicine al livello storico più alto del 1890 e del 1910, due momenti che preludono alle febbri del nazionalismo, all’approvazione delle leggi sulle quote (1923 e 1924) e al periodo più isolazionista della politica estera americana (1920 e 1930).

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Ci sono fondamentali che non cambieranno con o senza Trump: l’osservazione di un ordine internazionale che non serve più gli interessi americani e che necessita di essere riformato (dinamite, secondo Trump); la necessità di rinnovare il legame con la politica interna; il rifiuto degli interventi militari a meno che l’interesse nazionale non sia direttamente minacciato; una rivalutazione delle alleanze e degli alleati. Ma la politica estera è al centro del conservatorismo nazionale, mentre costituisce la grande debolezza di questo movimento, a causa della confusione che vi regna, e le questioni esistenziali che il suo sviluppo pone al Paese. Perché gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere nel mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica internazionale. Non è certo che il Paese e le sue élite siano pronte: rifiutando l’eccezionalismo, gli Stati Uniti diventerebbero un Paese come un altro, una “potenza normale”. Questo punto interroga profondamente l’identità americana, la cui crisi èlegato a quello della politica estera e illumina il momento attuale negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere al mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica sulla scena internazionale.

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Potere normale o potere egemonico: la questione dell’eccezionalismo

Per il Claremont Institute, come per i nazionalisti e gli isolazionisti che intendono tornare alle origini del Paese, è opportuno riallacciarsi a George Washington e al suo rifiuto delle “alleanze vincolanti”; oltre a ciò, si tratterebbe di tornare alla politica estera americana del I secolo, fondata sulla necessità di potere economico e quindi su una politica commerciale aggressiva, con l’obiettivo di difendere la base manifatturiera americana e l’occupazione, ma anche su un imperialismo economico a McKinley che mette il potere dello stato per il salvataggio di imprese americane, all’interno e all’estero – questo “imperialismo privato” strettamente americano, simboleggiata dalla politica asiatica nel XIX ° secolo , di United Fruitin America Latina fino alla seconda guerra mondiale – fino alle sanzioni extraterritoriali di oggi.

Ma non tutti vedono la politica internazionale come una semplice “competizione geoeconomica”. Così, il senatore Josh Hawley, il più giovane eletto al Senato, figura in ascesa e fedele trumpista – almeno finora – ha denunciato in un discorsorecente “l’ideologia globalista dominante in molti paesi europei, in particolare Germania e Francia di Emmanuel Macron”, ideologia designata come “progressismo transnazionale”, visione “post-sovranista” o “universalismo progressista”. Ribadendo che l’obiettivo della politica estera americana non è più quello di trasformare il mondo, ha sottolineato la fondazione del paese, “costruito e sviluppato dai lavoratori, le classi medie”, sostenendo un “ordine internazionale rispettoso del nostro carattere nazionale, che deve essere una nazione prima di tutto commerciale ”. Ora, “una nazione commerciale che necessita di accesso ai mercati in tutte le regioni del mondo”, ha concluso Hawley indicando che ciò era possibile solo “se nessuna regione è controllata o sviluppata da un’altra potenza”,

Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un netto ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto interessati al “controllo dell’Eurasia”.

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Questa frase richiama il documento strategico del 1992, il primo documento del Pentagono dopo la fine della guerra fredda di Dick Cheney e Paul Wolfowitz (due uomini che si troveranno nell’amministrazione di George W. Bush nel 2001), che ribadiva uno dei fondamenti dell’atteggiamento americano nei confronti del mondo, “per impedire l’emergere di una superpotenza rivale” in grado di dominare una regione del mondo. Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un marcato ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto preoccupati per il “controllo dell’Eurasia”. Hawley ha concluso il suo discorso di fondazione con una strategia di contenimento, questa volta contro la Cina, la cui “volontà di dominare costituisce la più grave minaccia alla sicurezza per gli Stati Uniti in questo secolo”. Questo discorso è vicino a quello di Tom Cotton o Nikki Haley, altre figure emblematiche della giovane guardia repubblicana e contendenti alla successione di Trump. Questo approccio sta per imporsi da parte repubblicana e potrebbe riunire le diverse correnti descritte da Dueck. Consente inoltre di invocare l’eccezionalità, in un contesto sempre più marcato di confronto dei modelli con la Cina.

Gli Stati Uniti, potenza insulare: fine della centralità delle relazioni transatlantiche 

Walter Russell Mead era al momento della pubblicazione della strategia di difesa nazionale di Amministrazione nel 2018 Trump illuminante parallelo con il dibattito politico del Regno Unito agli inizi del XX ° secolo. Alla fine del XIX E secolo in Gran Bretagna, il dibattito strategico opposti, da una parte i partigiani di una strategia di “continentale” dando priorità alle alleanze e ad una stretta collaborazione con gli Stati europei principali, e del un altro i difensori di una strategia marittima ( la politica dell’acqua blu ), che voleva allontanarsi dall’Europa per abbracciare una strategia globale, utilizzando la posizione geografica e l’impero per massimizzare il potere britannico.

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945.

MAYA KANDEL

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945: vedono ancora il mondo atlantico, con la sua fitta rete istituzionale sviluppata all’interno degli alleati della Guerra Fredda, come il modello su cui si può e si deve costruire una società pacifica globale, e quindi difendere sempre una politica americana basata soprattutto sulla collaborazione occidentale. Ma l’amministrazione Trump sembra aver fatto la scelta di una “strategia marittima”, nel senso della blue water policy del dibattito britannico: come ai tempi della Pax Britannica, i sostenitori di questa strategia intendono accumulare potere e ricchezza promuovendo i loro interessi in tutto il mondo, vedendo in questo una ricetta migliore per il successo che nelle complicazioni europee e transatlantiche. Ricordiamo, per usare la metafora di Mead, che per gli inglesi dell’epoca una Gran Bretagna forte poteva allora intervenire se necessario in Europa per mantenere o ristabilire un equilibrio di potere, e garantire così una dominazione britannica globale. Questa visione informa molte decisioni della squadra al potere a Washington. L’amministrazione Trump, ad esempio, vede l’accordo di Parigi soprattutto come un ostacolo allo sfruttamento da parte degli Stati Uniti del proprio potenziale energetico. Sopprattuto, gli Stati Uniti si vedono in una competizione geopolitica globale con la Cina che non può essere vinta invocando il multilateralismo e il diritto internazionale. La “dottrina Trump” esprimerebbe queste scelte: Asia prima dell’Europa, “realismo” piuttosto che internazionalismo liberale, prosperità americana prima del multilateralismo e cooperazione internazionale.

Questa visione ha il pregio di avvicinare sia il focus del Pentagono, già da diversi anni, sulla sfida cinese, sia alcuni istinti dello stesso presidente. Un tale approccio non volta le spalle al campo occidentale e non rifiuta le relazioni transatlantiche, ma presuppone che sia il potere americano, e non le istituzioni transatlantiche, a consentire queste stesse istituzioni, e quindi l’Occidente. esistere. Le fasi della politica estera americana e le principali rotture sono sempre legate agli sviluppi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa e più precisamente agli equilibri transatlantici. Si tratta quindi di un profondo cambiamento di status per le relazioni transatlantiche e forse, per quanto ci riguarda, la principale differenza tra la visione del mondo trumpista e la riflessione avviata da un campo democratico anche in piena riorganizzazione. Ma questo è solo uno dei campi di interrogazione aperti da Trump sulla politica estera. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera realmente al servizio degli americani, soprattutto della classe media e operaia, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto della sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e trasformare il rapporto americano con il mondo.

https://legrandcontinent.eu/fr/2020/10/23/la-doctrine-trump-1/

grazie Boris, di Giuseppe Masala

Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!

piani a confronto…da recovery, di Giuseppe Germinario

I Next Generation EU (recovery fund), in via di presentazione ed elaborazione da parte dei vari paesi aderenti alla UE, sono una straordinaria occasione per tentare di comprendere il punto di vista delle diverse classi dirigenti europee, riguardo al tipo di rappresentazione della crisi in corso, alle scelte strategiche per affrontare i mutamenti ed i riposizionamenti, alla consapevolezza dell’adeguatezza degli strumenti operativi necessari e disponibili rispetto agli obbiettivi.

Una occasione straordinaria, appunto, ma a condizione di non cadere nella trappola della fiera delle mirabilie nella quale ci stanno trascinando quelle classi dirigenti e quei ceti politici nazionali europei, in prima fila pateticamente gli italiani, i quali stanno puntando tutto ed univocamente su un intervento europeo dal carattere salvifico.

L’entità reale delle cifre non è ancora affatto scontata. La loro ripartizione tra indebitamento e sussidio ai beneficiari è ancora tutta da consolidare. Lo stesso vale per la effettiva composizione del carnet secondo la ripartizione dei fondi accumulati derivanti dall’inedita imposizione diretta degli organismi amministrativi comunitari, dall’emissione di titoli di indebitamento comuni e dalla contribuzione diretta degli stati nazionali. Per non parlare di una tempistica e di una diluizione degli interventi agli antipodi di un efficace intervento anticiclico. La consueta piega che sta prendendo l’istruzione della pratica NGEU, destinato a seguire pedissequamente il canovaccio delle collaudate procedure decisionali comunitarie, lascia presagire l’introduzione di condizionalità variabili in corso d’opera in funzione del grado di dipendenza da NGEU degli interventi nazionali. Se infatti per l’Italia il peso relativo di NGEU, unito ad altri importi residuali, si avvicina nella spesa di investimento pericolosamente al 100% dell’intervento complessivo, per la Germania ad esempio non arriva, secondo stime attendibili, nemmeno al 30%. Gli stessi fondi NGEU tra l’altro potranno assorbire e sostituire investimenti già in corso. Tutte dinamiche ed inerzie in grado di acuire come si vedrà il divario tra ambizioni dichiarate e risultati effettivi; per meglio dire in grado di mettere a nudo i reali obbiettivi strategici di fondo.

Paradossalmente tutte incognite, inerzie, logiche che fungono da ulteriore cartina di tornasole nel valutare la qualità dei ceti politici e delle classi dirigenti italici ed europei.

I piani esaminati sono quelli tedesco, francese ed italiano. Al momento quello tedesco è il più scarno ed essenziale negli indirizzi, anche se il giudizio è fondato sulla lettura di una mera sintesi della quale si offre uno schema predisposto da un collaboratore del sito:

IL PIANO TEDESCO

130 Miliardi totale

  1. 80 Miliardi nel breve termine, 50 miliardi investimenti a medio-lungo termine

  2. 35 miliardi sono dedicati alla voce greem automotive, H2

  3. riduzione IVA del 3% per sostenere il potere d’acquisto

  4. riduzione del costo dell’energia elettrica alle famiglie PMI

  5. introduzione della tassa sulla CO2

  6. niente bonus alle auto con motori a combustione interna

  7. sviluppo delle stazioni stradali di e.e. e filiera delle batterie per auto

  8. aumento di capitale delle ferrovie statali

  9. pochi soldi sul risparmio energetico negli edifici

  10. pochi soldi, quasi nulla per le politiche attive del lavoro

In breve importi non disdicevoli, ma largamente sottodimensionati rispetto alle potenzialità dell’economia tedesca; investimenti diretti indirizzati prevalentemente nel settore dei trasporti ferroviari e soprattutto delle infrastrutture stradali e industriali legate alla trazione elettrica, in un paese che a dispetto degli attivi commerciali stratosferici, ha lasciato languire malinconicamente il livello di efficienza delle infrastrutture. Per il resto si cade nella più tradizionale e generica politica di sostegno della domanda attraverso riduzioni fiscali e di tributi, tassazione mirata sulle emissioni ed incentivi agli acquisti e alla ricerca nel più tradizionale e più importante dei settori, dal punto di vista delle dimensioni economiche e delle implicazioni sociali, quello automobilistico. Si direbbe un classico esempio di perfetta ed anonima efficienza tedesca. E tuttavia il piano, preso a se stante, assume dimensioni ingannevoli in due sensi. Le dimensioni dell’intervento diretto del Governo Centrale tedesco e dei suoi laender vanno ben oltre quelle legate all’intervento europeo e soprattutto sfuggono in gran parte ai criteri di controllo ed applicazione europei. Il sistema neocorporativo che lega i destini e le strategie dello Stato, in particolare dei laender, dell’industria manifatturiera, del sistema bancario-finanziario e delle associazioni garantisce un indirizzo e pilotaggio delle risorse massiccio e capillare. Tutto bene quando si tratta di proseguire nello statu quo, sia pure dorato, attraverso il controllo sempre più stretto e ferreo delle catene di valore e di produzione, degli stessi standard di esecuzione resi possibili dai processi di digitalizzazione di secondo e terzo livello e da una intermediazione bancaria e finanziaria resa sempre più accessibile a tutto il settore grazie soprattutto alle garanzie offerte dalle aziende capofila del prodotto finale e alle coperture politiche-economiche ad esse garantite.

Una prospettiva, nelle more, che lascia entusiasti i giornalisti e scribacchini benpensanti del Corriere della Sera, i quali al pari della quasi totalità del ceto politico e della classe dirigente nazionali ritengono del tutto irrilevante ed ininfluente il livello di autonomia decisionale e di controllo gestionale delle aziende rispetto alla sovranità e alla coltivazione degli interessi nazionali. Irrilevante ed ininfluente, tranne che nella forma puerile e cialtrona di una tifoseria calcistica alla quale spesso ci hanno abituato ed indotti le classi dirigenti sorte dall’Unità Nazionale.

L’altro senso rappresenta il vero lato oscuro di un paese, la Germania che non ostante e proprio grazie alla sua potenza economica rischia di essere sempre più la zavorra in grado di annichilire le volontà e le velleità di indipendenza politica di un continente. Una conformazione e una dinamica di esercizio di potere interni in una collocazione geopolitica e geoeconomica che inibisce ogni seria ambizione di sviluppo nei settori strategici del controllo e gestione del digitale di primo livello, dell’aerospaziale, delle biotecnologie. Il poco che si riesce o si tenterebbe di fare (il progetto Gaya nel digitale, il progetto Galileo nel controllo dei posizionamenti, il Consorzio Airbus nell’aereonautica) nasce monco soprattutto nella sua parte militare, nasce spesso con ritardi incolmabili, sono frutto di fatto della esclusiva gestione cooperativa e conflittuale franco-tedesca, sono oggetto di mercimonio con la potenza egemone occidentale. In realtà la potenza tedesca continua ad essere un tramite di controllo geopolitico e di drenaggio di risorse, specie finanziarie, costretta a pagare pesantemente i propri radi sussulti di potenza di seconda se non di terza categoria. Lo si vedrà con la strisciante e possibilmente controllata distruzione di capitale legata alla crisi di Deutsch Bank e Commerzbank; lo si è visto nella trappola in cui è caduta il colosso della Bayer con l’acquisizione della americana Monsanto sino alla batosta nel settore automobilistico. Una propensione che si conferma e si accompagna ad un atteggiamento ottuso sul problema ambientale che accompagna il processo di decarbonizzazione a quello di denuclearizzazione. Una trappola ben conosciuta nell’Italia degli anni ‘80/’90, ma che evidentemente riesce a trovare nuovi emuli.

GLI ALTRI DUE PIANI IN PARALLELO

Si passa, quindi e ci si dilunga sui due piani esaminati dettagliatamente francese e italiano, senza entrare però troppo in particolari tecnici del tutto ridondanti rispetto alle finalità dello scritto.

Tutti i piani devono seguire obbligatoriamente due parametri stabiliti dalla Commissione Europea (CE) secondo un piano decennale di sviluppo; l’utilizzo di almeno un terzo delle risorse per la riconversione verde dell’economia e un’altra quota significativa nell’investimento massiccio nella digitalizzazione dei consumi, dei servizi e dei processi produttivi. Indirizzi i quali a loro volta rientrano pienamente nel filone del Grande Reset, inaugurato tre anni fa a Davos e ripreso in pompa magna in queste settimane anche in risposta all’emergere dei cosiddetti movimenti “nazionalisti e populisti”.

LA GREEN ECONOMY

L’investimento nell’economia verde è legata all’ideologia del catastrofismo ambientale che induce al contrasto ai cambiamenti climatici determinati dall’antropomorfizzazione del pianeta.

Una enfasi che comporta tre implicazioni importanti di natura regressiva e velleitaria:

  • i cambiamenti climatici, in realtà determinati nella più gran parte da forze ed elementi superiori alle attuali possibilità di controllo dell’uomo, vanno contrastati piuttosto che di essi bisogna prendere atto per adeguare l’intervento umano sul territorio

  • il problema del cambiamento climatico, spesso e volentieri ridotto ad un problema di riscaldamento e quello dell’inquinamento, spesso e volentieri semplicisticamente e meccanicamente connesso al primo, sono visti come un problema generalista ed universale, piuttosto che come una serie di problemi locali, per quanto sempre più estesi, da affrontare pragmaticamente secondo le condizioni regionali

  • le massicce dosi durgenza e di allarmismo iniettate nell’opinione pubblica impediscono di vedere l’impegno di riconversione delle attività come un lungo processo di transizione dai risultati spesso sperimentali e tutt’altro che certi e definitivi. Le conseguenze cominciano a manifestarsi nella loro gravità e contraddittorietà: il problema ancora insoluto dell’intermittenza della produzione di energia elettrica verde ha generato in California, terra di elezione dell’ambientalismo radicale, estesi e prolungati black out; la soppressione improvvisa e senza alternative dell’utilizzo di alcuni fitofarmaci nella produzione di soia e cereali in Francia ha generato in pochi anni un crollo della produzione di quei prodotti, una diffusione delle malattie in quelle specie e la perdita repentina della sovranità alimentare.

Anche l’approccio più dogmatico deve però in qualche maniera fare i conti con la dura realtà. Tutti e tre i documenti tentano questo bagno di realismo introducendo il concetto di “economia circolare” inteso nel migliore dei casi ancora poco rigorosamente come sistema di recupero e riutilizzo di rifiuti, scarti e prodotti usurati e/o alternativamente come creazioni di economie territoriali tendenzialmente più autosufficienti; nel peggiore dei casi come una scatola vuota dal carattere apertamente reazionario.

Questa l’impostazione di fondo comune che accomuna i due piani, cementata dalla prospettiva di creazione di una tecnologia dei carburanti, l’idrogeno, più promettente e tecnologicamente e industrialmente praticabile nel giro di un paio di decenni.

Una impostazione comune che nasconde una serietà di approccio, una intenzione, se non una capacità operativa e di programmazione del tutto divergente.

In Francia nel piano è evidente il tentativo almeno dichiarato di recupero di territori depressi e periferici attraverso la creazione di una nuova rete di trasporto pubblico, il risanamento e la valorizzazione di territori attraverso la manutenzione resa accessibile e sensata nei costi dal ripopolamento e dalla costruzione di economie pluricolturali fondate su turismo, agricoltura di nicchia, artigianato e piccola industria. In esse, la tecnologia dell’idrogeno assume dichiaratamente un ruolo fondamentale nella costruzione di una rete di trasporti meno inquinanti.

Il piano italiano utilizza gli stessi termini di green economy e di economia circolare per coprire l’estemporaneità degli interventi dagli effetti di qualche utilità nella funzione di moltiplicatore keynesiano immediato, ma del tutto controproducente dal punto di vista della coesione della formazione sociale e delle possibilità di sviluppo serio e duraturo del paese.

Il potenziamento della rete fisica di comunicazione si riduce sostanzialmente alla conferma di tre reti di alta velocità, due delle quali al sud e con esclusione integrale della Sardegna, in un contesto in cui scompare totalmente un ruolo europeo e nazionale dei quattro porti principali del Meridione d’Italia e non si accenna minimamente ad una proiezione del paese e di questi verso le economie del Mediterraneo. È assodato, ma non evidentemente per i nostri, che le reti di comunicazione possono rivelarsi fattori di sviluppo ma anche di regresso e polarizzazione economica se non accompagnate da altre politiche. Grecia docet.

La ricostruzione dei territori degradati e abbandonati si risolve in una serie di manutenzioni e ricostruzione di opere destinate a degradarsi nuovamente in tempi rapidi se non accompagnati da un ripopolamento ed una valorizzazione diversificata di quei territori. Eppure in Italia, anche se pochi, esempi riusciti di salvaguardia e valorizzazione da cui attingere esistono, in particolare in Trentino, in Alto Adige, ma anche in Toscana e in Piemonte. Tutto in realtà sembra risolversi nel potere magico di parole come turismo, cultura, agricoltura quasi che da sole e singolarmente riescano ad assumere una funzione salvifica a prescindere tra l’altro dalla capacità stessa delle realtà economiche nazionali e territoriali di quei settori, in verità sempre più deficitaria di incentivare, attirare e controllare con politiche proprie i flussi.

Un approccio del tutto acritico pervade anche i propositi di ulteriore sviluppo degli impianti di produzione di energia verde, in gran parte intermittente. Nessuna riflessione sulla tempistica e sul sistema dissennato di incentivazione al consumo che ha impedito e nemmeno considerato nei tempi d’oro di inizio millennio l’eventualità di creazione di una industria nazionale dei pannelli e di sistemi di produzione diversificati e di un artigianato locale preparato professionalmente, venuto fuori quest’ultimo a fatica solo a tempi di esecuzione inoltrati dei programmi. Il segno di uno scollamento dalle realtà economiche ed imprenditoriali e di una strutturale incapacità politica di assumere nelle decisioni tutti gli aspetti dei cicli operativi. L’idrogeno è diventata la nuova terra promessa già bella e impacchettata per tutte le occasioni: per le auto, per i treni e le navi, ma anche per salvare e riconvertire la produzione di acciaio dell’Ilva di Taranto. La parola che di per sé si materializza in fatto concreto e tangibile. La tecnologia è in effetti promettente, ma ancora in gran parte da realizzare e da rendere industrialmente praticabile. Soffre soprattutto di un handicap pesante, la conferma che non esistono tecnologie e interventi umani che non abbiano comunque un costo ambientale: i pesanti fabbisogni e costi energetici elettrici necessari a garantire attraverso l’elettrolisi la produzione di batterie ad idrogeno. Fabbisogni dai costi praticabili solo con la presenza di centrali nucleari.

Quali sono i paesi in grado di garantire questi costi e quantità praticabili? La Francia e, in caso di improbabile rinsavimento, la Germania.

Quale è il paese che ha ceduto totalmente il controllo delle tecnologie delle batterie, in pratica del tanto sbandierato e agognato futuro verde dell’economia, quanto meno dei trasporti? L’Italia, ovvero la nostra lungimirante classe dirigente e il nostro preveggente ceto politico, abbagliati dal loro stesso eurolirismo ed ecolirismo e così sempiternamente ossequioso verso una famiglia ormai di predoni, colti ormai con le dita nella marmellata in episodi sempre più meschini, più che imprenditoriale alla quale non si è eccepito nulla riguardo la vendita della Magneti Marelli e di gran parte del patrimonio tecnologico costruito e finanziato pubblicamente in settant’anni. Una condizione ormai ricorrente di un paese disposto a sobbarcarsi entro certi limiti i costi e le incertezze della ricerca ma alla quale manca sempre più di offrire le piattaforme industriali necessarie alla valorizzazione economica e alla tutela delle proprie competenze. Una posizione che le impedisce di entrare a pieno titolo nei processi decisionali e di creazione di nuove realtà industriali e imprenditoriali almeno di livello europeo. Processi per nulla spontanei e per niente determinati da astratti principi di mercato.

Una condizione che risalta ancora più drammaticamente nelle parti dei due documenti che trattano di digitalizzazione, ricerca, applicazioni industriali.

SCIENZA, RICERCA, DIGITALIZZAZIONE, PIATTAFORME INDUSTRIALI

Il documento francese sull’argomento offre tre linee guida e un principio chiari:

  • la concentrazione e il coordinamento dell’attività di ricerca in sei grandi poli già in fase avanzata di sviluppo

  • il recupero della tradizione di un paese di ingegneri, matematici e tecnici di alto livello costruita nei tempi d’oro del gaullismo e smarrita drammaticamente negli ultimi due decenni

  • la creazione di sinergie che consentano la traduzione delle attività di ricerca in applicazioni, sperimentazione e in piattaforme industriali. Sinergie da mettere in pratica con la interazione e la collaborazione a vari livelli tra centri di ricerca, agenzie ibride militari-civili, sistema finanziario, pubblica amministrazione e complessi industriali che guidino le varie fasi ed in particolare quella delle applicazioni industriali attraverso la creazione di start-up e della resa economica attraverso l’offerta di piattaforme industriali adatte a garantire la resa economica su larga scala

  • il recupero della sovranità nel settore agroalimentare, della produzione di quello sanitario e dei settori strategici ad alta tecnologia laddove il controllo nazionale delle imprese e delle loro strategie assume un aspetto cruciale

Il documento italiano rappresenta l’apoteosi dell’estemporaneità e della schizofrenia, in pratica un collage di auspici e denunce sterili:

  • nessun accenno alla organizzazione e riorganizzazione dei pochi centri di ricerca e delle università come pure nessuna indicazione concreta sul punto cruciale della trasformazione della ricerca in applicazioni industriali sperimentali attraverso la promozione di start-up e soprattutto della creazione, con l’impegno diretto delle imprese di piattaforme industriali in grado di garantire la resa economica su larga scala dei risultati della ricerca. Il documento, denunciando la scarsità di investimenti, affronta il problema con delle tautologie pure e semplici: segnala la scarsa attrazione esercitata sui ricercatori e propone un incremento delle retribuzioni e dei corrispettivi economici senza alcun accenno alla carenza di attrezzature e materiali e soprattutto alla riorganizzazione dei centri di ricerca; segnala la crescente carenza, rispetto alla media europea e ancora più impietosa rispetto ai diversi paesi emergenti ed emersi, di personale tecnico-scientifico altamente qualificato, stigmatizza che il sistema economico italiano non è in grado di assorbire in buona parte quello stesso personale e alla fine si limita ad auspicare una maggiore qualificazione e corrispondenza alle esigenze delle università e delle scuole superiori. Un approccio classico del progressismo democratico che riesce a garantire sì spesso processi di emancipazione individuale, ma che riesce a far diventare le già scarse risorse destinate alla formazione e alla ricerca dei meri costi per la società di fatto sempre meno sostenibili e di fatto giustificabili

  • se si vuole, ancora più enfasi viene dedicata ai processi di digitalizzazione. Qui l’approfondimento va suddiviso in due parti. Il documento registra a ragione una grande difficoltà nell’implementazione dei processi di digitalizzazione nelle attività produttive, in particolare quelle industriali. Una remora già ampiamente segnalata dall’ex-ministro Calenda, fautore del programma “industria 4.0”. Attribuisce alla insufficiente dimensione e alla scarsa preparazione manageriale delle imprese la scarsa capacità di assimilazione delle nuove tecnologie. Ma anche in questo caso lo sforzo di elaborazione e propositivo si ferma qui o poco oltre. Glissa vergognosamente sulla vera e propria abdicazione della grandissima parte delle famiglie imprenditoriali medio-grandi italiane. In una condizione di pur oggettiva maggiore difficoltà di esercizio delle attività rispetto agli altri paesi e in una situazione nella quale la gestione scellerata delle privatizzazioni e dismissioni ha incentivato le più importanti di esse (Benetton, Agnelli, Pirelli, ………..) a trasformarsi in percettori di rendite da concessioni o in cavalieri di ventura per conto terzi, per lo più stranieri, si assiste ad un vero e proprio esodo biblico, per altro lucroso e ben ricompensato, dalle attività prettamente imprenditoriali a favore di soggetti esteri senza che nessun componente della classe dirigente e del ceto politico abbia e continui ad avere nulla da obbiettare e a maggior ragione senza che gli stessi fossero disposti ad utilizzare gli strumenti legislativi, normativi e finanziari, per altro in buona parte disponibili, tesi a compartecipare e condizionare le scelte delle imprese impegnate in questa fase di transizione. La conferma dei limiti e della grettezza di un ceto, sempre latente a partire dall’unità d’Italia e pronta ad emergere alla luce del sole nei momenti critici come negli anni ‘30, negli anni ‘50/’60, negli anni ‘90 e in maniera ormai endemica in questo ventennio. A questa generale abdicazione e complicità non corrisponde nessun tentativo adeguato di prendere atto della situazione, di conoscerne i meccanismi allo scopo di implementare al meglio i processi di digitalizzazione. La rete di aziende medie e piccole assume certamente queste caratteristiche, buone a garantire flessibilità ma poco adatte a sostenere i costi e le competenze necessari alla digitalizzazione e alla automazione, tanto più che buona parte delle competenze professionali e delle capacità innovative sono legate alla creatività e al patrimonio professionale personale degli operai e tecnici in buona parte fuori dal controllo e dalla standardizzazione manageriale. È altrettanto vero, però, che queste imprese per operare ed aggiornarsi devono disporre di una rete esterna di professionisti ineguagliata nella qualità e soprattutto nella quantità rispetto agli altri paesi europei. Questa rete, in qualche maniera organizzata, probabilmente potrebbe essere uno dei veicoli trainanti di promozione e gestione dei processi. Lo stesso dicasi per lo strumento dei distretti aziendali e per la funzione delle aziende capofila, non a caso nel mirino delle acquisizioni estere, altrimenti poco spiegabili dal punto di vista della redditività delle operazioni. Quanto più però la rete imprenditoriale è frammentata, tanto più occorre una gestione ed un indirizzo politico e strategico saldo e pervasivo, in pratica l’esistenza di un ceto politico e di una classe dirigente ancora più determinata e lungimirante. Una determinazione ed una lungimiranza ancora più incisiva quando deve necessariamente essere applicata all’estero sia nelle sedi istituzionali europee e nei rapporti bilaterali che decidono delle norme di regolazione, dei progetti di collaborazione nei settori, dei programmi ci compenetrazione e compartecipazione delle aziende sia in egual misura nei meandri amministrativi della UE, dove la fa da padrona l’attività lobbistica di imprese e gruppi di pressione, senza nemmeno la relativa trasparenza garantita dalla legislazione americana. Qualità e intraprendenza politiche tanto più necessarie quanto devono sopperire allo scarso peso lobbistico delle aziende e dei gruppi di pressioni italiani.

  • Le occasioni e gli esempi in corso vanno ancora una volta in controtendenza rispetto alle necessità e alle opportunità e a conferma di un ceto politico e dirigente italico passivo e in perenne attesa, complice. I processi di digitalizzazione della determinazione e regolazione dei flussi nella rete dei trasposti nazionale ed europea avrebbero potuto diventare l’occasione per mettere lo zampino o almeno l’occhio nella gestione dei flussi commerciali a cominciare dai fulcri dei porti di Amburgo, Anversa e Rotterdam, forti della posizione geografica dell’Italia e delle potenzialità dei porti di Trieste, Genova e Taranto. Ancora una volta i nostri non trovano di meglio che cedere, in cambio della digitalizzazione e della capacità gestionale, in condominio e probabilmente di fatto spesso in esclusiva la creazione e gestione digitale dei flussi. È già accaduto a Taranto con i turco-cinesi, pur nella incertezza delle dinamiche geopolitiche, sta accadendo a Trieste e a Genova. Ancora più sconcertante e deprimente l’esclusione e di fatto la rinuncia alla partecipazione ai progetti franco-tedeschi nell’aerospaziale e nel progetto Gaya di controllo, elaborazione e gestione di primo livello dei dati e comandi digitali in grado di mettere al sicuro il sistema di controllo e comando di industria 4.0. Progetti ancora allo stato intenzionale, dall’esito incerto e alquanto improbabile perché destinato a scontrarsi con gli interessi geopolitici strategici degli Stati Uniti e a subire l’indifferenza della potenza emergente cinese. In questo ambito l’Italia è stata semplicemente ignorata, pur potendo contribuire in maniera significativa con il proprio patrimonio di competenze. L’intenzione dei nostri è quella di subentrare a giochi fatti ma solo con l’apporto dei sistemi di sicurezza e gestione dei dati costruito nel processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (PA). Un proposito allo stesso tempo riduttivo e a ben pensare inquietante

  • e infatti l’unico obbiettivo realistico e a portata di mano, realmente impegnativo nell’ambito della digitalizzazione è proclamato a chiare lettere nella PA. Anche qui, però, il progetto soffre di una rigida impostazione deterministica. Il presupposto di questo programma è che l’informatizzazione, l’integrazione e la digitalizzazione dei servizi presuppongano meccanicamente un unico modello organizzativo. Chi conosce anche genericamente questi processi sa benissimo che non è così e che la determinazione di un modello organizzativo, quello più adatto ai sistemi digitali e più compatibile con un funzionamento ordinato delle istituzioni e delle amministrazioni. Un approccio fideistico non farà che creare conflitti, sovrapposizioni e intoppi che porteranno a conflitti di sistema, ridondanze e aggiornamenti tali da prolungare indefinitamente la fase di transizione. Una dinamica già conosciuta nella riorganizzazione di specifici settori come quelli delle Poste e destinata ad espandersi esponenzialmente in un progetto ben più complesso e articolato

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E IL DISORDINE ISTITUZIONALE E AMMINISTRATIVO

Un tema a parte ed originale riguarda la riforma e la riorganizzazione della gestione della giustizia italiana. Un capitolo dai contenuti accettabili sempre che il Governo presente e futuro abbia la forza di mettere mano alle modalità di funzionamento dell’ordinamento giudiziario e saper gestire le dinamiche ormai perverse e destabilizzanti dei gruppi di potere interno ad esso.

Rimane completamente rimosso il problema del disordine istituzionale e della pletora dei modelli organizzativi di gestione delle pubbliche amministrazione alimentati in particolare dal processo di regionalizzazione avviato al finire degli anni ‘90. Un problema la cui soluzione è in realtà propedeutica ad ogni altro provvedimento di riorganizzazione delle strutture statali e il cui procrastinarsi lascia spazio al lento processo di liquefazione delle strutture statali e alla invasività dell’Unione Europea nella sua continua ricerca di rapporto diretto con le strutture periferiche e decentrate, in particolare le regioni e i comuni, dello Stato Italiano. Una invasività strisciante nei vari paesi dell’Unione, che trova notevoli resistenze e paletti in alcuni Stati politicamente centrali e in quelli dell’Europa centro-orientale e autostrade aperte nell’area mediterranea, specie in Italia e Grecia

CONCLUSIONI

A questo punto della comparazione, il confronto potrebbe apparire assolutamente impietoso rispetto ad una classe dirigente e un ceto politico italici talmente remissivi ed approssimativi, perennemente in attesa di indicazioni esterne, concentrati ad assecondare un processo di trasferimento all’estero e di recupero per conto terzi di risorse politiche, di controllo ed economiche, a cominciare dal risparmio nazionale. È artefice e vittima di dinamiche ed inerzie che probabilmente faranno scivolare il programma NGEU italiano nella routine delle spese e degli investimenti ordinari, dalla resa immediata, dalla efficacia tuttalpiù immediata ed effimera dei moltiplicatori keynesiani, sempre che siano ormai in grado di individuarli vista la gestione disastrosa degli incentivi energetici e della pletora di bonus fiorita nell’emergenza pandemica. Non è un caso che questa classe dirigente individui nell’edilizia il moltiplicatore di sviluppo e di benessere. Con questa lungimiranza non farà che adattare surrettiziamente i programmi di investimento alle capacità tecnico-amministratice e agli interessi delle amministrazioni e dei centri di potere e di spesa residui sopravvissuti nel paese, in particolare i comuni e le regioni.

In realtà la situazione non presenta, purtroppo, nemmeno aspetti così marcati e distinti rispetto ai due paesi europei sotto esame ed in particolare la Francia.

Che dire di un ceto politico impersonato dalle ultime tre presidenze francesi ed in particolare da Macron che da ministro dell’economia ha consentito la cessione all’americana GE dell’intero settore strategico delle turbine, intimamente legato alla difesa e al settore nucleare salvo vedersi vaporizzare da Presidente a pochi anni di distanza il relativo intero centro di ricerche da 900 dipendenti nei pressi di Parigi; che dire della sua reazione a tempo quasi scaduto al mercimonio intentato dai tedeschi ai danni del consorzio Airbus e a favore della Boeing in cambio probabilmente della trappola ai propri danni dell’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer; che dire del suo accorato sostegno alle tesi del catastrofismo ambientale alla Greta Tunberg a principale giustificazione del programma di espansione dell’economia circolare, in un contesto geoeconomico, in particolare quello architettato dalla Germania e dalla UE, sostenuto pesantemente dagli Stati Uniti, nell’ambito delle importazioni di prodotti agricoli dal Maghreb, dall’America Latina e dall’Asia, in grado di renderlo velleitario pur con ben altre e più fondate motivazioni e proprio quando l’onda verde delle recenti elezioni municipali ha già messo a nudo il dogmatismo e la dabbenaggine di questo nuovo ceto politico emergente. Che dire di tutte queste posizioni e della schizofrenia connessa ai proclami di recupero di sovranità e ai propositi più o meno dichiarati e sottintesi nel documento francese?

Non si tratta della schizofrenia di un ceto politico prevalente, in Francia, in realtà molto più affine culturalmente e politicamente a quello assolutamente predominante in Italia e pervasivo anche in Germania.

È il contesto politico interno al paese che fa la differenza: è la drammatica situazione delle énclaves identitarie e comunitariste ormai quasi completamente fuori controllo nel paese; è la presenza di movimenti ostinati come quelli dei gilet gialli e degli epigoni prossimi venturi; è la presenza di una tradizione politica, amministrativa e di potere gaullista residua ma culturalmente ancora ben preparata ed ancora ben allignata nei centri decisionali a costringere a questa schizofrenia. Non è un caso che a parziale supporto e a sostegno su impostazioni più radicali del documento siano emerse due ben ponderose monografie di settimanali, in particolare del settimanale Marianne.

È una situazione ancora fluida ma che in assenza dell’emergere un terzo solido interlocutore europeo, l’Italia capace non dico di imporsi ma di trattare seriamente e con pari dignità lascia presagire il ritorno effimero ed illusorio allo statu quo, specie con l’affermazione di Biden, ma con il sacrificio definitivo di un paese, l’Italia dalla classe dirigente e dal ceto politico incapace di strategia, di volontà propria e di forza contrattuale oggettivamente disponibile in un contesto così mobile. Una remissività che probabilmente più che procrastrinare una tregua incerta interna al continente, non farà che accentuarne contemporaneamente il carattere ostile e conflittuale interno tra gli stati e la remissività e la subordinazione geopolitica al gigante americano, pur con le pesanti riserve legate alla instabilità di quella formazione politica.

Dieci anni fa Xi Jin Ping proclamo che avrebbe trasformato la Cina da opificio in laboratorio; pare ci stia riuscendo. La nostra classe dirigente e soprattutto il nostro miserabile ceto politico paiono impegnati, nel migliore dei casi, nel garantire il percorso opposto.

La posta in palio per il nostro paese è enorme: ha già perso progressivamente autorevolezza e forza politica in Europa e nel Mediterraneo; rischia di essere definitivamente spolpato del proprio risparmio nazionale e della propria capacità produttiva, in particolare quella più interconnessa e in posizione subordinata a quella francese e soprattutto tedesca a favore della collusione franco-tedesca proprio perché i propri amici-coltelli transalpini e teutonici potrebbero trovare più comodo ripiegare sul nutrimento garantito da un corpo amorfo disponibile ad accettare qualsiasi cosa piuttosto che puntare contro una bestia troppo grossa e per di più distante un oceano ma ben presente e attenta a preservare il dominio sulle lande europee.

https://www.economie.gouv.fr/files/files/directions_services/plan-de-relance/annexe-fiche-mesures.pdf

https://www.corriere.it/economia/tasse/20_dicembre_07/pnrrbozzapercdm7dic2020-7908fa02-3898-11eb-a3d9-f53ec54e3a0b.shtml

https://www.prosud.it/wp-content/uploads/2020/12/linee-guida-pnrr-2020.pdf

https://www.marianne.net/economie/le-nouvel-imperatif-industriel-les-solutions-pour-redresser-la-france-le-hors-serie-de-marianne-est-en-kiosque

FUTURO E PASSATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

FUTURO E PASSATO

Da quando – diversi mesi – si è sentito il profumo dei soldi che – consenziente l’U.E. – dovrebbero arrivare in Italia, il dibattito pubblico è stato orientato: a) a decantare la bontà dell’Europa; b) la capacità del governo Conte per averli ottenuti; c) a pregustare il radioso futuro che le già celebrate misure del governo ci assicurerebbero

Ossia un racconto viziato da un eccesso di partigianeria (nonché da auto – ed etero – incensamento); partigianeria che si manifesta non tanto e non solo in quello che si dimentica ma ancor più in ciò che si vuole omettere.

Nel racconto suddetto vi sono asserti facilmente contestabili: quanto all’Europa, il cambiamento di marcia della stessa non è stato dovuto tanto alla solidarietà politica, fondamento del vivere in comunità (v. art. 2 della Costituzione italiana), quanto al trovarsi tutti – chi più e chi meno – in una crisi e nella necessità di superarla. Riguardo le misure del governo, sono in grande prevalenza orientate a indirizzare interventi e spese a favore di certe categorie piuttosto che di altre (specie le partite IVA), ed è evidente – a leggere la stampa, la differenza tra le toppe italiane e le misure tedesche – di converso indirizzate alle generalità dei cittadini – beneficiari (taglio dell’IVA; contributi alle imprese pari al 70% del fatturato perso nel 2020). Oltretutto favorendo – involontariamente – anche le cattive condotte (tanto sbandierate dalla sinistra). Ad esempio, se si riconosce come farebbe la Merkel un (parziale) contributo per la perdita del fatturato, questo significa che nulla va a chi non fattura (lavoro nero): tra i quali coloro che percepiscono reddito da attività illecite e financo criminali.

E in più è un incentivo a fatturare: chi non fattura – parafrasando una nota canzone – non ha il ristoro. Ma queste sono considerazioni che, nella loro ovvietà sono precluse a un governo che dalla burocrazia dallo stesso mantenuta ha appreso la pratica di complicare le cose semplici. Il che inizia dalla propaganda, e purtroppo finisce nella pratica.

Maggiore attenzione va data all’insistenza con la quale ci si riferisce a un futuro radioso, a un progetto salvifico di cui il governo avrebbe le chiavi.

Anche qua occorre confrontare quello che si esterna e ciò che si occulta.

Quanto al futuro è connaturale, in certo senso alla modernità e alle ideologie coeve, le quali hanno esaltato le magnifiche sorti e progressive delle società umane, almeno ove avessero adottato certe forme. Il massimo del tutto fu il comunismo che, presentandosi come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia, avrebbe dovuto cambiare la natura umana, arrivando alla società senza classi, la cui somiglianza con il paese dei balocchi (o altre fantasie simili) era notevole. E, proprio per ciò, nessuno ne ha mai sentito l’odore.

Certo, avendo il senso del limite, una certa progettualità del futuro non guasta, anzi si accompagna ad ogni gruppo umano – e alle di esso classi dirigenti – che abbia volontà di decidere, nell’ambito del possibile, il proprio destino, ma occorre tener presente due caratteri che, nel caso italiano, rendono il discorso sul futuro radioso, assai poco credibile. Il primo è che le proposte del governo somigliano troppo all’operato vecchio, cominciando dai ritornelli stranoti e finendo con le realizzazioni: aumenti d’imposte, spese selettive, misure a formato di lobby, sprechi, ecc. ecc.

Gran parte dei quattrini che dovrebbero arrivare dall’Europa sarebbero destinati alla green economy e alla digitalizzazione, etichette che nascondono contenuti, in buona misura, avvolti nel mistero. In un paese connotato da una grande capacità di attrattiva turistica – colpita duramente dalla pandemia, il governo dovrebbe pensare, in primo luogo, ad aiutare questa e non progettare misteri, con etichette vaghe e “aperte”.

Ma è soprattutto i progettisti che rendono del tutto incredibili le proposte del governo. Non tanto i 5 Stelle, che sono dei novizi, quanto il PD – e accoliti – che nella seconda Repubblica hanno avuto tanto tempo per stare al governo e tutto il tempo per esercitare il potere: perché se i risultati sono stati quelli che ognuno può leggere – il più basso tasso di crescita (ora negativo) degli Stati dell’UE tra il 1994 ed oggi, quale credibilità può avere, per suonare la nuova musica, un’orchestra che da un quarto di secolo (almeno) strimpella lo stesso motivo, con pessimi risultati?

Perciò il richiamo al futuro ha una funzione mistificante precipua: non far ricordare il passato, e far credere che i soliti orchestrali possano suonare musica nuova, e soprattutto far dimenticare quella vecchia. Cioè quella che li ha fatti subissare di fischi dagli italiani.

Teodoro Klitsche de la Grange

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