Epigenetica e fantasmagorie transumaniste_ 2a parte, di Massimo Morigi

Massimo Morigi

 

 

 

Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico

                                              (II parte di 5)

 

 Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali

 

A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann

 

 

 

Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una  rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica  che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti  – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile,  sono stati da noi anche “congelati” tramite  la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione   del  paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico   ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda   dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora  il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico  engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring),  dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi    che    indirizzano   l’evoluzione  degli  organismi2, meccanismi  che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended  Evolutionary Synthesis  –  Sintesi evoluzionistica estesa, per la  quale anche il dato culturale acquisito,  costruito ed introiettato  dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo  teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione  nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti  presenti nel modello  darwiniano4. Si noti bene:  Darwin  era  ben  consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie  e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse.  L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare   –  perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire  LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi)  che siano divenuti una comunità di organismi  (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali  paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle  specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente,  sarebbero gravemente mùtili  della loro  forza  euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo  che iconicamente  trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali  ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin  ha iniziato  a  liberarci  da  questa   mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci –  nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e  nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.).  Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa  e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima  da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente  ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9),  si   deve   sottolineare  il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano  non più in via bioingegneristica  come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano –  e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo,  che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura  e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il  culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte   Mixotricha paradoxa11– sfocia  alla  fine,  sempre   in  Staying   with  the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica,  del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista”  del mondo biologico e,  con profonda analogia,  della realtà tutta,  fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il  paradigma   dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione  (acronimo TGO,  o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene  quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble  – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo   Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come  una  sorta  di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico;  ed Epifania strategica che, per concludere,  può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi  per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è,  una sorta di obiettivo limite;  o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti  – che, allo stesso titolo  dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da  un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –,  è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché,  –  vedi Teoria della Distruzione del Valore   e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione  di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della  Teoria del caos  e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –,  approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico  per lo  studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi  “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16  

 

Note

 

1   [Nota 1 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

2  [Nota 2 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

3  [Nota 3 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

4   [Nota 4 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

 

 

5  Dal De rerum natura di Lucrezio: «Principium cuius hinc nobis exordia sumet, nullam rem e nihilo gigni divinitus umquam.» :Titus Lucretius Carus,  De rerum natura I, 149-150. In buona sostanza, dal punto di vista della dialettica espressivo-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico assai poco importa che LUCA sia stato effettivamente l’ultimo comune antenato di tutta la vita sulla Terra o che si debba parzialmente detronizzare LUCA attraverso LACA, cioè il Last Archea Common Ancestor, o LECA, cioè il Last Eukaryotic Common Ancestor, o addirittura attraverso una combinazione di questi ultimi due: primato cronologico incerto ed eventuali ricombinazioni e che, dal punto di vista della ricostruzione della genealogia della vita hanno, fra l’altro, il divertente risultato che al posto di un primo progenitore si deve anche ammettere, in linea di principio, che questo iniziale progenitore comune non fosse più uno ma forse anche molteplici ed  anche senza nulla in comune fra di loro, fatta eccezione, in tutti, lo sforzo di mantenere strategicamente la propria neghentropia interna davanti agli stress ambientali esterni  e/o di altri organismi, ma se si ammettono meccanismi endosimbiotici secondo uno schema à la Margulis questo non  dovrebbe scandalizzare più di tanto. Nelle more del dibattito scientifico riguardo a chi si debba assegnare la palma di nostro primo progenitore, c’è anche chi ha pensato, stiamo qui parlando di un dettaglio lessicale ma un dettaglio che forse è anche un sintomo del feticismo con cui gli scienziati rendono pubbliche le loro pur importanti acquisizioni, che è incongruo definire tutti questi nostri simpatici pretendenti al momento alfa del nostro albero genealogico come ‘ultimi’ perché essi in realtà sarebbero i primi, e quindi ha proposto che invece  di LUCA, LECA e LACA di impiegare FUCA, FECA e FACA, certamente espressioni  più corrette dal punto di vista del reale significato che dovrebbero  esprimere gli acronimi in questione, cioè qualcosa che viene prima di tutti gli altri, più corrette ma che temiamo non siano state adottate dalla maggioranza della comunità dei biologi e genetisti per l’assonanza che un LUCA modificato con la consonante ‘F’ al posto della ‘L’ ha con una nota parola del turpiloquio inglese – il nostro non essere di madrelingua inglese non ci fa pronunciare su FECA e FACA, ma per chi parla italiano anche FECA e FACA possono suscitare risate da Bagaglino – e se si trattasse  di questa pruderie ciò denoterebbe, assieme ad una mancanza di spirito da parte di queste comunità di scienziati, anche l’inconscia pulsione da parte di costoro di dotare LUCA –  e poi di riflesso anche LECA e LACA che se anche nella nuova veste magari in inglese non dicono niente ma  farebbero comunque parte dell’illustre ed imbarazzante famiglia di FUCA – di una sorta di sacralità dove viene bandito qualsiasi riferimento a come avviene  la riproduzione negli organismi superiori e, soprattutto, nell’uomo. Ad ogni modo, per un primo approccio a questo forse non secondario aspetto della psicologia degli scienziati, una psicologia – e quindi anche un modus exprimendi che, visto il loro lavoro, alla fine diventa anche un modus operandi – che anche da questo piccolo dettaglio ben si vede potentemente influenzata da poco dialettici pregiudizi culturali, più o meno consci che siano, cfr.  Sylvie Coyaud, Leca discende da Laca o da Luca? E vice versa, “OCASAPIENS Dblog la Repubblica”, 20 febbraio 2019, URL http://ocasapiens-dweb.blogautore.repubblica.it/2019/02/20/leca-discende-da-laca-o-da-luca-e-vice-versa/, Wayback Machine: https://web.archive.org/save/http://ocasapiens-dweb.blogautore.repubblica.it/2019/02/20/leca-discende-da-laca-o-da-luca-e-vice-versa/. Insomma siamo sempre dalle parti di amicus Plato, sed magis amica veritas perché quello che dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico  va bene di LUCA  e di tutto il resto della sua litigiosa e divertente famiglia e ce li rende simpatici non è tanto il fatto che si debba credere  come atto di fede che proprio uno o tutti i componenti di questa famiglia costituiscano  il termine ultimo cronologico (o primo se li chiamiamo FUCA, FECA e FACA) nella conoscenza dell’origine della vita ma il fatto che essi costituiscono una sorta di metafora della dialettica espressivo-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale creatore ex nihilo – o ancor meglio ex suo – di ogni aspetto della totalità  espressiva, la quale ottiene metaforicamente una sua, anche se ipotetica, biologica e genetica traduzione attraverso queste tre ipotesi in merito all’origine della vita; una vita che, comunque si considerino queste tre ipotesi, nulla deve ad un intervento esterno spirituale (ma anche materiale, simmetricamente errando si potrebbe dire) ma che, dal punto di vista della storia naturale, tutte deve alla traduzione biologica e/o genetica del suddetto paradigma. Come si vede, stiamo ancora ragionando sul nostro radicale rifiuto, sul piano ontologico ed epistemologico, del puerile principio suddividente le  estrinsecazioni fenomenologiche del mondo nelle due distinte e non comunicanti  fattispecie del  mondo della natura (fisica o biologica che sia) e mondo della cultura, del rifiuto quindi, sul piano ontologico ed epistemologico di qualsiasi dualismo dove uno di questi due termini – materia o spirito, non importa – sia prevalente sull’altro perché l’uno l’unico ed indiscusso creatore ex nihilo dell’altro, e siamo invece sul piano di un integrale monismo dialettico dove non si tratta più di individuare l’essenza di un qualche ente spirituale o materiale che sia ma dove, se vogliamo continuare ad usare questo termine, l’essenza della totalità espressiva è olisticamente da ricercarsi nelle varie ed infinite relazioni fenomeniche che in un paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale  si generano all’interno di questa totalità, relazioni fenomeniche che nella loro dialettica di cui sopra sono  ontogenetiche e creatrici ex nihilo-ex suo di esse stesse come della totalità che le comprende e che, a sua volta, le genera. (Tanto per essere chiari: esaltiamo la realtà  concreta ed empirica del fenomeno, non per niente il Repubblicanesimo Geopolitico è l’erede diretto  di Machiavelli e della sua realtà effettuale e, soprattutto, del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale che è il vero ramo d’oro  di tutto il suo rivoluzionario modo di interpretare la politica e che noi estendiamo, al di là del versante culturale-politico-storico, anche al mondo naturale fisico-biologico,  ma rigettiamo come mera superstizione il noumeno kantiano: il vero noumeno kantiano non sta dietro il fenomeno ma sta nella relazione dialettica che il fenomeno condivide con altri fenomeni e con l’olistica totalità che genera tutti questi fenomeni ma che, a sua volta, è da essi generata: in questo, la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico è immensamente debitrice ad Hegel e all’idealismo tedesco ma, consentiteci di dirlo, provvisto di una dialettica che non si presta ai facili ed ingenui schematismi dialettici che pretendevano di tracciare nel dettaglio la linea che la ricerca scientifica doveva intraprendere – Hegel arrivò a dire per illustrare il movimento a spirale dello spirito assoluto dove non si ritorna al punto di partenza ma lo si recupera ad un livello superiore: «Se il seme rimanesse tale, non si realizzerebbe. Il seme si realizza nella pianta, ma nella pianta il seme non è annientato, è semplicemente superato. Anche la pianta non si realizza in se stessa, ma tutto continua ad evolversi in un ciclo infinito» (Hegel. Metafora del seme e della pianta: scheda compendiosa della dialettica hegeliana, p. 2,  documento scaricato  dall’URL  https://digilander.libero.it/alemar85/Autori%20filo/hegel.doc#, Wayback Machine:

https://web.archive.org/web/20200924065542/https:/digilander.libero.it/alemar85/Autori%20filo/hegel.doc; ricaricato su Internet Archive, generando gli URL https://archive.org/details/hegel-metafora-del-seme-e-della-pianta-dialettica/mode/2up e https://ia801405.us.archive.org/27/items/hegel-metafora-del-seme-e-della-pianta-dialettica/Hegel%2C%20%20metafora%20del%20seme%20e%20della%20pianta%2C%20dialettica.pdf – altro caricamento su Internet Archive con documento leggermente manipolato con l’aggiunta della numerazione delle pagine agli URL  https://archive.org/details/georg-wilhelm-friedrich-hegel-dialettica-metafora-del-seme-e-della-pianta-metafohttps://ia601401.us.archive.org/12/items/georg-wilhelm-friedrich-hegel-dialettica-metafora-del-seme-e-della-pianta-metafo/Georg%20Wilhelm%20Friedrich%20Hegel%2C%20dialettica%2C%20metafora%20del%20seme%20e%20della%20pianta%2C%20metafora%20del%20seme%20e%20della%20pianta%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf), che è una ottima illustrazione dell’ Aufhebung ma che ha il non piccolo difetto di voler rendere evidente questo principio non prendendo il processo di morte e sviluppo del seme  come una  euristica metafora ma come la prova provata della realtà della sua dialettica – ma prova provata  che si risolve  però solo  in una petitio principii –, e qualora quindi il procedere scientifico induttivo  avesse contraddetto la filosofia hegeliana – ma questo vale anche per Fitche e per Schelling; quest’ultimo, comunque, erede moderno del pensiero naturale magico rinascimentale affermò con vigore l’inesistenza di una linea di divisione fra mondo dello spirito e mondo della natura, consapevolezza molto affine a quella del Repubblicanesimo Geopolitico, peccato solo che Schelling non abbia mai elaborato un suo pensiero dialettico; e per quanto riguarda Fitche, è evidente il filo rosso che lega la sua filosofia della prassi con quella di Gentile, Gramsci e poi, infine, con la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico –, quello da buttare a mare senza se e senza ma era il risultato di questa ricerca induttiva senza nemmeno cercare una qualche forma di mediazione col suo pensiero dialettico. È qui evidente l’errore della logica dialettica hegeliana in cui A implica non A (A↔non A) e dove, al contrario che nella dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico dove A A≠A A≠A ≠ A≠A A≠A ≠ A≠A≠ A≠A ≠ A≠A↔… ∞↔∞≠∞ (principio di non identità, già illustrato supra alla nota n°4), essendo A una realtà determinata e quindi né dinamica né dialettica, questo non A non è ontogenetico e creatore ex nihilo-ex suo  ma il cui senso e le sue potenzialità, ivi compreso la sua negazione, trovano risoluzione solo nella totalità – il che in linea di principio è assolutamente corretto – ma una totalità che non riesce mai ad entrare in contatto con un A che ab origine nasce già non dialettico e statico – correttamente, invece, Fitche dà inizio al suo movimento dialettico dall’Io infinito,  solo che ahinoi quest’Io parte con il piede sbagliato in quanto come primo passo pone sé stesso e poi, come secondo passo, pone o crea un non Io divisibile. Ed è qui di solare evidenza che non si capisce come un Io così concepito possa porre un non Io se già non lo comprende ab origine nelle sue potenzialità per poi crearlo misteriosamente  in seguito, come è di altrettanto solare evidenza che quella di Fitche non è che la riscrittura in termini filosofici del creazionismo personalistico di origine biblica. Questo fatale errore hegeliano sul piano ontologico che le manifestazioni fenomeniche di questa totalità e la loro dialettica trovano una risoluzione solo nella totalità che le sovrasta e non, piuttosto, nelle loro dialettiche interconnessioni che creano questa totalità e che, a loro volta, sono create da questa totalità in un processo dove non sussiste una ripartizione gerarchica d’importanza generativa fra totalità e manifestazioni fenomeniche ma un processo dialetticamente circolare e bidirezionale che si svolge lungo il già menzionato paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, come invece cristallinamente individuato per la prima volta nella storia della filosofia  nella dialettica storicistica della filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, anche sul piano epistemologico è gravidissimo di conseguenze per il  fatto che, vedi esempio dell’albero, la dinamica  empirica delle manifestazioni fenomeniche che sono subordinate a questa totalità vengono colte – proprio perché svalutate e considerate non importanti sul piano ontologico e quindi, in ultima analisi, non degne nemmeno di un’approfondita indagine sul piano empirico-sperimentale-induttivo – nella loro dimensione più banale ed estrinseca, vedi l’esempio del seme e dell’albero appena riportato, non errato dal punto di vista più bassamente empirico, ma che non fa progredire di un millimetro la nostra conoscenza dello sviluppo da seme ad albero. Anziché cercare la dimostrazione in specifiche e talvolta assai banali e poco profonde osservazioni –  scientifiche od anche derivanti dal buon senso comune – del mondo fenomenico, la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico in quanto approccio deduttivo alla realtà e per questo abbarbicata all’intelletto hegeliano molto meglio di quanto non fosse riuscito lo stesso Hegel, intende piuttosto indicare la direzione che le scienze induttive devono intraprendere nel loro percorso di verità ma di  questi risultati, anche se conseguiti attraverso una esplicita od implicita mentalità dialettica e quindi  segnalati, dal nostro punto di vista,  come la giusta direzione in prospettiva storica data al conoscere e all’agire umani e per questo da noi giudicati con una sorta di pregiudizievole simpatia, non intende farsi portavoce né pretende di assumerli come prova provata del suo metodo e della sua Weltanschauung. E questa è l’impostazione che abbiamo seguito in questa comunicazione dove la nostra simpatia verso le nuove frontiere dell’epigenetica, della teoria endosimbiotica e della Sintesi evoluzionistica estesa non ci faranno mai dire «ecco, alla luce dei più recenti avanzamenti di queste scienze è dimostrata la verità della nostra dialettica», quanto piuttosto affermare «queste scienze contengono in sé il germe del nostro approccio dialettico e, da un punto di vista storico, costituiscono un oggettivo avanzamento nella comprensione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della realtà»; il quale approccio dialettico, come già detto, può essere mostrato ma non dimostrato – ma, in ultima istanza, non esiste nulla che possa essere veramente dimostrato  e, alla stretta del chiodo, anche dopo  numerose prove e controprove su qualsiasi aspetto conoscitivo e/o del nostro umano agire, la certezza assoluta non può mai essere raggiunta e ci si deve fermare per affidarsi al nostro intuito che ci dice che abbiamo raggiunto un risultato che, se non la verità di ragione e/o prassistica in assoluto è, perlomeno, soddisfacente: fermare, ovviamente, perché limitati dalle specifiche contingenze storiche in cui ci troviamo ad operare e pensare e non perché si giudichi la nostra situazione hic et nuc portatrice di una dialettica storica valida per l’eternità, anzi il contrario: altrimenti degraderemmo il nostro intelletto ad un atto di fede, verso il quale, lo diciamo con profondo rispetto ma rimarcando anche la profonda distanza che ci separa da esso, non nutriamo particolare fiducia in merito alle sue potenzialità nell’avanzamento della umana conoscenza e/o azione: a meno che questo atto di fede sappia distaccarsi dalla mitologia personalistica e creazionistica ex nihilo e stringere, invece, una solida alleanza con l’intelletto hegeliano (si consideri dalla I tesi di Tesi di  filosofia della storia di Walter Benjamin la metafora del nano gobbo, che rappresenta la teologia, che nascosto sotto la scacchiera manovra un fantoccio inamimato, cioè il materialismo storico, che apparentemente è l’autore imbattibile delle mosse del gioco). E, oltre alla differenza fra intelletto e ragione, così ritorniamo, vedi supra, alla nota n° 4, dove si è anche detto che, sulla scorta del teorema di incompletezza di Gödel, un computer può rispondere con successo ad un quesito solo  laddove ci sia da risolvere un problema per via algoritmica, quindi un problema che comporti un numero delimitato di passaggi (sulle problematiche filosofiche dal punto di vista della filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico suscitate dai computer, in particolare dai computer quantistici, cfr. infra la nota n° 16 della presente comunicazione). Ma come dice il teorema di incompletezza di Gödel, non può esistere alcun sistema logico in cui tutti gli elementi di questo sistema trovino la loro dimostrazione all’interno di questo sistema. Stiamo sempre parlando della differenza fra intelletto e ragione, dove è la ragione che, alla fine, deve subordinare l’intelletto. Amicus Plato, sed magis amica veritas… . Se invece, si rimanesse abbarbicati come atto di fede alla realtà empirica, ancora tutta da dimostrare, di LUCA, LECA o LACA, si compirebbe un’ operazione gnoseologico-epistemologica analoga  a quella che, in ultima istanza, prese forma agli inizi dell’embriologia con la teoria del preformismo dell’homunculus, che affermava che nella cellula germinale umana non stavano le forze e i principi che avrebbero generato l’uomo ma bensì una sorta di homunculus, il piccolo uomo che avrebbe generato poi il più grande uomo, o a quella, agli inizi dell’atomismo greco,   di considerare l’atomo l’ultima particella della materia che non può essere ulteriormente suddivisa e poi definitivamente accantonata dal modello atomico planetario di Rutherford. Oggi vediamo, sbagliando, questo homunculus come una sorta di ridicolaggine ma, a ben guardare, fu un’idea tutt’altro che ridicola, solo che, al netto del tentativo di autonomizzare l’aspetto generativo-riproduttivo degli organismi svincolandolo, almeno in linea di principio, dalla Weltanschauung creazionististca, dal nostro punto di vista ha il non piccolo difetto di renderlo assolutamente antidialiettico e con profonde analogie, nel potere generativo come  nella forma stessa dell’homunculus, con l’aspetto antropomorfo del Dio creatore – e personalistico – della tradizione giudaico-cristiana, rappresentato con caratteristiche fisiche,  psichiche e di dinamico intervento sulla realtà esterna, anche se infinitamente e numinosamente potenziate, analoghe a quelle dell’uomo (e dell’atomo di Rutherford,  con il nucleo composto da protoni e neutroni e con gli elettroni che ruotano attorno a questo nucleo in ordinate orbite planetarie, oggi rimane solo una credenza in chi non abbia un minimo approfondito la fisica moderna, e a cristallizzare iconicamente questa ora ingenua ma ancor molto condivisa  credenza, ma ai suoi tempi importante  cesura compiuta sul   più grezzo atomismo greco che, comunque, era stato esso stesso un passo importante alle origini della filosofia per svincolare  la c.d. natura dal c.d. spirito, si può ancor  oggi visitare l’Atomium, il gigantesco  monumento all’atomo e all’energia atomica che si trova nel parco Heysel di Bruxelles): tutte ipotesi scientifiche di una scienza che, volendo giustamente distaccarsi da un soffocante spiritualismo, attraverso un ingenuo monismo materialista cercava di trovare  l’essenza ultima e non più scomponibile della realtà. LUCA, LECA o LACA (con o senza la maliziosa consonante iniziale ‘F’…) a noi servono per aprire le porte ad una dialettica  più avanzata a quella dei  micro-omuncoli in biologia, delle palline dure ed indivisibili del primo atomismo greco di Leucippo e Democrito ma anche a quello dell’atomo di Rutherford che nell’ordinata traiettoria planetaria dei suoi elettroni (per non dire per l’avere imputato l’indivisibilità della materia ai neutroni e ai protoni – ma oggi questa superstizione sull’ultima particella della materia non è ancora morta e i fisici hanno degradato i protoni e i neutroni per sostituirli con nuove particelle subatomiche che di questi neutroni e protoni sono subcomponenti, la cui unica vera ragione per definirle ultime sarebbe che, al di là delle simpatiche e parareligiose elucubrazioni di questi fisici,  sono le ultime arrivate in questa ricerca  scompositiva che, tutto lascia ritenere, può essere protratta all’infinito) parimenti trasmetteva un’idea del mondo “naturale” antidialettica e governata da implacabili leggi meccaniche. Tutte queste teorie scientifiche qui velocemente descritte, anche solo considerando la prospettiva storico-filosofica, un grandioso progresso rispetto a quelle che le avevano precedute ed anche dialetticamente importanti, come s’e visto, rispetto alle precedenti visioni spiritualistiche (fossero esse imperniate su un Dio personale creatore o, platonicamente, su un mondo iperuranio che costituirebbe la verità vera delle forme rispetto alle forme concretizzatesi  nel mondo materiale) ma, tutte quante, anche una sorta di diabolica vendetta  dove le mort saisit le vif, dove cioè questa tentata immanentizzazione assumeva i peggiori caratteri antidialettici delle visioni trascendenti, senza, per’altro, saper sviluppare quello che di buono ha ogni visione trascendente, cioè il suo riferirsi –  anche se in termini ingenuamente antropomorfi e/o spiritualistici e/o creazionistici ex nihilo attraverso un atto puramente volitivo di un Dio personale – ad una totalità  dialetticamente espressiva di ogni aspetto della realtà. Quindi, per concludere, quello che noi apprezziamo di LUCA, LECA e LACA (con o senza la ‘F’ iniziale) è sì la loro importanza conoscitiva  nello sviluppo  della scienze biologiche e genetiche e nell’approssimazione di un modello verosimile intorno all’origine della vita ma, soprattutto, la loro capacità in sede storica e filosofica di designare uno schema ontologico-espistelomologico con forti analogie a quello olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. Se le considerassimo diversamente, cioè come la prova provata della bontà del nostro paradigma, cadremmo in una sorta di feticismo scientifico, di cui si vedono in giro fin troppi rappresentanti e ancora una volta ci si allontanerebbe dalla profonda dialettica  del De Rerum natura di Lucrezio dove «Il suo fondamento prenderà per noi l’inizio da questo: che nulla mai si genera dal nulla per volere divino.»).

 

6 Da “Biblioteca Online Watchtower” citando  Isaia 11.6-11  (URL: https://wol.jw.org/it/wol/d/r6/lp-i/1983761#h=25 – Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20191021075528/https://wol.jw.org/it/wol/d/r6/lp-i/1983761 –, con link  che rimanda direttamente a Isaia 11.6-11  e all’URL sempre della “Biblioteca Online Watchtower” https://wol.jw.org/it/wol/b/r6/lp-i/nwtsty/I/2019/23/11#study=discover&v=23:11:6-23:11:9; Wayback Machine https://web.archive.org/web/20191021080344/https://wol.jw.org/it/wol/b/r6/lp-i/nwtsty/I/2019/23/11): «In effetti il lupo risiederà temporaneamente con l’agnello, e il leopardo stesso giacerà col capretto, e il vitello e il giovane leone fornito di criniera e l’animale ingrassato tutti insieme; e un semplice ragazzino li condurrà. E la vacca e l’orso stessi pasceranno; i loro piccoli giaceranno insieme. E pure il leone mangerà paglia proprio come il toro. E il piccino lattante per certo giocherà sulla buca del cobra; e un bambino svezzato effettivamente metterà la sua propria mano sull’apertura per la luce di una serpe velenosa. Non faranno nessun danno né causeranno alcuna rovina su tutto il mio monte santo; perché la terra sarà per certo piena della conoscenza di Geova come le acque coprono il medesimo mare.». Si tratta di un testo che, comunque losi giudichi, presenta una certa oscurità, specialmente quando parla del bimbo che mette la mano «sull’apertura per la luce di una serpe velenosa» Curiosamente, al secondo URL qui sopra menzionato della “Biblioteca Online Watchtower”, Isaia 11.6-11 viene citato diversamente in una lezione molto più chiara: «Il lupo starà con l’agnello,/ il leopardo si sdraierà accanto al capretto,/e il vitello, il leone e l’animale ingrassato staranno tutti insieme;/e li guiderà un bambino.//La mucca pascolerà con l’orsa/ e i loro piccoli si sdraieranno l’uno accanto all’altro./ Il leone mangerà paglia come il toro.// Il lattante giocherà sulla tana del cobra,/e un bambino svezzato metterà la mano nel nido di un serpente velenoso.//Non causeranno né danno né rovina/in tutto il mio monte santo,/ perché la terra sarà piena della conoscenza di Geova come le acque ricoprono il mare.». Non si tratta qui di fare della facile ironia, nel caso specifico sui Testimoni di Geova, non fosse altro per le persecuzioni che hanno dovuto subire ad opera del nazismo, qui si tratta solo di segnalare una particolare fenomenologia dei testi religiosi afferenti al Vecchio e Nuovo Testamento, i quali, monito anche per i testi non religiosi, sono soggetti, ma in maniera perversa, al c.d. circolo ermeneutico, dove il pregiudizio dell’esegeta sovente non è un positivo momento dialettico per una infinita e sempre più ricca interpretazione del testo ma sovente non è altro che una colposa-dolosa ignoranza sulle più elementari  avvertenze che si debbono mettere in atto quando si affronta un testo che è il frutto, inevitabilmente, di rimaneggiamenti, passaggi di mano, di traduzioni di traduzioni e di interpretazioni su interpretazioni che, sprovviste di qualsiasi sensibilità filologica, arrivano ad impattare sul testo stesso (purtroppo Lorenzo Valla è un illustre sconosciuto per la gran massa dei nostri ingenui fedeli che pur  possono disporre della più piena libertà di interrogare le Sacre Scritture ed anche di quel minimo d’istruzione di base che, se coltivata, consentirebbe di sviluppare un approccio maggiormente dialettico-strategico in merito non solo alla vicende strettamente ermeneutiche testuali ma anche a quelle che riguardano l’esperienza quotidiana – discorso che vale anche per i cattolici ed i fedeli delle chiese riformate – ed è un personaggio dolosamente rimosso da parte degli esperti ermeneuti religiosi, i quali hanno tutto l’interesse professionale a che il sopraddetto atteggiamento dialettico-strategico non si diffonda presso la gran massa dei fedeli: ovviamente questa ostilità verso una ermeneutica dialettica  vale per tutte le   tutte le religioni, nessuna esclusa). Al di là quindi delle insindacabili scelte valoriali che guidano ognuno di noi – e al di là delle nostre battute sulle costituende associazioni in difesa dei leoni carnivori da non convertire in caproni con affilati artigli – quello che qui si vuole sottolineare è che basare la propria vita sulla lettura – o, ancor più spesso, su una non lettura sostituita dalla lezione di “esperti” incaricati allo scopo – di questi testi è l’atteggiamento più antidialettico ed antistrategico che l’uomo abbia mai concepito. Con però una postilla finale di non lieve rilievo. Il senso del religioso non è assolutamente un atteggiamento antistrategico, anzi è il primo passo per giungere alla consapevolezza di una totalità espressiva che dialetticamente implica e genera  ex nihilo-ex suo  le manifestazioni fenomeniche del mondo che, a loro volta, implicano  e generano dialetticamente questa totalità. E, inoltre, lo studio della fenomenologia religiosa può e deve metterci in guardia, proprio nelle sue manifestazioni meno “strategiche”,  sul fatto che i circoli ermeneutici “perversi” non sono riservati solo alle religioni in senso stretto ma investono – oggigiorno come in passato, nella sua fenomenologia fideistica la moderna cultura di massa non ha nulla da invidiare alla peggiori manifestazioni fideistiche di quelle che un tempo venivano definiti i “secoli bui” – la cultura, la politica, e l’economia. Tralasciando i vari esempi a riguardo che potrebbero riguardare i vari tipi di totalitarismo, compreso quello liberale che non si avvale di istituzioni formalmente autoritarie e/o dittatoriali, ma di varie forme di propaganda il cui vero tratto comune è il fallace, menzoniero e totalitario individualismo metodologico, per rimanere su un piano più strettamente filosofico – ma che ha dirette ricadute sul piano culturale, politico ed economico nelle modalità negative appena indicate – intendiamo qui accennare ai vari materialismi filosofici, che pur partendo dalla necessità di avviare un del tutto legittimo e benvenuto  processo di immanentizzazione, hanno tramutato il pur fecondo riferimento della religione ad una totalità espressiva in una totalità, la materia, che ha però perso qualsiasi espressività dialettica ma assume una rigida legalità meccanica, perdendo quindi della religiosità giudaico-cristiana la volontaristica dialetticità contenuta nell’idea di un Dio sì personale e creatore ex nihilo ma creatore per un atto di espressiva volontà e quindi in rapporto dialettico col Creato e mantenendo di questa religiosità il lato autoritaristico-meccanico-meccanicistico, solo che nel caso del materialismo (poco importa se  un materialismo di stampo illuministico-vetero-holbachiano o un materialismo “dialettico”, il che è una contraddizione in termini, vedi le ridicolaggini pseudodialettiche e cripto-positiviste delle engelsiane Dialettica della natura e  Anti-Dühring) la meccanicità della legge non sta più in comandamenti divini da non trasgredire ma si inserisce direttamente nella costituzione stessa della totalità, senza nemmeno la dialettica e prassistica possibilità, anche se negativa, di peccare data dalle odierne e moderne versioni della religione giudaico-cristiana (in passato la libertà di peccare e di formulare, anche se solo istintivamente, una propria autonoma filosofia della prassi era pagata col rogo). E traducendo politicamente la Weltanschauung materialista, il totalitarismo che non ammette trasgressioni più o meno dialettiche (quindi, più o meno umane) ne è la logica conseguenza. Ma sui crampi del pensiero del materialismo torneremo fra breve a parlare.

 

7 Per continuare a parlare di religione e dintorni: qui non si intende negare, lo ripetiamo, il valore del momento religioso (certo le sue pretese creazionistiche – ci riferiamo qui, ovviamente, alle varie tradizioni religiose che partono dal Vecchio Testamento –   da parte di una divinità personale non possono essere che giudicate “al di là del bene e del male”),  si vuole solo sottolineare che,  globalmente intesi, molti aspetti della  tradizione giudaico-cristiana, appartenenti ancor più alla religiosità popolare e/o al sentimento popolare suscitato da una non approfondita – od addirittura assente, nella maggior parte dei casi – lettura delle Sacre Scritture rispetto ad  una  maggiormente scaltrita dottrina teologica, mal o per niente si accordano con la teoria olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale della filosofia della prassi  sviluppata dal Repubblicanesimo Geopolitico. Discorso diverso, invece, si deve svolgere non riguardo la teoria della filosofia della prassi ma riguardo una concreta pratica storica di tale paradigma, in quanto  dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico che pone al centro del suo discorso filosofico-politico l’elaborazione di una monistica teoria del potere –  potere che, per farla breve, non è il nemico della libertà ma la sua originaria espressione, cfr. infra  su questa fondamentale  e rivoluzionaria rifocalizzazione del concetto di libertà operata dal Repubblicanesimo Geopolitico  infra alla nota n° 15 della presente comunicazione  i riferimenti internettiani dei nostri scritti teorici iniziali apparsi sul blog “Il Corriere della Collera” –, in quanto la tradizione giudaico-cristiana, in tutte le sue varie denominazioni e specialmente in quella cattolico-romana, è stata una gigantesca sprigionatrice ed organizzatrice di potere attraverso l’entusiasmo che ha saputo suscitare e attraverso l’opera di organizzazione e gerarchizzazione della società ed anche attraverso l’ispirazione di una fenomenale produzione artistica (cfr. Carl Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Hellerau, Jacob Hegner, 1923; su Internet Archive è possibile consultare  una edizione in lingua spagnola di questo saggio schmittiano sulla forma cultural-politica del cattolicesimo  agli URL  https://archive.org/details/schmittcarl.catolicismoromanoyformapolitica2011/mode/2up         e                                                                             

https://ia801003.us.archive.org/1/items/schmittcarl.catolicismoromanoyformapolitica2011/Schmitt%2C%20Carl.%20-%20Catolicismo%20Romano%20y%20Forma%20Politica%20%5B2011%5D.pdf, mentre la sua traduzione italiana in nessuna delle sue edizioni è disponibile  liberamente sul Web). Tutto ciò dal punto di vista della dialettica politica della filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, la quale  si contraddistingue nel mettere l’accento sulla espressività del soggetto nel rapportarsi, attraverso l’esercizio del suo potere, con l’oggetto – oggetto che in questo rapporto espressivo di potere diviene così esso stesso attivo soggetto sprigionatore a sua volta di potere perché si relaziona dialetticamente col soggetto iniziale da cui era iniziata l’originaria promanazione del potere: esemplare, a questo proposito, la dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello spirito – dando così origine ad un’autentica libertà che non sia quella dell’individualismo metodologico del liberalismo –  basato su una falsa mitologia dei diritti umani, universalmente garantiti, chissà perché e in virtù di non si sa che cosa,  perché non si capisce come possa essere possibile un simile “prodigio” se non ricorrendo alla iniziale  divinità personalistica ed onnipossente prima garante del paradiso celeste ma, ora più modestamente, nella debole theologia abscondita  della delirante teoria dei diritti umani, solo uno terrestre realizzato tramite l’universale-universalistica applicazione di questi diritti,  e su una delirante visione della società dove l’individuo è una sorta di monade che nulla deve all’evoluzione culturale, storica e sociale dalla quale proviene e che, soprattutto,  deve essere astoricamente totalmente dimentico della dialettica servo-padrone –, è certamente un merito non da poco. (Solo che nel caso del potere espresso dalle denominazioni religiose, “piccolo dettaglio”, il soggetto in questione è un soggetto, l’organizzazione clericale, che pretende di affermarsi su altri soggetti che devono rimanere ad esso sottoposti e considerati come passivi oggetti di esercizio del suo potere mentre il Repubblicanesimo Geopolitico, sulla falsariga del realismo politico machiavelliano olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale e della hegeliana Dialektik von Herrschaft und Knechtschaft e sviluppando compiutamente questi due momenti nella sua filosofia della prassi, trova fondamento nell’obiettivo limite dell’ Epifania strategica e non in uno stato finale paradisiaco – paradiso celeste seguendo la vecchia teologia, ma anche paradiso terrestre della nuova e debole theologia abscondita dei diritti umani  propalata  non dal vecchio clero sacerdotale ma da quella disinformatia di massa messa in atto tramite quegli strumenti non a caso definiti, infatti, mass-media e gestita  da quel nuovo clero sostitutivo delle moderne società di massa  che sono oggi gli “intellettuali”: giornalisti nella maggior parte dei casi ma anche menti più raffinate che volontariamente abdicano alla loro tradizione storica nata dall’Illuminismo e che nella onesta convinzione, da parte di chi sapeva, di poter e dover indirizzare la pubblica opinione anziché ripetere i luoghi comuni della mitologia  del trono e dell’altare costituisce la parte più viva e attuale di quel movimento, peraltro viziato da meccanico materialismo e/o da una depotenziata religiosità, il deismo e il teismo ed anche il materialismo –, trova cioè fondamento assiologico in uno stato della società dove tutti i suoi membri condividano una quota dinamicamente uguale di potere-libertà e questo potere-libertà fa sì che non ci siano soggetti ed oggetti passivi ma   soggetti  dialetticamente attivi in cui il loro vicendevole relazionarsi porti ad un arricchimento di tutti  i  soggetti, ma ci fu qualcuno che un tempo parlò di “astuzia della ragione”…). Piccola digressione di politique d’abord ma che, visto che queste note sono incentrate sulle valenze metaforico-dialettiche che per il Repubblicanesimo Geopolitico hanno le nuove frontiere delle scienze biologiche e genetiche, potrebbe essere definito un appunto riguardante l’ecosistema politico-culturale  di quella civiltà che negli ultimi duemila anni è partita dall’Europa per poi diffondersi, anche per “merito” del colonialismo ma anche per una sua forza propulsiva interna data dalla concreta  filosofia della prassi del paradigma culturale cristiano, sul resto del Mondo. Chi in Europa è a favore di un multiculturalismo religioso di massa derivante da gruppi di immigrati non europei e di tradizione non cristiana (cioè, per essere ancor più chiari e non lasciare adito ad alcun equivoco: di tradizione islamica, perché solo una mente ottenebrata dal “politicamente corretto” può mettere sullo stesso piano “buonista” i gruppi allogeni di musulmani trapiantati in terre cristiane con, mettiamo, comunità induiste o buddiste presenti nell’Occidente cristiano, le quali, se hanno dato problemi, sono essenzialmente problemi legati al loro sradicamento dalle terre d’origine e non suscitati dalla volontà di fare dell’Occidente una terra conforme al loro credo religioso, come invece vorrebbero molti bravi islamici insediatisi in Occidente), non scaturente, cioè,  come è verificato storicamente, dallo scontro-incontro fra le varie denominazioni cultuali cristiano-europee, non pone le basi per lo sviluppo della tradizione europea in fatto di tolleranza ma pone le condizioni per la distruzione di questo ecosistema culturale nato e svilluppatosi nell’alveo del mondo classico greco-romano e che avuto  la sua piena maturazione dopo la  fine della guerra dei Trent’anni, pone  cioè le condizioni, per parlare chiaro, per la messa in atto di un vero e proprio genocidio culturale e il cui primo risultato sarà proprio la fine di quel costume di tolleranza sempre a vanvera invocato da coloro che, senza fare alcuna distinzione in merito alla provenienza, appoggiano incondizionatamente tutti i flussi migratori verso il Vecchio continente e l’Occidente cristiano più in generale. (Ulteriore velocissimo  approfondimento  per tutti coloro che pensano che la tolleranza sia un frutto della “pappa del cuore”, anziché il risultato di un lungo e tormentato processo storico sovente più l’effetto perverso finale  della violenza più o meno istituzionalizzata piuttosto che  il risultato angelico dell’incontro degli uomini di buona volontà. Ora, a parte l’importante influsso delle sette ereticali protestanti italiane nell’elaborazione del moderno concetto di tolleranza – vedi a questo proposito gli importantissimi studi di Delio Cantimori e in particolare Id., Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Sansoni, Firenze, 1939 (1° edizione) su un’interpretazione dell’evoluzione del concetto e della pratica della tolleranza che abbandonando il paradigma liberale basato su Locke e sull’evoluzione del sistema politico-culturale inglese dominato dalla Chiesa anglicana ne elabora uno alternativo privilegiante gli  anabattisti e sociniani italiani che proprio perché perseguitati avrebbero, di fatto, elaborato una Weltanschauung animata da tolleranza, quella tolleranza che a loro era stata negata nell’interpretazione delle Sacre Scritture –, bisogna sottolineare che la tolleranza fu in Europa molto più il frutto di una violenza istituzionalizzata che non riusciva a trovare né vincitori né vinti, fu il frutto cioè della guerra dei Trent’anni e della Pace di Westfalia del 1648,  perché da questa pace, dando definitiva sanzione al  principio del cuius regio, eius religio  che poneva fine alla guerra,  hanno avuto  inizio gli stati nazionali all’interno dei quali veniva garantita, anche se sovente con difficoltà e spesso in maniera del tutto insoddisfacente, la tolleranza religiosa fra le varie denominazioni cristiane – preso alla lettera, infatti, cuius regio, eius religio significa solo che i sudditi devono seguire la religione del loro principe, ma l’importante era stabilire che i governanti appartenenti a diverse confessioni per questo motivo non si dovevano scannare; anche se  ai nostri occhi in maniera del tutto inadeguata, vedi per esempio il caso della revoca dell’editto di Nantes tramite l’emissione il 18 ottobre 1685 dell’editto di Fontainebleau da parte di Luigi XIV che comportò la cacciata degli Ugonotti dalla Francia, la tolleranza religiosa si affermò così gradualmente sul Vecchio continente ed un altro effetto, forse esteticamente non altrettanto attrattivo come la tolleranza ma ugualmente importante scaturente dalla Pace di Westfalia e dal conseguente formarsi di stati nazionali che non si dovevano prendere  alla gola per ragioni religiose, non fu, ovviamente, l’eliminazione della guerra in quanto tale, ma la nascita della guerre en forme, guerre en forme che significa che il nemico non è più l’antagonista da distruggere con tutti i mezzi a disposizione, ad ogni costo  e da considerare come mera cosa fungibile e privo d’umanità  ma un justus hostis verso il quale devono non essere adottate  condotte annichilatorie ma gli deve essere riconosciuto uno statuto, appunto, di legittimo nemico, un nemico quindi che, se sconfitto,  deve esserne assolutamente interdetta l’eliminazione dalla faccia della Terra. Sulla problematica della guerre en forme, cfr. ovviamente, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum di Carl Schmitt; nella  edizione in lingua italiana da noi consultata, Id., Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Milano, Adelphi, 1991, p.199). Purtroppo l’attuale Chiesa cattolica – principalmente, ma non solo, attraverso le sue errate e scriteriate prese di posizione in merito alle politiche di accoglienza, perché questo è solo uno dei tanti segnali della attuale grandissima difficoltà teologica, pastorale ed organizzativa della Chiesa cattolica – sembra proprio aver perso quella concreta pratica politica della filosofia della prassi – per non dire quella sapiente diffidenza soprattutto verso quelle “pappe del cuore” della religiosità popolare che da essa venivano sapientemente sopite e/o strumentalizzate ma che oggi sono soprattutto appannaggio dei “democratici” poteri secolarizzati e verso i quali la Chiesa cattolica si dimostra sempre più culturalmente sottomessa ed indifesa, evidenziando, così, di non possedere più tutta quella sua peculiare pratica filosofia della prassi ed abilità politica che però poteva solo scaturire dalla convinzione di possedere il ‘deposito della fede’, convinzione che a partire dal Concilio Vaticano II si è fatta sempre più debole –, che nei secoli ne aveva fatto una grandissima istituzione costruttrice di civiltà, forse la più grande mai  apparsa nella storia umana (sull’argomento confronta ancora Carl Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, cit.). Certamente è nostra opinione che se si vuole rinvenire all’interno della fenomenologia religiosa elementi interessanti per quanto riguarda non solo la pratica politica della filosofia della prassi ma anche dal punto di vista della sua teoria non è alla tradizione giudaico-cristiana che ci si deve in prima battuta rivolgere (per esempio interessantissimi spunti da questo punto di vista possono essere tratti dal Mahābhārata e dalla storia  dei 47 Ronin – quest’ultima non allegoria  religiosa in senso stretto ma racconto di un fatto effettivamente avvenuto nel Giappone di inizio XVIII secolo ma nella vicenda in sé e nell’elaborazione successiva nell’immaginario collettivo della popolazione del Sol Levante frutto culturale di un Giappone formato dall’incontro del buddismo con il Shintoismo –,  storia  dei 47 Ronin, la storia cioè di 47 samurai  che per escogitare uno stratagemma per vendicare la morte del loro signore Asano decidono di perdere  la loro dignità di samurai, divenendo così Ronin, cioè senza signore,  e di fingersi depravati e viziosi, tutti mutamenti nel loro status intesi a trasmettere un falso senso di sicurezza verso chi, alla fine, avrebbe dovuto subire la loro vendetta, che è la più grandiosa traduzione in una  toccante epopea  dell’hegeliano concetto di Aufhebung, cioè del concetto di superamento/conservazione tanto caro al Repubblicanesimo Geopolitico; mentre riguardo una pietra miliare del pensiero teorico filosofico-politico che noi chiamiamo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, se la pietra miliare in epoca moderna dell’area culturale cristiano-occidentale è il Principe di Niccolò Machiavelli, in area asiatica come non citare Il libro dei cinque anelli di Miyamoto Musashi del 1642?; per non parlare, infine dei c.d. diritti dell’uomo, per i quali seppur giustamente vengono sottolineati i profondi influssi del cristianesimo, ciò non significa che il cristianesimo sia stato il solo movimento cultural-religioso ad aver dato forma, seppur dopo immani convulsioni storiche, a questa Weltanschauung antropologica, perché ben prima della sua comparsa, il 250 a.C. ca., gli editti di Ashoka, direttamente ispirati dal buddismo, espressamente contemplavano il diritto alla libertà religiosa con un afflato filosofico-religioso-espressivo che molto difficilmente potremmo rinvenire nel cuis regio, eius religio della Pace di Westfalia che poneva fine alla guerra di religione dei Trent’anni: «Sua Maestà il re santo e grazioso rispetta tutte le confessioni religiose, ma desidera che gli adepti di ciascuna di esse si astengano dal denigrarsi a vicenda. Tutte le confessioni religiose vanno rispettate per una ragione o per l’altra. Chi disprezza l’altrui credo, abbassa il proprio credendo d’esaltarlo»: citazione da Libertà religiosa: diritto della persona umana, all’URL http://amico.rivistamissioniconsolata.it/2014/10/13/libert-religiosa-diritto-della-persona-umana/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200925070203/http://amico.rivistamissioniconsolata.it/2014/10/13/libert-religiosa-diritto-della-persona-umana/), ma questo non significa che la tradizione giudaico-cristiana debba subire una sorta di genocidio culturale di massa ad opera di esotiche masse di immigrati, portatori di istanze cultural-religiose della massima dignità in sé ma antagoniste di quelle storicamente sviluppatesi nel Vecchio continente, a costo, anche, di immani lutti e scontri che non è proprio il caso di ripetere in omaggio a tutte le  più varie e scriteriate “pappe del cuore”. (L’ultimo dei quali, se ragioniamo in termini storici, anche molto recente: dice niente all’addormentata alta gerarchia cattolica l’assedio di Vienna del 1683 da parte  dell’esercito degli ottomani  condotti dal Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa Pasha e  la relativa battaglia di Vienna che li sbaragliò dell’ 11-12 settembre che ebbe come eroe della giornata il re polacco Giovanni III Sobieski e la travolgente carica di cavalleria dei suoi arcangeli?). Anzi, se si vuole che il Vecchio continente possa esprimere una sua Epifania strategica, è necessario agire proprio in senso contrario. Ma l’attuale Chiesa cattolica sembra aver dimenticato che, dal punto di vista politico, la sua grande missione storica è stata quella, attraverso l’esercizio del suo potere secolare e del suo magistero spirituale, di aver dato politicamente, culturalmente, spiritualmente ed artisticamente forma (fino a giungere alle più basilari forme di mentalità e comportamenti popolari), alla attuale – anche se ora profondamente in crisi –  civiltà del Vecchio continente, ora minacciata  –  anche se non solo – dall’arrivo delle esotiche masse di immigrati. Attuale crisi della Chiesa cattolica non certo perché abbia ceduto ad esotici pathos guerrieri come quelli del Mahābhārata o dei  47 Ronin o del Libro dei cinque anelli oppure abbia in qualche modo metabolizzato e fatto suo il grande pathos culturale, religioso e politico che potrebbe venire da altre grandi tradizioni religiose, vedi caso degli editti di Ashoka, uno dei più importanti precursori storici del concetto di  tolleranza religiosa e dei diritti dell’uomo, ma che non ci risulta abbiano avuto un qualche influsso nell’elaborazione nella Chiesa del concetto di tolleranza, più frutto di una progressiva e faticosa elaborazione storica da parte di essa che di una approfondita riflessione sulle fonti delle altre tradizioni religiose e sulle proprie (le quali se correttamente intese nel loro messaggio di fratellanza universale fra tutti gli uomini contengono anch’esse in nuce il concetto di tolleranza ma per acquisire questo tesoro la Chiesa – non solo quella cattolica ma discorso che vale anche per lo Scisma d’Oriente e per tutte le altre chiese che discendono dalla riforma luterana!, e quindi considerazioni qui svolte facilmente estendibili, mutatis mutandis, anche ad esse – ha  impiegato secoli e secoli di genocidi di popolazioni pagane, di  guerre, di lotte e sofferenze e roghi di eretici o semplicemente dissenzienti su marginali aspetti della fede) ma perché ha ora  frainteso l’ Aufhebung,  – il momento del superamento/conservazione che, oltre ad un concetto legato alla filosofia hegeliana, è pure una potente metafora di qualsiasi dialettica evolutiva non solo in  campo biologico ma anche in quello spirituale, e la storia della Chiesa cattolica, quando è di successo,  ne è una grandiosa dimostrazione – con un molto più modesto ed anzi antitetico superamento ma senza conservazione, una sorta di  adattamento al ribasso tipico di quando le popolazioni di organismi qualora sottoposti a stress invece di evolvere in nuovi gruppi e/o individui della stessa in grado di sopportare meglio questo stress semplicemente riducono il numero dei componenti e, talvolta, anzi molto spesso, scompaiono. «51 Et ecce unus ex his, qui erant cum Iesu, extendens manum exemit gladium suum et percutiens servum principis sacerdotum amputavit auriculam eius. 52 Tunc ait illi Iesus: “Converte gladium tuum in locum suum. Omnes enim, qui acceperint gladium, gladio peribunt. 53 An putas quia non possum rogare Patrem meum, et exhibebit mihi modo plus quam duodecim legiones angelorum? 54 Quomodo ergo implebuntur Scripturae quia sic oportet fieri?”»: Evangeliun Secundum Matthaeum, citato da http://www.vatican.va/archive/bible/nova_vulgata/documents/nova-vulgata_nt_evang-matthaeum_lt.html; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20190819183119/http://www.vatican.va/archive/bible/nova_vulgata/documents/nova-vulgata_nt_evang-matthaeum_lt.html. ‘Chi di spada ferisce, di spada perisce’ è il celebre adagio tratto da Matteo 26:52 nel quale Gesù redarguisce il discepolo che, con la spada di cui era armato, nel tentativo di impedire la cattura del Maestro taglia l’orecchio ad uno dei convenuti lì recatisi per catturarlo e nella mentalità religiosa popolare il detto viene ripetuto sia per significare che la Chiesa è contro qualsiasi forma di violenza e che i suoi fedeli si devono attenere a questa norma di comportamento, e in una interpretazione più banalmente spogliata di qualsiasi significato religioso, che è meglio, comunque, non reagire mai alla violenza perché le conseguenze sono sovente peggio del torto al quale si è inteso reagire. Tralasciando di commentare ulteriormente quest’ultima forma di “profonda” saggezza popolare derivante dalla traduzione in buon senso popolare del significato religioso delle sopraddette parole di Gesù durante la sua cattura ed anche dalla concreta esperienza di vita degli agenti omega-strategici nel rapportarsi con gli agenti alfa-strategici (per la dialettica fra questi due agenti rinviamo alla nostra Teoria della Distruzione del Valore, e quindi traduzione popolaresca non proprio “tradimento” del senso delle parole di Gesù, anzi!), ci limitiamo a sottolineare che da Matteo 26:51 ben si capisce che il discepolo è armato con una  spada che porta con sé e da sguainare alla bisogna e che in Matteo 26:53 Gesù dice chiaramente che una spada è ben poca cosa di fronte alle dodici legioni di Angeli del Padre suo. Infine, in Matteo 26:54 Gesù dice che non si deve impedire la sua  cattura perché si debbono adempiere le Scritture. Ancor più sorprendente dal punto di vista dell’idea di un Gesù predicatore disarmato, Luca 22:49-54, dove si capisce molto bene che il Figlio di Dio è scortato manu militari da un gruppo di seguaci che prima chiedono al Maestro se debbono reagire e ottenuto probabilmente un suo consenso più o meno esplicito in proposito o una sorta di silenzio-assenso,  rinunciano contro la loro volontà ad impedire l’arresto dopo che, avvenuto il ferimento di una delle guardie che dovevano arrestarlo, Gesù, verosimilmente in seguito a questa iniziale resistenza che minaccia di svilupparsi in senso sfavorevole ai resistenti, dà un preciso ordine a non protrarla e, compiendo il miracolo della guarigione della guardia ferita, molto probabilmente fa la mossa decisiva per riportare la situazione alla calma anche se ciò significa che egli si deve consegnare: «[49] Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. [50] E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. [51] Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì. [52] Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: “Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? [53] Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre”. [54] Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano.»: (Bibbia CEI, Vangelo secondo Luca, 22, presso l’URL  http://www.vatican.va/archive/ITA0001/__PVI.HTM, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20191111174203/http://www.vatican.va/archive/ITA0001/__PVI.HTM); mentre in Giovanni 18:10-11 viene nuovamente indicato un solo personaggio che porta la spada – e viene pure nominato, Simon Pietro – e la usa per ferire una delle guardie che vogliono arrestare Gesù e il Figlio di Dio, come già descritto da Matteo, non oppone resistenza all’arresto perché le scritture si devono compiere. Dal complesso del resoconto  dei tre succitati evangelisti in merito all’arresto di Gesù (in Marco 14:47 colui che reagisce violentemente all’arresto di Gesù viene più banalmente indicato come uno dei presenti al fatto), solarmente emerge il quadro   di una concreta situazione storica in cui l’eroe culturale del cristianesimo si trovò e volle attivamente agire non solo tramite il Logos da Dio ispirato e i miracoli che solo Lui poteva compiere perché Figlio di Dio e Dio lui stesso, ma, evidentemente, anche attraverso una precisa organizzazione politico-militare (ulteriori indizi di questa organizzazione politico-militare in 1) Luca 10:1-20 dove viene detto che Gesù incarica ben 72 discepoli per diffondere il suo insegnamento: si apre così un quadro assolutamente diverso, fatto di meticolosa organizzazione e della precisa volontà di aprire agli uomini non solo il Regno dei Cieli ma anche di mutare gli equilibri politici in Giudea, rispetto a quello tramandatoci dalla ingenua tradizione religiosa popolare che ci rappresenta un Gesù predicatore del Verbo di Dio presso le folle, in questo apostolato assolutamente non violento e accompagnato in questa missione solo dai 12 apostoli; in 2) nella cacciata dei profanatori dal Tempio  riferita in Marco 11:15-18 – dove Gesù rovescia i banchi dei mercanti e gli scribi cercano di ucciderlo perché impauriti dalla popolarità che questo gesto suscita presso il popolo –, in Matteo 21:12-17 – dove sempre per azione diretta di Gesù  avviene l’azione violenta contro i mercanti e i sacerdoti sono sdegnati da questa condotta ma non viene riferito alcun intento omicida da parte di costoro –, in Luca 19:45-48 – dove ancora  con un  Gesù protagonista dell’azione in prima persona,  avviene la cacciata dei mercanti dal Tempio e gli scribi vorrebbero  ucciderlo perché il gesto riscuote l’approvazione del popolo –, e in Giovanni 2:13-21, dove Gesù compie analoga azione a quella descritta dai precedenti evangelisti ma a differenza dei precedenti resoconti vengono espressamente citati i discepoli, i quali però si limitano a commentare l’azione mentre chi non è d’accordo si limita a manifestare la sua disapprovazione ma non cerca di uccidere Gesù: dal complesso di questi resoconti emergente quindi un quadro dove Gesù compie una clamorosa azione dimostrativa, la cacciata dei mercanti dal Tempio, per suscitare una sommossa popolare, in ciò supportato e protetto dai discepoli che, anche se non agiscono direttamente nel cacciare questi mercanti profanatori, costituiscono una sorta di guardia del corpo di Gesù pronti ad intervenire nel caso si verificassero resistenze all’ “energica” azione purificatrice all’interno  del Tempio che vede Gesù impegnato in prima persona e 3) da una lettura dei quattro Vangeli condotta attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, dove, se analizzati sotto questo punta di vista, questi testi sacri sono attraversati da una malcelata tensione fra dimensione politica e dimensione ultraterrena, dove l’espressamente e sinceramente proclamata dimensione spirituale funge anche da velo ad un telos politico che al momento non può essere pubblicamente rivelato perché questo disvelamento porterebbe al fallimento, visto al momento lo sfavorevole rapporto di forze politico-militari in campo, del disegno politico-religioso di Gesù, e cioè, ancor prima della cacciata dei romani dalla Giudea, il rinnovamento della religione ebraica attraverso la riduzione-eliminazione del potere sacerdotale ebraico) ed anche di un cristianesimo concretamente storico sviluppatosi dopo la morte di Gesù – ma in perfetta continuità soprattutto  con il versante politico della predicazione  del Figlio di Dio – fatto anche di sottintesi e non esplicitati messaggi che ai tempi della stesura dei Vangeli canonici (Marco: 65-80 d.C., Matteo: 70-90 d.C., Luca: 80-90 d.C., Giovanni: 95-100 d.C.) non dovevano  sfuggire nemmeno  ai più semplici dei fedeli, insomma messaggi che possono essere riassunti in «non rispondete alla violenza con la violenza perché il rapporto di forze è a nostro svantaggio» (la storia della Chiesa con le persecuzioni che dovette subire fino alla sua definitiva vittoria sul paganesimo è dimostrazione della profonda saggezza di questo comportamento), un quadro ante e post predicazione di Gesù  la cui Weltanschauung è nettamente diversa da quella delle piatte interpretazioni che solitamente vengono attribuite ad «Omnes enim, qui acceperint gladium, gladio peribunt»; ma anche una Weltanschauung che, nella sua dialettica storico-filosofica, non ha nulla da invidiare alla filosofia della prassi del Mahābhārata e a quella della storia dei 47 Ronin. Pur essendo definitivamente tramontato il suo diretto potere temporale, anche se solo come arcana imperii per la gestione dell’unico potere che le è rimasto, quello simbolico-spirituale, ma gestione che poi, se saggiamente condotta, si converte in forza politica e, quindi, di riflesso, di nuovo in potere spirituale per la realizzazione dei suoi obiettivi ultraterreni, la Chiesa deve solo riscoprire questa antica saggezza da lei per molto tempo praticata anche eccedendo nella sua applicazione e ora, solo momentaneamente si spera, completamente dimenticata. Ultima osservazione e, forse, nota di speranza. Quando in sede storica e sociologica trattiamo di soggetti collettivi ne parliamo come se si trattasse di persone fisiche dotate di una loro reale psichicità biologica e  personalità definite che non ammettono né sfaccettature né interne contraddizioni. Ora, a parte il fatto che l’attribuzione alla psichicità biologica una inevitabile relativa  personalità monolitica e non contraddittoria è un gravissimo errore anche quando si parla di singole e viventi persone fisiche, gravissimo errore che non solo il magistero freudiano e della psicologia che si sviluppata a partire dalla fine dell’Ottocento dovrebbe metterci in guardia ma che, sulla scorta del costruttivismo wendtiano ma in totale autonomia da esso,  buon ultimo il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, senza nemmeno ricorrere a particolarmente approfondite scepsi ispirate alle moderne scienze psicologiche, ha posto definitivamente fine attraverso la sua articolata filosofia della prassi che mette direttamente in relazione dialettica,  ontogenetica e creatrice ex nihilo ed ex suo il rapporto fra soggetto ed oggetto, ciò vale a maggior ragione per i soggetti collettivi, come in questo caso la Chiesa cattolica, in cui l’attribuirne una personalità può essere operazione sterile ed irrealistica se condotta in termini ingenuamente antropomorfi oppure feconda se lungo il tracciato dialettico appena delineato e che costituisce la Weltanschauung di tutta la presente comunicazione.  E per quanto quindi riguarda la Chiesa cattolica forse all’interno della sua contraddittoria personalità – contraddittoria,  diciamo,  speriamo che in questo caso lo si sia compreso, non come stigmatizzazione finale ma come dato di fatto di qualsiasi entità storicamente costituitasi; in ultima analisi, per essere chiari, di tutta la totalità espressivamente dialettica di cui l’uomo è sia parte che costruttore, in virtù del suo rapporto olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale con essa, della realtà tutta – vi sono ancora momenti teologico-liturgici che fanno sperare in un rimemoramento della sua antica saggezza sia politica che dottrinale. Pur confessando di non possedere specifiche sensibilità al riguardo, intendiamo qui riferirci, per esempio, a quei gruppi di cattolici che continuano a celebrare la Santa Messa in latino secondo il rituale tridentino. Certamente questi gruppi che continuano a praticare il Vetus Ordus Missae sono fondamentali per mantenere acceso il versante espressivo-culturale di tutta la complessa dialettica storica, spirituale e politica del cattolicesimo. Che poi le loro pratiche cultuali possano non solo mantenere viva la speranza di ridar vita al cattolicesimo ma anche effettivamente operarne una sorta di profonda e vigorosa Epifania strategica, è tutt’altro che scontato ma è un esito che, proprio per le cose che ci siamo appena dette, non possiamo che augurarci.                                             

 

 

8 Il pensiero evoluzionista ha una storia che come terminus a quo risale ben addietro a Charles Darwin e parte, per quanto riguarda l’Occidente, dai filosofi presocratrici, percorre come pensiero minoritario ma non sotterraneo tutta la Tarda antichità e il Medioevo (e.g. Sant’Agostino d’Ippona  e San Tommaso d’Aquino: Sant’Agostino non prendeva la Genesi alla lettera ed accettava anche una generazione di alcuni  organismi  dovuta a cause naturali; San Tommaso addirittura sostenne che la Genesi non era la fonte privilegiata per quanto riguarda l’origine di tutti gli organismi, e che qualora il testo sacro fosse stato in contraddizione con quanto sostenevano i filosofi naturali – oggi diremmo gli scienziati –, il testo sacro perdeva il privilegio di essere l’ultima parola dovendosi preferire l’opinione di questi studiosi) e, infine, ha la sua definitiva fioritura nel XVIII secolo con, citando solo i rappresentanti più importanti di questa Weltanschauung, Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, Diderot, James Burnett, Lord di Monboddo, che sosteneva che l’uomo deriva dalla scimmia, Lamarck, fino ad arrivare al nonno di Charles Darwin, Erasmus Darwin per il quale gli animali a sangue caldo avevano un’origine in comune. Senza dimenticare, ovviamente, nel campo della geologia, Charles Lyell il quale, partendo dall’uniformitarismo elaborato inizialmente  da James Hutton (l’uniformitarismo sostiene che in processi naturali  sono rimasti inalterati di epoca in epoca),  pose le basi per l’attuale teoria della tettonica a zolle e della deriva dei continenti; e fuori del perimetro dell’Occidente cristiano, il pensiero islamico medievale (risale alla seconda metà del XIV secolo il  Muqaddima  di Ibn Khaldun dove vi si sostiene che l’uomo deriva dalla scimmia), per non parlare del Taoismo cinese, in un certo senso una filosofia intrinsecamente evoluzionista, perché fatto salvo l’indefinibile e monistico principio del Tao (o Dao), tutte le manifestazioni fenomeniche di questo principio sono soggette a continuo mutamento, comprese, ovviamente, tutte le specie dei viventi. Se scendiamo nei dettagli, le teorie evoluzionistiche qui sommariamente descritte –  ed anche quelle che non abbiano nominato – presentano notevoli differenze, e, a parte il banale dato di fatto che quelle a noi più vicine, cioè quelle dei nostri giorni che vanno sotto il nome di epigenetica, teoria endosimbiotica e, in generale, tutte quei nuovi approcci e conoscenze sull’evoluzione che vanno sotto il nome di Sintesi evoluzionistica estesa risultano più convincenti anche per la semplice ragione che, se non altro, evitano le contraddizioni di quelle che le hanno precedute, nessuna di queste, dal punto di vista della filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, gode di una posizione di primato per il semplice fatto di arrivare per ultima avendo così la  possibilità di “mettere nel sacco” quelle che le hanno precedute. Dal punto di Vista del Repubblicanesimo Geopolitico sono storicamente ed anche filosoficamente tutte ugualmente importanti perché, in maniera più o meno evidente – certamente più evidente nell’epigenetica,  nella teoria endosimbiotica e nella Sintesi evoluzionistica estesa – tutte queste rappresentano una embrionale prefigurazione a livello ontologico-epistemologico del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, e questo vale anche per la Sintesi evoluzionistica moderna tarata sì da un profondo meccanicismo ed anche da  una non espressa accettazione della Weltanschauung che pone un rigido spartiacque fra natura e cultura ma anche, oggettivamente,  penultimo grandioso e fecondo  membro, anche per le sue contraddizioni che aprono le porte alla successiva Sintesi evoluzionistica estesa,  della grande famiglia delle teorie evoluzionistiche che sostengono l’importanza del fattore storico per comprendere i fenomeni della natura e tutte percorse da un telos ontologico-espistemologico che, più o meno consciamente a seconda degli autori e delle varie teorie, contesta qualsiasi creazione ex nihilo da parte di una divinità personalistica. E una volta introdotto il fattore storia nella spiegazione dei fenomeni, è molto difficile che le contraddizioni nascenti dalla artificiosa suddivisione natura-leggi di natura meccanico-meccanicistiche e deterministiche vs mondo della cultura dove non si sa quale  legalità applicare (secondo il positivismo e il neopositivismo una legalità meccanico-meccanicistica ma con esiti conoscitivi ridicoli, secondo lo storicismo di matrice positivistica, kantiana ed antidialettica, leggi non meccaniche ma leggi storiche sempre da definire e mai definite, con esiti conoscitivi altrettanto ridicoli e, per di più, implicando così una separazione fra mondo della natura e mondo della storia, spezzando il monismo ontologico-epistemologico del positivismo-neopositivismo, che era l’unico frutto non tossico di questa meccanicistica corrente di pensiero) non vengano alla luce e portino ad un’evoluzione nella spiegazione dei fenomeni storici ma anche di quelli naturali dove, alla fine,  in entrambi gli ambiti il paradigma ontologico-epistemologico olisitico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale debella totalmente nella comprensione della totalità e di ogni singolo suo aspetto  quello meccanico-meccanicistico. E da questo punto di vista, cioè dal punto di vista di una feconda contraddizione interna che attraverso un’Aufhebung conoscitiva   genera più convincenti esiti dialettici sia dal punto di vista storico-filosofico che della puntuale conoscenza dei meccanismi biologico-genetici-molecolari-evolutivi (stiamo parlando del passaggio dalla  Sintesi evoluzionistica moderna alla  Sintesi evoluzionistica estesa, con gli annessi e connessi di epigenetica e teoria endosimibiotica ma questo vale anche per le scienze fisiche in senso stretto, col passaggio dalla meccanica galileano-newtoniana alla meccanica quantistica ma sulla fisica quantistica e la sua importanza per la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico vedi in particolare, infra, note n°15 e n°16 della presente comunicazione), tutte le teorie evoluzionistiche condividono la medesima dignità e fecondità dialettica, e l’esprimere questo punto di vista è lo scopo del presente scritto. 

 

9 Il saggio che ha acceso i fari della notorietà su Donna Haraway è Donna Jeanne Haraway, Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, “Socialist Review”, n. 80, 1985, pp. 65-108 (una versione in italiano in Rete è consultabile all’URL https://monoskop.org/images/6/64/Haraway_Donna_1985_1995_Un_manifesto_per_Cyborg_scienza_tecnologia_e_femminismo_socialista_nel_tardo_ventesimo_secolo.pdf; Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20190924210523/https://monoskop.org/images/6/64/Haraway_Donna_1985_1995_Un_manifesto_per_Cyborg_scienza_tecnologia_e_femminismo_socialista_nel_tardo_ventesimo_secolo.pdf/). È stato poi ripubblicato nel 1990 –  Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s,  in L. Nicholson (a cura di) Feminism/Postmodernism, New York, Routledge, 1990, pp. 190-233 ma non avendo rinvenuto alcuno di questi due documenti in Rete nella loro completezza ma solo come indicazione bibliografica,  per prendere visone del Cyborg Manifesto, si può benissimo ripiegare, con titolo leggermente cambiato,  su Id.,  A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth, in Id., Simians, Cyborgs, and Women. The Reinvention of Nature, New York, Routledge, 1991, pp. 149-181, scaricabile all’URL https://monoskop.org/images/f/f3/Haraway_Donna_J_Simians_Cyborgs_and_Women_The_Reinvention_of_Nature.pdf   – Wayback Machine:  http://web.archive.org/web/20191115081308/https://monoskop.org/images/f/f3/Haraway_Donna_J_Simians_Cyborgs_and_Women_The_Reinvention_of_Nature.pdf; dopo nostro scaricamento del documento dall’ ultimo iniziale, successivo caricamento su Internet Archive generando gli URL

https://archive.org/details/harawaydonnajsimianscyborgsandwomenthereinventionofnature/page/n1/mode/2up                                                                                                                  e 

https://ia903101.us.archive.org/34/items/harawaydonnajsimianscyborgsandwomenthereinventionofnature/Haraway_Donna_J_Simians_Cyborgs_and_Women_The_Reinvention_of_Nature.pdf – oppure sull’ Haraway Reader del 2004, che contiene diversi brevi saggi della Haraway fra cui anche il Cyborg Manifesto (qui di seguito tutti i saggi, più un’intervista all’autrice,  presenti nell’Haraway Reader e gli URL di Internet Archive presso cui si può prendere visione e scaricare il volume:  Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, in Id., The Haraway Reader, London, Routledge, 2004, pp. 7-45;  Ecce Homo, Ain’t (Ar’n’t) I a Woman, and Inappropriate/d Others: The Human in a Post-humanist Landscape, in ivi, pp. 46-61; The Promises of Monsters: a Regenerative Politics for Inapproriate/d Others, in ivi, pp. 63-124; Otherworldly Conversations; Terran Topics; Local Terms, in ivi, pp. 125-150; Teddy Bear Patriarchy: Taxidermy in the Garden of Eden, New York City, 1908-1936, in ivi, pp. 151-197; Morphing in the Order: Flexible Strategies, Feminist Science Studies, and Primate Revisions, in ivi, pp. 198-222;  Modest_Witness@Second­_Millenium, in ivi, pp. 223-250 (si tratta del cap. 1 della parte II di Donna Jeanne Haraway,  Modest_Witness @Second Millennium. FemaleMan© Meets OncoMouseTM: Feminism and Technoscience, New York, Routledge, 1997b, saggio scaricabile presso l’URL 

https://monoskop.org/images/6/65/Haraway_Donna_J_Modest_Witness_Second_Millennium_1997.pdf; nostro congelamento Wayback Machine : http://web.archive.org/web/20191115153036/https://monoskop.org/images/6/65/Haraway_Donna_J_Modest_Witness_Second_Millennium_1997.pdf; e nostro caricamento del documento  su Internet Archive generando gli URL:

https://archive.org/details/harawaydonnajmodestwitnesssecondmillennium1997/mode/2up     e                                            

https://ia803102.us.archive.org/18/items/harawaydonnajmodestwitnesssecondmillennium1997/Haraway_Donna_J_Modest_Witness_Second_Millennium_1997.pdf); Race: Universal Donors in a Vampire Culture. It’s all in the Family: Biological Kinship Categories in the Twentieth-Century United States, in ivi, pp. 251-293; Cyborgs to Companion Species: Reconfiguring Kinship in Technoscience, in ivi, pp. 295-320; Cyborgs, Coyotes, and Dogs: a Kinship of Feminist Figuration and There Are Always More Things Going On than You Thought! Methodologies as Thinking Technologies. An interview with Donna Haraway Conducted in two parts by Nina Lykke, Randi Markussen, and Finn Olesen, in ivi, pp. 321-342; gli URL di Internet Archive presso i quali è possibile scaricare l’Haraway Reader sono: https://archive.org/details/162697775DonnaHarawayTheHarawayReader/mode/2up     e 

https://ia800107.us.archive.org/35/items/162697775DonnaHarawayTheHarawayReader/162697775-Donna-Haraway-the-Haraway-Reader.pdf). Od anche visitando l’URL di SCRIBD https://it.scribd.com/document/373082337/Haraway-2016-Manifestly-Haraway (nostro download e ricaricamento del documento su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/manifestlyharawaythecyborgmanifestothecompanionspeciesmanifestorepubblicanesimogeopolitico/mode/2up                                                                            e https://ia803104.us.archive.org/7/items/manifestlyharawaythecyborgmanifestothecompanionspeciesmanifestorepubblicanesimogeopolitico/MANIFESTLY%20HARAWAY%2C%20THE%20CYBORG%20MANIFESTO%2C%20THE%20COMPANION%20SPECIES%20MANIFESTO%2C%20REPUBBLICANESIMO%20GEOPOLITICO.pdf), dove  si può ugualmente prendere visione del Cyborg Manifesto, inserito nel volume  Donna Jeanne Haraway, Manifestly Haraway, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2016, anche questo  una raccolta di lavori dell’Haraway,  che sono: A Cyborg Manifesto. Science, Technology, and Socialist-Feminism in The Late Twentieth Century, in ivi, pp. 5-90; The Companion Species Manifesto. Dogs, People and Significant Otherness, in ivi, pp. 93-198; Companion in Conversation, in ivi, pp. 201-296. Il Companion Species Manifesto,  già citato nella precedente raccolta, può essere incontrato  in Rete anche come documento singolo nella copia in formato PDF, anche se parzialmente mutila, della sua prima edizione,  Donna Jeanne Haraway, The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2003 – presso http://xenopraxis.net/readings/haraway_companion.pdf. Nostro congelamento URL e testo del documento tramite Wayback Machine all’URL https://web.archive.org/web/20190928141609/http://xenopraxis.net/readings/haraway_companion.pdf  e dopo download anche salvataggio del testo del documento presso Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/thecompanionspeciesmanifestodogspeopleandsignificantothernessdonnaharaway/mode/2up                                                                                                          e https://ia801002.us.archive.org/3/items/thecompanionspeciesmanifestodogspeopleandsignificantothernessdonnaharaway/The%20Companion%20Species%20Manifesto%20%20Dogs%2C%20People%2C%20and%20Significant%20Otherness%20%20Donna%20Haraway.pdf. Presso https://warwick.ac.uk/fac/arts/english/currentstudents/undergraduate/modules/fictionnownarrativemediaandtheoryinthe21stcentury/manifestly_haraway_—-_a_cyborg_manifesto_science_technology_and_socialist-feminism_in_the_….pdf incontriamo uno stralcio della precedente raccolta che contiene solo il Cyborg Manifesto di Manifestly Haraway. È quindi possibile prendere pure qui  del Cyborg Manifesto in edizione e.book: Donna Jeanne Haraway, A Cyborg Manifesto. Science, Technology, and Socialist-Feminism in The Late Twentieth Century, University of Minnesota Press, 2016. Ad ogni buon conto, abbiamo provveduto a congelare URL e testo del documento tramite Wayback Machine e si è così generato il nuovo URL https://web.archive.org/web/20191231192653/https://warwick.ac.uk/fac/arts/english/currentstudents/undergraduate/modules/fictionnownarrativemediaandtheoryinthe21stcentury/manifestly_haraway_—-_a_cyborg_manifesto_science_technology_and_socialist-feminism_in_the_….pdf. Inoltre abbiamo anche provveduto a scaricare il file e poi lo abbiamo caricato su Internet Archive. Questi gli URL generati da questa nostra  ulteriore azione: https://archive.org/details/manifestly_haraway_—-_a_cyborg_manifesto_science_technology_and_socialist-feminism_in_the_…/mode/2up                                                                   e  https://ia803102.us.archive.org/24/items/manifestly_haraway_—-_a_cyborg_manifesto_science_technology_and_socialist-feminism_in_the_…/manifestly_haraway_—-_a_cyborg_manifesto_science_technology_and_socialist-feminism_in_the_….pdf. Alla fine di questo percorso bibliografico harawayno, non potevamo mancare di segnalare  Donna Jeanne

Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Durham (N.C.), Duke University Press, 2016, che segna il definitivo passaggio di questa interessante autrice dal mito del Cyborg (anche se da costei inteso solo metaforicamente) al mito dell’endosimbionte (inteso sempre solo metaforicamente). Per le valenze dialettiche di questo passaggio ed anche per le sue contraddizioni, che si basano essenzialmente nel fatto che l’Haraway rimane anche in quest’ultimo lavoro saldamente – e disgraziatamente – legata ad una totalmente antidialettica teologia materialista che ha contraddistinto tutti i suoi lavori a partire dal Cyborg Manifesto (cfr. infra, note n°10, n°11 e n°13), indichiamo, per chi voglia affrontare anche questo importante ed irrisolto testo l’ URL  presso il quale è possibile prenderne visione e scaricarlo : https://edisciplinas.usp.br/pluginfile.php/4374763/mod_resource/content/0/Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf, il nostro congelamento con la Wayback Machine del testo e dell’URL: https://web.archive.org/web/20190930132847/https://edisciplinas.usp.br/pluginfile.php/4374763/mod_resource/content/0/Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf  e, infine, gli URL del  nostro caricamento su Internet Archive del documento in questione: https://archive.org/details/donnaj.harawaystayingwiththetroublemakingkininthechthulucene/mode/2up                                                                                                                                e

https://ia803104.us.archive.org/4/items/donnaj.harawaystayingwiththetroublemakingkininthechthulucene/Donna%20J.%20Haraway-Staying%20with%20the%20Trouble_%20Making%20Kin%20in%20the%20Chthulucene.pdf.

 

[Le successive 7 note e la sezione bibliografica verrano pubblicate nelle prossime 3 tranche del presente saggio.]

 

 

 

 

Sete di vendetta_con Gianfranco Campa

Nel tentativo di restaurazione in corso negli Stati Uniti, sembra prevalere un cieco sentimento di vendetta. Non si tratta più di sopprimere un esempio e un simbolo. Un obbiettivo che rivela di per sè ottusità ed incomprensione delle reali forze in campo in questo ormai più che quinquennale feroce scontro politico; ma di una azione di cieca rivalsa. Segno che il re è sempre più nudo. Il modo migliore per far emergere in maniera disordinata i centri di potere e le forze più oscure ed arroganti di quel paese. Non è un caso che Trump, più che stigmatizzare il loro comportamento, lo ha definito “un grave errore”. Può sembrare una affermazione banale e riduttiva; è il segno invece della sua consapevolezza di quale sia il baratro verso il quale costoro stanno trascinando il proprio paese_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vcv6sv-sete-di-vendetta-con-gianfranco-campa.html

 

 

Per una nuova integrazione economica franco-italiana, di Alessandro Aresu

Un punto centrale della collocazione internazionale dell’Italia, divisa ed assorbita dalla anglosfera, dall’influsso transalpino e da quello tedesco secondo una precisa scala gerarchica, potenzialmente disfunzionale. Il problema, soprattutto verso una potenza di dimensioni paragonabili con quella italiana, è ancora di più la qualità, la capacità e l’ambizione della nostra classe dirigente, nemmeno capace di selezionare decentemente i propri interlocutori d’oltr’Alpe, vedi l’affare Telecom_Giuseppe Germinario

Marcello De Cecco era un personaggio unico sia per la sua curiosità che per la diversità dei suoi interessi. È morto nel 20161. Economista e storico abruzzese, come il grande banchiere umanista Raffaele Mattioli, De Cecco ha saputo coniugare nella sua carriera apertura internazionale e divulgazione giornalistica. Attento osservatore degli squilibri nella zona euro e delle ambiguità dell’ondata di privatizzazioni italiane degli anni Novanta, De Cecco è anche all’origine dell’idea che qui analizzeremo e riprenderemo: l’integrazione economica franco-italiana.

Questo il titolo di un articolo ormai dimenticato del ricercatore italiano pubblicato su Le Monde nel 19932. L’articolo prende come punto di partenza il “terremoto” geopolitico e monetario dei primi anni 90. Alla fine della Guerra Fredda, De Cecco ha visto una tendenza neogolliana tra i leader tedeschi. La Germania si preparava ad “affrontare il mare aperto della politica internazionale” investendo massicciamente nelle sue regioni orientali. La priorità per Francia e Italia era capire il nuovo ruolo svolto dalla Germania. Secondo De Cecco, “un’Europa balcanizzata è perfetta per la nuova Germania”: il più alto livello di integrazione economica potrebbe essere raggiunto dall’ex Germania dell’Est formando un nodo strategico più ampio a livello dell’Europa centro-orientale, prima in ambito geoeconomico, poi in altre aree di integrazione. Il vecchio equilibrio integrazionista, fondata su una Germania divisa, era già obsoleta. L’unico modo per bilanciare il nuovo gigante, secondo De Cecco: “un’altra entità di dimensioni paragonabili alla Germania. Questa nuova entità può essere formata solo da una più profonda integrazione economica tra Italia e Francia. ” Perché ? “Da un punto di vista industriale, l’Italia è una Germania in scala ridotta. Ma, dove è debole, l’industria francese è forte. ”

La “nuova entità economica latina” non è germanofoba, ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita.

ALESSANDRO ARESU

Nel 1993, questa sostanziale parità in termini di punti di forza rendeva difficile il perseguimento, ma le integrazioni e le fusioni aziendali sembravano ancora possibili nei settori automobilistico, chimico, aeronautico e persino l’industria dell’acciaio. De Cecco ha anche ricordato il percorso già intrapreso nell’industria alimentare e nell’elettronica. Ha accusato i francesi di non avere la volontà politica di concretizzare i progetti industriali di cui sopra. E ha invitato gli “orgogliosi cugini transalpini” ad abbandonare gli stereotipi offensivi dei mafiosi e dei mangiatori di spaghetti italiani. Era quindi il momento di capire che una più profonda integrazione con una più ampia economia tedesca e con un centro di gravità allargato avrebbe portato a un’erosione della “individualità economica” della Francia. L’opzione italiana, invece, ha costituito la via ideale per la potenza francese, che ha saputo dispiegare anche la sua “capacità di costruzione e gestione delle infrastrutture” all’interno di uno spazio geopolitico. Su questo punto, il dono profetico di De Cecco ci riporta subito al nostro presente: il “ nuova entità economica latina Non è germanofobico ma indica un problema inevitabile che si presenta all’integrazione europea, quando questa è legata solo a una catena del valore geo-economica tedesca in crescita. De Cecco ha avanzato un argomento politico: “Non è possibile credere, anzi, che italiani e francesi si sottometteranno tranquillamente alla necessità di chiudere sempre più fabbriche nei due Paesi, che saranno, s «restano divisi, schiacciati dalla produttività della rinnovata industria tedesca, rafforzati dai bassi salari dei paesi dell’Est, a cui le aziende tedesche stanno già trasferendo la produzione. “L’integrazione franco-italiana potrebbe dialogare su un piano di parità con la Germania, potrebbe concentrarsi sul” collegamento ferroviario rapido Torino-Lione, alla gestione congiunta dei porti del Mediterraneo, che oggi hanno una concorrenza assurda, agli accordi tra le acciaierie di Taranto e Fos, le più moderne d’Europa, alla creazione di grandi holding franco-italiane in aeronautica, chimica, petrolifera e, soprattutto, nel settore automobilistico. Per questo De Cecco ha fatto appello alla “tradizionale capacità visionaria dei leader francesi” che “non può restare fissa sull’asse Parigi-Bonn”.

È proprio l’attualità delle questioni industriali sollevate da De Cecco che dovrebbe portarci a interrogarci sul nostro presente. Tra gli altri attori globali, i progetti industriali e geoeconomici sono ancora quelli di trent’anni fa? Leggendo questo articolo visionario, l’impressione di aver perso tempo è opprimente. Un’impressione diversa da quella che si può avere negli Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan: luoghi che non hanno mai smesso di inventare il futuro. Non credo che De Cecco conoscesse nel 1993 il testo di Alexandre Kojève sull’impero latino, riapparso nel 19903, ma non posso escluderlo: in ogni caso si è avverata la sua profezia sullo scenario europeo di un allargamento della sfera economica tedesca e centro-orientale, mentre non è apparso alcuno “spazio latino”. . Non credo nemmeno che i “leader francesi visionari” – attori politici, industriali o finanziari – abbiano letto il testo di De Cecco mentre organizzavano le loro “campagne italiane”. Ma questa bottiglia in mare può permetterci di ottenere una fotografia di un momento importante per le nostre nazioni, in una svolta nella storia europea.

L’unione tra Francia e Italia rappresenta oggi circa il 26% del PIL dell’Unione, il 22,4% dei posti di lavoro e il 23,2% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il peso dell’Italia nell’economia europea è diminuito nell’ultimo decennio, quello della Francia è rimasto stabile, quello della Germania è aumentato. Il volume degli scambi tra Italia e Francia nel 2019 è stato di 86 miliardi di euro.

Ma per riportare in vita queste figure, torniamo alla nostra storia, e al grande Abruzzo della finanza italiana, Raffaele Mattioli, che in particolare ha contribuito a finanziare gli studi di Marcello De Cecco a Cambridge.4, classe 1939. Nel 1939 il giovane banchiere Enrico Cuccia sposò la figlia di Alberto Beneduce, ideatore dell’IRI, il cui nome era – in realtà – Idea Nuova Socialista. Mattioli offrì a Cuccia una mappa gigante (circa tre metri per due metri e mezzo) della Parigi del XVIII secolo, quando Michel Etienne Turgot lavorava come prevosto dei mercanti.5. Cuccia ha sempre tenuto il Piano di Parigi nel suo ufficio in Mediobanca, la banca di investimento del capitalismo italiano, che rappresentava anche un legame con il sistema francese, in particolare grazie alla grande amicizia tra lo stesso Cuccia e André Meyer, lo storico leader di Lazard negli Stati Uniti.

I legami instaurati tra istituzioni finanziarie come le banche rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano.

ALESSANDRO ARESU

Mediobanca è un hub finanziario: tra i partner francesi, oltre a Lazard, ci sono stati più recentemente player come Dassault, Groupama, Bolloré, la banca d’affari italiana che ha acquisito nel 2019 la francese Messier Maris. La storia delle banche italiane ha avuto diversi altri esempi. I legami che si instaurano tra le istituzioni finanziarie rappresentano una delle caratteristiche a lungo termine del rapporto franco-italiano. Possiamo ad esempio citare il finanziamento di missioni di interesse generale, che è sempre più importante nel nostro tempo. Nel 1816 la creazione della Caisse des Dépôts et Consignations fu opera del Conte Corvetto, ministro delle finanze francese nato a Genova. Il mondo italiano è stato quindi diviso e frammentato, rispetto alle opportunità offerte dalla Francia. La sua “sorellina” italiana, la Cassa Depositi e Prestiti, nasce nel 1850, prima dell’Unità d’Italia. Anche Roma si è rivolta a Parigi su questi temi negli ultimi tempi, quando ha cercato di integrare nel sistema italiano le lezioni del modello Bpifrance.

Oggi viviamo in un contesto diverso da quello di Cuccia e Lazard, e da quello di De Cecco. Viviamo all’ombra del conflitto tra Stati Uniti e Cina e vediamo nel capitalismo politico la progressiva espansione della sicurezza nazionale6. La Germania si è evoluta nella gestione di questa crisi, rispetto alla crisi precedente che ha indebolito tutti gli europei. Ma resta da dimostrare la capacità di realizzare progetti europei nel nostro continente. Dobbiamo raccogliere grandi sfide, come quelle che Emmanuel Macron ha esposto nella sua intervista con il Grande Continente . Quando si tratta di salute, digitalizzazione, sostenibilità, questo decennio porterà vincitori e vinti e cambierà le nostre società. Il fiume impetuoso dell’innovazione minaccia di mandare alla deriva gli europei, dopo un decennio di addormentarsi e perdere opportunità.

Borsa-Euronext, FCA-PSA, Fincantieri-STX, Essilor-Luxottica-Mediobanca-Unicredit-Generali, Tim-Vivendi-Mediaset, Crédit Agricole-Creval, Leonardo-Thales, Stm: questi sono, tra gli altri, industriali e a cui partecipano Francia e Italia.

L’Italia è la grande sconfitta nei trent’anni che ci separano da Maastricht e dal progetto De Cecco. È ovvio. Noi italiani dobbiamo riflettere sulla nostra debolezza. Il fenomeno delle multinazionali “tascabili”, che è comunque il nostro capitalismo medio, come descritto negli studi di Giuseppe Berta7e Dario Di Vico, devono affrontare disagi senza precedenti. La riluttanza finanziaria e organizzativa del motore essenziale del nostro sistema economico, le medie imprese con capacità internazionale, non è sostenibile nel medio termine. Inoltre, l’azionista Stato italiano si è ritirato da alcune aree (telecomunicazioni, autostrade) dove il settore privato non ha ottenuto buoni risultati. In questa fase lo Stato, attraverso strumenti finanziari e fondi sovrani, torna in prima linea. Alcuni imprenditori italiani si rivolgono alla Francia con una strategia di lunga data, a partire da Leonardo Del Vecchio, mentre è innegabile il coinvolgimento finanziario e industriale francese nel nostro Paese.

A mio avviso, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante.

ALESSANDRO ARESU

A mio parere, è essenziale pensare in termini di dimensioni e scala: nel nostro mondo presente e in futuro, difficilmente possiamo fare nulla senza una scala rilevante. Il sistema finanziario italiano non ha potuto trarre alcun reale beneficio dagli insegnamenti di Antoine Bernheim, nonostante quest’ultimo sia stato a capo di Generali da molti anni. È il suo sostegno ad Arnault e Bolloré che gli è valso giustamente il soprannome di “padrino del capitalismo francese”8. Tuttavia, noi italiani non avevamo un Thierry Breton nazionale per unificare i nostri servizi di sistema informativo. Alla fine degli anni ’90 Telecom Italia era di gran lunga la migliore azienda di telecomunicazioni in Europa. Un “complotto automobilistico” italiano lo ha seriamente indebolito modificando gli equilibri di potere. Ma le grandi società di telecomunicazioni europee devono affrontare gli stessi problemi di redditività se vogliono essere competitive in termini di frontiere tecnologiche, e queste domande riguardano anche i francesi.

L’Italia ha perso, ma la Francia non ha certo “vinto”. La pandemia ha solo confermato il fatto che i due paesi hanno difficoltà comuni. In assenza di un equilibrio di potere tra i due Paesi, negli ultimi anni è emersa una strategia offensiva, in quanto i francesi hanno esercitato maggiori pressioni sull’Italia, attraverso una serie di acquisizioni e operazioni in diversi settori industriali. . Ma questo non è stato fatto senza resistenza: tutti i paesi sono impegnati in una “corsa alla sicurezza nazionale”, che è e sarà rafforzata dalla pandemia. Nessuna strategia industriale su scala bilaterale o continentale può funzionare senza un tessuto di fiducia. Altrimenti prevarrà la resistenza all’integrazione ei mercati europei non avranno un governo industriale autonomo,

Inoltre, dovremo anche trattare tutti con la Germania dopo l’era Merkel , una situazione che non si era mai vista prima. Nello sviluppo della costruzione europea è secondo me impossibile che, in un futuro irrigidimento della posizione tedesca, la Francia lasci sola l’Italia ad affrontare il suo destino. Troppi legami uniscono i due paesi. I sentimenti degli italiani per la Francia oscillano tra complesso di inferiorità e fastidio. Si tratta di un problema reale, a cui è legata la convinzione degli italiani che l’opzione francese potrebbe essere messa in discussione da un improbabile ingresso dell’Italia nell’Anglosfera.. Sul piano geopolitico, la Francia ha spesso agito in sottile o aperto contrasto con l’Italia, senza trarne alcun reale vantaggio. Basti pensare alla guerra in Libia. La colpa è della Francia, la sconfitta è di entrambi. Sul nostro terreno di gioco nessuno ha i mezzi per comportarsi da “padrone”: siamo ridotti a fare appello agli Emirati sul terreno. Ma possiamo davvero continuare così? No, soprattutto perché le storiche divergenze tra le nostre aziende in campo energetico stanno affrontando un terremoto tecnologico e finanziario. Devono anche affrontare nuovi “campioni” in nuove arene.

Su quali basi possiamo ricostruire l ‘“integrazione economica franco-italiana”? Non tornerò qui nei dettagli di tutte le pratiche industriali e finanziarie aperte, ma le traccerò.

Primo punto: dobbiamo parlare francamente dei nostri contrasti, invece di tornare ai vecchi “file” o perdere tempo. Ce lo deve insegnare soprattutto la vicenda Fincantieri-STX e il susseguirsi di alti e bassi nel settore delle telecomunicazioni: non dobbiamo tardare a mettere sul tavolo i nostri interessi senza dare alla situazione il tempo di deteriorarsi. Altrimenti, continueremmo a riempire sempre di più le tasche degli avvocati. Una forma di sostegno economico indiretto, certo, ma che non è esattamente ciò di cui hanno bisogno le nostre economie.

Dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera. Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale.

ALESSANDRO ARESU

Secondo punto: i gruppi che saranno il risultato di una nuova unione franco-italiana non possono essere guidati solo da francesi. Certo, la Francia è un’economia più grande dell’Italia e ha un sistema istituzionale migliore. Non c’è bisogno di negarlo. L’Italia, invece, ha ancora dei punti di forza e non può essere “acquisita” dal sistema francese, in particolare perché in settori strategici è tecnicamente impossibile farlo senza un accordo. Altrimenti, le reazioni renderebbero le relazioni disfunzionali. Quando parlo di gruppi, intendo anche le aree che contano davvero: alta tecnologia, elettronica, ingegneria dei sistemi, difesa e sicurezza, infrastrutture, finanza.

Terzo punto: dobbiamo mostrare a una nuova generazione che la dimensione mediterranea non è una chimera . Come dice spesso il ministro Giuseppe Provenzano, siamo una generazione cresciuta cullata dalla “promessa” di un’unione tra il Mediterraneo e l’Africa che non ha prodotto alcun effetto reale. L’ opzione “latina” di De Cecco può avere senso solo se, in questi campi logistici, economici e geopolitici, la collaborazione italo-francese darà i suoi frutti. Una collaborazione che può essere svolta anche nel campo della finanza sostenibile, in un percorso già avviato dalla Francia con Finance in Common , che potrebbe essere ripreso dal G20 sotto la Presidenza italiana.

Quarto punto: dobbiamo anticipare il terremoto nella catena del valore tedesca, nei suoi collegamenti con la produzione italiana di componenti e robotica industriale, che è ancora un settore di eccellenza. Dobbiamo coordinare gli investimenti in nuove catene di approvvigionamento di elettricità e tecnologie all’avanguardia in relazione ai mercati europei e alle catene di approvvigionamento manifatturiere, anche attraverso relazioni più strette con università, politecnici e centri di ricerca. Ricerca. Non diciamo mai più che dobbiamo creare una DARPA o BARDA europea se non siamo in grado di farlo entro un anno, se non siamo in grado di riguadagnare la nostra ambizione,

Dal 2018 Francia e Italia discutono del Trattato del Quirinale. Tutti questi elementi possono far parte di un nuovo patto tra Italia e Francia, di cui dovremmo discutere il più rapidamente possibile, mentre siamo ancora di fronte alla tempesta del coronavirus e delle sue incognite. Dovremo essere pronti almeno per ottobre 2023, quando festeggeremo i trent’anni dalla pubblicazione dell’articolo di De Cecco.

FONTI
  1. Questo testo inedito riprende diversi studi sui rapporti economici e geopolitici tra Francia e Italia, pubblicati dal 2016 sulle riviste italiane Limes , Atlante Treccani , L’Espresso .
  2. Marcello De Cecco, “Per un’integrazione economica franco-italiana”, Le Monde , 2/10/1993. Sui progetti franco-italiani dei primi anni ’90 si legge la testimonianza di Paolo Savona, Come un incubo e come un sogno. Memorialia e moralia di mezzo secolo di storia , Rubbettino, 2018.
  3. Alexandre Kojève, L’empire latin (1945), in “Le regole del gioco”, I, 1990, 1
  4. Secondo la testimonianza di De Cecco in La figura e opera di Raffaele Mattioli , Ricciardi, 1999
  5. Cfr. L’opera di Giorgio La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca , Feltrinelli, 2014 o l’articolo di Fulvio Coltorti, “La Biblioteca storica di Mediobanca”, 8/10/2014, http: //www.archiviostoricomediobanca .mbres.it / documenti / FC_presentazione% 20della% 20Biblioteca% 20Mediobanca.pdf
  6. Alessandro Aresu, L’ Europa deve imparare il capitalismo politico , Le Grand Continent, 10 novembre 2020
  7. Giuseppe Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano? , il Mulino, 2016
  8. Pierre de Gasquet, Antoine Bernheim: il padrino del capitalismo francese , Grasset, 2011.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/01/12/integration-economique-franco-italienne/?mc_cid=7aaa6f21c8&mc_eid=4c8205a2e9

MORTO UN CAPO…, di Teodoro Klitsche de la Grange

MORTO UN CAPO…

L’intrusione nel Campidoglio di Washington ha ravvivato il coro di litanie con il quale le élite decadenti (politiche e altro) cercano di esorcizzare il probabile avvento in Italia di un governo sovran-popul-identitario, del tutto verosimile atteso il risultato delle elezioni regionali del 2019-2020 e, confermato (addirittura!) dai sondaggi sempre così benevoli verso i (desideri dei) globalisti.

Il denominatore comune dei discorsi di deprecazione, riprovazione, condanna, anatema, scomunica (ecc. ecc.) di Trump è che: a) a sobillare i manifestanti e per qualcuno, perfino a creare il populismo sia stato Trump. Il corollario di ciò è che sconfitto Trump il populismo dovrebbe seguire la sorte del creatore.

b) Che è stato violato il “tempio della democrazia” dai populisti brutti e coatti: ergo i populisti non sono democratici. La conseguenza è che non lo sono, per proprietà transitiva, anche Salvini e la Meloni.

Si sa che la sinistra italiana, nei suoi anatemi ha il golpe sempre a portata di mano. Ma, in altri casi (ad esempio il golpe del principe Valerio Junio Borghese) almeno erano golpe fatti con armi e organizzazione, diretti ad obiettivi paganti (Ministeri dell’Interno e della Difesa, RAI, Quirinale), perché la loro conquista avrebbe disarmato e soprattutto disorganizzato l’avversario (come insegnava Malaparte quasi un secolo fa). Nel caso dei trumpiani l’obiettivo era quello sbagliato; le armi (quelle idonee) del tutto mancanti; anche l’abbigliamento dei golpisti era improbabile, più adatto all’imminente carnevale che alla conquista del potere. L’ormai celebre “sciamano” italo-americano sembrava uscito da un fumetto fantasy.

Ciò non toglie che le deprecazioni dei globalisti abbiano, a dispetto degli enormi mezzi di cui dispongono, non molte speranze di fermare la marea sovran-populista crescente. E ciò per due errori di valutazione (a volerli considerare errori). Il primo: legare il successo del sovran-populismo a Trump è invertire, nello spazio e nel tempo, la successione dei fenomeni. La realtà è che è la crescita dell’opposizione sovran-populista al potere globalizzatore a creare i Trump; in America, ma – è decisivo – anche altrove. La tesi globalista non spiega perché tanti leaders politici, i quali spesso godono della maggioranza elettorale nel loro paese, sono emersi già assai prima dell’ex Presidente USA. Certo non si può ricondurre al potere (e all’esempio) di questo aver suscitato preventivamente gli “imitatori” europei e sudamericani.

I cattivissimi Orban e Kaczinsky sono al governo da parecchi anni prima di Trump; l’FN francese gode di un vasto seguito da oltre vent’anni e per due volte ha sfidato nel ballottaggio il Presidente (poi) eletto; Farage aveva da anni un larghissimo seguito in Gran Bretagna, così come Boris Johnson, diventato premier subito dopo Trump. Tanto per fare qualche esempio. Che una tendenza così diffusa e duratura sia dovuta a Trump (e in ogni caso a un solo “centro”) è solo una speranza di anime più paurose che belle.

La seconda: l’apparenza dell’insorgenza del sei gennaio denota un carattere spontaneo e non riconducibile a qualcosa di organizzato da organi dello Stato. Un acuto giurista come Mortati vedeva in ciò la distinzione tra colpi di stato e rivoluzioni. Vedremo se inchieste ed altro chiariranno il contrario. Ma c’è di più: la spontaneità, il ricondursi a un sentimento politico diffuso – assai più esteso numero degli intrusori – ne prova la consistenza e la “solidità” politica e ne può determinare, a lungo andare, il successo. Se la Storia è piena di colpi di Stato riusciti (e non riusciti), a differenziarli dalle rivoluzioni è non solo quanto scriveva Mortati, ma il fatto che un sentimento politico, diffuso nella comunità dava loro solidità e persistenza. Il Levantamiento spagnolo del 1936 era fallito come golpe, ma riuscì a vincere la guerra civile, sostenuto da parte degli spagnoli. È quindi il sentimento politico, cioè l’intensità della contrapposizione al nemico, a determinare principalmente durata e consistenza dell’insieme politico. Che le ripetute sconfitte dell’FN in Francia non abbiano sottratto un voto al movimento è segno che è radicato, e in grado di reggere ai “passi indietro”. Alla sconfitta ad opera di Macron, è seguito un movimento di contestazione diffuso (dei gilet gialli), che ha condizionato e condiziona evidentemente le decisioni dello stesso Presidente francese. Staremo a vedere.

Teodoro Klitsche de la Grange

CENNI SU CAPITALISMO E POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CENNI SU CAPITALISMO E POLITICA

Paolo Becchi in un articolo su “Libero” rileva l’enorme aumento di ricchezza che la pandemia ha portato a qualche (gigantesca) azienda – e il sicuro impoverimento di tanti altri imprenditori e lavoratori autonomi – e ripropone la questione – talvolta e senza entusiasmo né enfasi particolare affrontata nei media mainstream – dell’aumento del divario tra ricchi e poveri nell’ultimo trentennio: i primi sempre più ricchi e i secondi in grande aumento. Marx sottolineava come questa fosse la logica del capitalismo. Scriveva che il tutto più che all’avidità del capitalista era dovuto alla logica del sistema. Nel capitolo (libro I, VII Sezione, cap. XXII) lo argomenta1 e lo ribadisce altrove.

Per cui che la tendenza del capitale sia quella dell’ “impulso assoluto verso l’arricchimento”, è stato affermato da (quasi) due secoli. Che comunque vi fossero altri riflessi e conseguenze (correttive) in questa logica, già lo aveva sostenuto Bernstein oltre un secolo orsono. Ma non è questo l’argomento che intendo cennare; piuttosto come tale tendenza all’accumulazione incida sul rapporto tra politica ed economia; o meglio tra politico ed economico.

L’anno che nasceva Marx, de Bonald scriveva un saggio, in forma di lunga recensione all’opera allora appena uscita (postuma) di M.me de Stael Observations sul l’ouvrage de M.me la baronee de Stael ayant pour titre “Considerations sur les principauz evenementes de la révolution française”.

Il saggio è una delle prime valutazioni del liberalismo sotto l’aspetto del realismo politico, in particolare sotto il profilo costituzionale. La polemica di De Bonald contro il liberalismo della de Stael si basava sulla incongruità di questo rispetto ai presupposti necessari dell’azione (e del pensiero) politico.

Particolarmente interessante ai fini della questione esaminata è che l’effetto del costituzionalismo liberale è, secondo de Bonald, la promozione di una classe essenzialmente dedita ad attività economiche, a patriziato politico. Con due conseguenze: la prima che si finisse così col confondere istituzionalmente l’interesse pubblico con quello privato. E così pubblico e privato. La seconda, che anticipa in una certa misura la considerazione di Marx (v. sopra nota 1) che così si crea una “classe” dal potere enorme. Diversamente dall’aristocrazia d’ancien régime il cui potere era economicamente fondato essenzialmente sulla proprietà fondiaria – per sua natura limitata – quella del patriziato del capitale era, trattandosi di ricchezza mobiliare, sempre per natura illimitata: “una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale immobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (i corsivi sono miei); la conseguenza di questa concentrazione di potere economico e della commistione con quello politico era che “questa è una delle ragioni del rialzo dei prezzi delle derrate in Inghilterra, nei Paesi Bassi e anche in Francia, e dovunque il commercio non ha altro fine che il commercio e dove milioni chiamano e producono altri milioni.

I grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè2. De Bonald aveva visto giusto: “far commercio di tutto il mondo” è ancora quanto con più sintesi ed efficacia descrive l’ethos del capitalismo attuale, finanziarizzato, informatizzato e meno vincolato del “vecchio”, da mezzi “solidi” (la fabbrica, la macchina, il negozio).

Così come il controrivoluzionario aveva previsto la crescita d’influenza che la ricchezza globale avrebbe avuto sui regimi democratico-parlamentari (la plutocrazia), e quindi sul potere politico.

Secondo Wittfogel, l’opposizione tra classi (o ceti) esercenti il potere politico e quello economico è antica. Peculiare è, del suo pensiero sottolineare come (i vari tipi di) dispotismo idraulico avevano regolato la proprietà (e l’accesso alla stessa), anche senza arrivare – come quasi sempre non erano arrivati – a sopprimere la proprietà dei mezzi di produzione e l’iniziativa economica privata “Le leggi idrauliche di successione determinano la frammentazione della terra di proprietà privata”; al contrario la “proprietà” feudale, caratterizzata da succcessione limitata o dal maggiorascato e dall’indivisibilità del feudo favoriva la perpetuazione (e l’instaurazione) di (un altro) potere politico “Invece, la terra della classe possidente feudale (occidentale) implicava la perpetuazione del potere politico organizzato, indipendente dal (e talvolta in aperto conflitto col) potere statale. Diversamente dalla proprietà idraulica (burocratica e non-burocratica), la proprietà feudale, oltre ad essere fonte di reddito, era, in maniera rilevante ed evidente, anche fonte di potere”.

Il regime proprietario dei dispotismi idraulici favorisce una proprietà di reddito “essa non consente ai suoi detentori di controllare il potere statale attraverso l’azione e l’organizzazione fondata sulla proprietà. In ogni caso, essa non è proprietà di potere, ma proprietà di reddito”.

Nelle società idrauliche (id est di dispotismo orientale) la disciplina della proprietà e dell’appropriazione è rivolta così al duplice scopo sia di evitare concentrazioni di ricchezza tali da poter insidiare il potere politico sia di favorire la frammentazione della ricchezza (della proprietà). L’esistenza di divieti d’appropriazione, di restrizioni alla circolazione dei beni, di vaste proprietà demaniali e di servizio, come la regolazione della proprietà privata trovano in quel fine la loro (principale) ragione. Così la classe politica impediva la crescita di un’opposizione evitando la concentrazione di potere economico; da cui sarebbe probabilmente derivata una nuova (totalmente o parzialmente) élite dirigente.

Secondo Marx ed Engels la tendenza della borghesia è di assicurarsi (anche) il potere politico; come è scritto nel Manifesto la borghesia si serve dei governi; lo Stato è “una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese”3. Lenin sostiene ripetutamente “La salvezza sta nei monopoli – dicevano i capitalisti – e formavano cartelli, sindacati e trusts; la salvezza sta nei monopoli, tenevano bordone i capi politici della borghesia, e si affrettavano ad arraffare le parti del mondo non ancora divise”.

Fino agli anni ’80 era – com’è noto – opinione condivisa almeno nella sinistra comunista e “gruppettara” che lo Stato fosse lo strumento con cui la borghesia capitalista esercitava il proprio potere. Dopo il crollo del comunismo (com’è altrettanto noto) la rappresentazione dello Stato e del Capitale come compagni necessari di strada si è ribaltata: il politico non è più la sovrastruttura della struttura del capitale, ma il limite, l’impedimento, l’ostacolo alla governance tecno-capitalista.

Politica ed economia hanno divorziato (così sembra); o meglio il politico è un limite, tollerabile in quanto non ostacola, o meglio collabora al dispiegarsi del potere economico globalizzato e globalizzante. Tutti gli attributi e le istituzioni politiche hanno subito la stessa sorte. Lo Stato è tollerato come gendarme notturno, in particolare se (molto) miope nel percepire le attività capitaliste; la democrazia perde i caratteri tradizionali (politici) e diventa la palestra della discussione pubblica (sulla tutela dei diritti dell’uomo, più che del cittadino); il bene comune, l’interesse generale non sono più riferiti alla comunità, come in altri campi, ma a tutto concedere all’umanità. Non senza qualche ragione, se è vero come è vero che la stagnazione che colpisce i paesi più sviluppati (Italia in primo luogo) ne ha ridotto la crescita, ma nel contempo è aumentata quella dei paesi in via di sviluppo (Cina, in primis, e tanti altri a seguito)4. Quindi se il bene comune è quello dell’umanità, l’obiettivo è stato centrato. Peraltro a crescere sono stati i paesi più poveri: anche quello della giustizia pare raggiunto. I dati sulla crescita del capitale delle grandi imprese, pure. Resta da vedere quanto tali successi possano rallegrare i popoli più sviluppati e in particolare i di essi “ceti medi”.

Dato che, a prescindere da altre cause concorrenti, ciò che ha determinato (principalmente) questi risultati è stato che le grandi imprese producono dove i costi (specie la manodopera) sono più bassi, vendono dove la domanda è più ricca (i paesi sviluppati) e pagano le imposte dove si pagano meno (i paradisi fiscali),la globalizzazione (contemporanea) è probabilmente la più fedele rappresentazione di quanto si legge nel Manifesto del partito comunista: sul carattere cosmopolitico e dirompente in termini sociali e politici, dell’accumulazione del capitale. Dato però che il risultato è che “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato”5 ha generato la propria opposizione. Se questa ha le ragioni (anche) culturali e politiche trova in quella la causa economica.

Insieme allo Stato deperisce (nei paesi sviluppati) lo “Stato sociale” data la riduzione – in Italia – delle prestazioni che colpiscono ceti medi e ceti popolari – e l’aumento delle imposte (come quelle sulle proprietà immobiliari e sui consumi), che colpiscono gli stessi gruppi a causa della minor ricchezza prodotta e dalla necessità (conseguente) di sostentare l’apparato pubblico (in certa misura peraltro parassitario) cui le grandi imprese contribuiscono sempre meno. Così ha creato la propria alternativa, il nuovo “contenuto” del criterio del politico.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 “Il capitalista non è rispettabile che come personificazione del capitale. Come tale condivide con il tesaurizzatore l’impulso assoluto verso l’arricchimento: Ma quanto nel tesaurizzatore appare come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, in seno al quale egli è solo una ruota dell’ingranaggio. D’altro lato lo sviluppo della produzione capitalistica comporta di necessità un costante aumento del capitale investito in una impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni singolo capitalista come leggi coercitive esterne le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico. Lo obbliga ad allargare continuamente il suo capitale per conservarlo, e lo può allargare solo tramite un’accumulazione progressiva”

2 Op. cit., trad it. La Costituzione come esistenza, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 43-44 (il corsivo è mio).

3 E notavano anche che “il progresso dell’industria precipita nel proletariato intere sezioni della classe dominante o per lo meno, ne minaccia le condizioni di esistenza per cui “gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire della scomparsa la propria esistenza come ordini medi”. Dopo Marx, con l’avvio della fase imperialistica, è ripetutamente sostenuto che questo può realizzarsi (principalmente) per l’influenza della borghesia sul potere politico e quindi il procedere d’intesa tra Stato e capitalismo. Hobson scrive “La finanza manipola le forze patriottiche di politici, soldati, filantropi e agenti di commercio” le forze che sostengono l’imperialismo “sono essenzialmente parassiti del patriottismo e trovano protezione dietro la sua bandiera. In bocca ai loro rappresentanti vi sono nobili frasi, che esprimono il desiderio di estendere l’area della civiltà, stabilire il buon governo, convertire alla cristianità… Uno statista ambizioso, un soldato di frontiera… possono collaborare per istruire l’opinione pubblica patriottica sull’urgente bisogno di un nuovo avanzamento; ma la decisione finale rimane al potere finanziario… Mentre i giornali finanziari specializzati impongono fatti e opinioni alla comunità degli affari, la maggior parte della stampa passa sempre di più sotto il dominio consapevole o inconsapevole dei finanzieri” (v. Imperialism a study, trad. it. di L. Meldolesi e N. Stame, Milano 1974, pp. 54-55).

4 Negli anni dal 1999 al 2019 il PIL mondiale è cresciuto di circa un 3% per anno; i due paesi più popolosi del Mondo, Cina ed India, di percentuale tra il 5% e il 10% (abbondante) annuo; inutile ricordare i tassi modesti dei paesi sviluppati a quelli da prefisso telefonico – spesso negativo – del Bel Paese (fonte Indexmundis).

5 v. Manifesto

MAI COME ORA VERITÀ SU REGENI .!!!, di Antonio de Martini

Dopotutto i giudici egiziani non hanno così torto_Giuseppe Germinario
REGENI: L’AFFARE SI INGROSSA E LA VERITÀ SI ARRICCHISCE DI NUOVI ELEMENTI.
La collaudata tecnica ( palantir)di intersecare i numeri telefonici – in questo caso quelli dei nove poliziotti sospettati segnalati dal magistrato egiziano- con quelli dei ” colleghi” dell’Universita americana del Cairo, con cui la prof Abd el Rahman aveva messo in contatto Regeni, ha dato i suoi frutti.
Più di uno dei “colleghi” aveva contatti coi poliziotti della squadra che sorvegliava l’Italiano.
Questi contatti risultano intensificati alla immediata vigilia dell’arresto.
La seconda scoperta degli inquirenti italiani è che l’organizzazione ANTIPODE ha negato che Regeni abbia mai fatto richiesta di una borsa di studio.
Questo fa sorgere spontanea quattro domande: con quali soldi dunque Regeni viaggiava e si manteneva al Cairo? Su quali fondi contava per mantenersi ulteriormente? Di quali denari fantasticava facendoli baluginare di fronte agli occhi del sindacalista egiziano con la moglie ammalata di cancro per farlo collaborare? A chi doveva presentare il rendiconto di cui si preoccupava nella ultima conversazione?
Qui apro una parentesi inquirente.
La professoressa Abd el Rahman – di cui non sappiamo ancora i nomi dei parenti e del coniuge, che io sospetto essere lo stesso Rahmi Abd el Rahman che ha fatto da press Agent ai jihadisti siriani per sei anni – in questi due anni semi-sabbatici trascorsi in Olanda, dove ha abitato? Che documenti ha trasferito da Cambridge? Che “studi”ha fatto? Chi l’ha pagata?
Finora alla Maha Abd el Rahman si riconosce solo una ricerca di 160 pagine banale anzicchennò.
Un po pochino. In Italia, con una singola pubblicazione non insegni all’Università e forse nemmeno al ginnasio.
A proposito, l’Università di Cambrige ha annunciato che vuole creare una borsa di studio a nome di Regeni, ha preso le distanze dalla professoressa Abd el Rahman e accettato di consegnare tutte le mail dei computer dell’Ateneo. Vedremo se consegnano anche gli hard disk per verificare assenza di cancellature….
Una autentica novità per il mondo accademico britannico abbandonare a se stessa, dopo averla protetta per due anni, una docente che testimonia e rinunziare alla indipendenza tradizionale dell’Ateneo, specie a favore di un paese straniero, diciamocelo, di seconda fila.
Nel mondo dell’intelligence, invece è routine: si confessa la marachella e ci di mette d ‘accordo per scaricare i collaboratori scomodi. Senza fare più altro chiasso.
Una nota italiana: TG1, La Stampa e il Corriere della sera, su queste novità non scrivono un rigo, contrariamente a ” Il Messaggero”. Loro scrivono di Di Maio.
MAI COME ORA VERITÀ SU REGENI .!!!

La fase multicentrica/Le elezioni presidenziali.2, di Luigi Longo

La fase multicentrica/Le elezioni presidenziali.2

 

IL DECLINO USA È SEMPRE PIÙ EVIDENTE

di Luigi Longo

 

  1. Le elezioni presidenziali svelano tutta l’ideologia su cui si basa la democrazia degli Stati Uniti d’America. Una democrazia che questa potenza mondiale si arroga il diritto di esportare nel mondo con tutti i mezzi, di consenso e di coercizione, come esempio di progresso e di civiltà. La grande democrazia statunitense, è bene ricordarlo, si è affermata con la violenza che << […] ha portato nel mondo, da quando gli USA sono nati (e come sono nati!!), la “libertà” con i più grandi massacri che la storia ricordi; e con una continua serie di colpi di Stato e di assassinii di avversari politici. I nazisti possono essere considerati dei dilettanti (allo sbaraglio) rispetto ai “serial killers” che sempre hanno diretto gli USA >> (la riflessione è di Gianfranco La Grassa).

Per dirla con Costanzo Preve, è la leggenda bianca dell’eccezionalismo democratico USA.

Riporto una sintesi chiara di Marco Della Luna per quanto concerne il gioco delle elezioni che gli agenti dominanti svolgono:<< […] la quota di potere messa in gioco nelle elezioni è marginale, gli esiti delle votazioni popolari sono predeterminati di regola, le procedure democratiche sono sostanzialmente una messa in scena, siccome le decisioni sul corso da dare alla storia sono prese, a porte chiuse, da un’oligarchia, un’oligarchia oggi sovranazionale [dissento da questa lettura oligarchica, mia precisazione], che le cala sui popoli e sui paesi. Essa le fa accettare dalla gente, spesso nascondendone gli effetti e gli scopi veri-pensate all’Euro e al MES. Produce industrialmente a monte il consenso verso di esse mediante il controllo dei mass media che creano la voluta percezione della realtà e dei valori; mentre, a valle, ne assicura l’applicazione mediante il controllo della “giustizia”, la cui funzione essenziale nel mondo reale è proteggere e legittimare il potere costituito, intervenendo per coprire i suoi abusi, non già assicurare la legalità, analogamente a come i parlamentari non rappresentano gli elettori, perché i parlamentari fanno innanzitutto gli interessi propri, di chi li mette in lista, di chi gli finanzia la campagna elettorale.[…] Nel caso delle elezioni presidenziali statunitensi, la “giustizia” ha respinto i ricorsi elettorali non dopo aver esaminato il loro merito, ossia le prove dei brogli e delle illegalità, ma rifiutando di esaminarlo in base alle tesi che né il Texas, né gli altri stati ricorrenti, né gli elettori ricorrenti, né lo stesso candidato Donald Trump avessero la legittimazione formale, ossia un interesse legalmente tutelabile [la forma che si fa sostanza negando la democrazia!, mia precisazione], a ricorrere. Cioè la “giustizia” ha denegato il diritto al controllo di legittimità sostanziale, assicurando così l’esito prestabilito e la sua legittimità percepita.

I mass media erano all’unisono schierati contro Trump nel 2016 e tali sono rimasti: hanno montato una campagna di accuse di suoi supposti traffici con la Russia, che sono risultati inesistenti, mentre hanno nascosto quelli di Hunter Biden fino a dopo il voto, per favorire Biden.

Solo a un babbeo, in questo contesto, si può far credere che, alla fine, abbiano vinto la democrazia e la legalità [corsivo mio, LL]

Insabbiano e insabbieranno tutte le prove di brogli elettorali, anche quelle che stanno emergendo in Italia, coinvolgenti la società Leonardo, il gen. Graziano, Renzi, Conte-che potranno tirare un sospiro di sollievo: democrazia è fatta, giustizia seguirà, su entrambe le sponde dell’Atlantico, e quel compare di Obama che minaccia Conte di fare sfracelli per ottenere il controllo dei servizi segreti in modo che non lo denuncino né lo ricattino, lo otterrà, democraticamente >>.

 

  1. E’ nella storia statunitense (e mondiale) che le elezioni servono per legittimare gli agenti strategici egemonici nel conflitto interno (e indirettamente esterno) per il dominio del Paese e per orientare la politica mondiale all’affermazione unilaterale del proprio dominio. Le istituzioni nazionali ed internazionali sono i luoghi dove si gestiscono e si eseguono le strategie dei dominanti. La storia insegna che i grandi tentativi di trasformazione sociale sono avvenuti per vie rivoluzionarie e non per vie ideologicamente (nell’accezione negativa del termine) democratiche.

Le elezioni presidenziali indicano la strada del declino della potenza egemonica mondiale per due ragioni che ho già evidenziato nella prima riflessione sulle elezioni presidenziali: 1) la situazione politica del Paese è quella di una nazione che non trova più una sintesi nazionale espressione degli agenti strategici dominanti e gli squilibri territoriali, sociali ed economici sono sempre più accentuati, con forte rischio della tenuta degli Stati federati degli Stati Uniti d’America; 2) l’epoca della tutela delle istituzioni, luoghi di conflitto e di equilibrio dinamico degli agenti strategici, per garantire l’unità e la sintesi di una grande potenza mondiale è finita (si pensi alle elezioni presidenziali del 1960 vinte da John Fitzgerald Kennedy per il passo indietro di Richard Nixon, inteso come equilibrio dinamico degli agenti strategici vincitori, e a quelle del 2000 tra George W. Bush e Al Gore con passo indietro di quest’ultimo).

Nessuno tiene a bada << […] le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato […] >> (l’espressione è di Karl Marx) e Jean –Claude Michèa denuncia che << […] Wall Street, Hollywood e Silicon Valley potranno finalmente dare libero sfogo a tutte le loro fantasie “postumane” e “transumane” senza doversi mai più scontrare con il minimo limite politico o culturale né con la minima frontiera geografica. Se il vero “progressista” è, innanzitutto, colui che esorta tutti i popoli della Terra a fare tabula rasa del loro passato e a porre fine a ogni sopravvivenza del “vecchio mondo”, allora dovrebbe essere chiaro che nessuno è meglio attrezzato per compiere un tale compito storico del sistema capitalistico stesso. >>.

 

  1. Il conflitto interno agli agenti strategici statunitensi non è un conflitto basato sulla ricerca della sintesi nazionale di una grande potenza egemonica mondiale, ma è un conflitto basato sugli interessi di parte come conseguenza della decadenza di tutta la classe dominante (e si lascino perdere gli schieramenti ideologici tra destra e sinistra, tra repubblicani e democratici che hanno avuto un ruolo diverso nel passato ma ora sono tutti d’accordo a mantenere la cosiddetta società capitalistica). Gli Usa non hanno una nuova visione del mondo per fermare il proprio declino, relativo o accentuato che sia, e ri-lanciare la sfida egemonica della fase multicentrica, nè Donald Trump e i centri strategici che rappresenta(va) erano nelle condizioni di costruire una nuova visione (e questo non è detto con il senno di poi o con la nottola di Minerva che inizia il volo solo al crepuscolo). E’ stato un tentativo illusorio (come già evidenziato in un mio precedente scritto) quello di alcuni strateghi, soprattutto delle sfere militare e politica, con i loro gruppi di pensiero (think tank) e i loro centri e istituti di ricerca strategica, che si sono resi conto della strada di non ritorno del declino USA, una strada, per dirla con David Calleo, di egemonia sfruttatrice che hanno cercato di deviare, invano (si rivedano le elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca), verso una visione del Paese incentrata sull’economia reale, sul legame sociale da rafforzare, sulla ri-definizione dei rapporti sociali sistemici, sull’apertura di una fase multicentrica; ma realizzare tutto questo significava derogare alle regole della potenza mondiale, cioè ri-collocare gli USA quale potenza mondiale di confronto e condivisione con altre potenze mondiali emergenti: non più come la grande nazione imperiale. E tutto questo era impensabile costruirlo con un movimento elettorale e non strategico di lungo periodo. Anche se va detto che all’inizio la parte razionale valutando l’insieme del movimento aveva deciso che non c’erano le condizioni per creare un movimento, o una forza nuova per dirla con Gianfranco La Grassa, che pensasse nuove strategie per far diventare gli USA una potenza multicentrica.

Infatti il conflitto sui brogli elettorali (che novità!) è stato spostato tutto nella sfera giuridica che è la sfera che permette di coprire la realtà fatta di accordi tra gruppi strategici vincenti e perdenti: accordi di parte che nulla hanno a che fare con la suddetta visione del Paese. La farsa e la tragedia dell’assalto al Congresso rafforza questa ipotesi: come è possibile, si chiede Salvatore Bravo, che la più grande democrazia del pianeta con i suoi formidabili mezzi di controllo e contrasto, specie dopo l’attacco alle torri gemelle possa aver permesso un simile episodio?

Gli Usa sono una potenza in declino e non hanno la forza economica, scientifica, culturale e politica per rilanciare e costruire un nuovo modello di egemonia capace di sconfiggere le potenze mondiali che si stanno organizzando per mettere in discussione l’ordine monocentrico e affermare l’ordine mondiale multicentrico. E’ il declino non solo degli USA ma di tutto l’Occidente: è la crisi della civiltà occidentale.

La gestione Joe Biden-Kamala Harris (la nuova regina del caos) porterà gli USA a cadere nella trappola di Tucidide (la sindrome della potenza in ascesa e la sindrome della potenza dominante) e si prepareranno scenari di guerra.

 

Nota bibliografica

 

  1. Gianfranco La Grassa, I piani americani, conflittiestrategie.it, 30/12/2020.
  2. Costanzo Preve, Politically correct: elementi di politicamente corretto, editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2020, pag. 23.
  3. Marco Della Luna, Poveri Q-Q di Trump! marcodellaluna.info, 7/1/2021.
  4. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, prefazione alla prima edizione, Einaudi, Torino, 1975, pag.7.
  5. Jean-Claude Michèa, Il lupo nell’ovile, Meltemi, Milano, 2020, pag.110.

Epigenetica e fantasmagorie transumaniste_1a parte, di Massimo Morigi

 

                      Massimo Morigi

Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico

                                              (I parte di 5)

 

                                    Presentazione

 Il saggio di Massimo Morigi Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico può senza dubbio essere considerato come il primo vero tentativo, dopo lo spegnimento e rimozione compiuti a partire dalla seconda metà del Novecento della scuola dialettica italiana di Gentile e Croce, di far rivivere in maniera sistematica ed omogenea una Weltanschauung integralmente dialettica  e storicista ed integralmente unificatrice dei fenomeni sociali, culturali e storici  e di quelli naturali, siano questi di tipo biologico  che  attinenti al mondo fisico che prima  dell’inizio del Novecento venivano interpretati unicamente sulla scorta del meccanicismo galileiano, oppure, per quanto riguarda i fenomeni biologici, in goffa fuoruscita da questo meccanicismo in chiave spiritualista e vitalista (meccanicismo galileano che agli inizi del Novecento verrà messo definitivamente in crisi della meccanica quantistica, e infatti il saggio in questione risulta essere esplicitamente  influenzato da questa rivoluzione nella fisica, tanto che l’autore  definisce la fisica quantistica come una sorta di fisica della praxis, idealmente unita con duplice filo rosso alla filosofia della prassi degli autori che più gli sono cari: Antonio Gramsci e Giovanni Gentile). Non si vuole qui anticipare (e per certi versi è pure impossibile, perché solo immergendosi nella dialettica del saggio in questione è possibile) come il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale proposto dall’autore riesca a sostituire il canone galileiano-posititivistico dell’interpretazione della realtà che nell’odierno pensiero mainstream non vale solo per la c.d. realtà fisica e/o biologica ma sia, vero e proprio infarto del pensiero e del buon senso, per quella  culturale, sociale e storica ma basti sottolineare che gli “eroi” dell’ autore non sono i “liberali” Hobbes, Locke o Kant ma lungo il predetto paradigma di impianto storicistico-dialettico Aristotele, Machiavelli, Hegel, Gentile, Gramsci e Lukács, una genealogia di padri nobili che è quindi già tutto un programma rispetto alle fuorvianti narrazioni liberal-liberiste che sono l’attuale oppio ideologico delle odierne c.d. democrazie rappresentative. Vista la lunghezza del saggio, “L’Italia e il Mondo” ha deciso di pubblicarlo in cinque parti, in ognuna delle quali ogni volta per comodità di lettura verrà riproposto il testo principale che sorregge il corposissimo  apparato di note, non moltissime per la verità, sedici in tutto, ma di una estensione, complessità interna e vicendevole interconnessione che fanno sì che queste note costituiscano il vero e proprio nucleo dialettico del saggio, una sorta di motore dialettico che non sarebbe stato possibile concepire attraverso una stesura di tipo classico dove il “messaggio” viene trasmesso dal testo principale e le note sono, appunto, solo note (a meno di non ricorrere, ovviamente, a forme compositive dialettiche di marca benjaminiana, dove è il testo principale a trasmettere il messaggio ma dove questa trasmissione, per quanto in forme suggestive e poetiche, risulta essere quasi del tutto indecifrabile, vedi, per esempio, il Dramma barocco tedesco, saggio in cui la vertigine dei riferimenti immessi direttamene nel testo principale genera una sorta di indecifrabile – anche se assolutamente affascinante – esplosione dialettica, l’esatto contrario del testo che ora proponiamo dove, nonostante la vastità e complessità dei riferimenti trattati nelle note, assistiamo ad una sorta di condensazione dialettica proprio perché queste note trattano autonomamente, ma tutte dal punto di vista unificante olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, i vari argomenti dai quali prendono lo spunto). Nella quinta ed ultima parte (vista la sua lunghezza ed anche la necessità di affrontarlo con debite pause di riflessione, pubblichiamo infatti questo saggio in 5 parti), segue alla nota 16 una lunghissima sezione bibliografica, la quale a differenza delle bibliografie classiche non solo  è unicamente basata su fonti reperibili in Rete ma dove queste fonti sono salvate für ewig  e sottratte al solito destino del  rapidissimo decadimento e della scomparsa dei documenti presenti sul Web tramite le odierne piattaforme di preservazione digitale che rispondono al nome di Internet Archive e Wayback Machine (quest’ultima una derivazione di Internet Archive). Una parola anche sulla natura di queste fonti. Si tratta per la maggior parte di articoli scientifici sugli argomenti indicati nel titolo del saggio (quindi si tratta di pubblicazioni sull’epigenetica e l’evoluzione, ci si scusi del gioco di parole, della teoria evoluzionistica darwiniana), ma una parte assai significativa, anche se in sottordine nel senso dello spazio che occupa, è dedicata alla preservazione digitale dei principali capisaldi del pensiero politico realistico-dialettico-strategico, documenti quest’ultimi  altrimenti disponibili indubbiamente anche su supporto cartaceo ma che, inseriti nel contesto della Weltanschauung di questo testo – che, come già detto, attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale intende riunificare i fenomemi storico-culturali con quelli c.d. naturali – ed anche nel contesto bibliografico sempre di questo testo assumono una sorta di nuova ed iridescente – anche se completamente conforme rispetto alla loro tradizione di realismo politico  – prospettiva. Per tutti questi motivi, che rendono il saggio in questione un profondo ragionamento filosofico ma di una filosofia integralmente immanentista  e realista con dirette conseguenze e sviluppi anche per i temi politici e geopolitici tanto cari all’ “Italia e il Mondo”, ne consigliamo un attento studio, propedeutico, ci si augura, a quei cambi di paradigmi politico-mentali liberal-liberisti che, veri e propri “crampi del pensiero” in Italia come nel resto delle c.d. democrazie industriali, assieme al tragico spegnimento delle spinte rivoluzionarie del Novecento, stanno causando, oltre ad un apparentemente inarrestabile degrado politico, anche un altro apparentemente inarrestabile degrado antropologico-culturale.

Buona lettura

Giuseppe Germinario

 

Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali

 

A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann

 

Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una  rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica  che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti  – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile,  sono stati da noi anche “congelati” tramite  la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione   del  paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico   ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda   dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora  il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico  engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring),  dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi    che    indirizzano   l’evoluzione  degli  organismi2, meccanismi  che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended  Evolutionary Synthesis  –  Sintesi evoluzionistica estesa, per la  quale anche il dato culturale acquisito,  costruito ed introiettato  dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo  teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione  nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti  presenti nel modello  darwiniano4. Si noti bene:  Darwin  era  ben  consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie  e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse.  L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare   –  perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire  LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi)  che siano divenuti una comunità di organismi  (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali  paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle  specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente,  sarebbero gravemente mùtili  della loro  forza  euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo  che iconicamente  trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali  ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin  ha iniziato  a  liberarci  da  questa   mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci –  nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e  nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.).  Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa  e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima  da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente  ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9),  si   deve   sottolineare  il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano  non più in via bioingegneristica  come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano –  e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo,  che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura  e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il  culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte   Mixotricha paradoxa11– sfocia  alla  fine,  sempre   in  Staying   with  the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica,  del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista”  del mondo biologico e,  con profonda analogia,  della realtà tutta,  fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il  paradigma   dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione  (acronimo TGO,  o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene  quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble  – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo   Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come  una  sorta  di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico;  ed Epifania strategica che, per concludere,  può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi  per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è,  una sorta di obiettivo limite;  o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti  – che, allo stesso titolo  dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da  un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –,  è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché,  –  vedi Teoria della Distruzione del Valore   e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione  di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della  Teoria del caos  e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –,  approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico  per lo  studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi  “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

1 Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1985 (Delhi, Aakar Books for South Asia, 2009), documento da noi scaricato presso https://athens.indymedia.org/media/upload/2016/09/02/LEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf. Nostro congelamento WebCite (quando ancora questa piattaforma accettava congelamenti diretti di URL e relativi documenti):  http://www.webcitation.org/75i27bpR1 e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fathens.indymedia.org%2Fmedia%2Fupload%2F2016%2F09%2F02%2FLEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf&date=2019-01-26. Successivo “congelamento” anche sulla Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20190618163839/https://athens.indymedia.org/media/upload/2016/09/02/LEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf.  Ricaricato su Internet Archive, generando gli URL  https://archive.org/details/TheDialecticalBiologist/mode/2up   e

https://ia800900.us.archive.org/3/items/TheDialecticalBiologist/Lewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf. Vista l’importanza del documento, ulteriore congelamento WebCite del documento da noi caricato su Internet Archive:    http://www.webcitation.org/75i3BdM3Q e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801507.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FTheDialecticalBiologist%2FLewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf&date=2019-01-26 ed ora, alla luce del  funzionamento non soddisfacente di WebCite, congelamento tramite Wayback Machine di Internet Archive del documento già caricato direttamente su Internet Archive, generando l’URL  http://web.archive.org/web/20190618164825/https://ia800900.us.archive.org/3/items/TheDialecticalBiologist/Lewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf. Non è nostra intenzione elencare dettagliatamente in questo lavoro tutte le varie ingenuità veteromarxistiche e/o veteroengelsiane del Dialectical Biologist, lasciando al lettore, attraverso la possibilità di andare direttamente alla fonte tramite il Web e attraverso la nostra operazione di congelamento digitale di questa e delle altre fonti rilevanti per la presente discussione – vedi rassegna bibliografica internettiana finale –, la istruttiva e formativa fatica (e, comunque, dedicheremo una nostra successiva riflessione a separare analiticamente il grano dal loglio di questo fondamentale testo).  Per quanto riguarda questa  nota, ci limitiamo a citare  l’epigrafe nella pagina che segue il frontespizio: «To Frederick Engels, who got it wrong a lot of the time but who got it right where it counted». Come vedremo in questa comunicazione, per fortuna del Dialectical Biologist (e soprattutto, per nostra fortuna) questo libro ha saputo andare ben oltre queste ingenuità – anche se, come pure verrà evidenziato  nella presente riflessione,  sempre unendo folgoranti intuizioni con una difesa più o meno d’ufficio di Friedrich Engels  e della sua pseudodialettica  –, costituendo una pietra miliare per una rinnovata dialettica della filosofia della prassi, talché parafrasando abbiamo scritto in epigrafe al nostro lavoro queste parole: «Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali».

 

 

 

 

2 «The Lysenkoist  movement, which agitated Soviet biology and agriculture for more than twenty years and which remains attractive to segments of the left outside the Soviet Union today, was a phenomenon of vastly greater complexity than has been ordinarily perceived. Lysenkoism cannot be understood simply as the result of the machinations of an opportunist-careerist operating in an authoritarian and capricious political system, a view held not only by Western commentators but by liberal reformers within the Soviet Union. It was not just an “affair”, nor the “rise and fall” of a single individual’s influence, as might be supposed from the titles of the books by Joraysky (1970) and Medvedev (1969). Nor, on the other hand, can the Lysenko movement be regarded, as it is by some ultraleft Maoists, as a triumph of the application of dialectical method to a scientific problem, an intellectual triumph that is being suppressed by the bourgeois West and by Soviet revisionism. None of these views corresponds to a valid theory of historical causation. None recognizes that Lysenkoism, like all nontrivial historical phenomena, results from a conjunction of ideological, material, and political circumstances and is at the same time the cause of important changes in those circumstances.»: Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, cit., p. 163. Abbiamo appena affermato che non citeremo in dettaglio le varie debolezze del Dialectical Biologist ma in questo caso abbiamo fatto un’eccezione. Ovviamente è del tutto apprezzabile la difesa che nel passo riportato viene fatta di Lysenko ma pur non essendo questa una difesa d’ufficio non si può non rimarcare il grosso problema  che riguarda, complessivamente,  non solo il brano appena citato e tutta  la trattazione che nel Dialectical Biologist viene svolta del “caso Lysenko” (il capitolo “The Problem of Lysenkoism” del Dialectical Biologist da p. 163 a p. 196) ma, globalmente, tutto il Dialectical Biologist. Precisiamo. Il problema nella debolezza della difesa di Lysenko non può, in verità, essere attribuito ad una sorta di timidezza scientifica del Dialectical Biologist nei confronti della meccanicistica Sintesi evoluzionista moderna per il semplice fatto che le acquisizioni scientifiche nel campo dell’epigenetica e la teoria endosimbiotica di Lynn Margulis che mettono direttamente in crisi questo paradigma e vanno a costituire una rinnovato interesse verso Lamarck nell’ambito di una nuova Sintesi evoluzionistica estesa erano ai tempi del Dialectical Biologist o  ancora tutte da venire o, se già formulate, ancora con scarsissimo seguito presso la comunità scientifica internazionale  (Lynn Sagan – dopo aver divorziato dall’astronomo Carl Sagan e sposato Thomas Margulis, Lynn Margulis –, On the Origin of Mitosing Cells, in “Journal of Theoretical Biology, Vol. 14(3), 1967, pp. 225-274 (per consultare e scaricare  articolo  sul Web, vedi rassegna bibliografica internettiana finale), il primo articolo su una rivista scientifica dove Lynn Margulis avanza la sua teoria endosimbiotica – indicazioni bibliografiche internettiane in calce alla presente comunicazione –, fu pubblicato nel ’67 dal “Journal of Theoretical Biologydopo essere stato rifiutato da altre riviste scientifiche e ci vollero più di due decenni prima che la teoria endosimbiotica di Lynn Margulis fosse riconosciuta come una pietra miliare della biologia e della genetica; Eva Jablonka comincerà a pubblicare verso la fine degli anni Ottanta) e, quindi, non si può che apprezzare il coraggio  mostrato da questo testo  nel  cercare di porre una resistenza al pensiero mainstream in campo genetico – ma anche nel campo dell’ideologia anticomunista – che vedeva Lysenko come una sorta di teppista pseudoscientifico che si sarebbe fatto largo nel mondo accademico   sovietico solo in ragione del fatto che vi imperava lo stalinismo – la cui volontà di costruire l’uomo nuovo del socialismo ben si accordava con la strumentalizzazione del lamarckismo insito nella  biologia lisenkiana –  e la sua scimmia ideologica  che va  sotto il nome di Diamat  che in pratica del lisenkismo – al netto del suo meccanicismo engelsiano travestito da dialettica, meccanicismo diamattino  e suo maggiore compare politico stalinista che in linea di principio avrebbero dovuto confliggere con qualsiasi deriva lamarckiana nel campo della biologia che, a rigore, non avrebbe dovuto che enfatizzare un ruolo attivo dell’organismo nel foggiare il proprio genotipo-fenotipo, ma qui si trattava di giustificare col lamarckismo lisenkiano un ruolo attivo della volontà dello Stato a foggiare una nuova comunità e non un ruolo attivo dell’individuo ad autoeducarsi in senso socialista  – seppe cogliere le sue potenzialità di utilizzarlo come instumentum regni per propagandare la possibilità di edificare l’uomo nuovo sovietico in brevissimo tempo. (Utilizzazione ideologica sempre avvenuta, del resto, in ogni settore della ricerca scientifica e non certo inaugurata dallo stalinismo. Oltre al meccanicismo cartesiano-galileano giustificatore dell’individualismo metodologico di cui abbiamo già in altre sedi più volte discusso e di cui stiamo discutendo anche qui in quanto di questo meccanicismo si sta criticando la sua versione nelle scienze biologiche e genetiche, per quanto riguarda la teoria evoluzionistica in senso stretto, non si può fare a meno di ricordare che, oltre che uno stretto darwinismo meccanicistico è da sempre addotto come giustificazione  dell’individualismo metodologico della società liberale – e la versione più moderna di questo utilizzo ideologico è la sociobiologia, cfr., a questo proposito  Richard Dawkins, The Selfish Gene, New York, Oxford University Press, 1976, per indicazione internettiana  con relativi congelamenti dell’URL e del documento tramite le piattaforme di preservazione digitale, vedi infra nota n° 4 e rassegna bibliografica internettiana finale –,  il c.d. darwinismo sociale è stato anche la vera colonna portante dell’ideologia razziale nazista, nazismo che, al netto di tutte le sue fumisterie esoteriche, era proprio sostenuto dall’idea di un individualismo metodologico, dove però al posto del singolo individuo trionfatore ed eliminatore – in buona sostanza – degli altri individui nella lotta per la sopravvivenza nella libera e concorrenziale società di mercato, veniva esaltato una singolo gruppo di umani, la c.d. razza ariana, l’unica che aveva il diritto di dominare e persino eliminare gli altri ceppi umani presenti nel libero, perché per definizione anarchico, contesto geopolitico internazionale. Dominazione ed eliminazione, lo ricordiamo per ultimo, che il nazismo voleva compiere nel Vecchio continente e nelle adiacenti propagini asiatiche della Russia ma pratiche di dominio politico fino a giungere al consapevole vero e proprio genocidio che le potenze coloniali, specialmente il Belgio e la Germania guglielmina ma nessuna potenza europea in questa disgustosa vicenda può chiamarsi fuori,  avevano compiuto pochi decenni di anni prima in Africa. Su questo non si può non rinviare all’immortale Heart of Darkness di Joseph Conrad e a Hannah Arendt e sul suo The Origins of Totalitarianism). Seguendo infatti  uno schema darwiniano di stretta osservanza, e quindi operando meccanicamente attraverso una  selezione di nuovi ceppi umani che avrebbe dovuto agire su più generazioni,  sarebbe stato impossibile con la sola propaganda costruire l’uomo nuovo sovietico, mentre indubbiamente uno schema lamarckiano-lysenkiano  ingenuamente interpretato – in buona o cattive fede non importa – avrebbe potuto raggiungere questo risultato velocemente operando attraverso la propaganda e l’entusiasmo che fra le masse queste propaganda avrebbe dovuto suscitare – che poi questa entusiastica partecipazione fosse del tutto eterodiretta e quindi passiva e che quindi  l’attiva partecipazione dell’organismo uomo fosse di natura diametralmente opposta a quella dell’organismo giraffa che attivamente si sforza di allungare il collo, questo fu un dettaglio “secondario” che probabilmente mai sfiorò la mente dei burocrati sovietici, i quali, oltre ad essere giustamente preoccupati per le conseguenze personali cui si poteva andare incontro opponendosi al Diamat e alle relative strumentalizzazioni della ricerca scientifica, non potevano non riconoscere la validità operativa, al fine di costruire uno stato totalitario. di una strumentalizzazione di una dottrina scientifica che, in quella data situazione storica, ben si prestava a giustificare l’apparato propagandistico ed autoritario del costruendo stato sovietico (stricto sensu, gli studi di Lysenko riguardavano la vernalizzazione del grano, riguardavano cioè la possibilità che l’esposizione del grano alle avverse condizioni climatiche invernali ne facesse crescere la produzione e/o la resistenza a queste intemperie della stagione fredda e questo senza passare attraverso una previa selezione, come si sarebbe dovuto fare seguendo uno schema darwiniano, di linee di grano più resistenti al freddo. Ad oggi è difficile giudicare se si fosse trattato di una buona o cattiva idea. Quello che è certo è che la produzione granaria crollò verticalmente ma di mezzo ci fu la collettivizzazione delle campagne e quindi il lysenkismo è oggi ricordato solo come una dannosa pseudoscienza, stampella di un regime totalitario, corresponsabile della carestia che afflisse l’allora nascente regime sovietico e direttamente responsabile, negli anni che seguirono, dell’arretratezza della biologia e genetica sovietica. Ma dei fallimenti e problemi irrisolti della Sintesi evoluzionista moderna solo oggi si comincia a parlare…). Grosso modo questa è la ricostruzione storica che anche il Dialectical Biologist fa del “caso Lysenko” affermando che il lysenkismo non fu una sorta di pseudoscienza  che poteva solo sorgere in un sistema totalitario ma che, bensì, per farla breve, fu una legittima direzione della ricerca biologica e genetica che, per ragioni storiche contingenti, fu ridotta alla caricatura di sé stessa. Su questo, quindi, nemmeno noi abbiamo nulla da eccepire ma, però, il problema di una piena riabilitazione sussiste, perché per la difesa di una teoria scientifica non ci si può limitare a dire che era sorta con le migliori intenzioni, rovinate in seguito dai cattivi politici, se queste intenzioni, alla stretta del chiodo, saranno state magari sì buone ma anche sostanzialmente sbagliate. E su quest’ultimo problema il Dialectical Biologist non prende posizione, tentenna e tutto il suo discorso critico ruota attorno ad un meccanicismo veteromarxista e veteroengelsiano sostenendo che ogni teoria scientifica è, in ultima analisi, frutto della società dove questa nasce e quindi che il lysenkismo sarebbe stato il frutto di una società e/o del suo apparato politico totalitario  che voleva costruire il socialismo mentre la stretta osservanza darwiniana sarebbe il frutto di una società capitalista tutta tesa a santificare e a magnificare l’ineluttabilità del libero mercato e la ricerca del successo individuale, dove è chiara l’analogia di questo individualismo metodologico con lo schema darwiniano dove meccanicamente l’ambiente seleziona l’individuo migliore che poi, attraverso l’atto riproduttivo, consegnerà alle future generazioni queste sue caratteristiche che hanno avuto il successo di superare il vaglio posto dall’ambiente. Tutto questo incontra la nostra piena approvazione e anzi ne abbiamo appena discusso ma è ancora troppo generico, perché il problema che non affronta il Dialectical Biologist è analizzare, su un piano storico più generale, il significato gnoseologico-epistemologico che hanno la tradizione lamarckiana e la tradizione darwiniana; si tratta cioè del problema della dialettica e della natura che abbia questa dialettica e su questo punto il Dialectical Biologist, pur fornendo, come vedremo, spunti del più grande interesse, non osa pronunciarsi, anzi in più luoghi espressamente ammette di non sapere dare una definizione della dialettica pur sottolineando che, nonostante questo, la dialettica sia indispensabile per spiegare i fenomeni biologici (e su questo siamo pienamente d’accordo, come pure del tutto positivamente apprezziamo del Dialectical Biologist l’essere riuscito a fornire esempi concreti di dialettica operativa in campo biologico, specialmente quando vengono descritti gli ecosistemi e i vicendevoli  rapporti di feedback fra organismo e/o gruppi di organismi e il loro ambiente). Il punctum dolens e quindi quello della natura della dialettica e riandando   alla citazione che ha dato vita a questa nota possiamo tornare a leggere: «Nor, on the other hand, can the Lysenko movement be regarded, as it is by some ultraleft Maoists, as a triumph of the application of dialectical method to a scientific problem, an intellectual triumph that is being suppressed by the bourgeois West and by Soviet revisionism. None of these views corresponds to a valid theory of historical causation.» Il punctum dolens non è tanto se l’ultrasinistra maoista del tempo fosse o no nel torto a ritenere il lisenkismo il trionfo  della dialettica (in molti altri luoghi della presente comunicazione, verrà sottolineato il motto  latino amicus Plato, sed magis amica veritas, volendo con ciò significare che per un corretto procedere dialettico non si deve giudicare positivamente una teoria scientifica solo perché rifiuta una schema meccanicistico e deterministico e, quindi, unicamente  per questa sua intrinseca voluntas dialectica,  illusoriamente più nel vero di una corrispettiva teoria che su questo meccanicismo e determinismo si basa  – anche se ci sono, ovviamente  teorie scientifiche che si possono prestare più di altre, per una sorta di loro intima Weltanschauung dialettica, a  sviluppare efficaci ragionamenti dialettici, e questa comunicazione, come altre che l’hanno preceduta,  è pure basata su questo assunto), il punto è che bisogna individuare la vera Gestalt di questa dialettica e, nelle parole del Dialectical Biologist appena lette si parla di «una valida teoria per la causazione storica», con ciò – oltre a sottintendere una separazione fra causazione del mondo storico  e quello del mondo fisico-biologico, determinazione della illusorietà della separazione fra mondo storico-culturale e quello fisico-biologico che è il cardine del Repubblicanesimo Geopolitico ma che, in altri luoghi del Dialectical Biologist è pure, anche se maniera non esemplarmente cristallina, rifiutata – rivelando in pieno i debiti ancora pesanti che il Dialectical Biologist deve alla pseudodialettica engelsiana, la quale, in realtà, non è altro che un positivismo a malapena travestito e dove le tre leggi aristoteliche della logica (Il principio di identità, il principio di non-contraddizione e   il principio del terzo escluso) vengono sostituite goffamente dalle tre nuove ridicole leggi della dialettica   (la legge della conversione della quantità in qualità (e viceversa), la legge della compenetrazione degli opposti e la legge della negazione della negazione: per la definizione della Gestalt della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico, in particolare vedi infra nota n° 4 ma, nella sua totalità, tutta la presente comunicazione è volta alla sua costruzione), ridicole sì ma che hanno l’assai poco ridicolo e molto triste risultato di rendere la dialettica altrettanto meccanica nella sua natura ed azione alle deterministiche leggi sociali che il positivismo riteneva di dover e poter individuare, perché dal positivismo pensate in perfetta analogia a quelle dei sistemi fisici – o meglio di come  ai tempi del positivismo si pensava operassero i sistemi fisici – e agenti entro un rigido schema di causa ed effetto con conseguente sicura ed infallibile prevedibilità dei fenomeni. Per fortuna, come mostreremo, il Dialectical biologist saprà anche lasciarsi alle spalle il sogno di ogni «valid theory of historical causation», intrinsecamente legata al meccanicismo, per approdare ad uno schema storicistico molto vicino al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

3 Questo processo di feedback evolutivo ha profonde analogie col processo interpretativo detto circolo ermeneutico. Purtroppo l’attuale ermeneutica, pur giustamente affermando l’esigenza di un infinito moto circolare del sapere dal soggetto studiante all’oggetto studiato con costante modifica in questo processo sia del soggetto che dell’oggetto, ha tralasciato nella sua teoria una approfondita riflessione sulla forma della  dialettica e ha limitato il suo campo di studio solo alla linguistica e agli studi filologici. (Gadamer parla del processo messo in atto dal circolo ermeneutico come una ‘fusione di orizzonti’ e dell’atteggiamento che deve assumere l’ermeneuta la cui  attività  deve essere improntata alla phrónesis  altrimenti detta ‘saggezza’ o ‘prudenza’, in ragione del fatto che l’ermeneuta deve essere consapevole che la sua attività interpretativa è sempre carica di pregiudizi, pregiudizi che se  è intellettualmente onesto non solo egli deve giudicare ineliminabili  ma anche pensare come  una parte positiva nel dare inizio al circolo ermeneutico stesso. Ora a parte il fatto che riconosciamo una notevole bellezza poetica all’immagine della fusione degli orizzonti e che ben volentieri possiamo concordare con Gadamer sulla necessità di procedere prudenti non solo nelle vicende interpretative ma, aggiungiamo noi, anche nelle vicende della vita di quotidiana – e anche, a maggior ragione, di quella pubblica e filosofica: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani.» (Matteo 10,16-18), come vediamo nell’appello alla prudenza Santa Madre Chiesa ha anticipato di molti anni l’ermeneutica –, liquidare il processo dialettico interpretativo con una  bella metafora ma  che però non ha più valore gnoseologico ed epistemologico di una suggestiva  immagine modello cartolina postale del sole che tramonta dietro l’orizzonte marino – magari tenendo teneramente per mano la propria amata mentre si assiste sulla battigia ed udendo il mantrico sciabordio delle onde che fa da colonna sonora al sublime spettacolo dell’astro morente; non ce ne vogliano gli ermeneuti di ogni ordine e grado, a noi personalmente la ‘fusione di orizzonti’ richiama alla mente quel quadro dell’artista russo appartenente alla Sots-art Erik Bulatov, Red Horizon,  che ci fa vedere un piccolo gruppo di uomini e donne  che  passeggiano in spiaggia, rappresentati di spalle    e stranamente vestiti, visto l’ambiente, con abiti formali  più consoni ad un contesto urbano mentre osservano un amplissimo e rettangolare arrossamento del cielo lungo la linea d’orizzonte del mare  attraversato da più strette linee rettangolari gialle. Red Horizon, quindi, rappresentazione surreale dell’osservazione da parte di queste persone di un tramonto dietro il mare e probabilmente queste persone formalmente vestite sono la metafora della  declinante nomenclatura sovietica: Red Horizon fu dipinto nel 1972 quando erano già evidenti gli inevitabili segnali d’involuzione che avrebbero portato al collasso della società sovietica poco meno di due decenni dopo. Ecco a noi la gademeriana ‘fusione d’orizzonti’ richiama la stessa Stimmung di Red Horizon… – e liquidare l’aristotelica phrónesis come semplice prudenza, mentre in Aristotele è l’unione di intelletto e desiderio al fine di elaborare una corretta linea d’azione – e questa unione di intelletto e desiderio, mutatis mutandis, con profonda analogia con l’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della filosofia della prassi del  Repubblicanesimo Geopolitico – non può che lasciare perplessi in merito all’ermeneutica gadameriana e  di tutti quegli studi ermeneutici che da Gadamer prendono lo spunto, e per essere perplessi non è nemmeno necessario fare propria una particolare visione dialettica ma essere animati da semplice buon senso filosofico.). Il Repubblicanesimo geopolitico genera invece la sua particolare ermeneutica non accettando la suddivisione fra mondo culturale dell’uomo e mondo fisico-biologico, suddivisione che è un presupposto più o meno esplicito di tutte le attuali correnti ermeneutiche, e assegna anche una natura specifica a questa  sua peculiare ermeneutica che, attraverso la sua azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale non genera solo un feedback a livello linguistico, ma  investe olisticamente, invece, tutta la totalità espressiva (che non viene solo interpretata alla luce di questo paradigma ma ne viene, soprattuttto,  anche autopoieticamente generata), cioè il mondo culturale dell’uomo e mondo fisico-biologico, non più tenuti astrattamente distinti ma finalmente riunificati a livello ontologico ed epistemologico nello schema autopoietico della  teoria  della filosofia della  prassi dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale. Che questo riorientamento del circolo ermeneutico – riorientamento che, come si sarà capito, non riguarda solo la corrente filosofica detta ‘ermeneutica’ ma tutta la filosofia e la cultura occidentali moderne nate dal trionfo del meccanicismo cartesiano e galileiano –  sia una mossa decisiva per una rinascita non solo degli studi dialettici e degli studi sociali ma anche per un riorientamento olistico degli studi che riguardano le c.d. scienze dure (riorientamento olistico che – pur con tutte le avvertenze fin qui già espresse in merito al fatto che la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico non sposa alcuna teoria scientifica in particolare perché giudicata più dialettica di un’altra ma la osserva, la giudica e la utilizza essenzialmente  nell’ambito delle sua valenza dialettica riferita al più generale contesto olistico generato dall’ autopoiesi dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale e valenza dialettica di una teoria scientifica, quindi, che non è mai una volta per sempre ma può e deve mutare a seconda del momento storico  in cui si colloca il giudizio, perché a mutamento della situazione storica corrisponde un mutamento sia a livello ontologico che epistemologico del vettore di direzione dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, ma vettore di direzione che, lo ripetiamo ad nauseam, proprio per la sua natura dialettico-espressiva-conflittuale-strategica che attraversa un sempre mutevole medium storico, e sempre mutevole proprio per responsabilità diretta della sua azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, è assolutamente quindi  incompatibile con la Gestalt di  una legge generale meccanicistica modello fisica galileano-newtoniana con conseguente deterministica previsione della sua forza ed orientamento ma che può essere compreso, e spesso solo ex post, inserendolo nel contesto della particolare ed unica situazione storica entro la quale non solo si trova ad agire cercando di modificarla a suo vantaggio ma della quale, ad ulteriore aggravio delle possibilità di determinarne ex ante la direzione, è pure dinamicamente ed espressivamente parte – è  un portato già oggi  non più ignorabile dei modelli matematici non lineari e della meccanica quantistica, ma sull’importanza euristica per la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico di questi modelli e della fisica quantistica ci siamo  già più volte altrove espressi e ritorneremo anche nel corso di questa comunicazione) non può essere certo dimostrato, come del resto nessuna delle cose veramente importanti per l’uomo possono essere decise attraverso un procedimento induttivo: fondamentale a questo punto ritornare alla distinzione che Hegel faceva fra intelletto e ragione, fra Verstand  e Vernunft. Può, però, essere mostrato nei suoi effetti e nella sua concreta azione dialettico-espressiva-strategico-conflittuale e quindi, da questo punto di vista, giudicato. E questa comunicazione non è che un passo verso questa concreta strategia ermeneutica basata, appunto, sulla hegeliana ragione.

 

4 A parte il vecchio darwinismo storico-sociale che nelle società liberal-capitalistiche ha giustificato il colonialismo e all’interno delle singole nazioni un “libero”mercato dove l’economicamente più debole era “libero” di morire di fame e, sempre a livello interno e poi  fuori dai confini nella Germania nazionalsocialista,  l’eugenetica e lo sterminio degli ebrei  e di altre etnie e gruppi umani ritenuti inferiori – oltre a deturpare criminalmente il concetto Lebensraum privandolo qualsiasi valenza dialettica che pur possedeva in origine per fargli giustificare l’aggressione  contro i paesi dell’Europa orientale e l’Unione Sovietica esplicitamente giustificata per compiere lo sterminio di gran parte delle popolazioni slave per sostituirle con popolazioni germaniche – senza nemmeno l’orrida razionalità economica che presiedeva il succitato progettato insediamento all’Est di popolazioni tedesche (una razionalità economica, comunque, del tutto irrazionale, perché i territori dell’Est Europa senza slavi sarebbero stati del tutto ingestibili, e infatti già nel corso della guerra i progetti tedeschi di sterminio di queste popolazioni slave avevano subito un drastico ridimensionamento, mentre, purtroppo, non si fece altrettanto per gli ebrei e gli zingari), qui, in particolare, intendiamo riferirci, alle  più rozze conseguenze ideologiche e meccanicistiche della Modern Evolutionary Syntesis, cioè alla sociobiologia che, in pratica, altre non è il vecchio darwinismo storico-sociale ma non più mosca cocchiera delle società imperialiste e colonialiste liberalcapitaliste ottonovecentesche o della feroce società nazionalsocialista ma che ha svolto e svolge tuttora – nonostante la sua palese infondatezza scientifico-sperimentale – un ruolo ideologico di giustificazione pseudoscientifica delle attuali società nate nel Secondo dopoguerra ed impostate sul consumismo e sulla “libera” concorrenza darwinista fra membri della società per consumare la maggior quantità di questi beni (impostate, cioè, sulla del tutto illusoria ed ideologica nozione che questo modello, pur diversamente benefico a seconda delle capacità produttivo-economiche del singolo consumatore, sia una volta per sempre e non sia più possibile tornare indietro a modelli produttivo-distributivi che non garantiscano questo infinito aumento dei consumi, pur se diversamente distribuiti a seconda delle varie e variabili capacità individuali di procacciarseli agendo egoisticamente sul “libero” mercato delle merci e del lavoro contemporaneamente attraverso i “liberi” prestatori d’opera – talvolta i “liberi” imprenditori – e i “liberi” consumatori). Il Selfish Gene di Richard Dawkins è stato il saggio che, in ragione del suo indubbiamente accattivante modo di presentare le sue tesi e quindi del suo larghissimo successo anche presso il più vasto pubblico dei non addetti ai lavori, maggiormente ha contribuito in questi ultimi decenni a diffondere e a rendere popolari la meccanicistiche ed antidialettiche tesi della sociobiologia. Vale quindi la pena di guardare un po’ più a fondo questo suo seminale saggio dell’odierna (e popolare) filosofia meccanicistica moderna (e di riflesso, quindi, dell’odierno individualismo metodologico liberale divenuto popolare anche grazie a libri come il Selfish Gene): «The next important link in the argument, one that Darwin himself laid stress on (although he was talking about animals and plants, not molecules) is competition. The primeval soup was not capable of supporting an infinite number of replicator molecules. For one thing, the earth’s size is finite, but other limiting factors must also have been important. In our picture of the replicator acting as a template or mould, we supposed it to be bathed in a soup rich in the small building block molecules necessary to make copies. But when the replicators became numerous, building blocks must have been used up at such a rate that they became a scarce and precious resource. Different varieties or strains of replicator must have competed for them. We have considered the factors that would have increased the numbers of favoured kinds of replicator. We can now see that less-favoured varieties must actually have become less numerous because of competition, and ultimately many of their lines must have gone extinct. There was a struggle for existence among replicator varieties. They did not know they were struggling, or worry about it; the struggle was conducted without any hard feelings, indeed without feelings of any kind. But they were struggling, in the sense that any mis-copying that resulted in a new higher level of stability, or a new way of reducing the stability of rivals, was automatically preserved and multiplied. The process of improvement was cumulative. Ways of increasing stability and of decreasing rivals’ stability became more elaborate and more efficient. Some of them may even have ‘discovered’ how to break up molecules of rival varieties chemically, and to use the building blocks so released for making their own copies. These proto-carnivores simultaneously obtained food and removed competing rivals. Other replicators perhaps discovered how to protect themselves, either chemically, or by building a physical wall of protein around themselves. This may have been how the first living cells appeared. Replicators began not merely to exist, but to construct for themselves containers, vehicles for their continued existence. The replicators that survived were the ones that built survival machines for themselves to live in. The first survival machines probably consisted of nothing more than a protective coat. But making a living got steadily harder as new rivals arose with better and more effective survival machines. Survival machines got bigger and more elaborate, and the process was cumulative and progressive. Was there to be any end to the gradual improvement in the techniques and artifices used by the replicators to ensure their own continuation in the world? There would be plenty of time for improvement. What weird engines of self-preservation would the millennia bring forth? Four thousand million years on, what was to be the fate of the ancient replicators? They did not die out, for they are past masters of the survival arts. But do not look for them floating loose in the sea; they gave up that cavalier freedom long ago. Now they swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots,* sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control. They are in you and in me; they created us, body and mind; and their preservation is the ultimate rationale for our existence. They have come a long way, those replicators. Now they go by the name of genes, and we are their survival machines.»: Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit.,  pp. 18-20 Testo da noi scaricato all’URL  https://pdfs.semanticscholar.org/206e/a4e48d95acd10fb9c2bdc291811cd341c04a.pdf?_ga=2.110581445.1974409258.1572036165-369721173.1568987673; Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20191025204931/https://pdfs.semanticscholar.org/206e/a4e48d95acd10fb9c2bdc291811cd341c04a.pdf?_ga=2.110581445.1974409258.1572036165-369721173.1568987673Nostro successivo upload del file su  Internet Archive, generando gli URL https://archive.org/details/richarddawkinstheselfishgene30thanniversaryeditionwithanewintroductionbytheauthor/mode/2up e https://ia803102.us.archive.org/4/items/richarddawkinstheselfishgene30thanniversaryeditionwithanewintroductionbytheauthor/RICHARD%20DAWKINS%20THE%20SELFISH%20GENE%20%2030TH%20ANNIVERSARY%20EDITION%20WITH%20A%20NEW%20INTRODUCTION%20BY%20THE%20AUTHOR.pdf. Presso Internet Archive  è pure presente un’altra copia del Selfish Gene, URL https://archive.org/details/selfishgene00dawkrich, ma essendo il documento vincolato ad un regime di prestito online,  si è  preferito evitare a noi e ai nostri lettori questa procedura e rendere disponibile il documento senza restrizioni di sorta. In apparenza qui viene descritto un classico meccanismo di selezione darwiniano ma nelle ultime battute appare il telos del brano citato e di tutto il Selfish Gene. Non solo i geni egoistici sono i campioni, i numeri uno, i terribili e coriacissimi guerrieri  dell’ individualismo metodologico, i «replicators that survived were the ones that built survival machines for themselves to live in» ma, al di là di questa altissima esemplarità ideologica per tutti coloro che a questo individualismo si ispirano sono, ancor di più, gli autentici e materiali  animatori e ispiratori  di questa Weltanschauung, perché essi ora «swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots,*  sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control.». Traducendo ma contemporaneamente spiegando anche qui il non esplicitamente detto: ora i geni egoistici prosperano e sciamano in gigantesche colonie e al sicuro e protetti dalle aggressioni dell’ambiente esterno perché ospitati all’interno del corpo di giganteschi e legnosi robot. Come questi geni, così sigillati entro i corpo di questi robot riescano a rapportarsi con l’ambiente più che un problema scientifico è, evidentemente, un mistero di natura teologica, come ben si evince dalla  fraseologia impiegata per descrivere questo inesplicabile rapportarsi («sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control») ma ancor più di questo crampo del pensiero, ci preme qui sottolineare un fatto fondamentale, e cioè che questi «lumbering robots» siamo noi, quasi che l’onere della denotazione della meccanicità nel processo della selezione naturale si fosse spostato dal gene, il quale anche se opera in maniera teologicamente misteriosa ha comunque una relazione dialettica con l’ambiente, all’uomo, il quale viene ridotto ad una sorta di robot da vignetta o da film fantascientifico di serie B, che si muove appunto come un automa e che, ridotto a dover servire gli algoritmi  forniti dal gene, non può che agire servilmente e meccanicamente (o meccanicisticamente se si preferisce). Subito dopo il passaggio dove i geni «swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots» compare, come si è visto, un asterisco. Torneremo fra poco sul significato di questo asterisco ma per ora continuiamo  a focalizzarci sull’ardita immagine dell’uomo robot. In fondo, si potrebbe dire che questa è un’interpretazione azzardata del testo perché forse quello che l’autore del Selfish Gene ci voleva comunicare è che i geni si erano insediati dentro il corpo umano che ora li protegge come se fosse un legnoso ma anche duro e potente robot, e qualsiasi altra analogia fra il meccanico robot  e la nostra dimensione umana è frutto della nostra immaginazione e non è nelle intenzioni dell’autore. Ma vediamo come nel Selfish Gene non si rinuncia volentieri alla metafora: «The individual organism is something whose existence most biologists take for granted, probably because its parts do pull together in such a united and integrated way. Questions about life are conventionally questions about organisms. Biologists ask why organisms do this, why organisms do that. They frequently ask why organisms group themselves into societies. They don’t ask – though they should – why living matter groups itself into organisms in the first place. Why isn’t the sea still a primordial battleground of free and independent replicators? Why did the ancient replicators club together to make, and reside in, lumbering robots, and why are those robots – individual bodies, you and me – so large and so complicated?» (Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., p. 237), e i lumbering robots, siamo proprio noi, con tutte le caratteristiche e le legnose e meccanico-meccanicistiche peculiarità dei robot da fumetto; lumbering robots le cui caratteristiche meccanico-meccanicistiche  evidentemente non solo sono il tratto qualificante del genere umano  ma di tutti gli organismi  mono e pluricellulari (almeno questa condivisione col resto dei viventi viene concessa ad una povera umanità così bistrattata e mal compresa) e quindi tutti i viventi sono una sorta di macchina, ma una insensibilità meccanica, la quale, chissà perché non coinvolge il gene: forse perché  esso è l’incarnazione e il simbolo col suo egoismo dell’individualismo metodologico della società liberal-capitalistica, e quindi, in questo suo ruolo di nuova divinità non può agire come una sorta di impersonale Dio spinoziano ma deve possedere la capacità di agire teleologicamente, magari al solo scopo di creare i lumbering robots, come una sorta di nuovo Dio personale?: «This brings us to the second of my three questions. Why did cells gang together; why the lumbering robots? This is another question about cooperation. But the domain has shifted from the world of molecules to a larger scale. Many-celled bodies outgrow the microscope. They can even become elephants or whales. Being big is not necessarily a good thing: most organisms are bacteria and very few are elephants. But when the ways of making a living that are open to small organisms have all been tilled, there are still prosperous livings to be made by larger organisms. Large organisms can eat smaller ones, for instance, and can avoid being eaten by them.» (Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., p. 258.). Ma ora torniamo alla questione dell’asterisco, al quale, molto stranamente, alla pagina 19 dove compare il segno non segue a piè di pagina alcuna spiegazione. Ma la spiegazione appare nella sezione finale del libro intitolata “Endnotes” (che sotto questa definizione delle pagine che seguono reca la spiegazione: «The following notes refer to the original eleven chapters only. Although the text of these chapters is almost identical to the first edition, the page numbers are different as the type has been completely reset. Each note is referenced by an asterisk in the main text.»), la quale informandoci delle polemiche suscitate dal succitato passaggio già apparso nella prima edizione (noi stiamo citando dalla terza edizione), goffamente cerca di giustificare ed attenuare la polemica sui lumbering robots: «p. 19  Now they swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robotsThis purple passage (a rare – well, fairly rare – indulgence) has been quoted and requoted in gleeful evidence of my rabid ‘genetic determinism’. Part of the problem lies with the popular, but erroneous, associations of the word ‘robot’. We are in the golden age of electronics, and robots are no longer rigidly inflexible morons but are capable of learning, intelligence, and creativity. Ironically, even as long ago as 1920 when Karel Capek coined the word, ‘robots’ were mechanical beings that ended up with human feelings, like falling in love. People who think that robots are by definition more ‘deterministic’ than human beings are muddled (unless they are religious, in which case they might consistently hold that humans have some divine gift of free will denied to mere machines). If, like most of the critics of my ‘lumbering robot’ passage, you are not religious, then face up to the following question. What on earth do you think you are, if not a robot, albeit a very complicated one? I have discussed all this in The Extended Phenotype, pp. 15-17. The error has been compounded by yet another telling ‘mutation’. Just as it seemed theologically necessary that Jesus should have been born of a virgin, so it seems demonologically necessary that any ‘genetic determinist’ worth his salt must believe that genes ‘control’ every aspect of our behaviour. I wrote of the genetic replicators: ‘they created us, body and mind’ (p. 20). This has been duly misquoted (e.g. in Not in Our Genes by Rose, Kamin, and Lewontin (p. 287), and previously in a scholarly paper by Lewontin) as ‘[they] control us, body and mind’ (emphasis mine). In the context of my chapter, I think it is obvious what I meant by ‘created’, and it is very different from ‘control’. Anybody can see that, as a matter of fact, genes do not control their creations in the strong sense criticized as ‘determinism’. We effortlessly (well, fairly effortlessly) defy them every time we use contraception.»: Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., pp.  270-271). Ora a parte il fatto che proprio non si capisce la ragione per cui si debba tirare in ballo Gesù, la sua nascita da una vergine per dire che se questa nascita è teologicamente necessaria, deve essere ugualmente inevitabile che un genetista affermi che il gene controlli ogni aspetto del nostro comportamento (complimenti, un gran bell’argomento e non andiamo oltre), il ridicolo di tutto questo almanaccare appena esposto è l’affermazione che il robot in questione è un po’ meno roboticamente meccanico e stupido di quel che comunemente si crede perché 1) all’origine della  figura letteraria del robot, quello di Karel Čapek, il robot riesce a concepire anche sentimenti umani (fra l’altro, aggiungiamo noi, il robot di Čapek non è un dispositivo meccanico ma è stato costruito montando varie parti di corpi umani e quindi concepisce anche umani sentimenti, insomma siamo più in presenza di un essere modello il mostro del Frankenstein di Mary Shelley che alla creatura meccanica similumana dei film di fantascienza ma questo è un dettaglio che non sfiora Dawkins) e 2) gli attuali robot, quelli realmente esistenti, sono sì robot ma sempre più capaci di azioni autonome e creative proprio come gli uomini. Ma lasciando perdere nel commentare questa penosa palinodia di soffermarci ulteriormente sul tentativo di Dawkins di  buttarla in letteratura (nella quale l’autore del Selfish Gene dimostra, tra l’altro, di non essere nemmeno molto ferrato), concentriamoci un attimo sugli attuali robot e sull’intelligenza artificiale. Certamente è vero che gli attuali robot sono anche in grado di autoprogrammarsi e quindi, almeno apparentemente, di assumere verso l’ambiente un atteggiamento non meccanico-meccanicistico, è però altrettanto vero che la capacità di questi robot a rapportarsi dinamicamente con un ambiente mutevole riguarda sempre e solamente il particolare compito cui è stato assegnato il robot. Tanto per fare un esempio. È già da ora possibile che se a un robot viene fornito un algoritmo che inizialmente non gli permette di superare uno specifico compito, mettiamo vincere a scacchi, il robot sappia far evolvere questo particolare algoritmo per ottenere il risultato (ma le proprietà evolutive di questo algoritmo sono fornite ab initio dal programmatore e non sono farina del sacco del computer; oppure è possibile immaginare anche un algoritmo che pur non possedendo in sé alcuna possibilità evolutiva, venga fatto evolvere tramite il  computer, ma ciò può essere reso possibile fornendo, sempre per iniziativa del programmatore umano, un   secondo algoritmo che permetta alla macchina di intervenire sul primo  e quindi siamo punto a capo)  ma finora non è stato ancora costruito un robot che se perde a scacchi, invece di elaborare una nuova strategia, si arrabbi –  o se riteniamo quest’ultimo stato emotivo troppo legato ad un concetto eccessivamente  intimo e lirico dell’agire – rovesci il tavolo (a meno che, ovviamente, non venga dotato dal suo programmatore di  un algoritmo che gli dica di comportarsi in questo modo in caso di sconfitta, bisogna però, come da tradizione dei film di serie B, farlo diventare un vero e proprio robot umanoide, con un bel paio di braccine e piedini meccanici, piccoli ed esili in questo caso visto che l’azione fisica da eseguire non è gravosa…). In altre parole, un robot può agire solamente nell’ambito della teleologia che gli è stata assegnata dal programmatore: nel metterla in pratica può essere sovente molto più abile dell’uomo ma nell’elaborazione di una autonoma e non eterodiretta teleologia alternativa questo “cervello elettronico” rimane totalmente muto ed inetto (detto ancor meglio: non si pone nemmeno il problema di darsi uno scopo diverso da quello fornitogli dal programmatore). Facciamo un altro esempio. Un robot, come del resto un uomo, può combattere e perdere una battaglia campale (meglio, però, se questa battaglia è virtuale, finora i computer hanno solo fornito potenza di calcolo alle battaglie reali dove scorre sangue reale).  Ma mentre tutto quello che può fare un robot riguardo a questa battaglia è cercare di vincerla o perderla ed anche di elaborare nuove strategie per ottenere il positivo risultato (impiegare, cioè, algoritmi genetici e/o evolutivi che simulando, tramite la veloce computazione della macchina, una evoluzione darwiniana dei parametri costituenti l’algoritmo, questi vengono progressivamente sostituiti da altri più adeguati ad ottenere il risultato desiderato, ma, lo ripetiamo, l’algoritmo genetico o evolutivo che dir si voglia capace di evolversi   tramite la potenza computazionale della  della macchina deve essere originariamente  fornito dal programmatore), l’uomo dopo aver vinto o perso la battaglia è costretto ad andare avanti e a non riposarsi. La vittoria gli apre diversi scenari umani, politici, culturali ed economici verso i quali la macchina robot-computer non solo è assolutamente incapace ad elaborare una adeguata strategia ma, ancor peggio, è del tutto non interessata a prenderli in considerazione ignorandone l’esistenza (a meno che, lo ripetiamo ad nauseam, non venga programmata per affrontare anche queste nuove situazioni: in questa incapacità, lo ammettiamo,  molto simile a molti uomini la cui cecità meccanica-meccanicistica ad affrontare scenari diversi da quelli imposti dall’abitudine quotidiana, dalla tradizione culturale e/o dall’autorità politica non è molto diversa a quella fin qui dimostrata dai computer nell’autoassegnarsi compiti non previsti dal programmatore: epifania strategica un obiettivo-mito modello spiritus durissima coquit per la presente e futura intelligenza artificiale ma anche per molti presenti – e futuri – rappresentanti di quel singolare animale chiamato homo sapiens,  che nelle sue soventi reazioni meno creative e più stereotipate – in questi casi non assolutamente all’altezza del nome assegnatogli dagli zoologi – potrebbe benissimo essere definito homo mechanicus, con tante nostre scuse, per via di questi  numerosi casi, a Cartesio e al suo tanto beffeggiato animal machine, e ancor più associando alle nostre doverose  scuse Julien Offray de La Mettrie e il suo altrettanto dileggiato homme machine). Parimenti la sconfitta, a meno che non abbia avuto come esito la sua uccisione o la sua autoeliminazione per la vergogna (suicidio), apre  altri e del tutto inediti scenari. Per esempio, il guerriero sconfitto può abbandonare le armi e darsi, tramite opere filosofiche, letterarie e poetiche a più o meno profonde riflessioni  sulla vanità delle cose umane (ci può anche essere uno scenario alternativo dal punto di vista letterario ed esistenziale: se la sconfitta non è stata troppo pesante e il nostro guerriero è riuscito  a salvare, oltre alla pelle, anche un po’  di soldi e di salute, può pure abbandonare le pose guerriere  e melanconiche da filosofo ipocondriaco dedito a coltivare la contemptio vitae da novello esegeta dell’Ecclesiaste e, anziché declamare il lamentoso vanitas vanitatum et omnia vanitas, dedicarsi alla produzione di letteratura erotica ed alla sua concreta applicazione nella vita di ogni giorno ma questo è un altro discorso – no, anzi lo stesso… –; tutto questo per mostrare – non dimostrare! – l’amplissima gamma del paradigma comportamentale olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale che può generarsi dal vario rapportarsi dell’uomo con l’ambiente fisico-culturale, e come sia difficile – anzi impossibile – tagliare col coltello i vari aspetti della suddetto). L’uomo cioè, a differenza degli attuali computer e anche di quelli prossimi venturi, computer quantistici compresi, che dai computer realizzati non tenendo conto della fisica quantistica si differenziano per la mostruosa capacità computazionale ma sono assolutamente identici ai computer classici per quanto riguarda una autonoma attività creativa (su cui, fra l’altro, ritorneremo nel prosieguo della presente comunicazione) ha sempre storicamente mostrato di potersi comportare dialetticamente e con estrema libertà creativa rispetto alle sfide ambientali e le ultime acquisizioni  della Sintesi evoluzionistica estesa, dell’ epigenetica e della  teoria endosimbiotica  suggeriscono che anche nell’evoluzione degli organismi e delle loro relative popolazioni le cose siano andate analogamente a come l’uomo si comporta davanti alla sfide storiche, culturali e  naturali  che gli si parano di fronte. Così come nell’uomo, anche nel resto del mondo vivente l’unico schema che agisce è il paradigma dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale (e anche del non vivente aggiungiamo: come già affermato nella presente comunicazione), dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico la legge fisica di natura non è altro che la provvisoria ed illusoria cristallizzazione di una vicenda storico-naturale dove il vero ed unico agente è il paradigma ontogenetico e creatore ex nihilo dell’azione dialettico-espressiva-conflittuale strategica) che, come abbiamo già qui affermato, si muove in una sempre cangiante e totalizzante dimensione storica e che quindi, oltre che per la sua natura espressiva che lo pone all’antitesi di qualsiasi schema meccanico, fosse solo per questa dimensione storica originante una linea di azione assolutamente imprevedibile e assolutamente non meccanica (dimensione storica in sé antimeccanica perché impossibile distinguervi causa ed effetto per il semplice fatto che 1) l’effetto, cioè uno stato originato da un certo stato  precedente, la causa,  modifica a sua volta la causa stessa – schema di azione e reazione che apparentemente potrebbe  essere risolto col termine di feedback se non fosse che, e ciò è evidente in biologia ma accade anche nella meccanica quantistica dove spesso, l’effetto previene la causa ancor prima che questa si manifesti, vedi esperimento della doppia fenditura dove le particelle, in seguito alla loro emissione, si dispongono impattando su uno schermo con uno schema ondulatorio se non osservate ma se, osservate successivamente alla loro emissione, lo schema di impatto sullo schermo è corpuscolare e caotico, con tanti saluti al meccanico paradigma temporale del post hoc ergo propter hoc ed introducendoci nell’ambito di una teleologica dialettizzante causalità (in particolare, sull’inversione dello schema causa → effetto vedi infra nota n° 16); ma ancor più importante che 2) la c.d. causa storica, è in realtà veramente una causa sui generis perché è di tutta evidenza che la sua individuazione e definizione è frutto della del tutto umana ipostatizzazione legata al post hoc ergo propter hoc, perché, in realtà, il suo manifestarsi  all’umana sensibilità dipende  della totalità storica e come la cultura dell’uomo e/o dello storico si pone – sovente errando – rispetto a questa totalità , totalità storica dove, al di là dello schema dialettico espressivo-strategico-conflittuale da noi proposto, risulta particolarmente inane lo schema di causalità legato al  post hoc ergo propter hoc. Sul fatto poi che tutte le cause, anche quelle delle scienze fisico-biologiche, rispondano ad una legalità dialettica e non meccanica, abbiamo appena già detto ma vedi anche infra nota n° 15). E detto ciò potremmo per il momento riporre il gene egoista. Se non fosse che non possiamo mancare di dare un’occhiata, anche se solo di sfuggita, al Teorema di incompletezza di Gödel (formulato da Kurt Friedrich Gödel nel 1931), il quale teorema afferma che non esiste alcun sistema formale in cui tutte le proposizioni di questo sistema possano essere dimostrate all’interno del sistema stesso. Con questo teorema veniva così rasa al suolo la speranza del matematico David Hilbert «che nel 1928, in un congresso internazionale di matematica a Bologna, aveva lanciato una sfida alla comunità dei matematici: escogitare una macchina logica che potesse dimostrare tutte le verità matematiche e, nello stesso tempo, dimostrare che il ragionamento matematico è affidabile. L’autocoerenza del sistema è fondamentale: se il sistema è incoerente, allora è possibile dimostrare sia la verità sia la falsità della stessa proposizione.» (Brunella Schettino, Avete mai sentito parlare di Kurt Gödel? (Genio sull’orlo di un abisso), Corso SICA 2006/2007, p. 11, URL presso il quale è stata presa visione del documento  http://people.na.infn.it/~murano/Abilitanti/Brunella%20Schettino%20-%20Godel.pdf, Wayback Machine:  https://web.archive.org/web/20191103082203/http://people.na.infn.it/~murano/Abilitanti/Brunella%20Schettino%20-%20Godel.pdf). Infine, nel 1935 Alan Turing sulla scorta del Teorema di Gödel confermerà l’impossibilità di costruire una macchina computazionale che possa decidere sulla verità o falsità di tutti i problemi matematici, per il semplice fatto che vi sono problemi matematici non risolvibili entro un numero finito di passaggi, cioè entro un algoritmo, e dato che le macchine computazionali, cioè quelle macchine che oggi chiamiamo computer, operano solo su algoritmi, questi problemi sono assolutamente impermeabili alla pur grandissima (ma non  infinita) potenza di calcolo del computer. Sulla scorta dei risultati di Gödel e del padre dei moderni computer Alan Touring, ci si potrebbe allora  limitare a dire che la mente umana è superiore al computer perché a differenza di questo possiede  una capacità intuitiva del tutto estranea al computer che procede solo attraverso  finiti algoritmi. Vero ma troppo poco. A meno che non si voglia far ricadere tutto i nostri ragionamenti in schemi vitalistici alla Bergson, dove l’uomo possederebbe, parafrasando l’ élan vital che rese celebre la dottrina del filosofo francese, una sorta di élan intellectuel irraggiungibile da tutti gli altri viventi e tantomeno dalle macchine computazionali o in schemi spiritualistico-evoluzionistici alla Teilhard de Chardin, dove l’uomo con le sue uniche capacità formatesi nel corso dell’evoluzione è il passaggio ineludibile per giungere al momento ultimo e più alto dell’evoluzione del Cosmo, per giungere cioè a quello che Teilhard chiama Punto Omega, che però, sempre per Teilhard non è un’astratta situazione  del nostro Universo, magari dove prevale lo spirito, ma si realizza attraverso la concreta figura di Cristo che richiama entro sé tutto il Cosmo (insomma Punto Omega che si risolve nella fine del Mondo, non proprio l’Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico…), né tantomeno degradare lo schema dialettico del Repubblicanesimo Geopolitico in una sorta di rozzo e risibile pragmatismo dove, in buona sostanza,  si afferma che – sulla scorta di un semplificato paradigma strategico-conflittuale, e quindi lasciando perdere il versante dialettico-espressivo del paradigma del Repubblicanesimo Geopolitico – l’uomo, pur più debole dal punto di vista computazionale alla macchina, è comunque a questa superiore perché l’uomo, nel caso intuisca una minaccia proveniente dalla macchina, può d’emblée e senza tanti ragionamenti o soppesando vari e complessi algoritmi spegnerla con successo mentre il contrario non è possibile (bella scoperta!, ma le scoperte del pragmatismo, tutte basate sulla divinizzazione del concetto di successo, ignorando il rapporto dialettico fra soggetto e oggetto sono tutte di questo tenore), bisogna allora  semanticamente ‘despiritualizzare’ (ed anche ‘dematerializzare’, ovviamente) il termine  ‘intuito’ ed inserirlo in un solido e realistico quadro di riferimento ontologico-epistemologico. E seguendo questa traccia possiamo così rimettere con i piedi per terra l’area filosofico-semantica del termine   ‘intuito’ affermando che con esso  non  si deve definire  altro che  l’estrinsecazione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale dell’aspetto mentale  (sebbene molto spesso ingenuamente appesantita attraverso errate Weltanschauung materialistiche e spiritualistiche  di  valenze psicologico-psicologistiche e/o spiritualistico-spirituali o animistiche tout court: materialismo e spiritualismo: due facce della stessa medaglia antidialettica) di tutte le infinite espressioni della totalità nel loro rispecchiamento dialettico, ontogenetico, attivo e creativo, con tutte le altre manifestazioni di questa totalità e con la totalità espressiva stessa (non stiamo parlando delle passive monadi leibniziane né del rispecchiamento di leniniana memoria, entrambi caratterizzati da profonda ed antidialettica passività nel rapporto fra soggetto ed oggetto; meno il rispecchiamento leniniano di Materialismo ed empiriocriticismo per la verità, il cui telos era colpire l’ancor più antidialettico machismo ma purtroppo lo fece sulla scorta degli engelsiani  Dialettica della natura ed Anti-Dühring), un attivo rispecchiamento creatore ex nihilo, ontogenetico, ontologico ed  epistemologico che si svolge attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale di cui abbiamo già detto ma di cui   anche l’etimo di intuire, il latino intuère, che significa guardare dentro, guardare con attenzione, ci aiuta nella  presente sottolineatura della valenza attiva del suo significato  a ripristinare o a formulare ex novo le potenzialità filosofiche e dialetticamente attive del temine stesso, come nel caso della nostra discussione sulle  macchine computazionali di intuito  appunto totalmente sfornite. Non è affatto detto che in futuro un dispositivo costruito dall’uomo non  possa attivamente incorporare dentro di sé la dialettica storicità che connota  tutti i viventi. Al momento né è solo il risultato passivo, alla stessa stregua di un martello o di un orologio, oggetti  sì immersi e frutto  della storicità ma che sono in grado di dare contributi all’olistica storicità solo attraverso una parte di questa storicità che, invece, riesce a sua volta ad incarnarla ed esprimerla dialetticamente ed attivamente, cioè l’uomo. E a questo punto siamo anche in grado di accettare intuitivamente anche il gene “egoista” di Dawkins, perché intuiamo che il termine ‘egoismo’ – misto di rappresentazione ideologica ma anche realtà nell’umana esperienza di tutti i giorni – rientra senza difficoltà in un paradigma dialettico-storico espressivo-strategico-conflittuale e accomiatandoci definitivamente dal Selfish Gene di Dawkins esponiamo l’unico ed esclusivo principio logico della  dialettica espressivo-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolico: dove il primo principio della logica aristotelica, il principio di identità, afferma che A=A il principio di non identità ontogenetico  e creatore ex nihiloma sarebbe ancora meglio dire ex suo – del Repubblicanesimo Geopolitico afferma che A A≠A A≠A ≠ A≠A A≠A ≠ A≠A≠ A≠A ≠ A≠A↔… ∞↔∞≠∞. Un tipico caso di problema irrisolvibile per un computer, ma forse di non impossibile comprensione per quegli esseri egoistici – anzi molto egoistici ma anche molto dialettici ed intuitivi solo che ci si impegni un po’ – che siamo noi.  

 

[Le successive 12 note e la sezione bibliografica verrano pubblicate nelle prossime quattro tranche del presente saggio.]

 

il giorno dopo il responso_con Gianfranco Campa

La certificazione della vittoria di Biden al Congresso e soprattutto l’epilogo della manifestazione di Washington segna con buona probabilità il tramonto di Donald Trump. Vedremo quanto a questo tramonto seguirà la vendetta. Non sarà di sicuro la fine del suo movimento, anche se incerta rimane la direzione che intraprenderà_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vcjhqa-il-giorno-dopo-il-responso-con-gianfranco-campa.html

https://rumble.com/vcjhqa-il-giorno-dopo-il-responso-con-gianfranco-campa.html

la trappola…e il tramonto di un Presidente, di Giuseppe Germinario

Ieri, 6 gennaio, era il giorno annunciato; il punto di svolta di cinque anni di scontro politico negli Stati Uniti. Questo punto di svolta non è stato l’assemblea riunita del Congresso Americano che doveva certificare e che oggi 7 gennaio ha certificato l’elezione del nuovo presidente. È stata invece la manifestazione e la sua conduzione; soprattutto l’obbiettivo politico strategico che ha, meglio avrebbe dovuto informare e guidare quella iniziativa così impegnativa.

Due punti fermi:

  • il vicepresidente Pence aveva la facoltà di rinviare la certificazione del voto negli stati contestati a quegli stati stessi; entro due mesi questi ultimi avrebbero dovuto decidere entro due mesi se confermare o meno il responso

  • gli indizi che l’elezione di Biden sia il frutto di un broglio elettorale in quantità industriale sono pesantissimi. In Italia, ovviamente, non disponiamo delle prove come spesso e volentieri ci viene rimproverato strumentalmente; quelle sono in possesso dei manipolatori e del collegio di avvocati che ha contestato quelle modalità di svolgimento. Del resto Trump era stato avvertito con dovizia di particolari sin da giugno scorso di quello che si stava tramando

La manifestazione a Washington avrebbe dovuto essere uno straordinario momento di pressione e delegittimazione di una classe dirigente e di un ceto decadente e fatiscente al quale è legato con un cordone ombelicale una classe dirigente europea altrettanto fatiscente. Si è rivelata una trappola tanto tragica quanto scontata, almeno per chi ha esperienza di queste cose.

È molto probabile che, con l’assenza di un dissuasivo apparato di sicurezza appena sufficiente, si sia incentivata ed istigata la parte più radicale e irrazionale di quel movimento e di quella manifestazione; è certo però che quel movimento soffre di una carenza di guida e di strategia, di obbiettivi politici di fondo chiari che apre varchi enormi a quelle componenti irrazionali e sterilmente radicali che in più occasioni, sin dagli albori, avevano rivelato il loro cieco anarchismo. Non è un caso che il gruppo che aveva concepito e portato al successo la prima candidatura di Trump, valutando tra l’altro questo, si era immediatamente sciolto al momento dell’insediamento di “the Donald”. È quindi in quel movimento e in quella manifestazione, in chi la ha condotta che risiede la responsabilità politica di questo epilogo, compreso l’incredibile invito esplicito del Presidente ai manifestanti di raggiungere la sede del Congresso.

Questo epilogo rappresenta molto probabilmente la fine della carriera politica di Donald Trump; molto probabilmente rappresenterà la fine civile tragica del personaggio, se non a prezzo, ma non è detto che sia sufficiente, di un umiliante ritorno a Canossa, molto più degradante di quello subito ed accettato da Berlusconi. Osservando il personaggio, un epilogo quest’ultimo improbabile.

L’epilogo cruciale della manifestazione è avvenuto nel momento di una sconfitta tattica pesante, la conferma dell’elezione di Biden, ma di una situazione strategica abbastanza favorevole al movimento di Trump. Le elezioni avevano rivelato il radicamento del movimento in territori pregiudizialmente ostici sino a pochi anni fa; in comunità etniche, comprese la nera, sino ad ora appannaggio e riserva elettorale e di consenso esclusiva dei democratici; in ceti sociali sino a qualche anno fa inaccessibili al richiamo del partito repubblicano. Per raggiungere questo risultato Trump è stato capace di rivoluzionare quel partito senza però aver avuto la capacità ed il tempo di sostituire sufficientemente ed adeguatamente il suo gruppo dirigente.

Il punto di forza di questo movimento è stato ed è ancora il suo patriottismo e il nazionalismo. Due virtù che prevedevano una riconsiderazione della politica internazionale, una avversione al globalismo o quantomeno alle sue modalità di esercizio e il tentativo di ricostruire una formazione sociale più coesa ed economicamente più equilibrata.

Due virtù che però hanno guardato al passato remoto degli Stati Uniti, alla sua costituzione originaria varata da George Washington nel ‘700.

Non è, storicamente, una novità. Spesso i movimenti rivoluzionari e di trasformazione si sono attaccati al passato sotto una veste apparentemente reazionaria e conservatrice che comprendeva in essa contenuti programmatici adeguati alle esigenze di rinnovamento e alle trasformazioni in corso.

Questo movimento e i suoi gruppi dirigenti così approssimativi hanno una particolare difficoltà a coniugare questi aspetti.

La situazione degli Stati Uniti è particolarmente precaria e difficile: i competitori nello scacchiere geopolitico si stanno moltiplicando e stanno mettendo in discussione dall’interno il circuito costruito in questi ultimi quarant’anni. Un circuito, associato all’ideologia neocon e politicamente corretta strette in un paradossale sodalizio, che ha accelerato i processi interni a quel paese di polarizzazione geografica, di frammentazione ed isolamento etnici agli antipodi dell’ideale originario di “melting pot”, di degrado di intere aree geografiche e metropolitane, di scomposizione e degrado di ceti medi tipici di una fase regressiva.

Una situazione che avrebbe dovuto ancor di più spingere le menti di quel movimento a pazientare, a tessere con maggior convinzione una trama che accentuasse ulteriormente l’erosione della base sociale democratica e neocon, che tentasse un dialogo almeno larvato con le espressioni politiche dissenzienti di quella area ormai sempre più riottosa, a dispetto dell’opportunismo e del trasformismo dei suoi capi, a cominciare da Sanders e Cortez, ad accettare le logiche di appartenenza ad un partito contrapposto artificialmente all’altro.

Sull’onda dell’euforia del momento Trump e chi per lui ha scelto una strada diversa, a cominciare dalla polemica sulla natura socialista di quelle forze avverse, quando in realtà si trattava di una natura egualitaria, per altro per alcuni settori specifici della società (studenti, emarginati) che tuttalpiù sfociava facilmente in forme di assistenzialismo. Per non parlare della connotazione religiosa e messianica offerta per altri aspetti dello scontro politico. Una strada comprensibile, per le caratteristiche intrinseche del proprio movimento e per i limiti ancor più gravi dei suoi leader, ma non giustificabile, specie in una fase nella quale stanno emergendo tutte le contraddizioni che stanno mettendo a rischio la coesione e l’esistenza dello stesso partito democratico americano.

A questo si è aggiunta una ingenuità inspiegabile per un leader che ha conosciuto quattro anni di scontro politico della virulenza vissuta da Donald Trump; quello di aver fondato le aspettative di rivalsa prevalentemente su una azione legale, per quanto fondata giuridicamente, quando in realtà si tratta di uno scontro politico talmente esistenziale da coinvolgere apparati di potere ben più pervasivi, potenti ed operativi nel loro intreccio di legami.

Tutti limiti che rischiano di trasformare un movimento fondato su principi di unità nazionale e di patriottismo ostentato in un movimento in fase di ripiego disposto ad accettare e promuovere ipotesi di secessione dagli esiti tragici per se stesso e per il paese nella sua unitarietà.

Viene in particolare alla luce il limite di fondo di rappresentazione della realtà che sta guidando un movimento per altro ancora così eterogeneo e frammentato. Una rappresentazione che raffigura il conflitto insanabile tra un basso, la base popolare e produttiva ed un alto, raffigurato in un establishment arroccato, chiuso ed autoreferenziale. Quell’establishment sta scivolando sicuramente lungo questo declivio; ma è appunto un processo tutt’altro che compiuto o in fase di esaurimento. Dispone ancora del controllo pressoché totale dei centri di comando degli apparati coercitivi ed amministrativi, anche se meno nella loro base esecutiva; e una disarticolazione, un indebolimento e una sostituzione di quei centri è una parte fondamentale dell’azione politica, specie quella più “riservata”. Dispone per altro ancora di una discreta capacità di aggregazione di una parte significativa della base sociale e soprattutto del controllo maggioritario dei settori tecnologici più avanzati e delle prospettive di futuro che, nel bene e nel male, questi possono offrire.

Sta di fatto che gli Stati Uniti sono una nazione politicamente divisa in due e socialmente polarizzata sia verticalmente che orizzontalmente; una frammentazione sociale che rischia di portare ad una frammentazione politica.

Il successo di un movimento politico così alternativo non può prescindere da una azione di erosione in quei tre ambiti sucitati e dal superamento di una fase e concezione spontaneistica che induce a sottovalutare l’importanza della formazione di gruppo dirigente politico, di una élite adeguati.

Il successo più o meno pianificato della trappola dell’assalto al Campidoglio richiederà molto probabilmente il sacrificio, probabilmente tragico, di un leader; porrà certamente il movimento e i nuovi leader che la fucina del conflitto sta facendo emergere di fronte ad un bivio non più eludibile. Dalla strada che sapranno o saranno indotti a prendere dipenderà la natura e la modalità di svolgimento di un conflitto particolarmente virulento e destabilizzante, tutt’altro però che sopito e messo a tacere. Ne vedremo sicuramente delle belle, anche tragicamente belle, non solo lì, ma anche nelle implicazioni più contorte, anche qui, nel nostro paese così provincialotto e perennemente in attesa delle decisioni altrui.

1 124 125 126 127 128 176