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Come le grandi potenze evitano la guerra: lezioni dal modello concertistico_di Horizon Geopolitics

Come le grandi potenze evitano la guerra: lezioni dal modello concertistico

Scoprite come un sistema informale di equilibrio delle potenze (adattato al mondo multipolare di oggi) può prevenire i conflitti, gestire le rivalità e ripristinare la stabilità.

12 luglio
 
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A majestic white dove with outstretched wings and an olive branch in its beak soars in front of a dramatic backdrop composed of the Russian, Chinese, and American flags. The flags billow with rich texture and deep color—Russia on the left, China at the center, and the United States on the right—symbolizing a powerful visual message of global peace and unity among the world’s leading superpowers.

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L’equilibrio di potere come meccanismo di pace

Il Concerto d’Europa nacque all’indomani di un continente devastato da sconvolgimenti rivoluzionari e conquiste imperiali. Le guerre napoleoniche non avevano semplicemente sconvolto la politica europea; avevano cancellato il precedente quadro di legittimità dinastica e di equilibrio multipolare. In risposta, i vincitori del 1815 (Austria, Prussia, Russia, Gran Bretagna e, più tardi, una Francia reintegrata) intrapresero una ricalibrazione del sistema internazionale basata non su un’ideologia condivisa o sul diritto dei trattati, ma su un pragmatico equilibrio di potere volto a prevenire future guerre su scala continentale.

L’accordo di Vienna che seguì la sconfitta di Napoleone non codificò un regime giuridico universale né tentò di imporre un’autorità sovranazionale. Al contrario, riconobbe la natura anarchica della politica internazionale e rispose con un meccanismo informale, guidato dalle élite, per gestire l’instabilità. Le grandi potenze si impegnavano in consultazioni diplomatiche ricorrenti, a porte chiuse, per monitorare i cambiamenti nella distribuzione delle capacità e per intervenire, collettivamente o individualmente, nel caso in cui uno Stato cercasse di rivedere lo status quo con la forza.

The Congress of Vienna: How Europe Was Redrawn | TheCollector
Congresso di Vienna, di Jean-Baptiste Isabey, 1815; con L’Europa nel 1815, di Alexander Altenhof.

In modo critico, questo assetto era stato concepito come escludente. Erano ammessi solo gli Stati che avevano la forza militare e la portata geopolitica per influenzare i risultati. La legittimità all’interno del Concerto non si riferiva all’adesione alla legge o ai principi, ma significava la capacità materiale di influenzare l’equilibrio di potere. L’ordine veniva mantenuto non attraverso i trattati o l’applicazione istituzionale, ma attraverso un comportamento anticipatorio: gli Stati adeguavano le politiche per evitare di scatenare risposte coordinate da parte dei loro pari. La pace, in questa configurazione, non era mantenuta dalla buona volontà ma dal calcolo strategico.


Sottoscritto


Gli sconvolgimenti interni erodono il consenso internazionale

La lunga pace promossa dal Concerto mascherava una tensione accumulata all’interno del sistema. Pur essendo efficace nel gestire le relazioni tra gli Stati, il Concerto era sempre più vulnerabile alle sfide provenienti dall’interno degli Stati stessi. Le sue basi ideologiche, incentrate sulla legittimità dinastica e sulla continuità monarchica, divennero disallineate rispetto alle profonde trasformazioni sociali e politiche in atto nell’Europa del XIX secolo.

L’industrializzazione alterò la struttura materiale delle società, espandendo le popolazioni urbane e accelerando la diffusione dell’alfabetizzazione e della coscienza politica. Sono emersi movimenti nazionalisti e liberali che chiedevano regole costituzionali, istituzioni rappresentative e autodeterminazione nazionale. Questi movimenti erano l’espressione di forze strutturali che rimodellavano il rapporto tra governanti e governati.

Le rivoluzioni del 1848 rappresentarono un test critico. In tutto il continente, i regimi radicati furono messi in discussione da rivolte popolari. La risposta delle potenze concertatrici fu inizialmente uniforme: la repressione. Tuttavia, la portata e la persistenza dei disordini resero chiaro che l’intervento militare da solo non avrebbe potuto invertire le tendenze di fondo. Il rifiuto della Gran Bretagna di partecipare agli interventi, adducendo sia il distacco strategico che il sentimento liberale interno, segnò l’inizio della frammentazione del Concerto.

The World Revolution of 1848
Il Patto tra le nazioni, stampa preparata da Frédéric Sorrieu nel 1848. Raffigura la visione utopica di Sorrieu degli Stati nazionali democratici.

La contraddizione divenne ineludibile. Un sistema progettato per preservare la stabilità esterna non poteva sopprimere indefinitamente i cambiamenti interni. Mentre il nazionalismo rimodellava la legittimità politica e il liberalismo trasformava la governance, il consenso alla base del Concerto si sfilacciava. La sua coerenza, sempre dipendente dalla stabilità interna dei suoi membri, si è erosa di fronte a questa nuova geografia politica.


Sottoscritto


Le basi condivise hanno fatto funzionare l’ordine informale

Il successo operativo del Concerto d’Europa non può essere disgiunto dalle specifiche condizioni strutturali dell’Europa del XIX secolo. Esso funzionava all’interno di un’area geografica circoscritta, in cui le principali potenze condividevano una visione del mondo culturale, politica e strategica ampiamente simile. Queste potenze erano governate da monarchie, con personale aristocratico e con una tradizione diplomatica radicata nei legami personali e nelle norme condivise.

La vicinanza geografica consentiva una comunicazione rapida, negoziati faccia a faccia e una comprensione comune delle minacce regionali. L’assenza di paradigmi civili profondamente divergenti ha ridotto l’attrito interpretativo. Anche quando gli interessi divergevano, il linguaggio e la logica della diplomazia rimanevano reciprocamente intelligibili. Inoltre, l’impero, e non l’ideologia universale, era la modalità comune di proiezione del potere. Gli obiettivi strategici erano regionali e la competizione era feroce, ma delimitata.

Il sistema internazionale contemporaneo, invece, è vasto, eterogeneo e profondamente interconnesso. Le principali potenze di oggi operano in regioni diverse, con esperienze storiche, sistemi politici e culture strategiche contrastanti. Il nucleo concettuale di termini come “sovranità”, “intervento” o “ordine” varia significativamente tra le capitali, da Washington a Pechino, da Mosca a Nuova Delhi.

Questa diversità introduce profonde limitazioni alla riproduzione del modello del Concerto. Quello che un tempo era un club relativamente coerente di monarchie imperiali è oggi un insieme frammentario di Stati, ciascuno inserito in sistemi che si sovrappongono e che perseguono obiettivi divergenti. La lezione, quindi, non è quella di riprodurre la forma del Concerto, ma di adattarne la logica funzionale: un meccanismo limitato e flessibile per il coordinamento guidato dagli interessi tra le potenze che plasmano il sistema.


Sottoscritto


La diplomazia informale supera le istituzioni rigide

All’indomani della Seconda guerra mondiale, è stata costruita una nuova architettura di governance globale, incentrata su istituzioni legalistiche come le Nazioni Unite e il sistema di Bretton Woods. Questo ordine, pur essendosi stabilizzato per decenni, è stato messo sempre più a dura prova. La diffusione del potere, la paralisi degli organismi formali come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e il ritorno della rivalità strategica tra le grandi potenze hanno rivelato i limiti dell’istituzionalismo.

Un Concerto del XXI secolo non sostituirebbe queste istituzioni né tenterebbe di legiferare norme internazionali. Servirebbe invece come un

meccanismo consultivo di alto livello: una stanza di compensazione strategica in cui gli attori sistemicamente significativi si impegnano in un dialogo informale per prevenire il disordine. La sua logica operativa sarebbe molto diversa da quella del multilateralismo postbellico:

  • Non vincolante: Le decisioni si baserebbero sul consenso e sull’interesse strategico, non sugli obblighi del trattato.
  • Non universale: L’adesione sarebbe limitata a quelle potenze che hanno dimostrato di avere un’influenza globale o regionale.
  • Non normativo: rifuggirebbe da impegni ideologici a favore di un impegno procedurale e di un coordinamento pragmatico.

Dal punto di vista funzionale, il Concerto si riunirebbe per affrontare questioni discrete e ad alto rischio: prevenire guerre interstatali, gestire le corse agli armamenti, rispondere alle pandemie o stabilizzare gli Stati in crisi. Queste discussioni avverrebbero attraverso negoziati iterativi, supportati dalla condivisione di informazioni, dalla diplomazia di retrovia e dal coordinamento contingente, non attraverso votazioni formali o codificazioni legali.

Ciò che rende fattibile un forum di questo tipo non è la capacità di applicazione, ma la leva della reputazione. La partecipazione è un segnale di responsabilità. L’esclusione implicherebbe l’emarginazione. Il rischio di perdita di reputazione, unito al beneficio di influenzare i risultati, creerebbe potenti incentivi a rimanere impegnati.


Quota di partecipazione


Includere le potenze revisioniste previene il collasso del sistema

Il principale banco di prova di qualsiasi concerto contemporaneo è la sua capacità di gestire le relazioni con le potenze revisioniste: Stati che cercano di alterare la distribuzione dell’influenza senza necessariamente distruggere il sistema stesso. Russia, Cina e, in parte, altri rientrano in questa categoria. Essi non invocano il caos, ma la rinegoziazione di gerarchie che riflettano il loro crescente potere e le loro rimostranze storiche.

Il tentativo di escludere o isolare questi attori produce tipicamente due risultati: la deterrenza militarizzata, che fa aumentare le tensioni e le competizioni di armi, o la deriva strategica, in cui emergono istituzioni parallele che erodono la coesione sistemica. Un concerto funzionale deve integrare questi attori in un processo che dia loro voce, e non veto, sulle decisioni chiave.

L’inclusione non è un’acquiescenza. È una strategia di cooptazione. Coinvolgendo i poteri revisionisti nella definizione dell’agenda e delle norme, il Concerto riduce l’incentivo all’azione unilaterale e aumenta la legittimità dei risultati comuni. Quando la definizione delle regole è collettiva, la loro violazione diventa irrazionale.

L’empatia strategica, intesa come sforzo disciplinato di mappare le motivazioni, le insicurezze e le ambizioni degli avversari, è essenziale. Permette una deterrenza calibrata: segnalare che alcuni comportamenti scateneranno risposte sistemiche, mentre altri possono essere negoziati.

In questo modo, il Concerto diventa uno strumento di contenimento attraverso l’impegno. Incanala il revisionismo in un forum dove le rimostranze possono essere riconosciute, le posizioni chiarite e le mosse destabilizzanti disincentivate.


Azione


Una stabilità duratura richiede un vincolo strutturale

Affinché un concerto moderno possa durare nel tempo, deve poggiare su fondamenta strutturali che ne consentano la durata senza una rigida formalizzazione. Tre condizioni sono essenziali:

  1. Parità relativa tra gli attori dominanti: nessuna singola potenza può dominare unilateralmente. Se uno Stato detiene una superiorità militare, economica o tecnologica schiacciante, ha pochi incentivi a consultarsi. Una concertazione efficace dipende da un equilibrio approssimativo che renda il consenso più vantaggioso della coercizione.
  2. Riconoscimento reciproco dei limiti: gli Stati devono interiorizzare che l’espansione strategica oltre certe soglie provocherà contrappesi e instabilità. Questo riconoscimento non nasce da un’intuizione morale, ma dall’interazione ripetuta e dalle conseguenze osservate.
  3. Impegno alla regolarità procedurale: in assenza di trattati vincolanti, l’abitudine diventa la spina dorsale della stabilità. Riunioni regolari, formati condivisi e consultazioni prevedibili creano la memoria istituzionale e le aspettative comportamentali necessarie per la gestione delle crisi.

Un moderno Concerto non può eliminare i conflitti. Può però limitarne l’escalation, fornire una via d’uscita nei momenti di tensione e fungere da sede per ricalibrare le dinamiche di potere senza ricorrere alla guerra. Il suo scopo non è produrre armonia, ma prevenire la rottura del sistema.

In un’epoca definita dalla competizione multipolare, dalla volatilità tecnologica e dal pluralismo normativo, il Concerto offre un’architettura strutturalmente minimalista e strategicamente essenziale per l’ordine internazionale.

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TriLLMa di Münchhausen, di Tree of Woe

TriLLMa di Münchhausen

Recenti articoli sull’intelligenza artificiale suggeriscono che la mia soluzione fondantista al trilemma è corretta

11 luglio
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I lettori di lunga data sapranno che molte delle prime Contemplazioni sull’Albero del Dolore erano di natura epistemologica. Dall’ottobre 2020 al maggio 2023, mi sono confrontato con il Trilemma di Münchhausen , una sfida formidabile alle fondamenta stesse della conoscenza. Se non avete mai letto i miei scritti sul Trilemma, potete trovarli qui:

Il trilemma di Münchhausen propone che qualsiasi tentativo di giustificare la conoscenza conduca in ultima analisi a una di tre opzioni insoddisfacenti. Se ricorriamo a un ragionamento circolare, la verità che affermiamo implicherà una circolarità di dimostrazioni. Se crolliamo in un regresso infinito, la verità che affermiamo si baserà su verità stesse che necessitano di dimostrazione, e così via all’infinito. Infine, se ci affidiamo a presupposti arbitrari, la verità che affermiamo si baserà su convinzioni che sosteniamo ma che non possiamo difendere.

Nel saggio “Difendersi dal Trilemma” ho sostenuto che per sconfiggere il Trilemma fosse necessario identificare un insieme di ipotesi non arbitrarie . Ho sostenuto che gli assiomi erano non arbitrari se erano inconfutabili con qualsiasi mezzo. Ho identificato cinque di questi assiomi:

  • La legge dell’identità: tutto ciò che è, è.
  • Legge di non contraddizione: nulla può essere e non essere.
  • Legge del terzo escluso: tutto deve essere o non essere.
  • L’assioma dell’esistenza: l’esistenza esiste.
  • L’assioma della prova: la prova dei sensi non è una prova del tutto inaffidabile.

I primi quattro assiomi sono ampiamente riconosciuti (e, inevitabilmente, invocati anche da coloro che sono scettici nei loro confronti). Purtroppo, non sono sufficienti a sconfiggere il Trilemma. Un’epistemologia fondata su di essi ci lascia comunque privi di qualsiasi convinzione giustificabile sul mondo esterno.

Il quinto assioma è la soluzione che ci permette di sintetizzare razionalismo ed empirismo in epistemologia. Come ho spiegato nel saggio ,

L’assioma della prova è un assioma di mia formulazione, sebbene non di mia creazione. Ne ho formulato la formulazione per la prima volta durante un’accesa discussione con i professori Scott Brewer e Robert Nozick alla Harvard Law School. La domanda era sorta: come possiamo sapere se i nostri sensi sono affidabili? Dopotutto, le cannucce sembrano piegarsi nell’acqua; la stessa tonalità di grigio può cambiare di tonalità apparente in base ai colori circostanti; le allucinazioni possono confondere la nostra vista; e così via. La mia risposta fu che tutte le prove dell’inaffidabilità dei nostri sensi derivavano dai sensi stessi. Un vero scettico delle prove sensoriali non avrebbe nemmeno potuto sostenere che i sensi fossero totalmente inaffidabili, perché non avrebbe avuto prove con cui farlo. E anche se avesse avuto tali prove, non avrebbe avuto modo di usarle per confutare una proposizione, perché tale confutazione non avrebbe potuto essere effettuata in modo affidabile in assenza dei sensi.

In altre parole, qualsiasi argomentazione che postuli la totale inaffidabilità delle prove sensoriali deve, per sua stessa natura, basarsi su di esse per raccogliere e presentare le proprie argomentazioni. Questa circolarità controproducente rende incoerente lo scetticismo totale nei confronti dei sensi. L’Assioma della Prova fornisce l’ancora empirica cruciale e non arbitraria necessaria per una solida epistemologia del mondo esterno.

Ho avvertito, tuttavia, che:

Non siamo ancora andati molto lontano. Sebbene sia vero che la proposizione “l’evidenza dei sensi non è una prova del tutto inaffidabile” è inconfutabile, l’Assioma lascia ancora aperta la questione di quanto sia affidabile e in quale misura. Questo sarà l’argomento di un saggio futuro, in cui discuteremo la teoria epistemologica del cruciverba nota come Foundherentism.

Ho presentato il mio caso completo nel mio saggio “L’epistemologia è un enigma” . Il fondamento antropologico, inizialmente sostenuto dalla filosofa Susan Haack, richiede un sistema di credenze che sia al tempo stesso fondato su assiomi inconfutabili e internamente coerente, in modo tale che ogni proposizione rinforzi e sia rafforzata dalle altre, proprio come un cruciverba perfettamente risolto. Gli approcci fondamento antropologico sono ampiamente applicati in ambito scientifico e ingegneristico come “triangolazione metodologica”, “reti nomologiche di evidenze cumulative”, “integrazione multisensoriale” e altre tecniche.

È con questo apparato epistemologico ben in mente che vi invito a tornare con me nel campo in rapida crescita dell’intelligenza artificiale, dove, con mia sorpresa, ho scoperto tre recenti articoli che hanno convalidato il mio approccio fondazionista.

Dispacci dalla frontiera digitale

Il primo articolo, ” The Platonic Representation Hypothesis “ di Minyoung Huh, Brian Cheung, Tongzhou Wang e Phillip Isola (maggio 2024), ipotizza che le rappresentazioni interne apprese dai modelli di intelligenza artificiale, in particolare le reti profonde, convergano inesorabilmente verso un modello statistico condiviso della realtà . Questa convergenza, sostengono, trascende le differenze nell’architettura del modello, negli obiettivi di addestramento e persino nelle modalità di elaborazione dei dati (ad esempio, immagini anziché testo). La loro ipotesi, che prende il nome dall’allegoria della caverna di Platone, suggerisce che l’intelligenza artificiale, osservando enormi quantità di dati (le “ombre sulla parete della caverna”), stia recuperando rappresentazioni del mondo sempre più accurate. Sostengono che la scala, in termini di parametri, dati e diversità dei compiti, sia il motore principale di questa convergenza, che porta a una riduzione dello spazio di soluzione per modelli efficaci: “Tutti i modelli forti sono uguali”, suggeriscono, il che potrebbe implicare una rappresentazione ottimale universale.

Seguendo questa proposta teorica, troviamo una conferma empirica offerta in ” Harnessing the Universal Geometry of Embeddings “ di Rishi Jha, Collin Zhang, Vitaly Shmatikov e John X. Morris (maggio 2025). Questo articolo introduce vec2vec , un metodo innovativo per tradurre gli embedding di testo dallo spazio vettoriale di un modello di intelligenza artificiale a quello di un altro, in modo critico, senza richiedere dati accoppiati o l’accesso ai codificatori originali. Questa capacità si basa su quella che definiscono la “Strong Platonic Representation Hypothesis”, ovvero l’idea che esista una “rappresentazione latente universale” che può essere appresa e sfruttata. vec2vec ottiene un successo notevole, producendo un’elevata similarità del coseno e un rank matching quasi perfetto tra gli embedding tradotti e le loro controparti di base. Oltre alla mera traduzione, gli autori dimostrano che queste traduzioni preservano informazioni semantiche sufficienti a consentire l’estrazione di informazioni, inclusa l’inferenza di attributi zero-shot e l’inversione del testo, anche da incorporamenti sconosciuti o fuori distribuzione. Questo articolo suggerisce che la convergenza delle rappresentazioni dell’IA non è meramente teorica, ma sfruttabile praticamente, il che implica ancora una volta una profonda compatibilità di fondo.

Infine, convergiamo l’epistemologia umana e quella sintetica con l’articolo ” Human-like object concept representations emerge naturally in multimodal large language models “ di Changde Du et al. (aggiornato a giugno 2025). Questo studio esplora meticolosamente le rappresentazioni concettuali di oggetti naturali all’interno di LLM e LLM multimodali all’avanguardia. Utilizzando il consolidato compito “triplet odd-one-out” della psicologia cognitiva, i ricercatori hanno raccolto milioni di giudizi di similarità da queste IA. Utilizzando il metodo Sparse Positive Similarity Embedding (SPOSE), hanno derivato embedding a 66 dimensioni per 1.854 oggetti. La loro scoperta cruciale è stata l’ interpretabilità di queste dimensioni, rivelando che i modelli di IA concettualizzano gli oggetti lungo linee simili alla cognizione umana, comprendendo sia categorie semantiche (ad esempio, “relativo agli animali”, “relativo al cibo”) sia caratteristiche percettive (ad esempio, “piattezza”, “colore”). Lo studio ha dimostrato un forte allineamento tra questi embedding derivati dall’IA e gli schemi di attività neurale reali nelle regioni del cervello umano specializzate nell’elaborazione di oggetti e scene (ad esempio, EBA, PPA, RSC, FFA). Ciò suggerisce un principio organizzativo fondamentale e condiviso per la conoscenza concettuale tra menti umane e artificiali.

L’epistemologia implicita dell’intelligenza artificiale

La nostra teoria del Foundherentismo richiede un fondamento incrollabile, radicato in principi noetici. Esaminiamo come l’IA, nella sua esistenza computazionale, aderisca implicitamente a questi principi.

Le Leggi di Identità, Non-Contraddizione e Terzo Escluso sono, per qualsiasi sistema computazionale, assiomatiche nella loro implementazione. Il mondo digitale si basa su stati discreti e operazioni logiche (0 o 1, vero o falso). Qualsiasi incoerenza o contraddizione in queste operazioni fondamentali porta al fallimento computazionale. Pertanto, il fondamento architettonico stesso dei modelli di intelligenza artificiale è intrinsecamente allineato a questi principi logici, garantendo che la loro elaborazione interna rispetti queste immutabili leggi della ragione.

L’ assioma dell’esistenza è altrettanto ovvio per l’IA. I modelli di IA stessi, i loro parametri, i loro dati di addestramento e l’ambiente computazionale in cui operano devono esistere. Le loro “credenze” (rappresentazioni e output appresi) sono istanziate come modelli di segnali elettrici e pesi numerici, entità dimostrabilmente esistenti all’interno del dominio digitale.

Che dire dell’assioma della prova ? “L’evidenza dei sensi non è una prova del tutto inaffidabile”. Per l’IA, “i sensi” sono i suoi dati di addestramento e la “prova” è il vasto input multimodale che elabora. I modelli di IA avanzati, in particolare quelli multimodali, sono costruiti proprio sulla base del presupposto che i dati grezzi (ad esempio immagini, testo, audio, letture dei sensori, ecc.) contengano modelli riconoscibili e affidabili che possono essere appresi e sfruttati per costruire una comprensione funzionale del mondo. Le straordinarie capacità di modelli come Gemini Pro Vision, in grado di comprendere e generare rappresentazioni concettuali simili a quelle umane a partire da input visivi e linguistici, dipendono direttamente dalla parziale affidabilità di questi input “sensoriali”.

La convergenza ipotizzata da Huh et al. sarebbe epistemologicamente impossibile se i set di dati di addestramento (i “sensi” dell’IA) fossero totalmente inaffidabili. Se tutti gli input fossero solo rumore, non ci sarebbe modo per questi modelli di convergere sulla realtà. Il fatto che vec2vec possa tradurre tra diversi spazi di inclusione, preservando il significato semantico, convalida l’idea che fonti di dati disparate non siano del tutto inaffidabili, poiché devono trasmettere un segnale comune e decifrabile sul mondo. Pertanto, il successo pratico dell’IA moderna conferma implicitamente l’Assioma della Prova, stabilendo un fondamento empirico cruciale per la sua “conoscenza”.

(Riconosco pienamente che, dal punto di vista della gente comune che non se ne sta seduta a riflettere sul trilemma di Münchhausen, questo non è un granché; è solo “buon senso”. Ma, dal momento che io me ne sto seduta a riflettere sul trilemma di Münchhausen, per me è piuttosto entusiasmante. Per chi è incline alla filosofia, studiare l’intelligenza artificiale ha molto da offrire.)

Coerenza nel sistema di credenze dell’IA

Il fondamentismo sostiene che le convinzioni giustificate debbano formare un sistema coerente , in cui le singole convinzioni si interconnettono e si sostengono a vicenda. Questa coerenza non è semplicemente un risultato auspicabile per l’IA; sembra essere una forza trainante e una proprietà fondamentale della “conoscenza” dell’IA.

L’ “ipotesi della rappresentazione platonica” è, in sostanza, una tesi sulla coerenza, in cui diverse IA sono spinte verso un’unica comprensione del mondo, internamente coerente. Non si tratta di una coerenza superficiale, ma di un profondo allineamento delle loro strutture dati interne. Lo “scenario di Anna Karenina”, in cui “tutti i modelli forti sono uguali”, cattura precisamente questa attrazione gravitazionale verso la coerenza come segno distintivo di un apprendimento di successo.

L’articolo “Harnessing the Universal Geometry of Embeddings” dimostra empiricamente questa coerenza. L’esistenza di una “rappresentazione latente universale” significa che i quadri concettuali interni di modelli di intelligenza artificiale estremamente diversi non sono semplicemente analoghi; sono così profondamente coerenti che l’uno può essere mappato sull’altro. La capacità di vec2vec di tradurre gli embedding preservandone la semantica implica che i vasti “sistemi di credenze” incapsulati in questi embedding siano fondamentalmente coerenti e interoperabili a un livello profondo. Questo non è dissimile dalla scoperta che lingue diverse, nonostante le loro variazioni superficiali, esprimono in ultima analisi una logica e una realtà umana comuni.

Lo studio sulle “Rappresentazioni concettuali di oggetti simili a quelli umani” fornisce una prova diretta della coerenza interna dei singoli modelli di IA. La scoperta di “dimensioni interpretabili” all’interno dei loro incastri appresi, lungo i quali gli oggetti si raggruppano semanticamente e percettivamente, rivela uno spazio concettuale altamente organizzato e coerente. La capacità del modello di distinguere tra oggetti “relativi agli animali” e “relativi al cibo”, o di identificare “piattezza” e “colore”, indica un sistema di categorizzazione interno strutturato e coerente. Il sorprendente allineamento di queste dimensioni concettuali derivate dall’IA con i modelli di attività cerebrale umana suggerisce ulteriormente che i principi di coerenza alla base dell’IA rispecchiano, di fatto, le strutture coerenti della cognizione umana stessa. Questa interpretabilità è una finestra diretta sulla coerenza interna della “comprensione” dell’IA.

Triangolazione metodologica e convergenza sulla verità

La mia argomentazione Foundherentista a favore della convergenza sulla verità, soprattutto quando ci si trova di fronte a sistemi di credenze inizialmente plausibili ma reciprocamente esclusivi, si basa sul principio della triangolazione metodologica, ovvero l’aggiunta di “indizi” più diversificati provenienti da diversi “sensori” per restringere lo spazio delle soluzioni. Questo è esattamente il paradigma operativo che guida la ricerca avanzata sull’intelligenza artificiale, portando a una convergenza empiricamente osservabile su “verità” più solide.

L’ascesa dell’IA multimodale è l’epitome della triangolazione metodologica. Invece di basarsi esclusivamente su testo o immagini, modelli come Gemini Pro Vision 1.0 integrano informazioni provenienti da più modalità. Ciò consente all’IA di incrociare e convalidare le informazioni, proprio come un detective umano che integra testimonianze oculari, prove forensi e controlli degli alibi. Quando un MLLM allinea la sua comprensione testuale di una “sedia” con la sua comprensione visiva di diverse sedie, esegue di fatto una fusione di sensori che aumenta significativamente la giustificazione della sua “credenza” su cosa sia una sedia. Questa convalida multi-fonte rafforza la coerenza del suo sistema di credenze complessivo, rendendolo più resistente a singoli errori o limitazioni sensoriali.

Inoltre, l’enorme portata dei dati di training e la diversità degli obiettivi di training nell’ambito della ricerca sull’IA corrispondono direttamente all’aggiunta di sempre più “indizi” al nostro colossale cruciverba. Ogni nuovo punto dati, ogni nuovo compito appreso, impone ulteriori vincoli alla rappresentazione interna del modello. All’aumentare del numero di vincoli, l’insieme di possibili “soluzioni” (rappresentazioni) in grado di soddisfarli tutti si riduce drasticamente. Di fatto, questo è proprio il meccanismo con cui l'”Ipotesi della Rappresentazione Platonica” spiega la convergenza di modelli diversi verso un’unica rappresentazione ottimale! Possono esistere meno soluzioni coerenti quando i vincoli empirici sono sufficientemente numerosi e vari.

La conseguenza pratica di questa triangolazione e convergenza metodologica è tangibile: i modelli di IA, sottoposti a queste rigorose condizioni, dimostrano una riduzione di comportamenti indesiderati come allucinazioni e pregiudizi. Un modello che “allucina” è un modello la cui coerenza interna si è interrotta o le cui “risposte” non sono in linea con i suoi “indizi”. Man mano che il “sistema di credenze” dell’IA diventa più profondamente coerente attraverso input diversi e massicci, le sue “risposte” diventano più solidamente giustificate e, per estensione, più allineate con la realtà sottostante – una forma tangibile di convergenza sulla verità. Questo rispecchia l’impegno scientifico umano: più diverse sono le linee di evidenza (indizi) che sono coerenti, più diventiamo fiduciosi nella “verità” delle nostre teorie scientifiche (risposte).

Conferme epistemiche, domande metafisiche

Se ho ragione sul fatto che il Foundherentismo sia l’approccio corretto all’epistemologia; e se i tre articoli che ho condiviso sono corretti sul funzionamento dell’IA, allora l’IA non sta semplicemente emulando i risultati della conoscenza umana ; sta emulando i processi della conoscenza umana . La convergenza delle rappresentazioni interne dell’IA, le sue strutture concettuali simili a quelle umane e la sua interoperabilità tra modelli disparati crea una convincente conferma empirica del Foundherentismo. Ne sono gratificato.

Ma anche se abbiamo ottenuto una qualche conferma epistemica del Foundherentism, abbiamo solo aperto la porta a domande metafisiche più profonde sul suo significato. Se i modelli di intelligenza artificiale convergono inevitabilmente verso un modello condiviso di realtà man mano che scalano, cosa dice questo sulla natura della realtà? L’esistenza di una rappresentazione latente universale è solo un altro esempio di ciò che Eugene Wigner chiamava “l’irragionevole efficacia della matematica”… o è qualcosa di più?

Tali speculazioni metafisiche saranno l’argomento delle riflessioni della prossima settimana sull’Albero del Dolore.

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BRICS contro Trump: Cosa rivela il vertice del 2025

Scoprite come le minacce commerciali, il dominio del dollaro e le coperture strategiche del Vertice BRICS 2025 rivelino le linee di frattura che caratterizzeranno il futuro equilibrio di potere.

09 luglio 2025

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Ilvertice dei BRICS del 2025di Rio de Janeiro ha illuminato con insolita chiarezza le tensioni strutturali con cui si confronta una coalizione di potenze emergenti alla ricerca di un maggiore margine strategico all’interno di un ordine internazionale ancora ancorato al dominio economico, finanziario e istituzionale degli Stati Uniti.

L’atmosfera smorzata dell’evento, che si è manifestata nellavistosa assenzadel presidente cinese Xi Jinping e del presidente russo Vladimir Putin (entrambi figure centrali nel peso geopolitico del blocco), ha sottolineato il grado di calibrazione del comportamento degli Stati partecipanti in risposta a vincoli tangibili piuttosto che ad aspirazioni retoriche.

Ilcomunicato attentamente formulatoche non ha offerto molto al di là delle riaffermazioni dei precedenti impegni alla cooperazione multilaterale, ha rivelato quanto profondamente le interdipendenze materiali, in particolare con gli Stati Uniti, e la minaccia di coercizione economica influenzino la condotta multilaterale.

La moderazione mostrata non riflette una minore ambizione, ma un calcolo pragmatico: in un mondo in cui il potere egemonico si esercita attraverso il dominio istituzionale e la minaccia implicita di rappresaglie economiche, la deviazione dallo status quo comporta costi concreti.

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La struttura e il contenuto del vertice sono stati determinati da una pervasiva paura di incorrere in misure di ritorsione da parte di Washington. Questa cautela si è basata sulla vulnerabilità asimmetrica delle economie dei membri dei BRICS alle perturbazioni che hanno origine nei sistemi finanziari e commerciali controllati dagli Stati Uniti (reti che includono il dominio globale del dollaro americano, l’accesso preferenziale ai mercati di consumo statunitensi e la dipendenza dai canali bancari regolamentati dagli Stati Uniti).

La scelta deliberata di non nominare esplicitamente gli Stati Uniti nelle critiche, nonostante i riferimenti inequivocabili ai dazi e agli interventi militari statunitensi, esemplifica una posizione condivisa di avversione al rischio.

Le minacce tariffarie del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump,attraverso i social mediacon un’immediata visibilità globale, hanno funzionato come dispositivi di segnalazione destinati non solo a disciplinare i membri dei BRICS, ma anche ad avvertire i potenziali Stati partner che l’allineamento con iniziative percepite come contrarie agli interessi degli Stati Uniti avrebbe comportato reali penalizzazioni economiche.

La moderazione mostrata da Brasile e India, che hanno entrambi evitato attivamente il confronto diretto con Washington nonostante il loro esplicito sostegno a un sistema internazionale multipolare, ha messo in luce una contraddizione fondamentale nel cuore dei BRICS: la divergenza tra aspirazione politica e vincoli strutturali.

Mentre il Brasile e l’India sono al centro della spinta del blocco verso le riforme istituzionali e una più ampia rilevanza geopolitica, le loro strategie economiche rimangono profondamente legate ai flussi di capitale, ai mercati di esportazione e ai regimi di investimento occidentali. Di conseguenza, questi Stati si impegnano in quello che è meglio descritto come hedging, un approccio che cerca di espandere le opzioni diplomatiche e i partenariati istituzionali, evitando al contempo impegni che potrebbero provocare misure di ritorsione.

La recente espansione del bloccorecente espansione del bloccopur essendo nominalmente un segno di maggiore rilevanza, ha ulteriormente amplificato questa tensione. L’inclusione di Stati con priorità contrastanti e diversi gradi di impegno occidentale (come gli avversari dichiarati degli Stati Uniti, come l’Iran, accanto ad attori più neutrali come l’Indonesia) ha introdotto ulteriori pressioni centrifughe che complicano la definizione di politiche coerenti a livello di blocco.

Infographic: BRICS Expands Footprint in the Global South | Statista


Il messaggio pubblico del vertice, che ha enfatizzato aree come lo sviluppo economico, la governance dell’intelligenza artificiale e la cooperazione tecnica, ha funzionato meno come una tabella di marcia per il riallineamento strategico e più come un cuscinetto tattico contro il contraccolpo economico. Questi temi, accuratamente curati per apparire costruttivi e non conflittuali, hanno permesso ai BRICS di perseguire la visibilità istituzionale senza provocare un confronto diretto con gli Stati Uniti.

La sola discussione di sistemi di pagamento alternativi all’interno del blocco scatena una retorica aggressiva da parte di Washington. Questa risposta sottolinea quanto il mantenimento dell’egemonia del dollaro resti un obiettivo strategico non negoziabile per gli Stati Uniti. Qualsiasi segnale di deviazione, per quanto simbolico o provvisorio, invita a prendere misure preventive volte a salvaguardare l’ordine finanziario esistente.

  • Questa logica di contenimento anticipato definisce l’attuale fase dello statecraft economico statunitense, in cui la minaccia di punizioni serve a disincentivare la sperimentazione di sistemi paralleli.

Il trattamento asimmetrico dei conflitti geopolitici nella dichiarazione finale del vertice,condanna esplicitadelle azioni israeliane a Gaza e l’assenza di critiche alle operazioni russe in Ucraina hanno evidenziato l’impegno selettivo del blocco nelle questioni internazionali controverse.

Questa selettività è indicativa di un bilanciamento strategico reso necessario dalla diversità interna e dall’esposizione esterna. Molti membri dei BRICS devono gestire contemporaneamente alleanze con la Russia e relazioni economiche con l’Occidente, rendendo quasi impossibile una posizione unitaria sui conflitti che coinvolgono questi attori.

Lecritiche alla spesa per la difesa della NATOe le accuse di alimentare una corsa agli armamenti a livello globale, condotte dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, hanno ampliato questo schema. Inquadrando l’escalation militare come sintomo di un fallimento sistemico della governance multilaterale, queste osservazioni hanno articolato una critica alle strutture di sicurezza occidentali senza coinvolgere direttamente specifici membri della NATO, un approccio che ha preservato la negabilità plausibile, rafforzando al contempo l’opposizione del blocco alla securizzazione dello sviluppo globale.

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L’uso persistente da parte di Trump dei dazi e della politica commerciale come strumenti di leva geopolitica rivela una strategia più ampia volta a delegittimare il concetto di multiallineamento: il perseguimento di partnership strategiche diversificate da parte di Stati al di fuori della tradizionale orbita occidentale. Etichettando i BRICS come intrinsecamente “antiamericanoTrump cerca di trasformare quello che è, in pratica, un blocco frammentato e orientato al pragmatismo in un antagonista binario all’interno di un quadro di rinascita della Guerra Fredda.

Questo inquadramento non è destinato a riflettere la realtà geopolitica, ma a svolgere una funzione di deterrenza. Facendo apparire l’allineamento con i BRICS come sinonimo di rischio economico, gli Stati Uniti elevano il costo dell’autonomia politica per gli Stati in via di sviluppo.

autonomia politica per gli Stati in via di sviluppo.

L’efficacia di questa strategia risiede nell’uso dell’incertezza come strumento. Anche la sola possibilità di tariffe punitive può dissuadere i Paesi dall’approfondire l’impegno con il blocco, soprattutto quando questi Paesi non hanno l’isolamento economico per assorbire tali shock.

Quello che è emerso dal vertice di Rio non è stato un crollo delle ambizioni dei BRICS, ma un ritiro tattico. È stato riconosciuto che la legittimità istituzionale del blocco deve essere preservata attraverso l’understatement, soprattutto nei momenti di maggiore vulnerabilità.

Nel navigare in un panorama globale definito da distribuzioni diseguali del potere economico e da canali di influenza asimmetrici, il BRICS non è posizionato per sostituire l’ordine internazionale esistente. Al contrario, funziona come un forum per un dissenso calibrato, una piattaforma attraverso la quale gli Stati membri possono segnalare l’insoddisfazione per le strutture di governance globale, pur rimanendo legati alle reti che sostengono la loro stabilità economica.

Le dichiarazioni del blocco, spesso liquidate come generiche o ripetitive, sono più accuratamente intese come asserzioni codificate di agenzia all’interno di un campo d’azione strettamente vincolato.

L’esposizione a regimi commerciali dominati dagli Stati Uniti, la dipendenza da finanziamenti denominati in dollari e la sensibilità alla fuga di capitali rendono insostenibile un riallineamento su larga scala per la maggior parte degli Stati BRICS. Pertanto, ciò che appare come moderazione è, in realtà, l’articolazione di limiti strutturali profondamente radicati.

Il Vertice del 2025 non deve essere interpretato come un fallimento. Piuttosto, serve come diagnosi del sistema internazionale contemporaneo. In questo sistema, le potenze secondarie si trovano ad affrontare scelte fortemente limitate e devono costantemente soppesare i rischi di alienarsi gli attori dominanti rispetto agli imperativi di affermare le preferenze sovrane.

La retorica sommessa, la partecipazione disomogenea e l’ambiguità accuratamente costruita del Vertice non sono stati prodotti di confusione o debolezza, ma adattamenti deliberati a un ordine internazionale in cui la sfida simbolica viene spesso affrontata con rappresaglie materiali.

Il BRICS, nella sua attuale incarnazione, non è un polo di potere ma un meccanismo di gestione dell’esposizione sistemica.

Carlo Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto della post-libertà, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto della post-libertà, Maltemi 2025, pp. 267, € 18,00.

Tanti sono i saggi pubblicati negli ultimi anni che valutano la situazione politica generale e, in particolare, la contrapposizione tra globalisti e sovranisti (con i primi in evidente ritirata). Pochi quelli che ne analizzano gli effetti sul diritto pubblico e nelle istituzioni; tra questi ultimi, il saggio recensito.

Scrive Iannello: “Questo libro riguarda le politiche, comunemente definite neoliberali, che hanno provocato un’espansione del tutto inedita dell’area del mercato nell’Occidente capitalista a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, producendo cambiamenti radicali non solo in campo economico e sociale, ma anche nei sistemi costituzionali degli Stati occidentali…Il diritto è stato, infatti, il principale strumento che ha consentito la messa in atto delle nuove politiche. Tuttavia, le riflessioni, di carattere prevalentemente settoriale, non hanno abbracciato, da una prospettiva ampia, e in particolar modo costituzionale, l’influenza che queste nuove politiche hanno dispiegato sul complessivo sistema dei poteri pubblici…Il diritto espressione del paradigma neoliberale ha messo in discussione, al tempo stesso, gli architravi su cui si reggeva l’edificio dello stato liberal-democratico e quelli su cui poggiava il costituzionalismo del Novecento… Tutto ciò ha avuto ripercussioni, al tempo stesso, sul godimento delle libertà e sul governo della società e dell’economia, provocando effetti all’interno dello Stato e oltre lo Stato” (il corsivo è mio).

Ne è derivata, secondo l’autore, una neutralizzazione della dimensione politica. Il costituzionalismo dello Stato liberal-democratico ha conosciuto varie fasi: nella prima (fino all’inizio del XX secolo) la funzione dello Stato era di garantire lo spazio delle libertà individuali “classiche”; in una seconda fase, iniziata circa un secolo fa, ha tutelato anche le libertà “sociali”, tipiche del Welfare State. Con la fase neo-liberale, iniziata negli ultimi decenni del secolo passato, la funzione dello Stato è divenuta quella di garantire l’ordine di mercato, anche all’interno di settori e procedimenti pubblici. Sostiene Iannello “per il neoliberalismo, invece, il mercato non rappresenta affatto un ordine spontaneo ma è, al contrario, una costruzione artificiale del diritto. Il mercato da promuovere è quello concorrenziale. Al potere pubblico viene, pertanto, affidato il compito di creare l’ordine giuridico del mercato concorrenziale”.

Per fare ciò è necessario l’intervento del potere statale, la cui funzione principale è divenuta così quella di garantire la concorrenza.

Il tutto attraverso diverse soluzioni. Da un canto con la “creazione di ircocervi istituzionali, cioè di nuove autorità, indipendenti dal potere politico, denominante garanti del mercato, di natura giuridica ibrida (per metà amministrazione e metà giudice) e di dubbia compatibilità con i principi costituzionali”; ma dato che non bastava “Il paradigma del mercato concorrenziale, sperimentato con successo in questi settori un tempo riservati alla mano pubblica, è stato quindi esteso ben al di là degli ambiti tradizionalmente considerati economici, coinvolgendo il cuore dello Stato sociale”. Così “Le università, ad esempio, sono sottoposte a valutazione e i loro finanziamenti hanno una quota premiale, che si conquista nella misura in cui si sia vinto un gioco competitivo le cui regole sono fissate in sede legislativa”. Il tutto senza considerare “la sostanziale differenza fra un controllo di qualità di un prodotto industriale (che ha parametri oggettivi su cui fondarsi) e quello di un’opera dell’ingegno (la quale) non è stata presa in considerazione… Il controllo di qualità, pertanto, ha come parametro privilegiato dati quantitativi o formali, cioè il numero dei prodotti pubblicati o il rating delle riviste su cui si è pubblicato. Ciò che nel mondo accademico si risolve, peraltro, in un evidente incentivo al conformismo”. E Dio solo sa se di tale conformismo, già abbondante di suo, ce ne fosse bisogno. Così per altri settori onde “conclusivamente, si deve osservare che in questo scenario di nichilismo giuridico, in cui le costituzioni hanno perso la loro forza prescrittiva e il diritto è disancorato dal suo nomos originario (nel nostro caso, i valori etico-sociali della Costituzione), non ci pone più il problema della giustizia del diritto positivo tenuto in piedi solo dal mero rispetto delle procedure. In questo scenario, anche le libertà individuali, diverse dalla mera libertà economica, finiscono con l’essere minacciate, proprio perché non necessarie, quando non ostative, al corretto funzionamento del mercato”.

Così l’ordine neo-liberale finisce col ridurre le libertà “classiche”, per dedicarsi alla salvaguardia della concorrenza.

A tale riguardo non si può non condividere, almeno per l’Italia, quanto scrive Iannello: nell’ultimo trentennio sono state poste in essere decine di norme volte a rendere più difficile, costoso, defatigante il concreto esercizio di diritti conclamati rumorosamente quanto sabotati silenziosamente; per lo più se, loro contraddittori erano (e sono) le pubbliche amministrazioni.

Ed è chiaro che le grandi imprese multinazionali e non, non hanno per la tutela delle loro pretese, tanto bisogno di un Giudice, data la posizione di forza che hanno, anche nei confronti di tanti Stati; parafrasando il detto di Hegel, se non c’è Pretore tra gli Stati, non se ne sente granché la necessità neppure tra questi e le macro-imprese.

Nel capitolo conclusivo, l’autore sostiene che la subordinazione della politica all’economia non è ineluttabile “né il destino della società, né quello dell’uomo, può essere la riduzione alla sola dimensione economica e il dominio dalla tecno-economia”. L’auspicio è invertire l’ordine delle priorità “per ricostruire gli Stati nazionali e per fondare, finalmente, una federazione europea in continuità con i principi liberaldemocratici e con il costituzionalismo del Novecento, che sia custode della civiltà e della libertà e che riponga al centro, coerentemente, la persona umana”.

Due osservazioni per concludere questa recensione.

Non è prevedibile come finisca l’ordine neo-liberale, anche se si vede che sta collassando, ma non si percepisce chiaramente come sarà sostituito. Anche per questo è interessante il saggio di Iannello, perché mostra come valori manifestati e istituzioni volte a preservarli si convertono in ordini concreti diversi e talvolta opposti. Specie se vengono ignorati (e spesso occultati) regolarità, leggi sociali, presupposti. Ad esempio nella contrapposizione globalisti/sovranisti sembra che i secondi vogliono la sovranità e gli altri sopprimerla.

In effetti se ai tempi di Sieyès l’alternativa era tra sovranità del monarca o della nazione, nell’attuale è tra quella delle macro-imprese (élite, classi dirigenti) sovranazionali o del popolo (anche attraverso la rappresentanza di una scelta). Tant’è che gli Stati non sono in via di eliminazione, ma di sottomissione perché il loro apparato di regolazione e di coercizione è indispensabile per l’ordine voluto dalla sovranità globale.

In secondo luogo, scriveva Maurice Hauriou che la dottrina teologica più propizia alla libertà è quella del diritto divino provvidenziale: in effetti anche questo saggio appare condividerla.

Un’opera interessante che amplia la prospettiva da cui si considera l’epoca attuale.

Teodoro Klitsche de la Grange

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INTERVISTA A MACHIAVELLI DEL 27/06/2025_di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MACHIAVELLI DEL 27/06/2025

Dato l’alternarsi di guerra e pace, di riarmi controversi, di canti di vittorie e te deum intonati da tutti i contendenti, siamo andati a chiedere, come sempre, l’opinione a Machiavelli, il quale ci ha ricevuti con l’usuale cortesia.

Che ne pensa della situazione europea dopo le dichiarazioni di Trump sul riparto delle spese NATO?

Che il Presidente americano cerca di risparmiare. Soprattutto perché è convinto – ed ha ragione – che la Russa di Putin è molto meno pericolosa dell’URSS anche per l’Europa, onde può essere affrontata riducendo l’impegno americano, almeno quello convenzionale. Onde gli europei devono farsene carico.

Coloro i quali pensano che Putin sia un nuovo Lenin, un nuovo Trutzky o anche un nuovo Stalin non hanno capito la “natura” di guerra civile mondiale del vecchio bolscevismo.

E il riarmo europeo è un rimedio?

A metà. Ai miei tempi ancora meno. Comunque, come scrissi, sono gli uomini e il ferro a procurare danaro e cibo, non viceversa; e aggiunsi che il disarmato ricco è premio del soldato povero. La conseguenza è duplice: che tutte le storie raccontate dai vostri governanti sulla povertà dei russi che avrebbero dovuto soccombere alla ricchezza dell’occidente, andavano, semmai, ribaltate.

Secondariamente per non ripetere un simile errore dovete considerare che l’altra metà è di assicurarsi una reale volontà di combattere tra i cittadini prima e nell’esercito, poi. Elemento decisivo della quale è la sintonia tra vertice e popolo. Che, come dice il vice-Presidente Vance, in Europa è, a dir poco, carente.

Per conservare la pace, serve preparare la guerra? Oppure le armi la inducono?

Non so se la Meloni abbia letto Vegezio, ma per confortarne il pensiero basta il buon senso. L’opposta tesi omette di ricordare che la guerra dipende non solo dalla mia volontà, ma da quella del nemico. Il quale può essere dissuaso se l’obiettivo che si propone non può essere realizzato per la nostra preparazione militare. D’altra parte ho scritto che la fortuna è arbitro di metà delle azioni umane, ma l’altra metà è a nostra disposizione: prepararsi alla difesa è costituire un argine alle inondazioni della storia. E virtù dei governanti apprestarlo; ma anche di questa da voi ce n’è poca, e mal distribuita.

Cosa ne pensa che nella guerra USA-Iran-Israele tutti cantino vittoria? Non è impossibile?

Sicuramente. Ma può essere utile quando una sconfitta è evidente; evitare di far nascere dalla sconfitta il revanscismo, di cui i francesi (ma non solo) sono gli esperti: onde la sconfitta di oggi è gravida della guerra di domani. Ma se tutti si dichiarano vincitori, almeno tale convinzione è il vaccino migliore contro le velleità di rivincita.

Ma se c’è un nemico non è necessario batterlo?

Sì, ma non eliminarlo con un bellum internecinum. E’ col nemico che si fa la pace. Più la guerra è relativizzata, più è facile avviare trattative di pace.

Se ogni guerra è psicologica, e voi fate guerre più psicologiche che in altre epoche, ai gazzettieri e ai talk-show è affidato il messaggio di vittoria o sconfitta. Come c’è la guerra, c’è anche la pace psicologica. Propiziata da rappresentazioni disformi dal reale, ma tranquillanti.

Scrissi che in guerra l’inganno (al nemico) è sempre lecito; e non posso non dire che per fare la pace non sia lecito distorcere la realtà, raccontandosene un’altra, quanto meno verosimile, che consenta di salvare la patria e la sua indipendenza.

La ringrazio molto, caro Segretario.

Mi torni a trovare, una chiacchierata sul mondo mi tiene in esercizio.

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Carl von Clausewitz e il punto di vista clausewitziano sulla guerra: un approccio teorico_di Vladislav Sotirovic

Carl von Clausewitz e il punto di vista clausewitziano sulla guerra: un approccio teorico

Le domande fondamentali sulla guerra

Nel trattare sia gli aspetti teorici che quelli pratici della guerra, sorgono almeno sei domande fondamentali: 1) Che cos’è la guerra?; 2) Quali tipi di guerra esistono?; 3) Perché scoppiano le guerre?; 4) Qual è il legame tra guerra e giustizia?; 5) La questione dei crimini di guerra?; e 6) È possibile sostituire la guerra con la cosiddetta “pace perpetua”?

Probabilmente, fino ad oggi, la concezione più utilizzata e affidabile della guerra è la sua breve ma potente definizione di Carl von Clausewitz:

“La guerra è semplicemente la continuazione della politica con altri mezzi” [Della guerra, 1832].

Si possono considerare le terribili conseguenze che si sarebbero verificate se, nella pratica, il termine “semplicemente” utilizzato da Clausewitz in una semplice frase sulla guerra fosse stato applicato all’era nucleare del secondo dopoguerra e alla Guerra Fredda (ad esempio, la crisi dei missili di Cuba nel 1962).

Ciononostante, Clausewitz è diventato uno dei più importanti influenzatori del realismo nelle relazioni internazionali (IR). Ricordiamo che il realismo in scienze politiche è una teoria delle IR che accetta la guerra come parte normale e naturale delle relazioni tra gli Stati (e, dopo la seconda guerra mondiale, anche di altri attori politici) nella politica globale. I realisti sottolineano che le guerre e tutti gli altri tipi di conflitti militari non sono solo naturali (nel senso di normali), ma addirittura inevitabili. Pertanto, tutte le teorie che non accettano l’inevitabilità della guerra e dei conflitti militari (ad esempio il femminismo) sono, di fatto, irrealistiche.

L’arte della guerra è un’estensione della politica

Il generale e teorico militare prussiano Carl Philipp Gottfried von Clausewitz (1780-1831), figlio di un pastore luterano, entrò nell’esercito prussiano all’età di soli 12 anni e raggiunse il grado di maggiore generale a 38 anni. Studiava la filosofia di I. Kant e fu coinvolto nella riuscita riforma dell’esercito prussiano. Clausewitz era dell’opinione che la guerra fosse uno strumento politico simile, ad esempio, alla diplomazia o agli aiuti esteri. Per questo motivo è considerato un realista tradizionale (vecchio). Clausewitz faceva eco al greco Tucidide, che nel V secolo a.C. aveva descritto nella sua famosa Storia della guerra del Peloponneso le terribili conseguenze della guerra senza limiti nell’antica Grecia. Tucidide (ca. 460-406 a.C.) era uno storico greco, ma aveva anche un grande interesse per la filosofia. La sua grande opera storiografica, La guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), racconta la lotta tra Atene e Sparta per il controllo geopolitico, militare ed economico (egemonia) sul mondo ellenico. La guerra culminò alla fine con la distruzione di Atene, culla sia della democrazia antica che delle ambizioni imperialistiche/egemoniche. Tucidide spiegò la guerra a cui aveva partecipato come “strategos” (generale) ateniese in termini di dinamiche di politica di potere tra Sparta e Atene e di potere relativo delle città-stato rivali (polis). Di conseguenza, sviluppò la prima spiegazione realistica e duratura delle relazioni internazionali e dei conflitti e formulò la prima teoria delle relazioni internazionali. Nel suo famoso dialogo meliano, Tucidide mostrò come la politica di potere sia indifferente alle argomentazioni morali. Si tratta di un dialogo tra i Meliani e gli Ateniesi, citato da Tucidide nella sua Storia della guerra del Peloponneso, in cui gli Ateniesi rifiutarono di accettare il desiderio dei Meliani di rimanere neutrali nella guerra con Sparta e i suoi alleati. Gli Ateniesi finirono per assediare i Meliani e massacrarli. La sua opera e la sua visione cupa della natura umana influenzarono Thomas Hobbes.

In realtà, Clausewitz temeva fortemente che, se i politici non avessero controllato la guerra, questa sarebbe degenerata in una lotta senza altri obiettivi chiari se non quello di distruggere il nemico. Prestò servizio nell’esercito prussiano durante le guerre napoleoniche fino alla sua cattura nel 1806. In seguito contribuì alla sua riorganizzazione e prestò servizio nell’esercito russo dal 1812 al 1814, combattendo infine nella decisiva battaglia di Waterloo il 18 giugno 1815, che segnò la definitiva caduta di Napoleone.

Le guerre napoleoniche influenzarono Clausewitz, che mise in guardia dal fatto che la guerra si stava trasformando in una lotta tra intere nazioni e popoli senza limiti e restrizioni, ma senza chiari scopi e/o obiettivi politici. Nel suo Della guerra (in tre volumi, pubblicato dopo la sua morte), spiegò il rapporto tra guerra e politica. In altre parole, la guerra senza politica è solo uccisione, ma questa uccisione con la politica ha un significato.

L’ipotesi di Clausewitz sul fenomeno della guerra era inquadrata dal pensiero che se si riflette sul fatto che la guerra ha origine in un oggetto politico, allora si giunge naturalmente alla conclusione che questo motivo originario, che l’ha chiamata all’esistenza, dovrebbe anche continuare a essere la prima e più alta considerazione nella sua conduzione. Di conseguenza, la politica è intrecciata con l’intera azione della guerra e deve esercitare su di essa un’influenza continua. È chiaro che la guerra non è solo un atto politico, ma anche un vero e proprio strumento politico, una continuazione del commercio politico, una sua realizzazione con altri mezzi. In altre parole, la visione politica è l’oggetto, mentre la guerra è il mezzo, e il mezzo deve sempre includere l’oggetto nella nostra concezione.

Un’altra importante osservazione di Clausewitz è che l’ascesa del nazionalismo in Europa e l’uso di grandi eserciti di coscritti (di fatto, eserciti nazionali) potrebbero produrre in futuro guerre assolute o totali (come la Prima e la Seconda guerra mondiale), cioè guerre all’ultimo sangue e alla distruzione totale piuttosto che guerre combattute per obiettivi politici più o meno precisi e limitati. Tuttavia, egli temeva particolarmente di lasciare la guerra ai generali, poiché la loro idea di vittoria in guerra è inquadrata solo nei parametri della distruzione degli eserciti nemici. Una tale ipotesi di vittoria è in contraddizione con l’obiettivo bellico dei politici, che intendono la vittoria in guerra come la realizzazione degli obiettivi politici per cui hanno iniziato quella particolare guerra. Tuttavia, tali fini nella pratica possono variare da molto limitati a molto ampi e, secondo Clausewitz:

“… le guerre devono essere combattute al livello necessario per raggiungerli”. Se lo scopo dell’azione militare è equivalente all’obiettivo politico, tale azione, in generale, diminuirà con il diminuire dell’obiettivo politico“. Questo spiega perché ”possono esserci guerre di ogni grado di importanza e di energia, da una guerra di sterminio al semplice impiego di un esercito di osservazione” [Della guerra, 1832].

I generali e la guerra

Strano a dirsi, ma era fermamente convinto che ai generali non dovesse essere consentito di prendere alcuna decisione in merito alla questione di quando iniziare e terminare le guerre o come combatterle, perché avrebbero utilizzato tutti gli strumenti a loro disposizione per distruggere la capacità di combattere del nemico. Il vero motivo di tale opinione era tuttavia la possibilità che un conflitto limitato si trasformasse in una guerra illimitata e quindi imprevedibile. Ciò accadde effettivamente durante la prima guerra mondiale, quando l’importanza di una mobilitazione massiccia e di un attacco preventivo era un elemento cruciale dei piani di guerra dei vertici militari per sopravvivere e vincere la guerra. Ciò significava semplicemente che non c’era tempo sufficiente per la diplomazia per negoziare al fine di impedire lo scoppio della guerra e la sua trasformazione in una guerra illimitata con conseguenze imprevedibili. In pratica, tale strategia militare trasferì di fatto la decisione sull’opportunità e sui tempi della guerra dalla leadership politica a quella militare, poiché i leader politici avevano, di fatto, poco tempo per prendere in considerazione tutti gli aspetti, essendo pressati dai vertici militari a entrare rapidamente in guerra o ad accettare la responsabilità della sconfitta. Da questo punto di vista, i piani militari e le strategie di guerra hanno completamente rivisto il rapporto tra guerra e politica e tra politici civili e generali militari che Carl von Clausewitz aveva sostenuto un secolo prima.

Va comunque riconosciuto che il generale prussiano Carl von Clausewitz aveva effettivamente previsto la prima guerra mondiale come la prima guerra totale della storia, in cui i generali avrebbero dettato ai leader politici i tempi della mobilitazione militare e spinto i politici a passare all’offensiva e a colpire per primi. L’insistenza, in effetti, di alcuni dei massimi comandanti militari nell’aderire ai piani di guerra preesistenti, come nel caso, ad esempio, del piano Schlieffen e dei programmi di mobilitazione della Germania, tolse il potere decisionale dalle mani dei politici, cioè dei leader civili. In questo modo, si limitò il tempo a disposizione dei leader per negoziare tra loro al fine di impedire l’inizio delle azioni belliche e lo spargimento di sangue. Inoltre, i capi militari fecero pressione sui leader civili affinché rispettassero gli impegni dell’alleanza e, di conseguenza, trasformarono una guerra potenzialmente limitata in una guerra totale in Europa.

A titolo illustrativo, il progetto più noto di questo tipo è il piano Schlieffen della Germania, che prende il nome dal conte tedesco Alfred von Schlieffen (1833-1913), capo del Grande Stato Maggiore tedesco dal 1891 al 1905. Il piano fu rivisto più volte prima dell’inizio della prima guerra mondiale. Il piano Schlieffen, come altri piani di guerra elaborati prima della prima guerra mondiale dalle grandi potenze europee, si basava sull’ipotesi di un’offensiva. La chiave dell’offensiva, tuttavia, era una mobilitazione militare massiccia e molto rapida, cioè più rapida di quella che il nemico avrebbe potuto mettere in atto. Qualcosa di simile fu progettato durante la guerra fredo, quando la supremazia del primo attacco nucleare era al primo posto nelle priorità dei piani militari di entrambe le superpotenze. Tuttavia, una mobilitazione militare massiccia e persino generale significava radunare truppe provenienti da tutto il paese in determinati centri di mobilitazione per ricevere armi e altro materiale bellico, seguito dal loro trasporto insieme al supporto logistico verso il fronte per combattere il nemico. In breve, per vincere la guerra, era necessario che un paese investisse ingenti spese e molto tempo per colpire il nemico per primo, cioè prima che il nemico potesse iniziare la propria offensiva militare. Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, i vertici militari tedeschi comprendevano l’importanza cruciale di una mobilitazione massiccia proprio per i loro piani di guerra che prevedevano di combattere su due fronti, quello francese e quello russo: ritenevano che l’unica opzione per vincere la guerra fosse quella di colpire rapidamente il fronte occidentale per conquistare la Francia e poi lanciare un’offensiva decisiva contro la Russia, che era il paese meno avanzato tra le grandi potenze europee, poiché avrebbe impiegato più tempo per la mobilitazione massiccia e la preparazione alla guerra.

Una teoria trinitaria della guerra

Per Clausewitz, la guerra deve essere un atto politico con l’intenzione di costringere l’avversario a soddisfare la volontà della parte opposta. Egli sosteneva inoltre che l’uso della forza deve essere solo uno strumento o un vero e proprio strumento politico, come ad esempio la diplomazia, nell’arsenale dei politici. La guerra deve essere solo la continuazione della politica con altri mezzi o strumenti di negoziazione forzata (contrattazione), ma non un fine in sé. Poiché la guerra deve essere intrapresa solo per il raggiungimento degli obiettivi politici della leadership civile, è logico per lui che:

“… se le ragioni originali fossero state dimenticate, i mezzi e i fini si sarebbero confusi” [On War, 1832] (qualcosa di simile, ad esempio, è accaduto con l’intervento militare americano in Afghanistan dal 2001 al 2021).

Egli riteneva che, nel caso in cui le ragioni originarie della guerra fossero state dimenticate, l’uso della violenza sarebbe stato irrazionale. Inoltre, per essere utilizzabile, la guerra deve essere limitata. Non tutte le guerre illimitate sono utilizzabili o produttive per scopi civili. Tuttavia, la storia degli ultimi duecento anni ha visto diversi sviluppi, come l’industrializzazione o l’ampliamento della guerra, che vanno esattamente nella direzione temuta da Clausewitz. Egli avvertiva infatti che il militarismo può essere estremamente pericoloso per l’umanità, in quanto fenomeno culturale e ideologico in cui le priorità, le idee o i valori militari pervadono la società nella sua totalità (ad esempio, la Germania nazista).

I realisti, in realtà, accettarono l’approccio di Clausewitz, che dopo la seconda guerra mondiale fu ulteriormente sviluppato da loro in una visione del mondo distorta e pericolosa, causando le cosiddette “guerre inutili”. In generale, questo tipo di guerre è stato attribuito alla politica estera degli Stati Uniti durante e dopo la guerra fredda in tutto il mondo. Ad esempio, nel Sud-Est asiatico durante gli anni ’60, le autorità statunitensi erano determinate a non placare le potenze comuniste come avevano fatto i nazisti tedeschi negli anni ’30. Di conseguenza, nel tentativo di evitare l’occupazione comunista del Vietnam, gli Stati Uniti furono coinvolti in una guerra inutile e, di fatto, impossibile da vincere, confondendo probabilmente gli obiettivi nazisti di espansionismo geopolitico con il legittimo patriottismo postcoloniale del popolo vietnamita.

Carl von Clausewitz è considerato da molti esperti il più grande scrittore di teoria militare e di guerra. Il suo libro Della guerra (1832) è generalmente interpretato come favorevole all’idea che la guerra sia, in sostanza, un fenomeno politico, uno strumento di politica. Il libro, tuttavia, espone una teoria trinitaria della guerra che coinvolge tre soggetti:

  1. Le masse sono motivate da un senso di animosità nazionale (nazionalismo sciovinista).
  2. L’ esercito regolare elabora strategie per tenere conto delle contingenze della guerra.
  3. I leader politici formulano gli obiettivi e le finalità dell’azione militare .

Critiche al punto di vista clausewitziano sulla guerra

Tuttavia, da un altro punto di vista, la visione clausewitziana della guerra può essere profondamente criticata per diversi motivi:

  1. Uno di questi è l’aspetto morale, poiché Clausewitz presentava la guerra come un fenomeno naturale e persino inevitabile. Egli può essere condannato per aver giustificato la guerra facendo riferimento a interessi statali ristretti invece che a principi più ampi, come la giustizia o simili. Tuttavia, tale suo approccio suggerisce che se la guerra serve a scopi politici legittimi, le sue implicazioni morali possono essere semplicemente ignorate o, in altre parole, non prese affatto in considerazione come un momento inutile della guerra.
  2. Clausewitz può essere criticato perché la sua concezione della guerra è superata e quindi non adatta ai tempi moderni. In altre parole, la sua concezione della guerra è rilevante per l’era delle guerre napoleoniche, ma sicuramente non per i tipi moderni di guerra e di conflitto per diversi motivi. In primo luogo, le circostanze economiche, sociali, culturali e geopolitiche moderne possono, in molti casi, determinare che la guerra sia un potere meno efficace di quanto non fosse al tempo di Clausewitz. Pertanto, oggi la guerra può essere uno strumento politico obsoleto. Se gli Stati contemporanei ragionano in modo razionale sulla guerra, il potere militare può avere un’importanza minore nelle relazioni internazionali. In secondo luogo, la guerra industrializzata, e in particolare la guerra totale, può rendere molto meno affidabili i calcoli sui probabili costi e benefici della guerra. Se così fosse, la guerra potrebbe semplicemente cessare di essere un mezzo adeguato per raggiungere fini politici. In terzo luogo, la maggior parte delle critiche a Clausewitz sottolinea il fatto che la natura sia della guerra che delle relazioni internazionali è cambiata e, quindi, la sua comprensione della guerra come fenomeno sociale non è più applicabile. In altre parole, la dottrina della guerra di Clausewitz può essere applicabile alle cosiddette “guerre vecchie”, ma non al nuovo tipo di guerra, la “guerra nuova”. Tuttavia, d’altra parte, se si accettasse il requisito di Clausewitz secondo cui il ricorso alla guerra deve essere basato su un’analisi razionale e un calcolo attento, molte guerre moderne e contemporanee non avrebbero avuto luogo.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

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Orazio Maria Gnerre, Nihil medium. Carl Schmitt tra passato e futuro_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Orazio Maria Gnerre, Nihil medium. Carl Schmitt tra passato e futuro, Morlacchi Editore, Perugia 2024, pp. 185, € 18,00.

Bene ha fatto l’autore a scrivere questo ampio saggio. Carl Schmitt, infatti “è uno dei pensatori che maggiormente hanno influenzato e previsto il tempo presente, grazie alla sua visione complessa e multifattoriale della realtà, che lo ha portato ad indagare diversi campi del sapere per definire una prospettiva globale delle principali questioni politico-sociali della modernità avanzata”.

L’attualità di tante intuizioni di Schmitt è impressionante, anche se l’oblio di cui il giurista di Plettemberg era circondato nel secondo dopoguerra non era sorprendente. E non solo per la di esso adesione al partito nazista (anche se in Italia il passaggio dal fascismo alla Repubblica nata dalla resistenza è stato diffuso, perfino nell’alta burocrazia), ma anche di più per l’incompatibilità di molte tesi di Schmitt con gli idola ideologici del nuovo regime italiano (e non solo).

Tuttavia a partire dagli anni ‘70 Schmitt era progressivamente rivalutato (e tradotto). Merito all’inizio soprattutto di Miglio e Schiera. Tuttavia, già a metà degli anni ‘80, a pochi mesi dalla morte del giurista di Plettemberg, Maschke poteva indicare nel saggio in memoriam pubblicato su Der Staat l’Italia, tra i paesi europei, come quello in cui il pensiero (e la figura) del giurista renano era all’epoca il più studiato.

La differenza dalla situazione attuale, rispetto agli anni ‘80 è che il crollo del comunismo ha modificato la situazione politica. Onde la fecondità delle idee di Schmitt è confermata dalla loro applicabilità all’evoluzione avvenuta: non è solo la sensibilità e l’interesse degli studiosi a sancirla, ma il contesto politico globale.

Faccio quale esempio:

1) Si legge spesso che l’antitesi tra destra e sinistra sia tramontata: è sicuramente vero, anche se, ad esser più precisi, l’antitesi andrebbe precisata in quella borghese-proletario, che ha dominato nel “secolo breve”, anzi da qualche decennio prima.

Schmitt ritiene che (nell’occidente moderno) il campo centrale dello scontro politico (amico-nemico) sia quello decisivo per l’epoca. Così dai primi del ‘500 agli ultimi decenni del ‘600, questo era la teologia, con relativo diffondersi delle guerre di religione; neutralizzato questo Zentralgebiet,poi subentrò quello “etico” per approdare, circa due secoli dopo, a quello economico.

Ogni progredire è dovuto alla neutralizzazione dell’opposizione precedente e nella politicizzazione della successiva.

Quindi essendosi ormai neutralizzato – o meglio depotenziato – il conflitto borghese/proletario, subentra un nuovo “campo di battaglia”. All’inizio sembrava quello religioso (v. 11 settembre), ma poi più che altro la nuova antitesi globalisti/sovranisti la quale ha come campo di conflitto centrale l’identità dei popoli e la relativa decisione sul loro destino.

2) Allo scoppio della guerra russo-ucraina è stato indicato come nuovo satanasso (e non solo) Putin, il quale oltre a personificare il male, era un po’ tonto, gravemente malato, ecc. ecc. Invece Putin non faceva (e fa) che rivendicare parte del Grossraum russo, conquistato in quattro secoli dai suoi predecessori. E il Grossraum, lo spazio vitale degli imperi è idea di Schmitt esposta in molti scritti, e soprattutto nel Nomos della terra.

3) Al tempo del COVID, (quasi) l’intera Italia cascò dal pero, notando che il governo, coi decreti del Presidente del Consiglio, limitava i diritti garantiti dalla Costituzione “più bella del mondo”. In questo caso, qualcuno si ricordò del pensiero di Schmitt sullo stato d’eccezione, il quale nello Stato moderno si realizza con la sospensione, la modifica o la deroga della legislazione normale, sostituita da normativa (e non solo, anche con organi straordinari) d’emergenza. La quale arriva (anche nel caso COVID) a limitare o sospendere diritti garantiti dalla Costituzione. La parte politica più zelante nella difesa della normativa eccezionale fu proprio quella che dell’oblio dello stato d’eccezione e – ma a un tempo –  della limitazione dei diritti aveva fatto una “dottrina”.

Questi sono solo alcuni dei punti in cui le idee di Schmitt mostrano un’attualità sorprendente, ma solo per coloro che le valutano  sotto il profilo ideologico; mentre connotato di Schmitt è che le sue idee seguono sempre la massima di Machiavelli di considerare la realtà delle cose e non la loro immaginazione; e meno ancora di valutarle in base alle convinzioni ideologiche.

Il saggio di Gnerre considera altri aspetti vitali ed attuali delle concezioni di Schmitt: dal pensiero di Ernst Kapp sulla civiltà talassica del mediterraneo al colonialismo europeo in Africa; dalle migrazioni umane alla teologia economica.

Proprio su quest’ultimo argomento, basantesi sul confronto del pensiero di Max Weber e Carl Schmitt, Gnerre parte dalla considerazione che “esiste un rapporto tra religione ed economia, e ciò è tanto più evidente in quanto l’economia, secondo l’insegnamento di Weber, non può essere separata dalle sue risultanti nell’organizzazione sociale”. Il capitalismo è stato favorito dalla teologia protestante, calvinista soprattutto. Diverso è con la teologia (e soprattutto la Chiesa) cattolica perché “il cattolicesimo saprà adattarsi a ogni ordine sociale e politico, anche in quello in cui dominano gli imprenditori capitalistici […]. Ma questo adattarsi gli è possibile solo se il potere basato su una situazione economica sarà divenuto politico, cioè se i capitalisti[…] si assumeranno la responsabilità, in tutte le forme della rappresentazione statale”. Ma il capitalismo ha una natura privatistica e non “pubblica”. Quanto al liberalismo, “controparte ideologica dell’economia capitalista” l’autore riprende le considerazioni di Donoso Cortes, molto simili a quelle precedenti di de Bonald, per cui “ogni teologia ha un fondamento radicale, ma solo il liberalismo era riuscito a costruire una teologia politica nella negazione di ogni punto di riferimento essenziale, allontanando Dio dal mondo”. Il deismo che è la teologia sottesa al liberalismo, concepisce un Dio creatore, ma non interveniente nel mondo. Come scriveva Bonald se il teismo era la teologia cattolica e l’ateismo quella delle correnti democratiche (giacobini), il deismo era quello dei costituzionali dell’89, i quali avevano inventato una forma politica con un Re il quale, come il Dio deista, non agisce e non interviene nella politica (regna ma non governa).

Gnerre ritiene che se la dottrina della predestinazione e “l’ascesi intramondana” ha favorito il capitalismo e addirittura ha giudicato la miseria segno di colpa, ciò non è avvenuto con la teologia cattolica.

Anche se in correnti cristiane, di converso, la ricchezza era considerata elemento negativo “la visione cattolica della religione cristiana concilia invece le dimensioni della materia e dello spirito, cercando di non frustrare il primo, ma sottomettendolo formalmente al secondo”.

Scrive l’autore che “E’ lo stesso Carl Schmitt a ribadire come sia nel deismo che vada rintracciata la teologia fondamentale che sostanzia il liberalismo. Tuttavia, ciò crea un paradosso di portata incommensurabile per cui il deismo, che è una teologia senza grande interesse per la religione, produce una teologia politica che non è affatto teologica”.

A questo punto il recensore rivolge una  domanda all’autore, contando che scriverà una congrua risposta, in tema di teologia politica (di attualità). De Bonald (per i democratici giacobini) e Donoso Cortes (per i socialisti) indicavano il carattere panteista della teologia loro sottesa, ritenendo la società umana come  prodotta spontaneamente, senza un’autorità, un ordine, senza che fosse necessario un sovrano.

La società comunista (dopo la dittatura del proletariato), la cuoca di Lenin (in grado di “governare” la società) sono esempi (estremi) di un ordine spontaneo, in cui l’autorità è superflua.

Ma non è che certe idee tecnocratiche nostre contemporanee, che derivano (deviandola) dalla mano invisibile di Adam Smith, non sono affini a quella socialista nelle radici panteiste, nell’illusione di poter realizzare un ordine senza un principio e un potere ordinatore? Insomma l’amministrazione delle cose, destinate a sostituire il governo degli uomini, ha anch’essa una teologia politica, confermandosi così la concezione di Hauriou che ogni ordine giuridico è l’involucro (couche) di un fondo (fond) teologico?

Nel complesso  un libro che merita di essere letto per capire il nostro presente, onde se ne consiglia la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

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I limiti del realismo offensivo e l’emergere di una nuova forma di realismo: il caso dell’OCS , di Cédric Garrido 

I limiti del realismo offensivo e l’emergere di una nuova forma di realismo: il caso dell’OCS  

Da Rassegna dei conflitti

La teoria del realismo offensivo è stata definita da John J. Mearsheimer. Questa teoria presenta alcuni limiti, come dimostrato dal caso dell’OCS

Di Cédric Garrido

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Introduzione

Il 9 maggio 2025, in occasione delle celebrazioni dell’80ᵉ anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista, Xi Jinping e Vladimir Putin hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui le due superpotenze eurasiatiche e i principali attori della SCO e dei BRICS, hanno denunciato in particolare gli effetti deleteri della ricerca della ” sicurezza strategica assoluta ” da parte di ” alcune potenze nucleari sostenute dai loro alleati ” sulla stabilità regionale e globale, mettendo così in discussione i dogmi del realismo offensivo;sicurezza strategica assoluta ” da parte di “alcune potenze nucleari sostenute dall’appoggio dei loro alleati ” sulla stabilità regionale e globale, mettendo così in discussione i dogmi del realismo offensivo.

Questa teoria delle relazioni internazionali sviluppata da John J. Mearsheimer[1] ed esposta nel suo libro The Tragedy of Great Powers Politics (2001)[2] afferma che l’anarchia del sistema internazionale condiziona gli Stati a massimizzare il proprio potere per garantire la propria sicurezza, avendo come obiettivo finale la sopravvivenza. Caratteristica consolidata e predominante delle relazioni internazionali, il realismo offensivo sembrava fino a poco tempo fa aver raggiunto un punto della sua storia in cui il fine perseguito – la sicurezza ottimale – e i presunti mezzi per raggiungerlo – la prevalenza all’interno di un gioco a somma zero – si confondevano. La traiettoria post-Guerra Fredda degli Stati Uniti, particolarmente ricca di insegnamenti, ha però dimostrato che la ricerca della massimizzazione del potere è alla fine controproducente, rivelandosi fonte di erosione del potere e di instabilità in una parossistica incarnazione del dilemma della sicurezza. Il fenomeno della de-occidentalizzazione è semplicemente il risultato logico di questa sequenza.

Nonostante il precedente storico così creato, un’altra discutibile equivalenza che influenza la nostra percezione delle relazioni internazionali e il comportamento atteso dei suoi attori è ancora comunemente fatta tra la ricerca della sicurezza e il desiderio di egemonia: a parte l’etnocentrismo geopolitico, Cina e Russia sono ancora percepite dall’Occidente attraverso il prisma dell’esperienza egemonica americana. In conformità con la dottrina del realismo offensivo, essi sono visti come tentativi di alterare l’ordine mondiale (o regionale) esistente a loro esclusivo vantaggio, falsando così la nostra lettura degli eventi e limitando la nostra capacità di anticipazione. Tuttavia, le caratteristiche e il funzionamento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), un’organizzazione multilaterale per la cooperazione di sicurezza neo-westfaliana di cui Cina e Russia sono membri fondatori, tendono a confutare questi pregiudizi e ci invitano a interrogarci sui limiti del realismo offensivo, al di là delle battute d’arresto americane di questa dottrina.

L’obiettivo di questo articolo è esaminare come il modo in cui la SCO opera e la comunità di interessi che è stata in grado di costruire sfidino la nostra percezione del realismo offensivo e in che misura questa organizzazione sia indicativa dell’emergere di un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali. A tal fine, adotteremo innanzitutto una prospettiva storica, passando in rassegna i legami tra la SCO e la de-occidentalizzazione. In seguito, ci soffermeremo sui limiti del potere normativo multilaterale occidentale, la cui perdita di attrattiva per la SCO è sintomatica. Infine, confronteremo le caratteristiche della SCO con il realismo offensivo per comprenderne i limiti e definire i contorni del nuovo paradigma che probabilmente emergerà.

Per ricordare che la SCO è un’organizzazione di cooperazione per la sicurezza fondata nel 2001, erede del “Gruppo di Shanghai”, la cui funzione principale era quella di risolvere i conflitti di confine nell’Asia centrale post-Guerra Fredda.Fondata originariamente dai Paesi dell’Asia centrale (tranne il Turkmenistan), dalla Russia e dalla Cina, vi hanno poi aderito l’India, il Pakistan, l’Iran e la Bielorussia, e conta oggi 18 Paesi osservatori e partner di dialogo, uniti da interessi primari di sicurezza (lotta ai “tre flagelli”). – terrorismo, separatismo, estremismo religioso – e criminalità transnazionale), prima di vedere la sua sfera di cooperazione estesa a tutti i settori della vita politica (economico, energetico, culturale, ecc.). Con il suo carattere eurasiatico esteso al Medio Oriente, al Nord Africa, all’Asia meridionale e sudorientale, è oggi la più grande organizzazione di cooperazione regionale del pianeta in termini economici, demografici e di superficie (42% della popolazione totale per il 24% del PIL e copertura del 66% della superficie del continente eurasiatico).

L’OCS e le origini del riflusso dell’influenza occidentale in Eurasia

Per de-occidentalizzazione si intende la perdita di influenza delle potenze occidentali o delle istituzioni multilaterali dominate dall’Occidente a favore dei Paesi, o delle istituzioni che essi costituiscono, precedentemente dominati da queste stesse potenze occidentali. Questo fenomeno è spesso associato alla “fine del mondo unipolare” o alla “transizione verso un mondo multipolare”. L’attenzione dei media sui suoi aspetti economici e diplomatici (perdita di influenza del G7, ascesa dei BRICS, rafforzamento diplomatico dei Paesi in via di sviluppo, il “Sud globale”) farebbe pensare che i suoi aspetti di sicurezza siano di secondaria importanza.

Tuttavia, la storia della cooperazione in materia di sicurezza in Eurasia è un indicatore altrettanto rilevante della natura e delle prospettive di questo fenomeno, per una serie di ragioni. È opportuno dare un rapido sguardo al contesto. Da un punto di vista geostrategico globale, la prima condizione per preservare la posizione centrale degli Stati Uniti negli affari mondiali è il mantenimento della relativa divisione del continente eurasiatico. Infatti, un eventuale coordinamento diplomatico ed economico del “mondo insulare”, che concentra la maggior parte delle risorse, dei territori e dei mercati del pianeta, marginalizzerebbe irrimediabilmente la potenza americana, riportandola allo status di isola periferica[3]. L’importanza degli aspetti di sicurezza della de-occidentalizzazione va quindi valutata con il metro delle questioni eurasiatiche, che sono di assoluta attualità, anche se discrete : Le istituzioni euro-atlantiche (NATO/UE) hanno tracciato una lunga linea di frattura tra l’Europa occidentale e la Russia, il cui avvicinamento alla Cina (bilaterale o multilaterale istituzionale nell’ambito dei BRICS o della SCO, tassati come organizzazioni ” ;anti-occidentali[4] “) viene regolarmente deplorato dagli ” strateghi ” occidentali, senza riuscire a prevenirlo. Inoltre, l’attuale posizione militare degli Stati Uniti continua a cingere il continente eurasiatico, circondandolo ai suoi confini orientali e occidentali[5].

Tuttavia, risulta che la cooperazione in materia di sicurezza in Eurasia non è mai stata occidentalizzata nel vero senso della parola. L’ascesa dell’influenza occidentale sulla sicurezza regionale, che ha beneficiato del consenso globale dei primi anni della “guerra al terrore” che ha contrapposto la coalizione occidentale ai Talebani in Afghanistan, si è scontrata nel 2005 con il desiderio dei Paesi della SCO di porre fine alle locazioni americane in Asia centrale[6] a causa delle ricorrenti interferenze negli affari interni[7] e della più generale inadeguatezza della dottrina della cooperazione (cfr. infra). sotto). Questo evento segna l’inizio del declino dell’influenza occidentale nella sicurezza regionale.

A livello istituzionale, il funzionamento dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), la principale organizzazione di cooperazione per la sicurezza in Eurasia dominata dall’Occidente, è stato notevolmente ostacolato dal deterioramento delle relazioni tra Occidente e Russia. Insieme alle divisioni interne che attualmente colpiscono il campo occidentale nel contesto del conflitto russo-ucraino, è molto probabile che l’OSCE sia destinata a svolgere solo un ruolo relativamente marginale nella cooperazione per la sicurezza in Eurasia[8]. Allo stesso tempo, la SCO, che opera su una base più egualitaria e rispettosa della sovranità nazionale, ha continuato a espandersi e a istituzionalizzarsi e ha contribuito in modo significativo alla stabilizzazione dell’Asia centrale, promuovendo lo sviluppo economico regionale. Possiamo quindi notare che non solo l’aspetto della sicurezza della de-occidentalizzazione, di cui la SCO è allo stesso tempo attore, beneficiario e simbolo, non è insignificante rispetto agli aspetti economici e diplomatici, ma anche che li precede di quasi un decennio, essendo i BRICS stati formalizzati solo nel 2009. Esaminiamo ora le caratteristiche della proposta occidentale di cooperazione in materia di sicurezza e le tappe che hanno portato al suo fallimento.

I limiti del potere normativo del multilateralismo occidentale

L’aspetto interessante dell’evoluzione dell’influenza sulla sicurezza in Asia centrale dopo l’11 settembre 2001 è che, pur essendo circoscritta a un contesto relativamente limitato, è sostanzialmente simile all’evoluzione più generale del potere normativo del multilateralismo occidentale su scala globale dal 1949. In linea di massima, questa evoluzione può essere descritta in tre fasi:

Una prima fase di adesione al progetto basata sulla forza di convinzione del suo promotore (combinazione di potere oggettivo e soft power) e sull’assenza di alternative (ONU e Consiglio di Sicurezza, istituzioni di Bretton Woods, ” fine della Storia ” e ” nuovo ordine mondiale “) ;

Una seconda fase di disillusione ha visto le promesse del multilateralismo disattese dall’uso dell’utilitarismo al servizio della politica di potenza (interventi militari senza mandato ONU in Kosovo, Iraq (2003) e Libia, condizionalità della Banca Mondiale e del FMI, Washington Consensus, rivoluzioni cromatiche, invocazione del diritto internazionale a geometria variabile per quanto riguarda, tra i più noti, i conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese);

E infine, una terza fase di fine dell’ascesa dell’influenza, seguita da un riflusso non appena gli attori statali che si sentono danneggiati dal quadro esistente si trovano nella posizione di prendere nuovamente l’iniziativa (G20, SCO, BRICS, Belt and Road InitiativeAsian Infrastructure Investment BankNew Development Bank), finendo per proporre alternative.

Così (1ʳᵉ fase) all’indomani dell’11 settembre, grazie a un consenso globale senza precedenti, la Russia e i Paesi dell’Asia centrale (PAC), uniti intorno agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo jihadista, hanno accettato di aprire loro le porte dell'” Heartland “, uno spazio geostrategico storicamente molto ambito. L’impatto normativo globale della dichiarazione di guerra al terrorismo è quindi piuttosto significativo; la sua elevazione al rango di minaccia strategica è gravida di conseguenze in termini di lotta al terrorismo, con l’istituzione di nuove norme e pratiche, tra cui il rafforzamento della cooperazione internazionale e la riforma dei sistemi di sicurezza statali. Va notato che già nel 1994 i PAC avevano potuto sperimentare i benefici della cooperazione con la NATO nel quadro del Partenariato per la Pace (PfP) e rivalutare le loro relazioni con il   nemico eterno , il cui vantaggio istituzionale rispetto alla SCO e alla CSTO era all’epoca innegabile, consentendo di rispondere alle aspirazioni di multiallineamento dei PAC.

Fino alla (2ᵉ fase), le discrepanze dottrinali, le differenze strutturali e le priorità contrastanti hanno arrestato l’ascesa dell’influenza occidentale sulla sicurezza. È nata quindi un’opposizione dottrinale tra i sostenitori regionali della rigida sovranità westfaliana e quelli di un’agenda occidentale post-westfaliana di “sicurezza umana”[9]. Un’illustrazione degna di nota è il ritorno di molti Paesi dell’ex URSS a una nozione più tradizionale di sovranità alla fine del periodo di cooperazione dei primi anni Novanta, che stanno diventando sempre più riluttanti nei confronti di ciò che considerano un’interferenza dell’OSCE.

Inoltre, le organizzazioni regionali occidentali e non occidentali si distinguono per differenze fondamentali nella progettazione strutturale. Mentre la concezione razionale e la funzionalità condizionano le prime (l’UE è progettata per servire il federalismo europeo, indipendentemente dalle esigenze e dagli interessi specifici dei suoi Stati membri), è intorno alle esigenze e agli interessi comuni degli Stati membri che si strutturano le seconde (che cooperano per rispondere a un bisogno preesistente di sicurezza e stabilità). Questi Stati condividono valori e ideologie simili, sviluppati in linea con la propria identità, e cercano di svolgere un ruolo attivo nella loro regionalizzazione, spesso come reazione all’etnocentrismo europeo.

Allo stesso modo, l’uso della condizionalità e dell’utilitarismo per interferire sono i principali ostacoli alla penetrazione dell’influenza occidentale sulla sicurezza in Asia centrale. Gli aiuti americani all’Uzbekistan in seguito al trasferimento della base aerea di Karshi-Khanabad erano condizionati agli sforzi compiuti dalla parte uzbeka per promuovere i diritti umani e la democrazia. La repressione della rivolta di Andijan nel 2005, in spregio a questi impegni, ha portato a sanzioni economiche e politiche contro il governo uzbeko. La risposta della SCO a queste sanzioni, con la prevista espulsione delle forze statunitensi dall’Asia centrale, ha segnato un importante cambiamento nell’influenza strategica occidentale nella regione[10]. Queste sanzioni hanno avuto l’effetto di screditare la promozione delle idee democratiche, che appaiono qui strumentalizzate in nome della diffusione forzata dell’influenza occidentale.

Infatti, “l’attenzione prestata dagli Stati Uniti all’Asia centrale deriva storicamente da interessi non indigeni alla regione, una funzione delle politiche e delle priorità americane “. L’anarchia del sistema internazionale impone alle grandi potenze un utilitarismo di rigore, questo è un dato di fatto. La differenza è che, nel caso della Cina e della Russia, i loro interessi strategici sono strettamente legati alla situazione della sicurezza in Asia centrale, quindi sono vincolati dall’obbligo di ottenere risultati. A differenza degli Stati Uniti, che sono liberi di spingere l’utilitarismo fino a discutere della necessità di ostacolare attivamente le organizzazioni regionali in quanto facilitatori dell’emergere di un mondo multipolare, e quindi di ostacolare la supremazia americana. Eppure, per i PAC, le organizzazioni regionali sono proprio un fattore di stabilizzazione.

È stato inoltre stabilito che nel decennio successivo all’indipendenza dei Paesi dell’Asia centrale (1991-2001), ” la regione era lontana dall’essere una priorità per Washington “, e che una relativa mancanza di considerazione per le questioni regionali caratterizza il successivo periodo di maggiore coinvolgimento occidentale (2001-2021).Ciò si è poi riflesso in una dissonanza delle priorità di sicurezza tra gli attori della regione:  la lotta al terrorismo, pur essendo ancora di indubbia importanza, non era più una priorità strategica nell’agenda occidentale. La “guerra al terrorismo” sta finendo per cedere il passo alla competizione tra grandi potenze, relegando il terrorismo allo status di “un fastidio con cui possiamo convivere, a patto di “tagliare il prato” periodicamente […] “.

Infine, l’attenzione riservata alle priorità di sicurezza regionale dell’Asia centrale è rapidamente diminuita a favore dell’Ucraina, prima all’indomani di EuroMaïdan (2014), in coincidenza con il disimpegno regionale della NATO, e poi in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina (2022). Quest’ultima è diventata la principale preoccupazione per la sicurezza dell’Occidente, catturando una quantità significativa di risorse umane, materiali e finanziarie, a scapito della questione afghana. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’UE, mentre la sua strategia per l’Asia centrale del 2007 indicava esplicitamente l’Afghanistan come una minaccia per la sicurezza regionale, nell’aggiornamento del 2019 non è più considerato tale. La diminuzione del ruolo dell’OSCE, in particolare in Afghanistan, che è “completamente sparito sotto i radar da febbraio (2022)”, conferma questo stato di cose.

In altre parole, l’approccio occidentale al multilateralismo post-Guerra Fredda e l’influenza dell’Occidente sulla sicurezza in Asia centrale stanno fallendo per le stesse ragioni, le stesse cause producono gli stessi effetti: la ricerca di ottimizzare il potere nel breve-medio termine attraverso il predominio in un gioco a somma zero (in questo caso di influenza sulla sicurezza) secondo le modalità del realismo offensivo produce l’effetto opposto a quello ricercato (perdita di capacità di proiezione militare e discredito diplomatico, compromettendo le prospettive di acquisizione di potere).

La retrocessione dell’Asia centrale nell’agenda della sicurezza occidentale è avvenuta quindi a favore di un quadro di cooperazione per la sicurezza ritenuto più appropriato, definito da e per gli attori regionali, che è quello della SCO (3ᵉ fase), e che discuteremo di seguito, non senza aver prima esaminato i postulati del realismo offensivo.

I limiti del realismo offensivo e un approccio alternativo alle relazioni internazionali

Il realismo offensivo si basa sui seguenti cinque presupposti: 1) il sistema internazionale è anarchico, 2) le grandi potenze possiedono tutte capacità militari offensive, 3) ogni Stato è incerto sulle intenzioni degli altri, 4) la sopravvivenza è la preoccupazione principale delle grandi potenze, la sicurezza il loro obiettivo principale, 5) le grandi potenze sono attori razionali. L’insieme di queste caratteristiche favorisce l’atmosfera di sfiducia strutturale che caratterizza le relazioni interstatali, incoraggiando gli Stati a ottimizzare il proprio potere e a impegnarsi nella competizione strategica. Pertanto, secondo Mearsheimer, il predominio in un gioco a somma zero sembrerebbe essere la migliore garanzia di sicurezza e la forza (forza) il mezzo per raggiungere e preservare tale sicurezza. Il potere equivarrebbe alla sicurezza, quindi più potere sarebbe sinonimo di più sicurezza, con il risultato di una competizione infinita sulla sicurezza, la “tragedia della politica delle grandi potenze”, che condanna la Storia a un eterno riavvio.

Tuttavia, l’autore riconosce alcuni limiti alla sua teoria: una semplificazione della realtà insita in tutte le teorizzazioni, l’oscuramento del ruolo degli individui e delle considerazioni di politica interna nel processo decisionale, o gli errori di calcolo derivanti da un processo decisionale poco informato, nel qual caso il realismo offensivo non è più applicabile, oltre a qualche rara eccezione alla regola.

La forza dell’impegno di Stati Uniti, Cina e Russia, solo per citarne alcuni, nella competizione strategica, testimonia l’efficacia del modello di Mearsheimer, che era ben sostenuto all’epoca della sua pubblicazione. Tuttavia, quasi un quarto di secolo dopo, la de-occidentalizzazione, la perdita di influenza e la generale perdita di slancio degli Stati Uniti, nonostante siano l’esempio del realismo offensivo, richiedono un riesame di alcune delle sue ipotesi.

Il rapporto tra egemonia e sicurezza, ad esempio, deve essere messo in discussione su più fronti. Quando il realismo offensivo difende l’idea che l’egemonia sia la migliore garanzia di sopravvivenza per uno Stato, presuppone che lo status di egemone possa essere mantenuto una volta raggiunto. Questo è tutt’altro che facile, come dimostra l’esempio americano. L’appiattimento degli Stati Uniti sulla scena internazionale, causato dalla scarsa attrattiva del modello proposto, rivela l’importanza di quest’ultimo come garanzia della durata dell’egemonia perseguita, accanto agli attributi del potere economico e militare. Inoltre, evidenzia la natura cruciale del potere normativo, che è l’argomento principale dei modelli alternativi di relazioni internazionali proposti dalla SCO o dai BRICS[11]. Si dovrebbe fare una riflessione a posteriori su come questi avrebbero potuto e dovuto preservare il potere federativo del modello di società liberale promosso. Lo stanno facendo probabilmente Paesi come la Cina e la Russia, per i quali la sconfitta degli Stati Uniti e il fallimento del progetto europeo dovrebbero fungere da istruttivi controesempi di strategia di potenza, i primi peccando di eccessiva ottimizzazione e assoluta trascuratezza del dilemma della sicurezza, i secondi di integrazione forzata e sovranazionalità.

Allo stesso modo, Mearsheimer difende l’idea che un mondo multipolare con almeno un potenziale egemone sia il più favorevole alla guerra[12], rendendo la Cina, il principale sfidante degli Stati Uniti e il principale polo di potere nel mondo multipolare emergente, una minaccia intrinseca (indipendentemente dalle sue intenzioni). Ma possiamo già vedere che la sua strategia di potere è molto diversa. Si afferma, si impone e cresce in potenza secondo le proprie modalità, escludendo a proprio vantaggio il cambio di regime, l’intervento militare o il dirottamento delle istituzioni multilaterali, affidandosi, tra l’altro, alle sue comprovate capacità di guerra economica sistemica (forze d’attacco industriali, commerciali, diplomatiche, tecnologiche, normative). Sta certamente sviluppando le sue capacità militari offensive, ma non sembra incline a usarle finché non viene superata nessuna delle sue linee rosse.

Inoltre, la consapevolezza, esacerbata dall’interconnettività digitale e logistica, dei limiti fisici del mondo e delle sfide globali (vincoli energetici, riscaldamento globale, tensioni idriche, rischi di pandemie, distruzione degli ecosistemi) sta riportando gli Stati a un comune ancoraggio terrestre, integrando questi fattori nello sviluppo della loro strategia di sicurezza. Un mondo in cui la sicurezza nazionale dipende intrinsecamente dalla cooperazione interstatale limita certamente il valore della posizione di egemonia, nella misura in cui le sfide sollevate non possono essere affrontate con la forza bruta, rendendo ancora più obsoleta la relazione causale tra egemonia e sicurezza.

Un altro dogma caratteristico della scuola “realista” oggi degno di essere riconsiderato è quello della visione deterministica e insuperabile del quadro del gioco a somma zero, secondo cui il guadagno di potere di uno Stato avviene necessariamente a spese di un altro Stato. Sebbene questo dogma rimanga sensato da un punto di vista tattico, rimane fondamentalmente controproducente nel medio-lungo termine, compromettendo di fatto qualsiasi obiettivo di sicurezza strategica attraverso comportamenti statali che favoriscono l’aumento del livello di insicurezza circostante, e minacciato di obsolescenza dal concetto più unificante e costruttivo di indivisibilità della sicurezza promosso da Cina e Russia, in particolare nel quadro della SCO.

Le conclusioni di Mearsheimer sul comportamento delle grandi potenze richiedono anche qualche commento sulle loro implicazioni per il multilateralismo. Egli afferma così :

Le grandi potenze non sono aggressori insensati, così decisi a conquistare il potere da lanciarsi a capofitto in guerre perdenti o perseguire vittorie di Pirro. Al contrario, prima di intraprendere azioni offensive, le grandi potenze pensano attentamente all’equilibrio di potere e a come gli altri Stati reagiranno alle loro mosse”.

Approfondiamo questa affermazione: essa giustificherebbe in effetti una percezione comune del multilateralismo al tempo stesso disillusa e opportunista, secondo la quale le grandi potenze starebbero per così dire in agguato permanente, aspettando cautamente che le condizioni siano giuste prima di agire. Così sia. Resta il fatto che questa visione sottrae comunque alla nostra vigilanza analitica ogni potenziale strategia di conquista del potere che non assomigli a ciò che già conosciamo. Ad esempio, una strategia che vada oltre il quadro di un gioco a somma zero, senza (tentare di) sconvolgere improvvisamente l’equilibrio, e che si concentri sull’indivisibilità della sicurezza, non per opportunismo egemonico mascherato da benevolenza o ideologia, ma per chiaro pragmatismo, dato che la competizione per la sicurezza secondo le modalità del realismo offensivo si rivela controproducente nel medio termine.

Mearsheimer, citando Edward H. Carr[13], ci ricorda che i realisti, rassegnati all’idea dell’inevitabilità della competizione per la sicurezza e della guerra, ritengono che ” la più grande saggezza risiede nell’accettare e adattarsi a queste forze e tendenze “. Ciò che allora poteva essere inteso come un’ingiunzione ad abbracciare la competizione per la sicurezza, oggi, con il senno di poi, negli ultimi decenni, potrebbe suggerire di abbracciare la resilienza e la stabilità di fronte ai rischi geopolitici o finanziari. È questa capacità di resilienza, che sarebbe in realtà simile alla prevenzione e alla gestione del rischio applicata alla geopolitica, che la Russia e la Cina, insieme ai loro partner, intendono continuare a sviluppare attraverso organismi multilaterali come la SCO o i BRICS, o attuando politiche di buon vicinato, politiche estere di empowerment o persino emancipandosi gradualmente dalla dipendenza dal dollaro USA nel commercio internazionale.

Non si tratta di sostenere i realisti difensivi, ai quali Mearsheimer contrappone risultati statistici innegabilmente a favore degli aggressori. L’idea è piuttosto quella di indicare un cambio di paradigma che si verifichi quando quello attuale è giunto al capolinea della sua logica, e che privilegi la resilienza come garanzia di sopravvivenza e per estensione l’indivisibilità della sicurezza, avanzata da potenze che avranno compreso i limiti, se non l’utopia odierna, delle aspirazioni all’egemonia (anche solo regionale) in senso realista offensivo[14]. Un esame delle funzionalità della SCO, in particolare di quelle emergenti, dovrebbe aiutare a illustrare questa idea.

Come funziona l’OCS e i suoi vantaggi

La “fine della storia” non è ancora arrivata, quindi dobbiamo essere vigili sui nuovi sviluppi che le interpretazioni del passato non sono in grado di cogliere. La SCO è una novità sotto molti aspetti e la dottrina del realismo offensivo potrebbe non essere sufficiente per comprenderne i lati positivi e negativi. Infatti, la SCO è l’unica organizzazione di cooperazione regionale per la sicurezza che copre la maggior parte del continente eurasiatico (compreso il suo cuore asiatico centrale) e inaugura la prima iniziativa multilaterale nella storia della diplomazia cinese (SONG, 2016)  ha una costituzione rigorosamente non occidentale e concretizza la convergenza degli interessi strategici sino-russi  riunisce quattro potenze nucleari e la stragrande maggioranza dei suoi membri pratica il multiallineamento. Attualmente rappresenta oltre il 40% della popolazione mondiale e circa il 25% del PIL. In rottura con la tradizione cinese del bilateralismo, la SCO offre alla Cina uno spazio per la pratica della governance multilaterale, di cui si fa depositaria dell’autorità concettuale, formulando le basi dottrinali dell’organizzazione fonti della sua attrattiva, come lo  ” spirito di Shanghai[15] ” o il ” Nuovo concetto di sicurezza “[16], e che riflettono l’importanza attribuita alla politica di vicinato (o diplomazia periferica) nella dottrina della politica estera cinese : L’obiettivo della Cina era quello di creare condizioni favorevoli alla solidarietà tra gli Stati membri attraverso valori e norme istituzionali in grado di convincere i Pac e la Russia che “la fiducia e il beneficio reciproci, la non alleanza, il non scontro e il non bersagliamento di una terza parte” sono condizioni sine qua non per la loro rispettiva sicurezza nazionale.

Molto più che un rozzo cavallo di Troia per l’influenza cinese in Eurasia, la SCO è stata infatti guidata fin dall’inizio dalle relazioni sino-russe e manifesta la convergenza dei loro interessi strategici in Asia centrale, così come in Asia-Pacifico da quando India e Pakistan si sono uniti nel 2017 (LUKIN et al., 2019). È essenzialmente da queste relazioni che dipende la sopravvivenza dell’organizzazione (ARIS, 2011). Le recenti dichiarazioni ufficiali e gli analisti concordano sul fatto che le loro interazioni, sebbene spesso descritte come eminentemente conflittuali per i due Paesi, non sono regolate dalle regole di un gioco a somma zero, ma rientrano nella stretta cooperazione per mantenere la sicurezza e la stabilità regionale. Pertanto, non vi sono prove che la Cina stia cercando di diminuire il ruolo della Russia nell’area. Si tratta piuttosto di preservare una sana interdipendenza tra i due vicini, che è un prerequisito per mantenere le rispettive agentività, in particolare per ragioni di know-how russo e di bilanciamento intra-organizzativo. Le risposte congiunte alle sfide di sicurezza post-Guerra Fredda (risoluzione dei conflitti di confine, smilitarizzazione delle frontiere, cooperazione in Asia centrale) e il conseguente rafforzamento della fiducia reciproca sono stati, insieme all’antagonismo americano, i fattori chiave dello sviluppo delle relazioni sino-russe[17].

Il rapporto è reso ancora più duraturo dal fatto che è complementare: la Russia cede la preminenza economica alla Cina, pur beneficiando della sua influenza sulla scena internazionale; la Cina a sua volta si affida al know-how militare[18] e istituzionale multilaterale della Russia, senza il quale l’agentività regionale della Cina sarebbe ridotta. Un accordo tacito che viene accolto con favore dai membri centroasiatici della SCO per la rilevanza dell’agenda che ne deriva. E illustra il tipo di concessioni che questi due attori principali sono disposti a fare in nome del buon funzionamento dell’organizzazione. Sebbene possa permanere un certo grado di diffidenza, il rafforzamento delle relazioni bilaterali è stato incoraggiato da una percezione comune delle sfide occidentali e dei problemi di sicurezza dell’Asia centrale. In queste condizioni, non si può pensare di sostituire gli interessi di un possibile egemone regionale a quelli della regione, come hanno fatto gli Stati Uniti nella regione del Nord Atlantico inimicandosi la Russia a scapito degli interessi europei.

La SCO è anche strutturalmente flessibile, come dimostra non solo la sua elasticità attraverso i vari meccanismi di allargamento che ha attuato e la sua capacità di conciliare politiche estere diverse, ma anche i meccanismi emergenti di regolazione dell’influenza, che impediscono a qualsiasi Stato membro di godere di un’influenza relativa sproporzionata all’interno della SCO, un sintomo egemonico se mai ce n’è stato uno. Pertanto, poiché la partecipazione ai programmi congiunti si basa sulla stretta volontà di ciascun membro (senza rischio di sanzioni in cambio), la generazione di consenso rimane la priorità della SCO se vuole agire come attore coerente. Questo quadro non vincolante ha anche l’effetto di rassicurare gli Stati membri sul rispetto della loro sovranità. L’apparente mancanza di efficacia dell’organizzazione, derivante da un alto grado di dipendenza dalla buona volontà dei singoli Stati, è in parte compensata dal fatto che essi sono in grado di concentrarsi meglio su aree di interesse comune (ARIS, 2011). Ciò contribuisce anche alla resilienza dell’organizzazione. Ad esempio, né i conflitti in Georgia o in Ucraina che hanno coinvolto la Russia, né le dispute sul lato economico dell’organizzazione, né le più recenti controversie tra India e Pakistan in seguito agli attentati del 22 aprile 2025 in Kashmir, l’hanno mai messa a rischio.

La rilevanza della SCO come forum di dialogo è confermata anche dalla valutazione di Mearsheimer sull’importanza del fattore “paura” nell’intensità della competizione per la sicurezza, dato che l’organizzazione svolge un ruolo chiave nello stabilire relazioni di fiducia e nel costruire e consolidare una comunità di interessi.

Un altro vantaggio apprezzato dagli Stati membri dell’Asia centrale è la facilitazione dell’organizzazione nella gestione della competizione tra grandi potenze: salvaguardando la coabitazione di politiche estere eterogenee, mantiene un ambiente istituzionale propizio al multiallineamento. Ciò distingue anche il modo di operare della SCO dal realismo offensivo praticato dagli Stati Uniti, che pretendono che i loro alleati o partner si allineino alle loro posizioni internazionali, ove necessario.

L’effetto di equilibrio che emerge dall’interdipendenza dei membri all’interno dell’organizzazione è un altro fattore importante che ne condiziona l’attrattività e la durata. L’effetto di bilanciamento ha dimensioni sia intra- che extra-organizzative e si manifesta in un’ampia gamma di configurazioni interattive:

-Tra la Cina, che brama sbocchi economici in Asia centrale, e la Russia che, pur frenando l’aspetto economico della SCO, accoglie con favore il riconoscimento da parte di Pechino dell’Unione economica eurasiatica (TEURTRIE, 2021), che in cambio richiede l’ascendente regionale di Mosca per sciogliere le riserve della PAC;

-Tra il binomio Cina/Russia e i PAC, dal cui consenso dipende il buon funzionamento dell’organizzazione. Infatti, la stabilità interna e le relazioni costruttive con i PAC rientrano nelle priorità della politica estera russa e cinese (ARIS, 2011), creando le condizioni per una forte interdipendenza intra-organizzativa;

-Tra i PAC, i meno potenti vedono le ambizioni regionali kazake mitigate dai vicini russi e cinesi;

-Per i PAC, un equilibrio tra l’influenza occidentale e quella regionale consente di sfruttare i vantaggi comparativi di ciascun membro dell’equazione. Pur apprezzando il contributo dell’Occidente al loro sviluppo economico e tecnologico, preferiscono un mondo con un polo di potere alternativo e organizzazioni come la SCO che si occupano delle loro questioni di sicurezza (LUKIN, 2019);

I leader dei PAC giocano anche sulla loro appartenenza simultanea alla SCO, alla CSTO e all’UEE per evitare che una di esse domini, preservando così un equilibrio inter-organizzativo;

-L’azione collettiva (esercitazioni militari congiunte), la promozione di standard istituzionali e l’allargamento sono tutti strumenti utilizzati dalla SCO per raggiungere un equilibrio flessibile dell’influenza occidentale nella regione;

La struttura della SCO, che favorisce il multiallineamento, evidenzia l’importanza delle CAP all’interno dell’organizzazione. Il loro ruolo è importante per la Cina e la Russia, poiché è essenziale per creare un clima di fiducia. In cambio, essi apprezzano la possibilità, nonostante le loro modeste dimensioni, di impegnare le due grandi potenze ;

-Questi meccanismi di bilanciamento sono stati ulteriormente rafforzati dall’adesione dell’India, terza potenza dell’Eurasia, nel 2017, compromettendo ulteriormente qualsiasi ambizione egemonica tra i suoi membri.

Poiché la SCO è definita un’organizzazione di sicurezza non tradizionale, la cooperazione militare non è un elemento centrale del suo approccio alla sicurezza nella lotta contro i “tre flagelli”. Tuttavia, non va sottovalutato il valore delle esercitazioni militari e antiterrorismo congiunte, che restano un meccanismo estremamente importante per gli Stati membri per la funzione simbolica e pratica che svolgono. In particolare, sono espressione del desiderio di autonomia della sicurezza regionale, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, di cui non vogliono vedere il ritorno in Asia centrale dopo la loro partenza dall’Afghanistan nel 2021. Sono anche una vetrina molto concreta del loro impegno nella lotta al terrorismo (SONG, 2016), che può avere un effetto dissuasivo sui primi interessati. Da un punto di vista più pratico, in quanto meccanismo di sicurezza periodico[19] e istituzionalizzato, costituiscono una piattaforma per lo sviluppo di capacità antiterroristiche e di difesa regionale congiunta, oltre che un indiscutibile vettore di fiducia reciproca. In particolare, contribuiscono allo sviluppo di capacità operative, di spedizione e di interoperabilità, aumentando così il potere assoluto degli Stati membri.

La ricerca di visibilità e stabilità internazionale è anche una delle ragioni che spingono gli Stati partecipanti ad aderire alla proposta della SCO, percepita come un veicolo di rappresentanza e visibilità a livello interorganizzativo regionale e internazionale. Dal 2004, ciò si è tradotto nella graduale creazione di una rete di cooperazione e partenariato con diverse organizzazioni multilaterali, tra cui l’ONU e l’ASEAN.

Infine, l’aspirazione alla stabilità rimane un leitmotiv dei Paesi fondatori: la stabilità del vicinato e la priorità nazionale della stabilità interna si riecheggiano per la Cina, il concetto di ” arco di stabilità ” nella regione nord-eurasiatica per gli esperti e i decisori russi, o il ruolo di ” poli di stabilità ” svolto da Russia e Cina agli occhi della PAC.Insieme alla sicurezza, è una precondizione e una garanzia dello sviluppo economico regionale.

Conclusioni

Si può quindi constatare che le aspirazioni, il funzionamento e le dinamiche interne della SCO, pur rispondendo in modo molto pragmatico a interessi ben comprensibili, non sembrano devolversi in una ricerca di ottimizzazione sfrenata del potere, come prescriverebbe il realismo offensivo. Al contrario, essi incorporano la ” indivisibilità della sicurezza ” nel loro software,  sostituendo a ogni possibile pax egemonica o ” peacebuilding ” ex nihilo più idee cardinali di stabilità e resilienza. Inoltre, è probabile che il mondo multipolare che emerge sia destinato, almeno temporaneamente, a oscillare tra due tendenze opposte. Da un lato, avremmo i sostenitori incrollabili di un realismo offensivo fino all’estremismo (compreso l’Occidente, fratturato dalle sue contraddizioni interne[20]), e dall’altro il partito di coloro che hanno compreso i limiti di questa dottrina divenuta dogma. Questi ultimi cercheranno, in uno spirito di lucido realismo e di fronte all’assenza di qualsiasi prospettiva auspicabile che essa offra nel medio-lungo termine, di uscirne a poco a poco esplorando un approccio alternativo alla sicurezza attraverso la costituzione di una comunità di interessi che dia priorità alla ricerca della stabilità.  Ciò non è affatto improbabile se si conferma il quinto postulato del realismo offensivo, che prevede che le grandi potenze siano attori razionali. Le ripetute osservazioni di J.D. Vance sull’avvento di un ordine mondiale multipolare come nuova realtà del sistema internazionale e sulla natura obsoleta dell’interventismo americano vanno in questo senso. E riecheggiano le parole di A. Bezrukov[21] sull’imperativo di riprendere il dialogo strategico tra grandi potenze e sulla necessità di dare una risposta collettiva alla domanda : ” Dove vogliamo andare ?  “.

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[1] Nato nel 1947 a New York, John J. Mearsheimer è professore di scienze politiche all’Università di Chicago dal 1982 e influente pensatore della scuola realista di geopolitica.

[2] MEARSHEIMER, John J. The Tragedy of Great Power Politics. WW Norton, New York, 2001.

[3] Si vedano a questo proposito le opere di Zbigniew Brezinski La Grande Scacchiera o di Henry Kissinger Diplomazia.

[4] Che fondamentalmente non lo sono, vedi GARRIDO Cédric, ” Méprises autour de l’OCS et remise en perspective “, iris-france.org, gennaio 2025, URL : https://www.iris-france.org/meprise-autour-de-lorganisation-de-cooperation-de-shanghai-ocs-et-remise-en-perspective/

[5] Corrispondono alle tre zone che ospitano gli “attori chiave” identificati all’epoca da Brzezinski, ossia la zona occidentale (penisola europea), la zona meridionale (Caucaso, Medio Oriente, Golfo Persico, Asia meridionale) e la zona orientale -meno la Cina- (prima catena di isole: Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Filippine, Cambogia, Thailandia).

[6] Basi a Karshi-Khanabad (Uzbekistan) e Manas (Kirghizistan).

[7] Interferenze ritenute responsabili della Rivoluzione delle Rose in Georgia (novembre 2003), della Rivoluzione Arancione in Ucraina (novembre 2004), della Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (marzo 2005) e della Rivolta di Andijan (Uzbekistan, maggio 2005).

[8] Non è stato possibile votare un bilancio unificato dal 2023, né pubblicare un rapporto annuale dal 2021.

[9] Gli Stati membri della SCO enfatizzano la non interferenza e danno priorità alla loro stabilità interna e a quella dell’ambiente circostante, in un contesto di convinzione della necessità di sviluppare capacità militari e risposte statali forti. Mentre l’agenda occidentale promuove la democratizzazione e l’intervento umanitario.

[10] Un’altalena che il discorso di Putin alla conferenza di Monaco del 2007 non fa che sottolineare.

[11] I BRICS si allontanano dalle istituzioni di Bretton Woods per ovvie ragioni di sicurezza e stabilità finanziaria dopo la crisi del 2007-2008.

[12] Rispetto al sistema multipolare senza egemone e al sistema bipolare.

[13] Edward H. Carr (1892-1982) : storico, diplomatico e giornalista britannico, autore di The Twenty Years’ Crisis: 1919-1939: An Introduction to the Study of International Relations, considerata una delle opere standard del realismo classico.

[14] “Data la difficoltà di determinare quanto potere sia sufficiente per l’oggi e per il domani, le grandi potenze riconoscono che il modo migliore per garantire la loro sicurezza è raggiungere l’egemonia ora, eliminando così ogni possibilità di sfida da parte di un’altra grande potenza” (Mearsheimer, 2001). Ciò che il livellamento dei differenziali di potere tra le grandi potenze non consente più.

[15] “[…] spirito di fiducia reciproca (互信), vantaggio reciproco (互利), l’uguaglianza (平等), consultazioni reciproche (协商), il rispetto della diversità culturale (尊重多样文明) e l’aspirazione allo sviluppo congiunto (谋求共同发展)”.

[16] Questi concetti derivano da norme internazionali modificate (i cinque principi di coesistenza pacifica enunciati da Zhou Enlai nel 1953), o si ispirano a lavori accademici stranieri (il concetto di sicurezza settoriale della Scuola di Copenhagen). Si noti che il Nuovo concetto di sicurezza è stato proposto per la prima volta dalla Cina al forum dell’ASEAN nel marzo 1997.

[17] Cfr. il continuo approfondimento del partenariato sino-russo dalla metà degli anni ’90 e la quantità di documenti ufficiali bilaterali che lo testimoniano.

[18] Le preoccupazioni russe per il potenziamento militare della Cina sono mitigate dal rapporto di fiducia esistente ai confini e dalla priorità politica e militare della Cina di espansione marittima (LUKIN, 2019).

[19] La prima esercitazione bilaterale congiunta è stata condotta da Cina e Kirghizistan nel 2002. La prima esercitazione bilaterale sino-russa (Peace Mission) si è svolta nel 2005, dopo gli eventi di Andijan. La prima esercitazionemultilaterale (Missione di pace) che ha coinvolto tutti i membri della SCO è stata condotta nel 2007. La più recente esercitazione congiunta antiterrorismo (Interazione 2024) ha coinvolto tutti i 10 Paesi membri.

[20] L’Unione Europea, nel suo epidermico rifiuto della nuova presidenza Trump e nella sua irragionevole ostinazione a voler sconfiggere la Russia in Ucraina, assume così a pieno titolo il ruolo di portabandiera dei democratici neoconservatori del continente eurasiatico, la cui sconfitta è amara e per i quali c’è da sperare in vari e svariati tentativi di sovvertire e riconquistare il potere.

[21] Professore del Dipartimento di Analisi Applicata delle Questioni Internazionali presso l’Istituto Statale di Relazioni Internazionali di Mosca (MGIMO), ex ufficiale dei servizi segreti, autore.

Il nichilismo potrebbe spiegare il comportamento di Israele a Gaza, di Emmanuel Todd

Il nichilismo potrebbe spiegare il comportamento di Israele a Gaza

Intervista per Elucid, dicembre 2024

Emmanuel Todd12 giugno
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A volte vengo criticato per non essermi espresso a sufficienza sull’abominio che si sta verificando a Gaza. Desidero quindi ripubblicare sul mio blog questo testo pubblicato nel dicembre 2024 sul sito web di Elucid . Non ho cambiato idea su nulla di essenziale. Intuisco l’inizio di una piccola ma insufficiente evoluzione tra gli ebrei di Francia.

Immagine tratta da “C’era una volta in famiglia”, Terreur Graphique e Emmanuel Todd, Casterman

Il nichilismo potrebbe spiegare il comportamento di Israele a Gaza

Oggi vi proponiamo l’intervista a Emmanuel Todd, originariamente pubblicata sul sito italiano Krisis , tradotta e rielaborata dall’autore per Élucid.

Accesso gratuito

pubblicato il 12/01/2024 da Emmanuel Todd

Il 7 ottobre c’è stato un massacro; questo è indiscutibile. Ma la risposta israeliana a Gaza è una carneficina, accettata dalle élite occidentali. Come lo spiega?

Emmanuel Todd: Nel mio libro sviluppo il concetto di nichilismo, la necessità di distruggere cose, persone e realtà, che in Occidente deriva da una situazione di vuoto religioso, metafisico e carico di valori. È un problema sociale e storico che studio principalmente negli Stati Uniti e che menziono anche per l’Ucraina. Ma da quando ho pubblicato ” La sconfitta dell’Occidente” , la rilevanza del concetto di nichilismo mi è diventata sempre più evidente nella sua generalità. Ho iniziato ad applicarlo nelle mie riflessioni su alcuni atteggiamenti delle élite francesi, incluso il comportamento del tutto insolito del presidente Emmanuel Macron. Lo applico al comportamento della parte guerrafondaia delle élite tedesche, all’immigrazione senza limiti e ovviamente lo applico agli eventi in Israele. Dico sempre “gli eventi in Israele” perché per me Gaza è parte di Israele in quanto spazio di sovranità politica. Per questo non capisco affatto i commentatori che si rifiutano di ammettere che Hamas sia un’organizzazione terroristica. Hamas pratica il terrorismo, ma è nato e continua ad appartenere al dominio dello Stato israeliano. Hamas è un fenomeno israeliano.

In che senso?

Possiamo ovviamente, anzi dobbiamo, da un punto di vista antropologico o religioso, definire Hamas come arabo o musulmano. Ma Gaza è solo una componente dello spazio sovrano israeliano, una prigione a cielo aperto. E da questo punto di vista (quello della prigione), Hamas è israeliano. Ciò che intendo dire è che Hamas è ovviamente un gruppo terroristico, ma il suo terrorismo è solo un elemento tra gli altri della violenza israeliana complessiva, così come si sviluppa nel corso della storia.

Ma cosa provi quando vedi cosa sta succedendo a Gaza?

Per me, questo è un argomento piuttosto doloroso, di cui non mi piace parlare, perché sono per metà di origine ebraica, la metà dominante della mia famiglia. Questa famiglia non ha mai avuto, è vero, un legame particolare con lo Stato di Israele. Era una famiglia borghese, israelita come si diceva in Francia, e soprattutto di patrioti francesi. La nostra gloria familiare del XIX secolo fu Isaac Strauss, il musicista preferito di Napoleone III, l’uomo che raccolse la collezione di oggetti rituali ebraici precedentemente esposta al Museo di Cluny e ora al Musée d’Art et d’Histoire du Judaïsme du Marais. Per inquadrare più precisamente questa tipica famiglia israelita: Isaac Strauss è il mio antenato comune con Claude Lévi-Strauss. Lucie Hadamard, moglie di Alfred Dreyfus, era cugina della mia bisnonna. Questa famiglia, in modo abbastanza caratteristico, non si è mai interessata molto al sionismo. Nemmeno io mi sono mai interessato molto. Detto questo, gli antisionisti militanti mi hanno sempre preoccupato; ho sempre pensato che una frequenza troppo elevata di dichiarazioni antisioniste da parte di un individuo rivelasse probabilmente un background antisemita. Al di là di opinioni e argomentazioni, le statistiche rivelano l’ossessione che è una dimensione del razzismo.

In sostanza, non ero né sionista né antisionista, ma mi aggrappavo all’idea che fosse ragionevole mostrare un minimo di solidarietà nei confronti dello Stato ebraico. Il nazismo ci ha dimostrato che, in fondo, non si sceglie di essere ebrei o meno: la mia famiglia materna dovette rifugiarsi negli Stati Uniti durante la guerra. I cugini che non agirono con altrettanta cautela furono deportati. L’antisemitismo esiste e, come mi diceva mia nonna, esisterà sempre. Quindi, inizialmente, avevo un atteggiamento piuttosto sfumato. Ma il comportamento dello Stato di Israele è diventato moralmente troppo problematico. Non mi piace ancora parlarne, ma ora devo farlo.

Per quello ?

Perché lo Stato di Israele ha raggiunto un livello estremo nell’esercizio della violenza. E soprattutto una violenza che non sembra più avere altro obiettivo che se stessa. Per questo ho iniziato a riflettere sul comportamento dello Stato di Israele in termini di nichilismo.

Cioè?

Il nichilismo è una creazione del vuoto. Nel caso degli Stati Uniti, lo esamino principalmente a livello delle classi dirigenti, dove osservo un vuoto di valori, che si traduce in un interesse esclusivo per il denaro, il potere e la guerra. Nel caso dello Stato di Israele, sebbene non abbia lavorato sulle credenze religiose in Israele, ipotizzo che esista anche un problema di vuoto religioso, nonostante la presenza di gruppi ultraortodossi la cui reale natura socio-metafisica merita di essere esaminata. Gli evangelici americani pongono un problema diverso, ma parallelo. Per quanto riguarda gli Illuminati americani che sostengono Israele perché credono che l’espansione di Israele riporterà Cristo…

Una moltitudine di concezioni recenti, nonostante le loro pretese metafisiche, deve essere interpretata come componente di uno stato zero della religione, intendendo qui il termine religione nel suo senso monoteistico classico: cattolico, protestante o ebraico. Nelle mie analisi del presente storico, parlo ora non solo di cattolicesimo zero, di protestantesimo zero, ma anche di ebraismo zero. Presto, senza dubbio, di islam zero. Mi è quasi più facile formalizzare il deficit di veri valori religiosi in Israele perché ho tra le mani il libro del mio antenato Simon Lévy, rabbino capo di Bordeaux, “Mosè, Gesù e Maometto e le tre grandi religioni semitiche” (1887), che mi offre accesso diretto, sia a livello familiare che a stampa, a ciò che la religione ebraica rappresenta in termini di valori. D’ora in poi, l’Occidente ha raggiunto uno stato zero della religione che ci permette di spiegare il nichilismo americano o europeo. La stessa logica storica si applica a Israele. Ciò che mi suggerisce, ipoteticamente, il comportamento dello Stato di Israele è una nazione che, privata dei suoi valori socio-religiosi (zero ebraismo), fallisce nel suo progetto esistenziale e trova nell’esercizio della violenza contro le popolazioni arabe o iraniane che la circondano la sua ragione di esistere.

La guerra fine a se stessa?

Applicherei allo Stato di Israele lo stesso tipo di interpretazione che applico nel mio libro all’Ucraina. Ho spiegato che l’Ucraina era uno Stato in decadenza prima della guerra e che tutti erano sorpresi dall’energia militare degli ucraini, dalla loro capacità di difendersi. In realtà, l’Ucraina ha trovato la sua ragione d’essere nella guerra contro i russi. E in effetti, tutto nell’atteggiamento degli ucraini è determinato dalla Russia, ma in modo negativo. L’eliminazione della lingua russa, la lotta contro i russi, la sottomissione delle popolazioni russe del Donbass. Ma attenzione: sono un ricercatore, quindi queste sono ipotesi che sto formulando per Israele. Ho l’impressione che la nazione israeliana abbia perso il suo significato per sé stessa e che la pratica della violenza, che un tempo era un mezzo militare necessario per garantire la sicurezza dello Stato, sia diventata fine a se stessa.

Vedo possibili obiezioni alla mia ipotesi, come l’elevata fecondità della popolazione israeliana, e non solo tra gli ultra-ortodossi, sebbene il loro caso sia estremo. L’era del nichilismo è accompagnata in Occidente da tassi di fecondità molto bassi, da una difficoltà per le popolazioni a riprodurre la vita. Ma la costellazione logica “religione-zero/nichilismo/violenza/guerra/fertilità” è un campo di indagine socio-storica molto vasto che meriterebbe un approccio globale. Esistono religioni di guerra, un’attività umana purtroppo piuttosto comune dal punto di vista dello storico. Mi sento perfettamente in grado di immaginare nichilismi con bassa e alta fecondità in futuro. La bassa fecondità è anche caratteristica di tutta l’Asia orientale, e in particolare della Cina, una regione del mondo che non mi sembra, a prima vista, afflitta dal nichilismo, ma piuttosto felice di decollare economicamente.

Quindi secondo lei in Israele si è scatenata una spirale di violenza senza alcun obiettivo concreto se non quello di perpetuarsi?

Esatto. Ciò che mi sorprende è che le élite occidentali affermino sempre: “Israele ha il diritto di garantire la propria sicurezza”. Parlano come se il comportamento di Israele fosse essenzialmente razionale, con questo obiettivo di sicurezza. Ma io non la vedo affatto così. Quello che vedo è la necessità di fare qualcosa. E quel qualcosa è la guerra.

E che guerra…

Quando guardo i video pubblicati sui social media dai soldati dell’IDF a Gaza, penso che evochino il nichilismo piuttosto che una guerra con uno scopo razionale. Vedete, ho detto che non mi piace pensare a Israele. Ma se inizio a pensarci, cerco di farlo con distacco e senza pensare solo in termini morali. Per quanto riguarda la situazione attuale, potrei essere indignato; sono un essere umano come tutti gli altri. Potrei semplicemente dire che quello che gli israeliani stanno facendo a Gaza è mostruoso. È mostruoso. Ma ciò che mi interessa qui è il futuro. Quindi mi chiedo se coloro che vedono questo come un orrore si rendano conto che questo è solo l’inizio dell’orrore e che tutto peggiorerà ulteriormente. Si è messa in moto una dinamica di violenza che non vediamo perché dovrebbe arrestarsi. La necessità per lo Stato di Israele (7 milioni di abitanti, compresa la popolazione ebraica) di dichiarare guerra all’Iran (90 milioni di abitanti) è qualcosa di sconcertante. Se adottiamo l’ipotesi del nichilismo, troviamo un elemento di risposta.

Cioè?

Facciamo un’ipotesi intermedia “razionale”, seppur violenta. Per definire un obiettivo razionale, potremmo dire che uno degli obiettivi di Israele è quello di creare una conflagrazione globale per svuotare improvvisamente, brutalmente e completamente Gaza e la Cisgiordania nel caos generale.

Ma non sarebbe finita qui…

Esatto. La guerra continuerebbe, in quale direzione non lo so. Perché dietro questo comportamento, credo di percepire il fatto che lo Stato di Israele abbia perso la sua identità originaria. Sento un vuoto. Da tempo avverto negli assassini individuali di quadri e leader delle forze avversarie un bisogno di uccidere che non ha alcun reale interesse strategico. Forse, nelle profondità inconsce della psiche israeliana, essere israeliani oggi non significa più essere ebrei, significa combattere gli arabi. Sono in parte ebreo, forse, non ne sono affatto sicuro, ma non sono nemmeno sicuro che la maggioranza degli israeliani sia ancora ebraica.

In che senso non sei sicuro di essere ebreo?

L’asse centrale della mia famiglia, come ho detto, appartiene all’antica comunità ebraica francese, israelita, ma è una famiglia con matrimoni misti fin dal periodo tra le due guerre. Ho un nonno bretone e una nonna inglese. Nato nel 1951, sono stato battezzato e le chiese mi sono a dir poco più familiari delle sinagoghe. L’universalismo cattolico, nella sua versione repubblicana secolarizzata (zombie), mi definisce senza dubbio meglio dell’appartenenza al popolo eletto. Tuttavia, i miei due valori fondamentali, i figli e i libri, sono due ancore più tipicamente ebraiche che cattoliche. E per quanto riguarda il senso di emarginazione e l’ansia, nessun problema…

Se dovessi definirmi in una categoria, farei riferimento a “Storia del Ghetto di Venezia” di Riccardo Calimani, un libro in cui viene descritto il processo a un marrano. Nella concezione cristiana comune, il marrano è un ebreo convertito con la forza o che si è convertito per salvarsi, ma che, in fondo, è rimasto ebreo. In realtà, non è così. In questo processo vediamo chiaramente che il marrano è una persona che, in fondo, non sa più cosa sia. Quest’uomo non sa più se è ebreo o se è cristiano. Questo sono completamente io. Potrei dire che ci sono momenti in cui penso di essere ebreo, ma devo ammettere che mi sento molto bene quando entro in una chiesa, dove mi faccio sempre il segno della croce attraversando la navata centrale. Quando è iniziata l’operazione israeliana contro Gaza, stavo leggendo le memorie di mia nonna, la madre di mia madre.

Ebreo?

Assolutamente. Durante la guerra, si rifugiò negli Stati Uniti con i genitori e i due figli. Sebbene suo marito, un intellettuale comunista bretone, fosse stato ucciso nella sacca di Dunkerque, la vita della famiglia negli Stati Uniti, in particolare quella di mia madre, era felice. Vivevano a Hollywood, e mia nonna lavorava lì come doppiatrice. Le sue memorie parlano di un Buster Keaton ormai anziano e di un Clark Gable non proprio bello. Mia madre era un’adolescente a Hollywood. Si può vivere peggio. In effetti, la sua vita lì, di cui mi parlava con nostalgia, sembra essere stata fantastica. Fu una scelta ovvia ma difficile per loro tornare in Francia non appena il loro paese fu liberato. Trovarono la loro casa devastata, occupata da bravi francesi. La recuperarono. Tutti gli oggetti di valore erano stati rubati. Soprattutto, dovettero contare il numero dei membri della famiglia che erano stati deportati e morti nei campi. Erano una famiglia ebrea francese borghese che aveva assistito da vicino all’Olocausto e per la quale il nome Auschwitz assunse il suo vero significato. Questo è ciò che mi è capitato di leggere quando sono iniziati i bombardamenti di Gaza. E mi sono chiesto: cosa c’entra lo Stato di Israele con la storia della mia famiglia?

Sì, qual era la relazione?

Nel suo libro di memorie, “Il mondo di ieri” , lo scrittore austriaco Stefan Zweig parla della spiacevole sorpresa dei borghesi ebrei viennesi, che improvvisamente si ritrovarono assimilati agli ebrei degli shtetl dell’Europa orientale. Scoprirono che, nella mente dei nazisti, erano tutti la stessa cosa. Molto tempo dopo la guerra, nella mia famiglia, facevamo battute ironiche e autocritiche sul periodo in cui gli ebrei polacchi appena arrivati ​​venivano stupidamente definiti “quelli che ci fanno del male”. Lezione di storia imparata. Anche se a volte mi chiedo se, purtroppo, qualcosa di quella cecità ebraica borghese prebellica non sia rimasta in me, figlio di Saint-Germain-en-Laye, quando penso ai risentimenti etnici o razziali di Alain Finkielkraut o Éric Zemmour.

Scherzi a parte. Torniamo alla conclusione. In definitiva, non sta a noi decidere se siamo ebrei o no. Sono coloro che perseguitano che alla fine decidono. Questa è stata probabilmente la base del mio attaccamento a Israele in passato. Per un certo periodo ho mantenuto questo attaccamento ragionevole, ma, ripeto in tutta onestà, non è mai stato entusiasta. Non sono mai stato in Israele ed è probabile che non ci andrò mai. La mia seconda patria spirituale è l’Italia.

Penso che oggi ci stiamo avvicinando a un momento di separazione, in cui molti ebrei della diaspora perderanno il loro senso di legame con Israele. Questo fenomeno è iniziato negli Stati Uniti, forse perché la comunità ebraica americana è numerosa e autonoma, nel Paese più potente del mondo. In Francia, invece, nulla di simile è percepibile. Un atteggiamento come il mio non è nemmeno minoritario lì; è insignificante. In Francia, per quanto posso giudicare senza un’indagine seria, sia tra gli ashkenaziti, che provengono dall’Europa orientale, sia tra i sefarditi, che provengono dal Mediterraneo, la solidarietà con Israele è intatta. Dal mio punto di vista, sono un po’ arretrati moralmente.

La stessa cosa sta succedendo in Italia

Credo che il problema sia che gli ebrei, o persone come me, che non sanno cosa siano, marrani (nel senso storicamente corretto del termine), non si rendono conto che il loro dilemma sarà ancora più doloroso in futuro. Perché, come ho detto prima, la situazione in Medio Oriente peggiorerà.

Al di là delle dinamiche intrinseche della violenza, un elemento di analisi demografica ci permette di comprendere perché la radicalizzazione di estrema destra di Israele sia un processo continuo e storicamente necessario. Le persone che emigrano in Israele (non tutte ebree, tra l’altro) sono attratte dalla violenza che è ormai un elemento costitutivo del sistema nazionale. D’altra parte, le persone che emigrano, che lasciano Israele per il Nord America, l’Europa, la Russia o altrove, aspirano per sé e per i propri figli a una vita pacifica, normale e saggia. Ciò significa che la percentuale di persone violente è in aumento, tendenzialmente inevitabile, in Israele. Un fenomeno simile si è verificato con l’emigrazione di parte della classe media dalla Jugoslavia prima della guerra civile interetnica e dall’Ucraina, ovviamente, prima dell’ondata russofoba. Quindi siamo solo all’inizio.

Gli ebrei francesi e italiani si troveranno di fronte a un divario sempre più evidente tra i valori ebraici tradizionali e il comportamento dello Stato di Israele. Arriverà il momento della scelta. Soprattutto perché la popolazione francese in generale, e non solo quella di origine musulmana, giudicherà sempre più Israele per quello che è, a prescindere dal ricordo dell’Olocausto. Certamente, le élite occidentali, gli attivisti di estrema destra europei e i repubblicani evangelici americani nutrono una simpatia attiva e a volte frenetica per Israele. Se riflettiamo per tre minuti, non è illogico che, nell’era della religione zero e del culto della disuguaglianza, classi e gruppi che un tempo erano antisemiti siano oggi presi da una passione positiva per lo Stato di Israele, che è diventato di estrema destra.

Ma credo che la gente comune giudichi e giudicherà Israele sempre più ragionevolmente, e quindi severamente. Certo, l’islamofobia europea, effetto dell’immigrazione, sta attualmente creando una sorta di cortina fumogena. In Francia, ad esempio, esistono sentimenti anti-musulmani o anti-arabi che potrebbero suggerire ad alcuni, seppur eccitati, un legame tra la lotta di Israele e i “valori della Repubblica”, come si dice oggi. Credo, tuttavia, che la maggioranza dei francesi sarà in grado di distinguere tra le situazioni e giudicare ciò che sta accadendo in Medio Oriente indipendentemente dai nostri problemi sociali. Dopotutto, siamo nella terra dei diritti umani. In Francia abbiamo ben altro che islamofobia. Presto, non sarà più sufficiente a proteggere Israele (relativamente) da un giudizio meramente umano.

Anche in Italia è così…

C’è una vera e propria divisione tra i media e i politici da un lato, e la gente comune dall’altro, su molti argomenti, in particolare su Israele, in Francia, in Italia e altrove. Credo che questo sia un tema su cui lavorerò. Quando intervengo nel dibattito pubblico, è perché ho l’impressione, come ricercatore, di vedere qualcosa che altri non vedono. Non mi considero più morale degli altri. Ad esempio, nel mio libro sulla guerra in Ucraina, ho la sensazione di aver capito cose che altri non hanno visto. Ma su Israele non ho lavorato. Non scriverò certamente un libro sull’argomento; sarebbe troppo doloroso. Ma probabilmente lavorerò sulla questione per me stesso, per non morire idiota. Vorrei trovare nuove spiegazioni. Ho due ipotesi di lavoro su Israele, che ho già presentato. La prima è il nichilismo, dovuto alla perdita di significato della società israeliana e della sua storia. La seconda, che ne è una conseguenza, è l’ipotesi che la situazione peggiorerà ulteriormente.

Come pensi di analizzare la situazione israeliana?

Dovremo affrontare la questione di ciò che sta accadendo in Israele all’interno di un quadro sociologico generale. Ritornerò su quanto ho delineato all’inizio dell’intervista. Questo è il problema fondamentale. Merita di essere ripetuto. Uno dei concetti che sviluppo sistematicamente nel mio libro, per comprendere la crisi degli Stati Uniti e la passività degli europei, è il concetto di “religione zero”. Distinguo tre stadi della religione. Il primo è uno stadio attivo, in cui le persone sono credenti, vanno a messa o alle funzioni domenicali, o osservano lo Shabbat. Il secondo è uno “stadio zombie”, durante il quale le persone non sono più credenti, ma i valori religiosi sopravvivono o si reincarnano in una forma secolare. In questa fase fioriscono ideologie politiche sostitutive: l’ideale della Nazione, l’ideale rivoluzionario francese, il liberalismo progressista inglese, il socialismo, il comunismo, il nazismo… Poi arriva lo stadio zero della religione, in cui non esiste né una morale individuale di origine religiosa né la strutturazione della società attraverso la morale religiosa. Applico questo concetto all’intero mondo occidentale. E ovviamente vale anche per lo Stato di Israele.

E come pensi di procedere?

Lo Stato di Israele è nato da una questione religiosa. L’ebraismo era inizialmente semplicemente una religione attiva, vissuta dai credenti. Poi arrivò il declino delle credenze, come nel mondo cristiano, e la comparsa di un ebraismo zombie, in cui si poteva rimanere ebrei, con la sensazione di esserlo, individualmente e collettivamente, senza credere in Dio. Ho trovato all’inizio dei quaderni scritti dal mio trisavolo Paul Hesse durante la Prima Guerra Mondiale la frase introduttiva “…Io, ebreo di razza e libero pensatore per fede…”. I sionisti erano spesso laici; non si definivano credenti. Spero di non commettere un errore di fatto. Non sono un esperto in materia. Sto conducendo una ricerca dal vivo. Quindi, comincio a chiedermi se il sionismo non rientri semplicemente nella categoria della fase zombie della religione.

Ma per quanto riguarda l’attuale Stato di Israele, mi chiedo se non abbia in gran parte raggiunto lo stadio zero della religione. Questo stadio zero potrebbe spiegare il nichilismo. Rimane, come ho detto, un problema da risolvere, che riguarda la fascia degli ebrei molto religiosi, che a mio avviso rappresentano qualcosa che non è più l’ebraismo tradizionale, l’ebraismo rabbinico che conoscevamo. Non sono in grado di definirne la natura, perché non ci ho ancora lavorato, anche se ritengo che non si tratti più di ebraismo in senso classico. L’argomento è tecnicamente affascinante per l’eterogeneità iniziale della popolazione israeliana: originaria dell’Europa orientale, del mondo arabo, poi della Russia, con correnti minoritarie più antiche provenienti dall’Iran o dal Kerala, e più recenti dagli Stati Uniti o dalla Francia. La domanda “Chi è diventato cosa?” apre un’affascinante matrice di sviluppi religiosi interni in Israele.

Comunque, sapete che i padri fondatori dello Stato di Israele dissero: “Dio non esiste, ma ci ha dato uno Stato”.

Sì, sì. Chiamiamola una frase zombie. E questo confermerebbe l’ipotesi del sionismo come “fase zombie” della religione. Ma ciò che è vertiginoso è l’ipotesi della religione zero, perché significherebbe che Israele non è più uno stato ebraico. Per non parlare del fatto che la scomparsa dei veri ebrei non implica in alcun modo la scomparsa dell’antisemitismo in Occidente e altrove.

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La politica senza scopo. Di Aurelien

La politica senza scopo.

E le sue conseguenze.

Aurelien11 giugno
 
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Come sempre, grazie a coloro che instancabilmente forniscono traduzioni in altre lingue. Maria José Tormo pubblica le traduzioni in spagnolo sul suo sito qui,. Anche Marco Zeloni sta pubblicando le traduzioni in italiano su un sito qui. E molti dei miei articoli sono ora on line sul sito Italia e il Mondo: li potete trovare qui. Yannick mi ha anche inviato una nuova traduzione in francese che apparirà presto. Sono sempre grato a coloro che pubblicano occasionalmente traduzioni e riassunti in altre lingue, a condizione che si dia credito all’originale e che me lo si faccia sapere. Dopo tutto questo:

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Recentemente ho letto che il Presidente Trump sta andando male nei sondaggi di opinione e che questa impopolarità sembra mettere in discussione il futuro di alcune delle sue politiche. Di solito non faccio commenti sulla politica statunitense, perché non sono americano e la mia conoscenza diretta del sistema politico di quel Paese non è aggiornata. Ma voglio prendere questo piccolo dato come punto di partenza per una discussione questa settimana su cosa significhi “opinione pubblica” in una democrazia, su come influenzi i governi in teoria e in pratica, su come si relazioni ad altre e diverse pressioni sul governo e su come i governi rispondano ad essa (se lo fanno) oggi. Niente di tutto questo è semplice.

Naturalmente Trump non è l’unico ad essere impopolare. Il Presidente francese Macron è, secondo alcune stime, il più impopolare titolare di una carica in tempi moderni, il signor Starmer nel Regno Unito è altrettanto sfiduciato dal punto di vista psefologico, ed è probabile che non abbiamo mai avuto un gruppo di politici occidentali così impopolare presso gli elettori che li hanno votati al potere. Ma che cosa significa tutto ciò nella pratica?

Non necessariamente molto. Trump e Macron sono presidenti eletti al loro secondo mandato. Mi sembra che si sussurri discretamente di un possibile terzo mandato per il Presidente Trump, ma la Costituzione francese non dà questa possibilità al Presidente Macron. In linea di principio, un Presidente eletto a tempo determinato al suo ultimo mandato non deve preoccuparsi molto del suo livello di popolarità. Dico “molto” perché non c’è dubbio che, pragmaticamente, un Presidente impopolare ha più difficoltà a portare a termine le cose e che l’opposizione si sentirà incoraggiata. In un sistema parlamentare, invece, un leader impopolare può danneggiare la forza del partito attraverso le perdite nelle singole elezioni per i seggi parlamentari, o a livello regionale o locale, così come le possibilità di vincere le prossime elezioni parlamentari. Pertanto, Starmer potrebbe non rimanere a lungo in questo mondo politico, mentre in Germania Merz potrebbe ancora stabilire un record per il più breve cancellierato della storia. Se sopravviverà, sarà semplicemente (come la signora May nel Regno Unito) perché nessuno riuscirà a trovare un successore.

Perché la questione della popolarità temporanea, che ossessiona sia i politici stessi sia gli opinionisti per i quali la politica è una sorta di sport da spettatori, dovrebbe essere considerata così importante? Come si inserisce nel quadro più ampio di come il potere viene acquisito ed esercitato in una democrazia, e di chi ha influenza e come? La risposta a questa domanda è sorprendentemente complessa e ci coinvolge in pieno nell’analisi ingegneristica della politica a cui sono sempre stato affezionato e che è alla base di tutti questi saggi. (Substack richiede che, all’inizio della scrittura, si esponga una sorta di manifesto di ciò che si intende fare. Questo è il mio, anche se è stato scritto così tanto tempo fa che quasi nessuno di voi l’avrà letto, ma riassume essenzialmente il mio approccio.)

Possiamo quindi vedere la politica come una questione di forze diverse che agiscono su un corpo, e la maggior parte delle decisioni politiche come il risultato delle complesse interazioni di tali forze. Possiamo esaminare queste forze singolarmente (l'”opinione pubblica” è una di queste), vedere cosa succede sotto la superficie e concludere che non tutte le forze operano allo stesso modo. Quindi, ancora una volta, come in altre occasioni, intendo rivoltare una pietra e vedere cosa c’è sotto e cosa emerge, che potrebbe non essere del tutto quello che ci aspettiamo. Nel frattempo, darò un paio di calci di sfuggita ad alcuni dei presupposti più pigri della teoria liberaldemocratica.

Permettetemi di iniziare in modo apofatico dicendo ciò di cui non parlerò. Alcuni diranno subito che in Occidente non viviamo comunque in “democrazie” e che alcuni Paesi (di solito gli Stati Uniti) sono in pratica poco meglio della Germania nazista. Queste opinioni sono sostenute soprattutto da coloro che non hanno mai trascorso molto tempo in uno Stato autoritario o in una dittatura, o in un Paese dove lo Stato non esiste e dove il potere politico viene direttamente dalla canna di una pistola. Né intendo confrontarmi con chi vede poteri occulti e organizzazioni segrete che dirigono gli affari delle nazioni. Naturalmente ogni sistema politico è soggetto a tutti i tipi di influenze, comprese quelle internazionali e finanziarie, ma allo stesso modo i sistemi politici sono troppo complessi perché una sola influenza possa essere decisiva, ed è sempre saggio evitare la tentazione di cercare risposte semplici a problemi complessi.

Per questo motivo, per ragioni di spazio e di coerenza, stabilisco che parlerò solo di Stati occidentali e di Stati che si definiscono “democrazie” e che, in generale, si accettano reciprocamente come tali. Questo non significa, ovviamente, che non ci siano altri Paesi al mondo che si definiscono “democrazie” o che non abbiano qualche lezione interessante per noi (la Cina è la più citata in questo caso), ma sarà per un’altra volta.

Non vi sorprenderà affatto scoprire che non c’è consenso su cosa significhi “democrazia”, nemmeno in Occidente, per quanto si possa leggere che è minacciata, che deve essere protetta e difesa, che dovrebbe essere estesa, e così via. In effetti, qui si trova un interessante articolo che dà un assaggio delle complessità e delle controversie che circondano le definizioni e le teorie relative alla democrazia. Nella misura in cui una definizione semplice è necessaria per i nostri scopi, possiamo dire che una democrazia è un sistema politico in cui l’unità politica in questione è gestita in modo ampio come desiderato dal popolo. E si noti che tale definizione riguarda la natura e lo scopo di una democrazia, non la sua struttura e il modo in cui funziona.

Eppure la maggior parte delle persone oggi, non sollecitate a fare alcuna ricerca, probabilmente descriverebbe la democrazia proprio in termini di strutture e processi. Così, le elezioni, i tribunali, le costituzioni, i parlamenti, i partiti politici organizzati, le campagne politiche, il conteggio dei voti, l’assenza di corruzione, ecc. sono visti come elementi fondamentali della democrazia. E sono tutte cose che abbiamo cercato di imporre ai Paesi al di fuori dell’Occidente, con diversi gradi di successo. Questa concentrazione sui mezzi piuttosto che sui fini sembrerebbe strana alla maggior parte delle principali figure che hanno scritto di politica nella storia occidentale. Ma tali fattori sono, ovviamente, di pertinenza della teoria politica liberale, che si concentra quasi esclusivamente sui processi e sulle strutture, che devono essere esaminati, riformati e valutati con amorevole dettaglio. Eppure pochi teorici liberali hanno mai dedicato molto tempo alla questione di cosa sia la democrazia per. Infatti, pur ammettendo che i partiti politici abbiano dei programmi, così come le case automobilistiche hanno immagini e campagne pubblicitarie e le loro auto hanno differenze tecniche, la vera questione è l’accesso al potere e la competizione per il potere tra formazioni organizzate e disciplinate, secondo regole complesse e, se necessario, arbitrate dai tribunali. Quando sono al potere, queste diverse formazioni perseguono gli interessi di coloro che rappresentano. Così, per il Liberalismo, come per il Partito di George Orwell, lo scopo del potere è il potere stesso.

Se tutto ciò assomiglia un po’ a una competizione sportiva, non è del tutto casuale. Come le società sportive, i partiti politici nascono e cadono, e i loro giocatori passano da una squadra all’altra a seconda della convenienza e di come vedono il loro futuro. Le loro partite sono regolate da regole precise e complesse e sono accompagnate da un’intera classe parassitaria di analisti e commentatori. E proprio come le grandi squadre di calcio sfruttano i loro tifosi facendo pagare biglietti d’ingresso esorbitanti e mettendo in commercio merchandising sempre diverso, così i partiti politici ignorano abitualmente coloro che li votano e i loro interessi, ma chiedono pubbliche dimostrazioni di fedeltà ideologica.

Ne consegue che, quando il liberismo trionfa e divora tutte le ideologie concorrenti che potrebbero servire da base per la formazione di partiti, la “politica” si svuota anche del limitato grado di conflitto di mezzo secolo fa, e anzi si svuota della politica stessa, così come è stata storicamente intesa. Il conflitto è quindi interno, riguarda semplicemente l’accesso al potere e alla ricchezza, e porta inevitabilmente al tipo di guerra civile intra-liberale che sembra essere in corso negli Stati Uniti e che potrebbe diffondersi altrove. Per questo motivo, un personaggio come Starmer può essere visto come un mutante all’ultimo stadio di questo tipo. È ingiusto rimproverargli di non avere una visione o una strategia, perché nessuno gli ha mai detto che ne aveva bisogno. Gli bastava avere le capacità per salire ai vertici del Partito: lo scopo del potere, dopo tutto, è il potere. Questo è il risultato logico di un’ideologia ossessionata dai processi, dalle strutture e dai dettagli, e del tutto disinteressata ai contenuti. Non ama nient’altro che le “riforme” e le “riorganizzazioni” tecniche, perché è ciò che si sente sicuro di fare, e in effetti tutto ciò che ritiene necessario. (C’è un paragone utile, anche se preoccupante, con il vecchio Partito Comunista Jugoslavo, i cui leader si sono trovati nel 1991-92 di fronte a un tipo di problema che non avevano mai dovuto affrontare prima e per il quale non erano semplicemente attrezzati).

In passato, il liberalismo era stato tenuto sotto controllo da forze esterne che in qualche misura gli avevano imposto dei programmi: i classici sono il cristianesimo non conformista in Gran Bretagna e il repubblicanesimo in Francia nel XIX secolo, e la sfida del socialismo e del comunismo nel secolo successivo. Ma una volta che queste ideologie sono state eliminate e i liberali non hanno più avuto bisogno di placare l’elettorato con cambiamenti effettivi in meglio, il liberalismo è tornato alla pura ricerca del potere che è sempre stato.

La logica conseguenza di ciò è che, poiché i principali partiti politici ora differiscono solo su punti di dettaglio, non c’è alcun motivo particolare per i leader dei partiti di prendere sul serio l'”opinione pubblica”, al di là di modificare di tanto in tanto le loro campagne pubblicitarie. Sempre più spesso gli elettori non votano, o passano svogliatamente da un partito all’altro e poi di nuovo al primo, a seconda di chi li ha delusi di recente. In questo senso limitato, possiamo dire che l’opinione pubblica ha un’influenza. Tuttavia, se alla fine non conta quasi più chi si vota, ci si aspetterebbe che i commentatori politici abbiano sempre meno da dire. Invece, questo genere si è moltiplicato oltre ogni ragionevolezza nell’era di Internet, sopravvivendo trattando la politica semplicemente come una soap-opera interna, come un gioco di sopravvivenza ambientato su un’isola deserta.

Nonostante ciò, nell’affannosa ricerca di qualsiasi sfumatura oscura o trascurata, l’opinione pubblica viene ancora trattata come se fosse davvero importante, come se i movimenti statisticamente irrilevanti nei sondaggi d’opinione avessero un significato e potessero portare a qualcosa di tangibile. Ma mentre in passato l’opinione pubblica era qualcosa di cui bisognava tenere conto (e ci arriveremo), ora è solo qualcosa da manipolare. L’elettorato viene diviso in segmenti e per ogni segmento si creano messaggi che cercano di ottenere il sostegno, mentre per altri segmenti, trattati come nemici, si sviluppano messaggi sprezzanti o che incutono timore. Non si tratta di un’idea nuova – in alcune forme risale almeno agli anni ’80 – ma sempre più spesso la politica è solo questo.

Il partito di M. Il partito di Mélenchon in Francia, ad esempio, per quanto la sua retorica faccia occasionalmente riferimento sia alle idee socialiste tradizionali che agli insegnamenti islamisti oscurantisti, è interamente un prodotto del trionfo delle moderne idee liberali su cosa sia la politica. La France Insoumise nonostante il suo nome, considera la maggior parte dei francesi come un nemico. La “Francia” che pretende di rappresentare, la “vera Francia”, è ideologicamente e razzialmente determinata, proprio come lo era la Francia reazionaria e cattolica di Charles Maurras. Solo che qui il pays réel è costituito dagli immigrati, dai giovanissimi (18-25), dalle classi medie urbane progressiste che lavorano nell’istruzione e in lavori simili, e da varie minoranze sessuali. Il resto di noi, il pays légal, può andare a farsi fottere. Così, la crisi a Gaza non è vista come un’opportunità per fare pressione sul governo francese, ma come un test di purezza e una dimostrazione della disciplina del partito. Così lo slogan approvato è PALESTINA LIBERA, anche se nessuno sa bene cosa significhi, e i manifestanti portano la bandiera palestinese. In questo modo, i media e il governo possono semplicemente liquidarli come antisemiti (e ad essere onesti, suppongo che alcuni degli islamisti influenti nel partito lo siano di sicuro).

Ma prima di essere accusato di aver ingiustamente individuato M. Mélenchon, dovrei aggiungere che questo tipo di errore non forzato è abbastanza normale oggi, dove i movimenti politici non cercano più di persuadere o convertire, o di influenzare i governi, ma semplicemente di chiedere fedeltà, un po’ come i tifosi di calcio che sfilano con le maglie della loro squadra e cantano slogan approvati. In effetti, le proteste contro ciò che sta accadendo oggi a Gaza sono state gestite in modo incompetente ovunque, quasi come se gli organizzatori si limitassero a seguire le procedure. Dove sono gli slogan che recitano: “Giù le mani da Gaza”, “STOP al genocidio”, “STOP al massacro”, che sarebbero molto più difficili da ignorare per i media e da replicare per i politici? (Stavo per scrivere “Dilettanti!”, ma in realtà è così che funzionano i movimenti politici professionali moderni).

Tutto questo, naturalmente, è molto lontano dalla vecchia idea che la politica fosse davvero “di” qualcosa, che ci fosse uno scopo nel governo diverso da quello liberale di base della ricerca del potere e dell’uso del potere per aiutare i propri compagni e danneggiare i propri nemici. Lo scopo del potere non era solo il potere. Infatti, Harold Wilson, primo ministro laburista per gran parte degli anni Sessanta e Settanta, intitolò due libri di discorsi raccolti Purpose in Politics e Purpose in Power. E Wilson, per quanto il suo ritiro finale dalla politica sia stato ignominioso, guidò un governo riformatore come quello di oggi non è concepibile.

Ho già suggerito in due precedenti saggi che il problema fondamentale del sistema politico moderno è che quello che descrivo come “meccanismo di trasmissione” è rotto. In altre parole, se si accetta che le politiche del governo debbano, per quanto imperfettamente, muovere il Paese nella direzione voluta dalla massa della popolazione, allora deve esistere un meccanismo di trasmissione che lo renda possibile, analogo al volante e al motore di un’automobile, che fa andare l’auto dove si vuole. La discussione contemporanea sulla politica evita essenzialmente questo problema, ossessionata com’è dai dettagli di come il potere viene acquisito e perso, chi è dentro e chi è fuori, chi è in alto e chi è in basso. Invece di svolgere una funzione rappresentativa, i partiti manipolano gruppi di clienti. Invece di chiedersi “come possiamo soddisfare le aspirazioni dei nostri sostenitori?”, si chiedono “come possiamo ottenere il sostegno di questo blocco di persone promettendo di fare qualcosa per le loro aspirazioni”. La differenza può sembrare poca, ma è fondamentale. I politici non esistono più per servire, ma per essere serviti.

L’idea che la politica non abbia uno scopo sarebbe sembrata strana in qualsiasi altro momento della storia. La parola stessa “politica” deriva dal greco e significa essenzialmente la gestione della poli, l’unità politica. I greci, o per meglio dire i romani, i re medievali o, se vogliamo allargare la rete, gli studiosi confuciani alle corti degli imperatori cinesi, avevano idee molto chiare su quale fosse lo scopo della politica (in questo senso). Aristotele vedeva i governanti e i loro consiglieri (non avrebbe capito cosa intendiamo noi per “politici”) come artigiani, che scrivevano costituzioni e modellavano abilmente leggi per rendere le persone felici e virtuose. Tali governanti dovrebbero essere gli aristoi, i “migliori”, con diritti, in quanto cittadini a tutti gli effetti, e anche responsabilità che vanno ben oltre quelle che oggi sarebbero accettabili. (E in effetti, ad Atene in particolare, le elezioni non erano considerate particolarmente importanti: i funzionari della città venivano scelti per sorteggio: ciò che oggi chiamiamo sortition). Aristotele considerava la politica come una conseguenza dell’etica: qualcosa che sarebbe incomprensibile se suggerito oggi.

L’idea che le persone debbano essere personalmente responsabili delle scelte che le riguardano, e personalmente responsabili delle conseguenze, sopravvive oggi solo nell’idea del referendum, e anche in questo caso solo ai margini della maggior parte dei sistemi politici. L’immagine moderna è quella di aziende rivali che producono cereali per la prima colazione e che competono tra loro in un mercato secondo regole concordate. Così come il numero di aziende effettivamente in grado di produrre cereali per la prima colazione su larga scala e di commercializzarli è limitato, allo stesso modo ci vogliono soldi e risorse per organizzare un partito politico, anche se al giorno d’oggi non c’è più bisogno di scomodare un’ideologia. E in pratica, gli elettori (o i “consumatori” di politica, se preferite) sono altrettanto impotenti di fronte a quella che sembra una scelta, ma che in realtà non lo è. I partiti politici moderni hanno bisogno di elettori, non di membri, e tra un’elezione e l’altra, quando non hanno nulla da fare, gli elettori possono essere trattati con disprezzo. E a differenza dei consumatori di cereali per la colazione, i consumatori di politica possono in teoria essere spaventati o costretti a votare contro certe forze politiche.

Ma almeno i consumatori di cereali da colazione ottengono qualcosa per i loro soldi. Gli elettori vengono semplicemente ignorati. Ed è proprio questo il problema. Ci possono essere sistemi politici non ideologici (mi viene in mente il Giappone) che spesso sono transazionali: votate per me e mi prenderò cura di voi. Questo è spesso il discorso di chi è nato nel collegio elettorale, conosce un gran numero di persone e la cui rielezione dipende dal mantenimento delle promesse. Gran parte dell’Occidente ha oggi un sistema non ideologico che non funziona nemmeno in modo transazionale: votate per me perché è vostro dovere, o perché l’altro partito è peggiore, ma non aspettatevi nulla. Il vostro rappresentante è la persona che scegliamo per rappresentarvi e per la quale vi chiediamo di votare. Il problema è che con i cereali per la colazione ci sono alternative sane: con i moderni partiti politici occidentali non c’è nemmeno questo.

Ciò che ha fatto è stato rivelare il vuoto che è sempre esistito tra il popolo e i governanti, e la mancanza di un evidente meccanismo di trasmissione tra loro in una società liberale. Altre società possono avere meccanismi clanici o familiari per sollevare lamentele ad alti livelli: Le società liberali cercano consapevolmente di distruggere tali strutture, sostituendole con partiti politici professionali, che teoricamente rappresentano diversi gruppi della società, generalmente denominati per classe. Anche in questo caso, in teoria, esistono partiti che si rivolgono a diversi gusti di “opinione pubblica”. L’elettore, come l’acquirente di cereali per la prima colazione, vota per il partito che più si avvicina ai suoi gusti, e in qualche modo tutto viene a galla, basta non indagare troppo nei dettagli. In realtà, naturalmente, e come per i cereali, si può scegliere solo tra ciò che è disponibile. Proprio come la teoria economica liberale sostiene che l’offerta sorgerà spontaneamente per soddisfare la domanda, così la teoria politica liberale sembra presupporre che l’offerta di movimenti politici corrisponderà sempre alla totalità delle richieste politiche, e ogni affermazione è improbabile quanto l’altra.

In realtà, nulla di tutto ciò si è mai verificato, nemmeno nei Paesi con elaborati sistemi di rappresentanza proporzionale. I bisogni, gli interessi e i desideri delle diverse parti della popolazione non possono essere ordinatamente separati gli uni dagli altri, per essere considerati come blocchi di azionisti in una società. Tutti i partiti politici sono a loro volta coalizioni e le piattaforme offerte agli elettori sono necessariamente dei compromessi. I tentativi di tracciare una mappa delle piattaforme politiche palesi sulla varietà di interessi e bisogni dell’elettorato diventano rapidamente impossibili da elaborare, anche prima di arrivare alle contraddizioni interne e alle incoerenze di entrambi gli schieramenti.

Inoltre, ci sono casi in cui le cose che un governo vuole fare, o che un’ampia percentuale di consumatori politici vuole, non sono semplicemente possibili. Questo ci porta a una questione subordinata molto importante: qual è il ruolo corretto del governo? In questo caso, la teoria liberale vede il governo come poco più che una buona gestione, e i governi stessi come studi di commercialisti o agenti di gestione di condomini: se non fanno un buon lavoro, li si sostituisce con un altro che farà meglio. Questo è coerente con la visione liberale secondo la quale la politica si occupa solo del potere e non “riguarda” nulla. Tuttavia, è ovvio che i governi devono affrontare ogni giorno problemi sostanziali e una lamentela comune dei politici inesperti che entrano in carica è quella di essere immediatamente sopraffatti da una massa di problemi complessi a cui non c’è una risposta ovvia e con un margine di manovra molto limitato.

Tuttavia, mentre la maggior parte delle teorie tradizionali del governo sottolineavano la necessità di governare bene e vedevano il governo saggio come un’arte, la teoria liberale è interamente incentrata sui meccanismi del potere e su come questo viene acquisito, detenuto e controllato. (Naturalmente, quindi, i politici cresciuti con un sistema politico liberale non hanno idea di cosa fare quando si trovano di fronte a problemi reali e fondamentali e quando la politica si rivela essere, dopo tutto, “qualcosa”. Ma nell’ultimo decennio i problemi reali e fondamentali sono diventati sempre più comuni e sempre più complessi. In particolare, nel caso della crisi ucraina, i leader politici di oggi non hanno chiaramente le capacità e l’esperienza nemmeno per comprendere ciò che sta accadendo, e quindi, come dei robot, ripetono azioni e parole del passato, perché non hanno idea di cosa fare altrimenti. Nessuno ha detto loro che la politica sarebbe stata così, altrimenti non si sarebbero iscritti. Nelle loro viscere devono rendersi conto che, per quanto brutto sia il presente, il futuro sarà peggiore, e quindi si aggrappano disperatamente al presente, per quanto spaventoso sia, perché almeno si sono abituati ad esso e hanno le loro battute pronte.

Tuttavia, la gente comune ritiene generalmente di aver eletto i governi per fare delle cose e di dover dare loro l’autorità e la libertà di farle. L’eccesso di governo può essere un problema, certo, ma per la maggior parte della gente comune l’eccesso è un problema minore rispetto all’insufficienza delle prestazioni. Eppure il liberalismo, per ragioni storiche, esalta il ruolo dei tribunali, dei media e di quella che chiama “società civile”, in cui è ben rappresentato, come pari o addirittura più importante del governo stesso. È quindi mordacemente divertente leggere sui media della Casta Professionale e Manageriale (PMC) che un governo ha deciso di fare questo o quello “nonostante le proteste dei gruppi per i diritti umani” che, a ben vedere, non sono stati eletti da nessuno. Ma l’egoistico senso del diritto della PMC – le truppe d’assalto del liberalismo – mescolato al disprezzo per la gente comune e le sue opinioni, produce inevitabilmente queste situazioni.

È proprio perché la politica liberale è interamente incentrata sulla lotta per il potere che tanti sforzi vengono fatti per rendere il governo meno efficace. (Dopotutto, non è che i governi abbiano effettivamente bisogno di fare cose). Piuttosto, poiché la politica è un gioco, è importante che i vari giocatori abbiano tutti una parte dei premi. Così, la fissazione liberale per la “separazione dei poteri” – un termine che non si trova in Montesquieu, e un’idea che lo precede – che è la gestione efficiente di un’oligarchia in modo che nessun singolo attore diventi troppo potente. Sebbene la effettiva separazione dei poteri non sia mai completa in nessuna democrazia, e sia a malapena visibile in alcune, e vi siano legami sociali, commerciali e familiari in tutta la classe dirigente di qualsiasi sistema che rendono il concetto di valore limitato, è un’ossessione dei pensatori liberali Perciò ogni sconfitta di un governo nei tribunali, o ogni relazione critica da parte di una commissione parlamentare tende a essere vista come un bene in sé. (Analogamente, i governi occidentali daranno molto più facilmente denaro a organizzazioni all’estero che pongono vincoli al governo, piuttosto che a progetti per rendere i governi più efficaci).

Quindi, nella teoria liberale, il governo, in quanto tale, non ha uno status speciale. Questo, però, è una sorta di delusione per gli elettori, che in genere si aspettano che i governi si comportino bene. Pertanto, l’insoddisfazione dell’opinione pubblica nei confronti del sistema politico liberale non deriva tanto dall’incapacità dei governi di fare la cosa giusta, quanto dalla loro incapacità di fare qualcosa. Eppure la concezione liberale dell’azione politica è nel migliore dei casi superficiale, nel peggiore inesistente. Premiare se stessi e la propria classe, penalizzare gli altri, sentirsi a proprio agio con una legislazione sociale performativa e, soprattutto, comandare gli altri e imporre loro norme e regolamenti sempre più dettagliati rappresenta gran parte dell’effettiva politica liberale. Poi, ci sono interessanti esperimenti sociali, per esempio nell’insegnamento della lettura o della matematica, dove se le cose vanno male ne risentono solo i figli degli insignificanti. E questo è abbastanza per andare avanti, grazie.

Ma non è così. La realtà bussa di tanto in tanto e richiede una risposta, che a volte può essere difficile da commercializzare: un problema che di solito non affligge i cereali da colazione.

Il risultato è che c’è sempre un divario tra ciò che i governi fanno effettivamente e ciò che vorrebbero fare, promettono di fare o che l’opinione pubblica vorrebbe che facessero. Tutti i governi sono limitati dalla realtà, come ha scoperto di recente anche Trump con le sue sanzioni economiche contro la Cina. Tutti i governi devono manovrare nel triangolo formato da ciò che vogliono fare, dalle pressioni esterne che gravano su di loro e da ciò che vuole l’opinione pubblica. Negli ultimi tempi i governi sono peggiorati in questo senso, perché in molti casi non hanno idee sviluppate e non sono comunque interessati a ciò che vuole l’opinione pubblica.

Possiamo vedere tutti questi fattori all’opera già nel periodo precedente la guerra in Iraq nel 2001-2 in Gran Bretagna (e in misura minore anche in altri Paesi europei). L’opinione pubblica, in quanto tale, sembra essere stata disinteressata all’avvicinarsi della guerra, ma come spesso accade una minoranza di persone si è sentita estremamente contraria, anche se molti opinionisti ed esperti autoproclamati erano fortemente a favore. Tradizionalmente, i governi hanno affrontato questo tipo di proteste, se non proprio ignorandole, rispondendo in modo minimale e aspettando che il clamore si placasse, cosa che avviene quasi sempre. Questa è stata la tattica utilizzata in risposta agli attivisti antinucleari negli anni ’80, quando il governo concluse, giustamente, che gli attivisti non avrebbero mai avuto il sostegno della maggioranza della popolazione e che il problema posto dalla Campagna per il disarmo nucleare e da altre organizzazioni era essenzialmente un problema di gestione politica. Così i ministri del governo rilasciarono interviste, le lettere degli attivisti antinucleari ricevettero cortesi risposte e le cose andarono avanti come avrebbero fatto altrimenti. Persino gli istinti falchi e conflittuali della signora Thatcher furono relativamente controllati. (Questo caso è diverso da quello di alcuni Paesi europei con governi di coalizione fragili, dove le proteste pubbliche contro l’installazione di missili balistici a raggio intermedio hanno fatto cadere alcuni governi).

Il caso della guerra in Iraq è interessante perché può essere visto come una guerra civile all’interno del liberalismo e del PMC. Gli interventisti umanitari, allora in piena forma e ben rappresentati nel governo Blair, si scontrarono frontalmente con i gruppi del diritto internazionale, per i quali la natura performativa e retorica del loro argomento si adattava esattamente alla loro mentalità PMC-Liberale. Purtroppo per questi ultimi, non riuscivano a spiegare come la loro opposizione alla guerra in Iraq potesse conciliarsi con l’indecente gioia con cui avevano sostenuto l’attacco alla Serbia nel 1999 durante la crisi del Kosovo. In realtà, ovviamente, non si poteva, così come non si può conciliare la predicazione di due versetti della Bibbia in contrasto tra loro, per cui la risposta è stata un’incoerenza borbottata che non ha fatto altro che riflettere l’incoerenza della stessa ideologia liberale. Tuttavia, tutto ciò era necessario per preservare l’idea che l’élite liberale-PMC esistesse su un piano superiore rispetto ai semplici governi e avesse il diritto di dare lezioni su come comportarsi.

Ma anche molte persone comuni erano contrarie alla guerra in Iraq e hanno manifestato pubblicamente i loro sentimenti. Il governo Blair, nuovo al potere e alla responsabilità politica, ed essenzialmente composto da personale della PMC, ha reagito in modo maldestro come ci si potrebbe aspettare: cercando di spaventare la gente con storie di attacchi iracheni al Regno Unito, e mentendo sulla valutazione professionale della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq (che era che probabilmente erano state tutte distrutte, anche se giudizi di questo tipo non possono mai essere assoluti). Invece di confrontarsi con i suoi critici, come avrebbero fatto i governi precedenti, anche se in modo poco approfondito, ha cercato di colpirli fino a farli tacere: un primo assaggio della tipica risposta dei liberali e del PMC. Ironia della sorte, questo ha di fatto trasformato l’opinione pubblica in un problema più importante di quanto sarebbe stato altrimenti, e probabilmente ha fatto sì che questioni oggettivamente più importanti, come le relazioni con la nuova amministrazione Bush, venissero messe da parte. Nella misura in cui Blair è stato danneggiato politicamente da questo episodio (e questo può essere esagerato) è stato soprattutto perché lui e il suo governo non avevano idea di come gestire correttamente l’opposizione politica nel Paese…

In passato, i governi delle democrazie occidentali si sono trovati a dover manovrare abilmente tra i tre poli che ho descritto sopra. L’opinione pubblica era un’influenza nel senso che, per molti argomenti, si doveva giudicare pragmaticamente se la decisione o l’iniziativa in questione valesse i problemi che avrebbe potuto causare. A quei tempi, i leader politici dicevano cose come “al Parlamento non piacerà” o “ci sarà troppa opposizione pubblica”. Si trattava di giudizi essenzialmente pragmatici: non è detto che la maggioranza dell’opinione pubblica o parlamentare fosse contraria a un governo, ma piuttosto che l’opposizione fosse di entità tale da rendere la prosecuzione più problematica di quanto valesse. Più il tema è importante, ovviamente, maggiore è il livello di opposizione necessario per far fare marcia indietro al governo. Il caso più famoso è quello del Vietnam, dove la maggioranza della popolazione statunitense sosteneva la guerra, e solo le proteste di massa dei figli della stessa PMC costrinsero a un cambiamento di politica.

In altre parole, non esistevano regole ferree, e a volte i governi agivano contro la schiacciante opposizione dell’opinione pubblica. L’esempio migliore è forse la decisione del governo laburista del 1964-70 di consentire l’introduzione di un disegno di legge nel 1965 per l’abolizione della pena capitale e di far valere il peso del governo. Ciò avvenne contro la massiccia opposizione dell’opinione pubblica (circa l’80-85% della popolazione era favorevole all’impiccagione), motivo per cui il governo scelse questa via indiretta. Anche se non ci sono state esecuzioni nella vita della maggior parte delle persone, il sostegno alla pena capitale rimane ancora forte in Gran Bretagna e in molti altri Paesi.

Un esempio simile è la risoluzione della crisi in Irlanda del Nord dove, dopo un inizio disastroso, i governi britannici che si sono succeduti hanno passato decenni a cercare una soluzione negoziata. Anche durante l’era Thatcher ci sono stati contatti indiretti con l’IRA e il movimento repubblicano, e il processo che ha portato all’Accordo del Venerdì Santo del 1998 ha comportato almeno un decennio di attenti e a volte agonizzanti negoziati segreti. Né il Parlamento né l’opinione pubblica furono informati fino a molto tardi, perché il grado di probabile opposizione dell’opinione pubblica avrebbe fatto fallire le iniziative di pace. L’opinione pubblica sul continente era molto accesa e spaziava dalla condanna generalizzata di tutti i membri della Provincia (“bombardate i bastardi”, “rimorchiateli e affondateli”) all’astio più specifico contro l’IRA dopo l’esplosione delle bombe in Inghilterra (“spazzateli via tutti”).

Ma questo era il passato. Che si pensi che i governi del passato abbiano tenuto maggiormente conto dell’opinione pubblica perché si sentivano obbligati a farlo, perché lo ritenevano giusto, o anche per motivi del tutto cinici, o tutto questo a seconda della situazione e del Paese, il fatto è che ora non lo fanno e non si vede perché dovrebbero farlo, anche se gli opinionisti si fissano sulle sue manifestazioni statistiche. Il liberalismo è sempre stato un’ideologia elitaria che diffida della gente comune e le dà lezioni dall’alto della sua superiorità morale: ora non vede la necessità di fingere di essere altro. I partiti politici di tutte le sfumature sono stati ridotti a club di tifosi, che comprano i souvenir e cantano gli slogan. Ma quando la politica è stata svuotata della politica e non ha più uno scopo definibile, non sorprende che la gente si chieda quale sia lo scopo dei politici stessi.

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