L’ “acquarugiola sul colle” fa parte delle manovre in corso in Italia per portarci in guerra; perché qualcuno la guerra dovrà firmarla ed in particolare il borbottio di ieri sembra legato ad un possibile “ Mattarella III “ .
Perché di sicuro Mattarella la sua firma la metterà.
Sia chiaro che non è mia intenzione di accusare di alcunché il “nostro” Augustissimo Presidente. La mia è attualmente solo una ipotesi (geo)politica che potrebbe essere passata nella testa dei suoi meno augusti consiglieri , così come è stata denunciata da un giornale di destra.
Ma facciamo prima un breve ricapitolazione della “time table” con cui ci sta portando in guerra.
1) La NATO provoca la Russia in Ucraina
2) La Russia fa un “prempitive attack” ( come previsto nel piano NATO).
3) L’ Ucraina non accetta le condizioni politiche richieste dalla Russia e dichiara la guerra totale ( come previsto nel piano NATO).
4) la Russia non la segue su questo piano , si mette sulla difensiva e si adatta al conflitto (cosa non prevista dal piano NATO).
5) La NATO spinge l’ Ucraina all’ offensiva, assistendola in tutti i modi provocatorii possibili ma mantenendo una formale negazione del proprio coinvolgimento nel conflitto.
6) La Russia ignora le provocazioni e si limita a difendersi distruggendo l’esercito Ucraino.
7) la NATO propone un cessate il fuoco che comunque lasci l’ Ucraina nelle sue mani e politicamente scornata la Russia.
8) la Russia rifiuta questa “pace” ribadendo le sue precondizioni politiche che però l’ Ucraina rifiuta. La Russia passa all’offensiva.
La NATO però non può e non vuole mollare l’ Ucraina; deve quindi intervenire DIRETTAMENTE per salvare il suo regime a Kiev.
Ma così la posta diventa troppo grossa per il master della NATO ( gli U$A); le potenze nucleari non possono farsi guerra DIRETTAMENTE . E così gli U$A hanno deciso di lasciare l’ onere della guerra ai suoi ascari €uropei .
Il motivo per il quale dovrà essere l’ €uropa a dover correre il rischio e prendersi il danno facendo guerra alla Russia in un modo o nell’ altro.
E qui veniamo al cumquibus. A nessun ascaro sarà permesso di sottrarsi a questa guerra. Riguardo a ciò il problema non è politico, nel senso che in €uropa i padroni della NATO detengono il controllo non solo dei governi ma anche delle opposizioni. Si tratta solo di definire l’ opportuna “ narrazione” per portare avanti le decisioni prese.
E qui veniamo all’ Italia .
L’ attuale governo non ha la maggioranza bellicista necessaria. Il partito contrario, la Lega, ( per ora ) non sembra disponibile a “cambiare idea”. Nel caso si tratterebbe quindi di costruire una maggioranza ”ad hoc” con pezzi di opposizione atti a sostituire i renitenti alla guerra della attuale maggioranza. Una dinamica che “ a parti invertite” abbiamo già visto con il governo Prodi1
Quindi :
Ipotesi uno : Giorgia sbatte fuori la Lega .
E’ un cosa abbastanza semplice fare un Giorgia 2 “ deguera” . Basterebbe mettere insieme TUTTO FdI, TUTTA FI, i “calendiani ” e un pugno di leghisti sedicenti “padanisti”; con un sapiente contributo della opposizione sarebbe fatta.
Ma Giorgia nicchia. Lei ha costruito tutto il suo successo politico succhiando le ruote leghiste; non è disposta a ridare alla Lega la sua libertà d’ azione elettorale . Quindi non se parla
Ipotesi due : Giorgia cade come Prodi e arriva un ammucchione di “guerrafondai” come ai tempi del governo D’Alema.
C’ è anche l’uomo giusto : Crosetto. Ma Crosetto , al contrario di D’Alema nel 1998, non ha il controllo del suo partito; se Giorgia non vuole non se ne fa nulla.
Giorgia probabilmente è tentata di lasciare ad altri la patata bollente del governo “deguera” portando gran parte del suo partito all’ opposizione con Salvini , ma…
Il problema è in quel “gran parte”; per vari motivi “gran parte” di FdI seguirebbe comunque Giorgia e Crosetto non potrebbe guidare un governo nel quale la sua squadra sarebbe quella di minor peso.
In questo caso entrerebbe in campo il “noto garante”, recuperando il noto “SSalvatore della patria” per un “governo di SSalvezza nazionale”. Si andrebbe in guerra e buonanotte ma ad una condizione…
Solo dopo le elezioni del ‘27. Come ben noto dalle fine de “l’ altro SSalvatore della patria”, un ammucchione che massacra il paese poi non potrebbe presentarsi alle elezioni e vincerle.
Quindi abbiamo l’ ipotesi 3: L’ ammucchione del “ salvatore” si fa prima delle elezioni .
Ovviamente su l’ onda di un emergenziale “fate presto” e in questo caso presentandosi tutti insieme contro gioggia&salvini con “il garante” che farà la sua ( solita) parte in cambio di un “terzo mandato” da consegnare poi (forse) al “Ssalvatore”.
Tanto, comunque non si voterà più perché “c’è la guera”…
E’ quindi ovvio che qualche consigliore del “nostro” Re possa “coltivare” questa ultima ipotesi e che Giorgia ci abbia voluto “ veder chiaro”.
Che ci piaccia o meno, siamo tutti nelle mani di Giorgia la quale evidentemente non vuol collaborare ( per ora).
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Filosofo politico; Università ortodossa russa di San Giovanni il Teologo, Rettore
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Nell’ottobre 2025, in occasione dell’incontro annuale del Valdai Discussion Club, Vladimir Putin ha offerto al pubblico una visione del futuro prossimo e un nuovo modello di relazioni internazionali nell’era post-globalizzazione. Nell’analizzare questo discorso, è importante considerare che il Valdai Club è uno dei luoghi in cui il presidente russo rilascia dichiarazioni strategiche.
Vladimir Putin ha basato i punti chiave del suo discorso sui principi della “filosofia della complessità” e del policentrismo, o multipolarità. Inoltre, l’idea della filosofia della complessità rappresenta di fatto uno sviluppo e un’espansione dei concetti familiari di “multipolarità” e “policentricità”, elevandoli dal loro precedente livello strutturale a un nuovo livello metodologico. Il presidente russo ha sottolineato che nel nuovo mondo “ognuno ha i propri aspetti vantaggiosi e punti di forza competitivi, che in ogni caso creano una combinazione e una composizione uniche”, ma per comprendere tutto ciò “le semplici leggi della logica, le relazioni di causa-effetto e i modelli che ne derivano non sono sufficienti. Ciò che serve qui è una filosofia della complessità, qualcosa di simile alla meccanica quantistica, che è più saggia e, per certi versi, più complessa della fisica classica”. “
In sostanza, la filosofia della complessità è un approccio rilevante nella metodologia scientifica utilizzata per studiare sistemi combinati con connessioni non lineari, comunemente denominati “paradigmi complessi”. Una proprietà importante di tali sistemi è l’emergenza, ovvero l’irriducibilità delle leggi dell’insieme alle leggi dei sistemi al suo interno. Questo fenomeno è anche centrale nella teoria della sinergia, ovvero l’auto-organizzazione dei sistemi complessi.
Il ricorso di Putin ai principi della filosofia della complessità è del tutto logico: il mondo della politica internazionale rappresenterà molto presto proprio un sistema così “complesso”, un paradigma complesso. Le teorie sviluppate nell’era della globalizzazione non sono più sufficienti per comprenderlo.
Secondo Vladimir Putin, i principi della filosofia della complessità devono essere applicati a una nuova comunità globale che abbracci l’uguaglianza e il giusto allineamento degli interessi tra le entità che la compongono, la conservazione della loro unicità culturale e una storia multivettoriale. Quest’ultimo approccio implica considerare la storia non come un’evoluzione “naturale” o una procedura di governance aziendale, ma come una serie di processi multidirezionali e un giusto allineamento degli interessi. Tutto ciò esclude i dettami di un “consiglio di amministrazione” globale sotto forma di una classe dirigente globale.
Parlando del legame tra la filosofia politica della complessità e la “policentricità”, va notato che “policentricità” è ora usato come sinonimo di “multipolarità”, anche se quest’ultimo termine era prevalente in passato. Riteniamo che questo cambiamento non sia casuale. La differenza semantica tra questi concetti è che la “policentricità”, a differenza della “multipolarità”, non denota semplicemente un insieme di componenti, ma una nuova configurazione governata da leggi proprie.
Vale la pena notare che alcuni principi della filosofia della complessità trovano origine nella teologia ortodossa. Pertanto, da una prospettiva cristiana, non esistono verità teoriche autosufficienti oltre al Credo e ai comandamenti dati da Dio. Tutto il resto nasce e si sviluppa attraverso l’azione condivisa, la collaborazione, ovvero in modo conciliare. In sostanza, Vladimir Putin invita a utilizzare proprio questa metodologia, caratteristica delle religioni tradizionali.
L’ampia applicabilità di questa metodologia è comprensibile. Dopo tutto, come è noto, le religioni tradizionali dei popoli determinano le forme della loro vita culturale e la natura delle loro istituzioni sociali. Ad esempio, il contesto socioculturale del mondo russo è, in un modo o nell’altro, una proiezione dell’autentica religiosità ortodossa. In questo caso, il topos di un «ordine mondiale giusto», caratteristico della nostra intera tradizione, viene preservato e riprodotto in nuove condizioni culturali e storiche. Naturalmente, oggi è percepito in modo molto più pragmatico rispetto a mezzo secolo fa e si basa su fondamenta nuove, ben lontane dall’altruismo e dall’internazionalismo. Tuttavia, è proprio l’idea di una cooperazione equa che costituisce il fondamento della visione di Putin del mondo futuro.
Vladimir Putin cerca quindi di introdurre un elemento di conciliazione nelle relazioni internazionali. Egli sostiene che il mondo non può più essere strutturato come una società per azioni e che solo attraverso l’associazione di membri uguali e il giusto equilibrio dei loro interessi è possibile superare l’incommensurabilità delle posizioni e delle visioni del mondo. Questa è la filosofia della complessità di un mondo policentrico o multipolare. Essa consentirà ai paesi e ai popoli di sopravvivere al crollo del sistema neoliberista.
Entrambi i concetti, “filosofia della complessità” e “policentrismo”, implicano un rifiuto sistematico del globalismo come malattia storica del mondo occidentale nel prossimo futuro.
Il vettore globalista dell’egemonia occidentale sotto le spoglie della “leadership” si è esaurito. Nel nuovo modello politico, gli attori globali non sono più divisi in soggetti e oggetti del processo storico. Non sono più visti attraverso la lente del fatalismo progressista e della “leadership” globale. Sono chiamati ad abbracciare il rispetto reciproco e la cooperazione.
Come sottolinea Vladimir Putin, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo «i paesi occidentali hanno ceduto alla tentazione del potere assoluto» e oggi «le istituzioni di governance globale create in epoche precedenti hanno smesso di funzionare o hanno perso gran parte della loro efficacia». L’egemonia sta «cedendo il passo a un approccio multilaterale e più cooperativo».
Tutti ricordiamo il sistema westfaliano dalle lezioni di storia. Dopo la lunga guerra dei trent’anni, il mondo del XVII secolo cambiò radicalmente, iniziando a seguire il principio della sovranità nazionale. La Santa Sede non imponeva più regole uniformi a tutta l’Europa. La politica globale era ora strutturata come un “concerto” delle potenze europee.
Oggi ci troviamo in una situazione simile, in un nuovo momento storico, con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’oligarchia transnazionale che cercano di svolgere il ruolo della Roma cattolica. In un “mondo basato sulle regole”, le regole sono state sviluppate a Washington e Londra. Ma oggi vediamo che le loro “regole” non sono più efficaci. Il sistema neocoloniale di saccheggio economico e spersonalizzazione socioculturale ha fallito gravemente e le élite globali non possono più controllare il mondo attraverso conflitti gestiti.
Vladimir Putin ha di fatto proclamato il passaggio a un nuovo «sistema westfaliano». Il mondo moderno è nuovamente composto da entità sovrane e, se guardiamo alla storia come alla storia dei popoli e non delle élite, la vediamo come una moltitudine di comunità. È possibile che queste si uniscano in un’unica comunità? Potrebbe essere produttivo e non violento, ad esempio, se condividesse un fondamento di valori comuni. Ma questo è ancora lontano, poiché molte religioni tradizionali hanno indebolito la loro immunità all’influenza del globalismo secolarista.
Qualsiasi principio liberale-secolare di unificazione “universale” porterà inevitabilmente a nuovi progetti globalisti, simili al Comintern comunista o all'”internazionale” mondiale delle strutture finanziarie. Dopo tutto, qualsiasi universalismo liberale-secolare proviene dal nemico dell’umanità. Ciò è chiaramente indicato dall’episodio evangelico della tentazione di Cristo. Il diavolo tenta Cristo proprio con l’idea dell’universalità, del potere completo e unico sul mondo, naturalmente attraverso la sua mediazione, quella del diavolo. Cristo rifiuta. «Di nuovo il diavolo lo portò su un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro magnificenza. “Tutto questo ti darò”, gli disse, “se ti prostrerai e mi adorerai”».
Gesù gli disse: «Vattene via da me, Satana! Sta scritto infatti: “Adora il Signore Dio tuo e servi lui solo”». Allora il diavolo lo lasciò e gli angeli vennero a servirlo (Matteo 4:8-11).
L’analogia tra il globalismo e la costruzione di una nuova Babilonia è piuttosto evidente, anche nel contesto dell’Apocalisse di Giovanni il Teologo. Nell’Apocalisse, come è noto, «Uno dei sette angeli che avevano le sette coppe venne e mi disse: “Vieni, ti mostrerò la punizione della grande prostituta, che siede su molte acque. Con lei i re della terra hanno commesso adulterio, e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino dei suoi adulteri”» (Apocalisse 17:1-2).
Oggi il mondo sta tornando ad essere un mondo di regioni, piuttosto che un unico centro globale. È proprio in questo contesto che, ad esempio, la Chiesa cattolica, con la sua propensione al globalismo, sta incorporando il concetto di “teologia della periferia” nella sua strategia diplomatica.
Rafforzando i legami con i paesi della “periferia” globale, il Vaticano, sullo sfondo della graduale decentralizzazione del mondo, sta entrando in una lotta per il Sud del mondo.
Questi sforzi vengono intrapresi attraverso il proselitismo religioso, che funge da “soft power” per l’occidentalizzazione e, in ultima analisi, promuove le strategie euro-atlantiste. In questo modo, l’Occidente cerca di appropriarsi delle risorse politiche del Sud del mondo per controllare l’Europa e prepararsi al previsto scontro con la Russia.
In questa complessa situazione, una visione strategica delle relazioni internazionali è di grande importanza per la Russia. Dopo tutto, nel contesto di una crisi globale, tutti gli attori globali sono bloccati in uno stato di zugzwang e preferiscono giocare una partita tattica di attesa: chi commetterà il primo errore o esaurirà le proprie risorse? Nel frattempo, Vladimir Putin è già pronto, attingendo alla filosofia della complessità, a delineare i contorni di un nuovo ordine mondiale conciliare in cui la Russia e i paesi BRICS potrebbero svolgere un ruolo di attori sistemicamente importanti.
Vladimir Putin incontra i membri del Valdai Discussion Club. Trascrizione della sessione plenaria della 22a riunione annuale
Vladimir Putin ha partecipato alla 22a riunione annuale del Valdai Discussion Club. Il titolo dell’evento di quest’anno è “Il mondo policentrico: istruzioni per l’uso”. La sessione plenaria è stata presieduta dal direttore della ricerca del Valdai Club, Fyodor Lukyanov.
* * *
Direttore della ricerca della Fondazione per lo sviluppo e il sostegno del Club di discussione internazionale Valdai Fyodor Lukyanov: Signore e signori, ospiti del Club Valdai!
Diamo inizio alla sessione plenaria del 22° forum annuale del Club di discussione internazionale Valdai. È per me un grande onore invitare il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin su questo palco.
Signor Presidente, grazie mille per aver trovato ancora una volta il tempo di unirsi a noi. Il Club Valdai gode del grande privilegio di incontrarla per il ventitreesimo anno consecutivo per discutere delle questioni più attuali. Credo che nessun altro sia così fortunato.
Il 22° incontro del Club Valdai, che si è svolto negli ultimi tre giorni, era intitolato “Il mondo policentrico: istruzioni per l’uso”. Stiamo cercando di passare dalla semplice comprensione e descrizione di questo nuovo mondo a questioni pratiche: ovvero, capire come viverci, poiché non è ancora del tutto chiaro.
Possiamo considerarci utenti esperti, ma siamo comunque solo utenti di questo mondo. Tu, invece, sei almeno un meccanico e forse anche un ingegnere di questo ordine mondiale policentrico, quindi attendiamo con impazienza alcune linee guida per l’uso da parte tua.
Presidente della Russia Vladimir Putin: È improbabile che io sia in grado di formulare linee guida o istruzioni – e non è questo il punto, perché spesso le persone chiedono istruzioni o consigli solo per poi non seguirli. È una formula ben nota.
Vorrei esprimere la mia opinione su ciò che sta accadendo nel mondo, sul ruolo del nostro Paese in esso e su come vediamo le sue prospettive di sviluppo.
Il Club di discussione internazionale Valdai si è riunito per la ventiduesima volta e questi incontri sono diventati più di una buona tradizione. Le discussioni sulle piattaforme Valdai offrono un’opportunità unica per valutare la situazione globale in modo imparziale e completo, per rivelare i cambiamenti e comprenderli.
Indubbiamente, la forza unica del Club risiede nella determinazione e nella capacità dei suoi partecipanti di guardare oltre il banale e l’ovvio. Essi non si limitano a seguire l’agenda imposta dallo spazio informativo globale, dove Internet fornisce il suo contributo – sia nel bene che nel male, spesso difficile da discernere – ma pongono le loro domande non convenzionali, offrono la loro visione dei processi in corso, cercando di sollevare il velo che nasconde il futuro. Non è un compito facile, ma spesso qui a Valdai viene portato a termine.
Abbiamo ripetutamente sottolineato che viviamo in un’epoca in cui tutto sta cambiando, e molto rapidamente; direi addirittura in modo radicale. Naturalmente, nessuno di noi può prevedere completamente il futuro. Tuttavia, ciò non ci esonera dalla responsabilità di prepararci ad affrontarlo. Come hanno dimostrato il tempo e gli eventi recenti, dobbiamo essere pronti a tutto. In periodi storici come questo, ognuno di noi ha una responsabilità speciale nei confronti del proprio destino, di quello del proprio Paese e del mondo intero. La posta in gioco oggi è estremamente alta.
Come già detto, il rapporto del Club Valdai di quest’anno è dedicato a un mondo multipolare e policentrico. L’argomento è da tempo all’ordine del giorno, ma ora richiede un’attenzione particolare; su questo punto concordo pienamente con gli organizzatori. La multipolarità che di fatto è già emersa sta plasmando il quadro entro il quale agiscono gli Stati. Cercherò di spiegare cosa rende unica la situazione attuale.
Innanzitutto, il mondo odierno offre uno spazio molto più aperto – anzi, si potrebbe dire creativo – per la politica estera. Nulla è predeterminato; gli sviluppi possono prendere direzioni diverse. Molto dipende dalla precisione, dall’accuratezza, dalla coerenza e dall’attenzione delle azioni di ciascun partecipante alla comunicazione internazionale. Tuttavia, in questo vasto spazio è anche facile perdersi e perdere l’orientamento, cosa che, come possiamo vedere, accade abbastanza spesso.
In secondo luogo, lo spazio multipolare è altamente dinamico. Come ho già detto, i cambiamenti avvengono rapidamente, a volte in modo improvviso, quasi dall’oggi al domani. È difficile prepararsi e spesso impossibile prevederli. Bisogna essere pronti a reagire immediatamente, in tempo reale, come si suol dire.
Terzo, e di particolare importanza, è il fatto che questo nuovo spazio è più democratico. Esso apre opportunità e percorsi per un’ampia gamma di attori politici ed economici. Forse mai prima d’ora così tanti paesi hanno avuto la capacità o l’ambizione di influenzare i processi regionali e globali più significativi.
Avanti. Le specificità culturali, storiche e civili dei diversi paesi rivestono oggi un ruolo più importante che mai. È necessario cercare punti di contatto e convergenze di interessi. Nessuno è disposto a seguire le regole stabilite da qualcun altro, in un luogo lontano – come cantava un famoso chansonnier nel nostro paese, «oltre la nebbia», o oltre gli oceani, per così dire.
A questo proposito, il quinto punto: qualsiasi decisione è possibile solo sulla base di accordi che soddisfino tutte le parti interessate o la stragrande maggioranza. Altrimenti, non ci sarà alcuna soluzione praticabile, ma solo frasi altisonanti e un gioco sterile di ambizioni. Pertanto, per ottenere risultati, l’armonia e l’equilibrio sono essenziali.
Infine, le opportunità e i pericoli di un mondo multipolare sono inseparabili l’uno dall’altro. Naturalmente, l’indebolimento del diktat che ha caratterizzato il periodo precedente e l’espansione della libertà per tutti è innegabilmente uno sviluppo positivo. Allo stesso tempo, in tali condizioni, è molto più difficile trovare e stabilire questo equilibrio molto solido, il che di per sé è un rischio evidente ed estremo.
Questa situazione sul pianeta, che ho cercato di delineare brevemente, è un fenomeno qualitativamente nuovo. Le relazioni internazionali stanno subendo una trasformazione radicale. Paradossalmente, la multipolarità è diventata una conseguenza diretta dei tentativi di stabilire e preservare l’egemonia globale, una risposta del sistema internazionale e della storia stessa al desiderio ossessivo di organizzare tutti in un’unica gerarchia, con i paesi occidentali al vertice. Il fallimento di tale impresa era solo una questione di tempo, cosa di cui abbiamo sempre parlato, tra l’altro. E, secondo gli standard storici, è avvenuto abbastanza rapidamente.
Trentacinque anni fa, quando lo scontro della Guerra Fredda sembrava volgere al termine, speravamo nell’alba di un’era di autentica cooperazione. Sembrava che non ci fossero più ostacoli ideologici o altri ostacoli che potessero impedire la risoluzione congiunta dei problemi comuni all’umanità o la regolamentazione e la risoluzione delle inevitabili controversie e conflitti sulla base del rispetto reciproco e della considerazione degli interessi di ciascuno.
Permettetemi una breve digressione storica. Il nostro Paese, nel tentativo di eliminare le cause dello scontro tra blocchi e di creare uno spazio comune di sicurezza, ha dichiarato per due volte la propria disponibilità ad aderire alla NATO. La prima volta è stato nel 1954, durante l’era sovietica. La seconda volta è stata durante la visita del presidente americano Bill Clinton a Mosca nel 2000 – ne ho già parlato – quando abbiamo discusso con lui anche di questo argomento.
In entrambe le occasioni, siamo stati sostanzialmente respinti senza mezzi termini. Ribadisco: eravamo pronti a collaborare, a compiere passi non lineari nel campo della sicurezza e della stabilità globale. Ma i nostri colleghi occidentali non erano disposti a liberarsi dalle catene degli stereotipi geopolitici e storici, da una visione semplificata e schematica del mondo.
Ne ho parlato pubblicamente anche quando ne ho discusso con il signor Clinton, con il presidente Clinton. Lui ha detto: “Sai, è interessante. Penso che sia possibile”. E poi la sera ha detto: “Ho consultato i miei collaboratori: non è fattibile, non è fattibile adesso”. “Quando sarà fattibile?” E così è finito tutto, è sfumato tutto.
In breve, abbiamo avuto una reale opportunità di orientare le relazioni internazionali in una direzione diversa e più positiva. Tuttavia, purtroppo, ha prevalso un approccio diverso. I paesi occidentali hanno ceduto alla tentazione del potere assoluto. Si trattava davvero di una tentazione potente, e resistervi avrebbe richiesto una visione storica e un buon background intellettuale e storico. Sembra che a chi ha preso le decisioni in quel momento mancassero semplicemente entrambi.
In effetti, il potere degli Stati Uniti e dei loro alleati ha raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo. Ma non c’è mai stata, né ci sarà mai, una forza in grado di governare il mondo, dettando a tutti come agire, come vivere e persino come respirare. Ci sono stati tentativi in tal senso, ma tutti sono falliti.
Tuttavia, dobbiamo riconoscere che molti hanno trovato accettabile e persino conveniente il cosiddetto ordine mondiale liberale. È vero, una gerarchia limita fortemente le opportunità di coloro che non si trovano al vertice della piramide o, se preferite, al vertice della catena alimentare. Ma chi si trovava alla base era sollevato da ogni responsabilità: le regole erano semplici: accettare i termini, adattarsi al sistema, ricevere la propria parte, per quanto modesta, ed essere soddisfatti. Altri avrebbero pensato e deciso al posto tuo.
E non importa cosa dicano ora, non importa quanto alcuni cerchino di nascondere la realtà – è così che è andata. Gli esperti qui riuniti lo ricordano e lo capiscono perfettamente.
Alcuni, nella loro arroganza, si sentivano in diritto di dare lezioni al resto del mondo. Altri si accontentavano di stare al gioco dei potenti come pedine obbedienti, desiderosi di evitare inutili problemi in cambio di un bonus modesto ma garantito. Ci sono ancora molti politici di questo tipo nella parte vecchia del mondo, in Europa.
Coloro che hanno osato opporsi e hanno cercato di difendere i propri interessi, diritti e opinioni sono stati, nel migliore dei casi, liquidati come eccentrici e, in sostanza, è stato loro detto: “Non avrete successo, quindi arrendetevi e accettate il fatto che, rispetto al nostro potere, voi non siete nulla”. Quanto ai più ostinati, venivano “educati” dai sedicenti leader mondiali, che non si preoccupavano nemmeno più di nascondere le loro intenzioni. Il messaggio era chiaro: resistere era inutile.
Ma questo non ha portato nulla di buono. Non è stato risolto nemmeno un problema globale. Al contrario, ne stanno nascendo continuamente di nuovi. Le istituzioni di governance globale create in epoche precedenti hanno smesso di funzionare o hanno perso gran parte della loro efficacia. E per quanto uno Stato, o anche un gruppo di Stati, possa accumulare forza o risorse, il potere ha sempre i suoi limiti.
Come ben sa il pubblico russo, in Russia esiste un detto che recita: Russia: “Non c’è nulla che possa contrastare un piede di porco, se non un altro piede di porco”, il che significa che non si porta un coltello a una sparatoria, ma un’altra pistola. E in effetti, quell'”altra pistola” si trova sempre. Questa è l’essenza stessa degli affari mondiali: emerge sempre una forza contraria. E i tentativi di controllare tutto generano inevitabilmente tensioni, minando la stabilità interna e spingendo la gente comune a porre una domanda molto legittima ai propri governi: “Perché abbiamo bisogno di tutto questo?”
Una volta ho sentito qualcosa di simile dai nostri colleghi americani, che hanno detto: “Abbiamo conquistato il mondo intero, ma abbiamo perso l’America”. Posso solo chiedere: ne è valsa la pena? E avete davvero guadagnato qualcosa?
È emerso un chiaro rifiuto delle eccessive ambizioni dell’élite politica delle principali nazioni dell’Europa occidentale, che sta crescendo nelle società di quei paesi. Il barometro dell’opinione pubblica lo indica in modo trasversale. L’establishment non vuole cedere il potere, osa ingannare direttamente i propri cittadini, aggrava la situazione a livello internazionale, ricorre a ogni sorta di stratagemma all’interno dei propri paesi, sempre più ai margini della legalità o addirittura oltre.
Tuttavia, trasformare continuamente le procedure democratiche ed elettorali in una farsa e manipolare la volontà dei popoli non funzionerà. Come è successo in Romania, per esempio, ma non entreremo nei dettagli. Questo sta accadendo in molti paesi. In alcuni di essi, le autorità stanno cercando di mettere al bando i loro oppositori politici che stanno acquisendo maggiore legittimità e maggiore fiducia da parte degli elettori. Lo sappiamo per esperienza diretta, risalente all’epoca dell’Unione Sovietica. Ricordate le canzoni di Vladimir Vysotsky: “Hanno cancellato persino la parata militare! Presto metteranno al bando tutto e tutti!” Ma non funziona, i divieti non funzionano.
Nel frattempo, la volontà del popolo, la volontà dei cittadini di quei paesi è chiara e semplice: che i leader dei paesi si occupino dei problemi dei cittadini, si prendano cura della loro sicurezza e della loro qualità di vita e non inseguano chimere. Gli Stati Uniti, dove le richieste della popolazione hanno portato a un cambiamento sufficientemente radicale nel vettore politico, ne sono un esempio calzante. E possiamo dire che gli esempi sono noti per essere contagiosi per altri paesi.
La subordinazione della maggioranza alla minoranza, insita nelle relazioni internazionali durante il periodo di dominio occidentale, sta cedendo il passo a un approccio multilaterale e più cooperativo. Esso si basa su accordi tra i principali attori e sulla considerazione degli interessi di tutti. Ciò non garantisce certamente l’armonia e l’assenza assoluta di conflitti. Gli interessi dei paesi non coincidono mai completamente e l’intera storia delle relazioni internazionali è, ovviamente, una lotta per raggiungerli.
Tuttavia, il clima globale fondamentalmente nuovo in cui il tono è sempre più dettato dai paesi della Maggioranza Globale, offre la promessa che tutti gli attori dovranno in qualche modo tenere conto degli interessi reciproci nella ricerca di soluzioni alle questioni regionali e globali. Dopo tutto, nessuno può raggiungere i propri obiettivi da solo, isolandosi dagli altri. Nonostante l’escalation dei conflitti, la crisi del precedente modello di globalizzazione e la frammentazione dell’economia globale, il mondo rimane integro, interconnesso e interdipendente.
Lo sappiamo per esperienza diretta. Sapete bene quanto impegno abbiano profuso i nostri avversari negli ultimi anni per, diciamolo chiaramente, spingere la Russia fuori dal sistema globale e condurci all’isolamento politico, culturale e informativo e all’autarchia economica. Per numero e portata delle misure punitive imposteci, che loro chiamano vergognosamente “sanzioni”, la Russia è diventata la detentrice assoluta del record nella storia mondiale: 30.000, o forse anche più, restrizioni di ogni tipo immaginabile.
E allora? Hanno raggiunto il loro obiettivo? Credo sia ovvio per tutti i presenti: questi sforzi sono falliti completamente. La Russia ha dimostrato al mondo il massimo grado di resilienza, la capacità di resistere alla più potente pressione esterna che avrebbe potuto distruggere non solo un paese, ma un’intera coalizione di Stati. E a questo proposito proviamo un legittimo orgoglio. Orgoglio per la Russia, per i nostri cittadini e per le nostre forze armate.
Ma vorrei parlare di qualcosa di più profondo. Si dà il caso che lo stesso sistema globale dal quale volevano espellerci semplicemente si rifiuti di lasciar andare la Russia. Perché ha bisogno della Russia come parte essenziale dell’equilibrio globale: non solo per il nostro territorio, la nostra popolazione, la nostra difesa, il nostro potenziale tecnologico e industriale o le nostre ricchezze minerarie, anche se, naturalmente, tutti questi sono fattori di fondamentale importanza.
Ma soprattutto, l’equilibrio globale non può essere costruito senza la Russia: né l’equilibrio economico, né quello strategico, né quello culturale o logistico. Nessuno. Credo che coloro che hanno cercato di distruggere tutto questo abbiano cominciato a rendersene conto. Alcuni, tuttavia, continuano ostinatamente a perseguire il loro obiettivo: infliggere, come dicono, una «sconfitta strategica» alla Russia.
Beh, se non riescono a capire che questo piano è destinato a fallire e continuano a insistere, spero comunque che la vita stessa insegni una lezione anche ai più testardi tra loro. Hanno fatto molto rumore molte volte, minacciandoci con un blocco totale. Hanno persino detto apertamente, senza esitazione, che vogliono far soffrire il popolo russo. Sono queste le parole che hanno scelto. Hanno elaborato piani, uno più fantasioso dell’altro. Penso che sia giunto il momento di calmarsi, di guardarsi intorno, di orientarsi e di iniziare a costruire relazioni in modo completamente diverso.
Comprendiamo anche che il mondo policentrico è altamente dinamico. Appare fragile e instabile perché è impossibile fissare in modo permanente lo stato delle cose o determinare l’equilibrio di potere a lungo termine. Dopo tutto, ci sono molti partecipanti a questi processi e le loro forze sono asimmetriche e composte in modo complesso. Ognuno ha i propri aspetti vantaggiosi e punti di forza competitivi, che in ogni caso creano una combinazione e una composizione uniche.
Il mondo odierno è un sistema eccezionalmente complesso e sfaccettato. Per descriverlo e comprenderlo adeguatamente, non bastano le semplici leggi della logica, le relazioni di causa-effetto e i modelli che ne derivano. Ciò che serve in questo caso è una filosofia della complessità, qualcosa di simile alla meccanica quantistica, che è più saggia e, per certi versi, più complessa della fisica classica.
Tuttavia, è proprio a causa di questa complessità del mondo che, a mio avviso, la capacità complessiva di raggiungere un accordo tende comunque ad aumentare. Dopo tutto, le soluzioni lineari unilaterali sono impossibili, mentre quelle non lineari e multilaterali richiedono una diplomazia molto seria, professionale, imparziale, creativa e, a volte, non convenzionale.
Sono quindi convinto che assisteremo a una sorta di rinascita, a un risveglio dell’arte diplomatica di alto livello. La sua essenza risiede nella capacità di dialogare e raggiungere accordi sia con i vicini e i partner che condividono gli stessi principi, sia – cosa non meno importante ma più impegnativa – con gli avversari.
È proprio in questo spirito – lo spirito della diplomazia del XXI secolo – che si stanno sviluppando nuove istituzioni. Tra queste figurano la comunità BRICS in espansione, le organizzazioni delle principali regioni come l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, le organizzazioni eurasiatiche e le associazioni regionali più compatte ma non per questo meno importanti. Molti di questi gruppi stanno emergendo in tutto il mondo – non li elencherò tutti, poiché li conoscete già.
Tutte queste nuove strutture sono diverse, ma sono accomunate da una qualità fondamentale: non operano secondo il principio della gerarchia o della subordinazione a un unico potere dominante. Non sono contro nessuno, sono per se stesse. Permettetemi di ribadire: il mondo moderno ha bisogno di accordi, non dell’imposizione della volontà di qualcuno. L’egemonia, di qualsiasi tipo essa sia, semplicemente non può e non riuscirà a far fronte alla portata delle sfide.
Garantire la sicurezza internazionale in queste circostanze è una questione estremamente urgente con molte variabili. Il numero crescente di attori con obiettivi, culture politiche e tradizioni distintive diversi crea un ambiente globale complesso che rende lo sviluppo di approcci per garantire la sicurezza un compito molto più intricato e difficile da affrontare. Allo stesso tempo, però, apre nuove opportunità per tutti noi.
Le ambizioni basate sui blocchi, pre-programmate per esacerbare il confronto, sono senza dubbio diventate un anacronismo privo di significato. Vediamo, ad esempio, con quanta diligenza i nostri vicini europei stiano cercando di rattoppare e ricoprire le crepe che attraversano l’edificio dell’Europa. Eppure, vogliono superare le divisioni e rafforzare l’unità traballante di cui un tempo andavano fieri, non affrontando efficacemente le questioni interne, ma gonfiando l’immagine di un nemico. È un vecchio trucco, ma il punto è che le persone in quei paesi vedono e capiscono tutto. Ecco perché scendono in piazza nonostante l’escalation esterna e la continua ricerca di un nemico, come ho detto prima.
Stanno ricreando l’immagine di un vecchio nemico, quello che hanno creato secoli fa, ovvero la Russia. La maggior parte degli europei fatica a capire perché dovrebbero avere così tanta paura della Russia, al punto che per opporsi ad essa devono stringere ancora di più la cinghia, abbandonare i propri interessi, rinunciarvi e perseguire politiche che sono chiaramente dannose per loro stessi. Eppure, le élite al potere dell’Europa unita continuano a fomentare l’isteria. Affermano che la guerra con i russi è ormai alle porte. Ripetono questa assurdità, questo mantra, all’infinito.
Francamente, quando a volte guardo e ascolto quello che dicono, penso che non possano davvero crederci. Non possono credere a quello che dicono quando affermano che la Russia sta per attaccare la NATO. È semplicemente impossibile crederci. Eppure stanno facendo credere questo al loro popolo. Quindi, che tipo di persone sono? O sono completamente incompetenti, se ci credono davvero, perché credere a simili sciocchezze è semplicemente inconcepibile, oppure sono semplicemente disonesti, perché non ci credono loro stessi ma stanno cercando di convincere i loro cittadini che è vero. Quali altre opzioni ci sono?
Francamente, sono tentato di dire: calmatevi, dormite sonni tranquilli e occupatevi dei vostri problemi. Guardate cosa sta succedendo nelle strade delle città europee, cosa sta succedendo con l’economia, l’industria industria, la cultura e l’identità europea, i debiti enormi e la crisi crescente dei sistemi di sicurezza sociale, la migrazione incontrollata e la violenza dilagante, compresa quella politica, la radicalizzazione di gruppi di sinistra, ultraliberali, razzisti e altri gruppi marginali.
Prendete nota di come l’Europa stia scivolando ai margini della concorrenza globale. Sappiamo perfettamente quanto siano infondate le minacce sui cosiddetti piani aggressivi della Russia con cui l’Europa si spaventa. Ne ho appena parlato. Ma l’autosuggestione è una cosa pericolosa. E non possiamo semplicemente ignorare ciò che sta accadendo; non abbiamo il diritto di farlo, per il bene della nostra sicurezza, per ribadire, per il bene della nostra difesa e della nostra incolumità.
Ecco perché stiamo monitorando attentamente la crescente militarizzazione dell’Europa. Si tratta solo di retorica o è giunto il momento di reagire? Abbiamo sentito, e anche voi ne siete a conoscenza, che la Repubblica Federale di Germania sta affermando che il suo esercito deve tornare ad essere il più forte d’Europa. Bene, stiamo ascoltando attentamente e seguendo tutto per capire cosa si intenda esattamente con questo.
Credo che nessuno abbia dubbi sul fatto che la risposta della Russia non tarderà ad arrivare. Per usare un eufemismo, la risposta a queste minacce sarà molto convincente. E sarà davvero una risposta: noi non abbiamo mai dato inizio a uno scontro militare. È insensato, inutile e semplicemente assurdo; distoglie l’attenzione dai problemi e dalle sfide reali. Prima o poi, le società inevitabilmente chiederanno conto ai loro leader e alle loro élite di aver ignorato le loro speranze, aspirazioni e necessità.
Tuttavia, se qualcuno dovesse ancora sentirsi tentato di sfidarci militarmente – come diciamo in Russia, la libertà è per i liberi – che ci provi pure. La Russia lo ha dimostrato più volte: quando la nostra sicurezza, la pace e la tranquillità dei nostri cittadini, la nostra sovranità e le fondamenta stesse del nostro Stato sono minacciate, reagiamo prontamente.
Non c’è bisogno di provocazioni. Non c’è stato un solo caso in cui questo abbia portato a un esito positivo per il provocatore. E non ci si devono aspettare eccezioni in futuro: non ce ne saranno.
La nostra storia ha dimostrato che la debolezza è inaccettabile, poiché crea tentazioni, l’illusione che la forza possa essere utilizzata per risolvere qualsiasi questione che ci riguarda. La Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione. Che lo ricordino coloro che provano risentimento per il fatto stesso della nostra esistenza, coloro che nutrono il sogno di infliggerci questa cosiddetta sconfitta strategica. A proposito, molti di coloro che ne parlavano attivamente, come diciamo in Russia, “alcuni non ci sono più, altri sono lontani”. Dove sono ora queste figure?
Ci sono così tanti problemi oggettivi nel mondo – derivanti da fattori naturali, tecnologici o sociali – che spendere energie e risorse per contraddizioni artificiali, spesso inventate, è inaccettabile, dispendioso e semplicemente sciocco.
La sicurezza internazionale è ormai diventata un fenomeno così multiforme e indivisibile che nessuna divisione geopolitica basata sui valori può frammentarla. Solo un lavoro meticoloso e completo che coinvolga diversi partner e si basi su approcci creativi può risolvere le complesse equazioni della sicurezza del XXI secolo. In questo contesto, non esistono elementi più o meno importanti o cruciali: tutto deve essere affrontato in modo olistico.
Il nostro Paese ha sempre sostenuto, e continua a sostenere, il principio della sicurezza indivisibile. L’ho detto molte volte: la sicurezza di alcuni non può essere garantita a scapito di altri. Altrimenti, non c’è sicurezza per nessuno. L’affermazione di questo principio si è rivelata infruttuosa. L’euforia e la sete di potere incontrollata di coloro che si consideravano vincitori dopo la guerra fredda – come ho ripetutamente affermato – hanno portato a tentativi di imporre a tutti nozioni unilaterali e soggettive di sicurezza.
Questo, infatti, è diventato la vera causa principale non solo del conflitto ucraino, ma anche di molte altre crisi acute della fine del XX secolo e del primo decennio del XXI secolo. Di conseguenza, proprio come avevamo avvertito, oggi nessuno si sente veramente al sicuro. È tempo di tornare ai principi fondamentali e correggere gli errori del passato.
Tuttavia, la sicurezza indivisibile oggi, rispetto alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, è un fenomeno ancora più complesso. Non si tratta più solo di equilibrio militare e politico e di considerazioni di interesse reciproco.
La sicurezza dell’umanità dipende dalla sua capacità di rispondere alle sfide poste dai disastri naturali, dalle catastrofi causate dall’uomo, dallo sviluppo tecnologico e dai rapidi processi sociali, demografici e informativi.
Tutto questo è interconnesso e i cambiamenti avvengono in gran parte da soli, spesso, l’ho già detto, in modo imprevedibile, seguendo la loro logica e le loro regole interne e, a volte, oserei dire, anche al di là della volontà e delle aspettative delle persone.
In una situazione del genere, l’umanità rischia di diventare superflua, un semplice osservatore di processi che non sarà mai in grado di controllare. Che cos’è questo se non una sfida a livello di sistema per tutti noi e un’opportunità per tutti noi di lavorare insieme in modo costruttivo?
Non esistono risposte pronte, ma ritengo che la soluzione alle sfide globali richieda, in primo luogo, un approccio libero da pregiudizi ideologici e pathos didattico, del tipo “Ora vi dirò cosa fare”. In secondo luogo, è importante comprendere che si tratta di una questione veramente comune e indivisibile che richiede lo sforzo congiunto di tutti i paesi e tutte le nazioni.
Ogni cultura e civiltà dovrebbe dare il proprio contributo perché, ripeto, nessuno conosce da solo la risposta giusta. Essa può essere trovata solo attraverso una ricerca comune e costruttiva, unendo – e non separando – gli sforzi e le esperienze nazionali dei vari paesi.
Ripeto ancora una volta: i conflitti e gli scontri di interessi ci sono sempre stati e, naturalmente, continueranno ad esserci per sempre – la questione è come risolverli. Un mondo policentrico, come ho già detto oggi, è un ritorno alla diplomazia classica, in cui la risoluzione dei conflitti richiede attenzione, rispetto reciproco e non coercizione.
La diplomazia classica era in grado di tenere conto delle posizioni dei diversi attori internazionali, della complessità del “concerto” composto dalle voci delle diverse potenze. Tuttavia, ad un certo punto è stata sostituita dalla diplomazia occidentale fatta di monologhi, prediche infinite e ordini. Invece di risolvere i conflitti, alcune parti hanno iniziato a perseguire i propri interessi egoistici, considerando quelli di tutti gli altri non degni di attenzione.
Non c’è da stupirsi che, invece di risolversi, i conflitti si siano solo ulteriormente inaspriti fino al punto di trasformarsi in una sanguinosa fase armata che ha portato a un disastro umanitario. Agire in questo modo significa non riuscire a risolvere alcun conflitto. Gli esempi degli ultimi 30 anni sono innumerevoli.
Uno di questi è il conflitto israelo-palestinese, che non può essere risolto seguendo le ricette di una diplomazia occidentale sbilanciata che ignora grossolanamente la storia, le tradizioni, l’identità e la cultura dei popoli che vivono in quella regione. Né contribuisce a stabilizzare la situazione in Medio Oriente in generale, che al contrario sta rapidamente peggiorando. Ora stiamo familiarizzando più nel dettaglio con le iniziative del presidente Trump. Mi sembra che in questo caso possa ancora apparire una luce alla fine del tunnel.
Anche la tragedia dell’Ucraina è un esempio terrificante. È un dolore per gli ucraini e i per tutti noi. Le ragioni del conflitto in Ucraina sono note a chiunque si sia preso la briga di esaminare il contesto della sua fase attuale, la più acuta. Non le ripeterò. Sono certo che tutti i presenti ne siano ben consapevoli, così come della mia posizione su questo tema, che ho espresso più volte.
C’è anche un’altra cosa ben nota. Coloro che hanno incoraggiato, incitato e armato l’Ucraina, che l’hanno spinta a inimicarsi la Russia, che per decenni hanno alimentato il nazionalismo sfrenato e il neonazismo in quel Paese, francamente – scusate la franchezza – non gliene fregava niente degli interessi della Russia o, per quel che conta, dell’Ucraina. Non provano nulla per il popolo ucraino. Per loro – globalisti ed espansionisti dell’ Occidente e i loro servitori a Kiev – sono materiale sacrificabile. I risultati di un avventurismo così sconsiderato sono sotto gli occhi di tutti e non c’è nulla da discutere.
Sorge un’altra domanda: sarebbe potuta andare diversamente? Sappiamo anche, e torno a quanto affermato una volta dal presidente Trump, che se lui fosse stato in carica all’epoca, tutto questo avrebbe potuto essere evitato. Sono d’accordo. In effetti, si sarebbe potuto evitare se il nostro lavoro con l’amministrazione Biden fosse stato organizzato in modo diverso; se l’Ucraina non fosse stata trasformata in un’arma distruttiva nelle mani di qualcun altro; se la NATO non fosse stata utilizzata a questo scopo mentre avanzava verso i nostri confini; e se l’Ucraina avesse finalmente preservato la sua indipendenza, la sua autentica sovranità.
C’è ancora una domanda. Come avrebbero dovuto essere risolte le questioni bilaterali tra Russia e Ucraina, che erano il risultato naturale della frammentazione di un vasto paese e di complesse trasformazioni geopolitiche? A proposito, credo che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fosse legata alla posizione dell’ allora leadership russa, che cercava di liberarsi dal confronto ideologico nella speranza che ora, con la fine del comunismo, saremmo diventati fratelli. Non è successo nulla del genere. Sono entrati in gioco altri fattori sotto forma di interessi geopolitici. Si è scoperto che le differenze ideologiche non erano il vero problema.
Quindi, come dovrebbero essere risolti tali problemi in un mondo policentrico? Come sarebbe stata affrontata la situazione in Ucraina? Penso che se ci fosse stata una multipolarità, i diversi poli avrebbero cercato di risolvere il conflitto ucraino in base alle loro dimensioni, per così dire. Lo avrebbero misurato rispetto ai propri potenziali focolai di tensione e alle fratture nelle loro regioni. In tal caso, una soluzione collettiva sarebbe stata molto più responsabile ed equilibrata.
L’accordo si sarebbe basato sulla consapevolezza che tutti i partecipanti a questa difficile situazione hanno i propri interessi fondati su circostanze oggettive e soggettive che semplicemente non possono essere ignorate. Il desiderio di tutti i paesi di garantire la sicurezza e il progresso è legittimo. Senza dubbio, questo vale per l’Ucraina, la Russia e tutti i nostri vicini. I paesi della regione dovrebbero avere voce in capitolo nella definizione di un sistema regionale. Essi hanno le maggiori possibilità di concordare un modello di interazione accettabile per tutti, poiché la questione li riguarda direttamente. Rappresenta il loro interesse vitale.
Per altri paesi, la situazione in Ucraina è solo una carta da giocare in un gioco diverso, molto più grande, un gioco tutto loro, che di solito ha poco a che fare con i problemi reali dei paesi coinvolti, compreso questo in particolare. È solo una scusa e un mezzo per raggiungere i propri obiettivi geopolitici, espandere la propria area di controllo e guadagnare dalla guerra. Ecco perché hanno portato le infrastrutture della NATO proprio alle nostre porte e per anni hanno guardato con faccia impassibile alla tragedia del Donbass e a quello che è stato essenzialmente un genocidio e uno sterminio del popolo russo sulla nostra terra storica, un processo iniziato nel 2014 sulla scia di un sanguinoso colpo di Stato in Ucraina.
In contrasto con tale condotta dimostrata dall’Europa e, fino a poco tempo fa, dagli Stati Uniti sotto la precedente amministrazione, si contrappongono le azioni dei paesi appartenenti alla maggioranza globale. Essi rifiutano di schierarsi e si impegnano sinceramente per contribuire a stabilire una pace giusta. Siamo grati a tutti gli Stati che negli ultimi anni si sono sinceramente impegnati per trovare una via d’uscita dalla situazione. Tra questi ci sono i nostri partner, i fondatori del BRICS: Cina, India, Brasile e Sudafrica. Tra questi ci sono anche la Bielorussia e, per inciso, la Corea del Nord. Questi sono i nostri amici nel mondo arabo e islamico, soprattutto Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Turchia e Iran. In Europa, questi includono Serbia, Ungheria e Slovacchia. E ci sono molti paesi simili in Africa e America Latina .
Purtroppo, le ostilità non sono ancora cessate. Tuttavia, la responsabilità di ciò non ricade sulla maggioranza per non essere riuscita a fermarle, ma sulla minoranza, principalmente l’Europa, che continua ad alimentare il conflitto – e, a mio avviso, nessun altro obiettivo è oggi nemmeno individuabile. Ciononostante, credo che la buona volontà prevarrà, e a questo proposito non ho il minimo dubbio: credo che anche in Ucraina si stiano verificando dei cambiamenti, sebbene graduali – lo vediamo. Per quanto le menti delle persone possano essere state manipolate, si stanno comunque verificando dei cambiamenti nella coscienza pubblica e, in effetti, nella stragrande maggioranza delle nazioni di tutto il mondo.
In effetti, il fenomeno della maggioranza globale è un nuovo sviluppo negli affari internazionali. Vorrei dire alcune parole anche su questo argomento. Qual è la sua essenza? La stragrande maggioranza degli Stati mondiali è orientata al perseguimento dei propri interessi civili, primo fra tutti il loro sviluppo equilibrato e progressivo. Ciò sembrerebbe naturale: è sempre stato così. Ma in epoche precedenti, la comprensione di questi stessi interessi era spesso distorta da ambizioni malsane, egoismo e dall’influenza dell’ideologia espansionistica.
Oggi, la maggior parte dei paesi e dei popoli – proprio questa maggioranza globale – riconosce i propri veri interessi. Fondamentalmente, ora sentono la forza e la fiducia necessarie per difendere tali interessi dalle pressioni esterne – e aggiungo che nel promuovere e sostenere i propri interessi, sono pronti a collaborare con i partner, trasformando così le relazioni internazionali, la diplomazia e l’integrazione in fonti della propria crescita, del proprio progresso e del proprio sviluppo. Le relazioni all’interno della maggioranza globale rappresentano un prototipo delle pratiche politiche essenziali ed efficaci in un mondo policentrico.
Si tratta di pragmatismo e realismo: un rifiuto della filosofia dei blocchi, l’assenza di obblighi rigidi imposti dall’esterno o di modelli che prevedono partner senior e junior. Infine, è la capacità di conciliare interessi che raramente sono pienamente allineati, ma che raramente sono in contraddizione tra loro. L’assenza di antagonismo diventa il principio guida.
Una nuova ondata di decolonizzazione sta sorgendo ora, poiché le ex colonie stanno acquisendo, oltre alla statualità, anche la sovranità politica, economica, culturale e di visione del mondo .
Un’altra data è importante a questo proposito. Abbiamo recentemente celebrato l’ ottantesimo anniversario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Non è solo un’organizzazione universale e la più rappresentativa al mondo, ma anche un simbolo dello spirito di cooperazione, alleanza e persino di fratellanza di combattimento, che ci ha aiutato a unire le forze nella prima metà del secolo scorso nella lotta contro il peggior male della storia: una spietata macchina di sterminio e schiavitù.
Il ruolo decisivo nella nostra comune vittoria sul nazismo, di cui siamo orgogliosi, è stato svolto dall’Unione Sovietica, naturalmente. Un rapido sguardo al numero di vittime per ciascun membro della coalizione anti-Hitler lo dimostra chiaramente
L’ONU è l’eredità della vittoria nella seconda guerra mondiale e, finora, l’esperienza di maggior successo nella creazione di un’organizzazione internazionale volta a risolvere i problemi globali attuali.
Oggi si dice spesso che il sistema delle Nazioni Unite sia paralizzato e stia attraversando una crisi. È diventato un luogo comune. Alcuni sostengono addirittura che abbia esaurito la sua funzione e che dovrebbe essere almeno radicalmente riformato. Sì, ci sono molte, moltissime carenze nel funzionamento delle Nazioni Unite. Eppure non c’è niente di meglio delle Nazioni Unite finora, e dobbiamo ammetterlo.
In realtà, il problema non riguarda l’ONU, che ha un potenziale enorme. Il problema sta nel modo in cui noi, le nazioni unite che sono state disunite, stiamo utilizzando questo potenziale.
Non vi è alcun dubbio che l’ONU debba affrontare delle sfide. Come qualsiasi altra organizzazione, dovrebbe adattarsi alle realtà in evoluzione. Tuttavia, è estremamente importante preservare l’essenza fondamentale dell’ONU durante la sua riforma e il suo aggiornamento, non solo l’essenza che le è stata impressa alla sua nascita, ma anche l’essenza che ha acquisito nel complesso processo del suo sviluppo.
A questo proposito, vale la pena ricordare che il numero degli Stati membri delle Nazioni Unite è quasi quadruplicato dal 1945. Negli ultimi decenni, l’organizzazione fondata su iniziativa di alcuni grandi paesi non solo si è ampliata, ma ha anche assorbito molte culture e tradizioni politiche diverse, acquisendo diversità e diventando una struttura veramente multipolare molto prima che il mondo diventasse multipolare. Il potenziale del sistema delle Nazioni Unite ha appena iniziato a dispiegarsi e sono fiducioso che questo processo sarà completato molto rapidamente nella nuova era nascente.
In altre parole, i paesi della Maggioranza Globale costituiscono ora una stragrande maggioranza all’ONU, e la sua struttura e i suoi organi di governo dovrebbero quindi essere adeguati a questo fatto, il che sarà anche molto più in linea con i principi fondamentali della democrazia.
Non lo nego: oggi non c’è consenso su come dovrebbe essere organizzato il mondo, su quali principi dovrebbe basarsi negli anni e nei decenni a venire . Siamo entrati in un lungo periodo di ricerca, spesso procedendo per tentativi ed errori. Quando un nuovo sistema stabile prenderà finalmente forma – e quale sarà la sua struttura – rimane sconosciuto. Dobbiamo essere pronti al fatto che, per un periodo di tempo considerevole, lo sviluppo sociale, politico ed economico sarà imprevedibile, a volte persino turbolento.
Per mantenere la rotta e non perdere l’orientamento, tutti hanno bisogno di una base solida. A nostro avviso, questa base è, soprattutto, costituita dai valori che sono maturati nel corso dei secoli all’interno delle culture nazionali. Cultura e storia, norme etiche e religiose, geografia e spazio – questi sono gli elementi chiave che plasmano le civiltà e le comunità durature. Essi definiscono l’identità nazionale, i valori e le tradizioni, fornendo la bussola che ci aiuta a resistere alle tempeste della vita internazionale.
Le tradizioni sono sempre uniche; ogni nazione ha le proprie. Il rispetto delle tradizioni è la prima e più importante condizione per relazioni internazionali stabili e per risolvere le sfide emergenti.
Il mondo ha già vissuto tentativi di unificazione, di imposizione di modelli cosiddetti universali che si scontravano con le tradizioni culturali ed etiche della maggior parte dei popoli. L’Unione Sovietica ha commesso questo errore imponendo il proprio sistema politico: lo sappiamo bene e, francamente, non credo che qualcuno possa contestarlo. In seguito gli Stati Uniti hanno raccolto il testimone, e anche l’Europa ci ha provato. In entrambi i casi, hanno fallito. Ciò che è superficiale, artificiale, imposto dall’esterno non può durare. E coloro che rispettano le proprie tradizioni, di norma, non invadono quelle degli altri.
Oggi, sullo sfondo dell’instabilità internazionale, viene attribuita particolare importanza alle fondamenta di sviluppo di ciascuna nazione: quelle che non dipendono dalle turbolenze esterne. Vediamo paesi e popoli rivolgersi a queste radici. E questo sta accadendo non solo nella Maggioranza Globale , ma anche all’interno delle società occidentali. Quando tutti si concentrano sul proprio sviluppo senza inseguire ambizioni inutili, diventa molto più facile trovare un terreno comune con gli altri.
Come esempio, possiamo guardare alla recente esperienza di interazione tra Russia e Stati Uniti. Come sapete, i nostri paesi hanno molti disaccordi; le nostre opinioni su molti dei problemi mondiali divergono. Ma questo non è niente di straordinario per le grandi potenze; anzi, è assolutamente naturale. Ciò che conta è come risolviamo questi disaccordi e se riusciamo a risolverli pacificamente.
L’attuale amministrazione della Casa Bianca è molto chiara riguardo ai propri interessi, affermando direttamente ciò che vuole, a volte anche in modo schietto, come sicuramente concorderete, ma senza inutili ipocrisie. È sempre preferibile essere chiari su ciò che l’altra parte vuole e su ciò che sta cercando di ottenere. È meglio che cercare di indovinare il vero significato dietro una lunga serie di equivoci, linguaggio ambiguo e vaghi accenni.
Possiamo vedere che l’attuale amministrazione statunitense è guidata principalmente dai propri interessi nazionali, così come li intende essa stessa. E credo che questo sia un approccio razionale.
Ma poi, se mi permetti, anche la Russia ha il diritto di seguire i propri interessi nazionali. Uno di questi, tra l’altro, è il ripristino di relazioni complete con gli Stati Uniti. Indipendentemente dai nostri disaccordi, se le due parti si trattano con rispetto, allora i loro negoziati – anche quelli più difficili e ostici – saranno comunque finalizzati alla ricerca di un terreno comune. Ciò significa che alla fine si potranno raggiungere soluzioni reciprocamente accettabili.
La multipolarità e il policentrismo non sono solo concetti, ma una realtà destinata a durare . Quanto velocemente e con quanta efficacia riusciremo a costruire un sistema mondiale sostenibile all’interno di questo quadro dipende ora da ognuno di noi. Questo nuovo ordine internazionale, questo nuovo modello, può essere costruito solo attraverso sforzi universali, un’impresa collettiva alla quale tutti partecipano. Vorrei essere chiaro: l’era in cui un gruppo selezionato delle potenze più forti poteva decidere per il resto del mondo è finita, ed è finita per sempre.
Questo è un punto che viene ricordato soprattutto da coloro che provano nostalgia per l’era coloniale, quando era comune dividere i popoli in quelli che erano uguali e quelli che erano, per usare la famosa frase di Orwell, “più uguali degli altri”. Conosciamo tutti quella citazione.
La Russia non ha mai preso in considerazione questa teoria razzista, non ha mai condiviso questo atteggiamento nei confronti di altri popoli e culture e non lo farà mai.
Noi sosteniamo la diversità, la polifonia, una vera sinfonia di valori umani. Il mondo, come sicuramente concorderete, è un luogo noioso e incolore quando è monotono. La Russia ha avuto un passato molto turbolento e difficile. La nostra stessa identità nazionale è stata forgiata dal superamento continuo di colossali sfide storiche .
Non intendo suggerire che altri Stati si siano sviluppati in condizioni favorevoli, ovviamente no. Tuttavia, l’esperienza della Russia è unica sotto molti aspetti, così come lo è il Paese che ha creato. Sia chiaro: non si tratta di una pretesa di eccezionalità o superiorità, ma semplicemente di una constatazione di fatto. La Russia è un Paese particolare.
Abbiamo attraversato numerosi sconvolgimenti tumultuosi, ognuno dei quali ha dato al mondo spunti di riflessione su una vasta gamma di questioni, sia negative che positive. Ma è proprio questo bagaglio storico che ci ha lasciato meglio preparati per la situazione globale complessa, non lineare e ambigua in cui tutti ci troviamo ora.
Attraverso tutte le sue prove, la Russia ha dimostrato una cosa: era, è e sarà sempre. Comprendiamo che il suo ruolo nel mondo sta cambiando, ma rimane invariabilmente una forza senza la quale la vera armonia e l’equilibrio sono difficili, e spesso impossibili, da raggiungere. Questo è un fatto provato, confermato dalla storia e dal tempo. È un fatto incondizionato.
Nel mondo multipolare di oggi, quell’armonia e quell’equilibrio possono essere raggiunti solo attraverso uno sforzo comune e congiunto. E oggi voglio assicurarvi che la Russia è pronta per questo lavoro.
Grazie mille. Grazie.
Fyodor Lukyanov: Signor Putin, grazie mille per questa ampia…
Vladimir Putin: Ti ho stancato? Mi dispiace.
Fyodor Lukyanov: Niente affatto, ha appena iniziato. (Risate). Ma ha immediatamente alzato molto l’asticella della nostra discussione, quindi naturalmente approfondiremo molti dei temi che ha sollevato.
Soprattutto perché un mondo veramente policentrico e multipolare sta ancora solo cominciando ad essere descritto. Come hai giustamente osservato nel tuo intervento, è così complesso che possiamo coglierne solo alcune parti, come in una vecchia parabola in cui ognuno tocca una parte dell’elefante e pensa che sia il tutto, ma in realtà è solo una parte.
Vladimir Putin: Sapete bene che non si tratta solo di parole. Ho parlato sulla base della mia esperienza. Mi trovo spesso ad affrontare questioni molto specifiche che devono essere risolte in una parte o nell’altra del mondo. In passato, durante l’ Unione Sovietica, era un blocco contro un altro: ci si accordava all’interno del proprio blocco e poi si partiva.
No, sarò sincero con te: più di una volta ho dovuto soppesare una decisione: fare questo o quello. Ma il mio pensiero successivo era: no, non posso farlo perché danneggerebbe qualcuno; sarebbe meglio fare qualcos’altro. Ma poi: no, questo farebbe del male a qualcun altro. Questa è la realtà. A dire il vero, ci sono stati alcuni casi in cui ho deciso che non avremmo fatto nulla. Perché il danno derivante dall’agire sarebbe stato maggiore rispetto a quello derivante dal semplice fatto di mostrare moderazione e pazienza.
Questa è la realtà odierna. Non ho inventato nulla: è semplicemente così che stanno le cose nella vita reale, nella pratica.
Fyodor Lukyanov: Giocavi a scacchi a scuola?
Vladimir Putin: Sì, mi piacevano gli scacchi.
Fyodor Lukyanov: Bene. Allora continuerò da quello che hai appena detto sulla pratica. È vero: non è solo la teoria a cambiare, ma anche le azioni pratiche sulla scena internazionale non possono più essere quelle di una volta.
Nei decenni precedenti molti facevano affidamento su istituzioni – organizzazioni internazionali, strutture all’interno degli Stati – che erano state create per affrontare determinate sfide.
Ora, come molti esperti hanno osservato a Valdai negli ultimi giorni, queste istituzioni per varie ragioni si stanno indebolendo o stanno perdendo la loro efficacia del tutto. Ciò significa che una responsabilità molto maggiore ricade sui leader stessi rispetto al passato.
Quindi la mia domanda per te è: ti senti mai come Alessandro I al Congresso di Vienna, che negoziava personalmente la forma del nuovo ordine mondiale, solo tu, da solo?
Vladimir Putin: No, non credo. Alessandro I era un imperatore; io sono un presidente, eletto dal popolo per un mandato specifico. È una grande differenza. Questo è il mio primo punto.
In secondo luogo, Alessandro I unificò l’Europa con la forza, sconfiggendo un nemico che aveva invaso il nostro territorio. Ricordiamo ciò che fece : il Congresso di Vienna e così via. Per quanto riguarda la direzione che ha preso il mondo dopo, lasciamo che siano gli storici a giudicare. È discutibile: le monarchie avrebbero dovuto essere ripristinate ovunque, come se si volesse riportare indietro un po’ la ruota della storia? Oppure non sarebbe stato meglio osservare le tendenze emergenti e indicare la strada da seguire? Questo è solo un commento – a proposito, come si suol dire – non direttamente correlato alla tua domanda.
Per quanto riguarda le istituzioni moderne, qual è il problema, in fin dei conti? Esse hanno subito un degrado proprio nel periodo in cui alcuni paesi, o l’Occidente collettivo, hanno cercato di sfruttare la situazione post-guerra fredda dichiarandosi vincitori. In questo contesto, hanno iniziato a imporre la propria volontà a tutti – questo è il primo punto. In secondo luogo, tutti gli altri hanno iniziato gradualmente, dapprima in modo silenzioso, poi più attivamente, a resistere a questo.
Durante il periodo iniziale, dopo la fine dell’Unione Sovietica, le strutture occidentali inserirono un numero significativo di proprio personale nelle vecchie strutture. Tutto questo personale, seguendo rigorosamente le istruzioni, ha agito esattamente come gli era stato ordinato dai propri capi di Washington, comportandosi, francamente, in modo molto rozzo, senza alcun riguardo per nulla e nessuno.
Ciò ha portato, tra l’altro, la Russia a cessare del tutto di collaborare con queste istituzioni, ritenendo che non si potesse ottenere nulla. Per quale motivo è stata creata l’OSCE ? Per risolvere situazioni complesse in Europa. E a cosa è servita ? L’intera attività dell’OSCE si è ridotta a diventare una piattaforma per discutere, ad esempio, dei diritti umani nello spazio post-sovietico.
Beh, ascolta. Sì, ci sono molti problemi. Ma non ce ne sono molti anche nell’Europa occidentale? Senti, mi sembra che proprio di recente anche il Dipartimento di Stato americano abbia notato che in Gran Bretagna sono emersi problemi relativi ai diritti umani. Sembrerebbe assurdo… beh, buona salute a coloro che lo hanno fatto notare.
Tuttavia, questi problemi non sono emersi solo ora, ma sono sempre esistiti. Queste organizzazioni internazionali hanno semplicemente iniziato a concentrarsi professionalmente sulla Russia e sullo spazio post-sovietico. Ma non era quello il loro scopo previsto. E questo è il caso in molti settori.
Pertanto, hanno perso in gran parte il loro significato originario, quello che avevano quando furono creati nel sistema precedente, quando esistevano l’Unione Sovietica, il blocco orientale e il blocco occidentale. Ecco perché si sono degradati. Non perché fossero mal strutturate, ma perché hanno smesso di svolgere i ruoli per cui erano state create.
Eppure non c’è e non c’era alternativa alla ricerca di soluzioni basate sul consenso. Per inciso, ci siamo gradualmente resi conto che dovevamo creare istituzioni in cui le questioni venissero risolte non come cercavano di fare i nostri colleghi occidentali, ma sulla base di un consenso autentico, basato su un reale allineamento delle posizioni. È così che è nata la SCO, l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai.
Da cosa è nato inizialmente? Dalla necessità di regolamentare i rapporti di confine tra paesi: le ex repubbliche sovietiche e la Repubblica Popolare Cinese. Ha funzionato molto bene, in effetti. Abbiamo iniziato ad ampliare il suo ambito di attività. E ha preso il volo! Capite?
È così che è nato il BRICS, quando il Primo Ministro dell’India e il Presidente della Repubblica Popolare Cinese erano miei ospiti e ho proposto di incontrarci come un trio – questo avvenne a San Pietroburgo. Nacque il RIC – Russia, India, Cina. Concordammo che: a) ci saremmo incontrati; e b) avremmo ampliato questa piattaforma affinché i nostri ministri degli esteri potessero lavorarci. E il progetto decollò.
Perché? Perché tutti i partecipanti hanno immediatamente capito, nonostante alcune divergenze tra loro, che nel complesso si trattava di una buona piattaforma: nessuno voleva mettersi in prima linea o promuovere i propri interessi a tutti i costi. Al contrario, tutti hanno compreso che era necessario cercare un equilibrio.
Poco dopo, il Brasile e il Sudafrica hanno chiesto di aderire e sono nati i BRICS. Si tratta di partner naturali, uniti da un’idea comune su come costruire relazioni per trovare soluzioni reciprocamente accettabili. Hanno iniziato a riunirsi all’interno dell’organizzazione.
Lo stesso ha cominciato ad accadere in tutto il mondo, come ho già detto in precedenza riguardo alle organizzazioni regionali. Guardate come sta crescendo l’autorità di queste organizzazioni. Questa è la chiave per garantire che il nuovo complesso mondo multipolare abbia comunque una possibilità di essere stabile.
Fyodor Lukyanov: Lei ha appena usato una metafora chiara e popolare sul fatto che la forza è giusta a meno che non ci sia una forza più forte. Questo può essere applicato anche alle istituzioni, perché quando le istituzioni sono inefficaci, si è costretti a ricorrere alla forza, cioè alla forza militare, che è tornata in primo piano nelle relazioni internazionali.
Se ne discute spesso, e noi al forum Valdai abbiamo dedicato una sezione a questo tema: la natura della nuova guerra, della guerra moderna. È chiaramente cambiata. Cosa può dire, in qualità di comandante in capo supremo e leader politico, sui cambiamenti nel carattere della guerra?
Vladimir Putin: È una domanda molto specifica e tuttavia estremamente importante.
In primo luogo, sono sempre esistiti metodi non militari per affrontare questioni militari, ma questi stanno acquisendo un nuovo significato e producendo nuovi effetti con lo sviluppo della tecnologia. Mi riferisco agli attacchi informativi e ai tentativi di influenzare e corrompere la mentalità politica del potenziale avversario.
Ecco cosa mi è venuto in mente in questo momento. Recentemente mi è stato detto del ritorno di una vecchia tradizione russa, secondo la quale le giovani donne vanno alle feste, anche nei bar e nei club, indossando abiti tradizionali russi e copricapi. Sapete, non è uno scherzo, e questo mi rende felice. Perché? Perché significa che i nostri nemici non hanno raggiunto il loro obiettivo, nonostante tutti i tentativi di corrompere la società russa dall’interno, e che l’effetto è addirittura opposto a quello che si aspettavano.
È molto positivo che i nostri giovani abbiano questa difesa contro i tentativi di influenzare la mentalità pubblica dall’interno. È una prova della maturità e della forza della società russa. Ma questo è solo un lato della medaglia. L’altro è rappresentato dai tentativi di danneggiare la nostra economia, il settore finanziario e così via, il che è estremamente pericoloso.
Per quanto riguarda la componente puramente militare, ci sono molti nuovi elementi legati allo sviluppo tecnologico, ovviamente. È sulla bocca di tutti, ma lo ripeto ancora una volta: sono i veicoli senza pilota in grado di operare in tre ambiti: aria, terra e mare. Questi includono imbarcazioni senza pilota, veicoli terrestri senza pilota e veicoli aerei senza pilota.
Inoltre, tutte hanno un duplice impiego. Questo è estremamente importante; è una delle caratteristiche speciali della modernità. Molte tecnologie utilizzate in combattimento hanno un duplice impiego. Prendiamo ad esempio i veicoli aerei senza pilota, che possono essere usati in medicina e per consegnare cibo o altri carichi utili ovunque, anche durante le ostilità.
Ciò richiede lo sviluppo anche di altri sistemi, come quelli di intelligence e di guerra elettronica. Questo sta cambiando le tattiche di guerra. Molte cose stanno cambiando sul campo di battaglia. Non servono più le formazioni a cuneo di Guderian o cariche di Rybalko, che furono effettuate durante la seconda guerra mondiale. I carri armati vengono utilizzati in modo completamente diverso ora, non per caricare attraverso le difese nemiche, ma per supportare la fanteria, il che viene fatto da posizioni coperte. Anche questo è necessario, ma è un metodo diverso.
Ma sapete qual è l’aspetto più sorprendente? La rapidità con cui avviene il cambiamento. I paradigmi tecnologici possono cambiare nel giro di un mese, a volte in una settimana. L’ho detto molte volte. Supponiamo di implementare un’innovazione chiave, come le armi ad alta precisione, compresi i sistemi a lungo raggio, che sono una componente vitale della guerra moderna, e che improvvisamente diventi meno efficace.
Perché? Perché l’avversario ha schierato sistemi di guerra elettronica ancora più recenti. Ha analizzato le nostre tattiche e adattato la propria risposta. Di conseguenza, ora dobbiamo trovare un antidoto nel giro di pochi giorni, una settimana al massimo. Questo sta avvenendo con una regolarità sbalorditiva e ha profonde implicazioni pratiche, dal campo di battaglia stesso ai nostri centri di ricerca. Questa è la realtà dei moderni conflitti armati : un processo di continuo aggiornamento.
Tutto cambia, tranne una cosa: il coraggio, l’audacia e l’eroismo del soldato russo. È la nostra immensa fonte di orgoglio. E quando dico “russo”, non mi riferisco solo all’etnia o al passaporto che si possiede. I nostri soldati stessi hanno abbracciato questa idea. Oggi, ognuno di loro, indipendentemente dalla religione o dall’origine etnica, dice con orgoglio: “Sono un soldato russo”. E lo sono.
Perché? Vorrei rispondere ricorrendo a Pietro il Grande. Qual era la sua definizione? Chi era, ai suoi occhi, un russo? Chi conosce la citazione, la riconoscerà. Per chi non la conoscesse, ve la riporto qui di seguito. Pietro il Grande disse: “È russo chi ama e serve la Russia”.
Fyodor Lukyanov: Grazie .
Per quanto riguarda i copricapi, i kokoshnik, ho capito l’antifona. La prossima volta indosseremo abiti appropriati.
Vladimir Putin: Non hai bisogno di un kokoshnik.
Fyodor Lukyanov: No? Bene, come dice lei.
Signor Presidente, passando a toni più seri, lei ha parlato della rapidità del cambiamento, e in effetti il ritmo è sbalorditivo, sia in ambito militare che civile. Sembra chiaro che questa realtà accelerata è ciò che definirà i prossimi anni e i prossimi decenni
Questo riporta alla mente le critiche che abbiamo affrontato più di tre anni fa, all’inizio dell’operazione militare speciale. A quel tempo, i critici sostenevano che la Russia e il suo esercito fossero in ritardo in alcune aree – e molte delle nostre mosse meno che riuscite erano direttamente collegate a questo.
Questo mi porta a porre due domande fondamentali. In primo luogo, secondo lei siamo riusciti a colmare tale divario?
E in secondo luogo, visto che parliamo del soldato russo, qual è la sua valutazione dell’attuale situazione sul fronte?
Vladimir Putin: Innanzitutto, chiariamo una cosa: non si trattava semplicemente di un “ritardo”. C’erano interi campi in cui le nostre conoscenze erano semplicemente inesistenti. Il problema non era che non avevamo il tempo di sviluppare determinate capacità. Il problema era che eravamo completamente all’oscuro del fatto che tali capacità fossero anche solo possibili.
In secondo luogo, noi stiamo combattendo questa guerra e producendo le nostre attrezzature militari. Ma dall’altra parte della linea, siamo effettivamente in guerra con la potenza collettiva della NATO. Non nascondono nemmeno più questo fatto. Lo vediamo nel coinvolgimento diretto di istruttori della NATO e rappresentanti dei paesi occidentali nelle ostilità. È stato istituito un centro di comando in Europa allo scopo di coordinare lo sforzo bellico del nostro avversario: fornire alle forze armate ucraine intelligence, immagini satellitari, armi e addestramento. E devo ribadire: questo personale straniero non è coinvolto solo nell’addestramento, ma partecipa direttamente alla pianificazione operativa e alle operazioni di combattimento stesse.
Pertanto, questo rappresenta una grave sfida per noi, naturalmente. Ma l’ esercito russo, lo Stato russo e la nostra industria della difesa si sono rapidamente adattati.
Ora, lo dico senza alcuna esagerazione: non si tratta di iperbole o di vuote vanterie, ma sono convinto che oggi l’ esercito russo è l’esercito più pronto al combattimento al mondo. Ciò vale in termini di addestramento del personale, capacità tecniche e capacità di schierarle e aggiornarle continuamente. È vero per quanto riguarda la nostra capacità di fornire nuovi sistemi d’arma al fronte e anche per quanto riguarda la sofisticatezza delle nostre tattiche operative. Credo che questa sia la risposta definitiva alla sua domanda.
Fyodor Lukyanov: I nostri interlocutori – e il vostro interlocutore dall’altra parte dell’oceano – hanno recentemente rinominato il loro Dipartimento della Difesa in Dipartimento della Guerra. Superficialmente, potrebbe sembrare la stessa cosa, ma come si suol dire, c’è una sfumatura. Credi che i nomi abbiano un significato sostanziale?
Vladimir Putin: Si potrebbe dire di no, ma allo stesso modo si potrebbe osservare che “come chiami la nave, così navigherà”. Probabilmente c’è un significato in questo, anche se il Dipartimento della Guerra suona piuttosto aggressivo. Il nostro è il Ministero della Difesa: questa è sempre stata la nostra posizione, lo è tuttora e continuerà ad esserlo. Non nutriamo alcuna intenzione aggressiva nei confronti di paesi terzi. Il nostro Ministero della Difesa esiste esclusivamente per salvaguardare la sicurezza dello Stato russo e dei popoli della Federazione Russa.
Fyodor Lukyanov: Eppure ci deride definendoci una «tigre di carta»… che ne pensi?
Vladimir Putin: Una “tigre di carta” … Come ho già detto, negli ultimi anni la Russia non ha combattuto contro le forze armate dell’Ucraina o contro l’Ucraina stessa, ma di fatto contro l’intero blocco NATO.
Per quanto riguarda la tua domanda sugli sviluppi lungo la linea di contatto, tornerò tra poco su queste “tigri”.
Attualmente, lungo praticamente l’intera linea di contatto, le nostre forze stanno avanzando con sicurezza. Partendo da nord: il Gruppo di forze nord – nella regione di Kharkov, la città di Volchansk e nella regione di Sumy, la comunità residenziale di Yunakovka – sono state recentemente poste sotto il nostro controllo. Metà di Volchansk è stata messa in sicurezza – la parte restante seguirà inevitabilmente a breve, non appena i nostri combattenti avranno completato l’operazione. Una zona di sicurezza è in fase di istituzione in modo metodico e secondo i piani.
Il West Group of Forces ha in gran parte conquistato Kupyansk – un importante centro abitato (non completamente, ma per due terzi della città). Il quartiere centrale è già nostro, mentre gli scontri continuano nel settore meridionale. Un’altra città importante, Kirovsk, è ora interamente sotto il nostro controllo.
Il Gruppo di Forze Sud è entrato a Konstantinovka, una linea difensiva chiave che comprende Konstantinovka, Slavyansk e Kramatorsk. Queste fortificazioni sono state sviluppate dall’AFU in più di un decennio con l’ assistenza di specialisti occidentali. Tuttavia, le nostre truppe hanno ora penetrato queste difese e i combattimenti sono in corso. Lo stesso vale per Seversk, un’altra importante comunità dove sono in corso le ostilità.
Il Gruppo di forze centrale continua a condurre operazioni efficaci, dopo essere entrato a Krasnoarmeysk – dall’approccio meridionale, se ricordo bene – con combattimenti ora in corso all’interno della città. Mi asterrò dal fornire dettagli eccessivi, anche perché non ho alcun desiderio di informare il nostro avversario, per quanto paradossale possa sembrare. Perché? Perché sono in disordine e non riescono a comprendere la situazione. Fornire loro ulteriori chiarimenti non serve a nulla. State tranquilli, il nostro personale sta svolgendo i propri compiti con sicurezza.
Per quanto riguarda il Gruppo di forze dell’Est : sta avanzando in modo deciso attraverso la parte settentrionale della regione di Zaporozhye e parzialmente nella regione di Dnepropetrovsk a un ritmo rapido.
Anche il gruppo di forze del Dnieper opera con piena sicurezza. Circa… Quasi il 100% della regione di Lugansk è nostra, mentre il nemico controlla forse lo 0,13%. Nella regione di Donetsk, controllano marginalmente oltre il 19%. Nelle regioni di Zaporozhye e Kherson, questa cifra si attesta rispettivamente intorno al 24-25% circa. Ovunque, le forze russe – sottolineo – mantengono un’iniziativa strategica indiscussa.
Eppure se stiamo combattendo l’intera alleanza NATO, avanzando così con incrollabile fiducia, e siamo considerati una “tigre di carta”, cosa rende la NATO stessa? Che tipo di entità è allora?
Ma non importa. Ciò che conta di più è avere fiducia in noi stessi, e noi ce l’abbiamo.
Fyodor Lukyanov: Grazie.
Ci sono giocattoli di carta ritagliata per i bambini: le tigri di carta. Potresti regalarne una al presidente Trump quando lo incontrerai la prossima volta.
Vladimir Putin: No, abbiamo un rapporto tutto nostro e sappiamo cosa regalarci a vicenda. Sa, abbiamo un atteggiamento molto tranquillo al riguardo .
Non so in quale contesto sia stata pronunciata quella frase; forse era ironica. Vedi, ci sono alcuni elementi… Quindi, ha detto al suo interlocutore che [la Russia] è una tigre di carta. Quali azioni potrebbero seguire? Si potrebbero intraprendere azioni per affrontare quella “tigre di carta”. Ma nulla di tutto questo sta accadendo nella realtà.
Qual è il problema attuale? Stanno inviando armi sufficienti alle forze armate ucraine, tante quante ne servono all’Ucraina. A settembre, le perdite dell’AFU ammontavano a circa 44.700 persone, quasi la metà delle quali irrecuperabili . Nello stesso periodo, hanno mobilitato con la forza poco più di 18.000 persone. Circa 14.500 persone sono tornate all’esercito dagli ospedali. Se sommiamo queste cifre e sottraiamo il totale dal numero delle vittime, vedremo che l’Ucraina ha perso 11.000 persone in un mese. In altre parole, il numero delle sue truppe sul fronte non è stato reintegrato e sta diminuendo.
Se guardiamo ai dati relativi al periodo gennaio-agosto, circa 150.000 ucraini hanno disertato dall’esercito. Nello stesso periodo, 160.000 persone sono state mobilitate nell’esercito, ma 150.000 disertori sono troppi. Se si considerano anche le crescenti perdite, anche se la cifra era più alta il mese precedente, ciò significa che l’unica soluzione è abbassare l’età di mobilitazione. Ma nemmeno questo produrrà il risultato desiderato.
Gli esperti russi e, per inciso, anche quelli occidentali ritengono che ciò difficilmente avrà un effetto positivo, poiché non hanno il tempo di addestrare i coscritti. Le nostre forze avanzano ogni giorno, capite? Non hanno tempo per trincerarsi o addestrare il loro nuovo personale, e stanno anche perdendo più militari di quanti possano rimpiazzare sul campo di battaglia. Questo è ciò che conta.
Pertanto, i leader di Kiev dovrebbero riflettere più seriamente sulla possibilità di raggiungere un accordo. Lo abbiamo detto molte volte, offrendo loro l’opportunità di farlo .
Fyodor Lukyanov: Abbiamo abbastanza personale per tutto?
Vladimir Putin: Sì, è vero. Innanzitutto, anche noi subiamo delle perdite, purtroppo, ma sono di gran lunga inferiori a quelle delle forze armate ucraine.
E poi, c’è una differenza. I nostri uomini si arruolano volontariamente nel servizio militare. Sono effettivamente volontari. Non stiamo conducendo una mobilitazione di massa, figuriamoci forzata, a differenza del regime di Kiev. Non me lo sono inventato, credetemi, sono dati oggettivi, confermati da esperti occidentali: 150.000 disertori [dalle AFU] da gennaio ad agosto. Qual è il motivo? Le persone sono state catturate per strada e ora stanno disertando dall’esercito, e giustamente. Inoltre, li esorto a disertare. Li invitiamo anche ad arrendersi, cosa difficile da fare perché coloro che cercano di arrendersi vengono fucilati dalle unità ucraine anti-ritirata o di blocco o uccisi dai droni. E i droni sono spesso guidati da mercenari di altri paesi che uccidono gli ucraini perché non si preoccupano di loro. Per quanto riguarda l’esercito [ucraino], è un semplice esercito composto da operai e contadini. L’élite non sta combattendo, sta solo mandando i propri cittadini al massacro. Ecco perché ci sono così tanti disertori.
Abbiamo anche dei disertori, il che è normale nei conflitti armati. Alcuni lasciano le loro unità senza permesso. Ma sono pochi, davvero pochi, rispetto all’altra parte, dove la diserzione è diventata un problema enorme. Questo è il problema. Possono abbassare l’età di leva a 21 o addirittura a 18 anni, ma questo non risolverà il problema, e devono accettarlo. Spero che i leader del regime di Kiev se ne rendano conto e trovino la forza di sedersi al tavolo delle trattative.
Fyodor Lukyanov: Grazie.
Amici, fate pure le vostre domande.
Ivan Safranchuk, prego, proceda.
Ivan Safranchuk: Signor Presidente, la ringrazio molto per il suo interessantissimo discorso di apertura. Lei ha già posto delle basi molto elevate per la nostra discussione durante il suo scambio con Fyodor Lukyanov.
Questo argomento è stato brevemente accennato nei vostri precedenti commenti, ma vorrei chiedere alcuni chiarimenti. Tra i cambiamenti fondamentali avvenuti negli ultimi anni, c’è qualcosa che l’ha sinceramente sorpresa? Ad esempio, il fervore con cui molti europei hanno cercato lo scontro con noi e il modo in cui alcuni hanno smesso di vergognarsi della loro partecipazione alla coalizione di Hitler.
Dopo tutto, ci sono sviluppi che fino a poco tempo fa erano difficili da immaginare. C’è stato davvero un elemento di sorpresa? Come è potuto succedere? Lei ha osservato che nel mondo di oggi bisogna essere preparati a tutto, perché tutto può accadere, eppure fino a poco tempo fa sembrava esserci una maggiore prevedibilità. Quindi, in mezzo a questo rapido ritmo di cambiamento, c’è stato qualcosa che l’ha davvero stupita?
Vladimir Putin: Inizialmente… Nel complesso, in linea di massima, no, nulla mi ha particolarmente sorpreso, poiché avevo previsto gran parte di ciò che sarebbe accaduto. Tuttavia, ciò che mi ha stupito è stata questa disponibilità, persino impazienza, di rivedere tutto ciò che era stato positivo in passato.
Considerate questo: all’inizio, con molta cautela, sondando il terreno, l’ Occidente iniziò a equiparare il regime di Stalin al regime fascista in Germania, il regime nazista, il regime di Hitler, mettendoli sullo stesso piano. Osservai chiaramente tutto questo; stavo guardando. Cominciarono a riesumare il Patto Molotov-Ribbentrop, dimenticando timidamente il tradimento di Monaco del 1938, come se non fosse mai avvenuto, come se il Primo Ministro [della Gran Bretagna] non fosse tornato a Londra dopo l’incontro di Monaco e non avesse sventolato l’accordo con Hitler dalla scaletta dell’aereo – «Abbiamo firmato un accordo con Hitler!» – brandendolo – “Ho portato la pace!” Eppure, anche allora, c’era qualcuno in Gran Bretagna che dichiarava: “Ora la guerra è inevitabile” – era Churchill. Chamberlain disse: “Ho portato la pace”. Churchill ribatté: “Ora la guerra è inevitabile”. Quelle valutazioni furono fatte anche allora.
Hanno detto: il Patto Molotov-Ribbentrop – un’atrocità, in collusione con Hitler, l’Unione Sovietica ha cospirato con Hitler. Beh, ma voi stessi avevate cospirato con Hitler poco prima e avevate smembrato la Cecoslovacchia. Come se non fosse mai successo. A livello propagandistico sì, si possono inculcare queste false equivalenze nella testa della gente, ma in sostanza sappiamo com’è andata davvero. Quello fu il primo atto del Ballet de la Merlaison.
Poi la situazione degenerò. Non solo iniziarono a equiparare i regimi di Stalin e Hitler, ma tentarono anche di cancellare gli stessi risultati dei processi di Norimberga . Bizzarro, considerando che si trattava di partecipanti a una lotta comune e che i processi di Norimberga erano collettivi, tenuti proprio affinché nulla di simile potesse ripetersi. Eppure cominciarono a farlo. Cominciarono a demolire i monumenti ai soldati sovietici e così via, coloro che avevano combattuto contro il nazismo.
Capisco le basi ideologiche di questa posizione. Ho affermato da questo podio in precedenza che quando l’Unione Sovietica impose il proprio sistema politico all’Europa orientale, sì, tutto questo è chiaro. Ma le persone che hanno combattuto il nazismo, che hanno dato la vita, cosa c’entrano con tutto questo? Non erano loro a guidare il regime di Stalin, non prendevano decisioni politiche, hanno semplicemente sacrificato la propria vita sull’altare della vittoria sul nazismo. Hanno iniziato questo… e poi ancora, e ancora…
Eppure questo mi ha comunque sorpreso – che sembri non esserci alcun limite, puramente, ve lo assicuro, perché riguarda la Russia, e il desiderio di marginalizzarla in qualche modo.
Vedete, avevo intenzione di salire sul podio, ma non ho portato con me il mio libro : avevo programmato di leggervi qualcosa, ma me ne sono semplicemente dimenticato e l’ho lasciato a casa. Cosa desidero trasmettere? Sulla mia scrivania a casa c’è un volume di Pushkin. Di tanto in tanto mi piace immergermi nella lettura quando ho cinque minuti liberi . È intrinsecamente interessante, piacevole da leggere e, inoltre, mi piace immergermi in quell’atmosfera, percepire come vivevano le persone all’epoca, cosa le ispirava e cosa pensavano.
Proprio ieri l’ho aperto, l’ho sfogliato e mi sono imbattuto in una poesia. Lo sappiamo tutti – i russi [tra i presenti qui] lo sanno sicuramente – Borodino di Mikhail Lermontov : “Ehi, dimmi, vecchio mio, avevamo una causa …”, e così via. Tuttavia, non avevo mai saputo che Pushkin avesse scritto su questo tema. L’ho letta e mi ha fatto una profonda impressione, perché sembra che Pushkin l’abbia scritta ieri, come se mi stesse dicendo: «Ascolta, stai andando al Club Valdai, porta questo con te, leggilo ai tuoi colleghi, condividi le mie riflessioni sulla questione».
Francamente, ho esitato, pensando: va bene. Ma visto che la domanda è stata fatta, e ho il libro con me, posso rispondere? È affascinante. Risponde a molte domande. Si intitola “L’anniversario di Borodino”:
Il grande giorno di Borodino
Con fraterno ricordo
Proclameremmo quindi : “Le tribù non avanzarono
e minacciarci di devastazione?
Non era forse tutta l’Europa riunita qui?
E quale stella li guidò attraverso i cieli?
Eppure noi restammo saldi, con passo risoluto,
E affrontò a petto nudo la marea ostile
Delle tribù governate da quell’orgoglio altero
E uguale si rivelò la lotta impari.
E adesso? Il loro volo disastroso,
Sfacciati, ora dimenticano completamente;
Dimenticate la baionetta russa e la neve,
Che seppellirono la loro fama nelle distese desertiche sottostanti.
Ancora una volta sognano banchetti futuri –
Per loro, il sangue slavo è vino inebriante
Ma amara sarà la loro mattina
Ma lungo il sonno ininterrotto di tali ospiti,
In una nuova casa angusta e fredda,
Sotto il manto erboso del suolo settentrionale!
(Applausi.)
Tutto è articolato qui. Ancora una volta, sono convinto che Alexander Pushkin sia il nostro tutto. Per inciso, Pushkin si appassionò molto in seguito – non lo leggerò, ma potete farlo se volete. Questo fu scritto nel 1831.
Vedete, l’esistenza stessa della Russia è motivo di disappunto per molti, e tutti desiderano partecipare a questa impresa storica: infliggerci una “sconfitta strategica” e trarne profitto : un morso qui, un morso là… Sono tentato di fare un gesto espressivo, ma ci sono molte signore presenti [nella sala]… Non lo farò.
Fyodor Lukyanov: Vorrei sottolineare un parallelo molto significativo. Il presidente polacco Nawrocki ha letteralmente detto – credo proprio ieri in un’intervista…
Vladimir Putin: A proposito, la Polonia viene menzionata più avanti [nella poesia].
Fyodor Lukyanov: Sì, beh, naturalmente – il nostro partner preferito. Quindi, nell’intervista ha dichiarato che “conversa” regolarmente con il generale Piłsudski, discutendo di questioni che includono i rapporti con la Russia. Mentre lei – con Pushkin. Sembra un po’ discordante.
Vladimir Putin: Sapete, Piłsudski era un personaggio del genere: nutriva ostilità nei confronti della Russia, e così via, e sotto la sua guida, ispirata dalle sue idee, la Polonia commise molti errori prima della seconda guerra mondiale. Dopo tutto, la Germania propose di risolvere pacificamente le questioni relative a Danzica e al corridoio di Danzica, ma la leadership polacca dell’epoca rifiutò categoricamente e alla fine divenne la prima vittima del nazismo.
Hanno anche completamente ignorato quanto segue, sebbene gli storici lo sappiano bene: la Polonia rifiutò allora di consentire all’Unione Sovietica di aiutare la Cecoslovacchia. L’Unione Sovietica Unione Sovietica era pronta a farlo; i documenti nei nostri archivi lo attestano – li ho letti personalmente. Quando le note furono inviate alla Polonia, quest’ultima dichiarò che non avrebbe mai permesso il passaggio delle truppe russe per aiutare la Cecoslovacchia e che, se gli aerei sovietici avessero sorvolato il suo territorio, li avrebbe abbattuti. Alla fine, divenne la prima vittima del nazismo .
Se oggi la famiglia politica più importante in Polonia lo ricordasse, comprendendo tutte le complessità e le vicissitudini delle epoche storiche e tenendolo presente mentre consulta Piłsudski, e prestasse attenzione a questi errori, allora non sarebbe affatto una cosa negativa.
Fyodor Lukyanov: Tuttavia, si sospetta che il suo contesto sia piuttosto diverso.
Giusto. Prossima domanda, colleghi, per favore.
Professore Marandi, Iran.
Seyed Mohammad Marandi: Grazie mille per l’opportunità, signor Presidente, e ringrazio anche Valdai per questa eccellente conferenza.
Siamo tutti rattristati perché negli ultimi due anni abbiamo assistito al genocidio a Gaza e al dolore e alla sofferenza di donne e bambini dilaniati giorno e notte. Recentemente abbiamo visto il presidente Trump presentare una proposta di pace che sembrava più una sottomissione e una capitolazione. E soprattutto, introdurre una persona come Blair con il suo passato è un insulto al danno. Mi chiedevo cosa pensate che possa fare la Federazione Russa possa fare per porre fine a questa miseria, che ha davvero oscurato le giornate di tutti? Grazie.
Vladimir Putin: La situazione a Gaza è uno degli eventi più tragici della storia recente. È anche ben noto che il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha pubblicamente ammesso – e spesso riflette le opinioni occidentali – che Gaza è diventata il più grande cimitero di bambini al mondo. Cosa potrebbe esserci di più tragico? Cosa potrebbe esserci di più doloroso?
Ora, per quanto riguarda la proposta del presidente Trump su Gaza, potresti trovarlo sorprendente, ma la Russia è complessivamente pronta a sostenerla. A condizione, ovviamente, che porti davvero all’obiettivo finale di cui abbiamo sempre parlato. Dobbiamo esaminare a fondo le proposte presentate
Dal 1948 – e successivamente nel 1974, quando fu adottata la relativa risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – la Russia ha costantemente sostenuto la creazione di due Stati: Israele e uno Stato palestinese. Credo che questa sia l’unica chiave per una soluzione definitiva e duratura del conflitto israelo-palestinese.
Per quanto ho capito – non ho ancora esaminato attentamente la proposta – essa suggerisce di creare un’amministrazione internazionale che governi la Palestina per un certo periodo, o più precisamente la Striscia di Gaza. Si propone che sia Blair a guidarla. Ora, lui non è noto per essere un grande pacificatore. Ma io lo conosco personalmente. Sono persino andato a trovarlo a casa sua, ho trascorso la notte lì e al mattino, davanti a un caffè in pigiama, abbiamo parlato a lungo. Sì, è vero.
Fyodor Lukyanov: Il caffè era buono?
Vladimir Putin: Sì, abbastanza bene.
Ma cosa vorrei aggiungere? È un uomo con forti opinioni personali, ma è anche un politico esperto. Nel complesso, se la sua conoscenza ed esperienza sono indirizzate verso la pace, allora sì, naturalmente, potrebbe svolgere un ruolo positivo.
Tuttavia, sorgono naturalmente diverse domande. Primo: per quanto tempo opererebbe questa amministrazione internazionale? Come e a chi verrebbe poi trasferito il potere ? A quanto mi risulta, questo piano prevede la possibilità di trasferire eventualmente il potere a un’amministrazione palestinese.
Credo che sarebbe meglio trasferire il controllo direttamente al presidente Abbas e all’attuale amministrazione palestinese. Forse potrebbero incontrare difficoltà nell’affrontare le questioni di sicurezza. Ma, come ho sentito dire oggi dai colleghi, questo piano prevede anche che il trasferimento di potere possa coinvolgere le milizie locali al fine di garantire la sicurezza. È una cosa negativa? A mio parere, potrebbe essere una buona soluzione.
Mi consenta di ribadire il concetto: dobbiamo capire per quanto tempo questa amministrazione internazionale rimarrà in vigore. Qual è il calendario previsto per il trasferimento dell’autorità civile? Non meno importanti sono le questioni relative alla sicurezza. Ritengo che ciò meriti il nostro sostegno.
Da un lato, stiamo parlando del rilascio di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas, e dall’altro del rilascio di un numero significativo di palestinesi dalle prigioni israeliane. Va anche chiarito: quanti palestinesi, chi esattamente e in quale arco di tempo avverrebbe questo scambio.
E, naturalmente, la questione più importante: come vede la Palestina stessa questa proposta? Questo è assolutamente essenziale. In questo caso, l’opinione della regione e dell’intero mondo islamico è importante, ma soprattutto quella della stessa Palestina e dei palestinesi, compreso Hamas. Ci sono diversi atteggiamenti nei confronti di Hamas, e anche noi abbiamo la nostra posizione e i nostri contatti con loro. Per noi è importante che sia Hamas che l’Autorità palestinese sostengano tale iniziativa
Tutte queste questioni richiedono uno studio approfondito e attento. Ma se questo piano venisse attuato, rappresenterebbe davvero un passo significativo verso la risoluzione del conflitto. Tuttavia, desidero sottolineare ancora una volta che il conflitto può essere risolto in modo definitivo solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese.
Naturalmente, la posizione di Israele sarà cruciale in questo caso. Non sappiamo ancora come abbia reagito. Francamente, non ho ancora visto alcuna dichiarazione pubblica; semplicemente non ho avuto tempo di cercare. Ma ciò che conta davvero non è la retorica pubblica, bensì come reagirà la leadership israeliana e se sarà pronta ad attuare quanto proposto dal presidente degli Stati Uniti.
Ci sono molte domande qui. Ma nel complesso, se tutti questi elementi positivi che ho menzionato si uniscono, potrebbe diventare una vera svolta. Una svolta del genere sarebbe molto positiva.
Permettetemi di ripeterlo per la terza volta: la creazione di uno Stato palestinese è la pietra angolare di qualsiasi accordo globale.
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, è rimasto sorpreso quando, un paio di settimane fa, un alleato degli Stati Uniti, Israele, ha attaccato un altro alleato degli Stati Uniti, il Qatar? O ora è considerato normale?
Vladimir Putin: Sì, sono rimasto sorpreso.
Fyodor Lukyanov: E che dire della reazione degli Stati Uniti? O piuttosto, della mancanza di reazione? Come l’ha presa?
(Vladimir Putin alza le mani.)
Capisco. Grazie.
Tara Reade, per favore.
Tara Reade, Russia Today: (In russo) Здравствуйте (Buon pomeriggio), (in inglese) Presidente Putin, è un enorme onore poter parlare con lei. Vorrei iniziare con un ringraziamento che mi porterà alla domanda. Lavoravo per il senatore Biden e Leon Panetta negli Stati Uniti d’ America, e nel 2020 ho denunciato alcune cose e alcuni casi di corruzione, e sono stato preso di mira dal regime di Biden al punto che ho dovuto fuggire.
Margarita Simonyan, che è un’eroina per me, ha aiutato me e Masha, Maria Boutina, a superare questo momento difficile. E grazie a voi ho potuto ottenere asilo politico. Con il vostro impegno collettivo, mi avete salvato la vita.
Quindi grazie. Ero un bersaglio e la mia vita era in pericolo immediato. Quello che posso dire della Russia è (in russo) люблю Россию (amo la Russia). (In inglese) L’ho trovata bellissima. La propaganda occidentale sulla Russia era sbagliata. Amo Mosca. Le persone sono state molto cordiali e accoglienti. È efficiente e, per la prima volta, mi sento al sicuro e mi sento più libero.
Lavoro per RT e mi piace molto. Mi viene concessa molta libertà creativa per lavorare nel mio ambito di analisi geopolitica. E quindi grazie al Club Valdai per aver riconosciuto le mie aspirazioni intellettuali. Vi sono grato. Quindi, questa è la mia domanda. Ho incontrato altri occidentali che sono venuti qui in Russia in cerca di rifugio, anche per motivi economici e per valori condivisi.
Come ti senti nel vedere questo flusso di occidentali che arrivano chiedendo di vivere in Russia, e sarà più facile ottenere la cittadinanza russa? E lei mi ha concesso, con decreto presidenziale, la cittadinanza russa, che è una grande responsabilità e onore. Quindi, sono russo. Grazie mille.
Vladimir Putin: Lei ha parlato di valori condivisi. E come trattiamo quelle persone che vengono qui dai paesi occidentali, vogliono vivere qui e condividono questi valori con noi? Sa, la nostra cultura politica ha sempre avuto aspetti sia positivi che controversi.
Nei documenti di identità dei cittadini dell’ Impero russo non c’era alcuna riga per la “nazionalità”. Semplicemente non c’era. Nel passaporto sovietico era presente, ma in quello russo, ancora una volta, non c’era. E cosa c’era? “Religione”. C’era un valore comune, un valore religioso, un’affiliazione con il cristianesimo orientale, con l’ortodossia, la fede. C’erano anche altri valori, ma questo era quello determinante : quali valori condividi?
Ecco perché ancora oggi per noi non fa alcuna differenza se una persona proviene dall’ Est, dall’Ovest, dal Sud o dal Nord. Se condivide i nostri valori, è una di noi. È così che ti vediamo, ed è per questo che senti l’atteggiamento verso di te. Ed è così che lo vedo anch’io.
Per quanto riguarda le procedure amministrative e legali, abbiamo preso le decisioni necessarie per facilitare le persone che desiderano vivere in Russia, a legare la propria vita al nostro paese, anche se solo per alcuni anni, o per un periodo più lungo. Queste misure riducono le barriere amministrative .
Non posso dire che stiamo assistendo a un afflusso enorme. Tuttavia, si tratta comunque di migliaia di persone. Penso che siano state presentate circa 2.000 domande , 1.800 circa, e che ne siano state approvate circa 1.500. E il flusso continua.
In effetti, le persone stanno arrivando, motivate non tanto da ragioni politiche, quanto piuttosto da valori. Soprattutto dai paesi europei, perché quello che definirei “terrorismo di genere” contro i bambini non è ben visto da molte persone, che sono alla ricerca di rifugi sicuri. Vengono da noi, e Dio conceda loro il successo. Li sosterremo per quanto possibile.
Lei ha anche detto – ho preso nota – “Amo la Russia”, “Amo Mosca”. Beh, abbiamo molto in comune, perché anch’io amo Mosca. Questa è la base su cui costruiremo.
Fyodor Lukyanov: Per un nativo di San Pietroburgo, di Leningrado, questo significa molto.
Vladimir Putin: uno sviluppo rivoluzionario .
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, per dare seguito a questa questione: un paio di mesi fa abbiamo appreso una notizia davvero sorprendente: un cittadino americano di nome Michael Gloss, figlio di un vicedirettore della CIA, che combatteva dalla nostra parte, è stato ucciso al fronte nel Donbass. La sua nazionalità americana era già abbastanza insolita da attirare l’attenzione, figuriamoci il suo background familiare .
Prima che questa storia diventasse di dominio pubblico, eri a conoscenza della sua presenza?
Vladimir Putin: No, non lo sapevo. L’ho saputo solo quando mi è arrivata sulla scrivania la bozza del decreto esecutivo che gli conferiva l’Ordine del Coraggio. E devo confessare che sono rimasto piuttosto sorpreso.
Dopo aver indagato, è emerso che entrambi i suoi genitori erano tutt’altro che normali. Sua madre è, infatti, vicedirettrice della CIA, mentre suo padre è un veterano della Marina che, credo, ora è a capo di un’importante azienda appaltatrice del Pentagono . Questa, come potete immaginare, è tutt’altro che una normale famiglia americana. E, ancora una volta, non ne sapevo nulla.
Ad ogni modo, come ha appena detto qui una nostra collega, descrivendo le sue opinioni e il motivo per cui si trovava qui, la sua storia e le sue motivazioni rispecchiavano quelle di Michael Gloss. Che cosa fece lui? Non disse mai ai suoi genitori dove stava andando. Aveva semplicemente detto loro che sarebbe andato in viaggio. Il suo viaggio lo portò in Turchia e poi in Russia. Una volta a Mosca, si recò direttamente all’ufficio di arruolamento militare e dichiarò di condividere i valori che la Russia difende.
Non sto esagerando: è tutto documentato. Diceva di voler difendere i diritti umani: il diritto alla propria lingua, religione e così via. Era un attivista per i diritti umani e, dato che la Russia stava combattendo proprio per quei valori, era pronto a difenderli con le armi in pugno. Dopo aver completato un corso di addestramento speciale, è stato arruolato, non solo nelle forze armate, ma in un’unità d’élite, le forze aviotrasportate.
Ha prestato servizio in un’unità d’assalto e ha combattuto in prima linea. Ha combattuto con valore ed è stato gravemente ferito quando un proiettile ha colpito il suo veicolo blindato. Lui e un altro compagno d’armi russo sono rimasti entrambi gravemente feriti nell’esplosione. Un terzo soldato russo, nonostante avesse riportato ustioni sul 25% del corpo, li ha tirati fuori dai rottami in fiamme e li ha trascinati in una zona boschiva.
Immaginate la scena: questo giovane uomo – aveva solo 22 anni, credo – mentre sanguinava dalle sue ferite, cercava di aiutare il suo compagno russo ferito . Tragicamente, sono stati individuati da un drone ucraino, che ha poi sganciato una bomba. Entrambi sono stati uccisi.
Credo che queste persone costituiscano davvero il nucleo del movimento MAGA, che sostiene il presidente Trump. Perché? Perché difendono gli stessi valori sostenuti da Michael Gloss. Questo è ciò che sono. E questo è ciò che era lui.
L’inno degli Stati Uniti parla della “terra dei liberi e patria dei coraggiosi”, non è vero ? Era un uomo coraggioso nel senso più vero del termine: lo ha dimostrato con le sue azioni e, alla fine, con la sua vita. Una parte significativa del popolo americano può, e credo debba, essere orgogliosa di un uomo come lui.
Ho presentato il suo ordine al signor Witkoff. Avevo chiesto ai compagni d’armi di Michael di partecipare alla cerimonia, e così hanno fatto. Si sono uniti a noi anche il comandante delle Forze aviotrasportate, il suo comandante di brigata, il suo comandante di compagnia e lo stesso soldato che lo ha tirato fuori dal veicolo in fiamme, quello che ha riportato gravi ferite, con ustioni che coprono il 25% del suo corpo. Vorrei sottolineare che quel soldato si è ripreso dalle ferite e è tornato al fronte. Questo è il calibro delle persone che combattono per noi.
Più recentemente, su iniziativa della leadership della Repubblica Popolare di Donetsk, una scuola nel Donbass è stata intitolata ai due soldati caduti – l’americano e il russa. Si tratta di una scuola specializzata nello studio approfondito della lingua inglese. Naturalmente, faremo in modo che sia mantenuta ad alti livelli, come ci impegniamo a fare per tutte le scuole del Donbass. Questa è una priorità per noi.
Questo era il tipo di persona che era Michael Gloss. Lasciatemelo dire ancora una volta: sia la sua famiglia che il suo paese – o almeno quella parte di esso che condivide le sue convinzioni – possono essere davvero orgogliosi di lui.
E in un senso più ampio, incarna ciò che ho menzionato prima parlando di persone di nazionalità diverse che si considerano soldati russi. Era americano di nascita, ma era un soldato russo.
Fyodor Lukyanov: Grazie.
Anton Khlopkov, per favore.
Direttore del Centro Studi sull’Energia e la Sicurezza (Mosca) Anton Khlopkov: Lei ha menzionato i tentativi di espellere Russia dal sistema globale. Aggiungerei: dai mercati globali. Nelle ultime settimane, le richieste di Washington alla Cina, all’India e ad altri paesi – accompagnate da pressioni – sono diventate sempre più insistenti, esortando queste nazioni a cessare l’ acquisto di materie prime e risorse energetiche russe.
Allo stesso tempo, lei ha anche parlato dell’importanza di unire, piuttosto che separare, gli sforzi, compresa l’esperienza di cooperazione tra Russia e Stati Uniti USA, e la necessità di ripristinare relazioni a tutti gli effetti.
Questa settimana, con grande sorpresa di molti analisti e osservatori che non si occupano quotidianamente di energia nucleare, sono state pubblicate delle statistiche che dimostrano che la Russia rimane il principale fornitore di uranio arricchito per combustibile nucleare degli Stati Uniti.
Considerando l’attuale formato e il livello delle relazioni bilaterali russo-americane nel campo politico, come valuta le prospettive di cooperazione tra Russia e gli Stati Uniti per quanto riguarda le forniture di uranio arricchito e , più in generale, l’ energia nucleare?
Grazie.
Vladimir Putin: Affronterò certamente queste potenziali restrizioni tariffarie sul commercio tra gli Stati Uniti e i nostri partner commerciali: Cina, India e diversi altri Stati.
Sappiamo che all’interno dell’amministrazione statunitense vi sono consiglieri che ritengono che ciò costituisca una politica economica valida. Allo stesso tempo, vi sono esperti negli Stati Uniti che nutrono dei dubbi al riguardo e molti dei nostri specialisti condividono tali dubbi sui suoi potenziali benefici.
Qual è il problema? Esiste senza dubbio. Supponiamo che vengano imposti dazi elevati sulle merci provenienti dai paesi con cui la Russia commercia materie prime energetiche – petrolio, gas e così via. A cosa porterebbe questo? Ciò comporterebbe una diminuzione delle merci – diciamo le merci cinesi – che entrano nel mercato statunitense, con un conseguente aumento dei prezzi. In alternativa, queste merci cinesi potrebbero essere dirottate attraverso paesi terzi o quarti, il che aumenterebbe anche i prezzi a causa della carenza emergente e della logistica più costosa. Se ciò dovesse verificarsi e i prezzi aumentassero, la Federal Reserve System sarebbe costretta a mantenere alti i tassi di interesse o ad aumentarli per frenare l’inflazione, rallentando in ultima analisi l’economia statunitense stessa.
Non è una questione di politica, ma di puro calcolo economico. Molti dei nostri esperti ritengono che questo è esattamente ciò che accadrà. Lo stesso vale per l’India e per i beni prodotti in quel Paese. Non c’è alcuna differenza rispetto ai beni cinesi.
Pertanto, i vantaggi per gli Stati Uniti sono tutt’altro che evidenti. Per quanto riguarda i paesi oggetto di queste minacce, prendiamo ad esempio l’India: se l’India dovesse rifiutare le nostre materie prime energetiche, subirebbe perdite misurabili, stimabili in vari modi. Alcuni suggeriscono che queste potrebbero ammontare a 9-10 miliardi di dollari se essi accettassero. Al contrario, se rifiutassero, verrebbero imposte sanzioni sotto forma di tariffe più elevate, con conseguenti perdite comparabili. Perché, allora, dovrebbero accettare, soprattutto quando devono affrontare costi politici interni sostanziali? Il popolo di un paese come l’India, credetemi, esaminerà attentamente le decisioni dei propri leader e non tollererà mai umiliazioni da parte di nessuno. Inoltre, conosco il primo ministro Modi: non prenderebbe mai una decisione del genere di sua iniziativa. Semplicemente, non vi è alcuna logica economica che lo giustifichi.
Per quanto riguarda, ad esempio, l’uranio, che cos’è in realtà? In questo caso, l’uranio è un combustibile, una risorsa energetica per le centrali nucleari. In questo senso, non è diverso dal petrolio, dal gas, dall’olio combustibile o dal carbone, perché anch’esso è una fonte di energia che genera elettricità. Qual è la differenza? Nessuna. Gli Stati Uniti, infatti, acquistano uranio da noi.
Hai chiesto: perché gli Stati Uniti lo acquistano, mentre allo stesso tempo cercano di impedire ad altri di acquistare le nostre risorse energetiche? La risposta è semplice ed è stata data molto tempo fa in latino. Conosciamo tutti il detto: Quod licet Iovi, non licet bovi – ciò che è permesso a Giove non è permesso a un bue. Questa è l’essenza della questione.
Ma né la Cina né l’India – nonostante il fatto che la vacca sia sacra in India – vogliono essere il bue in questo caso. Ci sono politici, soprattutto in Europa, che sono disposti a fare da buoi, capre o persino montoni. Non faremo nomi, ma questo non vale certamente per la Cina, l’India o altri paesi grandi, medi o anche piccoli che hanno rispetto di sé e rifiutano di essere umiliati.
Per quanto riguarda il commercio dell’uranio, sì, continua. Gli Stati Uniti sono uno dei maggiori produttori e consumatori di energia nucleare. Se ricordo bene, hanno circa 54 centrali nucleari e circa 90 reattori. Credo che l’energia nucleare rappresenti circa il 18,7% del loro mix energetico totale. In Russia abbiamo meno reattori e produciamo meno, ma la quota di energia nucleare nel nostro mix è simile: circa il 18,5%. Naturalmente, data la portata della loro industria nucleare, gli Stati Uniti necessitano di grandi quantità di combustibile.
Non siamo nemmeno il fornitore più grande. (Rivolgendosi al sig. Khlopkov.) Lei ha detto che lo siamo, ma non è del tutto corretto. Il principale fornitore è una società americano-europea – non ricordo il nome – che copre circa il 60% della domanda statunitense di uranio e combustibile nucleare. La Russia è il secondo fornitore, con circa il 25%.
L’anno scorso anno – non ricordo le cifre esatte in termini di volume o punti percentuali, ma ricordo gli utili – abbiamo guadagnato quasi 800 milioni di dollari, o per l’esattezza circa 750-760 milioni di dollari. Nella prima metà di quest’anno, le vendite di uranio agli Stati Uniti hanno superato gli 800 milioni di dollari. Entro la fine del 2025, la cifra supererà probabilmente il miliardo di dollari e si avvicinerà a 1,2 miliardi di dollari.
Abbiamo un’idea generale di quanto si potrà guadagnare l’anno prossimo sulla base delle richieste attuali; al momento, prevediamo guadagni superiori agli 800 milioni di dollari . Quindi, questo lavoro continua. Perché? Perché è redditizio. Gli americani acquistano il nostro uranio perché è vantaggioso per loro. E giustamente. Noi, a nostra volta, siamo pronti a continuare queste forniture in modo affidabile
Fyodor Lukyanov: Ho notato che al prossimo incontro del Valdai Club dovremmo aggiungere una sezione dedicata all’allevamento del bestiame per discutere di montoni e buoi.
Vladimir Putin: Questo è effettivamente un punto importante. Perché? Perché se si mette da parte la metafora, che tutti qui hanno compreso, e ci si concentra esclusivamente sull’agenda energetica, si vedrà che il rifiuto da parte dell’Europa del gas russo ha già portato a un aumento dei prezzi. Di conseguenza, la produzione di fertilizzanti minerali in Europa, che richiede molto gas, è diventata non redditizia, costringendo le fabbriche a chiudere.
I prezzi dei fertilizzanti sono aumentati, il che, a sua volta, ha influito sull’agricoltura, ha fatto aumentare i prezzi dei generi alimentari e, infine, ha influito sulla solvibilità delle persone. Ciò ha avuto un impatto diretto sul tenore di vita delle persone. Ecco perché stanno scendendo in piazza.
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, vorrei soffermarmi ancora un attimo sul tema nucleare. Molto è stato scritto recentemente, in particolare la scorsa settimana, sulla situazione alla centrale nucleare di Zaporozhye e sulla presunta minaccia di un grave incidente che potrebbe colpire tutte le regioni circostanti. Cosa sta succedendo lì?
Vladimir Putin: Quello che sta succedendo è lo stesso di prima. I combattenti della parte ucraina stanno cercando di colpire il perimetro della centrale nucleare. Grazie a Dio non si è arrivati a colpire la centrale stessa. Ci sono stati alcuni attacchi su quello che credo si chiami il centro di addestramento.
Qualche giorno fa, poco prima che Grossi arrivasse in Russia, c’è stato un attacco di artiglieria contro le torri di trasmissione dell’energia elettrica, che sono cadute, e ora la centrale nucleare di Zaporozhye è alimentata da generatori, e la fornitura è affidabile. Ma la domanda è: come riparare quelle reti? La difficoltà, come potete capire, è che questi siti si trovano nel raggio d’azione dell’artiglieria ucraina, che sta bombardando quelle zone e impedisce di fatto alle nostre squadre di riparazione di avvicinarsi ad esse. Eppure si continuano a diffondere le stesse notizie, secondo cui siamo noi a farlo. Il signor Grossi è stato lì; il personale dell’AIEA è presente: vedono tutto ma tacciono su ciò che sta realmente accadendo. Vedono cosa sta succedendo. Dovremmo averlo colpito noi stessi dal lato ucraino? È una sciocchezza.
Questo è un gioco pericoloso. Anche le persone dall’altra parte dovrebbero capire: se giocano in modo così sconsiderato, anche loro hanno centrali nucleari operative dalla loro parte, quindi cosa ci impedirebbe di rispondere con le stesse armi? Dovrebbero rifletterci. Questo è il primo punto.
Secondo: sotto l’amministrazione ucraina lo stabilimento impiegava circa 10.000 persone. Si trattava di un approccio in stile sovietico, perché la centrale gestiva un’intera infrastruttura sociale. Oggi più di 4.500 persone lavorano nell’impianto e solo circa 250 di loro provengono da altre regioni russe. Gli altri sono persone che hanno sempre lavorato lì. Da sempre. Alcuni se ne sono andati, ma nessuno ha costretto nessuno a rimanere o se ne sono andati. Le persone hanno scelto di rimanere e, come la nostra collega [Tara Reade], hanno preso la cittadinanza russa, vivono lì come prima e continuano a lavorare. Tutto questo sta avvenendo sotto gli occhi degli osservatori dell’AIEA di stanza sul posto: sono presenti nell’impianto e vedono tutto.
Questa è la situazione. Nel complesso è sotto controllo. Stiamo adottando misure relative alla protezione fisica dell’impianto e del combustibile esaurito. È una situazione difficile .
Vorrei aggiungere che gruppi di sabotaggio e ricognizione ucraini hanno ripetutamente tentato azioni simili negli ultimi mesi e persino l’anno scorso: hanno fatto saltare in aria linee di trasmissione ad alta tensione presso la centrale nucleare di Kursk e quella di Smolensk, intrufolandosi nelle foreste per farlo. I nostri specialisti hanno riparato quelle linee molto rapidamente.
Quello che sta accadendo ora alla centrale nucleare di Zaporozhye non è diverso dalle azioni di quei gruppi di ricognizione e sabotaggio, che sono essenzialmente gruppi terroristici. Si tratta di una pratica molto pericolosa che dovrebbe cessare. Spero che le persone coinvolte capiscano questo messaggio.
Fyodor Lukyanov: Quindi, Grossi sa cosa sta succedendo lì?
Vladimir Putin: Lui lo sa benissimo. Stanno lì seduti nell’impianto e vedono cadere un proiettile. Dovremmo aver attraversato il confine con l’Ucraina e averci bombardato da soli? È assurdo e privo di buon senso.
Fyodor Lukyanov: Grazie.
Signor Gábor Stier, prego, proceda.
Gábor Stier: Signor Presidente, grazie per aver condiviso le opinioni della Russia e il suo punto di vista sul mondo, sul futuro ordine mondiale e sull’attuale ordine mondiale.
Sono ungherese, e il mio Paese viene spesso definito la pecora nera dell’Unione Europea. Negli ultimi giorni, il Club Valdai ha discusso degli attuali sviluppi, chiedendosi se l’ Occidente sia pronto per le riforme, e del suo posto nel nuovo ordine mondiale. Abbiamo anche parlato della triste situazione dell’UE e dell’Europa.
Condivido questa opinione, e molti in Ungheria la pensano allo stesso modo, chiedendosi cosa accadrebbe all’UE. Non è chiaro se l’UE sopravviverà o se il suo futuro sarà cupo. Molti pensano che l’integrazione dell’Ucraina sarebbe l’ultimo chiodo nella bara dell’UE.
Cosa ne pensate? Condividete l’opinione secondo cui l’UE sta attraversando una profonda crisi? Qual è la vostra opinione su questa situazione?
Per quanto riguarda l’eventuale adesione dell’Ucraina all’UE, lei ha recentemente affermato che la Russia non sarebbe contraria. Molti di noi sono perplessi, perché… Da un lato, capisco che l’adesione dell’Ucraina indebolirebbe l’UE, il che avrebbe molti vantaggi, ovviamente. Ma se l’UE o l’Europa diventassero troppo deboli, ciò rappresenterebbe un rischio o un pericolo per lo spazio eurasiatico. Questo è il mio primo punto.
In secondo luogo, ultimamente l’UE assomiglia sempre più alla NATO. Ciò è piuttosto evidente se si considera il suo atteggiamento nei confronti della crisi ucraina. A mio avviso, l’Ucraina diventerà il pugno di ferro dell’Occidente, il pugno di ferro e l’esercito dell’UE. In questo caso, se l’Ucraina diventasse membro dell’UE, ciò potrebbe persino rappresentare una minaccia per la Russia.
Cosa ne pensi di questo?
Vladimir Putin: Per cominciare, l’UE si è sviluppata principalmente come comunità economica sin dai tempi dei suoi padri fondatori, come ricordiamo, a partire dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio e successivamente.
Ho già raccontato pubblicamente la seguente storia, ma non posso negarmi il piacere di ripeterla. Nel 1993 mi trovavo ad Amburgo insieme all’allora sindaco di San Pietroburgo [Anatoly] Sobchak, che aveva un incontro con l’ allora cancelliere [Helmut] Kohl. Il signor Kohl disse che se l’Europa voleva rimanere uno dei centri indipendenti della civiltà globale, doveva farlo con la Russia, e che la Russia avrebbe dovuto unirsi a tutti i costi all’UE, all’Europa, e che si sarebbero potentemente completate a vicenda, soprattutto perché in realtà si basano su valori tradizionali comuni, che erano rispettati in Europa all’epoca .
Cosa posso dire della situazione attuale? Posso solo offrire una visione generale. L’ho già presentata, citando Pushkin. Ma scherzi a parte, l’UE è un’associazione potente con un potenziale grande, se non enorme . È un potente centro della nostra civiltà, ma è anche un centro in declino. Credo che questo sia ovvio.
E il motivo non è solo che la Germania, motore dell’economia europea, è in fase di stagnazione da alcuni anni e non si prevede che superi tale fase nemmeno il prossimo anno. E non è che l’economia francese stia affrontando enormi problemi, con un deficit di bilancio e un debito crescente. Il fatto è che le questioni fondamentali relative all’identità europea stanno scomparendo. Questo è il problema. Si stanno erodendo dall’interno; l’immigrazione incontrollata sta facendo questo.
Non entrerò nei dettagli ora; voi conoscete queste questioni meglio di me. L’Europa dovrebbe evolversi in un’entità quasi statale o rimanere un’Europa delle nazioni, un’Europa come Stato indipendente? Non spetta a noi deciderlo; è una questione interna all’Europa. Tuttavia, in un modo o nell’altro, un certo quadro di valori deve sopravvivere. Perché se quel quadro fondamentale, quelle fondamenta, andranno perduti, allora l’Europa che tutti un tempo amavamo così tanto andrà perduta con essi.
Sai, abbiamo una consistente comunità liberale qui in Russia – proveniente dai circoli creativi e intellettuali. Abbiamo molti pensatori che chiamiamo “occidentalisti”, che credono che il percorso della Russia dovrebbe avvicinarla all’ Occidente.
Eppure anche queste persone mi hanno detto: «L’Europa che amavamo non esiste più». Non farò i loro nomi, ma credetemi, sono personaggi famosi. Sono, nel vero senso della parola, intellettuali europei . Alcuni di loro trascorrono metà dell’anno vivendo in Europa e tutti dicono la stessa cosa: l’Europa che amavamo così tanto è finita, non c’è più.
Cosa intendono dire, in particolare? Si riferiscono all’erosione di quei valori di riferimento, di quel quadro fondamentale. Se tale erosione continua, l’Europa, come ho detto, rischia di diventare un centro in declino, che si riduce e svanisce gradualmente. Questo, a sua volta, porta a problemi economici . E se l’attuale rotta persiste, è improbabile che la situazione migliori
Perché? Perché comporta una perdita di sovranità valutaria. E una volta persa tale sovranità, inevitabilmente seguono problemi economici. La logica è chiara, non è vero? Consideriamo la nostra discussione sull’uranio, un vettore energetico , che la Russia continua ad esportare negli Stati Uniti , mentre le forniture di gas e petrolio all’Europa sono bloccate. Perché, quando è economicamente efficiente? La risposta è: le sanzioni, dettate da idee politiche. Quali idee? Decine di idee, che inevitabilmente sorgono quando si sposta l’attenzione dagli interessi nazionali. Ma se si rimane concentrati sugli interessi nazionali e sulla sovranità, non c’è alcuna ragione razionale per rifiutare tale commercio. Una volta persa la sovranità, tutto il resto comincia a sgretolarsi.
Vediamo forze politiche orientate alla nazionalità guadagnare slancio in tutta l’Europa, in Francia e in Germania. Non mi addentrerò nei dettagli. L’Ungheria, naturalmente, sotto Viktor Orban, ha da tempo sostenuto questa posizione. Non posso dirlo con certezza, poiché non seguo da vicino la politica interna dell’Ungheria, ma credo che la maggioranza degli ungheresi desideri rimanere ungherese e quindi sosterrà Orban. Se non volessero rimanere ungheresi, sosterrebbero von der Leyen. Ma allora, alla fine, diventerebbero tutti “von der Leyen”, capite?
Il mio punto è questo: se queste forze politiche in Europa continuano a rafforzarsi, allora l’Europa rinascerà. Ma questo non dipende da noi; dipende dall’Europa stessa.
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, secondo quanto riferito, l’altro giorno è stata sequestrata una petroliera al largo delle coste francesi. I francesi hanno dimostrato la loro sovranità. Naturalmente, stanno collegando questo incidente alla Russia, in un modo o nell’altro, anche se la petroliera batte bandiera straniera. Cosa ne pensa?
Vladimir Putin: Si tratta di pirateria. Sì, sono a conoscenza dell’incidente. La petroliera è stata sequestrata in acque neutrali senza alcun motivo. Probabilmente stavano cercando qualche carico militare, tra cui droni o qualcosa del genere. Non hanno trovato nulla, poiché la nave non trasportava tali articoli. In effetti, la petroliera batteva bandiera di un paese terzo ed era gestita da un equipaggio internazionale.
Innanzitutto, non so come questo possa essere collegato alla Russia, ma so che questo fatto è realmente accaduto. Di cosa si tratta? È davvero importante per la Francia? Sì, è importante. Sapete perché? Considerando la difficile situazione in cui versa l’élite governativa francese, non hanno altro modo per distogliere l’attenzione della popolazione, dei cittadini francesi, dai problemi complessi e difficili da risolvere nella stessa Repubblica francese .
Come ho già detto nelle mie osservazioni, desiderano fortemente trasferire la tensione dall’interno del paese all’esterno, per stimolare altre forze, altri paesi, in particolare la Russia, a provocarci in modo da indurci a intraprendere azioni energiche e a dire al popolo francese che dovrebbe stringersi attorno al proprio leader che lo condurrà alla vittoria, come Napoleone. Questo è il punto centrale.
Fyodor Lukyanov: Lei ha lusingato il Presidente della Francia.
Vladimir Putin: Lo faccio con piacere. In realtà, entrambi manteniamo un rapporto di lavoro cordiale. Gli sviluppi attuali che ho appena menzionato sono esattamente ciò che sta accadendo, non ho alcun dubbio al riguardo. Lo conosco bene.
Fyodor Lukyanov: Grazie.
Feng Shaolei.
Feng Shaolei: Feng Shaolei del Centro Studi Russi di Shanghai.
Signor Presidente,
Sono felice di rivederti.
Sono pienamente d’accordo con te e con la tua posizione: la diplomazia classica deve tornare. Come eccellente esempio, hai compiuto due visite ufficiali molto importanti nelle ultime sei settimane: in primo luogo, il vertice russo-americano in Alaska, e in secondo luogo il vertice SCO seguito da una parata a Pechino.
Mi piacerebbe molto conoscere i risultati concreti e il significato di queste due visite molto importanti. Vede qualche influenza reciproca o interconnessione tra loro che possa aiutarci ad andare avanti sulla strada della normalizzazione della situazione internazionale?
Grazie mille.
Vladimir Putin: Innanzitutto, per quanto riguarda la visita negli Stati Uniti, in Alaska. Quando ci siamo incontrati lì, il presidente Trump e io abbiamo appena sfiorato questioni bilaterali o di altro tipo. L’attenzione era concentrata esclusivamente sulle possibilità e sui modi per risolvere la crisi ucraina. Penso che nel complesso sia stata una cosa positiva. Conosco il presidente Trump da molto tempo. Può sembrare un po’ scioccante – lo vedono tutti – ma, cosa abbastanza interessante, è il tipo di persona che sa ascoltare. Ascolta, sente e risponde. Questo lo rende un interlocutore piuttosto piacevole, direi. Il fatto che abbiamo cercato di esplorare potenziali soluzioni alla crisi ucraina è, a mio avviso, di per sé positivo.
In secondo luogo, in un modo o nell’altro, la discussione in questo caso, anche se superficiale, riguardava il ripristino delle relazioni russo-americane, che non solo sono in una fase di stallo, ma hanno raggiunto il punto più basso della loro storia.
Credo che il fatto stesso del nostro incontro, il fatto stesso che la visita abbia avuto luogo – e sono grato al Presidente per come l’ha organizzata – significano che è giunto il momento di pensare a ripristinare le relazioni bilaterali. Credo che questo sia positivo per tutti: per noi a livello bilaterale e per l’intera comunità internazionale.
Ora, per quanto riguarda la visita in Cina. Ho avuto discussioni approfondite con il mio amico, il presidente Xi Jinping, che considero sinceramente un mio amico, poiché abbiamo un rapporto personale basato sulla fiducia . In privato, mi ha detto direttamente: “In Cina, accogliamo con favore il ripristino e la normalizzazione delle relazioni russo-americane. Se possiamo svolgere un ruolo nel facilitare questo processo, faremo tutto il possibile”.
La visita alla Repubblica Popolare Cinese è stata, ovviamente, di natura molto più ampia. Perché? Beh, innanzitutto perché stavamo commemorando insieme la fine della Seconda Guerra Mondiale. Attraverso questa lotta condivisa – la Russia principalmente nella lotta contro il nazismo e successivamente insieme nella lotta contro il militarismo giapponese – la Russia e la Cina hanno dato un contributo enorme. Ne ho già parlato ; basta guardare ai colossali sacrifici umani che la Russia e la Cina hanno compiuto sull’altare di questa vittoria. Questo è il primo punto.
In secondo luogo. Questo, naturalmente, da parte nostra, proprio come da parte della Cina quando il Presidente ha partecipato alle celebrazioni del Giorno della Vittoria il 9 maggio in Russia – significa che rimaniamo fedeli allo spirito di quell’alleanza. Questo è estremamente importante. Pertanto, credo che in questo senso la visita in Cina abbia avuto una portata globale e fondamentale e ci ha naturalmente permesso, a margine di questi eventi, di discutere della situazione globale, sincronizzare le nostre posizioni e parlare dello sviluppo delle relazioni bilaterali in ambito economico, umanitario, culturale ed educativo.
Abbiamo deciso di proclamare il prossimo anno e quello successivo Anni dell’Educazione . Cosa significa veramente? Significa che vogliamo lavorare – e lavoreremo – con i giovani. È uno sguardo rivolto al futuro. In questo senso è stata una visita importantissima, senza alcun dubbio.
Inoltre, alcune iniziative del presidente Xi Jinping sulla governance globale, ad esempio, sono perfettamente in linea con le nostre idee sulla sicurezza eurasiatica. Era molto importante sincronizzare le nostre posizioni su tali questioni, di natura veramente globale – sia bilaterali che globali. Pertanto, apprezzo molto i risultati. Questo, a mio avviso, è stato un altro passo avanti positivo nello sviluppo delle nostre relazioni .
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, mi sembra che lei sia il primo leader mondiale a descrivere Trump come un interlocutore con cui è facile dialogare. La gente dice di tutto su di lui, ma mai questo.
Vladimir Putin: Sapete, io parlo sinceramente. Come ho detto, secondo me gli piace mettersi in mostra, ma pone anche domande incisive. Come ho detto nelle mie osservazioni, difende gli interessi nazionali come li definisce lui. Ma a volte, ripeto, a volte è meglio ascoltare una posizione diretta piuttosto che ambiguità difficili da decifrare.
Ma voglio ribadire che non si tratta solo di convenevoli. Abbiamo parlato per… quanto tempo? Circa un’ora e mezza. Ho esposto la mia posizione, lui ha ascoltato attentamente, senza interrompermi. Anch’io l’ho ascoltato con attenzione. Abbiamo scambiato opinioni su questioni complesse. Non entrerò nei dettagli, non è consuetudine, ma lui avrebbe detto: ascolta, sarà difficile da realizzare. E lui rispondeva: sì, è vero. Capisci? Abbiamo iniziato a discutere i dettagli. Ne abbiamo discusso, capisci? Voglio che questo sia chiaro: abbiamo discusso. Non si è trattato di una dichiarazione da parte di una delle parti: credo che tu debba fare questo, o devi fare quello – “togliti il cappello”, per così dire. Capisci? Questo non è successo.
Naturalmente, è importante che si giunga a conclusioni logiche, che si ottengano risultati – questo è vero. Ma è un processo complesso. Come ho detto prima: raggiungere un equilibrio di interessi, raggiungere un consenso, è difficile. Ma se ci avviciniamo e lo raggiungiamo attraverso la discussione, questi diventano accordi sostanziali, che possiamo sperare durino nel tempo.
Fyodor Lukyanov: Gli hai raccontato qualcosa della storia dell’Ucraina?
Vladimir Putin: No.
Fyodor Lukyanov: Va bene.
Vladimir Putin: Beh, non è divertente.
Una volta l ho detto questo ad altri interlocutori americani. Vorrei essere franco: abbiamo parlato apertamente e onestamente delle possibili opzioni di accordo. Quale sarà il risultato, non lo so. Siamo però pronti a proseguire la discussione
Fyodor Lukyanov: Di chi è stata l’idea di incontrarsi in Alaska?
Vladimir Putin: Beh, fa qualche differenza? La cosa importante è che ci siamo incontrati.
Fyodor Lukyanov: Capisco.
Vladimir Putin: Ci siamo trovati bene in Alaska. Lì l’ortodossia è ancora viva, con chiese ortodosse e persone che frequentano le funzioni religiose. La liturgia si svolge in inglese e poi, in alcune occasioni festive, quando la funzione in inglese finisce, il sacerdote si rivolge alla congregazione e dice in russo: “Buone feste!”. E tutti rispondono: “Buone feste!”. È meraviglioso.
Ivan Timofeyev: Signor Presidente, nel Suo discorso ha menzionato le sanzioni economiche contro la Russia. In effetti, il loro ammontare è senza precedenti. Ha anche appena parlato delle chiese ortodosse. Anche il Patriarca Kirill è stato sottoposto a misure restrittive da parte di alcuni paesi.
La nostra economia ha tenuto duro e ha mostrato un alto grado di resilienza alle sanzioni. Sia i nostri avversari che i nostri amici sono rimasti sorpresi da questa resilienza. Ma sembra che dovremo vivere sotto le sanzioni per anni e forse decenni, se non di più.
Come valutereste il loro impatto sulla nostra economia? E cosa occorre fare per garantirne la stabilità a lungo termine per molti anni a venire?
Grazie.
Vladimir Putin: In effetti, come ho detto prima, abbiamo percorso un cammino difficile e impegnativo di sviluppo, crescita e rafforzamento della nostra indipendenza e sovranità; in questo caso, la nostra sovranità economica e finanziaria.
Cosa abbiamo ottenuto e cosa è cambiato? In primo luogo, abbiamo significativamente rimodellato i nostri principali partenariati commerciali ed economici. Abbiamo riorganizzato la logistica per lavorare con questi partner. Abbiamo creato i nostri sistemi di pagamento. Tutto questo funziona con successo.
Naturalmente, questo da solo non è sufficiente nel mondo di oggi. Ora dobbiamo concentrarci su altre questioni. La più importante di queste è l’ulteriore diversificazione della nostra economia. Dobbiamo renderla più avanzata, più high-tech. Dobbiamo trasformare la struttura del mercato del lavoro e il sistema retributivo.
Cosa intendo dire? Come ho detto, dobbiamo rendere l’economia più orientata alla tecnologia, aumentare la produttività, il che porterà a salari più alti per gli specialisti altamente qualificati. Questa è la prima priorità.
In secondo luogo, dobbiamo anche concentrarci sulle persone con redditi bassi. Perché? Perché non si tratta solo di una questione di importanza sociale o politica, ma anche economica. Quando le persone con redditi bassi guadagnano di più, spendono quei soldi principalmente in beni prodotti internamente. Ciò significa che anche il nostro mercato interno cresce, il che è essenziale.
Dobbiamo assolutamente compiere ulteriori sforzi per rafforzare il nostro sistema finanziario. A tal fine, due priorità risultano fondamentali.
In primo luogo, dobbiamo rafforzare ulteriormente la stabilità macroeconomica e ridurre l’inflazione, cercando al contempo di mantenere una crescita economica positiva. Negli ultimi due anni, la nostra economia è cresciuta rispettivamente del 4,1% e del 4,3%, ben al di sopra della media globale.
Tuttavia, alla fine dello scorso anno, abbiamo riconosciuto che, per combattere l’inflazione, avremmo dovuto sacrificare questi tassi di crescita record. La Banca Centrale ha risposto aumentando il tasso di interesse di riferimento, una mossa che ovviamente influisce sull’economia nel suo complesso. Sebbene speri che ciò non porti a un rallentamento economico totale, intendiamo attuare misure mirate di raffreddamento. Dobbiamo sacrificare questi tassi di crescita per ripristinare gli indicatori macroeconomici vitali che garantiscono la salute generale dell’economia. Le recenti decisioni del governo in materia fiscale, che comportano un aumento del 2% dell’IVA Le recenti decisioni del Governo in materia fiscale, che comportano un aumento del 2% dell’IVA, sono state già rese pubbliche. È essenziale che questi cambiamenti non portino ad un’espansione dell’economia sommersa.
Tutto ciò rappresenta i nostri principali obiettivi a breve termine. Ci sono anche fattori fondamentali relativi alla nostra situazione economica, ovvero un debito pubblico relativamente basso e un modesto deficit di bilancio previsto al 2,6% quest’anno e all’1,6% l’anno prossimo. Almeno queste sono le cifre che abbiamo pianificato. Detto questo, il debito pubblico rimane al di sotto del 20 %.
Tutto ciò ci porta a ritenere che, nonostante la decisione del decisione del Governo sull’aumento dell’IVA influenzerà inevitabilmente la crescita economica a causa del maggiore carico fiscale – e ne siamo ben consapevoli – ma consentirà anche alla Banca Centrale di trovare una maggiore flessibilità nel prendere decisioni ben equilibrate sulle questioni macroeconomiche e nella gestione del tasso di interesse di riferimento, mentre il Governo prenderà le decisioni adeguate sulla spesa di bilancio e manterrà i parametri di base, creando al contempo le condizioni per uno sviluppo a lungo termine .
In sintesi, questi fattori: a) indicano che abbiamo attraversato un periodo altamente impegnativo, e b) ci danno la certezza che non solo abbiamo superato questa fase, ma che ora siamo in una buona posizione per andare avanti.
Sono fiducioso che sarà così.
Fyodor Lukyanov: Aleksandar Rakovic ha alzato la mano.
Aleksandar Rakovic: Signor Presidente,
Sono Aleksandar Rakovic, uno storico di Belgrado, Serbia. La mia domanda è: cosa ne pensi dei tentativi di fare una rivoluzione colorata in Serbia?
Grazie.
Vladimir Putin: Concordo con il presidente Vucic, e i nostri servizi segreti lo confermano: alcuni centri occidentali stanno effettivamente tentando di organizzare una rivoluzione colorata, in questo caso in Serbia.
Ci sono sempre persone, specialmente giovani, che non sono pienamente consapevoli dei problemi reali e delle radici di questi problemi, né delle possibili conseguenze di cambiamenti illegali al potere, compresi quelli causati dalle rivoluzioni colorate.
Tutti sanno bene a cosa ha portato la rivoluzione colorata in Ucraina. Una rivoluzione colorata è una presa di potere incostituzionale e illegale. Questo è ciò che è, per dirla senza mezzi termini. Di norma, non porta mai a nulla di buono. È sempre meglio rimanere nel quadro della legge fondamentale, all’interno della costituzione.
È sempre più facile influenzare i giovani e plasmare la loro coscienza. Ecco perché ho citato i nostri giovani che appaiono orgogliosamente in pubblico indossando kokoshnik o altri simboli russi. Questo senso di orgoglio è la chiave del successo di una società: è così che essa si difende dalle influenze esterne, specialmente quelle negative.
E i giovani in Serbia – anche quelli che scendono in pista – sono, in generale, patrioti. Non dobbiamo dimenticarlo. Il dialogo con loro è necessario, e credo che il presidente Vucic stia cercando di fare proprio questo. Ma devono anche ricordare che sono, prima di tutto, patrioti.
Non devono mai dimenticare le sofferenze subite dal popolo serbo prima, durante e dopo la prima guerra mondiale, e nel periodo precedente e durante la seconda guerra mondiale seconda guerra mondiale e durante la stessa. Il popolo serbo ha attraversato un periodo di immense difficoltà. Coloro che ora spingono i giovani in strada vogliono che il popolo serbo continui a soffrire, proprio come alcuni vogliono che il popolo russo a soffrire, e lo dicono anche apertamente. Forse in Serbia, coloro che incitano ai disordini potrebbero non dirlo ad alta voce, ma sicuramente lo pensano.
Promettono che se scendono in strada ora e rovesciano qualcuno, allora tutto andrà bene. Ma nessuno spiega mai come o quando andrà tutto bene, o come e a quale costo tutto improvvisamente migliorerà. Coloro che provocano tali eventi non lo dicono mai. Di norma, tutto finisce nel contrario di ciò che gli organizzatori si aspettano.
Credo che se si mantiene un dialogo costruttivo con questi giovani, sarà possibile raggiungere un’intesa con loro, perché sono, prima di tutto, patrioti – e devono rendersi conto di cosa sia veramente meglio per il loro paese: tali rivoluzioni e devono rendersi conto di cosa sia veramente meglio per il loro Paese: tali rivoluzioni o cambiamenti evolutivi, con la loro partecipazione, naturalmente.
Ma in sostanza, non sono affari nostri. Si tratta di una questione interna alla Serbia.
Fyodor Lukyanov: Ha buoni rapporti con il presidente Vucic adesso? Ci sono state alcune lamentele sui nostri colleghi serbi .
Vladimir Putin: Ho buoni rapporti con tutti, compreso il presidente Vucic.
Fyodor Lukyanov: [Una domanda di] Adil Kaukenov.
Adil Kaukenov: Buon pomeriggio, signor Presidente.
Mi chiamo Adil Kaukenov e sono uno studente di dottorato presso l’Università di Lingua e Cultura di Pechino. Vorrei tornare sull’argomento della sua [recente] visita in Cina.
Si è discusso molto in merito al recente annuncio secondo cui la Cina ha introdotto un regime di esenzione dal visto per i cittadini russi. In realtà, l’impatto è già evidente a Pechino, con la nuova ondata di visitatori.
Come valuta questo sviluppo? La Russia sta prendendo in considerazione l’introduzione di un accordo reciproco di esenzione dal visto per i cittadini cinesi? E quali risultati si aspetta da questa mossa?
Grazie mille.
Vladimir Putin: Per quanto riguarda le misure reciproche, ho detto a Pechino che risponderemo con misure analoghe. In realtà, ne ho discusso di recente con il nostro ministro degli Esteri . Inizialmente ha detto: “L’ abbiamo già attuata”, ma poi ha aggiunto: “In realtà, devo ricontrollare”. Ovviamente la burocrazia funziona allo stesso modo in tutti i paesi, ma se non è ancora stato fatto, lo faremo sicuramente.
L’annuncio della Cina di consentire l’ingresso senza visto ai cittadini russi è stato una sorpresa; si è trattato di un’iniziativa personale del presidente [cinese], molto apprezzata.
Quali sono i risultati attesi? Credo che saranno estremamente positivi, perché ciò significa che le fondamenta di solide relazioni interstatali vengono costruite a livello umano. Il numero di russi che si recheranno in Cina per turismo, ricerca e istruzione aumenterà in modo esponenziale, e lo stesso avverrà nella direzione opposta .
La cosa più importante è che si tratta di turisti russi e cinesi che visitano i rispettivi paesi in prima persona. Fondamentalmente, si tratta di passi essenziali; li sosteniamo pienamente e faremo ogni sforzo per facilitare questo processo.
Fyodor Lukyanov: Grazie .
Generale Sharma.
B.K. Sharma, Direttore, United Service Institution of India, Nuova Delhi: Signor Presidente, attendiamo con grande interesse la sua visita in India nel mese di dicembre. La mia domanda è: quale sarà l’obiettivo strategico della Sua visita in India? In che modo contribuirà ad approfondire le relazioni bilaterali e la collaborazione a livello regionale e internazionale?
Vladimir Putin: Abbiamo mantenuto un rapporto speciale con l’India sin dall’era sovietica, dopotutto, quando il popolo indiano ha combattuto per la propria indipendenza. In India lo ricordano, lo sanno e lo apprezzano, mentre noi li lodiamo per aver mantenuto viva questa memoria in India. E le nostre relazioni si stanno sviluppando; presto celebreremo i 15 anni dalla firma della dichiarazione che ha istituito un partenariato strategico privilegiato tra i nostri paesi .
Questa è la realtà. In effetti, la Russia e l’India non hanno mai avuto problemi o tensioni tra loro, mai. Il primo ministro Modi è un leader molto prudente e saggio. Naturalmente, gli interessi nazionali sono la sua priorità. E la popolazione indiana lo sa molto bene.
La cosa più importante per noi ora è stabilire relazioni commerciali ed economiche efficaci e reciprocamente vantaggiose. Il nostro commercio con l’India ha raggiunto circa 63 miliardi di dollari. Quante persone vivono in India? La sua popolazione è di un miliardo e mezzo, mentre Bielorussia ha una popolazione di dieci milioni. Ma il nostro commercio con la Bielorussia è pari a 50 miliardi di dollari, mentre quello con l’India è di 63 miliardi. Chiaramente, questo non è all’altezza del nostro potenziale e delle nostre capacità. Si tratta di un totale squilibrio.
A questo proposito, dobbiamo affrontare diversi obiettivi per sbloccare il nostro potenziale e trarre vantaggio dalle opportunità che abbiamo. Risolvere la questione logistica è in cima a questa lista, ovviamente. Il secondo compito consiste nell’affrontare le questioni relative al finanziamento e all’elaborazione delle transazioni. C’è qualcosa su cui lavorare e abbiamo tutto ciò che serve per raggiungere questo obiettivo.
Ciò può essere fatto anche utilizzando gli strumenti BRICS e, su base bilaterale, utilizzando rupie, valute di paesi terzi o pagamenti elettronici. Tuttavia, questi sono i principali punti da discutere. Abbiamo uno squilibrio commerciale con l’ India, perdonate la tautologia [in russo], e lo sappiamo, lo vediamo. E insieme ai nostri amici e partner indiani, stiamo pensando a come migliorare questo scambio.
Proprio di recente, letteralmente pochi giorni fa, ho impartito un’altra istruzione al Governo, al nostro co-presidente della Commissione Intergovernativa , il sig. Manturov, di collaborare con i suoi colleghi del Governo per esplorare tutte le possibili opzioni per ampliare i nostri legami commerciali ed economici. E il governo russo sta lavorando su questo e proporremo ai nostri amici indiani le misure congiunte corrispondenti a tal fine.
Per quanto riguarda le relazioni politiche e i nostri contatti sulla scena internazionale, abbiamo sempre coordinato le nostre azioni. Certamente ascoltiamo e teniamo a mente le rispettive posizioni dei nostri paesi su varie questioni importanti. I nostri ministeri degli Esteri lavorano in stretta collaborazione.
Lo stesso vale per il settore umanitario. Abbiamo ancora molti studenti che studiano in Russia. Come ho già detto, ci piace il cinema indiano. Siamo probabilmente l’unico paese al mondo, a parte l’India, che ha un canale speciale che trasmette film indiani giorno e notte su base permanente
Abbiamo sviluppato un alto livello di fiducia anche nel settore della difesa. Insieme, produciamo diverse armi avanzate e promettenti. Questo è un ulteriore esempio che dimostra il tipo di fiducia che i nostri paesi hanno sviluppato nelle loro relazioni.
E, onestamente, anch’io non vedo l’ora di intraprendere questo viaggio all’inizio di dicembre, in cui incontrerò il mio amico e nostro fidato partner, il Primo Ministro Modi.
Fyodor Lukyanov: Grazie.
Anatol Lieven.
Anatol Lieven: Grazie mille, signor Presidente, per essere venuto a trovarci. Recentemente, in Occidente si è discusso pubblicamente di due gravi potenziali escalation: la fornitura di missili da crociera Tomahawk all’Ucraina e il potenziale sequestro di navi con carichi russi in alto mare, non solo nei porti e nelle acque territoriali. Potrebbe darci la sua opinione sui pericoli di tutto ciò e magari dirci qualcosa su come potrebbe reagire la Russia ? Grazie.
Vladimir Putin: È una cosa pericolosa. Per quanto riguarda i Tomahawk, si tratta di un’arma molto potente, anche se, a dire il vero, non è proprio all’avanguardia, ma resta comunque un’arma formidabile che rappresenta una minaccia.
Naturalmente, ciò non cambierà né influenzerà in alcun modo la situazione sul campo di battaglia. Come ho già detto, non importa quanti droni fornite all’Ucraina, e non importa quante linee di difesa apparentemente inespugnabili creino utilizzando questi droni, il problema fondamentale per le forze armate ucraine è che finché avranno carenze di personale, non ci sarà nessuno che combatterà queste battaglie. Lo capite?
Ho fatto riferimento al modo in cui le tattiche di combattimento si sono evolute con l’introduzione delle nuove tecnologie. Ma basta guardare ciò che le nostre reti televisive hanno riportato sul modo in cui le nostre truppe hanno avanzato le loro posizioni. Naturalmente, questo richiede tempo. Ci sono progressi, anche se avanzano in gruppi di due o tre, ci sono comunque progressi. I sistemi di guerra elettronica sono stati piuttosto efficaci nel disturbare questi droni per consentire alle nostre truppe di avanzare. La situazione qui è piuttosto simile.
Avevano già i sistemi ATACMS. Cosa ne è venuto fuori? I sistemi di difesa aerea della Russia si sono adattati a queste armi. Si tratta di un’arma ipersonica, ma abbiamo iniziato a intercettarle nonostante questo fatto. I Tomahawk possono farci del male? Sì, possono. Li intercetteremo e miglioreremo le nostre difese aeree.
Questo danneggerà le nostre relazioni, considerando che abbiamo finalmente iniziato a vedere la luce alla fine del tunnel? Ovviamente, ciò sarebbe dannoso per le nostre relazioni. Come potrebbe essere altrimenti? Non è possibile utilizzare i Tomahawk senza il coinvolgimento diretto del personale militare statunitense. Ciò segnerebbe l’avvento di una fase completamente nuova in questa escalation, anche in termini di relazioni della Russia con gli Stati Uniti .
Per quanto riguarda il sequestro delle navi, come potrebbe questo avere un effetto positivo? È simile alla pirateria. E cosa si fa con i pirati? Li si elimina. Come si possono affrontare i pirati in altro modo? Questo non significa che una guerra devasterà l’intero oceano mondiale, ma ovviamente aumenterebbe notevolmente il rischio di scontri.
A giudicare dall’esempio della Repubblica francese, credo che sia proprio questo ciò che sta accadendo. Credo che oggi questo tentativo di aumentare la tensione e il livello di escalation sia principalmente dovuto ai tentativi di distrarre le persone nei propri paesi dalle sfide sempre più difficili che i paesi che lo fanno hanno dovuto affrontare a livello interno. Vogliono che reagiamo: questo è ciò che stanno aspettando, come ho sempre detto.
Questo cambierebbe immediatamente il focus politico, consentendo loro di gridare “al lupo, al lupo” e affermare di essere sotto attacco. “Chi vi sta dando la caccia?” – “La terribile Russia! Tutti devono serrare i ranghi e coalizzarsi attorno ai propri leader politici”. Questo è l’ obiettivo principale, e le persone in questi paesi devono sapere che questo è ciò che stanno cercando di ottenere: vogliono ingannare il loro popolo, frodarlo e impedirgli di prendere parte alle manifestazioni di protesta, compreso l’uscire in strada, e allo stesso tempo sopprimere l’impegno civico mantenendo la presa sul potere.
Tuttavia, i cittadini di questi paesi devono comprendere che si tratta di un gioco rischioso. Sono spinti verso un’escalation e, forse, verso conflitti armati su larga scala. Sconsiglierei di procedere in questa direzione.
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, lei ha citato l’Europa come esempio di utilizzo delle minacce esterne per ottenere il consolidamento interno . Eppure, negli Stati Uniti, abbiamo recentemente assistito anche noi a un assassinio politico di alto profilo, che è stato visto come il risultato della polarizzazione sociale e come l’esposizione di un conflitto interno. Sembra che anche loro siano desiderosi di sfruttare le minacce esterne allo stesso scopo?
Vladimir Putin: Sapete, questa è un’atrocità disgustosa, soprattutto perché si è svolta in tempo reale e tutti abbiamo potuto vedere come è avvenuta. Davvero, che cosa disgustosa e orribile da vedere. Innanzitutto, naturalmente, porgo le mie condoglianze alla famiglia del signor Charlie Kirk e alle persone che lo conoscevano. Siamo vicini a voi e condividiamo il vostro dolore .
Inoltre, egli difese proprio questi valori tradizionali, che, tra l’altro, Michael Gloss arrivò a difendere con le armi in pugno e per i quali sacrificò la propria vita. Ha dato la vita combattendo per questi valori come soldato russo, mentre Kirk ha sacrificato la sua vita laggiù, negli Stati Uniti, combattendo per gli stessi valori. Qual è la differenza? In realtà, la differenza è minima, se non addirittura inesistente . A proposito, i seguaci di Kirk negli Stati Uniti devono sapere che qui in Russia ci sono americani che lottano con la stessa determinazione e sono altrettanto disposti a sacrificare la propria vita per questa causa, e lo fanno.
Quello che è successo è un segno di una profonda divisione sociale. Negli Stati Uniti, credo, non sia necessario fomentare la situazione dall’esterno, perché la leadership politica del Paese sta cercando di riportare l’ordine al suo interno. E ora non voglio fare alcun commento, poiché non sono affari nostri, ma a mio avviso gli Stati Uniti hanno intrapreso questa strada.
Tuttavia, ciò che lei ha affermato e la domanda del suo collega riguardo ai nuovi sistemi d’arma a lunga gittata e ad alta precisione rappresentano anche un modo per distogliere in qualche modo l’attenzione dalle sfide interne. Ma quello che vedo ora è che la leadership statunitense è attualmente incline a perseguire una politica diversa, in particolare concentrandosi sul raggiungimento degli obiettivi di sviluppo nazionale, così come li vede .
Fyodor Lukyanov: Grazie.
Ho visto la mano di Glenn Diesen.
Glenn Diesen: Presidente Putin, grazie mille per aver condiviso le sue prospettive. La mia domanda riguardava l’adesione della Finlandia e della Svezia alla NATO. Ciò cambia il panorama geopolitico dell’Europa e mi chiedevo come la Russia interpreti questo evento. Vale a dire, l’estremo nord e la situazione nel Mar Baltico, e forse in particolare la pressione a cui è sottoposta Kaliningrad, e come la Russia potrebbe rispondere a questo. Grazie.
Vladimir Putin: Per quanto riguarda la Marina, questo può causare conflitti: questo era il mio messaggio. Vorrei evitare di approfondire troppo questo punto o di fornire argomenti a coloro che vogliono che rispondiamo in modo duro e violento. Se approfondissi questo punto spiegando in modo specifico ciò che intendiamo fare, griderebbero immediatamente al lupo dicendo che Russia sta proferendo minacce e che loro lo avevano previsto da tempo. Questo servirebbe come scatto per raggiungere il loro obiettivo finale, che consiste nel gettare un velo sulle loro sfide interne mettendo le minacce esterne al centro dell’attenzione.
Non commettete errori, noi risponderemo. Non siamo noi a trattenere le navi della Marina straniera, mentre qualcuno sta cercando di impedirci di farlo. Continuano a parlare della cosiddetta flotta ombra e hanno introdotto questo termine. Ma potete dirmi cosa significa questo concetto di flotta ombra? Qualcuno qui può dirmelo? Non ho alcun dubbio che la risposta sia negativa, perché non esiste una flotta ombra nel diritto internazionale del mare. Ciò significa che queste azioni non hanno alcun fondamento giuridico. Coloro che stanno cercando di farlo devono essere consapevoli di questo fatto. Questo è il mio primo punto.
Il mio secondo punto, per rispondere alla tua prima domanda, riguarda l’adesione della Finlandia e della Svezia alla NATO. Ma questa non è stata affatto una mossa intelligente. Dopo tutto, non avevamo alcun problema con la Svezia e ancor meno con la Finlandia. In realtà, non c’erano problemi nelle nostre relazioni con la Finlandia, tanto per cominciare. Sapete che le persone erano libere di usare i rubli quando facevano acquisti nei grandi magazzini del centro di Helsinki. Anche tre anni fa, le persone potevano facilmente recarsi a Helsinki, entrare in un negozio, prendere i rubli dal portafoglio e pagare i propri acquisti. Era proprio così semplice. Inoltre, nelle regioni di confine della Finlandia tutte le insegne e le etichette erano in russo. La gente era desiderosa di assumere persone che parlassero russo per lavorare negli hotel e nei centri commerciali, dato che c’erano tanti turisti e la nostra gente era solita acquistare immobili in quella zona.
È possibile che alcune forze nazionaliste in questi paesi possano sospettare o temere questi sviluppi, presentandoli come una tacita infiltrazione della Russia. Ma viviamo in un mondo interdipendente. Se qualcosa non vi piace, se lo considerate una minaccia, potete adottare misure economiche o amministrative per imporre restrizioni agli acquirenti di beni immobili o alla circolazione delle persone. Non c’è quasi nessuna questione che non possa essere risolta in questo modo. Detto questo, entrare a far parte della NATO, che è un blocco con una politica aggressiva nei confronti della Russia, perché dovrebbero farlo? Cosa stanno cercando di proteggere? Quali interessi devono proteggere la Finlandia e la Svezia? La Russia aveva intenzione di invadere Helsinki o Stoccolma? La Russia ha regolato tutti i conti con la Svezia nella battaglia di Poltava.
Questo è successo molto tempo fa e non ci sono questioni in sospeso. C’era Carlo XII, una figura molto controversa, che governava la Svezia, e non è ancora chiaro chi lo abbia ucciso… Alcuni credono che siano stati i suoi stessi uomini ad ucciderlo perché stanchi delle sue incessanti campagne militari e dei suoi tentativi di coinvolgere la Turchia in un’altra guerra contro la Russia. Ma questo è ormai un ricordo del passato. Infatti, questo è successo diversi secoli fa.
Qual è il problema della Finlandia? Sapete qual è il problema? Non ci sono problemi di alcun tipo. Abbiamo risolto tutte le nostre questioni e firmato tutti i trattati basati sui risultati della seconda guerra mondiale. Perché l’hanno fatto? Volevano la loro fetta di torta in caso di Russia subisse una sconfitta strategica o per prendersi qualcosa che appartiene a noi? Avrei potuto usare ancora una volta un gesto specifico, ma con le signore presenti in questa stanza non posso permettermi di farlo .
Ascolta, sia la Finlandia che la Svezia hanno perso i vantaggi del loro status di neutralità. Prendiamo ad esempio i colloqui su un possibile accordo in Ucraina. Perché è stato stipulato l’Accordo di Helsinki? Perché si chiama “Helsinki”? Perché il paese ospitante era neutrale, un luogo dove tutti si sentivano a proprio agio nell’incontrarsi. Ma ora, chi andrebbe ad Helsinki?
Prendiamo il signor Stubb. Donald dice che è un buon giocatore di golf. Va bene. Ma questo da solo non basta. (Risate) Non voglio mancare di rispetto, anch’io amo lo sport. Ma comunque non basta. Qual è la prospettiva a lungo termine ? Qualcuno può spiegarmi qual è il vantaggio? Ne nomini almeno uno. Ho detto prima che forse alcuni circoli nazionalisti finlandesi temevano che la Russia stesse silenziosamente acquistando troppa influenza in quel paese. Ebbene, se questa è la preoccupazione, introduciamo restrizioni amministrative o giuridiche. Perché no?
Ho sempre avuto ottimi rapporti con i precedenti leader finlandesi: ci facevamo visita regolarmente e discutevamo di ogni sorta di questioni pratiche: questioni di confine, collegamenti di trasporto e così via. Tutto funzionava senza intoppi.
Allora perché cambiare questa situazione? Perché la Russia presumibilmente persegue una politica aggressiva e ha attaccato l’Ucraina. Giusto. E il colpo di Stato in Ucraina, quello non conta? Il fatto che dal 2014 dei bambini siano stati uccisi nel Donbass, è normale? Che carri armati e aerei siano stati usati contro civili e che città siano state bombardate? Tutto questo è stato documentato, filmato, registrato. È accettabile? Semplicemente non c’era alcun desiderio di analizzare nulla, solo il desiderio di unirsi allo stesso branco che cercava di portare via qualcosa alla Russia. Qual è il risultato?
L’ex presidente una volta mi disse – avevamo un buon rapporto, ci sentivamo al telefono, abbiamo anche giocato a hockey insieme diverse volte – disse: “La Norvegia è nella NATO, e va bene così”. Va bene? Non c’è niente di buono in questo.
Avevamo rapporti normali con loro, avevamo persino raggiunto un accordo con la NATO sulle questioni marittime e tutto funzionava. Ma ora il confine tra la Russia e la NATO si è allungato. E allora? In precedenza non avevamo alcuna presenza militare in quella regione della Russia. Ora ce l’avremo. Dobbiamo creare un distretto militare separato. I finlandesi ci hanno detto che non avrebbero permesso il dispiegamento di armi pericolose per la Russia, in particolare armi nucleari. Beh, perdonatemi la schiettezza, ma chi diavolo lo sa? Sappiamo come vengono prese le decisioni nella NATO. Chi lo chiederà ai finlandesi? Non voglio offendere nessuno, ma so come funzionano le cose: le armi saranno collocate lì, e basta. E poi? Hai fatto buca in un colpo solo o no? Ecco fatto, Pershing. Ne sarai ritenuto responsabile, quindi risponderemo con i nostri sistemi. Che senso ha tutto questo?
Ora stanno parlando dei nostri aerei che sorvolano il Mar Baltico con i transponder spenti. Ricordo di aver sollevato la questione durante una visita a Helsinki: anche gli aerei della NATO volavano senza transponder. Il presidente finlandese ha quindi suggerito di concordare che tutti dovessero accenderli. Abbiamo accettato – la Russia ha accettato. E cosa hanno detto i paesi della NATO? “Non lo faremo”. Beh, se loro non lo fanno, allora non lo faremo nemmeno noi.
Si tratta di aumentare le tensioni in un’altra parte del mondo, mettendo a rischio la stabilità, compresa quella militare e strategica in quelle regioni. Se questo dovesse rappresentare un pericolo per noi, schiereremo le nostre forze anche lì per mettere in pericolo coloro che hanno schierato le loro armi in quella zona. Perché farlo? Chi ne trae vantaggio? Ha fatto qualche differenza per la sicurezza della Finlandia o della Svezia ? No, ovviamente no.
Quindi… continueremo, ovviamente, a lavorare come al solito. Se decidessero di costruire o ripristinare le relazioni con noi, non siamo contrari, anzi, siamo tutti favorevoli. Tuttavia, la situazione è cambiata. Come dice un famoso proverbio, abbiamo ritrovato i cucchiai scomparsi, ma l’incidente ci ha comunque lasciato l’amaro in bocca.
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, perché sta inviando così tanti droni in Danimarca?
Vladimir Putin: Prometto che non lo farò. Non invierò droni in Francia, Danimarca o Copenaghen. Quali altre destinazioni possono raggiungere?
Fyodor Lukyanov: Possono andare ovunque.
Vladimir Putin: Lisbona. Dove altro?
Sai, le persone che, un po’ di tempo fa, erano appassionate di oggetti volanti non identificati si stanno divertendo lì. Ci sono molti personaggi eccentrici lì. Proprio come facciamo qui, tra l’altro. La stessa cosa, soprattutto i giovani. Li lanceranno ogni singolo giorno, quindi lasciate che si diano da fare e lo capiscano.
Seriamente, però, non abbiamo nemmeno droni in grado di arrivare fino a Lisbona. Abbiamo alcuni droni a lungo raggio, ma non ci sono obiettivi a quella distanza. Questo è ciò che conta di più in questo senso.
Questo è un modo per aumentare le tensioni in generale, per ottemperare agli ordini provenienti dal “comitato regionale del partito di Washington” e per aumentare la spesa per la difesa.
Ci è stato appena detto che l’economia europea, in particolare in Germania e Francia, si trova in una situazione difficile. Non molto tempo fa, entrambi i paesi, in primis la Germania, erano i principali motori della crescita economica in Europa Per quanto la Polonia si sforzi, non è in grado di diventare un motore simile. Sta cercando di diventare leader dell’Unione Europea, lo vediamo. Ma questo sforzo metterà a dura prova la Polonia nel breve termine storico. Questi paesi stanno perdendo tale status a causa della stagnazione delle principali economie e anche perché i loro deficit di bilancio sono tristemente elevati e sono multipli dei nostri deficit di bilancio. Anche altri dati macroeconomici in questi paesi sono carenti. Noi, come ho detto prima, abbiamo il 2,6 [percento], mentre loro hanno cifre che sono da quattro a circa sei volte superiori. L’isteria viene fomentata per distogliere l’attenzione della gente da questi problemi fondamentali e profondi.
Fyodor Lukyanov: Hai spaventato il Portogallo quando hai menzionato Lisbona. Il loro senso dell’umorismo potrebbe venir meno e potrebbero prenderla sul serio. Ad ogni modo, per mettere le cose in chiaro, era uno scherzo.
Vladimir Putin: Perché uno scherzo? No.
Fyodor Lukyanov: No?
Vladimir Putin: No.
Fyodor Lukyanov: Mi scusi. Allora era un avvertimento corretto. E anche un gesto gentile.
Vladimir Putin: Uomo avvisato mezzo salvato.
Forse dovrei? Oppure è antidemocratico.
Fyodor Lukyanov: Sì, prego.
Vladimir Putin: Giovane donna con una camicetta chiara.
Domanda: Signor Presidente, due parole sull’ aggressione e sulla maggioranza globale.
Oggi avete menzionato più volte come è nato il BRICS, cosa sta succedendo al suo interno e quali sono gli obiettivi di questo gruppo. Sai, sentiamo ancora dire dai nostri esperti e colleghi occidentali che il BRICS è un’entità aggressiva. Anche se noi, e ogni singolo Paese, affermiamo che il nostro programma è positivo e lo dimostriamo con le nostre azioni, ma…
Ricordano ancora Kazan, ricordando quanto fossero isolati i nostri colleghi europei, che dicevano che la Russia era isolata.
Ci sono molte iniziative importanti. Vorrei ringraziarvi in modo particolare per il vostro sostegno personale. L’anno scorso abbiamo lanciato il Consiglio Civico BRICS. Si tratta di una vera e propria pietra miliare. Quindi, come possiamo garantire che il BRICS mantenga il suo slancio – ha raddoppiato le sue dimensioni, ha acquisito nuovi partner – e sia all’altezza della fiducia che la maggioranza globale ripone ancora in esso?
Grazie.
Vladimir Putin: La domanda è retorica. Il BRICS sta crescendo. Questo è positivo ma anche impegnativo. Hai fatto bene a sottolinearlo, perché più partecipanti ci sono, più interessi e opinioni ci sono . Coordinare una posizione comune diventa più difficile, ma non c’è altra soluzione. L’unica strada è quella del coordinamento, della ricerca di interessi comuni e della collaborazione in questa direzione. Nel complesso, finora ci siamo riusciti .
Il BRICS deve affrontare molte sfide. Riteniamo che una di queste vada oltre la semplice creazione di una piattaforma comune o di principi comuni di interazione, anche, in primo luogo, nell’ambito economico. Come ho già detto nel mio intervento, non stiamo perseguendo una politica contro nessuno. L’intera politica dei BRICS è rivolta a noi stessi, ai membri di questo gruppo.
Non stiamo conducendo alcuna campagna anti-dollaro né attuando politiche anti-dollaro, assolutamente no. È semplicemente che non ci è permesso regolare i conti in dollari. Quindi cosa dovremmo fare? Effettuiamo i pagamenti nelle valute nazionali. Ora faremo come molti altri paesi, compresi gli Stati Uniti. Lavoreremo per ampliare le opportunità di commercio elettronico e pagamenti elettronici.
Svilupperemo questo ambito anche all’interno dei paesi BRICS. Stiamo già cercando di farlo promuovendo l’idea di una nuova piattaforma di investimento, dove, a mio parere, possiamo aspettarci un successo. Se ci muoviamo in questa direzione, come ho appena detto, utilizzando le moderne tecnologie, anche nel sistema di pagamento, saremo in grado di creare un sistema completamente unico che opera con rischi minimi e praticamente senza inflazione. Dobbiamo solo riflettere attentamente sui progetti che saranno reciprocamente vantaggiosi per tutti i partecipanti a questo processo e, soprattutto, per coloro in cui tali progetti vengono attuati.
Vogliamo concentrarci principalmente sui mercati in rapida crescita dell’Africa e dell’Asia meridionale, che senza dubbio continueranno a crescere rapidamente. Lo stanno già facendo e il loro ritmo è destinato solo ad aumentare. Oggi, se guardiamo al PIL globale, i paesi BRICS rappresentano il 40 percento di esso. L’Unione Europea rappresenta il 23 percento e il Nord America il 20 percento. E questa crescita sta accelerando. Guardiamo la quota dei paesi del G7 di 10 o 15 anni fa e confrontiamola con quella odierna. La tendenza è chiara e in atto.
E cosa vogliamo? Vogliamo integrarci in questa tendenza di sviluppo e lavorare insieme, anche con i principali paesi BRICS, in questi mercati e in Africa, che ha anche un futuro molto luminoso .
Guardate i paesi di quella zona: hanno già una popolazione che si avvicina o supera i 100 milioni di persone e sono molto ricchi. Lo stesso vale per l’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico. Si tratta di enormi opportunità di sviluppo per l’umanità e questi paesi si impegneranno naturalmente per aumentare il tenore di vita dei propri cittadini, avvicinandolo a quello delle nazioni più sviluppate.
In questo processo ci sarà inevitabilmente concorrenza e noi vogliamo partecipare a questo sforzo collettivo positivo. Che cosa c’è di aggressivo in questo? Si tratta semplicemente di una reazione un po’ nervosa al nostro successo, e di una reazione alla crescente concorrenza negli affari globali e nell’economia globale.
Un signore laggiù ha alzato la mano. Prego, proceda pure.
Direttore della Vivekananda International Foundation (Nuova Delhi) Arvind Gupta:
Grazie, Eccellenza, per la sua presentazione molto esauriente. Penso che lei abbia risposto a molte delle nostre domande e chiarito alcuni dubbi. Ascoltare direttamente da lei queste cose è molto utile per noi e desidero ringraziare Valdai per averci offerto questa opportunità.
Lei ha accennato alla sua imminente visita in India e ha anche menzionato alcuni progetti e iniziative che potrebbero essere intrapresi. Ma vorrei fare riferimento a un settore, ovvero la possibilità di cooperazione nell’ambito dell’alta tecnologia e delle tecnologie emergenti. Credo che sia necessario un’attenzione particolare e iniziative speciali per migliorare la nostra cooperazione, approfondire la nostra cooperazione nell’intelligenza artificiale, nel cyber e in altri settori. Quindi, avete in mente alcune misure speciali, come, ad esempio, la creazione di un fondo tecnologico India-Russia per promuovere tale cooperazione? Perché, a meno che non ci sia uno slancio ai livelli più alti, questa cooperazione richiederà un po’ di tempo. Questa è la mia prima domanda.
La mia seconda domanda è che anche oggi lei ha parlato di civiltà e cultura e della loro importanza. In precedenti incontri anche qui, lei ha sottolineato questo aspetto. Potrebbe approfondire il ruolo della civiltà e della cultura nella politica internazionale contemporanea? Ritiene che le civiltà favoriscano la cooperazione tra civiltà e portino stabilità? Oppure crede che ci siano possibilità di uno scontro di civiltà, come è stato previsto da alcuni studiosi alcuni anni fa?
Grazie mille.
Vladimir Putin: È una domanda piuttosto complessa. Inizierò dalla parte più semplice, l’intelligenza artificiale e altre tendenze di sviluppo della civiltà moderna, e l’idea di istituire una fondazione.
Possiamo crearne uno. Come ho detto prima, avevo dato istruzioni al Governo, in particolare al Vice Primo Ministro che copresiede la Commissione intergovernativa da parte russa lato russo, di sedersi al tavolo con i nostri amici e colleghi indiani e discutere proposte che identifichino le aree di cooperazione più promettenti e i modi per bilanciare il nostro commercio. Siamo disposti a farlo. Ad esempio, potremmo aumentare gli acquisti di prodotti agricoli e farmaceutici indiani, adottando anche alcune misure da parte nostra.
Per quanto riguarda la fondazione e, più in generale, la cooperazione con i nostri amici indiani, ci sono alcuni aspetto specifici da considerare. L’economia indiana è principalmente privata e guidata da iniziative private in cui si deve trattare direttamente con le aziende piuttosto che con lo Stato , mentre il governo, proprio come il nostro, svolge principalmente un ruolo di regolamentazione .
Naturalmente, a livello statale, dovremmo mirare a creare condizioni adeguate per un’interazione economica positiva tra gli agenti economici, ma dovremmo anche lavorare direttamente con le aziende. Tuttavia, la sua idea di unire gli sforzi in settori chiave dello sviluppo, compreso lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale, è buona.
Abbiamo compiuto alcuni progressi in questo campo di cui possiamo andare fieri e abbiamo aziende che stanno ottenendo risultati eccellenti. Unire gli sforzi è di fondamentale importanza e promette ottimi risultati congiunti .
Grazie per l’idea. Ne terrò conto e modificherò leggermente le mie istruzioni al Governo.
Per quanto riguarda le civiltà, lo scontro di civiltà e le argomentazioni di alcuni ricercatori al riguardo, ne sono consapevole, in linea di massima.
Probabilmente ti riferisci a uno degli ricercatori americani che hanno studiato i problemi e il futuro delle civiltà. Egli ha suggerito che le differenze ideologiche stanno passando in secondo piano, lasciando spazio ai principi essenziali e fondamentali della civiltà. Riteneva che le passate differenze ideologiche tra gli Stati potessero assumere aspetti civili e che non avremmo assistito a uno scontro di ideologie o di Stati a causa delle differenze ideologiche, ma piuttosto uno scontro di Stati e una coalescenza basata sulle caratteristiche civili
Se sai leggere e ti limiti a leggere tali dichiarazioni, potresti considerarle piuttosto sensate. Tuttavia, negli ultimi anni ho cercato di analizzare ciò che leggo. Ti dirò cosa ne penso. A mio parere, le considerazioni ideologiche che hanno avuto un ruolo di primo piano negli ultimi decenni erano solo una copertura che camuffava una vera e propria lotta di interessi geopolitici. E gli interessi geopolitici sono molto più profondi; sono più vicini agli interessi civilizzatori.
Vedete, quando l’Unione Sovietica è crollata, i sempliciotti russi e gli ex funzionari sovietici pensavano – anch’io lo pensavo – che avremmo vissuto come una famiglia, una famiglia di civiltà, che ci saremmo baciati, abbracciati – anche se sosteniamo i valori tradizionali – e avremmo vissuto come una famiglia di nazioni, come dovrebbe fare una buona famiglia.
Niente del genere. Questo è stato una sorpresa anche per me, un ex ufficiale del Servizio di intelligence estero dell’Unione Sovietica. Ne ho parlato quando ero direttore del Servizio Federale di Sicurezza (FSB), dicendo che ci consideravamo parte della famiglia, mentre i nostri partner, come li chiamavo allora, sostenevano il separatismo e i terroristi, compresa Al Qaeda nel Caucaso settentrionale. Ho detto loro : “Cosa state facendo? Siete pazzi? Noi siamo con voi, siamo della stessa famiglia borghese”, come ricordiamo da un libro per bambini. Dateci un grande vaso di miele e un grande cucchiaio, e berremo e divoreremo il miele insieme.
Ma no, ho visto, come direttore della CIA (risate) – futuro direttore – che i nostri avversari, come li chiamiamo ora… Il presidente Bush una volta mi ha mostrato dei documenti segreti alla presenza del suo direttore della CIA, che ha detto: “Signor Presidente, ha letto questi documenti top secret? Per favore, firmi qui, come da nostra procedura”. Ho risposto: “Va bene” e ho firmato i documenti.
Cosa ho scoperto mentre ricoprivo la carica di direttore del Servizio federale di sicurezza (FSB)? Sembrava che fossimo tutti uguali ora – le catene della vecchia ideologia erano cadute – ma cosa ho visto? Scusatemi, ma la CIA sta operando nel Caucaso meridionale, nel Caucaso settentrionale russo e nel Caucaso meridionale, mantenendo la propria rete di agenti, compresi i radicali, finanziandoli, fornendo loro supporto politico e informativo e persino fornendo armi e trasportandole con i propri elicotteri. Ad essere sincero, anche io – un ex ufficiale del servizio di intelligence estero sovietico – quando sono salito a una posizione così alta, sono rimasto sbalordito. Ho pensato: cosa diavolo sta succedendo? Ma è così che funziona la lotta geopolitica. A nessuno interessano più le differenze ideologiche. Sono finite e superate. L’obiettivo è quello di eliminare i resti dell’Unione Sovietica, la sua parte più grande, e fare ciò che Brzezinski disse una volta: dividerla in almeno quattro pezzi. E alcuni grandi Stati sanno bene che piani simili sono stati elaborati una volta anche per loro – forse lo sono ancora.
Cosa ci dice questo? Che l’ideologia, come scrisse una volta un autore di cui ho dimenticato il nome, sebbene fosse chiaramente un uomo intelligente, era in gran parte una facciata, mentre il vero conflitto era, e rimane, geopolitico, in altre parole, civilizzazionale.
Ci saranno ulteriori scontri? La competizione di interessi è sempre presente sulla scena internazionale. La vera domanda è, come ho già detto, se siamo in grado di condurre il nostro lavoro pratico in modo tale da cercare il consenso e raggiungere un equilibrio di interessi.
Abbiamo grande rispetto per le culture e le civiltà antiche: la civiltà indiana, buddista, indù, la civiltà cinese, la civiltà araba. La civiltà russa non è antica come quelle della Cina, dell’ India o del mondo arabo, ma ha già più di mille anni e un’esperienza propria e distinta
Ciò che rende unica la nostra cultura è che… Sì, anche in India, Cina e nel mondo arabo le società si sono evolute gradualmente e anche loro sono multietniche. Ma il nostro paese è stato multietnico e multiconfessionale fin dall’inizio. E non abbiamo mai avuto nulla di simile alle riserve, come alcuni dei miei colleghi e assistenti dicono – nessuna riserva.
Quando la Russia ha assorbito altri popoli, rappresentanti di diversi gruppi etnici e religiosi, lo ha sempre fatto con grande rispetto, trattandoli come parte di qualcosa di condiviso e comune. Gli Stati Uniti sono noti come un melting pot, dove persone di diverse religioni, etnie e paesi si mescolano tra loro.
Ma sono tutti immigrati: sono stati separati dalle loro radici native. Noi siamo diversi. Il nostro popolo, di diverse fedi ed etnie, ha sempre vissuto sulla terra dei propri antenati, fianco a fianco, per secoli. Questo ha dato forma a una cultura distintiva, una civiltà speciale tutta nostra. Abbiamo imparato a vivere, coesistere e svilupparci insieme e, inoltre, a riconoscere i vantaggi di tale sviluppo congiunto.
In questo senso, penso che offra un buon esempio, anche su come trovare un compromesso e un equilibrio tra tutti i partecipanti alle relazioni internazionali e tra le altre civiltà. Quindi sì, le contraddizioni sono possibili e anche inevitabili, ma se seguiamo lo stesso percorso che la Russia ha storicamente intrapreso nella formazione di uno Stato unificato, possiamo anche trovare modi per risolvere i problemi nel più ampio contesto internazionale.
Fëdor Luk’yanov: Abbiamo parlato per tre ore e mezza .
Vladimir Putin: Credo che il pubblico mi odierà per questo, ma suggerisco di spostarsi da questa parte della sala all’altra. Prego, procedete.
Konstantin Khudolei: Signor Presidente, mi chiamo Konstantin Khudolei, Università di San Pietroburgo.
Ecco la mia domanda. Qualche tempo fa, lei ha avanzato un’iniziativa che ritengo estremamente importante: prorogare di un anno il nuovo trattato START con gli Stati Uniti. Questa iniziativa viene messa a tacere in Occidente. Potrei essere troppo ottimista, ma speriamo che prevalga il buon senso, che il trattato venga prorogato di un anno e che la sua iniziativa venga accettata.
Ma la domanda è: cosa succederà dopo? Cercheremo di estendere gli accordi russo-statunitensi o la prossima serie di accordi, che sostituirà l’ultimo trattato in questo settore, stabilirà un sistema più complesso di controllo degli armamenti basato sul dovuto rispetto degli altri poli del mondo moderno?
Vladimir Putin: Konstantin, è molto difficile dire cosa accadrà in futuro perché la risposta non dipende solo da noi. So cosa accadrà entro un anno se l’amministrazione statunitense accetterà la nostra proposta, ma è difficile dire cosa accadrà oltre questo limite.
Non si tratta di un semplice dialogo; siamo consapevoli delle insidie. Innanzitutto, abbiamo creato molte armi moderne ad alta tecnologia, come Oreshnik. Non Oreshkin, ma Oreshnik. Recentemente abbiamo dimostrato che tali sistemi non sono armi strategiche. Tuttavia, alcuni esperti negli Stati Uniti sostengono che si tratti di armi strategiche. La questione deve essere chiarita. Non entrerò nei dettagli ora, ma è necessario un chiarimento, che richiederà tempo, ovviamente.
Abbiamo creato un altro sistema ipersonico – Kinzhal, e un sistema intercontinentale – Avangard. Potremmo creare altri sistemi. Non abbiamo abbandonato nessuno dei nostri piani. Stiamo lavorando su di essi e otterremo i risultati desiderati. Questo è il primo punto.
La seconda questione riguarda le armi nucleari tattiche. Il trattato riguarda le armi strategiche, ma le armi tattiche moderne sono molte volte più potenti delle bombe che gli americani hanno sganciato sul Giappone, su Hiroshima e Nagasaki. Credo che quelle fossero bombe da 20 kilotoni, ma le armi moderne – i sistemi tattici – sono molte volte più potenti. Anche in questo ambito ci sono delle insidie. L’unico luogo in cui le abbiamo dispiegate al di fuori della Russia è la Bielorussia, mentre gli americani dispongono di tali armi in tutto il mondo: in Europa, in Turchia e in vari altri luoghi. Ma è vero che noi ne abbiamo di più . È una questione che richiede attenzione.
Diversi altri aspetti devono ancora essere definiti. Sappiamo che ci sono voci negli Stati Uniti che dicono di “non aver bisogno di un’estensione”. Beh, se non ne hanno bisogno, allora nemmeno noi. Nel complesso, stiamo andando bene così come siamo; abbiamo fiducia nel nostro scudo nucleare e sappiamo cosa faremo domani e dopodomani. Quindi, se loro non ne hanno bisogno, nemmeno noi ne abbiamo.
C’è poi un terzo aspetto: la dimensione internazionale. Siamo stati sollecitati con una certa insistenza a persuadere la Cina ad aderire a questo sistema strategico di limitazione delle armi offensive. Ma perché è nostra responsabilità? Chiunque voglia coinvolgere la Cina dovrebbe andare a negoziare direttamente con la Cina. Perché improvvisamente l’onere ricade su di noi?
Questo porta a un’altra domanda: se la Cina deve essere inclusa, perché vengono tralasciati i potenziali nucleari del Regno Unito e della Francia? Dopotutto, sono membri della NATO. Ciò è particolarmente rilevante poiché la Francia ha espresso il desiderio di fornire il suo ombrello nucleare a tutta l’Europa. Non dovremmo tenerne conto? Il mio punto è che ci sono molte questioni complesse che richiedono una ricerca meticolosa.
Tuttavia, se l’obiettivo è quello di mantenere lo status quo per un anno, siamo pronti e disponibili. In caso contrario, va bene lo stesso. Oggi abbiamo la parità. Gli americani hanno più sottomarini lanciamissili balistici, ma il numero di testate nucleari su quei sottomarini è più o meno lo stesso. Loro hanno più sottomarini strategici; noi ne abbiamo leggermente meno, ma abbiamo più sottomarini multiuso, che svolgono anch’essi un ruolo importante nell’equilibrio complessivo . E abbiamo le Forze missilistiche strategiche (RVSN), la nostra componente terrestre. Gli esperti comprendono l’importanza delle RVSN russe.
Siamo in una posizione di forza, soprattutto perché il nostro livello di modernizzazione è superiore a quello di qualsiasi altra potenza nucleare. Abbiamo semplicemente lavorato sodo e a lungo per raggiungere questo risultato. E, ribadisco, il progresso tecnologico delle nostre forze strategiche è eccezionale. Tuttavia, siamo disposti a fare una pausa e, oserei dire, a collaborare con i nostri colleghi americani su questo tema, se lo ritengono opportuno. Se non lo fanno, allora il sentimento è reciproco. Ma questo è l’ultimo patto rimasto al mondo che limita le armi strategiche offensive.
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, non è forse questo un buon momento per riprendere i test nucleari? Per caso?
Vladimir Putin: Vediamo che i preparativi sono in corso altrove. Se i test saranno condotti da altri, risponderemo con misure analoghe.
Sì, prego, da questa parte.
Fyodor Lukyanov: La parola al signor Feng Wei, prego.
Vladimir Putin: È già in piedi.
Feng Wei: Signor Presidente, rappresento l’Istituto cinese per l’innovazione e lo sviluppo strategico, uno degli organizzatori della conferenza Understanding China. Si tratta di una delle principali piattaforme per gli scambi internazionali in Cina, con il sostegno del Presidente Xi, naturalmente.
Stiamo attualmente collaborando con il Club Valdai per promuovere la comprensione reciproca tra Cina e Russia, che riteniamo essere di estrema importanza. Le relazioni tra Cina e Russia sono ai massimi livelli di sempre, grazie agli sforzi personali di Vostra Eccellenza e del Presidente Xi. Riteniamo che sia altrettanto importante consolidare ulteriormente le fondamenta a livello interpersonale. Quindi, insieme al Club Valdai, organizzeremo alcuni eventi durante la nostra riunione annuale della conferenza “Comprendere la Cina” di quest’anno.
Signor Presidente, può darci qualche consiglio su cosa possiamo fare per migliorare il nostro lavoro? E, in secondo luogo, potrebbe dire qualche parola al pubblico della conferenza “Comprendere la Cina” sulla comprensione della Russia? Lei ha numerosi amici in Cina, che sarebbero felici di sentire la sua voce, ma la Cina è un Paese grande e ci sono molte persone che hanno bisogno di comprendere meglio la Russia. Quindi un messaggio personale da parte sua sarebbe di grande aiuto, non come grande leader di Stato, ma come fratello delle sue sorelle e dei suoi fratelli cinesi.
Grazie.
Vladimir Putin: Sapete, posso solo dire ai miei fratelli e sorelle cinesi che siamo sulla strada giusta. Dobbiamo mantenere la rotta e coltivare il nostro rapporto. Ognuno di noi, ovunque ci troviamo, che ricopriamo posizioni di autorità, lavoriamo in una fabbrica, nel teatro o nella cinematografia, in un istituto di istruzione superiore o secondaria, dobbiamo fare del nostro meglio per rafforzare questa interazione. È della massima importanza sia per il popolo cinese che per il popolo russo.
Desidero ringraziarvi per tutto quello che avete fatto finora e vi auguro un successo continuo. Da parte nostra, io e, ne sono certo, il Presidente Xi Jinping, faremo tutto il possibile per sostenervi.
Fyodor Lukyanov: Suggerisco di dare la parola al signor Al-Faraj, al quale è stato tolto il microfono, e forse dopo di che potremo concludere.
Vladimir Putin: Concludiamo.
Abdullah Al-Faraj, Centro per la Ricerca e l’Intercomunicazione della Conoscenza (Arabia Saudita): Sono lieto di vederla, signor Presidente.
Vladimir Putin: Anche per me.
Abdullah Al-Faraj: Lei ha menzionato il mondo multipolare, che è di grande interesse per noi, principalmente perché esportiamo petrolio e importiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per il consumo e il progresso. Siamo particolarmente interessati a garantire la libertà di navigazione marittima e la sicurezza delle nostre rotte di esportazione del petrolio.
La mia domanda, signor Presidente, è se il futuro mondo multipolare sarà in grado di garantire la sicurezza della navigazione marittima e l’approvvigionamento energetico globale, in modo che incidenti come l’esplosione del Nord Stream non si ripetano mai più. Grazie.
Vladimir Putin: Ho già parlato in precedenza della sicurezza della navigazione marittima, ma vorrei ribadire questo punto, perché ritengo che sia fondamentale. I nostri avversari – mi permetta di usare questo termine blando per descriverli – continuano a chiederci di rispettare il diritto internazionale. Noi, a nostra volta, chiediamo a loro di fare lo stesso.
Non esiste alcuna norma del diritto internazionale che consenta la rapina, la pirateria o il sequestro di navi di altri paesi senza alcun fondamento giuridico. Tali azioni possono avere gravi conseguenze. Tuttavia, se agiamo nello spirito che ho menzionato oggi e se il mondo multipolare difende veramente gli interessi di tutti e mette a punto meccanismi per l’allineamento delle posizioni, credo che non si arriverà a questo. Questo è il mio primo punto.
In secondo luogo, la mia grande speranza è che le organizzazioni pubbliche e i cittadini dei paesi i cui leader stanno cercando di fomentare tensioni, ad esempio creando problemi per l’economia globale, la logistica internazionale e il settore energetico mondiale – i partiti politici, le organizzazioni pubbliche e i cittadini di quei paesi facciano tutto il possibile per impedire ai loro leader di provocare un collasso o complicazioni internazionali.
Indipendentemente da ciò che accadrà, sono assolutamente convinto che il settore energetico internazionale continuerà a lavorare con costanza. L’economia globale è in crescita e la domanda di fonti energetiche primarie, in particolare uranio per le centrali nucleari, petrolio, gas e carbone, è destinata ad aumentare. Ciò significa che i mercati internazionali consumeranno inevitabilmente queste fonti energetiche .
Oggi abbiamo parlato solo dell’uranio per le centrali nucleari, ma questo riguarda anche il petrolio, le spedizioni di petrolio, i trasporti e la produzione. Attualmente, gli Stati Uniti sono il principale produttore mondiale di petrolio, seguiti dall’Arabia Saudita e dalla Russia. È inimmaginabile che il ritiro delle forniture di petrolio russo non avrebbe alcun effetto sulla situazione energetica mondiale o sull’economia globale. Questo non accadrà.
Perché? Perché anche se si ipotizzasse uno scenario improbabile in cui i produttori russi e i i commercianti russi – che forniscono una quota significativa di petrolio al mercato internazionale – venissero esclusi, i prezzi salirebbero immediatamente alle stelle a 100 dollari al barile e oltre. È questo nell’interesse delle economie già in difficoltà, comprese quelle europee? Nessuno sembra prenderlo in considerazione ; oppure, se sono consapevoli delle conseguenze, continuano comunque a cercare i guai.
Tuttavia, qualunque cosa accada, il fabbisogno energetico del mercato internazionale sarà soddisfatto. Ciò sarà possibile, in parte, grazie agli sforzi delle persone che lavorano in questo settore, cruciale per l’intero sistema economico globale: persone come voi. Grazie mille .
Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, all’inizio del suo discorso ha detto qualcosa di molto importante.
Vladimir Putin: Beh, almeno ho detto qualcosa di importante e oggi non abbiamo perso tempo.
Fyodor Lukyanov: Vorrei essere più specifico. Ho preso nota di un punto chiave. Quando ha parlato dell’ordine mondiale, ha affermato che vietare le cose non funziona. Questa frase – vietare le cose non funziona – è il motto del Valdai Club da ormai 23 anni. Qui abbiamo sempre cercato di non vietare nulla, ma di incoraggiare discussioni, dibattiti e dialogo. Faremo tutto il possibile per mantenere questa linea. Speriamo anche che questo principio si diffonda nel mondo intero e, come lei ha detto, nel nostro Paese, poiché a volte tendiamo a vietare più del necessario. Cerchiamo di mantenere vivo lo spirito del Valdai.
C’è un’altra cosa che io e tutti gli altri abbiamo sentito. Oggi abbiamo tutti appreso chi considera un “interlocutore gradito “. Ha fissato uno standard molto elevato, ma al Club Valdai faremo del nostro meglio per soddisfarlo, in modo che ci visiti più spesso e si senta a suo agio qui.
Vladimir Putin: Innanzitutto, vorrei chiarire che ci sono molte persone con cui mi piace parlare. Non voglio che sembri una sorta di monopolio. Non lo è. Lo dico sinceramente.
Sai, il nostro lavoro pratico si svolge in un modo particolare. Ho visitato quasi tutti i paesi finora, eppure ne ho visto molto poco. Il programma è questo: aeroporto, aereo, sala conferenze, aeroporto, aereo, il Cremlino. Poi, il Cremlino, un altro volo, un altro viaggio e ritorno a casa. Onestamente, non vedo quasi nulla, ma c’è sempre qualcuno con cui parlare e scambiare opinioni.
Il problema è che gran parte di essa è regolata dal protocollo. Quel protocollo rigido spesso prosciuga l’essenza dell’interazione. Raramente si presentano momenti in cui ci si può semplicemente sedere con un collega e avere una conversazione genuina e umana. È un evento raro .
Questo succede, però, con il primo ministro Modi o il presidente Xi Jinping. Quando il presidente Xi è venuto a San Pietroburgo, abbiamo fatto un giro in barca insieme dal punto A al punto B. Mentre superavamo l’incrociatore Avrora, ha detto: “Oh, quello è l’Avrora?” Ho risposto: “Sì. Vuole fermarsi a vederla ?” Lui ha risposto: “Sì”. Onestamente, ci siamo fermati. Per il leader della Cina, il capo del Partito Comunista, era importante vedere l’incrociatore Avrora. Dopo di che, siamo andati all’Hermitage per goderci uno spettacolo dei nostri artisti e abbiamo continuato a parlare per tutto il tempo. È stata una comunicazione umana genuina. Ma questo non accade spesso. Di solito, si tratta di arrivare in un luogo, parlare, fare i bagagli e tornare a casa.
Eppure, ci sono molte persone profonde e interessanti. Per vari motivi, spesso sfortunati, queste persone non sempre riescono ad arrivare al vertice. Coloro che ci riescono di solito hanno attraversato vere lotte e difficoltà.
Presto mi recherò in Tagikistan per una riunione della CSI e per incontrare il presidente Rahmon. Ci sono molte persone profonde e interessanti in tutto lo spazio post-sovietico.
Per fare un esempio, dopo che gli islamisti radicali hanno preso il potere, il presidente Rahmon è entrato nella capitale, Dushanbe, portando con sé un fucile. Immaginate un po’. E oggi, è riuscito a migliorare la situazione nel suo paese, che è, molto probabilmente, complessa.
Il mio punto è che conversare con persone del genere è sempre un’esperienza interessante e preziosa. E spero vivamente che la comunità di persone capaci di un dialogo significativo continui ad espandersi e che queste persone trovino il modo di raggiungere un’intesa sulle questioni globali fondamentali. L’élite intellettuale che vediamo riunita qui oggi ci aiuterà a raggiungere questo obiettivo.
Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa — Primo Vice Ministro della Difesa della Federazione Russa (2004—2008). Generale dell’esercito.
Direttore del Centro di analisi delle strategie e delle tecnologie (CAST).
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Baluyevsky Yu.N., Pukhov R.N. La guerra digitale: una nuova realtà // La Russia nella politica globale. 2025. Vol. 23. N. 6. Pp. 60–68.
È difficile trovare un esperto che neghi i cambiamenti rivoluzionari nel campo militare: la “rivoluzione dei droni” o la “rivoluzione della guerra dei droni”. Forse, valutando in modo più ampio, la “guerra digitale”. Ci sono tutte le ragioni per credere che questo processo continuerà ad ampliarsi e ad approfondirsi, poiché le possibilità di potenziare la “guerra dei droni” superano la capacità di contrastare efficacemente questo tipo di armi.
La miniaturizzazione e la riduzione dei costi dei componenti, lo sviluppo di soluzioni di rete (proprio di rete, l’intelligenza artificiale (AI), che a quanto pare rimarrà ancora a lungo un fattore secondario) portano alla partecipazione alle operazioni militari di vere e proprie orde di droni dei tipi, delle forme, delle dimensioni e delle destinazioni più disparate. La maggior parte di essi è costituita da droni sempre più piccoli e economici, ma sempre più potenti e autonomi, che combinano capacità di ricognizione e di attacco. Il campo di battaglia tattico e le retrovie a decine di chilometri dalla linea di contatto diventeranno, in sostanza, una “zona di sterminio totale”. Naturalmente, il compito prioritario sarà quello di contrastarli. In questo modo, la lotta armata si trasformerà innanzitutto in una battaglia per la “supremazia dei droni” nell’aria. Di conseguenza, l’organizzazione delle truppe dovrà essere adeguata agli obiettivi e ai compiti della lotta per tale supremazia nell’aria e nello spazio.
Pericolosa trasparenza
Ricordiamo che una delle conseguenze più importanti della rivoluzione descritta è stata la trasparenza del campo di battaglia, ovvero la completa dissipazione della “nebbia di guerra”. In futuro, questa caratteristica sarà ulteriormente accentuata dallo sviluppo di soluzioni informatiche sia senza pilota che spaziali (i veicoli spaziali da combattimento, in sostanza, sono anch’essi dei droni) e di rete.
Il miglioramento dei mezzi di sorveglianza, sensori, capacità di calcolo, reti informatiche, metodi di trasmissione ed elaborazione dei dati e IA crea in prospettiva un ambiente informativo globale unificato terrestre-aereo-spaziale (“spazio informativo di combattimento”) che garantisce una trasparenza tattica, operativa e strategica unificata e sempre più ampia.
Già oggi si può parlare di una cancellazione dei confini delle operazioni militari a livello tattico, operativo e strategico.
Un’importante conseguenza della “trasparenza” del campo di battaglia è stato il nuovo volto della guerra, dimostrato nel corso dell’operazione militare speciale in Ucraina. Alla base di ciò vi è innanzitutto un’elevata dispersione e una densità molto bassa delle forze e dei loro schieramenti. Le possibilità di ricognizione, individuazione, designazione degli obiettivi e colpi di alta precisione, aumentate in modo radicale, determinano una vulnerabilità significativamente più elevata sia dei gruppi di truppe, dal livello delle unità tattiche a quello delle unità operative e operativotattiche, sia dei singoli oggetti di equipaggiamento militare. Il risultato è l’impossibilità di trasferire e concentrare in modo discreto forze e mezzi nelle direzioni di concentrazione degli sforzi principali, il che cambia radicalmente la stessa filosofia di impiego delle truppe.
Il fattore principale nello spazio informativo bellico durante la guerra speciale è stata l’introduzione e l’uso massiccio di Internet basato sul sistema Starlink. Per la prima volta nella storia sono stati realizzati una rete informativa accessibile a tutti, veloce e sufficientemente protetta e un sistema di scambio di dati. Questa tecnologia consente di collegare tutti i livelli di comando fino a quelli più bassi e garantisce la comunicazione e la guida sul campo di battaglia indipendentemente dalla distanza. Quest’ultimo aspetto ha rivoluzionato la navigazione con mezzi senza pilota, consentendo per la prima volta l’uso massiccio anche di piccoli mezzi senza pilota a una distanza teoricamente illimitata. Lo stesso risultato, sebbene con minore efficacia, si ottiene utilizzando reti commerciali di telefonia mobile per il controllo degli UAV.
Il prossimo passo nella rivoluzione informatica in questo settore sarà l’integrazione di soluzioni satellitari e cellulari di rete, che consentirà lo scambio globale di informazioni via satellite tramite un normale telefono cellulare e relativi dispositivi di comunicazione ultracompatti.
Ciò porterà a un’espansione esplosiva delle capacità dell’esercito, compreso il “collegamento” diretto di ogni militare sul campo di battaglia, la miniaturizzazione estrema dei sistemi di comunicazione che garantiscono un controllo illimitato delle truppe, compresi i mezzi senza pilota e le armi ad alta precisione. Ciò aumenterà notevolmente le capacità di condurre una guerra “a distanza”.
La rivoluzione informatica sta cambiando le forme e l’aspetto delle operazioni militari. La “trasparenza” del campo di battaglia e l’individuazione degli obiettivi in tempo reale stanno portando all’eliminazione della necessità di sparare in linea di vista a favore di sparare da posizioni coperte. Per secoli, sparare in linea di vista è stato alla base della sconfitta e, in sostanza, le tattiche erano costruite proprio intorno alla garanzia della sua efficacia. Ora non è più necessario vedere il nemico direttamente davanti a sé, gli obiettivi possono essere individuati a qualsiasi distanza e colpiti con mezzi ad alta precisione (in primo luogo i droni), lanciati al di fuori della linea di tiro del nemico. La sopravvivenza e la resistenza in combattimento di qualsiasi mezzo sparso a distanza per condurre il fuoco da posizioni coperte e i loro calcoli sono molto superiori a qualsiasi arma per condurre il fuoco in linea di vista. Ciò porta a un cambiamento fondamentale nella pianificazione dell’intero sistema di fuoco contro il nemico.
La crisi dei mezzi tradizionali
Questa circostanza, e non l’insufficiente protezione dai droni, è stata la causa principale della crisi delle forze corazzate. Il carro armato è il principale mezzo di fuoco a vista diretta e, in sostanza, è stato progettato come piattaforma protetta per condurre tale fuoco. Ora è un bersaglio facilmente individuabile e colpibile, con un sistema d’arma poco efficace per colpire a distanza visiva. Di conseguenza, il carro armato ha perso il suo significato di principale mezzo di sfondamento e manovra dell’esercito.
I tentativi di aumentare la sopravvivenza e il potenziale bellico dei carri armati dotandoli di sistemi di protezione attiva, UAV e armi a lungo raggio non sembrano ancora adeguati dal punto di vista del rapporto “costo-efficacia”. Non è chiaro quale vantaggio possa apportare sul campo di battaglia un veicolo vulnerabile e con capacità di armamento limitate, il cui costo si avvicina a quello di un aereo da caccia. Per quanto riguarda il carro armato come vettore di UAV o di mezzi di distruzione ad alta precisione oltre l’orizzonte, perché utilizzare un carro armato come piattaforma, chiaramente eccessivo in termini di protezione e peso? Non ci sono risposte a questa e ad altre domande.
Si può anche notare una crisi dell’artiglieria. Il conflitto militare in Ucraina sembra aver riportato l’artiglieria con munizioni non guidate sul piedistallo del “dio della guerra”. Tuttavia, dietro a ciò si intravede la controversia sull’uso di costosi cannoni con un elevato consumo di munizioni molto costose per risolvere compiti di fuoco che possono essere risolti su un campo di battaglia “trasparente” con droni e altri mezzi di alta precisione. Il requisito fondamentale per l’artiglieria moderna è l’aumento della gittata di tiro, ma per colpire efficacemente a distanze significative sono necessari colpi guidati ad alta precisione (compresi quelli missilistici). La domanda logica è: è razionale utilizzare ingombranti sistemi di artiglieria come piattaforme per il lancio di tali munizioni?
Affermazioni nello spirito della famosa frase di Voroshilov, secondo cui «il cavallo darà ancora prova di sé» (oggi riferita ai carri armati o all’artiglieria), ignorano il fatto che anche le tecnologie senza pilota sono solo all’inizio del loro sviluppo. In questo senso, sembra più logico affermare che «anche i droni daranno prova di sé», soprattutto alla luce dell’ulteriore sviluppo delle tecnologie di rete e spaziali.
Pertanto, i droni stanno realmente rivoluzionando la scienza militare. Da un lato, influenzano un fattore chiave come la concentrazione di forze e mezzi, dall’altro rendono sostanzialmente superflue le manovre tattiche di forze e mezzi per garantire la vittoria. Questi cambiamenti fondamentali nella tattica e nell’arte operativa dovrebbero portare a una revisione non solo delle forme di combattimento, ma anche della struttura organizzativa delle forze armate.
Il conflitto postindustriale
La campagna in Ucraina ha posto fine a quasi un secolo di predominio delle concezioni di guerra meccanizzata tipiche delle società industriali. In questo senso, la guerra in Ucraina è stata il primo conflitto armato su vasta scala del XXI secolo, segnando una rivoluzione nell’arte militare: il passaggio alla “guerra digitale”. Tutte le tendenze già evidenti o appena delineate probabilmente si svilupperanno nel prossimo decennio, continuando a cambiare il volto dell’arte militare.
I tentativi di conciliare la realtà della transizione alla guerra “digitale” e “con i droni” con le condizioni della guerra meccanizzata, ad esempio mantenendo il ruolo precedente dei carri armati e delle unità corazzate, porteranno solo a una riduzione dell’efficacia delle forze armate, alla loro inadeguatezza alle nuove condizioni di combattimento, a costi e perdite inutili.
Alcuni aspetti di questo fenomeno, attualmente osservabili in Ucraina, sono causati piuttosto dal relativo ritardo tecnologico delle forze armate delle parti in conflitto, dalla carenza di droni e mezzi di informazione (da parte russa), che costringono a improvvisare con ciò che si ha a disposizione.
Oggi gli acquisti di droni FPV hanno raggiunto centinaia di migliaia di unità al mese per ciascuna delle parti, il che è paragonabile (se non superiore) ai volumi di produzione di proiettili di artiglieria. I droni FPV, attaccando letteralmente a sciami qualsiasi militare avvistato, sono diventati l’arma principale per colpire non solo i mezzi militari, ma anche il personale. Secondo le statistiche russe, all’inizio del 2025 i droni erano responsabili di oltre il 70% delle vittime tra i combattenti. La loro portata di utilizzo è in costante aumento e supera già le decine di chilometri, il che rende possibile il loro impiego nella lotta contro le batterie nemiche, nella distruzione delle comunicazioni, dei secondi echi nemici e nell’isolamento delle zone di combattimento. In futuro è prevedibile il passaggio a soluzioni di gruppo e di sciame, compresa la possibilità di controllare gruppi significativi di UAV da parte di un unico operatore, la creazione di UAV con un blocco hardware-software che consenta di utilizzare mezzi di distruzione senza l’intervento dell’operatore.
Si possono individuare tre fattori fondamentali della guerra dei droni e del loro impatto sull’organizzazione e sull’impiego militare delle truppe.
Primo. La necessità di una estrema dispersione delle forze e dei mezzi con una densità molto bassa delle formazioni di combattimento cambierà radicalmente l’organizzazione delle truppe e la loro interazione.
Secondo. Un forte aumento della profondità di distruzione delle parti in conflitto e dei loro mezzi fino alla profondità operativa. Le “zone di distruzione totale” raggiungeranno presto diverse decine di chilometri. Ciò rende impossibile manovrare e concentrare le truppe anche nella propria profondità operativa.
Terzo. La guerra ha messo in luce il difficile problema dell’approvvigionamento delle truppe, per il quale attualmente vengono utilizzati mezzi di trasporto facilmente vulnerabili, che possono essere colpiti con relativa facilità dal nemico (il problema era noto da tempo, ma era stato ignorato anche dagli strateghi sovietici). In condizioni di “guerra dei droni” e di enormi “zone di distruzione totale” delle forze e dei mezzi su tutta la profondità operativa, il problema dell’approvvigionamento in termini operativi, tattici e “microtattici” (“ultimo miglio del fronte”) diventa colossale e richiederà soluzioni non banali e rivoluzionarie.
Alcune questioni relative all’organizzazione delle truppe
Come dovrebbe essere la struttura organizzativa e organica delle forze armate per la “guerra dei droni”? Si tratta di una combinazione di unità d’assalto e sistemi senza pilota e mezzi di fuoco (fino al livello di plotone e squadra) non solo con droni, ma anche, ad esempio, con missili a guida ottica a fibra, nonché vari mezzi di lotta contro i sistemi senza pilota e di loro soppressione (dal livello di ogni combattente e ogni veicolo fino alle unità speciali). Tutte queste forze devono disporre di mezzi di rete il più possibile integrati, garantendo la guida del fuoco dei “livelli superiori” e dell’aviazione.
Il compito delle forze armate sarà quello di raggiungere la “supremazia dei droni” e poi garantirla.
L’avanzata della fanteria sul campo di battaglia deve essere effettuata utilizzando una combinazione di mezzi a seconda della situazione, tra cui marcia a piedi, motociclette, veicoli leggeri da trasporto, veicoli blindati e veicoli da combattimento altamente protetti con elevata efficacia di fuoco.
Questi BMP dovrebbero costituire la base dell’armamento corazzato e dell’equipaggiamento tecnico delle forze terrestri. La combinazione di un’elevata protezione con un peso moderato richiederà un livello inferiore di supporto tecnico, ingegneristico e di altro tipo. Sebbene sia possibile prendere in considerazione anche veicoli da combattimento pesanti con un peso simile a quello dei carri armati principali, il loro peso eccessivo e il loro costo, a nostro avviso, inducono a preferire veicoli “di compromesso” di peso “medio” – 30-40 tonnellate, come l’M2 Bradley, che si è dimostrato il “veicolo ideale” nella guerra ucraina. Dotare tali veicoli di mezzi per combattere i droni, in primo luogo quelli attivi, in combinazione con una protezione circolare e misure per migliorare la sopravvivenza (separazione del carico bellico, rimozione del carburante, ecc.) consentirà loro di garantire una maggiore sopravvivenza sul campo di battaglia anche in una “guerra dei droni”, ma di mantenere lo status di “materiale di consumo” adatto alla produzione di massa. La questione della creazione di unità di tali BMP (assegnando loro reparti di fanteria regolari o, al contrario, organizzando i BMP solo come “gruppi taxi”) richiede una considerazione a parte.
Al posto dei carri armati, le unità di fanteria dovrebbero utilizzare su larga scala veicoli pesanti da ingegneria militare e sminamento, ovvero piattaforme da combattimento con la massima protezione, sia strutturale che attiva contro i droni. Non hanno bisogno di armamenti pesanti, poiché questi ne ridurrebbero solo la sopravvivenza.
Le truppe devono disporre di un adeguato supporto logistico (logistico, tecnico, ecc.). Nelle condizioni della guerra moderna, il supporto logistico è di per sé una forma di combattimento con una costante opposizione agli attacchi nemici e deve disporre di un’organizzazione e di una tecnologia adeguate (anche senza equipaggio).
Pertanto, l’esercito del futuro non dovrebbe essere rigidamente suddiviso in corpi d’armata, ma, al contrario, dovrebbe essere una forza multifunzionale il più possibile unificata e integrata, in grado di operare in qualsiasi condizione di guerra moderna.
Riteniamo che tutti abbiano prestato attenzione al recente post pubblicato dal sito ucraino DeepState, che descrive la «nuova dottrina di fanteria» delle forze armate russe e dimostra chiaramente l’adattamento delle tattiche militari alle esigenze della «guerra dei droni». Si distinguono quattro aspetti chiave dei cambiamenti tattici da parte russa.
Primo. Aumento dell’uso di complessi robotici terrestri, munizioni alate vaganti e pesanti FPV, che porta alla “robotizzazione di alcuni processi di combattimento”. Attualmente si sta cercando di trasferire completamente il compito delle azioni d’assalto e dell’impatto di fuoco ai droni per impedire il rilevamento dei gruppi d’assalto.
Secondo. Passaggio all’azione di un gran numero di gruppi “dispersi” e di dimensioni minime, composti da sole 2-4 persone.
Terzo. Riduzione al minimo dei combattimenti a distanza e degli attacchi frontali alle posizioni nemiche e, in generale, dell’avvicinamento della fanteria al nemico, trasferendo il ruolo principale del supporto di fuoco dagli aerei d’assalto ai droni.
Quarto. Ampio ricorso alla tattica della lenta e “strisciante” infiltrazione o aggiramento delle posizioni principali del nemico con piccoli gruppi, anche utilizzando mezzi di camuffamento (mantelli, ecc.), penetrando il più profondamente possibile nelle retrovie, ricerca e neutralizzazione degli operatori di droni, dei mortai, ecc.
È evidente che la struttura, l’organizzazione e la tecnica delle truppe devono subire un adeguato adeguamento. Il tempo dei “grandi battaglioni” è finito.
Prospettiva fondamentale
Vale la pena notare che lo sviluppo dei modelli più diffusi di tecnologia senza pilota, già utilizzati in combattimento, si basa su soluzioni commerciali di massa, soprattutto provenienti dagli enormi mercati interni cinese e americano. Da un lato, ciò garantisce la loro elevata accessibilità. D’altra parte, le possibilità di una reale industrializzazione dei tipi più diffusi di UAV (mavic, droni FPV, piccoli UAV) nell’ambito di scenari autarchici e puramente sostitutivi delle importazioni sembrano ancora dubbie, soprattutto alla luce del rapido cambiamento delle soluzioni e dei modelli. I mezzi senza pilota e senza equipaggio più complessi per uso aereo, terrestre e marittimo richiedono lo sviluppo ai massimi livelli di mezzi di sorveglianza, capacità satellitari, sensori, potenza di calcolo, reti informatiche, metodi di trasmissione ed elaborazione dei dati e IA. Un Paese che non è in grado di soddisfare tutti questi requisiti è destinato a rimanere indietro in campo militare.
Il passaggio alla “guerra digitale” dimostra che nel secolo attuale il fattore chiave per lo sviluppo delle questioni militari e delle capacità belliche (e, più in generale, dello sviluppo della civiltà umana) è il miglioramento delle capacità di calcolo.
Essi garantiscono il potenziale in tutti gli altri settori sopra indicati. Le risorse dei paesi e delle alleanze dipenderanno proprio dallo sviluppo e dalla produzione di capacità di calcolo, e non dal controllo territoriale o delle risorse. Va inoltre sottolineato che lo sviluppo delle capacità di calcolo e delle reti basate su di esse (comprese quelle spaziali) per il controllo, il rilevamento, l’individuazione degli obiettivi e la trasmissione dei dati consentirà di creare sistemi automatizzati globali di ricognizione, attacco e difesa con una densità e un’efficacia di distruzione enormi. In particolare, potrebbero aumentare in modo significativo le capacità di contrastare i tradizionali mezzi di attacco missilistico nucleare, ovvero i sistemi di difesa antimissile raggiungeranno un nuovo livello. E questo comporta il rischio di svalutare le armi nucleari e il deterrente nucleare in linea di principio.
Nel medio termine, la Russia sarà in ritardo rispetto ai leader mondiali nello sviluppo delle capacità di calcolo (mancanza di competenze, capacità industriali e capacità del mercato interno). È necessario prestare immediatamente attenzione a questo aspetto, altrimenti il ritardo aumenterà, minacciando gli interessi strategici del Paese.
La Russia dispone delle risorse necessarie per correggere questa situazione e conserva anche un patrimonio scientifico e tecnologico. Tuttavia, il ritmo dei cambiamenti globali è tale che potrebbe semplicemente non essere possibile realizzare le opportunità disponibili.
La consapevolezza di ciò richiede di mettere da parte le divergenze politiche e concentrarsi sulla risoluzione urgente dei problemi amministrativi e tecnologici.
Autori:
Yuri Baluyevsky, generale dell’esercito, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa (2004-2008);
Ruslan Pukhov, direttore del Centro di analisi delle strategie e delle tecnologie.
Ricercatore senior, direttore del dipartimento di analisi militare del centro di analisi Defense Priorities.
Per citare:
Kavana D. Limiti e possibilità della forza militare // La Russia nella politica globale. 2025. Vol. 23. N. 6. Pp. 54–59.
Club di discussione internazionale “Valdai”
La forza militare ha sempre avuto un ruolo centrale nell’approccio degli Stati Uniti alle questioni internazionali. Anche prima della seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti erano considerati una potenza isolazionista, essi ricorrevano volentieri e spesso alla forza militare per proteggere i propri interessi economici e influenzare gli eventi politici nei paesi dell’emisfero occidentale. Tuttavia, è stato proprio dopo la seconda guerra mondiale che il ruolo globale delle forze armate è aumentato notevolmente, poiché sono diventate la base dell’enorme impero americano che ha conquistato l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente.
I compiti affidati alle centinaia di migliaia di militari che gli Stati Uniti hanno dispiegato in tutto il mondo negli ultimi otto decenni sono numerosi e vari: proteggere gli alleati, prevenire le minacce prima che raggiungano le coste statunitensi, garantire l’accesso ai mercati, diffondere la democrazia e i valori liberali. All’interno del Paese vengono spesso propagandati anche altri vantaggi della politica estera militarizzata degli Stati Uniti. I funzionari americani dichiarano agli elettori che le spese per la difesa creano posti di lavoro e stimolano l’innovazione tecnologica, mentre la presenza di forze armate potenti è considerata una fonte di patriottismo e orgoglio nazionale.
Nel corso di decine di operazioni militari, l’America ha ottenuto numerosi successi tattici, ma questi non sempre hanno portato a vittorie strategiche.
Il prezzo delle avventure militari era estremamente alto, sia all’interno del Paese che al di fuori dei suoi confini.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno speso trilioni di dollari in interventi militari che hanno causato la perdita di oltre centomila vite americane, una diminuzione dell’influenza geopolitica e la comparsa di nuovi nemici statali e non statali. I paesi in cui gli Stati Uniti hanno cercato di dimostrare la loro potenza militare raramente migliorano dopo il ritiro delle truppe americane (ammesso che se ne vadano), mentre alcuni si ritrovano in una situazione notevolmente peggiore. I politici americani hanno dovuto affrontare il fallimento di ambiziosi progetti di costruzione di altri Stati e di un ordine mondiale.
Poiché molti paesi investono ingenti risorse nel potenziamento delle proprie forze armate e utilizzano la potenza militare per promuovere la propria influenza e i propri interessi, possono trarre insegnamento da ciò che hanno fatto gli Stati Uniti e da ciò che non dovrebbero fare. Ci sono molte ragioni per cui gli americani hanno avuto difficoltà a raggiungere i propri obiettivi, nonostante il vantaggio spesso significativo in termini di capacità, risorse e numero di effettivi. Tuttavia, i fallimenti più grandi si sono verificati quando la forza militare è stata utilizzata per scopi per cui non era destinata.
L’esperienza americana dimostra che, nonostante tutti i suoi vantaggi, la forza militare ha un campo di applicazione molto limitato. È utile per conquistare e difendere il territorio, proteggere le vie navigabili e lo spazio aereo, garantire la sicurezza fisica in punti strategici chiave e creare costi per il nemico. Le minacce militari possono talvolta essere utilizzate come leva per esercitare pressioni su altri Stati o costringerli a concessioni economiche o politiche.
Ma la forza militare ha dei limiti. Non garantisce il raggiungimento degli obiettivi politici e solo occasionalmente contribuisce a promuovere quelli economici.
I risultati delle campagne statunitensi in Iraq e Afghanistan ci ricordano che, sebbene i militari siano in grado di rovesciare i governi, non sono in grado di ricostruirli. L’esercito può distruggere i ribelli, ma raramente è efficace nel combattere le idee che li animano. I militari possono essere ben addestrati ed efficaci nel loro lavoro, ma ciò non significa che siano altrettanto bravi nell’addestrare o rafforzare le forze armate di altri paesi. I militari possono conquistare territori o risorse economicamente preziosi, ma non possono garantire una bilancia commerciale favorevole, creare potenziale industriale o generare crescita economica. Negli Stati Uniti, le elevate spese militari non hanno portato benefici al lavoratore medio, ma hanno invece contribuito ad aumentare le disuguaglianze e distolto risorse dalle priorità interne.
Queste limitazioni dovrebbero indurre anche le grandi potenze a diffidare di un eccessivo affidamento alla forza militare, ma non sminuiscono l’importanza di disporre di un potenziale autosufficiente, soprattutto nel mondo moderno. Per tutti i paesi è indispensabile disporre di forze armate sufficientemente potenti per difendere il proprio territorio e di essere in grado di fornire a tali forze le attrezzature necessarie sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Gli Stati che non hanno investito nelle forze armate nella misura necessaria si trovano ad affrontare sia una vulnerabilità fisica che la probabilità di diventare geopoliticamente irrilevanti. È proprio in questa situazione che si trova oggi l’Europa, incapace di influenzare le decisioni relative alla propria sicurezza. Al contrario, gli Stati che hanno creato forze armate potenti e basi industriali di difesa sono riusciti a utilizzare queste risorse per proteggersi e, in alcuni casi, per migliorare la propria posizione strategica, ma solo fino a un certo punto. È necessario un certo insieme di capacità di base, ma al di là di esso gli investimenti militari aggiuntivi non sempre giustificano le opportunità perse e talvolta creano più rischi (coinvolgimento ed escalation) che vantaggi in termini di leva economica e politica.
La crescente importanza della potenza militare, tuttavia, non significa che il suo utilizzo efficace diventerà più semplice.
Di fatto, i cambiamenti tecnologici rendono più difficile l’uso della forza anche per i paesi più preparati a sfruttare i progressi tecnologici per creare sistemi d’arma all’avanguardia.
Citerò due esempi.
In primo luogo, la diffusione di armi a basso costo ha democratizzato l’accesso alla potenza militare. È diventato molto più facile per piccoli gruppi ribelli e Stati deboli procurarsi una quantità sufficiente di droni, munizioni vaganti e missili a basso costo da impedire anche a forze armate potenti, come quelle americane, di raggiungere i propri obiettivi.
I piccoli Stati e le formazioni non statali potrebbero non essere mai in grado di sconfiggere un nemico molto più grande. Tuttavia, sono in grado di impedirgli di raggiungere i propri obiettivi, contendendogli lo spazio aereo e i punti di controllo marittimi, utilizzando droni per rendere impossibile un’offensiva terrestre. Lo abbiamo visto chiaramente nel Mar Rosso, dove gli Houthi hanno interrotto la navigazione, nonostante i continui sforzi degli Stati Uniti per reprimere la loro campagna. Mentre gli Houthi attaccavano le navi mercantili con droni del valore di diecimila dollari, l’esercito americano ha speso miliardi in munizioni, prima di ricorrere alla diplomazia per concludere un armistizio.
Questa tendenza livella le possibilità e rende difficile anche agli Stati con una potenza militare schiacciante raggiungere obiettivi tattici sul campo di battaglia, per non parlare di quelli politici.
In secondo luogo, per ottenere un vantaggio in questa complessa situazione militare, gli Stati ricorrono a nuove tecnologie, come l’intelligenza artificiale, l’ipersonica e la meccanica quantistica. Uno dei settori interessati dalla ricerca di capacità sempre più avanzate è quello dei missili a lungo raggio, sia convenzionali che nucleari. I missili di ultima generazione sono in grado di volare più lontano, più velocemente e di trasportare una maggiore potenza di fuoco. Grazie ai nuovi sistemi di rilevamento e controllo, riescono a eludere con maggiore efficacia la difesa antiaerea e a individuare i bersagli, infliggendo danni significativi da lontano. Negli ultimi anni, l’esercito americano fa sempre più affidamento sulle cosiddette capacità “oltre l’orizzonte” nelle operazioni antiterrorismo in Medio Oriente e ora anche nella lotta contro i trafficanti di droga in America Latina, al fine di ridurre la dipendenza da operazioni terrestri e marittime su larga scala. Inoltre, si prevede che nei conflitti futuri assumeranno un ruolo sempre più importante i missili a lungo raggio, in grado di colpire obiettivi terrestri, aerei e marittimi.
Le tecnologie missilistiche avanzate sono in grado di produrre effetti impressionanti, ma il loro utilizzo è soggetto a severe restrizioni. Il controllo del territorio, dello spazio aereo e delle vie navigabili richiede sempre una presenza fisica. I missili a lungo raggio comportano costi elevati e danno agli Stati un senso di maggiore forza e sicurezza, ma non sono in grado di rafforzare l’influenza politica, influenzare gli indicatori economici o garantire una sicurezza reale e a lungo termine.
Inoltre, comportano enormi rischi di escalation e errori di valutazione, aumentando la probabilità di conseguenze catastrofiche.
Le conseguenze politiche ed economiche richiederanno sempre qualcosa di più della potenza militare, indipendentemente dalla perfezione dei missili o dalla varietà delle armi. Un mondo in cui la potenza militare diventa sempre più importante, diffusa e allo stesso tempo sempre più difficile da usare è un mondo pieno di rischi. Con l’aumento del potenziale militare degli Stati, può sorgere la tentazione di ricorrere ampiamente alla forza e alla minaccia della forza per raggiungere diversi obiettivi. Tuttavia, l’esperienza degli Stati Uniti permette di prevedere le conseguenze spesso negative di una tale strategia.
Le guerre potrebbero diventare più frequenti e molto probabilmente saranno combattute all’ultimo sangue, con grandi perdite e risultati lenti. Anche il rischio di escalation rimarrà elevato, poiché gli Stati dovranno cercare qualsiasi fonte di vantaggio, che si tratti di nuove armi o dell’estensione del conflitto nello spazio o sott’acqua. E, come spesso è accaduto con gli Stati Uniti, con l’aumento dei costi militari, le possibilità di successo tendono a diminuire, senza lasciare nulla da offrire in cambio dei danni o delle distruzioni causati.
La potenza militare è importante per gli Stati che aspirano a svolgere un ruolo nel mondo della politica di forza. Ma si tratta di uno strumento specializzato, che è meglio utilizzare con parsimonia e cautela. Nel processo di militarizzazione degli Stati, la diplomazia diventa sempre più importante, anziché meno. È inoltre necessario instaurare una comunicazione tra alleati e avversari per chiarire e rispettare le “linee rosse”, nonché stabilire dei confini che prevengano malintesi. Le vecchie regole e norme non sono adatte al mondo moderno. Possiamo e dobbiamo crearne di nuove. Si tratta di un progetto in cui grandi potenze come Cina, Russia e Stati Uniti devono assumere un ruolo di primo piano.
Autore: Jennifer Kavanagh, ricercatrice senior e direttrice del dipartimento di analisi militare presso l’organizzazione Defence Priorities (Stati Uniti).
Questo materiale è stato preparato per la riunione annuale del Club di discussione internazionale “Valdai” nell’ottobre 2025 e pubblicato sul sito web: https://ru.valdaiclub.com/a/highlights/
Ricercatore senior e direttore del programma russo dello Stimson Center (Washington) e conduttore di The Trialogue Podcast.
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Sleozkin P. Dove sta andando l’Occidente? // La Russia nella politica globale. 2025. Vol. 23. N. 6. Pp. 48–52.
Club di discussione internazionale “Valdai”
L’Occidente ha dominato per secoli, ma il suo potere relativo sta diminuendo rapidamente. Gli europei – e i coloni di origine europea – sono sempre stati una minoranza a livello mondiale, ma per molto tempo hanno dominato i corridoi del potere. Questa influenza sproporzionata sta chiaramente diminuendo e probabilmente continuerà a diminuire nei prossimi decenni.
Tuttavia, il declino non equivale alla sostituzione. L’Occidente potrebbe perdere la capacità di dettare le proprie condizioni. Le sue istituzioni, i suoi codici culturali e le sue tendenze morali alla moda potrebbero perdere attrattiva. Ma continueremo a vivere in un mondo globalizzato di origine occidentale. I nostri sistemi educativi e scientifici, le nostre forme di governo, i nostri meccanismi giuridici e finanziari, il nostro ambiente materiale: tutto questo si basa su fondamenti occidentali.
Detto questo, possiamo passare alle questioni principali. Quale tipo di dominio occidentale sta declinando? E cosa dobbiamo aspettarci dall’Occidente in futuro?
La storia dell’egemonia occidentale può essere suddivisa in due epoche. Fino al 1945, l’Occidente non era un insieme omogeneo, ma un gruppo di Stati in competizione tra loro.
La rivalità all’interno di un Occidente frammentato ha rappresentato uno stimolo fondamentale per l’espansione esterna.
Dopo il 1945, il quadro cambiò radicalmente. Sotto l’egida degli Stati Uniti, per la prima volta nella storia, nacque un Occidente politicamente unito. Tuttavia, dopo aver consolidato l’Occidente politico, i funzionari americani non costruirono una politica estera su questa base. Hanno invece proclamato l’Occidente leader del “mondo libero”, definito in modo residuale e negativo come l’intero “mondo non comunista”. Il nucleo occidentale consolidato dell’ordine americano del dopoguerra era quindi doppiamente indebolito: era identificato con il minimo comune denominatore del liberalismo globale, che a sua volta dipendeva dalla minaccia esterna per preservare l’unità interna.
Il crollo dell’Unione Sovietica non ha cambiato questa logica. L’Occidente ha continuato a identificarsi con la “comunità internazionale” e, quando la democrazia liberale non è riuscita a diffondersi in tutto il mondo, è tornato a difendere il “mondo libero” prima dall'”Islam radicale” e poi dai nemici tradizionali della guerra fredda: Russia e Cina. L’amministrazione di Joseph Biden ha rappresentato sia il culmine che la conclusione di questo approccio di politica estera. Biden è entrato alla Casa Bianca e, proclamando il confronto tra democrazia e autocrazia, ha cercato di stabilire legami tra Europa e Asia nell’ambito di un’alleanza globale contro la Russia e la Cina.
Ma il risultato, soprattutto dopo l’inizio della campagna in Ucraina, non è stata l’unità dell’«ordine liberale» globale, bensì un divario sempre più evidente e in rapida crescita tra le pretese universalistiche dell’Occidente e le sue limitate capacità. L’Europa ha marciato al passo. Il resto del mondo ha seguito per lo più la propria strada.
Alla fine, l’«ordine liberale» è stato rifiutato non solo dal non-Occidente, ma anche dall’elettorato americano, che per la seconda volta ha votato a favore del principio «l’America prima di tutto».
Allora, dove sta andando l’Occidente? Vedo tre possibili strade.
Il primo è una restaurazione liberale limitata. È ipotizzabile che le élite europee superino l’opposizione interna, sopravvivano a Donald Trump e trovino sostegno in un presidente democratico che prometta un parziale ritorno allo status quo. L’infrastruttura atlantista è forte e l’inerzia è una forza potente. Ma anche nel caso di una restaurazione post-Trump, l’antipatia di una parte significativa della popolazione nei confronti del programma di internazionalismo liberale porterà a una forte opposizione, mentre la carenza di risorse continuerà a limitare le possibilità occidentali.
Il secondo percorso è un vero e proprio ritiro americano, inteso come rinuncia all’impero a favore della nazione. Dal punto di vista politico, una mossa del genere sarebbe molto popolare. La promessa di mettere al primo posto gli interessi dei cittadini è senza dubbio allettante per gli elettori. Gli appelli alla supremazia degli interessi della nazione trovano eco in molti paesi europei. Il nazionalismo si inserisce naturalmente nel quadro della politica democratica. Inoltre, rappresenta un’alternativa evidente all’ortodossia del universalismo liberale. Una politica più nazionalista è alla base di MAGA e “America First”, e figure come Steve Bannon e altri commentatori di destra promuovono attivamente questo programma. Il rifiuto di finanziare USAID, “Radio Liberty” (riconosciuta in Russia come agente straniero e organizzazione indesiderabile. – Nota dell’editore.) e del National Endowment for Democracy (riconosciuto in Russia come organizzazione indesiderabile. – Nota dell’editore.) rappresenta un passo significativo in questa direzione. La nuova strategia di difesa, che ha come priorità la protezione del territorio nazionale, potrebbe accelerare l’allontanamento da una politica estera orientata alla leadership nell’ambito dell’«ordine liberale».
Tuttavia, gli impegni esistenti sono difficili da rompere. Le élite atlantiste continuano a occupare posizioni chiave all’interno e all’esterno del governo, mentre le strutture estese e complesse della NATO e dell’Unione Europea probabilmente rimarranno inalterate, anche se i partiti populisti dovessero arrivare al potere nella maggior parte dei paesi occidentali. Non meno importante è il fatto che i leader nazionalisti occidentali sembrano comprendere che una ricerca coerente della sovranità nazionale renderebbe i loro paesi troppo deboli per godere di una reale autonomia sulla scena internazionale. Se gli Stati Uniti limiteranno la loro sfera di influenza all’emisfero occidentale, il progetto di integrazione europea quasi certamente fallirà. In un mondo di potenze gigantesche, i paesi europei non potranno occupare una posizione sproporzionatamente elevata (come era prima del 1945). I partiti populisti e nazionalisti in Europa, che si oppongono alle strutture transatlantiche dell'”ordine liberale”, non mirano a una rottura completa con Washington. Gli Stati Uniti sono abbastanza forti (e ben protetti) da mantenere una posizione relativamente influente nel sistema internazionale anche in caso di completo abbandono dell’impero. Ma la maggior parte dei sostenitori di MAGA non ha in mente un ritiro completo. Come minimo, partono dalla necessità di mantenere il dominio americano da Panama alla Groenlandia. In definitiva, la maggior parte dei sostenitori dello slogan “America first” preferirebbe mantenere il controllo su tutto l’Occidente.
La terza e ultima opzione è una nuova consolidazione transatlantica, in cui la logica dell’universalismo liberale sarà sostituita da un paradigma civilizzatore con gli Stati Uniti nel ruolo di metropoli e l’Europa in quello di periferia privilegiata. Se la leadership americana nell’«ordine liberale» rappresentava (secondo Trump e il suo entourage) un puro spreco di risorse, la nuova struttura transatlantica potrebbe invertire il flusso. Allo stesso tempo, offrirebbe ai paesi europei l’adesione a un club con una popolazione sufficientemente numerosa e risorse sufficientemente potenti per competere sulla scena globale. Infine, l’adesione al club occidentale non avrebbe richiesto il sacrificio dell’identità nazionale in nome del liberalismo globale. Al contrario, avrebbe contribuito all’affermazione dell’identità nazionale e occidentale invece che a una politica di immigrazione illimitata e di espansione infinita.
La costruzione di un vero e proprio «Occidente collettivo» significherebbe accettare la multipolarità e tentare di creare il polo più potente del sistema.
Probabilmente avrebbe anche portato a un riposizionamento dalla logica dei “carri armati e delle truppe”, necessaria per la guerra fredda con l’Unione Sovietica, alla logica della tecnologia e del commercio, più adatta alla concorrenza con la Cina. Il discorso del vicepresidente Jay D. Vance al vertice sull’intelligenza artificiale a Parigi, la sua dura critica agli atlantisti alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e il recente discorso di Trump alle Nazioni Unite mirano a spingere l’Europa a riorganizzarsi in questa direzione. Gli sforzi per ridistribuire gli oneri nella NATO, così come i recenti accordi commerciali con la Gran Bretagna e l’UE, sono passi concreti in questa direzione.
Il problema è che l’Occidente si è dissolto in un “ordine liberale” minimalista e ha rinunciato alla maggior parte del contenuto civilizzatore su cui avrebbe potuto fare affidamento. Il canone occidentale nell’istruzione superiore è stato in gran parte distrutto. Anche la pratica religiosa in Occidente è in declino. Il cristianesimo rimane una forza potente nella politica americana (come abbiamo visto all’addio a Charlie Kirk). Ma l’Occidente non può più definirsi un mondo cristiano. Oggi l’idea di un “Occidente collettivo” come polo dell’ordine mondiale attira solo un piccolo numero di influenti intellettuali della “nuova destra”, nonché geopolitici e titani della tecnologia che vogliono raggiungere un “effetto di scala” (ma capiscono che non è possibile inghiottire il mondo intero).
Tutte e tre le opzioni incontrano degli ostacoli. Inoltre, tali opzioni non sono mutuamente esclusive. L’esito più probabile sarà una combinazione imbarazzante di tutte e tre. L’inerzia burocratica favorisce la prima opzione, ovvero una limitata restaurazione liberale, la logica della politica interna porta alla seconda, ovvero una consolidazione nazionalista, mentre gli imperativi geopolitici richiedono la terza, ovvero la creazione di un vero e proprio “Occidente collettivo”.
In ogni caso, gli Stati Uniti sono in grado di mantenere una posizione vantaggiosa. Le strutture dell’«ordine liberale» rimangono forti, nonostante le crescenti crepe nelle fondamenta, ma l’amministrazione Trump continuerà a insistere sul rinnovamento delle relazioni transatlantiche verso una consolidazione più consapevole del blocco occidentale, unito da un approccio comune al commercio, alle alte tecnologie e alla gestione delle risorse. Se l’Europa non accetterà il suo nuovo ruolo o non sarà in grado di gestirlo, Washington potrebbe liberarsi del peso e ritirarsi sulle posizioni preparate nell’emisfero occidentale.
Autore: Pyotr Slyozkin, ricercatore senior e direttore del programma russo dello Stimson Center (USA).
Questo materiale è stato preparato per la riunione annuale del Club di discussione internazionale “Valdai” nell’ottobre 2025 e pubblicato sul sito web: https://ru.valdaiclub.com/a/highlights/
E-mail: a.soloviev@globalaffairs.ru Tel.: (+7) 495 980 7353 Indirizzo: Fondazione per la ricerca in politica estera, 623, Mosca 119049, Russia.
Abstract
Nel crescente dibattito sulla Maggioranza Mondiale, una domanda fondamentale è: quali paesi ne fanno parte? Alcuni suggeriscono che i paesi della Maggioranza Mondiale costituiscono civiltà in cui la storia delle relazioni interstatali “non è mai stata intesa in termini di competizione, lotta feroce o anarchia, che possono essere controbilanciate solo dal predominio del potere di singoli stati o alleanze”. Questo articolo esamina tale tesi alla luce del tradizionale sistema tributario dell’Asia orientale e del grado in cui esso continua a influenzare la visione cinese moderna delle relazioni internazionali. Le idee di politica estera, caratteristiche dell’Asia orientale sinocentrica, vengono analizzate utilizzando testi classici antichi e medievali, alcuni dei quali poco noti agli specialisti di relazioni internazionali. I risultati mettono in dubbio una concettualizzazione della “maggioranza mondiale” basata sulla tradizione storica.
Parole chiave
Teoria delle relazioni internazionali (IRT), sistema tributario, sistema westfaliano, pensiero politico dell’Asia orientale, anarchia, gerarchia, alleanze, equilibrio, bandwagoning, egemonia, pragmatismo morale.
Per la citazione, si prega di utilizzare: Solovyov, A.V., 2025. Confucio sognava l’equilibrio di potere? Russia in Global Affairs, 23(4), pp. 192–217. DOI: 10.31278/1810-6374-2025-23-4-192-217
“L’estremo è il mio declino.
Da molto tempo non sogno più,
come ero solito fare,
che ho visto il duca di Zhou.
Confucio. Analecta, 7:5 (Tradotto da James Legge)
Il pensiero politico spiega (concettualizza) o giustifica (legittima) l’azione politica. Nel primo caso, i vincoli e gli incentivi alla ricerca sono principalmente teorici e metodologici. Nel secondo caso, invece, gli studiosi possono essere guidati da questioni contemporanee urgenti, che portano a generalizzazioni affrettate e conclusioni infondate. Più la questione è delicata, maggiore è il rischio di commettere tali errori.
Un esempio lampante di tale generalizzazione è stato fornito da Timofei Bordachev dopo la conferenza del Club Valdai del novembre 2024. Contrastando la visione della politica internazionale dei paesi della maggioranza mondiale con «il ragionamento tradizionale europeo caratterizzato da giudizi categorici e dalla ricerca del conflitto come motore principale del cambiamento nell’economia e nella politica mondiale», egli sostiene che la storia delle relazioni interstatali in questi paesi «non è mai stata compresa nel quadro concettuale europeo: competizione, lotta dura e anarchia, che possono essere controbilanciate solo dal predominio del potere dei singoli Stati o delle alleanze». Egli descrive il modo di pensare non europeo come il riflesso di un “ambiente geografico… dove non possono esistere relazioni alleate permanenti né conflitti di forte carica ideologica” (Bordachev, 2024).
Ciò suggerisce due importanti tesi metodologiche. Le civiltà possono essere classificate in base ai modelli di pensiero storico-politico che non possiedono (essenzializzazione negativa). E le relazioni internazionali occidentali non sono in grado di spiegare e descrivere adeguatamente il pensiero politico e il comportamento dei paesi della maggioranza mondiale.
I dubbi sull’universalità delle teorie occidentali non sono affatto una novità nelle relazioni internazionali (si vedano, ad esempio, le opere ormai classiche di Acharya e Buzan, 2007; Hobson, 2012). Tuttavia, l’Asia orientale, con la sua particolare venerazione per la storia e le testimonianze scritte, offre una base particolarmente utile per analizzare la storia del pensiero delle relazioni internazionali, comprese le affermazioni sopra riportate al riguardo.
La discussione sul pensiero politico dell’Asia orientale (principalmente cinese) e sulla sua influenza sul comportamento politico è probabilmente iniziata con l’articolo di Qin Yaqing (2007) sui fondamenti ideologici e filosofici di una potenziale “scuola cinese di relazioni internazionali”. Gradualmente, altri si sono uniti e hanno ampliato la discussione (si veda una breve panoramica di alcune delle argomentazioni in: Kozinets, 2016, pp. 107-108; Kang, 2020). Tuttavia, anche prima di allora, i sinologi russi avevano discusso due diverse linee di pensiero tradizionale cinese sull’ordine mondiale: la “monarchia costruttrice di mondi” universalista ed espansionista e il sistema contrattuale e isolazionista di Stati uguali (ad esempio, Goncharov, 1986, pp. 5-6, 12).
Molto illustrativa è la discussione tra John J. Mearsheimer e Yan Xuetong sul rapporto, nella tradizione politica storica e moderna cinese, tra potere (compresa la natura e l’efficacia dell’equilibrio di potere) e moralità, tra norme e comportamento, e tra aspirazioni egemoniche e loro contenimento (Dialogue, 2013; Mearsheimer, 2014; Yan, 2016). Entrambi gli studiosi hanno attinto con entusiasmo alle prove storiche per sostenere le loro posizioni, che sono ugualmente distanti l’una dall’altra e da quella di Bordachev. Mearsheimer sostiene che la politica storica della Cina è quella di una grande potenza: “La Cina si è comportata proprio come le altre grandi potenze, vale a dire che ha una ricca storia di azioni aggressive e brutali nei confronti dei suoi vicini”, utilizzando le massime confuciane per giustificare ideologicamente e moralmente tale aggressività (Mearsheimer, 2014). Yan Xuetong, al contrario, ritiene che la moralità confuciana (e qualsiasi altra) abbia effetti reali di limitazione o stimolo sul comportamento della politica estera (Yan, 2016, pp. 6-8).
Suggerisco di ampliare questa discussione rivolgendoci ad opere che sono abbastanza note agli studiosi dell’Asia orientale, ma non agli esperti di relazioni internazionali.
L’ORIENTE INCONTRA L’OCCHIDENTE: IL MONDO È UN REGNO PUBBLICO O UN CAMPO DI BATTAGLIA DELLA POLITICA DI POTERE?
Alla fine di agosto del 1880, al ritorno da una missione diplomatica a Tokyo, il funzionario Chosŏn Kim Hongjip presentò al re Kojong la Strategia per la Corea (朝鮮策略) scritta dal diplomatico cinese Huang Zunxian. Questo “documento politico per eccellenza” (Hirano, 2005, p. 3) è considerato emblematico del pensiero politico estero cinese di quel periodo. Esso analizzava la situazione internazionale della Corea, identificava l’espansione russa come la principale minaccia[1] e proponeva delle contromisure.
Huang Zunxian identificò la Russia come la principale minaccia per diversi motivi: le sue enormi dimensioni, la forza del suo esercito e della sua marina militare (“più di un milione di soldati d’élite e… più di duecento grandi navi”) e il suo espansionismo “naturale-storico”. Riguardo a quest’ultimo aspetto, la Strategia sottolineava che la Russia si stava avvicinando inesorabilmente ai confini della Corea e avvertiva: “Se la Russia vuole conquistare [nuovi] territori [nell’Asia orientale], inizierà sicuramente dalla Corea” (Huang, 1880, pp. 47-48). Per contrastare l’espansione russa, la Strategia raccomandava che Chosŏn “rimanesse vicina alla Cina, stringesse legami con il Giappone, si alleasse con gli Stati Uniti e perseguisse una politica di auto-rafforzamento” (Ibid).
Per gli specialisti di relazioni internazionali, le argomentazioni di Huang Zunxian ricordano molto (in alcuni casi, quasi alla lettera) i fattori determinanti della percezione della minaccia esterna formulati da Stephen Walt più di un secolo dopo: potere aggregato, vicinanza, capacità offensiva e intenzioni offensive (Walt, 1985, p. 9). Infatti, la proposta di Huang Zunxian di un equilibrio esterno (alleanze internazionali) e di un equilibrio interno (auto-rafforzamento) contro la potenziale egemonia regionale (Russia) è parallela alla teoria dell’equilibrio di potere di Kenneth Waltz (1979, p. 168). Il termine “equilibrio di potere” (均勢) era familiare a Huang Zunxian (Huang, 1880, p. 53).
La Strategia ebbe un forte impatto sulla classe politica di Chosŏn. Wang Kojong ne ordinò un’ampia diffusione. Fu accolta con ostilità dai confuciani tradizionalisti,[2] ma ispirò i modernizzatori per molti anni. Nell’autunno del 1885, il giovane intellettuale coreano Yu Kilchung compilò un Trattato sulla neutralità (中立論), proponendo una politica estera basata in gran parte sulla Strategia. A suo avviso, le relazioni internazionali sono del tutto predatorie: “Il desiderio dei forti di annettere i deboli, il desiderio di uno Stato grande di assorbire uno piccolo: questo è un impulso naturale della natura umana” (Yu, 1885, p. 321). E gli Stati sono aggressivi: “[nascosto] nel profondo dell’anima di ogni Stato, il desiderio di guerra non si è dissipato” (Ibid, p. 325). Yu Kilchung era scettico sull’efficacia dell’equilibrio di potere: “I russi ci tengono d’occhio da tempo, ma non hanno ancora osato muoversi. Sebbene si ritenga che [essi] siano frenati dall’equilibrio di potere, in realtà hanno paura della Cina”[3] (Ibid).
Dubitando dell’efficacia dei trattati bilaterali, Yu Kilchung propose di creare un sistema di accordi multilaterali che garantisse la neutralità della Corea e allo stesso tempo promuovesse “l’autoconservazione degli altri paesi” (Ibid, pp. 326-327). Egli essenzialmente concepì un sistema di sicurezza collettiva dell’Asia orientale basato su trattati e garanzie reciproche. La Cina avrebbe dovuto guidare questo sistema, data la sua autorità morale e militare. Infatti, Yu Kilchung chiese di garantire la sicurezza della Corea principalmente a spese della Cina (Huh, 2017, p. 58), poiché in una tale configurazione quest’ultima avrebbe perso la sua posizione esclusiva di sovrana della Corea.
Le idee di Huang Zunxian e Yu Kilchung sono ancora oggi molto richieste, almeno nella Corea del Sud. L’influenza di Yu Kilchung è evidente nell’interpretazione sudcoreana del “middlepowermanship” (Shin, 2012, pp. 138-139), mentre le disposizioni della Strategia sono utilizzate dai pubblicisti per descrivere l’espansione della Cina nella regione Asia-Pacifico e i mezzi per contrastarla (Chosun Ilbo, 2013).
Tuttavia, le intuizioni di Huang Zunxian e Yu Kilchung non sono impeccabili come prove contro l’affermazione che nel pensiero politico dell’Asia orientale non esistesse il concetto di alleanze e di equilibrio. Dopo tutto, essi interpretarono non solo l’esperienza empirica delle interazioni cinesi e coreane con le potenze occidentali, ma anche i postulati teorici dei pensatori occidentali. Huang Zunxian doveva avere familiarità con l’equilibrio di potere in Giappone (dove era diventato saldamente radicato nel discorso politico (Hirano, 2005, p. 28)) mentre prestava servizio nell’ambasciata Qing.
Yu Kilchung, come molti pensatori dell’Asia orientale di quel periodo, era affascinato dalle idee del darwinismo sociale, quindi la sua idea della “sopravvivenza del più forte” nell’arena internazionale era ispirata, almeno in parte, dai concetti occidentali.
Chi dovrebbero essere considerati Huang Zunxian e Yu Kilchung (e decine o centinaia di altri modernizzatori dell’Asia orientale): rinnegati che hanno rifiutato la tradizione o innovatori che hanno fatto affidamento su quella tradizione? Dopo tutto, sia la Strategia che il Trattato sono ricchi di riferimenti alla storia delle relazioni sino-coreane, attribuendo particolare importanza ai secoli di amicizia ininterrotta (Huang, 1880, p. 48; Yu, 1885, p. 325), il che contraddice l’affermazione di Bordachev sull’assenza di “relazioni alleate permanenti” nell’Asia orientale. Naturalmente, in entrambi i casi, le relazioni in questione sono quelle tra un sovrano e un vassallo. Tuttavia, come verrà dimostrato di seguito, tali relazioni non differivano molto dalle alleanze asimmetriche tra patroni e clienti descritte da James Morrow (1991) un secolo dopo.[4] Ad ogni modo, per capire se la tradizione politica dell’Asia orientale rifiutasse (o condividesse) la Realpolitik, è necessario rivolgersi al periodo precedente, quello imperiale.
INTO THE PAST: “AL SERVIZIO DEI GRANDI” O AL PASSO CON L’EGEMONIA?
Le relazioni internazionali della civiltà sinocentrica sono definite “sistema tributario”[5] (Fairbank, 1968) e generalmente modellate come cerchi concentrici, con la Cina (il Regno di Mezzo) al centro, circondata da vassalli interni, vassalli esterni e infine “barbari” stranieri. Più ci si allontana dal centro, meno si è “civilizzati” (cioè soggetti all’influenza socio-politica cinese) e più la politica cinese nei loro confronti si basa sulla “forza militare” (武) – definita “pacificazione”, come quella dei disordini interni – piuttosto che sulla “cultura” (文). [6] Le entità politiche esterne (non cinesi), sufficientemente “civilizzate” da riconoscere la supremazia incondizionata del Regno di Mezzo, erano incluse in questo sistema come stati vassalli tributari. In epoche diverse, questi includevano il Giappone, la Corea e vari stati dell’Asia centrale, meridionale e sud-orientale.
Sebbene autonomi nella politica interna, i loro governanti ricevevano l’investitura, i sigilli regali e i motti del calendario regale (o il permesso di utilizzare quelli cinesi) dall’imperatore cinese.
Secondo il principio “un vassallo non può occuparsi di relazioni estere/diplomazia” (人臣無外交) contenuto nel classico confuciano Liji — Libro dei riti (禮記), i sovrani tributari non avevano alcun diritto formale di condurre una politica estera[7] al di là delle regolari missioni tributarie in Cina. Questo complesso sistema di relazioni rituali-simboliche si basava sul principio del “servire il Grande” (事大), che significava il riconoscimento incondizionato della supremazia morale e politica della Cina.[8] La superiorità civilizzatrice (culturale, economica e militare) del Regno di Mezzo sui suoi vassalli garantiva la coerenza e la stabilità della struttura sinocentrica delle relazioni internazionali. Ad esempio, la scrittura cinese fungeva da lingua franca politica e letteraria, le sue istituzioni politiche erano prese a modello, ecc.
Questo sistema ricorda il “mondo del bandwagoning” di Walt portato all’estremo (o all’assurdo) (Walt, 1985, p. 14). Gli Stati più deboli non hanno la possibilità di negare o contestare la supremazia dell’egemone; proprio come non ci sono due soli nel cielo, non possono esserci due Figli del Cielo nell’Impero Celeste. Tuttavia, a differenza del modello di Walt, l’assenza di alternative all’egemone elimina la possibilità stessa di una competizione di potere. (Tuttavia, ipoteticamente, una singola sconfitta da parte di un aggressore esterno al sistema potrebbe segnalare una transizione di potere (ibid.).) In assenza di una minaccia esterna, gli altri partecipanti a un tale sistema hanno principalmente “relazioni di buon vicinato” (交隣); questo termine, che risale a Mencio e che è in qualche modo diverso dal moderno睦隣, è spesso associato al principio di “servire il grande”. Gli ambasciatori dei paesi confinanti con la Cina avevano più probabilità di incontrarsi alla corte imperiale che le truppe dei loro paesi di incontrarsi sul campo di battaglia. La competizione tra i vassalli esterni si riduceva alla rivalità per ottenere il favore dell’imperatore cinese, che era tanto maggiore quanto più essi diventavano “colti” (cioè sinicizzati).
Il pensiero tradizionale cinese semplicemente non poteva postulare l’internazionalità delle relazioni tra i sistemi politici, quindi non c’era bisogno di una teoria delle relazioni internazionali (Qin, 2007, pp. 322-324). La natura paternalistica dell’ordine mondiale – “ineguale ma benigno” (Ibid, p. 330) – riproduceva le relazioni familiari ideali. “Il padre doveva essere il padre e il figlio doveva essere il figlio”[9] sia all’interno della Cina che nelle sue relazioni con i paesi vicini. In una tale “famiglia internazionale” non poteva esserci – presumibilmente – alcun pensiero di “dura lotta e anarchia” o di “conflitti di alta intensità ideologica”. “Esistono numerose prove che dimostrano che le unità dell’Asia orientale non bilanciavano il potere e che le unità più piccole non si alleavano per bilanciare una minaccia più grande” (Kang, 2020, p. 81).
Per sinicizzare i vicini della Cina ed estendere la portata di questo modello, furono sviluppati sofisticati mezzi di influenza culturale non violenta. Jia Yi (200-168 a.C.), un dignitario dell’Impero Han, in un rapporto simile per struttura e logica alla Strategia di Huang Zunxian, propose “cinque esche” (五餌) per pacificare le tribù Xiongnu che terrorizzavano l’impero. Invitando l’élite degli Xiongnu a corte, era necessario “sedurre[10] i loro occhi” con abiti lussuosi, carri e una scorta sontuosa; “sedurre le loro labbra” con un banchetto squisito in loro onore; “sedurre le loro orecchie” con vari divertimenti e spettacoli; “sedurre il loro grembo/le loro anime”, [11] fornendo loro alloggi confortevoli che “superano tutto ciò che [hanno avuto] prima”; e “sedurre i loro cuori” attraverso la “gentilezza e l’affetto paterno” dell’Imperatore. A quel punto gli Xiongnu si sarebbero sottomessi senza combattere (Xin Shu, 4:4).
Altri mezzi di controllo politico non violento includevano matrimoni dinastici e lo scambio di ostaggi di alto rango. Liu Jing, un altro dignitario dell’Impero Han, suggerì all’imperatore di dare in sposa sua figlia al capo degli Xiongnu per renderlo (e i suoi discendenti) dipendenti dalla ricchezza e dal lusso. Il loro comportamento sarebbe cambiato nel tempo “a causa dell’avidità per le cose di valore”. Egli propose anche di inviare dei retori “per istruirli delicatamente sulle regole di condotta e sui rituali” (Shiji, 99:6).
I matrimoni dinastici non solo influenzarono le élite degli Stati confinanti, ma fornirono anche giustificazioni per l’annessione di tali Stati, come quando l’Impero mongolo Yuan nel XIV secolo tentò di incorporare Koryŏ sulla base di diverse generazioni di matrimoni tra principi di Koryŏ e principesse mongole.
Per quanto riguarda lo scambio di ostaggi, esso era talvolta condannato in Cina e nei paesi confinanti. Il Storie dei Tre Regni coreano del XII secolo afferma che “scambiare… i figli come ostaggi è un comportamento indegno persino dei Cinque Egemoni”[12] (Samguk sagi, 45:1397). Tuttavia, la pratica continuò.
Il sistema di relazioni centro-periferia (Regno di Mezzo contro barbari stranieri) fu codificato durante l’Impero Han (202 a.C.-220 d.C.) sulla base dei principi socio-filosofici ancora più antichi del rituale Zhou. Fino alla fine del XIX secolo, essi non subirono cambiamenti significativi, nonostante la profonda revisione del confucianesimo nel periodo 1000-1200 e i vari sconvolgimenti politici regionali (Qin, 2007, p. 323). Alla fine del XIX secolo, nella mente degli intellettuali dell’Asia orientale, il modello immaginario tributario dell’ordine mondiale incontrò il modello non meno immaginario di Westfalia, dando vita alle opere di Huang Zunxian, Yu Kilchung e molti altri autori di quel periodo (Larsen, 2013, p. 233).
Tuttavia, in un periodo così lungo, la realtà politica dell’Impero Celeste spesso differiva dal modello. La Cina ha vissuto periodi di frammentazione, in cui entità statali governate da “cinesi autoctoni” (華) e barbari (夷) competevano per l’egemonia.[13]
Mentre la Cina a volte sconfiggeva i barbari, altre volte il suo governo veniva asservito o rovesciato da loro.
Gli aspiranti Figli del Cielo dovevano “apparire forti e potenzialmente pericolosi” per attirare il sostegno degli altri; gli Stati clienti avrebbero abbandonato i loro protettori per alternative più forti al minimo segno di debolezza; e le controversie internazionali venivano risolte con la forza: tutte caratteristiche del “mondo del bandwagoning” (Walt, 1985, p. 14). In questo contesto, le alleanze erano indispensabili.
Già nel periodo Han, Chao Cuo (200-154 a.C. circa) descriveva la creazione di alleanze come segue: “… servire i potenti [è] la disposizione di uno Stato piccolo; [stringere] un’alleanza con uno Stato piccolo per attaccarne uno grande [è] la disposizione di uno Stato pari [in forza al suo rivale]; usare i barbari… per attaccare i barbari [è] la disposizione del Regno di Mezzo” (Han Shu, 49(19):22). In seguito, il suo concetto fu ridotto alla frase da manuale “usare i barbari contro i barbari”. La comprensione di Huang Zunxian e Yu Kilchung dell'”equilibrio di potere” è spesso ricondotta a questo detto (vedi, ad esempio, Hirano, 2005, p. 29; Vradiy, 2015, p. 77). Ma questo, ovviamente, non è del tutto corretto: Chao Cuo distingueva chiaramente tra bandwagoning (“servire i grandi”), balancing (unirsi contro un pari) e wedging (tra barbari) (vedi, ad esempio, Wang, 2013, p. 222).
Nella storiografia cinese, la strategia adottata nei periodi di dissoluzione era spesso descritta come “tenersi lontani dai forti e allearsi con i deboli” (离强合弱). Il riavvicinamento di Kissinger alla Cina ha analogamente allineato gli Stati Uniti con la parte più debole contro la più forte Unione Sovietica (Kissinger, 1979, p. 178). Cheng Yawen, dell’Università di Shanghai, sostiene ora in modo simile che la Cina e la Russia, più deboli, dovrebbero allearsi contro gli Stati Uniti, più forti: “Quale sarebbe il risultato di un’alleanza con una potenza maggiore per eliminare una potenza relativamente più debole? La storia fornisce esempi classici: la dinastia Song settentrionale si alleò con la dinastia Jin per distruggere la dinastia Liao, solo per vedere la Jin ribaltare la situazione e distruggere la Song settentrionale; allo stesso modo, la Song meridionale si alleò con i mongoli per sconfiggere la Jin, solo per essere poi conquistata dagli stessi mongoli” (Cheng, 2025).
Nella loro discussione sull’articolo di Cheng Yawen pubblicato sul portale Sinification, Thomas Geddes e James Farquharson (2025) lo hanno inserito nel contesto più ampio del dibattito sul conflitto tra interessi e valori nelle relazioni internazionali (infatti, una delle sezioni dell’articolo di Cheng Yawen è intitolata proprio così). Questo conflitto, nelle sue varie forme, è caratteristico sia del pensiero sociopolitico e morale dell’Asia orientale che di quello occidentale. Tuttavia, nello spirito della storiografia confuciana, è necessario un piccolo commento prima di passare alla discussione sulla moralità.
COMMENTO DELLO STORIOGRAFO
Il modello tributario ha acquisito una nuova prospettiva quando gli studiosi di relazioni internazionali sono entrati nella discussione e hanno confrontato[14] le sue caratteristiche strutturali (la distribuzione del potere relativo e l’uguaglianza/disuguaglianza politica dei suoi attori) con quelle del modello westfaliano. La lunga durata del sistema tributario e la vaghezza dei suoi confini geografici (entrambi ancora oggetto di dibattito tra gli storici – cfr. Kozinets, 2016, p. 111) hanno messo in luce esempi di comportamenti politici che non erano né benigni né pacifici.
Ciò ha permesso ai realisti di affermare che il sistema tributario ha funzionato in modo diverso nei vari periodi dell’equilibrio di potere, ma tale differenza era determinata esclusivamente dal potere relativo degli attori. Il sistema era effettivamente gerarchico quando il potere era distribuito in modo asimmetrico: si instaurava un “rapporto di potere grossolano tra il forte e il debole”, “mascherato [da] una retorica confuciana benigna” che fungeva da “facciata di [un] sistema tributario” che “serviva in modo sproporzionato i [propri] interessi” (Wang, 2013, p. 209). Ma “quando esisteva una simmetria di potere tra gli attori politici, la parità diplomatica diventava possibile” (Wang, 2013, p. 209).
I realisti vedono il suddetto impero Song, destinato al fallimento, come la prova più evidente di questa tesi. Nel 1005, attraverso il trattato di Chanyuan, i Song riconobbero l’impero Khitan Liao come loro pari. Il sovrano Liao fu nominato Imperatore e i Song pagarono regolarmente un tributo ai Liao. (Questo fu ufficialmente definito “assistenza con le spese militari” (Wang, 2013, p. 217), anche se gli stessi Khitan erano meno formali nella corrispondenza interna, affermando direttamente: “L’oro e l’argento sono stati offerti come tributo per sostenere il nostro esercito” (Tao, 1988, p. 29). Successivamente, nel XII secolo, l’Impero Song fu costretto a riconoscersi vassallo dell’Impero Jurchen (Jin).
Quest’ultimo confuta l’affermazione di Qin Yaqing secondo cui le relazioni nell’Asia orientale non erano concepite come internazionali. In realtà, il sistema non regolava i suoi partecipanti, ma le relazioni tra di essi, rendendo tali relazioni – e la loro percezione da parte di attori autonomi – veramente internazionali. Il divieto di politica estera dei vassalli fu di fatto ignorato per quasi tutta l’esistenza del sistema; fu rispettato solo durante gli imperi Ming e Qing (e anche allora non in modo assoluto; la Corea e il Giappone si scambiarono regolarmente ambasciate fino al 1811, quando i coreani smisero a causa delle spese). Il concetto di “trattati paritari” – “paritari nel rituale” (同等之禮)[15] o “conclusi in diaspro e seta” (玉帛) – esisteva in Cina molto prima del trattato di Chanyuan del 1005 (Kozinets, 2016, p. 110).
La gestione dei vassalli da parte del Regno di Mezzo veniva ripetuta dagli stessi vassalli nei confronti dei propri vassalli, con la Cina che li motivava deliberatamente a tal fine.
Quando nel 504 il re di Koguryŏ si lamentò con l’imperatore Wei che i popoli Paekche e Wuji stavano bloccando il tributo alla corte imperiale, fu severamente rimproverato e gli fu ordinato di “ricorrere a tutte le misure di violenza o pacificazione necessarie per… ristabilire la pace tra i popoli delle zone orientali,… in modo che le entrate derivanti dai tributi non fossero interrotte…” (Samguk sagi, 19:529).
I rivolgimenti politici avvenuti tra il 1000 e il 1200, causati dal declino dello status della dinastia Song, ebbero un impatto significativo sul pensiero politico cinese. Di fronte all’evidente incapacità dell’imperatore di costruire un impero diffondendo la sua virtù all’estero, i filosofi Song dichiararono che la sua missione principale era interna: l’armonizzazione del proprio Stato. Solo dopo averla compiuta avrebbe potuto dedicarsi all’armonizzazione di Tutto sotto il Cielo (Goncharov, 1986, pp. 262-263). Ciò svalutò ulteriormente la forza militare, come strumento di politica estera, agli occhi dei confuciani.
Sotto le dinastie successive, quando i confini dello Stato raggiunsero quasi quelli di Tutto sotto il Cielo, l’armonizzazione dello Stato cessò di essere un mezzo per raggiungere un fine e divenne il fine stesso. Ciò escludeva relazioni internazionali paritarie, rendendo la vassallaggio nominale e simbolico dei vicini uno strumento per la legittimazione politica interna dei governanti cinesi. La pratica della “diplomazia tra pari” dei Song fu condannata come moralmente riprovevole, sia dal punto di vista ideologico che pratico (Goncharov, 1986, pp. 264-266). Oggi, i lamenti di Cheng Yawen sulla miopia politica dei Song citati sopra sembrano riflettere tali atteggiamenti.
Il vassallaggio non garantiva sempre la sicurezza (Wang, 2013, p. 213), né dai vicini aggressivi né dalla stessa Cina. Alla fine dell’unificazione della Corea, a metà del VII secolo, i regni di Paekche e Koguryŏ, ormai condannati, continuarono a inviare missioni tributarie alla corte Tang (Samguk sagi, 22:608-609; 28:728), sebbene l’alleanza offensiva tra l’Impero Tang e lo Stato coreano di Silla non fosse un segreto per loro. Il vassallaggio non garantiva la sicurezza della Cina nemmeno durante i periodi di dominio incondizionato e forzato. Ad esempio, Silla riconobbe il suo vassallaggio e il potere superiore dei Tang, ma comunque riconquistò con la forza le parti della Corea che erano state occupate dai Tang dopo la sconfitta di Koguryŏ e Paekche. Il re di Silla temeva che tale comportamento potesse essere immorale: “Per il nostro bene l’esercito dei Tang ha sconfitto il nemico. Se combattiamo contro di loro, il Cielo ci perdonerà?” Ma il suo consigliere più stretto, Kim Yusin, descritto nelle Storie dei Tre Regni come un modello di virtù confuciane, rispose: “Sebbene un cane tema il suo padrone, se il padrone gli calpesta la zampa, il cane morde il padrone. Come possiamo, di fronte alle difficoltà, non [cercare] di salvarci?» (Samguk sagi, 42:1130).
Pertanto, non è del tutto vero che la stabilità e la pace siano garantite quando la Cina è forte, una convinzione condivisa sia dagli idealisti[16] che dai realisti[17].
Inoltre, pur riconoscendo la flessibilità del sistema tributario (Wang, 2013, p. 217), i realisti cercano di spiegarlo esclusivamente attraverso i cambiamenti nell’equilibrio di potere. Selezionano i casi più eclatanti di politica di potere in azione (come il periodo della rivalità tra Song, Liao e Jin) e li estendono all’intera storia dell’Asia orientale. Tuttavia, questo meccanismo causale è discutibile se gli Stati ricorrono alla diplomazia invece che alla forza.
I realisti trascurano anche i fattori culturali e politici interni. Ad esempio, la debolezza della dinastia Song nei confronti dei nomadi del nord potrebbe essere stata il risultato del suo “pacifismo ragionato” e del suo impegno a favore della cultura piuttosto che della forza militare (Fairbank, 1992, pp. 109, 117). Nella dinastia Song, i funzionari militari erano subordinati a quelli civili e l’esercito era meno prestigioso della cultura.
Il realismo sostiene che la Cina avrebbe dovuto accogliere con favore la discordia tra i suoi vicini, ma in realtà inviava loro costantemente rescritti che invitavano alla riconciliazione.
Quando nel 1712 i coreani scoprirono che un funzionario Qing aveva erroneamente tracciato parte del confine sino-coreano a favore della Corea, i coreani furono spinti dalla moralità e dalla giustizia a informare (anche se con una certa esitazione) il governo Qing dell’errore (Chesnokova e Trubninkova, 2025, p. 109).
La logica realista non è in grado di comprendere le sottigliezze del protocollo diplomatico dell’Asia orientale, che prevedeva la legittimazione reciproca attraverso la definizione dello status[18] e consentiva alla parte più debole di compiere gesti piuttosto dimostrativi che simboleggiavano le sue ambizioni. (Si veda la storia della Torre della Neve Luminosa (明雪樓) come simbolo della resistenza culturale di Choson nei confronti dei Qing (Gale, 1902; Chesnokova, 2017, p. 119).)
I realisti non sono nemmeno in grado di spiegare perché l’Impero Ming, all’apice del suo potere e della sua influenza, abbia rinunciato all’espansione politica ed economica a favore di un isolazionismo che alla fine lo ha paralizzato.
Il principale punto debole del realismo, tuttavia, è il suo trattamento del sistema tributario come comportamento politico (secondo Fairbank) piuttosto che come costrutto ideologico, ignorando l’osservazione di Qin Yaqing secondo cui questo sistema è un costrutto ideologico e dovrebbe essere considerato proprio come tale (Qin, 2007, pp. 327-328). [19]
Questo spiega perché i realisti utilizzino solo due citazioni di Confucio e Mencio, relative alla possibilità delle guerre giuste, per concludere che il confucianesimo abbia stimolato piuttosto che frenato la pratica cinese della Realpolitik (Hui, 2011; Wang, 2013, p. 213; Mearsheimer, 2014). Mearsheimer si spinge ancora oltre, insistendo sul fatto che le affermazioni sulla pacificità intrinseca del confucianesimo «non riflettono il modo in cui le élite cinesi hanno effettivamente parlato e pensato alla politica internazionale nel corso della loro lunga storia… Ci sono poche prove storiche che la Cina abbia agito in conformità con i dettami del confucianesimo» (Mearsheimer, 2014).
Pertanto, per spiegare il riconoscimento da parte dell’Impero Tang della riconquista della Corea da parte di Silla, i realisti sostengono che la Cina fosse distratta dai conflitti con i tibetani e i popoli turchi. Ma un confuciano (almeno se coreano) citerà il comandante cinese Su Dingfang: «Il sovrano di Silla è benevolo e ama il [suo] popolo, e i suoi dignitari [dimostrano] lealtà nel servire lo Stato. Quelli di rango inferiore servono i loro superiori come padri o fratelli maggiori. [Pertanto], sebbene [il paese] sia piccolo, è impossibile capire [come conquistarlo]» (Samguk sagi, 42:1330).
Questa enfasi sulla moralità e sulla virtù, piuttosto che sulla forza militare, si è ripetuta di generazione in generazione.
Naturalmente, uno degli obiettivi delle Storie dei Tre Regni era quello di legittimare l’unificazione militare della Corea da parte di Silla e la successione da parte di Koryŏ; un altro era quello di affermare, nel contesto di una disputa indiretta con i radicali “nazionalisti” di Koryŏ, che avevano invocato una maggiore indipendenza di Koryŏ, anche a costo di entrare in conflitto con gli imperi “barbarici” della Cina (vedi sotto), la dottrina di Silla del vassallaggio rituale alla Cina.
RITORNO ALLE ORIGINI: ETICA DELLA VIRTÙ O GUERRA DI TUTTI CONTRO TUTTI?
Mentre le radici della teoria occidentale delle relazioni internazionali sono tradizionalmente individuate nell’opera di Tucidide La guerra del Peloponneso, quelle della teoria cinese delle relazioni internazionali possono essere rintracciate nelle prime opere storiche cinesi. La cronaca più antica, Chunqiu (Annali di Primavera e Autunno) — che si ritiene sia stata compilata dallo stesso Confucio — è stranamente silenziosa sulla moralità e la virtù, mentre le descrizioni delle guerre e della politica estera (comprese le alleanze militari) costituiscono quasi i due terzi della cronaca (Deopik, 1999, pp. 217, 241). La seconda per importanza e ordine cronologico è Zhan Guo Ce (Strategie degli Stati Combattenti), risalente al I secolo a.C. Anche questa opera non tratta di moralità, ma si occupa delle tecniche diplomatiche dei regni in guerra. Contiene le idee chiave della Scuola di Diplomazia (縱橫家), nota anche come Scuola delle Alleanze Verticali e Orizzontali. I due principali rappresentanti di questa scuola, nonché avversari politici, erano Su Qin (380-284 a.C.), che costruì un'”alleanza verticale” di sei regni contro lo Stato egemonico di Qin, e Zhang Yi (prima del 329-309 a.C.), consigliere di Qin, le cui alleanze “orizzontali” con gli stessi regni cercavano di dividere il blocco anti-Qin.
I nomi di queste alleanze riflettono sia la loro posizione geografica (i regni minori si estendevano da nord a sud, mentre quello di Qin era situato a ovest rispetto a tutti gli altri) sia la loro struttura (Han Feizi descrive la differenza tra loro: “un’alleanza verticale è l’unione di molti deboli per attaccare un forte; un’alleanza orizzontale è il servizio (subordinazione) a un forte per attaccare molti deboli” (Hanfeizi, 49:11)).
Zhan Guo Ce era così “non confuciano” nel carattere che, dopo la dinastia Han, fu classificato come libro “pericoloso” (Vasilyev, 1968, pp. 9-10). Tuttavia, il concetto di alleanze verticali e orizzontali è sopravvissuto nel pensiero politico della Cina e dei suoi vicini, sebbene come esempio di tradimento politico e bassezza (縱橫). In una lettera al re Munmu di Silla, il comandante Tang Xue Ren-Gui lo rimproverò per “non aver seguito la rettitudine/giustizia/moralità, aver trascurato la bontà e aver ascoltato discorsi sulla verticale e l’orizzontale” (Samguk sagi, 7:222-223).
La “delegittimazione intellettuale” della Scuola di Diplomazia, se mai effettivamente avvenuta, sembrava essere parte del ripensamento dell’Impero Han di tutto il patrimonio intellettuale precedente (incluso Confucio) (Tseluiko, 2024). Ciò comportò un riassetto delle idee imperiali, ora basate sulla condanna del tirannico imperatore Qin Shi Huang, sulla moralità e la virtù e sui conseguenti limiti all’autocrazia, alla crudeltà e alla bellicosità.[20]
L’esempio negativo dell’Impero Qin divenne cruciale per il confucianesimo. Oggi, i ricercatori osservano giustamente che i cinesi trattavano i “barbari” con disprezzo e arroganza, sottolineando la loro intrinseca crudeltà, maleducazione e avidità (Wang, 2013, pp. 217-219). I vicini confuciani della Cina fecero lo stesso: nelle Dieci ingiunzioni (訓要十條) (attribuite al fondatore dello Stato coreano di Koryŏ), Khitai (non ancora pari all’imperatore cinese o al sovrano di Koryŏ) è definita “la terra degli uccelli e delle bestie”, ovvero dei selvaggi (Chesnokova, Kolnin e Glazunova, 2023, pp. 252-253). Ma tali atteggiamenti ed epiteti erano più spesso associati all’Impero Qin,[21] che veniva descritto come un paese barbaro, un predatore “come un lupo e una tigre” (豺虎), “privo di principi morali” (無道). Queste invettive divennero una designazione stereotipata dell’Altro ostile nell’Asia orientale. Furono utilizzate dal comandante Silla Kim Yusin contro Koguryŏ e Paekche (Samguk sagi, 41:1309), e da Huang Zunxian (Huang, 1880, p. 48) e Yu Kilchung (Yu, 1885, p. 325) contro la Russia. Oggi, i pubblicisti sudcoreani equiparano la Cina moderna all’aggressivo Impero Qin (Cosun Ilbo, 2013).
Il confucianesimo come pensiero politico si è formato nel caos, nell’anarchia e nella lotta brutale che sono stati infine contenuti dal governo centralizzato. Mentre la filosofia politica occidentale cerca di organizzare l’anarchia (anche nelle relazioni internazionali), la filosofia confuciana cerca di armonizzarla.
Attribuiva all’Impero una missione civilizzatrice, descritta in modo aforistico da Confucio come l’insediamento di un uomo nobile tra i barbari: «Se un uomo superiore dimorasse tra loro, quale maleducazione ci sarebbe?» (Analecta, 9:13).
Il contenuto morale ed etico del sistema IR ritualizzava la diplomazia dell’Asia orientale, formando un complesso sistema di comunicazioni simboliche. Esso includeva non solo la nozione tradizionale di “servire i grandi”, ma anche il principio parallelo di “servire i piccoli” (事小),[22] in linea con l'”auto-umiliazione” taoista: “uno Stato grande, condiscendendo agli Stati piccoli, li conquista per sé; e gli Stati piccoli, umiliandosi davanti a uno Stato grande, lo conquistano a loro favore” (Tao Te Ching, 61). In pratica, ciò creava una gerarchia dinamica a più livelli con relazioni rituali-politiche interdipendenti, che inclinavano i partecipanti verso metodi pacifici di influenza piuttosto che verso la violenza. In questo sistema, l’investitura e altri privilegi concessi dal sovrano legittimavano lui tanto quanto i vassalli, e questi ultimi potevano sfruttare gli interessi del sovrano per elevare il loro status internazionale. Se c’erano diversi pretendenti all’egemonia, i vassalli potevano temporeggiare tra loro (come ha fatto la Corea del Nord tra la Repubblica Popolare Cinese e l’Unione Sovietica). Le relazioni tra gli Stati cinesi e coreani forniscono ampi esempi di tale interdipendenza.
Nel VI secolo, i regni cinesi rivali di Wei e Liang si contendevano l’attenzione di Koguryŏ, che inviò ambasciate sia a Wei che a Liang, ricevendo in cambio doni sontuosi e titoli nobiliari. Koguryŏ era allora piuttosto potente; un secolo dopo, l’Impero Sui tentò senza successo di conquistarlo.
In seguito, la competizione tra la dinastia Song e gli stati di Liao e Jin convinse le élite intellettuali e politiche di Koryŏ che Koryŏ era loro pari in termini di cultura, civiltà e potere (Breuker, 2010, p. 256). Koryŏ intraprese quindi alcune azioni piuttosto audaci (e non sempre coronate da successo[23]) e proclamò il suo sovrano Figlio del Cielo. Al culmine di questo sentimento, e in un momento di evidente declino della dinastia Song all’inizio del 1100, alcuni nobili di Koryŏ chiesero al re Injong di proclamare Koryŏ impero e di attaccare i Jin (Breuker, 2010, p. 408). Ciò si concluse in un disastro,[24] ma il punto è che l’idea di diversi imperatori (governanti uguali e sovrani all’interno di un unico sistema internazionale) non sembrava tradimento per l’élite confuciana di Koryŏ, che sarebbe stata felice se il proprio sovrano fosse diventato uno di questi imperatori.
Tale opportunismo politico basato su imperativi morali[25] potrebbe essere definito pragmatismo morale. In questo contesto, seguire la moralità è vantaggioso, poiché garantisce una relativa sicurezza e persino prosperità, mentre la sola forza non può garantirle e genera aggressioni irresponsabili. [26] Il comportamento morale deve essere sostenuto dal potere, ma questo deriva meno dalla forza che dalla virtù. L’uso della forza è ammissibile, ma solo come ultima risorsa di fronte a una minaccia inevitabile. Dopo tutto, sia nella guerra Imjin (1592-1596) che nella guerra di Corea (1950-1953), la Cina è venuta in aiuto del suo vassallo (Chosŏn) o alleato (la Repubblica Popolare Democratica di Corea) solo quando il vassallo/alleato era sull’orlo della sconfitta totale, rappresentando una minaccia immediata per la Cina stessa. Inoltre, il ricordo delle terribili conseguenze di questi interventi (il crollo dell’Impero Ming e il fatto che la Cina sia stata quasi bersaglio di attacchi nucleari statunitensi (vedi Dingman, 1988-1989)) può spiegare l’attuale diffidenza della Cina nei confronti delle alleanze.
Nella tradizione cinese, la moralità (義) e il profitto/interesse (利) sembrano antagonisti, incompatibili come l’acqua e l’olio: secondo Confucio, «l’uomo superiore (nobile) pensa alla virtù (rettitudine/giustizia/moralità); l’uomo meschino pensa al comfort (beneficio/vantaggio/profitto)» (Analecta, 4:11). Tuttavia, un approccio così rigorista (che non può essere ridotto al proverbiale «l’avidità è un male») è stato messo in discussione da vari filosofi cinesi[27] e ora sembra essere caduto in disgrazia. Al vertice BRICS del 23 ottobre 2024, Xi Jinping ha affermato che “un uomo virtuoso considera la rettitudine come il massimo interesse” (Xi, 2024). Questo è un altro esempio di pragmatismo morale, poiché qui l’interesse (nazionale) è incorporato nella rettitudine e nella virtù (cioè nei valori), mentre la rettitudine e la virtù sono designate come interesse fondamentale. I sinologi russi hanno discusso attivamente della “riabilitazione del beneficio/interesse” nel lessico della politica estera cinese (Zuenko, 2024), ma questa discussione sembra essere rimasta confinata a una ristretta cerchia di sinologi ed è passata quasi inosservata agli esperti di relazioni internazionali (per ulteriori informazioni sulla moralità nel discorso politico cinese attuale, cfr. Kubat, 2018; Global Times, 2025).
Il dibattito sul pensiero tradizionale della politica estera dell’Asia orientale è lungi dall’essere concluso. A questo punto, i partecipanti sembrano allontanarsi dalle posizioni radicali. David Kahn ha proposto un’idea di compromesso, sebbene estremamente vaga: «Non c’è nulla di essenziale nella Cina che sia esclusivamente bellicoso o pacifico. Piuttosto, questioni diverse in momenti diversi con avversari diversi possono portare a una diversa propensione all’uso della violenza» (Kang, 2020, p. 78). Ancor prima, il sistema tributario era stato descritto in modo simile da Zhang Feng (2009), a cui si attribuisce la paternità del termine «realismo morale». In generale, l’idea postmodernista secondo cui l’incertezza e la contingenza sono alla base dell’ordine mondiale sta penetrando sempre più nelle discussioni sull’Asia orientale: “Lo studio della storia dell’Asia orientale mostra che gli ordini internazionali sono probabilmente più contingenti – e la gamma di unità politiche più diversificata – rispetto alle ipotesi individualistiche, sovrane e uguali, di Stati in anarchia che sono alla base di quasi tutte le teorie apparentemente universali delle relazioni internazionali (Kang, 2020, p. 89).
Questa discussione e il suo impatto sul comportamento della politica estera della Cina moderna e dei paesi dell’Asia orientale trarrebbero vantaggio da un maggiore coinvolgimento della Russia. Finora, gli esperti russi, nonostante le loro conoscenze ed esperienze, si sono limitati a fornire panoramiche generali (Grachikov, 2012, 2019; Lomanov, 2025) e articoli dettagliati relativi più alla politica interna che a quella estera (Denisov e Adamova, 2017; Lomanov, 2017, 2023; Bashkeev, 2023).
CONCLUSIONE: MAI DIRE MAI
Le prove sopra riportate sono ovviamente lungi dall’essere esaustive. Il loro scopo è quello di illustrare la mia tesi, non di sostanziare una teoria confuciana delle relazioni internazionali.
Tuttavia, ciò dimostra ampiamente che le alleanze, come mezzo per contenere o rafforzare un potenziale egemone, non solo sono riconosciute nel pensiero politico dell’Asia orientale, ma ne costituiscono il fondamento. Anche l’anarchia era riconosciuta, ma considerata contraddittoria rispetto al corretto ordine mondiale e quindi soggetta a pacificazione (principalmente attraverso l’influenza civilizzatrice dell’egemone culturale, ma anche attraverso la conclusione di alleanze e l’uso della forza, se necessario). È fondamentale sottolineare che queste idee sono emerse nell’Asia orientale indipendentemente dall’Occidente, da qui l’accettazione (in varia misura) dei concetti occidentali di relazioni internazionali da parte dei pensatori dell’Asia orientale alla fine del 1800.
Il primato della moralità e della virtù nel confucianesimo lo spinse a riflettere su ciò che dovrebbe essere, piuttosto che su ciò che è, con effetti significativi sullo sviluppo politico dell’intera regione. La riproduzione delle istituzioni imperiali cinesi (compresi elementi del sistema tributario) da parte di vassalli, rivali e persino invasori testimonia l’attrattiva e l’utilità degli insegnamenti del sistema,[28] ma indica anche un potenziale di “conflitti ideologici intensi” che Bordachev rifiuta. “Non sorprende che le unità che hanno rifiutato il confucianesimo e le nozioni siniche di conquista culturale siano coinvolte in conflitti con quelle che hanno abbracciato la cultura sinica” (Kang, 2020, p. 81). La moralità stessa non può proteggere dai conflitti basati sui valori, poiché afferma sempre la priorità di determinati valori.
Conflitti basati sui valori si sono verificati in molti dei paesi della maggioranza mondiale, dalla “civiltà confuciana” e oltre. In Cina c’è stato il maoismo e la sua esportazione. In Iran, la rivoluzione islamica e la sua esportazione. Nella Repubblica Popolare Democratica di Corea, l’identità della politica estera è costruita sull’antimperialismo e l’antiamericanismo.
Nell’analisi storica e politica, sembra privo di significato ridurre il pensiero tradizionale occidentale e orientale in materia di relazioni internazionali rispettivamente al sistema westfaliano e al sistema tributario, e questi a loro volta rispettivamente all’«anarchia delle sovranità uguali» e alla «gerarchia egemonica». Entrambi i modelli descrivono la realtà politica e la sua percezione solo entro determinati limiti spaziali e temporali.
Altrettanto errati sono i tentativi di definire la cultura politica di un paese o di un gruppo di paesi in base agli attributi di cui sono carenti. Attribuire un certo “pensiero non occidentale” a tutti (o anche solo ad alcuni) paesi non occidentali è simile al “nuovo orientalismo”, ovvero al “giudizio categorico” tipico, come sostiene Bordachev, del ragionamento tradizionale europeo (Bordachev, 2025).
Sembra quindi metodologicamente problematico definire la Maggioranza Mondiale sulla base di qualcosa che va oltre gli attuali interessi di politica estera della Russia. La “maggioranza” non ha un’azione sufficiente (Safranchuk, 2025) e, data la sua diversità culturale, politica e soprattutto storica, non può essere considerata una comunità internazionale unificata o un’unità analitica.
Dove va la Geopolitica: frammentazione, tecnologia e nuove aree strategiche – Where Is Geopolitics Going: Fragmentation, Technology, and New Strategic Areas
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Abstract – Il documento esplora la trasformazione in atto della geopolitica globale nell’era post-globalizzazione. Attingendo alla recente letteratura accademica e politica (2024-2025), identifica tre dinamiche interconnesse che plasmano l’ordine internazionale: la frammentazione economica e finanziaria, l’emergere della tecnologia come dominio geopolitico e la centralità strategica di regioni come l’Artico e l’Indo-Pacifico. Lo studio sostiene che il mondo non si sta semplicemente spostando verso la multipolarità, ma verso un sistema “fratturato” di blocchi paralleli e spesso in competizione tra loro. La tecnologia – in particolare l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e la governance dei dati – è diventata un campo di battaglia chiave nella competizione per il potere. Allo stesso tempo, le architetture finanziarie e i regimi di sovranità dei dati stanno ridefinendo i concetti di interdipendenza e sicurezza. Il risultato è uno scenario complesso in cui la sovranità, un tempo legata al controllo territoriale, si estende ora alle infrastrutture digitali, tecnologiche e finanziarie. Il documento conclude che la frammentazione non è un’anomalia temporanea, ma la nuova normalità della geopolitica del XXI secolo, che richiede nuovi quadri analitici per comprendere una competizione per il potere sempre più multidimensionale.
Abstract – The paper explores the ongoing transformation of global geopolitics in the post-globalization era. Drawing on recent academic and policy literature (2024–2025), it identifies three interrelated dynamics shaping the international order: economic and financial fragmentation, the emergence of technology as a geopolitical domain, and the strategic centrality of regions such as the Arctic and the Indo-Pacific. The study argues that the world is shifting not merely toward multipolarity but toward a “fractured” system of parallel and often competing blocs. Technology—particularly artificial intelligence, semiconductors, and data governance—has become a key battlefield of power competition. At the same time, financial architectures and data sovereignty regimes are redefining the concepts of interdependence and security. The result is a complex scenario where sovereignty, once tied to territorial control, now extends to digital, technological, and financial infrastructures. The paper concludes that fragmentation is not a temporary anomaly but the new normal of 21st-century geopolitics, requiring new analytical frameworks to understand an increasingly multidimensional competition for power.
Keywords: geopolitics, fragmentation, technology, artificial intelligence, financial networks, data sovereignty, Indo-Pacific, Arctic, multipolarity, global order.
Introduzione
La geopolitica, intesa come studio delle interazioni tra potere, spazio e risorse, sta vivendo una fase di profonda trasformazione. Se nel decennio successivo alla Guerra Fredda il dibattito si è spesso concentrato sulla globalizzazione e sull’illusione di un ordine liberale universale, gli sviluppi più recenti indicano invece una traiettoria di crescente frammentazione. Gli studi pubblicati tra il 2024 e il 2025, provenienti tanto dal mondo accademico quanto dai think tank e dalle riviste specialistiche, convergono nel delineare un quadro globale segnato da tre dinamiche interconnesse: la rottura delle catene economiche e finanziarie globali, l’emergere della tecnologia come dominio geopolitico e la crescente rilevanza di nuove aree strategiche come l’Artico e l’Indo-Pacifico.
1. Frammentazione e nuovi blocchi globali
Uno dei concetti più ricorrenti negli studi del 2025 è quello di fracturing, sviluppato da Neil Shearing nel volume The Fractured Age¹. L’autore sostiene che l’economia mondiale non stia semplicemente transitando verso un sistema multipolare, bensì verso un assetto “fratturato”, caratterizzato dalla coesistenza di blocchi paralleli e spesso antagonisti.
Questa tendenza è confermata da analisi provenienti dal Geopolitics Centre di JPMorgan², secondo cui le tariffe introdotte dagli Stati Uniti nei settori critici – semiconduttori, difesa, telecomunicazioni – non rappresentano misure temporanee legate a cicli elettorali, ma strumenti strutturali destinati a perdurare. Ciò implica che il protezionismo e la sicurezza economica siano ormai parte integrante della politica estera, con ricadute significative sulla configurazione delle catene del valore globali.
In sintesi, la letteratura recente sottolinea come il concetto di “globalizzazione” si stia rapidamente trasformando: non più un unico mercato integrato, bensì una serie di ecosistemi regionali parzialmente interconnessi e in competizione tra loro.
2. Tecnologia come dominio geopolitico
Un secondo filone centrale degli studi più recenti riguarda il ruolo della tecnologia come nuovo terreno di conflitto geopolitico. Il Time ha definito l’intelligenza artificiale il “nuovo petrolio geopolitico”³, richiamando l’idea che il controllo delle infrastrutture tecnologiche – dai semiconduttori al cloud, fino ai modelli di intelligenza artificiale – determinerà i futuri equilibri di potere.
Tra gli studi accademici, merita particolare attenzione il lavoro di Toushik Wasi e colleghi, Generative AI and Geopolitics in Industry 5.0⁴, che interpreta l’intelligenza artificiale generativa come un asset strategico cruciale. Secondo gli autori, la competizione non si gioca solo sulla capacità di produrre tecnologie avanzate, ma anche sulla governance e sul grado di accesso consentito agli attori statali e privati.
In parallelo, William Guey e collaboratori hanno condotto uno studio empirico sul bias geopolitico nei modelli linguistici di ultima generazione⁵. Analizzando undici LLM, gli autori hanno dimostrato che la lingua, la narrativa e il framing delle domande influenzano la “posizione” geopolitica delle risposte, con inclinazioni pro-USA o pro-Cina. Questo dato apre scenari significativi sul piano del soft power tecnologico: gli strumenti digitali non sono neutrali, ma incorporano visioni del mondo che possono influenzare opinioni e decisioni politiche a livello globale.
Gli studi convergono dunque nell’evidenziare come la tecnologia non sia soltanto uno strumento economico, ma un campo di battaglia geopolitico a tutti gli effetti.
3. Geopolitica finanziaria
Un terzo ambito di particolare attenzione è quello della finanza internazionale. Antonis Ballis, nel paper Geopolitical Tensions and Financial Networks (2025), analizza l’evoluzione dei sistemi di pagamento globali in un contesto di crescente polarizzazione⁶. L’uso di SWIFT come strumento di pressione contro la Russia a seguito della guerra in Ucraina ha accelerato la ricerca di alternative, in primis il sistema cinese CIPS e le valute digitali di banca centrale (CBDC).
Secondo Ballis, la nascita di architetture finanziarie parallele rischia di indebolire la coerenza del sistema globale, aumentando l’incertezza e i rischi sistemici. L’ipotesi di una “guerra fredda finanziaria” non appare dunque lontana: le reti di pagamento e le valute diventano strumenti di potere non meno importanti delle basi militari o dei corridoi marittimi.
Questo filone di studi evidenzia come la geopolitica contemporanea non si giochi più solo nello spazio fisico, ma anche in quello invisibile delle transazioni e degli algoritmi finanziari.
4. Nuove aree strategiche: Artico e Indo-Pacifico
Parallelamente ai domini economici e tecnologici, la letteratura recente segnala la crescente rilevanza di aree geografiche specifiche. L’Artico, in particolare, è descritto dal Times come il nuovo “Grande Gioco”⁷. Lo scioglimento dei ghiacci apre rotte commerciali e nuove possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche, stimolando una competizione che vede protagoniste Russia e Cina.
Un discorso analogo riguarda l’Indo-Pacifico. Il Centre for Strategic and International Studies (CSIS) ha recentemente proposto una ristrutturazione del partenariato AUKUS⁸, in particolare del cosiddetto Pillar II, che riguarda la cooperazione in ambito tecnologico e difensivo. L’accento posto su sistemi autonomi, difesa a lungo raggio e intelligenza artificiale indica una chiara volontà di rafforzare la deterrenza nei confronti della Cina. Ciò conferma che la regione indo-pacifica rimane l’epicentro delle tensioni strategiche del XXI secolo, dove convergono interessi militari, commerciali e tecnologici.
5. Sovranità dei dati e governance digitale
Un ultimo filone emergente è quello relativo alla sovranità digitale. Secondo analisi pubblicate da Techradar (2025), la geopolitica sta imponendo ai governi un ripensamento radicale delle politiche di gestione dei dati⁹. L’idea di data sovereignty implica che i dati prodotti all’interno di un territorio debbano essere soggetti a regole nazionali, anziché a standard globali uniformi.
Questo approccio, già visibile nell’Unione Europea attraverso il cosiddetto “effetto Bruxelles”, si traduce in una crescente frammentazione normativa. Il rischio è quello di una “balcanizzazione del cyberspazio”, in cui Internet non rappresenta più uno spazio universale, ma una costellazione di ecosistemi normativi nazionali e regionali. Ciò solleva questioni cruciali sulla compatibilità tra innovazione tecnologica, libertà individuali e strategie di sicurezza.
6.Trends emergenti
Dall’analisi delle ricerche più recenti emergono quattro pattern principali:
Dal multipolare al frammentato: il sistema internazionale non si limita a moltiplicare i poli di potere, ma si struttura in blocchi paralleli, ciascuno con proprie regole, infrastrutture e reti.
Tecnologia come campo di battaglia: IA, semiconduttori, cloud e sistemi digitali rappresentano oggi armi strategiche tanto quanto gli armamenti convenzionali.
Regionalizzazione della sicurezza: l’Artico e l’Indo-Pacifico assumono un ruolo cruciale, insieme al cyberspazio, come nuove frontiere della competizione geopolitica.
Sicurezza come sovranità: che si tratti di dati, catene di approvvigionamento o architetture finanziarie, gli Stati tendono a riaffermare il controllo nazionale o regionale, riducendo la dipendenza da reti globali.
Conclusione
Gli studi più recenti in geopolitica confermano che il mondo sta vivendo una fase di transizione complessa, caratterizzata da un passaggio dall’interdipendenza alla frammentazione. Lungi dal rappresentare una fase temporanea, tale processo sembra destinato a plasmare l’ordine globale dei prossimi decenni.
Per gli studiosi e i decisori politici, ciò implica la necessità di sviluppare nuovi strumenti analitici capaci di comprendere sistemi paralleli, reti tecnologiche non neutrali e forme inedite di sovranità. La geopolitica del XXI secolo non si limita più alla geografia fisica: essa abbraccia la finanza, la tecnologia e il cyberspazio, configurando un terreno di competizione multiforme e in rapida evoluzione.
In questo scenario, l’elemento comune rimane la centralità del potere: chi controlla le infrastrutture materiali e immateriali, le regole di accesso e i flussi di dati e capitali, determinerà i futuri equilibri globali. La sfida per il pensiero geopolitico è dunque quella di adattarsi a una realtà in cui la frammentazione non è un’anomalia, ma la nuova normalità.
Bibliografia
Neil Shearing, The Fractured Age. London: Times Books, 2025.
Reuters, “Tariffs on Crucial Sectors Could Last Beyond Trump Era, Says JPMorgan’s Geopolitics Centre,” 6 agosto 2025.
Charlotte Alter, “The Politics, and Geopolitics, of Artificial Intelligence,” Time Magazine, luglio 2025.
Toushik Wasi et al., “Generative AI as a Geopolitical Factor in Industry 5.0,” arXiv preprint, agosto 2025.
William Guey et al., “Mapping Geopolitical Bias in 11 Large Language Models,” arXiv preprint, marzo 2025.
Antonis Ballis, “Geopolitical Tensions and Financial Networks,” arXiv preprint, maggio 2025.
Michael Evans, “UK Must Be a Player in the Arctic ‘Great Game’,” The Times, luglio 2025.
Centre for Strategic and International Studies (CSIS), “Overhauling AUKUS: Push to Streamline Pillar II,” The Australian, agosto 2025.
Joel Khalili, “Geopolitics Is Forcing the Data Sovereignty Issue—and It Might Just Be a Good Thing,” Techradar Pro, agosto 2025.
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La settimana scorsa ho fatto un commento di sfuggita sulla natura dilettantesca e disorganizzata della campagna internazionale per cercare di porre fine al massacro di Gaza, paragonandola a quella che potrebbe essere una campagna organizzata con competenza. Con mia lieve sorpresa – poiché pensavo di affermare una verità ovvia – questo ha infastidito alcune persone, qui e su altri siti. Ma poi ho riflettuto sul fatto che l’episodio in realtà illustra un problema più ampio e fondamentale, ovvero la differenza tra la realtà di come viene effettivamente prodotta la salsiccia politica e le supposizioni e le aspettative di coloro che cercano di capire o addirittura influenzare le cose dall’esterno della fabbrica. Quindi ho pensato che questo potesse essere un buon momento per indossare i nostri dispositivi di protezione e le nostre mascherine, e avventurarci all’interno della fabbrica per vedere come vengono generalmente fatte le cose.
È ovvio che in alcune circostanze gli esterni possono influenzare, e lo fanno, il modo in cui si prepara la salsiccia politica, ma la prima cosa da capire è che questa influenza non deriva necessariamente dalla forza delle argomentazioni, né tantomeno dall’intensità con cui gli esterni sostengono le proprie opinioni. Nella mia esperienza, tanto con le cause che simpatizzo quanto con quelle che disapprovo, questo è il più grande ostacolo intellettuale che si trovano ad affrontare i sostenitori esterni con forti convinzioni morali. Più fortemente sostengono queste convinzioni, più è difficile per loro immaginare che ci siano altri che sinceramente non le condividono, e forse hanno opinioni opposte altrettanto forti delle loro: è fatalmente facile immaginare che il solo fervore morale possa trascinare tutti. Ho incontrato diversi esponenti di ONG che sembrano sinceramente perplessi dal fatto che quando danno istruzioni al loro governo su come comportarsi, dalla loro presunta posizione di superiorità morale, il governo non obbedisca immediatamente. Ma non è così che si preparano le salsicce, né (per usare forse una metafora più precisa) il modo in cui vengono scelti gli ingredienti.
Il primo e più importante criterio per influenzare con successo la ricetta è la competenza: né il denaro né la fanfaronata politica di per sé possono sostituirla. E un gruppo di persone fuori da un centro commerciale che sventola bandiere palestinesi e canta “Palestina libera, qualunque cosa significhi esattamente”, non mi sembra molto competente o efficace se lo scopo è aiutare la popolazione di Gaza. Se lo scopo è sentirsi bene con se stessi e partecipare simbolicamente alle sofferenze di Gaza, ovviamente, la questione è diversa. Ma in realtà esistono esempi di campagne politiche esterne ben pianificate e coordinate, che hanno avuto un effetto misurabile sullo sviluppo di alcune crisi internazionali. Diamo un’occhiata a un paio di esempi classici.
Nel 1992, dopo lo scoppio dei combattimenti in Bosnia, il governo musulmano di Sarajevo, generosamente finanziato dagli Stati del Golfo, si rivolse alle agenzie di pubbliche relazioni statunitensi per cercare di promuovere quello che era sempre stato il suo obiettivo principale: far entrare gli Stati Uniti in guerra dalla loro parte. Sebbene non ci riuscirono del tutto, influenzarono notevolmente i media statunitensi e le ONG vicine alla campagna di Clinton, e questo a sua volta ebbe una grande influenza sulla politica statunitense sotto Clinton. Identificando il loro pubblico principale (i media, le ONG e gli studenti universitari), si misero alla ricerca di quali storie di atrocità avrebbero maggiormente mobilitato quel pubblico. Quella che ancora oggi si pensa sia la realtà della guerra in Bosnia (genocidio, stupri di massa, ecc.) si basava su storie costruite, propinate e acriticamente diffuse da media statunitensi compiacenti e collaborativi. Tutto ciò che serviva erano denaro e organizzazione. Un esempio simile, quindici anni dopo, fu la Darfur Solidarity Campaign, il cui unico obiettivo era convincere il governo statunitense a intervenire militarmente in Darfur. Lautamente finanziato e con sedi distaccate in tutte le principali università degli Stati Uniti, l’unica caratteristica discutibile ( sottolineata da Mahmood Mamdani, sì, il padre di Zoran) era che letteralmente nessuno dei fondi era destinato ad aiutare i Fur: tutto era speso per fare lobbying negli Stati Uniti. E naturalmente, in entrambi i casi, il rapporto con la realtà della situazione sul campo era, diciamo, ambiguo.
Ho avuto questo tipo di conversazione diverse volte con la comunità che ha a cuore queste questioni, e il risultato è sempre lo stesso. “Se vuoi avere successo, hai bisogno di organizzazione, disciplina e la volontà di assestare qualche colpo illegale.” “Ma moralmente siamo nel giusto. Non ci abbassiamo a queste tattiche.” “Beh, allora lo farà l’altra parte. Quanto seriamente vuoi vincere?” Alla fine, la risposta tende a essere “non molto”, nella misura in cui vincere implica quasi sempre compromessi morali. Non voglio essere ingiustamente critico nei confronti delle ONG e di gruppi simili, dato che dopotutto abbiamo a che fare con una componente fondamentale della natura umana, ma è vero che, rispetto a lavorare per un governo, per non parlare di un’agenzia di pubbliche relazioni, è più probabile che tu voglia avere una buona opinione di te stesso se lavori per una ONG umanitaria o per un gruppo di pressione politico. In effetti, più ancora dei governi, queste organizzazioni tendono a lasciarsi attrarre da campagne e attività puramente performative che sembrano buone e, a differenza dei governi, trovano difficile mantenere un distacco scettico.
A questo proposito, ricordo una conversazione con un’operatrice di una grande ONG umanitaria di molti anni fa, in cui discutevamo della proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro in Africa, per lo più residui di massicce forniture sovietiche e cinesi durante la Guerra Fredda. Concordai sul fatto che fosse un problema: ne avevo visto alcuni effetti sul campo. Beh, disse, è un problema troppo grande e non possiamo farci niente. Ma possiamo invece fare una campagna per porre fine alle esportazioni di armi dal Regno Unito. Sapeva qual era il mercato più grande per le attrezzature di difesa del Regno Unito, chiesi? No. Beh, era, e credo lo sia ancora, gli Stati Uniti. Ma non è questo il punto: il punto è trovare un sostituto magico e simbolico al problema che non può essere risolto, e organizzare una campagna performativa attorno ad esso. C’è una stretta analogia con la Convenzione di Ottawa del 1997 per la messa al bando delle mine terrestri. A quei tempi, c’era un numero molto elevato di mine di questo tipo, per lo più in Africa e, ancora una volta, gentilmente donate dall’Unione Sovietica e dalla Cina. Alcune aree erano impraticabili e la vita era difficile e pericolosa per le popolazioni locali, tanto più che esistevano poche, se non nessuna, mappe affidabili. Ciò che serviva era una campagna a lungo termine e ben finanziata per addestrare la popolazione locale alle tecniche di smaltimento sicuro delle mine. Ma si trattava di un’area per tecnici specializzati, e ci sarebbe voluto almeno un decennio di sforzi poco brillanti e pericolosi. Non si può organizzare una campagna di pubbliche relazioni su questo, quindi perché non insistere per vietare la produzione di nuove mine antiuomo? Era facile, perché le mine sono l’arma dei poveri per eccellenza (come l’Afghanistan avrebbe presto dimostrato), quindi gli stati occidentali spinsero con entusiasmo per il Trattato. Problema risolto. E poi, un paio d’anni dopo, iniziarono ad apparire sulla nascente rete Internet storie che lamentavano il fatto che, nonostante il Trattato, in Africa le persone continuavano a essere uccise e ferite dalle mine antiuomo. Cosa pensavano che sarebbe successo, mi chiedevo? Pensavano che il Trattato avrebbe causato la distruzione spontanea delle mine sepolte nel terreno africano, per la vergogna? Dopo tutti questi anni non ne sono ancora sicuro.
Ma supponiamo, per il resto di questo saggio, che le persone abbiano obiettivi genuini per i quali siano sinceramente impegnate e vogliano in qualche modo influenzare il processo di produzione delle salsicce. Ma per farlo bisogna capirlo. La prima cosa da capire è che ciò che si legge o si studia sul governo e sul processo decisionale politico è, nella migliore delle ipotesi, un’astrazione necessaria e, nella peggiore, una favola. Ora, non intendo con questo incoraggiare i resoconti altrettanto fantasiosi di cabale segrete e governi mondiali che sono popolari da secoli, ma piuttosto sostenere, se preferite, che il Tao del governo che può essere descritto non è il vero Tao, e in effetti non potrà mai esserlo. Politologi e giuristi costituzionalisti pubblicano libri e tengono conferenze su strutture e processi formali. Queste strutture e processi esistono davvero, ma esistono a livello di forma, senza riferimento al contenuto. Pertanto, le leggi possono essere descritte come originate dal governo, discusse pubblicamente, presentate in una Camera bassa, discusse, votate, approvate, inviate a una Camera alta, emendate, ritrasmesse, ulteriormente discusse, ripresentate alla Camera alta, approvate, trasmesse a una Corte Costituzionale per la convalida e infine firmate da un Capo di Stato. Bene, ma cosa ci dice questo? Nulla in realtà, se non sui processi e le strutture formali. Non ci dice perché leggi o iniziative vengano introdotte in primo luogo, perché possano essere sostenute o osteggiate, perché i governi diano più o meno importanza a determinate leggi e iniziative, perché e come possano essere modificate o perché possano persino essere ritirate. Né una tale struttura dice nulla sul sistema politico: molto di quanto sopra è applicabile al sistema della vecchia Unione Sovietica, dove il suo Parlamento riusciva occasionalmente a modificare le proposte di legge.
Avrete anche letto della famosa Separazione dei Poteri tra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. Anche in questo caso, queste istituzioni e funzioni esistono, ma oggigiorno il potere è molto spesso integrato piuttosto che separato. Per cominciare, in quello che è noto come modello di governo Westminster, in cui il partito o la coalizione più grande forma il governo, è proprio perché l’Esecutivo controlla il Parlamento che può costituirsi come Esecutivo. Nella Francia di oggi, dove il sistema è simile ma non identico, l’Esecutivo ha perso il controllo del Parlamento e deve cercare di sopravvivere giorno per giorno. E, a tal proposito, i manuali di Diritto Costituzionale scritti sotto la Quinta Repubblica contengono ora tutta una serie di giudizi convenzionali su come dovrebbe funzionare il sistema che appaiono un po’ traballanti. Si scopre, ad esempio, che i poteri del Presidente sono in gran parte una questione di consuetudine: e che ciò che dice la Costituzione non è molto chiaro, per usare un eufemismo.
Anche in questo caso, il personale dei presunti tre rami del governo, per non parlare della burocrazia locale e nazionale, delle forze di sicurezza e di altri, tende generalmente a conoscersi, proviene più o meno dallo stesso background e può persino essere imparentato per via familiare o matrimoniale. Questa è la nomenklatura di cui ho parlato di recente. E i confini tra i presunti poteri “separati” stanno diventando sempre più permeabili. Un buon esempio è la crescente influenza politica della magistratura, sia nazionale che europea. Gran parte della legislazione che riguarda questioni come i diritti umani viene utilizzata dagli attivisti in modi inaspettati, per affrontare argomenti che all’epoca non erano stati presi in considerazione. I giudici stanno quindi giocando una parte politica nel dire ai Parlamenti quali leggi possono o non possono approvare, basandosi in ultima analisi sulle loro opinioni personali. Questo è particolarmente vero per la Corte europea dei diritti dell’uomo, il cui trattamento sprezzante dei Parlamenti nazionali sta suscitando scalpore in molti paesi, non solo nel Regno Unito, e produce decisioni imprevedibili e spesso incomprensibili. Sembra quindi che i vari reparti della Sausage Factory non funzionino come previsto dall’organigramma e che il Controllo Qualità e il Marketing siano in realtà collegati tra loro.
Quindi, il massimo che si possa fare è raggiungere un livello di comprensione equivalente a quello di una fabbrica di salumi vista dall’esterno. Arrivano camion carichi di maiali morti. Partono camion carichi di salsicce pronte, si vedono lavoratori entrare e uscire, si sa che i maiali vengono allevati e macellati altrove, ed è evidente che le salsicce vengono vendute nei negozi. Occasionalmente, piccoli gruppi di visitatori possono essere ammessi, di solito con qualche tipo di funzione igienica o di salute e sicurezza. In rare occasioni, la fabbrica può essere chiusa in modo inspiegabile. Possono persino essere pubblicati dei resoconti. Ma sulla produzione effettiva delle salsicce, si fa molto per ipotesi, ma si sa poco con certezza. Occasionalmente, compaiono ricette che pretendono di provenire dalla fabbrica e vengono analizzate da giornalisti gastronomici eccitati. Ma per la maggior parte, chi sa non parla, e chi parla non sa.
Il governo è in un certo senso così, con la condizione che il Tao del processo decisionale governativo sia tutt’altro che un processo semplice e lineare. Ma segue una sua logica che abbiamo già discusso più volte: la logica delle forze che agiscono sui corpi, la logica degli attori, degli obiettivi, delle risorse e del relativo successo e fallimento. Nella maggior parte dei casi, questa logica è strutturalmente guidata, il che significa che i meriti dell’argomentazione stessa tendono a essere secondari rispetto alle questioni politiche che la circondano. Un esempio classico è la Brexit, dove in tutte le fasi, dalla decisione di indire un referendum fino agli ultimi momenti dei negoziati, la questione di fondo del valore per la Gran Bretagna dell’essere in Europa ha ricevuto poca o nessuna attenzione da parte del governo. La promessa di indire un referendum è stata un contentino, ironicamente, per la minoranza rumorosa in Gran Bretagna che in realtà nutriva forti sentimenti per l’argomento. Quindi, indire un referendum, vincerlo (come era successo nel 1975, dopotutto) e l’argomento sarebbe scomparso. Ma il governo, disinteressato all’argomento in quanto tale, ha dedicato ben poco impegno alla campagna per il Remain, se non quello di cercare di intimidire e intimidire gli elettori affinché facessero la cosa giusta. L’inevitabile sconfitta avrebbe potuto essere gestita in modo molto diverso se un leader conservatore avesse effettivamente riflettuto sul merito della questione e sugli interessi della nazione, ma non è stato così. David Cameron si è dimesso per evitare di assumersi la responsabilità della sua disastrosa serie di decisioni. A quel punto, qualsiasi governo ragionevole avrebbe riflettuto almeno un po’ sull’interesse nazionale, avrebbe preso tempo e si sarebbe confrontato con i partner europei. Ma Theresa May ha deciso di lanciarsi in una corsa folle verso l’uscita per ragioni strettamente personali e politiche, solo per cadere al penultimo ostacolo ed essere eliminata, soppiantata e sostituita da Boris Johnson, sul quale… no, non posso permettermi di entrare nei dettagli. Dall’inizio alla fine, la priorità assoluta del Partito Conservatore, tutto ciò di cui parlava internamente e l’influenza schiacciante sulle sue scelte negoziali, se così si possono chiamare, era la sua stessa sopravvivenza politica. In effetti, dal punto di vista dell’interesse nazionale, o anche della logica banale, molte delle decisioni prese sono state assolutamente straordinarie.
Si tratta di un’agonia ben nota, che si è consumata in un contesto semi-pubblico, e che ha fornito un esempio sorprendentemente crudo, quasi caricaturale, di come spesso vengono prese le decisioni politiche. Ma le stesse cose accadono quotidianamente, quando questioni essenzialmente procedurali prendono la priorità su qualsiasi questione di principio o persino di fatto. Spesso, le decisioni quotidiane vengono prese a causa di un temporaneo equilibrio di vantaggi politici all’interno o tra i partiti, che potrebbe apparire diverso l’anno successivo. (Lo stesso vale spesso a livello internazionale, come vedremo). E molte decisioni vengono prese per impostazione predefinita o semplicemente si prendono da sole, perché nessuno riesce a trovare l’energia per opporsi in modo organizzato. E in molti altri casi, quando sorgono questioni di principio, sono completamente diverse da quelle utilizzate come difesa pubblica e spesso non hanno alcun collegamento con alcun “dibattito” pubblico.
Un buon esempio di ricetta per salsicce preparata secondo regole mai riconosciute pubblicamente sarebbe la decisione presa negli anni ’80 di sostituire il sistema nucleare Polaris sui sottomarini missilistici nucleari britannici con il Trident. Ne parlerò a titolo di esempio perché ero presente all’epoca, sebbene non direttamente coinvolto. Ora, la dottrina nucleare di qualsiasi potenza nucleare, dichiarata o meno, consiste in gran parte di cose che non si possono dire o su cui non si vuole essere precisi, e la Gran Bretagna non faceva eccezione. Gli inglesi erano stati coinvolti nello sviluppo di armi nucleari fin dall’inizio e si aggrapparono a una capacità nucleare indipendente – a un costo considerevole – come parte del mantenimento dello status di Grande Potenza con la caduta dell’Impero. L’elenco delle ragioni non riconosciute per questa decisione è lungo e non necessariamente coerente internamente. Dopo la ” crisi Skybolt” del 1962, non c’erano altre alternative se non quella di acquistare il sistema statunitense Polaris, e quando giunse il momento della sua sostituzione, la scelta del Trident (a fronte dei costi astronomici e delle incertezze legate allo sviluppo e alla produzione di un missile a livello nazionale) si impose praticamente da sola. Gli inglesi, invece, investirono massicciamente nell’aggiornamento delle loro testate, del sistema di guida e della catena di comando e di fuoco nazionale. Ma perché rimanere una potenza nucleare? Per capirlo, dobbiamo dimenticare la guerra e il tintinnio di sciabole e indossare un altro paio di occhiali.
Innanzitutto, l’inerzia è sempre più facile del cambiamento. Rinunciare alle armi nucleari avrebbe significato retrocedere volontariamente alla Divisione II delle potenze mondiali, insieme a Germania e Canada, e probabilmente cedere il seggio permanente del Regno Unito nel Consiglio di Sicurezza. Avrebbe significato cedere il primato sulle questioni di difesa europea alla Francia e perdere una grande influenza sugli Stati Uniti, oltre a perdere una grande influenza su tutto ciò che riguarda il controllo degli armamenti nucleari, la non proliferazione o i negoziati sul disarmo. E per cosa, esattamente? Sarebbe stato un atto di automutilazione politica.
Naturalmente, c’erano anche molte ragioni positive, alcune contraddittorie, come è nella natura della politica, dopotutto. Gli inglesi si erano trincerati, come da tradizione, in una posizione di discreta ma reale influenza sugli Stati Uniti sulle questioni nucleari, e si erano resi un interlocutore privilegiato: l’unico al di fuori degli Stati Uniti e, per molti settori del governo statunitense, un interlocutore più facile da interloquire rispetto ad altre parti. Le armi nucleari britanniche diluirono l’influenza degli Stati Uniti nel Nuclear Planning Group e nelle discussioni sulle questioni nucleari in generale, cosa che molte nazioni europee accolsero con favore. I francesi furono nel complesso favorevoli: ciò rese il Regno Unito più competitivo, ma allo stesso tempo distolse in qualche modo l’attenzione dal loro status nucleare e rese la loro posizione P5 più facile da difendere. Vedevano anche il Trident come una potenziale componente di una forza nucleare europea indipendente (in pratica franco-britannica) in futuro, e di fatto uno stimolo alla cooperazione militare bilaterale in generale. Al contrario, molte nazioni europee sarebbero state scontente se la Francia fosse stata l’unica potenza nucleare in Europa e consideravano gli inglesi un utile fattore di bilanciamento. Da parte loro, anche gli Stati Uniti trovarono utile non essere individuati come l’unica potenza nucleare nella Struttura Militare Integrata. E naturalmente c’era il timore atavico di essere lasciati soli di nuovo come nel 1940: gli inglesi non erano più fiduciosi di qualsiasi altra nazione che gli Stati Uniti si sarebbero schierati effettivamente con l’Europa in una crisi con l’Unione Sovietica quando si fosse arrivati al dunque, qualunque cosa dicesse il Trattato di Washington.
Questa, ovviamente, è solo la punta dell’iceberg, e c’erano molti altri argomenti positivi e negativi a favore del mantenimento della potenza nucleare: di fatto non ce n’era nessuno contrario, a parte quelli di bilancio interno. Ma per definizione, pochi di questi argomenti potevano essere effettivamente resi pubblici, ed è interessante notare che praticamente nessuno di essi aveva nulla a che fare con le dottrine nucleari pubblicate, o con la rigogliosa letteratura accademica sulla teoria della deterrenza e dell’escalation che proliferava all’epoca. Persone come il povero Bernard Brodie avrebbero potuto benissimo vivere in un universo parallelo. Ma è anche vero che, sebbene negli anni ’80 ci fosse un “dibattito” pubblico molto attivo (o almeno rumoroso), ci fu scarso impegno sul tipo di questioni che erano effettivamente importanti e che figuravano nella letteratura strategica aperta. C’erano alcuni scettici che si opponevano al Trident per motivi economici o politici, ma l’opposizione in generale proveniva dalla Campagna per il Disarmo Nucleare e dai suoi satelliti, il cui approccio evitava del tutto le argomentazioni pratiche, enfatizzando la condanna morale e la richiesta preventiva che il governo facesse ciò che gli veniva detto. Eppure, nonostante tutto il loro ardente fervore morale, la CND non riusciva a comprendere di rappresentare una minoranza dell’opinione pubblica (mai più di un terzo) e che la loro certezza morale non dava loro automaticamente diritto a uno status politico speciale. Questa collisione di approcci – quello severamente pratico, persino sordido, contro quello apocalitticamente moralizzante – inevitabilmente non produsse alcun risultato. In effetti, almeno secondo la mia osservazione, la CND non era interessata a come venissero prodotti e consumati i “salsicciotti” della politica nucleare, e non fece nulla per informarsi. Alcuni, certamente, credevano che i missili Trident fossero a combustibile liquido, che fossero immagazzinati all’interno delle imbarcazioni con le testate attaccate, e che un singolo errore avrebbe potuto causare un’esplosione atomica che avrebbe distrutto metà della Scozia. Niente di tutto ciò era realmente vero, ma non era questo il punto.
Mi sono soffermato su questo episodio in parte perché ero lì, ma soprattutto perché mostra in una forma molto pura, quasi caricaturale, la differenza tra le ipotesi su come le decisioni vengono prese e influenzate nel governo viste dall’interno, rispetto a quelle esterne. Un esempio moderno paragonabile è ovviamente l’Ucraina, dove la politica procede a tentoni da una sconfitta all’altra semplicemente perché ci sono così tanti fattori interni che rendono impossibile un ritorno, anche se pochi di essi possono essere discussi pubblicamente. In effetti, l’Ucraina è un buon esempio della mia osservazione che le decisioni spesso alla fine vengono prese da sole: in Ucraina, come in molti altri errori disastrosi simili, è impossibile dire esattamente quando una data “decisione” importante sia stata effettivamente presa. Questo è il motivo per cui gli storici scrivono libri così lunghi e complessi sulle “origini” delle guerre e sulla loro inevitabilità. Ciò che tende ad accadere nella pratica è che le crisi procedono con angosciante lentezza attraverso innumerevoli decisioni banali: questo incontro, quel bilaterale, questo comunicato, quella decisione, questo documento politico… e a un certo punto persone come me alzano lo sguardo dalle loro scrivanie e si fissano a vicenda, chiedendosi “come diavolo siamo arrivati a questo punto?”. Un funzionario di un governo europeo che si è addormentato nel 2017 e si è risvegliato cinque anni dopo l’inizio della guerra in Ucraina, quasi certamente si sentirebbe allo stesso modo una volta ripresosi dallo shock. In realtà, solo gli storici hanno la possibilità di presentare tutto questo in un formato comprensibile, e solo molto tempo dopo. E solo gli storici, forse, possono davvero sperare di districare il groviglio di fattori che, in pratica, rendono sempre più facile andare avanti a breve termine piuttosto che tornare indietro, anche quando tornare indietro è ovviamente la cosa giusta da fare.
Il fatto che le “decisioni” spontanee, ponderate e ponderate siano rare in politica è uno degli aspetti chiave da comprendere. Certo, le decisioni possono essere prese e registrate formalmente, ma in molti casi questa è la fase meno importante del processo. I politici scrivono memorie soprattutto per cercare di convincere il loro pubblico che le decisioni che sono stati costretti a prendere o a cui non hanno potuto sottrarsi sono state in realtà il frutto di un’attenta riflessione e di un lungo dibattito, ma solo gli ingenui più incalliti credono che ciò accada molto spesso. E in ogni caso, non c’è quasi mai il tempo di fermarsi a riflettere sulle decisioni importanti. Mentre a livello macro gli eventi in una crisi importante possono sembrare lenti e ponderati, a livello tattico tutto è un susseguirsi di attività confuse, una micro-decisione che si accumula sull’altra, fino a quando a volte è difficile ricordare quale fosse effettivamente il problema originale. La domanda: ” Dovremmo farlo?” non viene mai posta perché non c’è tempo. La domanda è sempre: “Cosa diremo alla riunione di domani?”, oppure “Il Segretario Generale della NATO ci chiama tra un’ora: cosa vogliamo chiedergli?”. L’incapacità di comprendere questo semplice punto spiega l’ingenuità di molti commenti sulle crisi attuali (e, peraltro, immediatamente passate) e gli incessanti sforzi per trovare “decisioni” e “piani” soddisfacenti. Dopotutto, gli esseri umani si spingeranno fino alle estreme conseguenze per cercare di imporre schemi agli eventi più importanti, perché nessuna paura è più profonda della paura del caos. Come disse il celebre esperto di intelligence scientifica della Seconda Guerra Mondiale, il professor RV Jones, a proposito della sua esperienza di governo in tempo di guerra:
“Non può esistere un insieme di osservazioni reciprocamente incoerenti per il quale l’intelletto umano non riesca a concepire una spiegazione coerente, per quanto complicata.”
Oppure, se preferisci, è più confortante maneggiare il frullatore di Occam piuttosto che il rasoio di Occam. Con un po’ di impegno, puoi sempre ottenere un risultato, anche se si tratta di una poltiglia poco invitante.
Già ai tempi di Jones, i decisori politici tendevano a essere sommersi dalle informazioni. E la tecnologia moderna non ha certo aiutato. Trent’anni fa, la comunicazione tra le capitali e le rappresentanze diplomatiche all’estero si limitava a telegrammi criptati, fax e lettere inviati tramite valigie diplomatiche. Oggi, i decisori politici nelle capitali occidentali sono intasati da email provenienti da tutto il mondo ogni ora e possono trascorrere metà delle loro giornate in videochiamate con le ambasciate e le altre capitali, ripassando all’infinito e inutilmente gli stessi argomenti, senza ottenere alcun risultato.
Ma questo è solo un caso estremo del modo in cui le decisioni politiche vengono prese più spesso, in tempo di pace come in tempo di crisi. In politica, anche la cosa più semplice è potenzialmente complicata, perché la maggior parte delle cose è collegata alla maggior parte delle altre, e le decisioni prese in un ambito avranno conseguenze (forse imprevedibili) altrove. Il problema è che poche di queste connessioni sono sistematiche e molte contengono contraddizioni. I tentativi di trovare modelli generali in politica, quindi, sono destinati al fallimento perché le connessioni tra soggetti diversi possono significare cose diverse per attori diversi, e comunque non sono riducibili a modelli di predominio e sottomissione, o addirittura necessariamente di influenza. Il risultato è che molto spesso i governi decideranno in base a priorità che comportano conseguenze secondarie piuttosto che dirette, e il risultato può sembrare inspiegabile a prima vista.
Molto spesso, i governi decidono di abbandonare un’iniziativa su un argomento relativamente poco importante perché il livello di opposizione pubblica è tale che non vale la pena dedicare tempo e sforzi a difenderlo. Ora, si noti che questo non significa che la maggioranza dell’opinione pubblica sia contraria, significa solo che l’equilibrio di forze è tale che meno lavoro e meno sforzi dovranno essere distolti da altre attività per abbandonare l’argomento. È quindi in gran parte una questione di priorità, e molte questioni di routine vengono gestite in questo modo. All’estremo opposto, la partecipazione britannica alla seconda guerra in Iraq era una priorità di enorme importanza per il governo dell’epoca, e l’opposizione pubblica, seppur piuttosto ampia, non si qualificava come uno dei fattori decisivi.
Lo stesso vale, infine, per le relazioni tra Stati, che sono, nel migliore dei casi, estremamente complesse, sempre multidimensionali e spesso portano con sé un bagaglio storico. La maggior parte degli Stati, nella maggior parte dei casi, accetterà la maggior parte delle iniziative degli Stati con cui intrattiene buoni rapporti. Qualsiasi altra cosa sprecherebbe energie, creerebbe problemi e inviterebbe a ritorsioni. Quindi, se il tuo vicino, l’attuale presidente della tua organizzazione regionale, è particolarmente interessato a un’iniziativa, probabilmente la accetterai, anche se non ti interessa o se hai delle riserve concrete. Non ha senso opporsi gratuitamente: dopotutto, potresti essere il presidente l’anno prossimo e potresti avere un’iniziativa da promuovere. La stessa dinamica si può osservare nei documenti prodotti dopo importanti riunioni di gruppi internazionali, dove si compiono grandi sforzi per mascherare le differenze e mascherare le diverse interpretazioni. E come dico spesso, è sempre interessante vedere cosa non contiene un documento, poiché spesso argomenti troppo controversi tra i partner vengono tralasciati, per evitare problemi e preservare l’armonia.
L’ultima generazione ha assistito a una generale omogeneizzazione della classe dirigente e dei suoi parassiti, che non ha fatto altro che rafforzare tutte queste tendenze. Ciò è particolarmente evidente in Europa, dove iniziative come il programma ERASMUS hanno portato le future élite a studiare insieme a un’età facilmente influenzabile. Vent’anni dopo, dopo un passaggio attraverso le istituzioni europee, dopo un’immersione completa nelle certezze neoliberiste, spesso sposandosi tra loro, spesso frequentando circoli sociali composti esclusivamente da persone con idee simili, leggendo e guardando gli stessi media in diverse lingue, queste persone iniziano ad accedere a posizioni di potere. Sebbene sarebbe ingiusto definirli cloni, il fatto è che condividono un insieme di presupposti sul mondo e una serie di norme indiscusse, che non solo li rendono internamente molto omogenei, ma li separano anche dai presupposti e dalle norme più ampie delle società che governano. In un simile contesto, le loro argomentazioni e i loro dibattiti sono interni e personali, e spesso su punti di dettaglio: l’opinione pubblica non conta. Il loro status all’interno del gruppo più ampio è stabilito dalla competizione reciproca, non dalla generazione di sostegno pubblico, di cui comunque è diffidente. Quindi non c’è mai stato bisogno che qualcuno facesse “pressione” sui leader europei riguardo all’Ucraina: erano tutti della stessa idea, e ciò che contava era ciò che pensavano i loro coetanei in altri paesi, non le opinioni, o persino gli interessi, delle loro popolazioni. E come studenti brillanti di qualche istituto di istruzione superiore internazionale, cercavano sempre di superarsi a vicenda e di impressionare gli insegnanti con proposte sempre più radicali: inviare truppe in Ucraina, ripristinare la coscrizione obbligatoria, cercare di smembrare la Russia. Queste idee non devono necessariamente avere senso, perché sono semplicemente parte dell’infinita competizione per status e prestigio tra le nuove élite.
L’Europa è un caso estremo, ma gli specialisti regionali possono descrivere le strutture politiche nascoste che caratterizzano diverse parti del mondo. Nell’Africa occidentale, ad esempio, i legami tra clan, famiglie e imprese si estendono oltre confini artificiali postcoloniali e uniscono sorprendenti combinazioni di persone. E al livello più generale e basilare, dobbiamo abbandonare una volta per tutte gli ingenui paradigmi realisti di infiniti conflitti internazionali e lotte per il predominio. Come ho sottolineato ripetutamente, le nazioni e i loro governi cooperano molto più frequentemente di quanto si oppongano: se così non fosse, non si farebbe mai nulla. E, cosa abbastanza sorprendente, le nazioni spesso sono sinceramente d’accordo tra loro, o almeno si considerano aventi interests.in comuni in iniziative specifiche.
Né è vero, infine, che le grandi nazioni si limitino a fare pressioni sulle piccole: come ho sottolineato più volte, manipolare le grandi nazioni è un’arte in molte parti del mondo. Ma in ogni caso, non tutte le relazioni devono essere di predominio. Ecco un esempio immaginario. Immaginiamo il governo di uno stato costiero africano con un grande porto naturale, contattato dagli Stati Uniti per firmare un MoU che consenta alle loro navi di visitare occasionalmente il paese e di stabilire una piccola presenza permanente a terra. Il governo riflette sulla questione. Sarà uno status symbol politico nella regione, l’ambasciata verrà probabilmente potenziata, ci saranno vantaggi finanziari e posti di lavoro e ci saranno frequenti visitatori statunitensi. Un’attenta negoziazione del MoU può probabilmente portare altri benefici: supponiamo di proporre che venga rinegoziato ogni due anni. Quasi certamente la presenza statunitense può essere sfruttata per l’addestramento gratuito e per alcune attrezzature navali in eccedenza, nonché per un possibile rapporto di intelligence. E il personale statunitense è un utile scudo umano in caso di attacco straniero o conflitto interno. Con un po’ di fortuna, questo farà sì che anche i cinesi si interessino al Paese. Il rovescio della medaglia, ovviamente, è che le compagnie di navigazione arrivano diverse volte all’anno per una sbarco e fanno ciò che fanno abitualmente. Quindi faremo in modo che il Memorandum d’intesa copra anche i risarcimenti e questioni simili. E così via: solo un altro giorno nella fabbrica di salsicce.
In conclusione, il messaggio da trarre è essenzialmente che il processo attraverso il quale i governi decidono di fare qualcosa, o spesso vengono costretti a prendere decisioni dalle circostanze, è molto più complesso, molto più complicato e molto meno razionale di quanto si possa pensare osservando la Fabbrica di Salsicce da lontano. Ma questo giudizio deve essere moderato. In primo luogo, il processo decisionale politico non è casuale: se non segue esattamente delle regole, segue tendenze osservabili, e con l’esperienza è spesso possibile capire cosa probabilmente sta succedendo sotto la superficie. In secondo luogo, gli aspetti formali della politica e del governo hanno la loro importanza, e non dobbiamo cadere nella trappola di liquidarli come puro teatro, o una sorta di facciata cinica. In effetti, se avete mai trascorso del tempo dietro le quinte di un teatro, apprezzerete l’analogia tra ciò che il pubblico vede e il caos controllato che si verifica dietro.
Ma una delle tendenze che possiamo identificare è che il fervore morale conta poco se non è associato a obiettivi chiari e a un approccio organizzato e disciplinato, e se ciò che viene chiesto non rientra nel potere del governo di dare, il che spesso non accade. Parte di questo approccio disciplinato è acquisire una profonda familiarità con la domanda: nulla è più facile da respingere di semplici speculazioni o affermazioni mal informate. Un altro aspetto è essere molto chiari e precisi su ciò che si chiede, o si chiede. Una generica geremiade contro la politica occidentale nei confronti di Gaza, ad esempio, evocherà una risposta generica e copia-incolla. Anche se quella risposta viene pubblicata a nome di un ministro, è improbabile che quella persona l’abbia letta. Ciò che i governi non gradiscono (e parlo per esperienza) è la critica ben informata e dettagliata, espressa in termini moderati e che pone domande precise o avanza proposte precise e realistiche. Questo crea lavoro, nella ricerca e nella preparazione della risposta. Influenzare la ricetta nella Fabbrica di Salsicce non è mai facile, quindi, ma ci sono modi per renderlo meno arduo. Ricorda solo che in politica niente è facile o gratuito.
Da un lato, pur apprezzando le argomentazioni di Hudson sulla sovranità, mi pare che la soluzione prospettata di tassazione delle multinazionali che sfruttano le risorse dei paesi “in via di sviluppo” quale soluzione alle problematiche dello sfruttamento occidentale nonchè metodo per riacquistare sovranità, mi sembrano conclusioni riduttive e, forse, utopistiche.
La tassazione, qualora venisse rispettata senza alcuna reazione da parte delle imprese straniere e versata in moneta “pesante”, sarebbe, a mio modesto avviso equiparabile al respiratore forzato ed alle flebo di liquidi ed alimenti al paziente in coma irreversibile: non risolve nulla.
Su punto basti il seguente esempio: la nazione “A” concede alla Multinazionale americana “B” i diritti di sfruttamento di un bacino petrolifero e incassa dalla multinazionale i diritti previsti nella concessione in dollari americani. Inoltre, ammesso e non concesso che non ci siano accordi di extraterrtorialità dei redditi prodotti dalla multinazionale, l’impresa straniera deve presentare la dichiarazione dei redditi prodotti nella nazione “A” mediante un preciso sistema di verifica da parte dell’Erario della nazione “A” di tutte le fatture emesse alle società che acquistano il petrolio estratto. Anche questa rimessa erariale avviene in moneta “pesante”. La nazione “A”, però, deve acquistare all’estero, la benzina, il gasolio, il GPL ed Kerosene avio, per il fabbisogno della nazione e, quegli acquisti, ovunque siano effettuati, devono essere pagati in moneta “pesante”. Ecco dimostrato come tutta la moneta “pesante” entrata nelle casse della nazione per i diritti e per le tasse, riesce immediatamente anche perchè, il combustibile finito e pronto all’uso, ha un costo superiore al greggio estratto. Se poi, la multinazionale americana “B”, nell’accordo per ottenere la concessione, ottiene di essere il fornitore unico o privilegiato per gli acquisti del combustibile, il gioco è fatto. La Nazione “A” rimane stretta nella spirale del dominio Americano aggravato da fatto che, anche volesse fare acquisti diversi, la piattaforma per i pagamenti internazionali è governata dagli Usa (Swift) che possono sanzionare con la preclusione al suo utilizzo come e quando vogliono.
Del resto l’impero inglese aveva fondato il suo potere sul controllo delle rotte commerciali forse in misura maggiore rispetto al controllo delle risorse stesse: quando si affacciarono competitori in grado di rivaleggiare (Francia in alcuni momenti) e Germania dopo il 1870, la conclusione è sempre stata la guerra.
Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione simile a quella che precedette il 1914: una globalizzazione a guida Americana in crisi perchè nuovi attori con capacità tecnologica e militare (Russia e Cina) reclamano il loro posto e non intendono sottostare alle “regole” Americane.
Ed allora, come nel 1914, si arriverà al conflitto e ci sono altri segnali in questo senso: “l’attenzione” americana per Venezuela e Nigeria, dimostrano la loro necessità di dominare direttamente le risorse laddove, nell’epoca d’oro, bastava dominare gli scambi perchè ora, stanno emergendo e si stanno costruendo, realtà di scambio alternative allo SWIFT ed al dollaro molto attrattive per le nazioni che vogliono sottrarsi al giogo.
Lo fanno perchè sanno che si andrà in guerra anche se pensano di non esserne coinvolti direttamente, ma pensano di potersi limitare ad essere il fornitore di risorse a chi combatterà per loro cioè noi europei. Ma per fornirci, a caro prezzo, quelle risorse, devono controllarle e Venezuela e Nigeria servono allo scopo.
Forse l’estromissione della Francia dal continente Africano, è stata in qualche modo consentita dagli USA che pensano di sostituirla, in un modo o nell’altro, perchè una Francia assolutamente bisognosa di risorse, è una nazione perfetta per essere un’altra UCRAINA.
E quello che vale per la Francia, vale per l’intera Europa.
Ma questa certezza Americana di essere fuori dal futuro conflitto, su cosa si fonda?
Non è forse stata sufficientemente chiara la Russia, con i messaggi anche espliciti che ha dato all’occidente ed agli USA?
Ho cercato una risposta che fosse razionale ma, in realtà, non vi è spiegazione razionale per un comportamento, irrazionale.
L’amico WS ha molto efficacemente ricordato il Film “Killing me softly” ed il monologo di Brad Pitt sul finale del Film.
Io mi permetto di ricordare l’incipit di Hostiles, altro film made in USA, nel quale si descrive l’anima americana come solitaria, violenta ed assassina.
Inoltre gli americani adorano il gioco d’azzardo al punto da avere creato una città che si basa solo su questo.
Quindi la risposta è tutta qui: sono solitari giocatori d’azzardo, violenti ed assassini ma eccezionali cui spetta il diritto di fare quel che vogliono.
Scommettono e se la scommessa non va a buon fine, chi se ne frega, estraggono la pistola e fanno fuori tutti.
Solo che, questa volta, esplode l’intero Casinò con anche loro dentro ma chi scommette mica si preoccupa di questo.
«É quindi chiaro che parlare di patria rischia di essere, in buona o malafede, frainteso.Tuttavia, faccio comunque le seguenti domande scomode accollandomi i rischi di fraitendimenti, critiche ed accuse di vetero nazionalismo di ritorno: che cosa è la Patria? Può essere la Patria, una volta definitone il concetto, quella piattaforma ideale capace di creare un senso di appartenenza e di ispirazione? Può essere il filo conduttore di una politica che intenda costruire e difendere una comunità fatta di individui, famiglie, imprese ed apparati statali, in una ottica di interesse generale? Ripeto e ribadisco: non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi o a ideologie superate e sorpassate. Si tratta di trovare un contenitore adatto ad interpretare ed agire, come ente collettivo (lo Stato), nel conflitto strategico internazionale e, nel contempo, interpretare e gestire il conflitto interno tra le varie formazioni sociali che fanno parte dell’Italia: tutto nell’interesse della comunità che la costituisce, della sua autonomia, della sua economia e dei suoi cittadini intesi come complesso di formazioni sociali alle quali, in alcuni casi, dovranno essere chiesti (imposti) sacrifici. Sacrifici alle volte ad alcune formazioni sociali ed alle volte ad altre formazioni sociali (il nostro WS ha ragione quando ritiene che la vera lotta non sia quella di classe ma il conflitto tra chi per vivere deve lavorare – i molti – e chi invece vive senza dover lavorare – i pochissimi –. Tuttavia compito della politica è quello di imporre anche ai pochi, qualche volta, alcuni sacrifici appunto nell’interesse di tutti.»
Ora, alle molte (e tutte condivisibili) osservazioni del Nostro sarebbe assai avventuroso affiancare un’analisi e, soprattutto, predizioni, che non siano vaticini alla divino Otelma ma a questa domanda (o ragionamento) la risposta è molto facile accompagnata da un piccolo appunto. Sì, la Patria è l’unico punto di partenza dal quale iniziare ad affrontare il caso italiano (non certo lo Stato, perché lo Stato può benissimo esistere senza Patria, lo si vede bene in Italia e lo si vede altrettanto bene considerando con un minimo di oggettività l’Unione europea, una burocrazia arrogante ed autoreferenziale che prescinde totalmente da qualsiansi legame storico, sociale e culturale con i popoli che pretende di rappresentare) e lo è per il semplice motivo che un’azione politica o geopolitica che non voglia essere semplice scontro intestino all’interno del gruppo degli agenti strategici alfa (sui gruppi strategici alfa, le grandi unità strategiche che guidano le danze e i gruppi strategici omega, coloro che subiscono l’azione strategica alfa e cercano di reagire con controstrategie di solito inefficaci, in altri tempi si sarebbe detto il proletariato, cfr. Massimo Morigi, Teoria della distruzione del valore. Su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore, sull’ “Italia e il Mondo” e tramite congelamento Wayback Machine all’URL https://web.archive.org/web/20170205031134/https://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/) anarchici ed irresponsabili che si contendono le risorse ha come condizione necessaria (anche se, ovviamente, non sufficiente) l’esistenza (o la credenza nell’esistenza, che poi per quanto riguarda il discorso che qui ci interessa è la stessa cosa) di un’unità di riferimento universalmente reputata ontologicamente superiore e concretamente politicamente prevalente su tutti i gruppi particolari (e soprattutto sui grandi gruppi strategici alfa) presenti e all’interno della singola società e anche in lotta intestina sullo scenario internazionale (immancabile qui il richiamo anche al fondamentale Lenin col suo L’imperialismo fase suprema del capitalismo). Insomma, per fare una facile metafora ma che penso estremamente illuminante, così come la medicina non può fare a meno di cercare di porre rimedio al corpo umano malato o a concepire le strategie per mantenerlo in salute, la politica e la geopolitica non possono fare a meno di quel fulcro di tutto il sistema relazionale umano che si chiama popolo con tutte le sue più o meno infelici problematiche storico-sociali al fine, se non di porvi un totale rimedio, di offrire, almeno in linea di principio, praticabili e concrete strategie per dialettizzare e superare le contraddizioni storiche, politiche e culturali (per compiere, cioè, l’hegeliana Aufhebung) che si frappongono al dispiegamento delle potenzialità positive di questo popolo. Nel caso contrario, una consocenza del corpo umano che non si proponga di curare o di procurare benessere al corpo, siamo in presenza di una conoscenza meramente fisiologica o patologica e nel caso di una politica senza popolo siano in presenza della conoscenza – e della pratica – da parte dei maggiori gruppi strategici alfa che si contendono le risorse sì di una politica e/o geopolitica ma una politica e una geopolitica riservate a gruppi ristretti, cioè, in ultima analisi, siamo in presenza di una conoscenza più o meno elitaria e/o esoterica dove il termine politica può essere, anzi deve, essere espunto, perché quello che manca è l’elemento della Polis o per esprimerci in termini otto-novecenteschi, la Patria (e, infatti, di conoscenza elitaria e/o esoterica e, simmetricamente, delle fantasiose suggestioni da ammanire al popolo si deve parlare oggi, tanto per fare esempio, riguardo all’attuale guerra Russia-Nato. I grandi gruppi strategici alfa ragionano al riguardo sulla falsariga del realismo politico – quanto questo realismo sia però “ragionato” e praticato con criteri di razionalità è però un altro discorso – mentre per il “popolaccio”, gli omega, i mass media e tutto il sistema politico delle c.d. democrazie occidentale riservano le consunte e ridicole litanie sulla difesa della democrazia).
L’appunto riguarda quando viene affermato che non si tratta di ritornare ai miti novecenteschi, e qui ci si riferisce al fatto che non bisogna tornare al mito romantico otto-novecentesco della Patria. Ora, per questo breve ragionamento non rileva tornare alla distinzione fra patriottismo e nazionalismo, che molto erroneamente viene oggigiorno fatta in particolare da quella scuola di pensiero che va sotto il nome di neorepubblicanesimo cui io non appartengo avendo lo scrivente elaborato un paradigma repubblicano che ho definito ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ e proprio in omaggio al criterio di brevità che esprime questo intervento e al fatto che su ciò mi sono espresso in moltissime occasioni non dettaglierò ulteriormente questo paradigma (ho già qui rinviato alla Teoria della distruzione del valore, che può ben essere propedeutica per una sua conoscenza iniziale).
Ma, in estrema sintesi, si può affermare quanto segue: certamente la ‘mitologizzazione’ di qualsiasi cosa, sia un concetto poliltico ma anche quanto colpisce la nostra sensibilità nella vita di tutti i giorni, è da evitare perché, come si dice, ci fa vedere lucciole per lanterne ma l’oggetto sul quale è stata poi operata l’operazione di mitologizzazione deve focalizzare la più attenta attenzione e cosiderazione perché, in caso contrario, ci si trova a muovere in un piatto e controstorico eterno presente dove le sole cose che contano sono le fugaci sensazioni del momento. E quindi, per tornare al mito della Patria, che non bisogna certo assumere acriticamente o come una sorta di spirito ultraterreno ma come di un oggetto storico di cui non ci si può facilmente sbarazzare, cito dal giuramente di affiliazione alla Giovine Italia dove il nuovo affiliato a questa rivoluzionaria organizzazione voluta da Giuseppe Mazzini giura «Nel nome di Dio e dell’Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera e domestica. Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto e ai fratelli che Dio m’ha dati. Per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli. Per la memoria dell’antica potenza. Per la coscienza della presente abiezione. Per le lagrime delle madri italiane […] [ e quindi giuro] Di consacrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.»: giuramento di affiliazione alla Giovine Italia all’URL Wayback Machine http://web.archive.org/web/20250118110304/https://www.schule-bw.de/faecher-und-schularten/sprachen-und-literatur/italienisch/land-und-leute/kursstufe-themen/storia-politica/risorgimento/mazzini.pdf.
Certo, possiamo discutere il fatto di far svolgere a Dio il ruolo di chiusura del sistema semantico-simbolico del giuramento (ma però va sottolineato che qualsiasi umana comunicazione implica, più o meno esplicitamente, sempre una struttura logica con un elemento di chiusura all’interno della stessa indimostrato – e indimostrabile in ultima istanza –, e non addentriamoci qui ulteriormente intorno alla problematica dei Teoremi di incompletezza di Gödel e alle potenzialità che questi offrono anche ad un inquadramento teorico delle varie e possibili teologie politiche, non solo quelle consegnateci dalla storia ma anche quella che è sotto i nostri occhi – il mito della democrazia ampiamente ‘smitizzato’ e dal punto di vista della teoria politica ma anche nel sentire popolare, definizione corretta di ‘democrazia’ è ‘polioligarchia competitiva’, cfr. a questo proposito proprio qui sull’ “Italia e il Mondo” miei precedenti e recenti interventi – e, infine, quelle che ci riserva il futuro, delle quali nulla possiamo dire se non che la speranza che si ha quasi timore ad esprimere è che si possa in qualche modo influenzarne positivamente la dialettica), e possiamo anche convenire che l’impostazione retorica del giuramento rinvia ad una società e ad una sensibilità romantica dove nella vita pubblica deve essere prevalente il ruolo maschile ma non possiamo eludere che quello che veramente rileva e che ci riguarda direttamentamente severamente ammonendoci è il giuramento per costituire «l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana». In seguito all’esito fallimentare del Risorgimento, e nonostante si accettino pareri contrari, in seguito anche alla caduta del fascismo, non abbiamo avuto nessuna di queste cose, nemmeno la Repubblica, a meno che non si intenda Repubblica, sostituire un re con un presidente (e a meno che per Italia Una non ci si fermi, sempre in entrambi i casi, ad un rappresentazione puramente formale buona solo per colorare la carta politica dell’Europa ). E qui non stiamo parlando di miti ma di una concreta realtà storica, per comprendere e, possibilmente, rettificare la quale ha scritto il nostro amico Ernesto e per la quale anche lo scrivente è stato stimolato ad intervenire con questa breve nota.
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Ovunque si guardi oggigiorno, i moderati di destra stanno attivamente sconfessando gli estremisti di destra. Joel Berry ha sconfessato Nick Fuentes. Mark Levin ha sconfessato Tucker Carlson. Dinesh D’Souza, per non essere da meno, ha sconfessato Nick Fuentes, Tucker Carlson e Candace Owens.
L’elenco potrebbe continuare e vi risparmierò un catalogo completo del momento presente. La cosa importante da sapere è che il disconoscimento ha una lunga tradizione a destra. Per 75 anni, i moderati di destra hanno disconosciuto gli estremisti di destra per assicurarsi che non fossero associati a loro o alle loro convinzioni. Tutto iniziò nel 1950, quando la senatrice repubblicana Margaret Chase Smith disconobbe il senatore repubblicano Joe McCarthy nella sua “Dichiarazione di Coscienza”, aprendo la strada al Senato che nel 1954 lo disconobbe definitivamente.
Il disconoscimento divenne una politica formale nel 1955, quando William F. Buckley iniziò a epurare l'”estrema destra”. Prolifico disconoscitore, Buckley rinnegò notoriamente Robert Welch nel 1962, Revilo Oliver nel 1966, Pat Buchanan nel 1991 e infine Sam Francis nel 1995. Il successore di Buckley, Rich Lowry, rinnegò Ann Coulter nel 2001 e John Derbyshire nel 2012.
Il disconoscimento ha raggiunto il suo apice nel febbraio 2016, quando l’intero establishment conservatore si è unito per disconoscere Donald Trump in una serie di saggi su National Review che includeva post di Glenn Beck ( The Blaze ), David Boaz ( Cato ), L. Brent Bozel III ( Media Research Center ), Mona Charen (National Review), Ben Domenech( The Federalist ), Erick Erickson ( The Resurgent ), Steven F. Hayward (professore Reagan alla Pepperdine), Mark Helprin (autore), Yuval Levin ( National Affairs ), Dana Loesch ( The Blaze ), William Kristol ( Weekly Standard ), Andrew McCarthy ( National Review ), David McIntosh ( Club for Growth ), Michael Medved (conduttore radiofonico), Edwin Meese (ex amministratore Reagan), Russell Moore (Commissione per l’etica e la libertà religiosa della Southern Baptist Convention), Michael B. Mukasey (procuratore generale degli Stati Uniti), Katie Pavlich ( Townhall ), John Podhoretz ( Commentary ), RR Reno ( First Things ), Thomas Sowell ( Hoover ), Cal Thomas ( USA Today ), R. Emmett Tyrrell ( American Spectator ) e Kevin D. Williamson ( National Review ).
Si è trattato del disconoscimento politico più coordinato nella storia americana, eguagliato forse solo dal disconoscimento dei videogiocatori da parte dei giornalisti del settore nell’agosto 2014. È stato anche un fallimento, forse il primo grande fallimento nella storia dell’auto-ripudio della destra americana. Ciononostante, nessuno degli influencer sopra menzionati ha davvero sofferto per il suo disconoscimento del Presidente Trump. Anzi, la maggior parte di loro alla fine è diventata pro-Trump ed è rimasta un opinionista popolare all’interno della destra. Qua e là, alcuni hanno abbandonato la destra per abbracciare la sinistra, ancora una volta con scarse conseguenze.
Non è più così. Nel 2025, è emersa una tendenza contraria per cui i destri ora rinnegano chi rinnega, anzi rinnegano il rinnegamento stesso. È davvero notevole da vedere, e gli effetti di questo contro-rinnegamento hanno iniziato a sfinire persino alcuni formidabili guerrieri culturali. Credo che lo sgomento e la frustrazione espressi da Joel Berry (che apprezzo) nel post qui sotto siano del tutto genuini:
Berry sta facendo quello che ogni rispettabile opinionista di destra ha fatto per 75 anni, ma per ragioni che non riesce a comprendere, viene punito in modi che i suoi predecessori non hanno mai avuto. Quindi, cosa è cambiato?
(Il resto di questo post è riservato agli abbonati paganti di questo substack.)
Sulla scia della cultura della cancellazione e dell’omicidio di Kirk, il disconoscimento è oggi percepito come codardia morale
Quando Margaret Chase Smith rinnegò Joseph McCarthy, o quando William F. Buckley rinnegò Robert Welch, tali atti di distanziamento morale furono visti all’epoca come prese di posizione di principio da una posizione di forza. Buckley, ad esempio, era percepito come il leader di un movimento potente che nobilmente scelse di rinunciare all’aiuto dei demagoghi. Si presentò come un uomo che cercava di preservare la dignità morale del movimento anche a costo di un vantaggio tattico. Il messaggio di Buckley era (o sembrava essere): “Non accetteremo questi uomini nella nostra causa, anche se saremmo più forti se lo facessimo”. Il pubblico, anche coloro che non erano d’accordo, poteva rispettare quel tipo di nobile determinazione. L’atto di disconoscimento era visto come nobile.
Ma quel panorama morale non esiste più. Nei decenni successivi, la sinistra ha costruito un sistema totale di coercizione sociale, cultura della cancellazione, deplatforming e guerra reputazionale, progettato per rendere pericolosa la parola. La destra, invece di resistere, ha implementato le tattiche del nostro avversario contro noi stessi. Chiunque fosse messo a tacere dalla sinistra veniva rapidamente rinnegato dalla destra, non per disaccordo, ma perché il suo status di “intoccabile” rischiava di essere contagiato. Il rinnegamento ha quindi cessato di significare principio ed è diventato sinonimo di paura. È diventato visto come il timore istintivo di coloro che speravano di dimostrare la propria rispettabilità a una cultura che già li disprezzava.
Oggi, quando un opinionista moderno si affretta a rinnegare, pochi vedono coraggio in questo gesto. Sembra codardo perché chi rinnega non si oppone al potere, ma piuttosto si inchina davanti ad esso. Ammettiamo che Buckley abbia agito per principio; ammettiamo che anche Levin, Berry e D’Souza agiscano per principio oggi. Comunque sia, un post su Twitter che denuncia un esponente della destra per “aver oltrepassato il limite” oggigiorno non sembra un atto di coscienza, ma di imbarazzo. Dopo l’assassinio di Charlie Kirk, l’ottica morale del rinnegamento si è appena capovolta completamente.
La riabilitazione dei pensatori del passato che abbiamo rinnegato ci ha insegnato a essere cauti nel rinnegare i pensatori del presente
Nemmeno un decennio fa, Donald Trump era universalmente sconfessato. Ogni opinionista, donatore e istituzione conservatrice mainstream si è affrettata a dichiararlo un’aberrazione inadatta, pericolosa, volgare e ineleggibile. Eppure, non solo Trump ha vinto la presidenza nel 2016, ma dopo aver superato due impeachment, continue battaglie legali e un implacabile attacco mediatico, è tornato per riconquistare la presidenza nel 2025. La sua ascesa è stata il fallimento più drammatico del riflesso di ripudio della destra nella storia.
L’ascesa al potere di Trump nonostante il disconoscimento dell’establishment ha portato la gente a chiedersi: “Se l’establishment ha potuto sbagliarsi così tanto su Trump, forse si sbagliava anche su tutti gli altri che ha disconosciuto?”. E quando i destri si ponevano questa domanda, a volte concludevano che la risposta era “sì, si sbagliavano anche allora”.
Si considerino i casi di Joseph McCarthy e Robert Welch. Questi uomini sostenevano, all’inizio degli anni ’50, che i comunisti avevano profondamente sovvertito le istituzioni americane, e pagarono un pesante prezzo politico per tali affermazioni. Eppure, la successiva declassificazione dei cablogrammi del Progetto Venona e dei relativi materiali d’archivio sovietici ha rivelato prove autentiche di spionaggio sovietico all’interno del Progetto Manhattan del governo statunitense, del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Guerra, e uomini come Theodore Hall o Alger Hiss sono ora giustamente riconosciuti come spie comuniste. Oggigiorno McCarthy e Welch, un tempo denunciati come allarmisti paranoici, vengono riabilitati come gli unici ad essere stati adeguatamente vigili.
Oppure prendiamo Sam Francis o John Derbyshire. I fan di quegli intellettuali, esiliati per i loro moniti sul rapido multiculturalismo, l’immigrazione incontrollata e l’erosione del tradizionale legame nazionale, possono ora contare su prove empiriche che dimostrano che avevano ragione. Queste prove semplicemente non erano disponibili finché il professore di Harvard Robert D. Putnam non ha documentato in modo conclusivo i modelli che convalidano i loro moniti. Con l’aumentare della diversità etnica negli Stati Uniti, la popolazione ha segnalato livelli inferiori di fiducia nei vicini, nelle istituzioni, nella partecipazione civica e nel volontariato. Mentre Putnam sostiene ancora che l’effetto potrebbe essere reversibile a lungo termine, il fatto che la diversità sia empiricamente correlata a una diminuzione del capitale sociale è purtroppo oggi evidente ovunque. E così anche Francis e Derbyshire stanno venendo riabilitati in molti ambienti.
Che dire di Pat Buchanan? La sua critica al libero scambio e all’immigrazione su larga scala lo fa oggi vedere meno come un paria impotente e più come un profeta lungimirante. Le obiezioni di Buchanan alla dottrina allora dominante del libero scambio (ovvero che l’esternalizzazione dei posti di lavoro industriali e la ricostruzione della base lavorativa americana avrebbero indebolito il Paese) sono ampiamente visibili nella deindustrializzazione americana e nelle tensioni della catena di approvvigionamento globale. Persino la sua argomentazione secondo cui l’immigrazione di massa senza una forte assimilazione produrrebbe tensioni strutturali anziché dividendi è ora considerata degna di un serio dibattito (anche se non universalmente accettata). Ancora una volta, un pensatore i cui moniti un tempo furono derisi viene ora rivisitato e rivalutato.
E tutto ciò alimenta l’attuale sentimento contro il disconoscimento. Perché se i disconoscitori si sbagliavano almeno in parte su Trump, Buchanan, Francis, Derbyshire, McCarthy e Welch, se il tempo e le prove hanno almeno in parte giustificato gli uomini che un tempo i disconoscitori avevano scacciato… Se così fosse, allora verrebbe spontaneo dire: “Forse dovremmo essere molto più cauti prima di accettare i disconoscimenti oggi; forse il nostro movimento è stato guidato più dalla paura di essere associati che da un giudizio sobrio. Forse, se continuiamo a trattare ogni figura al di fuori dei mutevoli confini dell’accettabilità come se fosse al di là del limite, potremmo ritrovarci ancora una volta a esiliare i profeti di domani, solo per accoglierli tardivamente, quando è troppo tardi per seguire la strada che ci hanno portato”.
Pertanto, la riabilitazione di pensatori del passato che erano stati ripudiati ha insegnato alla destra odierna a essere più cauta nel rinnegare i pensatori del presente.
La giovane destra ha capito il valore di un fianco radicale
Per decenni, la sinistra ha intuitivamente compreso qualcosa che la destra sta solo ora iniziando a comprendere: il valore strategico di un fianco radicale .
Il termine “fianco radicale” fu coniato per la prima volta dalla femminista Jo Freeman nel 1975 per descrivere come i gruppi femministi più estremisti facessero apparire le femministe tradizionali più rispettabili, per contrasto. Il concetto formale fu ulteriormente sviluppato dal sociologo Herbert Haines, che studiò il movimento per i diritti civili e scoprì qualcosa di sorprendente: l’emergere di organizzazioni nere radicali, lungi dal causare una reazione negativa, aiutò in realtà i gruppi moderati per i diritti civili a ottenere sostegno, finanziamenti e concessioni. Nel suo libro del 1988 Black Radicals and the Civil Rights Mainstream , Haines sosteneva che “il tumulto creato dai militanti era indispensabile per il progresso dei neri”. Ciò che appariva caotico o dirompente era, in realtà, parte di una dialettica: i radicali cambiavano il discorso e i moderati ne raccoglievano i risultati.
Questo effetto è stato osservato ripetutamente. Quando i radicali minacciano di creare disordini, le autorità spesso cercano un compromesso con i moderati che sembrano l’unica alternativa. I sindacati sono stati accettati per impedire i consigli dei lavoratori. L’Environmental Defense Fund ha ottenuto un posto al tavolo delle trattative dopo che il Rainforest Action Network ha minacciato il caos. I fianchi radicali violenti, come i Diaconi per la Difesa e la Giustizia, hanno protetto attivisti non violenti come Martin Luther King e hanno permesso alle loro proteste di procedere senza la letale repressione statale. I movimenti politici che hanno successo includono quasi sempre una componente estremista. Il fianco radicale crea spazio e il moderato lo riempie.
Molto prima di avere un nome, la sinistra aveva intuito l’esistenza dell’effetto “fianco radicale”, assiomizzandolo con lo slogan “Nessun nemico per la sinistra”. È il motivo per cui la sinistra non rinnega i suoi estremisti. È il motivo per cui la sinistra indossa con orgoglio magliette di Che Guevara. È il motivo per cui la sinistra conferisce ai suoi estremisti posizioni di prestigio nelle università. È il motivo per cui la sinistra, al massimo, tace quando la follia esce dalla bocca dei suoi più folli.
Ed è questo uno dei motivi principali per cui loro hanno vinto e noi abbiamo perso, generazione dopo generazione, nella guerra culturale. Si sono resi conto che ogni volta che mettevamo da parte i nostri estremisti, inevitabilmente spostavamo la Finestra di Overton dall’altra parte, dalla loro parte.
A quanto pare, le persone non usano alcun criterio globale oggettivo per giudicare chi è moderato e chi è estremista. La posizione di ogni persona sull’asse politico è in realtà relativa alla posizione di tutti gli altri attori. In qualsiasi momento, i moderati sembrano moderati solo perché esistono gli estremisti. Ogni volta che ci siamo liberati dei nostri estremisti, abbiamo fatto apparire i nostri moderati come estremisti.
Quando un “radicale” come McCarthy, Derbyshire o Buchanan veniva rinnegato, tutto ciò che accadeva era che qualcuno alla sua sinistra diventava il successivo estremista di estrema destra, e le persone alla sua sinistra diventavano i nuovi moderati di destra. E così via, e così via, per 75 anni. Cthulhu nuotò a sinistra in parte perché noi annegammo tutti a destra di Cthulhu.
E gli esponenti della destra di oggi lo sanno, soprattutto i giovani. I giovani “estremamente online” di oggi sono, per molti versi, più alfabetizzati ideologicamente di qualsiasi precedente generazione di conservatori. Sono stati cresciuti da genitori progressisti, istruiti in istituzioni intrise di teoria critica e immersi fin dall’adolescenza nelle trincee digitali della guerra culturale. Hanno visto amici cancellati, piattaforme censurate e intere narrazioni crollare sotto l’esame in tempo reale. Concetti che un tempo erano dominio di un’oscura teoria politica sono diventati la base della loro guerra memetica, discussi con disinvoltura sui server Discord e nei thread di Twitter. Quando ero a giurisprudenza, solo una nicchia di esperti stravaganti aveva mai sentito parlare della Finestra di Overton; oggi, incontro spesso giovani che ne capiscono il significato nella battaglia per l’opinione pubblica.
E questi stessi giovani di destra sono stanchi di perdere quella battaglia. Sono stanchi di perdere terreno e vogliono riprenderlo. Pertanto, non tollereranno tattiche che lo facciano perdere. Rinnegare il nostro fronte radicale è una tattica che ha fatto perdere terreno alla destra; è una tattica che ha portato alla sconfitta; ed è quindi una tattica che stanno rinnegando, insieme a chiunque la pratichi.
Martin Luther King non ha mai chiesto che la leadership della Nation of Islam o delle Pantere Nere venisse soppressa, messa a tacere o messa a tacere. Sapeva che lo rendevano più forte. Una volta disse in privato: “Se mi rifiutano, c’è sempre Elijah Muhammad”. I giovani di destra di oggi sanno chi sono gli Elijah Muhammad di oggi e sono felici di lasciargli mantenere il loro fianco radicale.
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Un articolo che ho pubblicato per la prima volta in India è ora disponibile su un sito web correlato ad Ann Pettifor.Abstract:La retorica evangelica degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più corretto descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali contro la civiltà.
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Questo articolo è apparso per la prima volta su Economic and Political Weekly l’11 ottobre 2025. Michael Hudson (hudson.islet@gmail.com) lavora presso l’Istituto per lo studio delle tendenze economiche a lungo termine ed è illustre professore di ricerca di economia presso l’Università del Missouri-Kansas City.
Abstract: La retorica evangelica degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più accurato descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali contro la civiltà.
Il capitalismo industriale fu rivoluzionario nella sua lotta per liberare le economie e i parlamenti europei dai privilegi ereditari e dagli interessi acquisiti sopravvissuti al feudalesimo. Per rendere competitive le loro manifatture sui mercati mondiali, gli industriali dovevano porre fine alla rendita fondiaria pagata alle aristocrazie terriere europee, alle rendite economiche estratte dai monopoli commerciali e agli interessi pagati ai banchieri che non avevano alcun ruolo nel finanziamento dell’industria. Questi redditi da rendita si aggiungono alla struttura dei prezzi dell’economia, aumentando il salario minimo e altre spese aziendali, intaccando così i profitti.
Il XX secolo ha visto il classico obiettivo di eliminare queste rendite economiche fare marcia indietro in Europa, negli Stati Uniti (USA) e in altri paesi occidentali. Le rendite fondiarie e delle risorse naturali in mano privata continuano ad aumentare e beneficiano persino di speciali agevolazioni fiscali. Le infrastrutture di base e altri monopoli naturali vengono privatizzati dal settore finanziario, che è in gran parte responsabile della frammentazione e della deindustrializzazione delle economie per conto dei suoi clienti immobiliari e monopolistici, i quali versano la maggior parte dei loro redditi da locazione sotto forma di interessi a banchieri e obbligazionisti.
Ciò che è sopravvissuto delle politiche con cui le potenze industriali europee e gli Stati Uniti hanno costruito la propria produzione manifatturiera è il libero scambio. La Gran Bretagna ha implementato il libero scambio dopo una lotta trentennale a favore della propria industria contro l’aristocrazia terriera. L’obiettivo era porre fine alle tariffe agricole protezionistiche – le leggi sul grano – emanate nel 1815 per impedire l’apertura del mercato interno alle importazioni di prodotti alimentari a basso prezzo, che avrebbero ridotto i redditi agricoli. Dopo aver abrogato queste leggi nel 1846, per abbassare il costo della vita, la Gran Bretagna offrì accordi di libero scambio ai paesi che cercavano di accedere al suo mercato in cambio della rinuncia da parte di questi ultimi a proteggere la propria industria dalle esportazioni britanniche. L’obiettivo era quello di dissuadere i paesi meno industrializzati dal lavorare le proprie materie prime.
In tali paesi, gli investitori stranieri europei cercavano di acquistare risorse naturali redditizie, in particolare diritti minerari e fondiari, nonché infrastrutture di base quali ferrovie e canali. Ciò creò un contrasto diametrale tra l’elusione fiscale nei paesi industrializzati e la ricerca di rendite nelle loro colonie e in altri paesi ospitanti, mentre i banchieri europei utilizzavano la leva del debito per ottenere il controllo fiscale delle ex colonie che avevano conquistato l’indipendenza nel XIX e XX secolo. Sotto la pressione di dover pagare i debiti esteri contratti per finanziare i loro deficit commerciali, i tentativi di sviluppo e l’approfondimento della dipendenza dal debito, i paesi debitori furono costretti a cedere il controllo fiscale delle loro economie agli obbligazionisti, alle banche e ai governi dei paesi creditori, che li spinsero a privatizzare i loro monopoli infrastrutturali di base. L’effetto fu quello di impedire loro di utilizzare le entrate derivanti dalle loro risorse naturali per sviluppare un’ampia base economica per uno sviluppo prospero.
Proprio come Gran Bretagna, Francia e Germania miravano a liberare le loro economie dall’eredità feudale degli interessi acquisiti con privilegi di estrazione di rendite, la maggior parte dei paesi della maggioranza globale odierna ha bisogno di liberarsi dalle rendite e dai debiti ereditati dal colonialismo europeo e dal controllo dei creditori. Negli anni ’50, questi paesi venivano definiti “meno sviluppati” o, in modo ancora più paternalistico, “in via di sviluppo”. Ma la combinazione di debito estero e libero scambio ha impedito loro di svilupparsi secondo il modello equilibrato pubblico/privato seguito dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. La politica fiscale e altre legislazioni di questi paesi sono state plasmate dalla pressione degli Stati Uniti e dell’Europa affinché rispettassero le regole internazionali in materia di commercio e investimenti, che perpetuano il dominio geopolitico dei loro banchieri e degli investitori che estraggono rendite al fine di controllare il loro patrimonio nazionale.
L’eufemismo “economia ospite” è appropriato per questi paesi perché la penetrazione economica occidentale in essi assomiglia a un parassita biologico che si nutre del suo ospite. Nel tentativo di mantenere questo rapporto, i governi occidentali stanno bloccando i tentativi di questi paesi di seguire la strada intrapresa dalle nazioni industrializzate europee e dagli Stati Uniti per le loro economie, con le riforme politiche e fiscali del XIX secolo che hanno consentito il loro decollo. Questi paesi “in via di sviluppo” devono adottare riforme fiscali e politiche per rafforzare la loro sovranità e le loro prospettive di crescita sulla base del loro patrimonio nazionale di terra, risorse naturali e infrastrutture di base. Altrimenti, l’economia mondiale rimarrà divisa tra le nazioni rentier occidentali e la loro maggioranza globale ospitante, soggetta all’ortodossia neoliberista.
Il successo del modello cinese: una minaccia per l’ordine neoliberista
I leader politici statunitensi individuano nella Cina un nemico esistenziale dell’Occidente, non tanto per la sua minaccia militare, quanto piuttosto perché offre un’alternativa economica di successo all’attuale ordine mondiale neoliberista sponsorizzato dagli Stati Uniti. Questo ordine avrebbe dovuto rappresentare la fine della storia e della sua logica di libero scambio, deregolamentazione governativa e investimenti internazionali liberi da controlli sui capitali, e non una deviazione dalle politiche anti-rentier del capitalismo industriale. Ora possiamo vedere l’assurdità di questa visione evangelica autocompiacente che è emersa proprio mentre le economie occidentali si stanno deindustrializzando a causa delle dinamiche del loro stesso capitalismo finanziario post-industriale. Gli interessi finanziari e altri interessi rentier consolidati stanno rifiutando non solo la Cina, ma anche la logica del capitalismo industriale descritta dai suoi stessi economisti classici del XIX secolo.
Gli osservatori neoliberisti occidentali hanno chiuso gli occhi davanti al modo in cui il «socialismo con caratteristiche cinesi» ha raggiunto il suo successo grazie a una logica simile a quella del capitalismo industriale sostenuta dagli economisti classici per ridurre al minimo il reddito da rendita. La maggior parte degli scrittori di economia della fine del XIX secolo si aspettava che il capitalismo industriale si evolvesse in una forma o nell’altra di socialismo con l’aumentare del ruolo degli investimenti pubblici e della regolamentazione. Liberare le economie e i loro governi dal controllo dei proprietari terrieri e dei creditori era il denominatore comune del socialismo socialdemocratico di John Stuart Mill, del socialismo libertario di Henry George incentrato sull’imposta fondiaria, del socialismo cooperativo di mutuo soccorso di Peter Kropotkin e del marxismo.
La Cina è andata oltre le precedenti riforme socialiste dell’economia mista, mantenendo la creazione di moneta e credito nelle mani del governo, insieme alle infrastrutture di base e alle risorse naturali. Il timore che altri governi possano seguire l’esempio della Cina ha portato gli Stati Uniti e altri ideologi del capitale finanziario occidentale a considerare la Cina come una minaccia in grado di fornire un modello per le riforme economiche, che sono esattamente l’opposto di ciò per cui ha lottato l’ideologia pro-rentier e anti-governativa del XX secolo.
Il debito estero nei confronti degli Stati Uniti e di altri creditori occidentali, reso possibile dalle regole geopolitiche internazionali del 1945-2025 elaborate dai diplomatici americani a Bretton Woods nel 1944, obbliga il Sud del mondo e altri paesi a recuperare la propria sovranità economica liberandosi dal peso bancario e finanziario estero (principalmente dollarizzato). Questi paesi hanno anche lo stesso problema di rendita fondiaria che ha affrontato il capitalismo industriale europeo, ma le loro rendite fondiarie e minerarie sono di proprietà di multinazionali, altri appropriatori stranieri e piantagioni latifondistiche che estraggono le rendite minerarie svuotando le risorse petrolifere e minerarie del mondo e abbattendo le sue foreste.
Tassare la rendita economica: un presupposto per la sovranità
Una condizione preliminare affinché i paesi del Sud del mondo possano ottenere l’autonomia economica è seguire il consiglio degli economisti classici e tassare le maggiori fonti di reddito da locazione – rendita fondiaria, rendita di monopolio e rendimenti finanziari – invece di lasciarle andare all’estero. Tassare questi redditi contribuirebbe a stabilizzare la loro bilancia dei pagamenti, fornendo al contempo ai loro governi le entrate necessarie per finanziare le loro esigenze infrastrutturali e la relativa spesa sociale necessaria per sovvenzionare la loro modernizzazione economica. È così che Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti hanno stabilito la loro supremazia industriale, agricola e finanziaria. Non si tratta di una politica socialista radicale. È sempre stata un elemento centrale dello sviluppo capitalistico industriale.
Riconquistare la rendita fondiaria e quella derivante dalle risorse naturali di un paese come base fiscale consentirebbe di evitare di tassare il lavoro e l’industria. Un paese non avrebbe bisogno di nazionalizzare formalmente la propria terra e le proprie risorse naturali. Dovrebbe semplicemente tassare la rendita economica al di sopra degli effettivi “profitti guadagnati”. Per citare il principio di Adam Smith e dei suoi successori del XIX secolo, questa rendita è la base imponibile naturale. Ma l’ideologia neoliberista definisce tale tassazione della rendita, e la regolamentazione dei monopoli o di altri fenomeni di mercato, un’ingerenza intrusiva nel “libero mercato”.
Questa difesa del reddito da rendita ribalta la definizione classica di libero mercato. Gli economisti classici definivano libero mercato un mercato libero dalla rendita economica, non un mercato libero per l’estrazione della rendita economica, tanto meno una libertà per i governi delle nazioni creditrici di creare un “ordine basato su regole” per facilitare l’estrazione della rendita estera e soffocare lo sviluppo dei paesi ospitanti dipendenti dal punto di vista finanziario e commerciale.
La remissione del debito come presupposto per la sovranità economica
La lotta dei paesi per liberarsi dal peso del debito estero è molto più difficile di quella intrapresa dall’Europa nel XIX secolo per porre fine ai privilegi della sua aristocrazia terriera (e, con meno successo, dei suoi banchieri), perché ha una portata internazionale. Inoltre, oggi deve confrontarsi con un’alleanza di paesi creditori che mirano a mantenere il sistema di colonizzazione finanziaria creato due secoli fa, quando le ex colonie cercavano di ottenere l’indipendenza politica ricorrendo ai prestiti dei banchieri stranieri. A partire dagli anni Venti del XIX secolo, le regioni appena indipendenti, da Haiti, Messico e America Latina alla Grecia, Tunisia, Egitto e altre ex colonie ottomane, ottennero una libertà politica nominale dal controllo colonialista.
Ma per sviluppare la propria industria, hanno dovuto contrarre debiti esteri, sui quali sono quasi immediatamente entrati in default, consentendo ai creditori di istituire autorità monetarie incaricate della loro politica fiscale. Alla fine del XIX secolo, i governi di questi paesi sono stati trasformati in agenti di riscossione per i banchieri internazionali. La dipendenza finanziaria dai banchieri e dagli obbligazionisti ha sostituito la dipendenza coloniale, obbligando i paesi debitori a dare priorità fiscale ai creditori stranieri.
La seconda guerra mondiale ha permesso a molti di questi paesi di accumulare ingenti riserve monetarie estere grazie alla fornitura di materie prime ai belligeranti. Ma l’ordine postbellico progettato dai diplomatici statunitensi, basato sul libero scambio e sulla libera circolazione dei capitali, ha prosciugato questi risparmi e ha costretto il Sud del mondo e altri paesi a contrarre prestiti per coprire i loro deficit commerciali. Il debito estero che ne è derivato ha presto superato la capacità di questi paesi di pagare, cioè di pagare senza cedere alle richieste distruttive di austerità del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che hanno bloccato gli investimenti necessari per aumentare la loro produttività e il loro tenore di vita. Non c’era modo per loro di soddisfare le proprie esigenze di sviluppo per investire in infrastrutture di base e fornire sussidi industriali e agricoli, istruzione pubblica e assistenza sanitaria, e altre spese sociali di base che caratterizzavano le principali nazioni industrializzate. Questa situazione rimane ancora oggi.
La loro scelta oggi è quindi quella di pagare i debiti esteri, a costo di bloccare il proprio sviluppo, oppure di dichiarare che tali debiti sono odiosi e insistere affinché vengano cancellati. La questione è se i paesi debitori otterranno la sovranità che dovrebbe caratterizzare un’economia internazionale basata sulla parità, libera dal controllo postcoloniale straniero sulle loro politiche fiscali e commerciali e sul loro patrimonio nazionale.
La loro autodeterminazione può essere raggiunta solo unendosi in un fronte collettivo. L’aggressività tariffaria di Donald Trump ha catalizzato questo processo riducendo drasticamente il mercato statunitense per le esportazioni dei paesi debitori, impedendo loro di ottenere i dollari necessari per pagare le obbligazioni e i debiti bancari, che quindi non saranno pagati in nessun caso. Il mondo è ora impegnato nella de-dollarizzazione.
La necessità di creare un’alternativa all’ordine postbellico incentrato sugli Stati Uniti fu espressa nel 1955 alla Conferenza dei Paesi non allineati di Bandung, in Indonesia. Tuttavia, questi paesi non disponevano di una massa critica di autosufficienza sufficiente per agire insieme. I tentativi di creare un Nuovo Ordine Economico Internazionale negli anni ’60 si scontrarono con lo stesso problema. I paesi non erano abbastanza forti dal punto di vista industriale, agricolo o finanziario per “fare da soli”. “
L’attuale crisi del debito occidentale, la deindustrializzazione e l’uso coercitivo del commercio estero e delle sanzioni finanziarie nell’ambito del sistema finanziario internazionale basato sul dollaro, coronato dalla politica tariffaria “America First”, hanno creato l’urgente necessità per i paesi di cercare collettivamente la sovranità economica per diventare indipendenti dal controllo statunitense ed europeo sull’economia internazionale. Il gruppo BRICS+ (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica+) ha appena iniziato a discutere di un tentativo in tal senso.
Il successo della Cina ha reso possibile un’alternativa globale
Il grande catalizzatore che ha spinto i paesi ad assumere il controllo del proprio sviluppo nazionale è stata la Cina. Come indicato in precedenza, il suo socialismo industriale ha in gran parte raggiunto l’obiettivo classico del capitalismo industriale di ridurre al minimo le spese generali dei rentier, soprattutto creando denaro pubblico per finanziare una crescita tangibile. Mantenere la creazione di denaro e credito nelle mani dello Stato attraverso la Banca popolare cinese impedisce agli interessi finanziari e di altri rentier di prendere il controllo dell’economia e di sottoporla alle spese generali finanziarie che hanno caratterizzato le economie occidentali. L’alternativa di successo della Cina per l’assegnazione del credito evita di ottenere guadagni puramente finanziari a scapito della formazione di capitale tangibile e del tenore di vita. Ecco perché è vista come una minaccia esistenziale all’attuale modello bancario occidentale.
I sistemi finanziari occidentali sono supervisionati da banche centrali che sono state rese indipendenti dal tesoro e dall’«interferenza» normativa del governo. Il loro ruolo è quello di fornire liquidità al sistema bancario commerciale che crea debito fruttifero, principalmente allo scopo di generare ricchezza finanziaria attraverso la leva del debito (inflazione dei prezzi degli asset), non per la formazione di capitale produttivo.
I guadagni in conto capitale – aumento dei prezzi delle abitazioni e di altri beni immobili, azioni e obbligazioni – sono molto più consistenti della crescita del prodotto interno lordo (PIL). Possono essere realizzati facilmente e rapidamente dalle banche, creando più credito per far salire i prezzi per gli acquirenti di questi beni. Anziché industrializzare il sistema finanziario, le società industriali occidentali si sono finanziarizzate, e ciò è avvenuto seguendo linee che hanno deindustrializzato le economie statunitense ed europea.
La ricchezza finanziaria può essere generata senza essere parte del processo produttivo. Gli interessi, le more, altre commissioni finanziarie e le plusvalenze non sono un “prodotto”, ma vengono conteggiati come tali nelle attuali statistiche del PIL. Gli oneri finanziari sul debito crescente sono trasferimenti al settore finanziario da parte dei lavoratori e delle imprese, prelevati dai salari e dai profitti guadagnati dalla produzione effettiva. Ciò riduce il reddito disponibile per la spesa dei prodotti realizzati dal lavoro e dal capitale, lasciando le economie indebitate e deindustrializzate.
Strategia delle nazioni creditrici-rentier
La strategia più ampia per impedire ai paesi di evitare l’onere dei redditi da rendita è stata quella di condurre una campagna ideologica, dal sistema educativo ai mass media. L’obiettivo è quello di controllare la narrazione in modo da dipingere il governo come un Leviatano oppressivo, un’autocrazia intrinsecamente burocratica. La “democrazia” occidentale è definita non tanto politicamente quanto economicamente, come un libero mercato le cui risorse sono allocate da un settore bancario e finanziario indipendente dalla supervisione normativa. I governi abbastanza forti da limitare la ricchezza finanziaria e di altro tipo dei rentier nell’interesse pubblico vengono demonizzati come autocrazie o “economie pianificate”, come se lo spostamento del credito e dell’allocazione delle risorse verso i centri finanziari di Wall Street, Londra, Parigi e il Giappone non portasse a un’economia pianificata dal settore finanziario nel proprio interesse, con l’obiettivo di creare fortune monetarie, non di migliorare l’economia complessiva e il tenore di vita.
I funzionari e gli amministratori della maggioranza globale che hanno studiato economia nelle università statunitensi ed europee sono stati indottrinati con un’ideologia pro-rentier priva di valori (cioè priva di rendite) per inquadrare il loro modo di pensare al funzionamento delle economie. Questa narrativa esclude la considerazione di come il debito polarizzi le economie crescendo in modo esponenziale con gli interessi composti. È escluso dalla logica economica dominante anche il classico contrasto tra credito e investimenti produttivi e improduttivi, e la relativa distinzione tra reddito guadagnato (salari e profitti, le principali componenti del valore) e reddito non guadagnato (rendita economica).
Al di là di questa campagna ideologica, la diplomazia neoliberista ricorre alla forza militare, al cambio di regime e al controllo delle principali burocrazie internazionali associate alle Nazioni Unite (ONU), al FMI e alla Banca mondiale (e a una rete più occulta di organizzazioni non governative [ONG]) per impedire ai paesi di ritirarsi dalle attuali regole fiscali favorevoli ai rentier e dalle leggi favorevoli ai creditori. Gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo di primo piano nell’uso della forza e nel cambio di regime contro i governi che vorrebbero tassare o limitare in altro modo l’estrazione di rendite.
Va notato che nessuno dei primi socialisti (ad eccezione degli anarchici) sosteneva la violenza come mezzo per ottenere le proprie riforme. Sono stati piuttosto gli interessi acquisiti – restii ad accettare la perdita dei privilegi che costituiscono la base delle loro fortune – a non esitare a ricorrere alla violenza per difendere la propria ricchezza e il proprio potere dai tentativi di riforma volti a limitare i loro privilegi.
Per essere sovrane, le nazioni devono creare un’alternativa che consenta loro di essere responsabili del proprio sviluppo economico, monetario e politico. Ma la diplomazia statunitense considera qualsiasi tentativo di attuare le necessarie riforme politiche e fiscali e una forte autorità normativa governativa come una minaccia esistenziale al controllo degli Stati Uniti sulla finanza e sul commercio internazionale. Ciò solleva la questione se sia possibile realizzare riforme e un’economia pubblica forte senza ricorrere alla guerra. È naturale che i paesi si chiedano se sia possibile raggiungere la sovranità economica senza una rivoluzione, come quella che l’Unione Sovietica, la Cina e altri paesi hanno combattuto per porre fine al dominio della classe dei proprietari terrieri e dei creditori sostenuta dall’estero.
L’unico modo per proteggere la sovranità economica dalle minacce militari è quello di unirsi in un’alleanza di mutuo sostegno, poiché i singoli paesi possono essere isolati come è successo a Cuba, Venezuela e Iran. Come disse Benjamin Franklin: «Se non restiamo uniti, saremo impiccati separatamente».
Gli scrittori americani descrivono il tentativo di altri paesi di unirsi per raggiungere la sovranità economica come una guerra di civiltà. Sebbene si tratti effettivamente di una sfida tra civiltà, sono gli Stati Uniti e i loro alleati a muovere aggressione contro i paesi che cercano di ritirarsi da un sistema che ha fornito loro un enorme afflusso di rendite economiche e servizio del debito dai paesi ospitanti soggetti alla diplomazia sostenuta dagli Stati Uniti.
Dall’occupazione coloniale europea al colonialismo finanziario incentrato sugli Stati Uniti
Dopo la seconda guerra mondiale, l’era del colonialismo dei paesi colonizzatori ha lasciato il posto al colonialismo finanziario, con l’economia internazionale dollarizzata sotto la guida degli Stati Uniti. Le regole di Bretton Woods stabilite nel 1945 permisero alle multinazionali di mantenere i redditi economici derivanti dalla terra, dalle risorse naturali e dalle infrastrutture pubbliche al di fuori della portata fiscale nazionale. I governi furono ridotti al ruolo di agenti di riscossione per i creditori stranieri e di protettori degli investitori stranieri dai tentativi democratici di tassare la ricchezza dei rentier.
Gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il commercio mondiale in un’arma monopolizzando le esportazioni di petrolio da parte delle compagnie petrolifere statunitensi e alleate (le Seven Sisters), mentre il protezionismo agricolo statunitense ed europeo e la politica di “aiuti” della Banca Mondiale hanno indotto i paesi con deficit alimentare a concentrarsi sulle colture tropicali invece che sui cereali per nutrirsi. L’accordo di libero scambio nordamericano del 1994 con il Messico, firmato dal presidente Bill Clinton, ha inondato il mercato messicano con esportazioni agricole statunitensi a basso prezzo (fortemente sovvenzionate dal governo). La produzione cerealicola messicana è crollata, rendendo il Paese dipendente dall’importazione di cibo.
Per impedire ai governi di tassare o addirittura multare gli investitori stranieri al fine di ottenere un risarcimento per i danni causati ai loro paesi, le potenze rentier odierne hanno creato tribunali per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stati (ISDS) che obbligano i governi a risarcire gli investitori stranieri per l’aumento delle tasse o l’imposizione di normative che riducono il reddito di proprietà straniera. [1] Ciò ostacola la sovranità nazionale, impedendo ai paesi ospitanti di tassare la rendita economica dei loro terreni e delle loro risorse naturali di proprietà di stranieri. L’effetto è quello di rendere queste risorse parte dell’economia della nazione investitrice, non della loro. [2]
Altre nazioni hanno permesso agli Stati Uniti di dettare l’ordine post-seconda guerra mondiale, con la promessa di generosi aiuti a sostegno del libero scambio, della pace e della sovranità nazionale postcoloniale, come sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. Ma gli Stati Uniti hanno sperperato la loro ricchezza in spese militari all’estero e nella dipendenza dalla ricchezza finanziaria in patria. Ciò ha lasciato il potere post-industriale dell’America basato principalmente sulla sua capacità di danneggiare altri paesi con il caos se questi non accettano l'”ordine basato sulle regole” progettato per estorcere loro tributi.
Gli Stati Uniti impongono tariffe protezionistiche e quote di importazione a loro piacimento, sovvenzionano l’agricoltura e le tecnologie chiave come potenziali monopoli globali dell’alta tecnologia, mentre vietano ad altri paesi di attuare tali politiche “socialiste” o “autocratiche” per diventare più competitivi. Il risultato è un doppio standard in cui l'”ordine basato sulle regole” degli Stati Uniti (le proprie regole) sostituisce il rispetto del diritto internazionale.
La politica di sostegno dei prezzi agricoli degli Stati Uniti, avviata sotto Franklin Roosevelt negli anni ’30, fornisce un buon esempio del loro doppio standard. Ha reso l’agricoltura il settore più fortemente sovvenzionato e protetto. È diventata il modello per la Politica Agricola Comune (PAC) della Comunità Economica Europea introdotta nel 1962. Ma la diplomazia statunitense si oppone ai tentativi di altri paesi, in particolare quelli del Sud del mondo, di imporre i propri sussidi protezionistici e le proprie quote di importazione volte a raggiungere l’autosufficienza nella produzione alimentare di base, mentre gli “aiuti finanziari” degli Stati Uniti e la Banca Mondiale hanno (come indicato sopra) sostenuto l’esportazione di colture tropicali da parte dei paesi del Sud del mondo attraverso prestiti per lo sviluppo dei trasporti e dei porti. La politica statunitense si è sempre opposta all’agricoltura a conduzione familiare e alla riforma agraria in tutta l’America Latina e in altri paesi del Sud del mondo, spesso con la violenza.
Non sorprende che, essendo stata a lungo il principale avversario militare degli Stati Uniti, la Russia abbia assunto un ruolo di primo piano nella protesta contro l’ordine unipolare statunitense. Sostenendo un’alternativa multipolare all’ordine neoliberista statunitense nel 2023, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha descritto la sottomissione economica postcoloniale dei paesi che hanno raggiunto l’indipendenza politica dal dominio colonialista nel XIX e XX secolo, ma che ora devono affrontare il prossimo compito necessario per completare la loro liberazione.
I nostri amici africani stanno prestando sempre più attenzione al fatto che le loro economie continuano a basarsi in gran parte sullo sfruttamento delle risorse naturali di questi paesi. Infatti, tutto il valore aggiunto è prodotto e intascato dalle ex metropoli occidentali e dagli altri membri dell’Unione Europea e della NATO.
L’Occidente sta ricorrendo a sanzioni unilaterali illegali, che sempre più spesso diventano il presagio di un attacco militare, come è avvenuto in Jugoslavia, Iraq e Libia e sta avvenendo ora in Iran, nonché a strumenti di concorrenza sleale, avviando guerre tariffarie, sequestrando beni sovrani di altri paesi e sfruttando il ruolo delle loro valute e dei loro sistemi di pagamento. L’Occidente stesso ha di fatto seppellito il modello di globalizzazione che aveva sviluppato dopo la guerra fredda per promuovere i propri interessi. [3]
Marco Rubio ha ribadito lo stesso concetto durante le audizioni al Senato degli Stati Uniti per confermarlo come Segretario di Stato di Donald Trump, spiegando che “l’ordine globale del dopoguerra non solo è obsoleto, ma ora viene usato contro di noi”. [4] Violando le regole del commercio estero e degli investimenti che gli stessi Stati Uniti avevano dettato nel 1945, in un altro esempio di ricorso da parte degli Stati Uniti all’«ordine basato sulle regole» delle proprie regole, i dazi unilaterali del presidente Trump miravano sia a trasferire i costi militari della nuova guerra fredda su altri paesi – che avrebbero dovuto acquistare armi americane e fornire eserciti proxy – sia a costringere i paesi a consentire alle aziende statunitensi di ottenere rendite di monopolio sulle principali tecnologie emergenti per sostituire il proprio potere industriale perduto.
Gli Stati Uniti mirano a imporre diritti di monopolio e relativi privilegi di rendita particolarmente favorevoli a se stessi su tutto il commercio e gli investimenti mondiali. La diplomazia America First di Trump esige che gli altri paesi conducano i loro scambi commerciali, i pagamenti e i rapporti di debito in dollari statunitensi anziché nelle loro valute. Lo “stato di diritto” statunitense è tale da consentire agli Stati Uniti di imporre unilateralmente sanzioni commerciali e finanziarie che dettano come e con chi i paesi stranieri possono commerciare e investire. Se non boicottano le relazioni commerciali e di investimento con la Russia, la Cina e altri paesi che rifiutano di sottomettersi al controllo degli Stati Uniti, questi paesi sono minacciati dal caos economico e dalla confisca delle loro riserve in dollari.
Il potere degli Stati Uniti per ottenere queste concessioni dall’estero non è più la leadership industriale e la forza finanziaria, ma la sua capacità di causare il caos in altri paesi. Affermando di essere la nazione indispensabile, la capacità degli Stati Uniti di perturbare il commercio sta mettendo fine al loro precedente potere monetario e diplomatico internazionale. Tale potere era originariamente basato sul possesso delle più grandi riserve auree mondiali nel 1945, sul loro status di maggiore nazione creditrice ed economia industriale e, dopo il 1971, sull’egemonia del dollaro, derivante in gran parte dal fatto che il loro mercato finanziario era il più sicuro per le altre nazioni per detenere le loro riserve monetarie ufficiali.
L’inerzia diplomatica creata da questi precedenti vantaggi non riflette più la realtà del 2025. Ciò che i funzionari statunitensi hanno è la capacità di interrompere il commercio mondiale, le catene di approvvigionamento e gli accordi finanziari, compreso il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication) di compensazione bancaria dei pagamenti internazionali. La confisca da parte degli Stati Uniti e dell’Europa di 300 miliardi di dollari di depositi monetari russi ha offuscato la sua reputazione di sicurezza finanziaria, mentre i suoi cronici deficit commerciali e della bilancia dei pagamenti minacciano di sconvolgere la stabilità monetaria internazionale e il libero scambio che l’hanno resa la principale beneficiaria dell’ordine mondiale del 1945-2025.
In linea con il principio della sovranità nazionale e della non interferenza negli affari interni degli altri paesi che è alla base della creazione dell’ONU (il principio fondamentale del diritto internazionale fondato sulla Pace di Westfalia del 1648), il ministro degli Esteri russo Lavrov ha descritto (nel suo discorso citato sopra) la necessità di «istituire meccanismi di commercio estero [che] l’Occidente non sarà in grado di controllare, come corridoi di trasporto, sistemi di pagamento alternativi e catene di approvvigionamento». Come esempio di come gli Stati Uniti abbiano paralizzato l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), che avevano creato sulla base del libero scambio in un momento in cui gli Stati Uniti erano la prima potenza esportatrice mondiale, ha spiegato:
“Quando gli americani si sono resi conto che il sistema globalizzato che avevano creato – basato sulla concorrenza leale, sui diritti di proprietà inviolabili, sulla presunzione di innocenza e su principi simili, e che aveva permesso loro di dominare per decenni – aveva iniziato a favorire anche i loro rivali, in primis la Cina, hanno intrapreso azioni drastiche. Quando la Cina ha iniziato a superarli sul loro stesso terreno e secondo le loro stesse regole, Washington ha semplicemente bloccato l’organo di appello dell’OMC. Privandolo artificialmente del quorum, hanno reso inattivo questo fondamentale meccanismo di risoluzione delle controversie, che rimane tale ancora oggi.
Gli Stati Uniti sono riusciti a bloccare l’opposizione straniera alle loro politiche nazionaliste grazie al potere di veto di cui dispongono presso l’ONU, il FMI e la Banca mondiale. Anche senza tale potere, i diplomatici statunitensi sono riusciti a impedire alle organizzazioni dell’ONU di agire in modo indipendente dalla volontà degli Stati Uniti, rifiutandosi di nominare leader o giudici che non fossero fedeli alla loro politica estera. [5] Il mondo non è più governato dal diritto internazionale, ma da regole unilaterali statunitensi soggette a cambiamenti improvvisi a seconda delle vicissitudini del potere economico o militare americano (o della sua perdita). Come ha descritto il presidente russo Vladimir Putin nel 2022: «I paesi occidentali affermano da secoli di portare libertà e democrazia alle altre nazioni», ma «il mondo unipolare è intrinsecamente antidemocratico e non libero; è falso e ipocrita in tutto e per tutto». [6]
L’immagine che gli Stati Uniti hanno di sé stessi descrive la loro posizione dominante nel mondo come il riflesso della loro democrazia, del libero mercato e delle pari opportunità che, secondo loro, hanno permesso alla loro élite al potere di acquisire il proprio status essendo i membri più produttivi dell’economia, attraverso la gestione e l’allocazione dei risparmi e del credito. La realtà è che gli Stati Uniti sono diventati un’oligarchia rentier, sempre più ereditaria. Le fortune dei suoi membri derivano principalmente dall’acquisizione di beni che generano rendite (terreni, risorse naturali e monopoli) sui quali realizzano plusvalenze, mentre pagano la maggior parte delle loro rendite sotto forma di interessi ai loro banchieri, che finiscono per accaparrarsi gran parte di queste rendite e diventano la classe manageriale dominante della nuova oligarchia.
In sintesi
Il vero conflitto su quale tipo di sistema economico e politico avrà la maggioranza globale sta appena iniziando a prendere slancio. I paesi del Sud del mondo e altri sono stati spinti così profondamente nel debito che sono stati costretti a vendere le loro infrastrutture pubbliche per pagare gli oneri finanziari. Per riprendere il controllo delle proprie risorse naturali e delle infrastrutture di base è necessario il diritto fiscale di imporre una tassa sulla rendita economica derivante dalla terra, dalle risorse naturali e dai monopoli, nonché il diritto legale di recuperare i costi di bonifica ambientale causati dalle compagnie petrolifere e minerarie straniere e i costi di risanamento finanziario per il debito estero imposto dai creditori che non si sono assunti la responsabilità di garantire che i loro prestiti potessero essere rimborsati alle condizioni esistenti.
La retorica evangelizzatrice degli Stati Uniti descrive l’imminente frattura politica ed economica dell’economia mondiale come un “conflitto di civiltà” tra democrazie (paesi che sostengono la politica statunitense) e autocrazie (nazioni che agiscono in modo indipendente). Sarebbe più accurato descrivere questa frattura come una lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati europei e occidentali contro la civiltà, supponendo che la civiltà comporti, come sembra dover essere, il diritto sovrano dei paesi di promulgare le proprie leggi e i propri sistemi fiscali a beneficio delle proprie popolazioni all’interno di un sistema internazionale che ha un insieme comune di regole e valori fondamentali.
Ciò che gli ideologi occidentali chiamano democrazia e libero mercato si è rivelato essere un aggressivo imperialismo finanziario-rentier. E ciò che chiamano autocrazia è un governo abbastanza forte da impedire la polarizzazione economica tra una classe rentier super ricca e una popolazione povera, come sta accadendo all’interno delle stesse oligarchie occidentali.
Note
[1] Fornisco i dettagli e la discussione nel capitolo 7 di The Destiny of Civilization (ISLET 2022).
[2] La compagnia petrolifera saudita Aramco, ad esempio, non era una società affiliata giuridicamente distinta, ma una filiale della Standard Oil of New York (ESSO). Questa sottigliezza giuridica significava che le sue entrate e le sue spese erano consolidate nel bilancio della società madre statunitense. Ciò le consentiva di beneficiare di un credito d’imposta per la “deduzione per esaurimento” del petrolio, rendendo la società effettivamente esente dall’imposta sul reddito statunitense, sebbene fosse il petrolio saudita ad essere esaurito.
[3] Dichiarazioni e risposte alle domande del ministro degli Esteri Sergey Lavrov all’11° Forum internazionale Primakov Readings, Ministero degli Esteri russo, Mosca, 24 giugno 2025, https://mid.ru/en/press_service/video/view/2030626/
[5] L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), incaricata di tenere sotto controllo la proliferazione nucleare, è l’esempio più recente e noto. Il suo leader, Grossi, ha fornito ai servizi segreti statunitensi e israeliani i nomi degli scienziati iraniani uccisi e i dettagli dei siti di raffinazione nucleare iraniani che sono stati bombardati. Il veto degli Stati Uniti ha impedito a quasi tutte le Nazioni Unite di condannare gli attacchi israeliani contro la popolazione palestinese. E quando la Corte penale internazionale (ICC) ha incriminato Benjamin Netanyahu come criminale di guerra per aver condotto il genocidio di Israele contro i palestinesi, i funzionari statunitensi hanno chiesto la rimozione del giudice.
[6] Vladimir Putin, discorso del 30 settembre 2022 in occasione della firma dei trattati di adesione alla Russia delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk e delle regioni di Zaporozhye e Kherson, http://en.kremlin.ru/events/president/news/69465
La foto all’inizio di questo articolo ritrae un’opera esposta alla Summer Exhibition (2021) della Royal Academy di Londra.
Economista americano, professore di Economia all’Università del Missouri-Kansas City e ricercatore presso il Levy Economics Institute del Bard College, ex analista di Wall Street, consulente politico, commentatore e giornalista.