Draghi sintetizzato, di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Draghi è un politico, non un tecnico. Per la precisione, è un proconsole inviatoci dall’impero euro-atlantico con l’obiettivo di stabilizzare il sistema politico italiano, non di “salvare l’Italia” e tanto meno di “salvare gli italiani”, i quali si arrangeranno (nostra specialità da secoli).
Formando questo governo zeppo di revenants, lo conferma. Con la sua sola presenza, Mario Draghi riesce a:
a) integrare il centrodestra polverizzando in nanoparticelle l’espressione politica del “sovranismo/populismo”
b) riconfigurare l’intero sistema politico italiano, centrosinistra compreso (PD e M5* dovranno rifondarsi)
c) ostendere urbi et orbi che il refrain qualunquista “sono tutti uguali” è una TAC della realtà, ossia a delegittimare il suffragio universale, che dà molto fastidio ma non è possibile abolire, e demoralizzare l’iniziativa politica autonoma
d) predisporre lo scarico di tutte le colpe sui partiti (tutti) e l’avocazione di tutti i meriti a sé e ai tecnici che purtroppo, rispettosi come sono delle leggi e dei popoli, non possono guidare da soli come sarebbe opportuno e giusto
e) infine, come effetto collaterale, semplificare il recupero crediti e le procedure fallimentari (la riforma della giustizia civile consisterà in questo) + gestire il Recovery Fund in modalità più presentabili.
E’ un risultato politico di eccezionale valore e importanza per i mandanti di Draghi (l’amministrazione USA), che così fanno un decisivo passo avanti nell’integrazione dell’intero Stato Maggiore politico di tutte le forze antisistemiche “sovraniste/populiste” occidentali, che li hanno seriamente preoccupati negli scorsi anni. L’Italia non è più un problema, la Francia è avviata nella stessa direzione. Più lungo e difficile il lavoro di integrazione delle forze che hanno espresso Trump negli Stati Uniti (normalizzazione del partito repubblicano tutto).
Comunque, il campo euro-atlantico si è guadagnato anni di tregua e di stabilità. I problemi di fondo restano insoluti, ma dormienti. “Goodnight, sweet prince”.
Non si capisce la questione della competenza se non si tiene presente che nel corso del Novecento – oltre al conflitto centrale tra capitale economico e capitale culturale che costituisce la vera “lotta di classe”, ovvero borghesi contro burocrati, trasfigurato nella fase di transizione in un conflitto tra padri e figli – è andato in scena un continuo conflitto *all’interno* della classe competente, attorno alla definizione stessa della competenza in funzione di una lotta per il potere direttivo, articolato in dicotomie: tecnici contro organizzatori, e prima ancora specialisti contro intellettuali. In più piccolo è lo stesso conflitto che ritroviamo in ogni dibattito contemporaneo, o meglio in tutti quei dibattiti che non arrivano all’esistenza perché un’opposizione radicale sul metodo li precede, e sostituisce direttamente il dibattito. La disfatta culturale cui oggi assistiamo consiste nell’avere costituito un sistema educativo perfettamente in grado di formare tecnici, specialisti e organizzatori, salvo renderci conto che essi non possono soddisfare domande di ordine valoriale (cioè relative ai fini) mentre siamo totalmente incapaci di formare chi sarebbe preposto a rispondervi, ovvero gli intellettuali (che era poi l’ideale della Bildung, su cui non a caso si era fondata la precaria legittimità dei tempi moderni). Non stupisce che quel vuoto ora pretenda di occuparlo la religione. Nel frattempo la sindrome dell’arto mancante ha prodotto una galassia di pseudo-intellettuali, nella peggiore ipotesi inconsapevoli dei propri giganteschi limiti e nella migliore impegnati a rimpiangere quello che avrebbero potuto essere se non fossero stati costretti a inventarsi da soli, senza maestri e senza direzione.

LA BISCIA NEL CESTO DEI SERPENTI, di Antonio de Martini

LA BISCIA NEL CESTO DEI SERPENTI
La scelta di Mario Draghi, un impiegato di prim’ordine, ha molto in comune con l’avvento di Berlusconi al potere.
Al suo arrivo il Cavaliere miliardario suscitò grandi aspettative e così pure Draghi.
L’italiano medio si disse irragionevolmente: “ ha fatto tanti soldi e farà arricchire anche noi”.
Il sogno si rivelò follia e il risveglio fu amaro.
In questo caso, ci siamo detti “ ha tanta esperienza e grinta che metterà le cose a posto in quattro e quattr’otto. Bravo Mattarella ! non ce lo facevo. Ha perso la pazienza e capito la situazione.”
La grinta si è rivelata un pio desiderio nostro.
Temo che la delusione e l’illusione siano di pari intensità, salvo un effetto prestigio internazionale che svanirà presto.
Mi spiego.
L’uomo ha preparazione e prestigio, ma non ha saputo imporsi e – come molti che hanno vissuto all’estero- temo che non conosca i suoi compatrioti.
Si è illuso d’essere coadiuvato ed ha accettato uomini e promesse dei boiardi che lo logoreranno lodandolo.
Mattarella – vorrei tanto sbagliarmi- lo ha chiamato per fare solo da tesoriere dei fondi “ recovery” e basta.
Ha fatto appello al luminare per fare un clisterino all’agonizzante.
Alla pattuglietta di fidi che gestiranno con rigore questi ultimi fondi ha aggiunto le indicazioni dei partiti secondo le consuetudini del manuale Cencelli ripescando tra “colleghi” universitari e posatori di fibbra ottica.
Pensa davvero che la Cartabìa possa impugnare l’accetta necessaria nel covo dei serpenti di via Arenula? Ha dato esagerata attenzione alla fiducia e da per scontata l’esecuzione delle sue idee….
Pensa davvero che la fibbra ottica in Aspromonte farà miracoli e sarà messa in opera dai boy scout?
Anche un paio di anni prima della rivoluzione in Francia, fu chiamato il banchiere ginevrino Necker col mandato di guardare solo i conti.
Attesa messianica che durò poco.
Lo richiamarono poi quando era ormai troppo tardi.
Mi ero illuso che avrebbe riformato l’Italia ma – a giudicare dalla compagine ministeriale distillata con l’alambicco temo che abbia fatto una insalata russa con majonese scaduta.

LE MANI SPORCHE E LA LEGA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE MANI SPORCHE E LA LEGA

Le recenti vicende della crisi politica hanno provocato il solito rosario di spiegazioni basate su ideali, coerenza, ecc. ecc., aventi tutte in comune: a) la funzione propagandistica, di favorire gli amici (globalsinistri) e denigrare i nemici (sovrandestri) b) ciò che più interessa, usando argomenti di contorno, secondari, ed eliminando (perché scomodi e spesso estranei al loro modo di pensare) quelli principali.

Utilizzando la “cassetta degli attrezzi” del realismo politico l’interpretazione delle mosse degli attori in gioco è diversa.

Il primo caso è la “conversione” europeista di Salvini onde – secondo i media mainstream lo stesso sarebbe: un voltagabbana traditore e/o sconfitto da Draghi e dalle panzerdivisionen europee.

In realtà la prima regolarità della politica è la ricerca del potere (e del dominio), e la conversione della Lega deve valutarsi alla luce di quella regolarità assai più della quantità (e qualità) degli improperi anti-europei lanciati da Salvini e rilanciati dagli euroglobalisti (per lo più dai loro araldi); anche perché i nemici sono sì quelli con cui si conduce la guerra, ma anche coloro con cui si fa la pace.

All’uopo è bene ricordare il dramma di Sartre “les Mains sales”, in cui il protagonista, estremista dissidente uccide il segretario del partito comunista Hoederer perché ha realizzato un accordo con il regime collaborazionista filotedesco, contro il quale comunisti e i loro alleati conducevano una guerra civile. La scena del negoziato tra i leaders è un insieme di topos realistici a favore del capovolgimento di fronte, la spartizione del potere e i fattori di potenza.

Senza alcun problema Hoederer propone un accordo – accettato dal nemico, il capo dei filonazisti, ma rifiutato dal leader degli alleati borghesi – nel quale il partito comunista ha un ruolo preponderante nel nuovo organo di governo (3 membri su 6); la ragione di ciò è l’avanzata delle armate sovietiche, e la necessità dei conservatori d’ingraziarseli, nonché quella di tutti di far cessare le lotte interne e la guerra (esterna). Come dice il Principe, capo dei filonazisti “è necessaria una visione realistica della situazione”; Karsky, il capo degli antinazisti non comunisti, che ricorre (anche) ad argomenti moralistici, rimane isolato e perdente.

Di accordi come quello rappresentato nel dramma da Sartre, nella storia ne sono stati realizzati infiniti, anche in una guerra fortemente “ideologizzata” come la seconda guerra mondiale.

Ma perché in un contesto istituzionale come quello italiano, la partecipazione al governo, anche con forze opposte, ha tale importanza, tenuto conto che la Lega rischia di pagare un prezzo in termini elettorali alla coerenza della Meloni? Qua occorre ricorrere a due pensatori del ‘900. Il primo, Carl Schmitt sostiene che in una Repubblica parlamentare (com’è l’Italia) “Chi detiene la maggioranza fa anche le leggi ed inoltre è in grado di far rispettare le leggi che esso stesso ha fatto. Ma la cosa più importante è che il monopolio di far valere le leggi in vigore gli conferisce il possesso legale degli strumenti di potere statali e di conseguenza anche un potere politico assai più ampio della semplice «validità» delle norme”. Il giurista di Plettemberg chiama ciò “un plusvalore politico addizionale che si aggiunge al potere meramente normativistico-legale: un premio super legale al possesso legale del potere legale ed alla conquista della maggioranza”.

Entrando nel governo la Lega (e Forza Italia) ottengono due vantaggi: fruire di detto “plusvalore” e sottrarne (una parte) agli avversari.

E qua occorre ricordare Gramsci, per cui “lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catene di fortezze e casematte”: ma in uno Stato amministrativo, “sociale”, distributivo e soprattutto ben più esteso di quello liberale di un secolo fa, una parte di quelle casematte, che il pensatore sardo vedeva nella società civile, sono ora collocate (e dirette) nel e dal settore pubblico. Occupare – almeno in parte – la direzione di (gran parte) di quelle casematte è un passo – più che notevole – verso il potere.

D’altra parte anche se Draghi è, per storia e curriculum personale tutt’altro che un sovran-popul-identitario, ma un euroglobalista, lo stesso realismo consiglia: a) di tener conto che la maggioranza del popolo italiano è dall’altra parte b) che seguire una politica che non ne tenga conto è indebolire il governo sia in termini di consenso che di potenza. I cattivi risultati ottenuti dai governi italiani degli ultimi dieci anni con l’Europa (e non solo) sono stati determinati – in buona parte – dal fatto che i poteri “forti” (statali e non) sapevano di avere a che fare con governanti deboli, carenti di consenso e anche perciò poco affidabili. Utilizzabili nell’immediato, ma controproducenti per gli sponsor nel futuro.

Il governo Monti, con l’enorme e rapido aumento dell’opposizione anti-sistema, l’ha provato.

Pensare che Draghi (e i leaders europei) voglia ripetere quel colossale errore, è far torto alla prudenza e alle indubbie capacità dell’ex capo della BCE. Certo, il futuro è incerto e, come sempre, saranno i risultati a dire se la manovra è riuscita o meno. Ma è sicuramente un errore giudicare vinta o persa la partita prima che l’arbitro ne fischi l’inizio, sulla base, magari, del colore delle magliette dei giocatori. Così si fa tifo da stadio, non analisi politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

La preparazione di Draghi_di Gianni Candotto

Draghi, comunque, appartiene alla schiera ristretta dei decisori o quantomeno al livello immediatamente inferiore. E’ in grado quindi di adattare e rivedere le proprie posizioni in un contesto diverso, ferma restando la costanza della sua rete di relazioni e della sua appartenenza a determinati centri decisionali. Che sia in corso e che ci sia la consapevolezza e la necessità da almeno un paio di anni di un cambio di paradigma pare ormai evidente ai più_Giuseppe Germinario
DRAGHI E’ PREPARATO E HA UN GRAN CURRICULUM. QUINDI VIVA DRAGHI? PERCHE’ NO.
Dopo due anni e mezzo di grillismo e di improvvisati al governo, la domanda di gran parte della società è quella di avere persone competenti che sappiano gestire la cosa pubblica. Quindi per alcuni la figura di Draghi, che rappresenta l’antitesi umana e culturale del Di Maio di turno, rappresenta una lieta novità.
Al netto del fatto che in politica la competenza deve essere nella politica, non in una materia tecnica (essere un bravissimo architetto di suo non ha nessun valore per determinare la competenza politica, come essere un bravissimo medico, un bravissimo banchiere o un bravissimo fioraio, non significa essere un politico competente), ma questo è un argomento complesso che ci fuorvierebbe rispetto al ragionamento che voglio fare, occorre capire perché prima della competenza personale è necessario analizzare le idee che un politico vuol portare a compimento.
In politica conta molto la preparazione, perché la preparazione politica permette l’essere in grado di mettere in atto le idee che si vogliono portare avanti. Ma prima di tutto contano le idee che si vogliono portare avanti. Perché se le idee sono sbagliate la competenza è un pericolo, non una qualità.
Faccio un esempio pratico per semplificare il concetto (esempio che non c’entra con Draghi, ma è in generale). Prendiamo due politici fortemente favorevoli a un aumento dell’immigrazione in Italia. Di quelli che “non esistono i confini”, non esistono le nazioni, i popoli, abbiamo bisogno di milioni di immigrati perché ci paghino le pensioni ecc. La differenza tra i due è che uno è competente, l’altro incompetente e fannullone. Il risultato finale è che se governa il competente riuscirà a far venire molti più immigrati perché creerà un sistema efficiente di sussidi per immigrati, con casa, assistenza ecc., mentre se al governo ci sarà l’incompetente riuscirà a farne venire molti meno perché non riuscirà a organizzare un sistema di accoglienza ecc.ecc. Ma alla fine, se assumiamo che far venire milioni di immigrati sia un danno e un problema per l’Italia, il competente farà molti più danni dell’incompetente. Potrei fare esempi molto più estremi su quanti più danni può fare un competente preparato rispetto a un incompetente fannullone quando le idee sono molto più radicali e criminali, per esempio sulla volontà di creare una dittatura totalitaria, o di sterminare delle persone, ma mi fermo qua sperando che il concetto sia chiaro.
Quindi assunto che la competenza serve ad applicare con efficienza delle idee di governo, ma che la cosa fondamentale è sapere quali sono le idee, parliamo di Mario Draghi.
Quali sono quindi le idee che negli anni ha propugnato Mario Draghi? Quali sono le politiche che Draghi ha portato avanti negli anni?
Dal 1991 al 2001 è stato direttore generale del Tesoro e si è reso protagonista in tre vicende: le privatizzazioni del patrimonio dell’IRI (dal 1992 in poi), l’acquisto di derivati di Morgan Stanley (1994) e la legge Draghi (Testo Unico della Finanza legge 58 del 1998). Sulle privatizzazioni, oggi è opinione comune che si trattò di una scellerata operazione di svendita del patrimonio pubblico italiano che costò tantissimo all’Italia. Se Draghi fu forse (o forse no?) più il braccio operativo di questa operazione che la mente, fu comunque Draghi a presentare la vendita del patrimonio pubblico alla grande finanza anglosassone sul panfilo Britannia nel 1992.
Sempre sovrainteso da Draghi fu l’acquisto dei derivati “a copertura del debito”, i celebri “credit default swap” di Morgan Stanley, operazione riprodotta da tante amministrazioni locali, che dal 2008 creò un grande buco di bilancio a favore della grande banca d’affari americana (circa 25 miliardi). Un’operazione sicuramente disastrosa.
Un’altra decisione poi rivelatasi disastrosa è l’eliminazione della separazione tra banche d’affari e banche commerciali decisa nella legge Draghi del 1998. Questa legge ha permesso alle banche di usare il credito dei cittadini per acquistare titoli derivati e fare operazioni a rischio. Questa legge, assieme agli accordi europei di Basilea 3, anche lì Draghi ebbe un ruolo come presidente della BCE, fu lo strumento che permise alle banche operazioni spericolate e portò al fallimento di tante di esse, con i conseguenti disastri per i cittadini che avevano lasciato alle stesse i loro risparmi.
I tanti che lo ammirano, e oggi si sono moltiplicati come funghi, ricordano il “whatever it takes” del luglio 2012 che mise fine alla speculazione sul debito italiano, riportando il celebre spread a livelli più normali. Ma a parte essere un’operazione normale di una banca centrale, che l’Italia, se avesse avuto una banca centrale propria, avrebbe fatto da sola senza tanto clamore, bisogna analizzare i tempi. Fu fatta nel luglio 2012, 10 mesi dopo che l’Italia era andata in sofferenza per lo spread. E non in crisi di debito pubblico, che un po’ tutti gli studiosi un po’ più seri sapevano non esistere, ma sotto attacco speculativo. E la dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi di tutti oggi. Col debito al 125% del 2011 dicevano che lo stesso era insostenibile, oggi col debito al 160% in netto peggioramento lo spread è quasi a zero e il debito risulta sostenibilissimo. Questo perché l’Italia può sostenere un debito pubblico, pur non avendo una banca centrale creditrice di ultima istanza, fino circa al 230/240% del proprio Pil. Quindi era solo una speculazione finanziaria, e aver aspettato 10 mesi per difendere uno stato da un attacco speculativo, per me è ben lungi dall’essere un merito. Ma nel 2012 c’era Monti che applicava alla lettera i “consigli” proprio di Draghi della lettera Draghi Trichet inviata a Berlusconi il 5 agosto 2011.
Cosa diceva quella lettera, che era un po’ il manifesto politico di ciò che andava fatto secondo Draghi? Parlava di necessità di tagli pesanti alla spesa sociale. Monti e i suoi successori applicarono questa direttiva. I 50 miliardi di tagli alla sanità nascono da lì. E le mancanze degli ospedali, del personale, delle terapie intensive, che abbiamo avuto sott’occhio con l’emergenza Covid hanno origine lì: nella visione politica di Draghi. Nella lettera si parla di necessità di rendere flessibili i contratti di lavoro. Il dramma del precariato estremo dei giovani ha origine nelle idee che hanno ispirato la lettera di Draghi. Nella lettera si parla liberalizzazione dei mercati e aumento della concorrenza. Il fatto che lo Stato non abbia fatto nulla per evitare la vendita di tantissime aziende italiane a francesi o hedge funds ha origine lì (mentre i francesi hanno fatto leggi che vietano l’acquisto di aziende private francesi da parte di stranieri), il fatto che Amazon, per fare un esempio, faccia una concorrenza sleale ai negozi e questi ultimi siano costretti a chiudere ha origine lì. E così via.
Quindi il suo curriculum è quello di un liberista intransigente. E’ vero che nell’intervista del 25 marzo 2020 al Financial Times Draghi parla anche di investimenti pubblici, ma un’intervista a un giornale vale di meno dell’attività di una vita. Coerente. Da uomo preparato. Da liberista intransigente.
Se pensate che il liberismo intransigente sia la cura necessaria per l’Italia abbracciate l’idea che Draghi sia la soluzione. Se non lo pensate no.
E io penso che il liberismo sia il problema.
Non la soluzione.

Mario Draghi, la sua potenza di fuoco_ con Antonio de Martini

Mario Draghi è ripiombato sulla scena politica. Salutato come un salvatore; etichettato come un esponente della grande finanza, delle lobby finanziarie, dei poteri finanziari. Un abito troppo stretto per un vero decisore politico o, nel minore dei casi, a stretto contatto con i decisori, con gli strateghi. Draghi è tornato in Italia per sistemare le cose, non per galleggiare. E’ diverse spanne sopra gli altri attori. Che poi ci riesca, sarà tutto da vedere.

L’Italia è un paese troppo importante per essere lasciato completamente alla deriva; è un tassello fondamentale per bilanciare la posizione di Francia e Germania; è una piattaforma imprescindibile per influire nell’area mediterranea. I pochi a non rendersene conto sono gli italiani e la quasi totalità del suo ceto politico. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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Governo Draghi, sintesi_di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Il campo anti-sistemico (populista/sovranista/nazionalista) ha tentato e fallito il superamento della contrapposizione destra/sinistra (governo gialloverde) in conformità alla comune designazione della UE come “nemico principale”.
Oggi riesce a superare la contrapposizione destra/sinistra il campo sistemico (euroatlantico/mondialista), e ottiene una vittoria strategica di prima grandezza: integra in forma subalterna la principale forza politica anti-sistemica italiana (Nuova Lega) e predispone un contenitore/ghetto per le lunatic fringes anti-sistemiche (Fd’I). Fd’I è il contenitore/ghetto ideale delle forze anti-sistemiche perché è una forza politica erede del fascismo, che con il suo semplice rifiuto di integrarsi nella maggioranza sistemica la definisce e legittima, sul piano dei valori, quale riedizione/riattivazione dell’ arco costituzionale antifascista.
Qualcosa di analogo era già avvenuto in Francia con la riuscita dell’esperimento Macron, brillantemente improvvisato per scongiurare il pericolo Front national nelle presidenziali 2016; ma il governo Draghi ne è la forma compiuta e integrale.
Come sempre avviene, la vittoria del campo sistemico consegue agli errori (catastrofici) e alle insufficienze anzitutto culturali (gravi) del campo anti-sistemico; e ovviamente alla bravura degli strateghi del campo vittorioso.
I problemi che hanno portato alla nascita di un campo anti-sistemico in tutto l’Occidente, però, non spariscono, sebbene per ora non trovino una sintesi culturale e politica adeguata.

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020, pp. 224, € 18,00

La globalizzazione dell’ultimo trentennio ha generato non soltanto la propria opposizione politica, ma anche, specie negli ultimi anni, una vasta letteratura critica, che insiste su uno o più caratteri negativi del processo (sociologici, religiosi, politici, economici); l’autore, economista e marxista, ne vede (prevalentemente ma non solo) la causa economica. E lo fa riandando alla legge di riproduzione e tendenza del capitale, la quale genera non sono un’ingiustizia crescente (il divario tra ricchi e poveri), ma una serie di contraddizioni che minano la sostenibilità del sistema.

La principale delle quali è “quella tra l’originaria struttura decentrata del mercato capitalistico e il progressivo accentramento dei poteri finanziari che operano in esso”; onde “la centralizzazione contribuisce ad accrescere le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, a restringere le condizioni di riproducibilità del capitale e a moltiplicare gli inneschi della crisi. Dove poi questa tendenza possa condurci, magari verso una moderna e civile logica di piano o piuttosto verso la barbarie, è una questione che resta drammaticamente aperta”.

La centralizzazione da un lato causa polarizzazione sociale, come già scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista: “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato”. Secondo Brancaccio questa è un’opposizione all’interno del capitalismo, di guisa che “Una lotta di emancipazione dai vincoli internazionali, che venisse egemonizzata dalle sole rappresentanze di un piccolo capitalismo frammentato e in affanno, assumerebbe pressoché inesorabilmente caratteri reazionari, potenzialmente neofascisti”; peraltro il capitalismo odierno, al contrario di quello descritto da Marx ed Engels, è stato soverchiato dai suoi stessi sviluppi. Se quello accresceva lo sviluppo sociale e la sua ripartizione, quello odierno li ha persi “Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalismo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini”.

Il compromesso socialdemocratico (o fordista) del secolo breve era stato determinato dal freno delle guerre e del bolscevismo. Crollato il quale la legge di riproduzione e tendenza è tornata a spiegare i suoi effetti. Il tutto influisce anche sulla sovrastruttura politica, in senso negativo sui valori e istituti del liberalismo. “La tendenza alla crescita del capitale rispetto al reddito e alla centralizzazione del suo controllo in sempre meno mani non sembra compatibile con il mantenimento futuro della democrazia, della libertà, al limite della pace”; “Il moto profondo del sistema costituisce in sé una minaccia per la sopravvivenza delle istituzioni su cui si reggono le democrazie liberali contemporanee”.

Quale rimedio alla crisi l’autore propone la pianificazione collettiva “Tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza devono riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo”. Tuttavia, ammette Brancaccio “la logica profonda del rapporto tra piano e libertà è ancora tutta da esplorare”.

In sintesi il volume presenta analisi difficilmente contestabili, ma soluzioni assai discutibili. A partire dall’ultima: come conciliare libertà e pianificazione se la costante del (fu) socialismo reale è stata di limitare al massimo libertà e democrazia? in questo senso è facile prevedere che il relativo percorso sia una strada tutta in salita.

Quanto alle conseguenze politiche della legge di riproduzione, già un pensatore controrivoluzionario come de Bonald, in un saggio/recensione pubblicato l’anno in cui Marx nasceva (1818) valutava realisticamente le conseguenze del costituzionalismo liberale e del potere ascendente della borghesia.

Secondo il controrivoluzionario l’effetto del nuovo ordine, in particolare col voto censitario e ristretto è “la promozione di una classe essenzialmente dedita ad attività economiche, a patriziato politico”; e sotto un altro profilo, così si crea una classe con un enorme potere, perché non basata, come la vecchia noblesse sulla proprietà fondiaria, per sua natura limitata, ma sulla ricchezza mobiliare, altrettanto naturalmente senza limiti “una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale immobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (i corsivi sono miei)”. Mentre “ grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè”. De Bonald aveva visto giusto: “far commercio di tutto il mondo” è ancora quanto con più sintesi ed efficacia descrive l’ethos del capitalismo attuale, finanziarizzato, informatizzato e uniformatore. Si noti che la critica del controrivoluzionario è rivolta più agli aspetti “istituzionali” cioè dell’organizzazione dello Stato che a quelli relativi ai diritti individuali di libertà.

Peraltro, individuava la classe (il soggetto) rivoluzionaria, “generata” dalle contraddizioni del capitalismo, ossia il proletariato. Solo che i proletari, nel senso di Marx (cioè operai dell’industria allora in espansione) se ne contano, nei paesi sviluppati, sempre meno.

A questo punto, e tenuto conto che come scriveva il filosofo di Treviri, e conferma l’autore, a essere proletarizzati, uniformizzati e, in definitiva sfruttai sono proprio quelle classi a vocazione “reazionaria”, non sarà che proprio tra queste e nella loro unione emergerà il soggetto rivoluzionario? Anche perché la sinistra “classica” pensa ad altro che a tutelare gli interessi dei lavoratori?

Il saggio, curato da Russo Spena – che ne ha scritto anche l’introduzione – è interessante; ma lo sarebbe stato ancora di più se l’autore avesse trattato l’incidenza sulla situazione odierna degli apparati amministrativi, della finanza pubblica e dell’imposizione fiscale. Tutt’altro che “neutre” (o di scarsa rilevanza) rispetto alle contraddizioni ed ai conflitti già in atto e che ci aspettano, anzi coadiuvanti la concentrazione di ricchezza e la “riduzione” dello Stato sociale.

In attesa e nella speranza di un altro saggio che ne tratti, consigliamo la lettura di questo.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’impossibile ritorno al passato, con Gianfranco Campa

Più che un ritorno al passato, le velleità restauratrici di una classe dirigente americana assediata e senza bussola. Più che ordine, confusione dove i colpi di mano disordinati dei vari centri di potere sembrano prevalere su ogni disegno. Man mano che Biden esibisce i propri campioni destinati ad occupare le caselle fondamentali del proprio staff, diventa evidente la fonte di ispirazione del suo mandato. Il problema sarà nella capacità di sintesi di quegli interessi e di quelle ambizioni_Giuseppe Germinario

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Conte 2 e 1/2…quasi 3, di Giuseppe Germinario

Ad un Matteo che langue e che rischia di fermarsi sulla soglia del traguardo o tuttalpiù di giungere alla meta vincitore, ma spossato, da alcuni anni nello scenario politico italiano si avvicenda un altro Matteo pronto a risorgere improvvisamente dalle ceneri. Entrambi amano l’azzardo e il colpo di scena, in particolare l’abbandono ostentato del palcoscenico.

Matteo I soprattutto perché è un istintivo. Diciotto mesi fa ha abbandonato la scialuppa di Giuseppi, sicuro di poter raccogliere a giorni il frutto elettorale della sua azione politica e fiducioso delle rassicurazioni del suo alter ego, Matteo II. Mal gliene incolse. Aveva sottovalutato la spregiudicatezza del suo clone e il trasformismo ecumenico e senza patemi e remore di Giuseppe Conte. Tutto sommato, però, gli è andata bene. Ha potuto conservare ancora per tempo in un unico consesso le due anime poco armoniche che ormai costituiscono il suo partito eludendo quelle scelte obbligate e dirimenti che di lì a poco la contingenza politica lo avrebbe costretto a prendere; le due anime essendo quella storica, localistica, fornita di radici territoriali e sociali ben delimitate e di una classe dirigente con una qualche esperienza amministrativa; quella nazionale tanto appariscente e conclamata, quanto priva di contenuti solidi e di portatori all’altezza della situazione sino a rischiare di scivolare ripetutamente nell’effimero.

Matteo II soprattutto perché è un beffardo. Il suo azzardo è molto più calcolato e cinico, ma non sufficientemente mimetizzato; ostentato, al contrario, attraverso la sua insopprimibile e compiaciuta fisiognomica. Una caratteristica che lo ha costretto dalle stelle alle stalle in una parabola strettissima e fulminante di appena quattro anni. Il suo è sembrato un epilogo dal sapore definitivo, corroborato dallo scarso proselitismo ottenuto dalla scelta di abbandonare il PD. La scelta di abbandonare la compagine governativa di Giuseppe II senza determinarne la rumorosa caduta è parso ai più come il classico salto della chimera, tanto effimero da far ripiombare nel giro di poche ore il nostro nell’anonimato. E i più hanno avvallato la tesi di una clamorosa sconfitta di Matteo Renzi, confortati tanto più dai sondaggi impietosi ai danni di Italia Viva.

A ben vedere la similitudine potrebbe però indurre ad un giudizio troppo frettoloso.

La scelta di abbandonare i tre ministeri si è compiuta dopo almeno sette mesi di confronto interno al Governo la cui virulenza è stata percepita solo grazie ai continui rinvii ai quali ci ha adusi il buon Giuseppe. L’argomentazione della scelta è stata per altro particolarmente articolata e scandita da frequenti preavvisi, senza la sicumera e l’arroganza manifestata dal protagonista durante le altrettanto rapide ascesa e caduta di quattro anni fa. Una volta registrata la chiusura di Giuseppe Conte ad una riapertura del confronto, la scelta dell’astensione è stata interpretata come una manifestazione di debolezza dovuta alla scarsa compattezza del gruppo parlamentare; una ragione dal peso piuttosto relativo rispetto al vantaggio offerto da una tattica di logoramento degli schieramenti e dei partiti la quale richiede tempi più appropriati.

Matteo Renzi ha messo in conto la possibile perdita di una parte del suo gruppo parlamentare esterno allo zoccolo duro dei fedeli. Matteo Renzi sa benissimo che per almeno ancora qualche anno ha scarsissime possibilità di conseguire un qualche incarico da Presidente, da ministro o da capo di partito grazie alla sua rovinosa caduta ancora troppo recente e all’impopolarità della quale è vittima. Ha al suo attivo la possibilità e l’obbligo di ricambiare il favore e il riconoscimento esclusivo di una cena offerta in suo onore alla Casa Bianca da quello stesso establishment che ha appena ripreso il sopravvento negli Stati Uniti. Può puntare quindi ad incarichi di apparato di alto livello e di prestigio e puntare o prestarsi a condurre o essere compartecipe nel frattempo di strategie di medio periodo senza l’ossessione della difesa quotidiana delle posizioni di potere.

L’obbiettivo di fondo di Renzi è quello di promuovere e pervenire al dissolvimento finale del M5S e ad una scomposizione e ricomposizione delle restanti forze politiche, ad eccezione probabilmente di Fratelli d’Italia, tale da creare da una parte una forza politica dichiaratamente, apertamente e coerentemente europeista nella sua attuale configurazione e nel suo attuale indirizzo politico, ossequiosa alla NATO con un blocco sociale composto dalle forze più integrate ed efficentiste in esse e corroborate dalla forza d’urto e di consenso di gran parte del terzo settore contrapposta eventualmente a forze sterilmente protestatarie; componente quest’ultima, della cui formazione non può ovviamente farsi carico.

Da questo punto di vista la forza degli argomenti da lui esibiti nel criticare l’azione di governo è tutta dalla sua parte. I sessantadue punti correttivi del Recovery Fund https://www.italiaviva.it/le_62_considerazioni_di_italia_viva_sulla_proposta_italiana_per_il_recovery_fund da lui presentati sono senz’altro un notevole passo avanti dal punto di vista dell’efficacia intrinseca dell’intervento rispetto all’ipotesi originaria ufficiosa fatta circolare da Conte; è però una efficacia tutta interna alla logica delle politiche comunitarie così come illustrate in almeno un paio di articoli su questo blog. http://italiaeilmondo.com/2020/12/31/tre-piani-a-confronto-e-il-bluff-di-giuseppe-germinario/Una logica che non garantisce assolutamente una politica economica ed industriale tale da garantire autonomia e peso strategico al paese; http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ che è propedeutica ad un ulteriore pedissequo allineamento alle future scelte interventiste della nuova amministrazione americana condotte con la copertura del multilateralismo, della difesa dei diritti umani, del catastrofismo ambientalista e della cooperazione internazionale attraverso il sistema di alleanze rinvigorito dopo quattro anni di condotte alterne.

Su questo Renzi ha buon gioco nell’asfaltare Giuseppe Conte; come ha buon gioco nell’accusarlo apertamente di essere del tutto inadeguato a svolgere il proprio compito di Capo di Governo.

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha fatto di tutto per confortare l’azione di Matteo II.

La qualità penosa dei suoi quattro interventi alla Camera e al Senato di lunedì e martedì, conditi con il suo patetico appello finale culminato con il pietoso grido di angoscia “aiutateci”, non ha fatto che rinforzare questo suo giudizio. Un giudizio già suffragato dalla evidente carenza di capacità programmatica e dalla incapacità di controllo e indirizzo della macchina amministrativa; un limite quest’ultimo, per la verità caratteristico di gran parte delle compagini governative succedutesi. Interventi, quindi che hanno evidenziato la sua totale incapacità di indirizzo ed autorevolezza che potesse giustificare e coprire in qualche maniere le nefandezze in corso per raggiungere entro poche settimane una incerta maggioranza assoluta; la sua ingenuità e il suo provincialismo nel prestarsi ostentatamente ad operazioni di sottogoverno; l’inesistenza e l’insulsaggine della principale forza politica, il M5S, ormai principale responsabile della condizione di paralisi ed inadeguatezza politica. Un atteggiamento tipico, ben coltivato negli ambienti più gretti della curia romana della quale è espressione il nostro avvocato del popolo.

L’obbiettivo di fondo della residua compagine di governo, impersonata da Conte, in realtà non è sostanzialmente diverso da quello dichiarato da Renzi.

Cambia nella qualità di presentazione, più abborracciata, e nella credibilità del protagonista ormai avvitato nella terza operazione trasformistica della sua breve ma intensa carriera di Capo di Governo dallo scarso pedigree e dalla “inesistente gavetta”; cambia nei tempi più lunghi richiesti dal processo di trasformazione e di assorbimento, eventualmente sotto altre spoglie, del M5S nell’alveo conformista; cambia nell’entità dei costi richiesti in termini di assistenzialismo e di dispendio insensato di risorse da tale politica trasformista; cambia nell’entità dei rischi di contaminazione che il PD corre, nel suo impegno di traghettamento del M5S, grazie all’immagine scialba di figure della levatura di Gualtieri, Orlando e Zingaretti e al bagaglio culturale del loro mentore Bettini.

L’uno, Matteo II, foriero quindi di una esibizione aperta di obbiettivi capace magari inizialmente di mobilitare ed accelerare le scelte, salvo poi esibire rapidamente la vacuità dei vantaggi che queste scelte così allineate possono offrire ad un blocco sociale sufficientemente coeso ed esteso che possa garantire la sopravvivenza sia pure ulteriormente subordinata del paese.

L’altro, Giuseppi 2 e ½..quasi 3, più attendista e mimetizzato, probabilmente anche più annebbiato nel perseguimento delle stesse scelte di fondo ma più spalleggiato nei corridoi.

L’uno alfiere, paladino e combattente in tutto simile ai patrioti, o presunti tali, della disfida di Barletta, i quali per difendere l’onore degli italiani contro gli spagnoli non trovano di meglio che assumere armi e difesa al soldo dei francesi.

L’altro impegnato, con la complicità di élites sempre più compiacenti ed un relativo favore popolare masochistico, nel predisporre e trasformare ulteriormente in un acquitrino, in una palude un territorio ormai sempre più ben disposto alle incursioni e ai saccheggi.

A noi la scelta in una battaglia talmente feroce da nascondere probabilmente una posta in palio ben più rilevante sotto la pressione di fazioni che vanno al di là dei confini europei e attraversano l’Atlantico. Quando l’oggetto del contendere arriva ad investire apertamente i servizi di intelligence vuol dire che ci si sta avvicinando ad un livello di scontro simile a quello statunitense, con qualche vena parodistica in più ma con un desiderio di regolare i conti per interposta persona analogo. Su questo ha ragione a chiedere lumi il senatore Adolfo d’Urso, voce nel deserto.

Chissà se alla fine la tenzone tra i due si potrà concludere su chi dovrà offrire all’osteria. Possibile, ma poco probabile.

L’ultimo imperatore, di Gianfranco Campa

Trump ha perso! E’ stato annientato dagli apparati di potere di Washington e globalisti. Il magnate newyorkese era entrato in politica con i fuochi d’artificio e con i fuochi di artificio ne sta uscendo; oscurato e bannato dai giganti dell’High tech, tradito dall’establishment repubblicano. 

Trump lascia la Casa Bianca combattendo “to the bitter end”, fino all’annientamento senza resa. Mi vengono in mente le parole del generale tedesco Paul Conrath, il salvatore dei tesori di Montecassino, comandante della divisione Hermann Göring, che così risponde alla richiesta del suo superiore, il Field Marshal Albert Kesselring “Conrath gli alleati stanno sbarcando in Sicilia, sei pronto?”: “Vuoi un’immediata, spericolata offensiva contro il nemico? Sono il tuo uomo!”  L’atteggiamento di Conrath era in linea con la filosofia del vecchio esercito prussiano: “Non chiedere quanti sono i nemici, chiedi solo dove sono.” Lo slogan aveva senso per un esercito abituato a combattere nemici più grandi e più ricchi e  non aveva quindi altra scelta che enfatizzare la forza di volontà sulle armi, il cuore sull’alta tecnologia. Gli ufficiali prussiani non dovevano ponderare troppo sulle probabilità, ma piuttosto combattere in inferiorità numerica e vincere, dando tutto ciò che avevano. Trump, forse, nella sua stirpe ha qualcosa di Prussiano. Resta il fatto che ha combattuto un nemico infinitamente superiore; più grande, più ricco (Establishment politico/Apparati del Potere/Multinazionali/Istituzioni bancarie e finanziarie/ Establishment scientifico e medico) e tecnologicamente superiore (Mass Media/Silicon Valley). Ha combattuto per tutto il suo mandato in inferiorità numerica pur se guidato da grande volontà e cuore; in stile prussiano appunto. 

Si è avuta comunque sempre la convinzione, in questi ultimi quattro anni, che Trump non avesse mai realmente capito chi fossero i suoi veri nemici.  C’è sempre stata la netta sensazione che giocava a un gioco più grande di lui, un pivello alle prime armi in un mondo pieno di squali e vipere. Detto questo, Trump non ha completamente fallito. Non ha avuto la possibilità di terminare l’opera, ma il partito Repubblicano del vecchio establishment politico non esiste più; ora è il partito non tanto di Trump, quanto del movimento di Trump. Quel movimento nato sulle ceneri dei Tea Party e che aveva adottato Trump come un viatico per picconare il sistema dei poteri. Trump esce di scena, ma il Trumpismo è qui per rimanerci. Cambierà nome, si evolverà, ma non sarà mai più allineato ai vertici del partito Repubblicano. L’establishment ha vinto la guerra con Trump ma nel corso di questa lunga e sanguinosa guerra ha perso il popolo dal quale quel partito è sostenuto; in altre parole i vertici Repubblicani sono ora nudi senza che ci sia una base consistente che li segua. Il loro destino è segnato, in pochi verseranno lacrime al loro crepuscolo.

Trump è uno uomo imperfetto che ha commesso molti errori e con molte lacune; ha però anche portato a compimento molte opere titaniche soprattutto nelle circostanze in cui ha dovuto operare, ostacolato com’era dai centri del potere Americano e internazionale, uniti sotto la bandiera dell’antitrumpismo. La storia, si dice che sia narrata e scritta dai vincitori non dai vinti e sicuramente in questo contesto il mondo accademico, anche questo ostile a Trump, non esalterà di certo le lodi nella narrazione storica delle azioni del presidente Trump. Si spera che fra cento o mille anni, quando la nazione a stelle e strisce sarà un pallido ricordo studiato solo nei libri e nei resoconti didattici, gli storici saranno più obbiettivi nel giudicare uno degli ultimi imperatori di questo tardo impero americano.

Sono molte le imprese compiute da Trump in questi quattro anni, ma la maggior parte della gente, quella che lo scienziato politico Samuel Popkin definisce “Low information voters”, cioè gli elettori (la maggior parte) con una basso livello di conoscenza, nutriti e indottrinati dai mass media e dall’establishment politico, non ne è a conoscenza.

Trump esce e rientra alla Casa Bianca Joe Biden; questa volta nelle vesti del nuovo imperatore, visto che l’ultima volta che bazzicava alla Casa Bianca ne era il vice, secondo solo a sua maestà, bombarolo maximus, il distruttore di mondi, Barack Obama.

Inizia ora il regno dell’imperatore nudo, politicamente corrotto. 47 anni di vita politica nelle stanze del potere di Washington. Che tipo di imperatore sara Biden? Un imperatore fantasma, una figura di facciata, la vera presidente sarà Kamala Harris, la favorita di Obama; per molti versi questa sarà la terza amministrazione Obama in 12 anni. Biden,  prevedo che durerà si e no, non più di  due anni, poi sarà costretto a dimettersi per motivi di salute.  Il futuro della repubblica americana è sprofondato in acque torbide; quello che ne uscirà dall’altra sponda sarà una America completamente diversa da quella vista finora. Si avvererà quello che la teoria generazionale di Strauss-Howe chiama “the Fourth Turning”, la Quarta Svolta, che descrive un ciclo generazionale ricorrente teorizzato nella storia americana e nella storia globale. 

I prossimi mesi e anni saranno di grande tumulto e i cambiamenti si accelereranno a velocità vertiginosa. Non sarà solo l’America, ma di riflesso, tutto il mondo occidentale diventerà testimone, vittima e terreno di azione di cambiamenti epocali, probabilmente non tutti positivi. La storia futura identificherà in Donald Trump uno di quei personaggi che hanno contribuito a distruggere il sistema attuale ormai corrotto e decadente dei poteri politici e geopolitici; a quel punto forse, dico forse, Trump verrà riconosciuto come un protagonista positivo e non negativo. Chi vivrà vedrà!

 

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