MEGLIO ARISTOTELE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO ARISTOTELE

Tra le tante cose che ci ha portato il Covid, v’è l’analisi/prospettiva/auspicio della riduzione/depotenziamento/annichilimento dei ceti medi e del loro ruolo nelle comunità umane. Sembra che le decadenti élite globalsinistre esorcizzino il proprio declino auspicando quello degli strati sociali meno ben disposti verso di loro. Pomposi accademici, elzeviristi mainstream, economisti di regime (e anche non di regime) profetizzano che dopo la scossa del Covid lavoratori autonomi, professionisti, artigiani, commercianti, quadri del settore privato (e anche di quello pubblico) diverranno pochi, inutili e miseri. Qualcuno sostiene idee del genere basandosi sul darwinismo sociale, altri sulle profezie marxiste, altri scomodano la “mano invisibile”.

Tutti sembrano contenti dell’auspicato evento: ma non tengono conto di quanto “pesino”, soprattutto se si passa da criteri economici a quelli politico-sociali i ceti medi; perché questi sono stati spesso considerati l’ossatura della società, i garanti dell’equilibrio politico-sociale sul quale ogni comunità durevole – ma soprattutto quelle democratiche – si fonda.

Già Aristotele – sostenitore dello Status mixtus, cioè di costituzioni che tenessero insieme elementi di più forme “pure”1 – lo sosteneva; si chiede infatti qual è la costituzione migliore, quale “forma di vita partecipata”, e fa ricorso al “giusto mezzo”2. Dove non c’è il giusto mezzo dei “ceti intermedi” ma prevalgono i troppo ricchi o i più poveri, si creano, per così dire, problemi di governabilità “Si forma quindi uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi, di gente che invidia e di genere che disprezza, e tutto questo è quanto mai lontano dall’amicizia e dalla comunità statale, perché la comunità è in rapporto con l’amicizia, mentre coi nemici non vogliono avere in comune nemmeno la strada” (il corsivo è mio) e conclude che questo è l’ordinamento migliore: “È chiaro dunque, che la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio e che possono essere ben amministrati quegli stati in cui il ceto medio è numeroso e più potente, possibilmente delle altre due classi, se no, di una delle due, ché in tal caso aggiungendosi a una di queste, fa inclinare la bilancia e impedisce che si producano gli eccessi contrari”3.

Nell’età moderna il rapporto tra ricchezza e istituzioni è spesso considerato analogamente4. Una particolare menzione merita Gaetano Mosca che nell’analisi della classe politica e del regime liberale (lo “Stato rappresentativo”) scrive che “il principio liberale trova le condizioni migliori per la sua applicazione quando il corpo elettorale è composto in maggioranza da quel secondo strato della classe dirigente che forma la spina dorsale di tutte le grandi organizzazioni politiche”5.

Marx ed Engels vedono invece i ceti medi, classi superate dallo sviluppo capitalistico; non si pongono il problema della democrazia (in senso classico) perché questa come ogni regime politico è destinata a sparire con la realizzazione della società comunista6.

È un pensiero ricorrente quindi che, ai fini dell’ordine politico sociale, ancor più in comunità democratiche, è decisiva l’esistenza di un ceto medio che garantisca l’equilibrio politico e sociale (e così moderi la lotta politica) e da cui viene reclutata (parte) della classe dirigente.

Ed è quindi quanto mai curioso che non sia considerata la funzione politica del “giusto mezzo” nelle società umane e di come la decadenza di questo apra a scenari di lotta aspra e dissoluzione istituzionale. Probabilmente va ascritto, almeno in buona parte – alla tendenza a pensare il criterio economico per valutare il buon governo prevalente su ogni altro; ed ancor più che un risultato quantitativamente “pagante” per tutti debba essere apprezzato anche da parte di coloro che pagano il conto. Ma in politica non è così: vale ancora il giudizio di Friederich List (da me spesso citato) che giudicava la propria come economia politica perché teneva conto dell’interesse della comunità, mentre quella di Adam Smith era economia cosmopolitica perché considerava quanto giovava all’homo aeconomicus, astratto e distaccato da ogni legame d’appartenenza politica e sociale.

In effetti è proprio del pensiero politico che l’interesse della comunità organizzata in Stato e non quello dell’umanità sia da conseguire. In primo luogo riguardo all’equilibrio del sistema, senza il quale quello all’esistenza viene, prima o poi, ad essere compromesso.

Teodoro Klitsche de la Grange

1“Diciamo di seguito a quanto s’è trattato in che modo sorge, oltre la democrazia e l’oligarchia, la cosiddetta politia, e in che modo bisogna costituirla. Insieme risulterà chiaro anche come si definiscono la democrazia e l’oligarchia, perché si deve fissare la distinzione tra queste due forme e poi metterle insieme, prendendo per dire un contributo da ciascuna delle due” i passi sono ripresi da Aristotele, La politica, IV, 9, 1294 a-b e ss. trad. it. di R. Laurenti.

2 Scrive “In tutti gli stati esistono tre classi di cittadini, i molto ricchi, i molto poveri, e, in terzo luogo, quanti stanno in mezzo a questi. Ora, siccome si è d’accordo che la misura e la medietà è l’ottimo, è evidente che anche dei beni di fortuna il possesso moderato è il migliore di tutti, perché rende facilissimo l’obbedire alla ragione, mentre chi è eccessivamente bello o forte o nobile o ricco, o, al contrario, eccessivamente misero o debole o troppo ignobile, è difficile che dia retta alla ragione” e prosegue “Oltre ciò, quelli che hanno in eccesso i beni di fortuna, forza, ricchezza, amici e altre cose del genere, non vogliono farsi governare né lo sanno… mentre quelli che si trovano in estrema penuria di tutto ciò, sono troppo remissivi. Sicché gli uni non sanno governare, bensì sottomettersi da servi al governo, gli altri non sanno sottomettersi a nessun governo ma governare in maniera despotica” (il corsivo è mio) op. cit., 1295 b..

3 Op. cit., 1296 a.

4 Per sintetizzarlo v. la voce Buon governo di P. Silvestri nel Dizionario del liberalismo “Con la progressiva emersione della sfera pubblica moderna, e in vista di un nesso più stretto tra governati e governanti, sotto forma di equilibrio delle forze sociali. In questo senso, e secondo l’idea sette-ottocentesca di «civilizzazione» che individuava un circolo virtuoso tra tra borghesia e progresso, il ceto medio era chiamato a svolgere un ruolo cruciale nell’ideale del governo misto. L’idea di «civilizzazione» supponeva che nella misura in cui lo sviluppo economico-sociale avrebbe allargato i fianchi del ceto medio (inteso come fulcro della società civile), a sua volta l’espansione del ceto medio avrebbe dovuto assorbire e mediare la lotta sociale e l’antagonismo fra le classi, anche in virtù di una maggiore osmosi tra sfera della proprietà e sfera pubblica” ed autori lì citati.

5 Ovviamente di Stato liberale si tratta. Ma nel discorso di Mosca per liberale lo s’intende non tanto in senso ideal-tipico, ma come assetto concreto che i poteri pubblici (ormai democratico-liberali) avevano all’inizio del XX secolo. E aggiunge “Al di sotto del primo strato della classe dirigente ve ne è sempre, e quindi anche nei regimi autocratici, un altro più numeroso, che comprende tutte le capacità direttrici del paese. Senza di esso qualunque organizzazione sarebbe impossibile, perché il primo strato non basterebbe da solo ad inquadrare e dirigere l’azione delle masse. Sicché dal grado di moralità, d’intelligenza e di attività di questo secondo strato dipende in ultima analisi la consistenza di qualunque organismo politico” v. Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 412 ss.

6 “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato” Manifesto del partito comunista.

Il costruttore, di Giuseppe Germinario

A Giuseppe Conte non è riuscito il colpo di convincere un pugno di “costruttori”, diciassette, per raggiungere al Senato quella maggioranza assoluta che gli avrebbe consentito di galleggiare ancora per qualche tempo.

Ci è riuscito invece Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica. Ne ha raccolti addirittura quasi venti volte tanto, più di trecento. Per attirarli ha dovuto liquidare con qualche malcelato sollievo Conte ed accogliere e investire un vicerè da tempo atteso, Mario Draghi.

Un vero trionfo, il suo di quest’ultimo; degno dei fasti riservati dal popolo italico ai suoi antesignani sin dai tempi di Carlo VIII, annunciato a tambur battente e ormai predestinato alla consacrazione delle assise parlamentari.

Quasi superfluo soffermarsi sugli apologeti, entusiasti e ben disposti a stringersi intorno al carro del vincitore. Pronti ad esaltare a spron battuto le virtù giovanili di un discepolo dal promettente futuro keynesiano, corroborate nella sua piena ed inoltrata maturità da una volitiva fermezza nel contrastare, in qualità di Presidente della BCE, le fisime oltranziste di austerità dei suoi comprimari tedeschi; altrettanto lesti e sommessi nel rimuovere le pesanti ombre calate sulla sua figura di teorico e solerte esecutore delle sciagurate scelte economiche soprattutto nella seconda metà degli anni ‘90 e in minor misura nella prima decade del 2000.

Altrettanto fuorviante rischia di essere, nel loro impeto denigratorio, l’esorcismo praticato da coloro i quali incentrano l’attenzione esclusivamente sulla sua azione svolta in quel periodo cruciale con la ciliegina del suo importante incarico in Goldman&Sachs, incasellato e prigioniero nel ruolo di campione del liberismo estremo.

Due sguardi complementari entrambi rivolti al passato che paradossalmente, non ostante l’enfasi, tendono a irrigidire e sminuire la statura, la posizione e il ruolo del personaggio.

Mario Draghi non è uomo legato ad una stagione, né fossilizzato religiosamente ad una impostazione teorica cui piegare a tutti i costi la realtà.

Grazie alla straordinaria rete di relazioni tessuta sin dai suoi studi universitari negli States e coltivati nei periodi di Direttore al Ministero del Tesoro, alto dirigente di G&S, Presidente di Banca d’Italia e componente di numerosi organismi internazionali, Mario Draghi rientra nella ristretta élite dei decisori o quantomeno degli esecutori direttamente a contatto con i primi; pronto quindi a sostituire paradigmi e modalità operative non più efficaci. In questa veste è stato invocato e in questa veste sta prendendo in mano le redini del Governo.

Poco a che vedere con la ruspa messa in moto da Mario Draghi dieci anni fa.

In questa veste ha tracciato, con consenso ormai ecumenico, i due solchi che dovranno segnare l’indirizzo politico: l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea.

Non sono certo una novità, ma diverso è il modo di segnarli e riempirli con l’avvento della nuova amministrazione americana e con il protrarsi dell’incertezza e della debolezza della situazione politica in quel paese.

Una condizione che ostacola la riproposizione delle mire egemoniche nei termini posti durante la Guerra Fredda e a cavallo del nuovo millennio e che richiede nell’agone europeo la presenza di almeno tre interlocutori di potenza paragonabile e in competizione tale da poter giocare e limitare le ambizioni di scelte più autonome di qualcuno tra di questi; tanto più che una importante pedina, la Gran Bretagna, ha deciso di tirarsi fuori da uno dei campi di azione, la UE.

Con l’amministrazione Trump ci sono già stati inviti più o meno espliciti ad una maggiore iniziativa specie nell’area mediterranea, ma anche nella UE. Conte e l’intero ceto politico nostrano hanno dato l’impressione di non essersi neppure accorti delle opportunità. In un contesto del tutto diverso e con l’amministrazione Biden appena insediata è arrivato tempestivamente un vicerè a condurci con mano lungo la strada, a proporci ed attuare quei cambiamenti strettamente necessari a perseguire più efficacemente gli indirizzi politici.

Il vuoto determinatosi nel Mediterraneo dalla passività italiana, la gestione disastrosa della pandemia anche in rapporto a quella non esaltante dei principali paesi europei e la disarmante incapacità di elaborare un piano PNRR appena presentabile, per non parlare della improbabile capacità di attuazione di esso devono aver allarmato non solo i gestori imperiali, ma anche i più famelici predatori della famiglia europea riguardo alla tenuta generale del paese. Da qui l’esigenza di insediare un promotore competente ed un interlocutore più credibile, perché più capace e rappresentativo dei centri operativi in campo, con il quale trattare.

Si sa però che in politica, ancor più nelle dinamiche geopolitiche, la generosità altrui comporta prezzi ben più salati da pagare rispetto alla iniziativa propria di una classe dirigente e di un ceto politico autoctoni e più autonomi.

Non lo vedremo in politica estera, al di fuori del consesso europeo delle cui prerogative si è appropriato non a caso Draghi in prima persona, giacché la conferma di un fuoco fatuo, Luigi di Maio, a Ministro degli Esteri ne sancisce l’assenza e l’irrilevanza per almeno un triennio ancora. Lo percepiremo invece, ma a giochi fatti nelle modalità di salvaguardia, ristrutturazione e rinnovamento che pur dovranno essere perseguiti di quel che rimane e rimarrà del nostro apparato economico, specie di quello industriale e del complesso militare-industriale.

Sempre meglio, probabilmente, della caricatura di politica economica ed industriale perseguita dal Governo Conte e della pedissequa ed inetta accondiscendenza agli imput della Commissione Europea del Ministro Gualtieri.

Già prima di insediarsi Mario Draghi ha ottenuto un enorme successo politico e di immagine, a dispetto dei cantori della morte della politica: aver assorbito nell’alveo dell’ortodossia europeista e strettamente atlantista pressoché l’intero arco delle forze e delle frazioni politiche, di aver dissolto per un tempo indeterminato ogni singulto “sovranista” credibile politicamente, di aver evidenziato definitivamente i limiti e la verbosità sterile di tale espressione politica. Limiti che non tarderanno a manifestarsi apertamente anche in ambito europeo, in particolare in Francia.

La conduzione assertiva del Governo ne potrà sancire il trionfo definitivo a futura memoria, almeno nei simulacri delle attuali élites imperanti, o la malinconica caduta nell’anonimato dei più, tra le tante promesse mancate di questa lunga transizione politica.

Oltre alle parole e ai programmi è la composizione stessa della compagine governativa a rivelare le intenzioni e ad essere lo specchio della situazione e quindi:

  • il divario qualitativo esistente tra il ceto politico particolarmente dimesso e ai margini delle posizioni di potere espresso e spesso riconfermato dai partiti nella compagine e le componenti tecnico-politiche collocate nei posti chiave da Draghi si rivela eclatante. Con le dovute eccezioni di Guerini alla Difesa e Giorgetti allo Sviluppo, ma con l’incognita dello svuotamento di competenze del Ministero di quest’ultimo da un lato; con quella di Colao dall’altra, vista la sopravvalutazione mediatica del personaggio e la poco edificante prestazione a capo dello staff di esperti nominati da Conte in sede di elaborazione del piano di ricostruzione. A latere una decisione apparentemente inspiegabile rimane la nomina intemerata di Renato Brunetta a Ministro della Pubblica Amministrazione, un ambito imprescindibile per l’elaborazione e l’attuazione del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e per l’esercizio delle prerogative statali e di governo. È probabilmente l’indizio che il Capo del Governo vorrà procedere, nell’esecuzione del PNRR e delle politiche economiche ad esso collegate, attraverso la nomina di esperti e commissari vista l’impellenza; una procedura non nuova che però quasi sempre ha accompagnato, all’insegna dell’urgenza, il conseguimento di successi immediati alla duplicazione di apparati e strutture rimaste poi nel tempo a sovrapporsi ed accavallarsi in una condizione di paralisi progressiva degli ambiti dello Stato. Un duro colpo comunque alla credibilità dei partiti foriero di una radicale ricomposizione e scomposizione dei partiti e degli schieramenti

  • la priorità dell’azione di governo è rivolta al PNRR, alla ristrutturazione profonda dell’economia e alla garanzia di politiche assistenziali più mirate che renda socialmente sostenibile un processo di riorganizzazione pesantissimo e drammatico. Ha trovato piena accondiscendenza nell’intero quadro politico ed associativo: le parti sociali hanno iniziato ad avviare e concludere inaspettatamente i contratti di lavoro; qualche notizia di nuovi importanti insediamenti industriali come quello di batterie in Piemonte; la dirigenza europea più disponibile probabilmente a trattare a condizioni più paritarie sulle condizioni di rientro del debito, anche se l’ambizione di Draghi, sostenuta ormai da vari ambienti, va oltre l’intenzione di trattare sulle condizioni di austerità. Nel discorso di insediamento al Senato il nuovo Presidente del Consiglio ha parlato del resto chiaramente: “gestire la politica economica, la riorganizzazione dei settori, la selezione dei rami produttivi e delle aziende da sostenere e quelle da abbandonare al loro destino è compito della politica”. Una tesi ben lontana dagli orientamenti liberisti più rigorosi. È il segno di un cambio di paradigma o quantomeno di rappresentazione già per altro preannunciato in questi ultimi due anni da ambienti ben più altolocati. La stessa retorica del “grande reset” fa parte di questo tentativo. La nomina di Roberto Cingolani, proveniente da Leonardo, a Ministro dell’Ambiente è il segno di un tentativo di scendere dalle altitudini rarefatte dell’integralismo ambientalista a quello della fattibilità scientifica e tecnologica, con tempi di transizione più realistici.

L’avvento di Mario Draghi sancisce il fallimento del movimento sovranista così come lo si è conosciuto e declamato in questi anni.

Alla mancanza di una visione complessiva e di un programma credibile, all’assenza di una prospettiva tale da configurare nuovi schieramenti e nuovi sistemi di relazione in particolare tra i paesi europei che portassero ad una maggiore autonomia ed indipendenza politica, ha corrisposto il sopravvento surrettizio dell’opportunismo e del trasformismo, l’accodamento acritico all’atlantismo più codino. Di fatto una via obbligata per non scomparire o perire sotto i colpi della reazione. Del resto anche i movimenti “sovranisti” di riferimento in Europa Orientale hanno come riferimento nemmeno la NATO, ma l’americanismo più allineato condito con una dipendenza dai fondi europei tale da rendere fragili i loro aneliti, almeno sino a quando continueranno a coltivare la loro russofobia. È esattamente il contesto che ha determinato la situazione in cui si è cacciata la Lega, un partito sempre più espressione dei gruppi che rappresenta piuttosto che capace di sintesi e di indirizzo di una comunità.

Nell’altro versante, più che la formazione di un movimento riformista e produttivista accompagnato e sostenuto da una riedizione del “welfare”, sembra favorire nell’immediato un sodalizio nel quale il PD, nel tentativo di assorbimento dei resti del M5S, non fa che assimilarne anche i tratti di assistenzialismo unito all’atavica acritica adesione ai precetti della UE e delle classi dirigenti che la esprimono e ai legami di interesse con gli ambienti del terzo settore dal quale scaturisce ormai gran parte del gruppo dirigente.

Due dinamiche all’interno delle quali si inserisce il tentativo efficentista di Mario Draghi reso ancora più ambiguo e problematico dalla sua mancanza di visione dell’interesse nazionale e dal fatto che un nuovo sistema di relazioni tra stati europei presuppone la ricostruzione di uno stato nazionale secondo una visione di interesse nazionale che consenta di trattare con pari dignità con gli interlocutori.

Un tentativo che intende affrontare nell’immediato l’emergenza pandemica e del PNRR e contestualmente avviare le riforme nel lungo termine nella posizione di esecutore prima in qualità di PdC e di supervisore dopo in qualità di Presidente della Repubblica.

Una situazione in apparenza disperante per altri punti di vista praticabili, ammesso che ci siano.

Le vicende politiche di questi ultimi cinque anni, specie quelle verificatesi negli Stati Uniti, lasciano qualche spiraglio agli “imprevisti”. Classi dirigenti e ceti politici che dispongono praticamente di tutte le leve di potere e di tutti gli strumenti di manipolazione sono stati sorpresi dal “fenomeno Trump” ed hanno dovuto penare ben cinque anni per ripristinare una situazione ancora lungi dall’essere normalizzata. Di sicuro hanno preso una grande spavento e perso gran parte della loro sicumera. In Europa sembra andare loro un po’ meglio e non è un caso che personaggi come Soros abbiano scelto negli ultimi tempi questo continente come base e retrovia per perseguire le loro trame. La tattica “inclusiva” sembra funzionare ancora.

Le ciambelle però escono sempre meno con il buco e l’azione di Draghi di certo non sfugge a questa eventualità.

Tanto per fare un esempio calzante, il Recovery Fund, come i fondi strutturali possono diventare un fatale cappio al collo per gli stati nazionali; se accompagnati però da investimenti autonomi complementari, non vincolati alle normative europee possono rivelarsi comunque uno strumento utile. È quello che fanno con relativo successo esattamente la Francia e la Germania, come pure alcune regioni in Italia. È un ambito operativo entro il quale possono inserirsi le frange residue del movimento sfruttando gli eventuali ulteriori margini di debito per ricostruire ed ampliare la base industriale del paese. Le stesse politiche industriali, meglio ancora dei gruppi industriali, dietro la retorica del libero mercato nascondono trattative politiche e processi decisionali che perseguono politiche di accorpamento o di fondazione di nuovi gruppi. Sono tutti spazi i quali, anche nei peggiori dei contesti, offrono opportunità operative a condizione di avere una classe dirigente e un ceto politico capaci e consapevoli. Uno dei promettenti potrebbe essere ad esempio il progetto di caccia di VI generazione italo-inglese da condividere in futuro con quello franco-tedesco ancora tutto da avviare. È un banco di prova, per quanto limitato, per dimostrare che la scelta di sostegno a Draghi non è una mera operazione trasformista o di difesa lobbistica di interessi a carico e ai danni della collettività.

La tabella di marcia del prossimo governo sarà irta di ostacoli e di problemi da affrontare; pare anzi che più di qualche centro abbia l’intenzione di incalzarlo e metterlo già in affanno. La recente sentenza del TAR di Lecce sulla chiusura della ex-ILVA di Taranto è la prima mina piazzata a bella posta sul percorso. Sarà questione di giorni, nemmeno di mesi, per trovare conferma dei timori e delle incognite di questa operazione come pure del fatto che anche questo tentativo rimanga impantanato nella palude dei conflitti di potere e delle oligarchie chiuse in se stesse.

Ci sarà una terza alternativa tra la padella e la brace, quella cioè di diventare cuochi? Draghi si confermerà un vicerè o un capobastone? Staremo a vedere.

ITALIA 2030, di Pierluigi Fagan

ITALIA 2030.
Mattarella ha fatto di necessità virtù. La necessità era data da quello che ha ricordato nel suo messaggio ovvero che non si dava nessuna maggioranza politica possibile. Si aprivano così due strade: elezioni o governo di transizione nazionale. Quanto alle elezioni, tra scioglimento delle Camere e presa operativa di un nuovo governo con in mezzo le elezioni sono passati 4 mesi nel 2013 e 5 nel 2018. Se si fosse andati ad elezioni, in questo mentre, si sarebbe comunque dovuto gestire la pandemia, porre in essere la necessaria campagna vaccinale, presentare comunque il Recovery Plan entro fine aprile stante che poi sarebbero passati altri due mesi per la discussione con la Commissione ed un altro con il Consiglio per poi organizzare la macchina di spesa in azioni concrete, alcune condizionate dall’Europa. Più tardi si fosse presentato il Piano, più tardi sarebbero arrivati i soldi. Nel frattempo, oltre le questioni sanitarie, si sarebbe dovuto anche affrontare il disagio sociale ed economico tra cui decidere cosa fare alla scadenza del blocco dei licenziamenti a fine marzo. Chi avrebbe dovuto e potuto fare tutto ciò senza mandato politico? Con quale credibilità nell’interlocuzione con l’Europa, gravida di qualche opportunità e molti probabili problemi? Secondo quale strategia di prospettiva visto che il Recovery Fund è un investimento di prospettiva? Infine, l’Italia martoriata dalla pandemia, avrebbe comunque vissuto una aspra stagione di conflitto politico elettorale con anche problemi evidenti di normale agibilità politica viste le difficoltà a riunirsi, fare assemblee, comizi etc. .
Mattarella non l’ha pubblicamente ricordato ma quest’anno, l’Italia ha la presidenza di turno del G20 che avrà assise finale di chiusura a Roma a fine ottobre. Sono 8 incontri tematici già svolti sotto la direzione del precedente Governo, più di 70 incontri che avrebbe dovuto gestire in qualche modo un governo pro-tempore seguendo quali fini non è chiaro, per poi arrivare ad altri poco meno di 50 per arrivare alla fine gestiti dal nuovo governo probabilmente in opposizione a quanto sino ad allora detto e fatto con evidente sconcerto degli altri 19 partners. Problema che si sarebbe riflesso anche col Recovery in quanto il nuovo governo avrebbe poi dovuto gestire piani fatti da altri e -come detto- secondo quale logica politica non si sa.
Al di là di tutte le dietrologie possibili, vi sarebbe sembrata quella delle elezioni una strada percorribile? Onestamente penso proprio di no. Ma arrivati qui vanno aggiunte due altre necessità non dichiarate. La prima è che il RF non è stato un progetto privo di attriti in Europa ed indubbiamente, l’Italia ne fa parte da leone. Un fallimento dell’Italia nella gestione dei fondi rappresenterebbe in Europa, una sconfitta per quanti hanno appoggiato l’iniziativa e la ripartizione ed alimenterebbe una nuova stagione di instabilità interna ai processi di unificazione europea. La seconda è l’allineamento con gli USA che nel frattempo sono passati da Trump a Biden con questo ultimo che ha idee ben chiare e precise sul come gestire la partita geopolitica dei prossimi tempi, un Occidente (allargato nel concetto di liberal-democrazie) con a capo gli americani vs sfidanti multipolari, un o di qua o di là preciso e di altrettante precise conseguenze su cui va presa posizione.
La virtù (dal punto di vista di Mattarella) passa attraverso l’idea di fare un governo di doppio livello. Un livello politico “all in” in modo sia di congelare la rissosità politica, sia di fornire una base di necessitato consenso all’azione del livello tecnico del governo stesso. Il livello tecnico avrebbe solo supervisionato le politiche sanitarie già impostate, magari migliorandole ma costringendo anche opposte fazioni a collaborare poiché ognuna a governo di un segmento specifico di un processo continuato. Questa rimaneva una gestione del tutto politica ma sottraendola alla dialettica governo-opposizione diventava quasi tecnica. Lo stesso livello politico, non solo entrando a più o meno parità nel Governo, ma anche come quasi totalità parlamentare, avrebbe sancito la legittimità democratica sia del Governo, sia della sua azione riformatrice. Seguono considerazioni politiche quali gli effetti di tutto ciò sulle derive populiste e sovraniste ora ostracizzate in via definitiva o quasi, almeno negli intenti.
E veniamo così al primo livello, il vero e più importante livello, il livello tecnico-politico. Draghi agisce verso l’esterno come garante, garante della buona attuazione del piano di ripresa sdoganato in Europa non senza difficoltà e limitazioni (il piano è comunque insufficiente), garante dell’allineamento atlantico, garante verso i mercati. Attenzione perché il nostro spread ha raggiunto il minimo da dieci anni ed a queste condizioni nuovo debito anche fuori dal RP si rende possibile, “debito buono” ovvero debito connesso a spesa che crei condizioni di possibilità per la crescita. E’ dal 1995 che il Pil italiano cresce ogni anno meno della media Europa.
Nel suo vasto curriculum, Draghi ha anche un dottorato al MIT (primo italiano) con Modigliani e Solow. Solow (Nobel ’87) è l’economista forse più noto nell’ambito della teoria della crescita che lega soprattutto al progresso tecnologico che incide sulla produttività, ritenuta la chiave della lievitazione. Ma successivi sviluppi teorici hanno aggiunto note sul capitale umano, sulle infrastrutture, sui quadri giuridici in cui opera la macchina economica.
Per sapere come Draghi pensava di applicare le sue convinzioni teorico economiche al caso Italia, basta leggersi le Considerazioni finali del Governatore di Banca d’Italia del 2011 quando lasciò l’istituto di palazzo Koch per andare a Francoforte. Da pagina 11 alla 16 è riassunta la diagnosi Draghi, quindi la prognosi. Si tenga conto che dieci anni al Tesoro (governi tanto di centrodestra che di centro sinistra) e cinque a Bankitalia, fanno di Draghi il miglior conoscitore possibile delle strutture dell’economia italiana sotto i profili fiscali, imprenditoriali, legislativi, strutturali, sociali e conoscere è la precondizione per cambiare tramite interventi coordinati. Draghi cioè è tra i pochissimi (forse l’unico) che conosce a fondo l’intero sistema anche perché la sua stessa definizione funzionale più precisa è -a mio avviso- proprio quella di funzionario di sistema. Un funzionario di solito al servizio di poteri vari che affollano il vertice del potere sistemico, oggi incaricato da Mattarella di esprimere per la prima volta in vita sua la sua visione in forma esecutiva, salvo via libera politico.
In breve, la diagnosi di sistema fatta a suo tempo da Draghi, era: 1) ottimizzazione della spesa pubblica esaminando problemi ed opportunità di bilancio “voce per voce” impiegando eventuali risparmi in investimenti strutturali; 2) riduzione tasse se c’è recupero di evasione fiscale; 3) se non c’è recupero di produttività i salari ristagnano e ne risente la crescita; 4) la produttività italiana ristagna perché il nostro sistema non si è ancora adattato all’evoluzione tecnologica ed alla globalizzazione; 5) non funziona la giustizia civile e questa mancanza di quadro normativo porta a perdere anche un punto di Pil oltreché sconsigliare investimenti esteri; 6) fino ad un altro punto percentuale di mancata crescita lo si deve al sistema educativo e formativo, soprattutto universitario e di livelli medi di scolarità tra i più bassi tra i paesi OCSE; 7) c’è poca concorrenza di mercato; 8) abbiamo una prolungata carenza di spesa ed efficienza di spesa nelle infrastrutture; 8) non sappiamo neanche impiegare a fondo e gestire bene i fondi europei; 9) si è scaricata tutta la flessibilità necessaria nel mercato del lavoro in entrata (contratti); 10) le sole contrattazioni nazionali sono tropo rigide ed impediscono patti aziendali locali tra lavoratori ed imprese; 11) scarsi supporti nei servizi sociali e non solo, deprimono la partecipazione femminile al mercato del lavoro creando un ulteriore freno allo sviluppo sistemico; 12) il sistema di protezione sociale deve esser in grado di sostenere chi perde un lavoro e ne cerca un altro aiutando così la vivibilità di un sistema in perenne trasformazione adattiva; 13) le imprese italiane sono piccole, famigliari, sottocapitalizzate, strutturalmente inabili al mercato globale.
Come in parte si vede nella recente composizione del governo, i ministeri – Tesoro, Giustizia, Infrastrutture, Istruzione – sono le chiavi necessarie per la trasformazione strutturale auspicata e quindi avocati a sé o a sue dirette emanazioni, quelli del Digitale e della Transizione ecologica sono più legati alla gestione dei fondi di ripresa europei, ma il primo è anch’esso infrastrutturale. Così per la delega per i rapporti con l’UE ed in fondo anche l’asse strategico degli Affari esteri.
Draghi ha poco tempo forse poco più di un anno. Ma l’obiettivo non è risolvere tutti gli italici problemi in un tempo impossibile, è impostare la struttura. Dopodiché come Presidente della Repubblica ha almeno altri sette anni per supervisionare lo sviluppo di quella struttura. Il PdR controfirma ogni anno la finanziaria e non sarà una passeggiata per i governi dei prossimi anni, far firmare paginette con tutto ed il suo contrario recapitate al Quirinale mezzora prima della scadenza. Draghi diventerà un vincolo interno più che il pareggio di bilancio in Costituzione. Draghi diventerà il garante del rischio o opportunità Italia almeno fino al 2030. Il mandante di Draghi è Mattarella, ovvero l’ultimo rappresentante in vita della sinistra democristiana (si rivedano le dichiarazioni di Tabacci dopo il recente incontro delle delegazioni dei partiti stante che Tabacci era di un tipo di sinistra democristiana -Mantova, Marcora- e Mattarella di un’altra -Sicilia/Aldo Moro), un ottantenne che dà mandato ad un settantaquattrenne interpretando a modo suo l’interesse generale visto che dal basso non s’è riusciti a convenire su uno diverso.
L’operazione Draghi si potrebbe infatti intendere come titolo, contenuto e garanzia, di un piano “Italia 2030”, piani di pianificazione e prospettiva che ormai fanno quasi tutti in ambito internazionale. Se l’Italia mostra di poter tornare in trend di crescita almeno pari o qualche volta superiore alla media UE, non importa l’entità del suo debito, l’Europa è salva (almeno su questo aspetto), l’euro è salvo. Altrimenti potrebbe venir giù tutto, incluso il tetto della casa in cui abitiamo noi stessi.
Poiché siamo già lunghi, mi risparmio ogni più dettagliata analisi e soprattutto il giudizio, anche perché il giudizio lo darà chi legge e soprattutto lo dovrà dare a fronte dei fatti che dettaglieranno questo lungo elenco di intenzioni. Mi limiterò ad un punto.
Draghi è chiamato a proseguire il ruolo che ebbe Ciampi con cui ha molti punti contatto. Ciampi era di area catto-liberal-socialista, banchiere centrale, economista, politico, scuola elementare dai gesuiti, cattolico, germanofono, austero e riservato, Presidente del Consiglio prima e della Repubblica poi nonché a capo di una squadra di economisti-funzionari detti “Ciampi boys” capitanati da Mario Draghi che proprio lui aveva spinto al Tesoro. Nonché patriota. Draghi non è qui per gestire la pandemia o solo per il Recovery plan-fund o per l’Europa o per gli USA, è qui per fare una profonda riforma strutturale dell’Italia.
La missione di Draghi è normalizzare l’Italia, allineare l’Italia allo standard occidentale. L’Italia è un paese capitalista dove il capitalismo funziona male. Non è né un modello alternativo, né una versione declinata del modello standard ed è in queste condizioni dai primi anni Novanta. Coi tempi che vengono incontro, l’interesse generale dovrebbe esser quello di definirsi o in un senso o in un altro. Draghi viene a definirci in un senso, chi propugna un senso alternativo dovrebbe esser a livello della sfida, se ne è capace. Tutto il resto sono epidemie narrative (citazione cara a Draghi e riferita ad un concetto formulato da un altro Nobel per l’economia, R.J.Schiller, 2013). E’ qui perché nel nostro Paese sembrano non esistere forze sociali ed intellettuali in grado di proporre un proprio piano Italia 2030 egemonico. Sarà quindi il caso di farsene una idea in fretta se non si vuol subire quello che ha in mente Draghi o se s’intende anche solo migliorare il suo piano, perché sempre più nei prossimi tempi, quando un uomo con una strategia incontra un uomo con la tattica, l’uomo della tattica è un uomo morto.
LA MANO DI DRAGHI.
Avrete letto su i quotidiani che all’indomani dell’incarico conferito da Mattarella a che Draghi, la chiave di ricerca “Draghi è di destra o di sinistra?” su Google è esplosa. Tra i tanti e divertenti meme che sono girati negli ultimi giorni ce n’era uno con la foto del nostro con la sua mano in primo piano accompagnato dalla scritta ironica “Questa mano po’ esse Friedman o po’ esse Keynes”. Il post tenta di farsi largo e delucidare questo guazzabuglio categoriale.
Prima però va fatta una nota, anzi una doppia nota. La prima è che noi interpretiamo la realtà cercando di infilare questa nei nostri schemi categoriali a mo’ dell’antico mito greco del Letto di Procuste. Questi era un brigante posto su un passo di montagna che schiaffava i viandanti su un letto di pietra. Laddove questi risultavano più piccoli li “stirava”, laddove fossero stati più grandi li amputava. Così noi spesso teniamo fisse le nostre categorie e stiriamo o amputiamo i fatti per farli corrispondere alle nostre categorie apriori. La seconda è Draghi ha una mentalità complessiva che ovviamente fa perno sull’economia, impostazione otto-novecentesca per altro condivisa da un vasto arco intellettuale che va dai marxisti al liberali.
In questi giorni, c’è chi ha rimarcato nel curriculum del nostro Federico Caffè, stante che il più accreditato allievo organico del professore fu invero Bruno Amoroso che poca simpatia aveva per Draghi, la sua formazione al MIT presso cui risulta esser il primo italiano ad essersi specializzato, la lunga carriera di “public servant” stante che i public servant sognano di esser un giorno non più “servant”, l’incarico in Goldman Sachs per altro breve e forse meno significativo del ritenuto, la lunga presenza nei centri internazionali del sistema (WB, BIS, AsDB, Gruppo dei Trenta etc.), fino al mitico bluff del Whatever it takes alla BCE. Segnalo che alla fine del suo mandato pare gli sia stato offerto di sostituire Lagarde all’IMF, ma il nostro ha declinato l’invito, evidentemente aveva altri piani e che Draghi faccia piani è caratteristica primaria del personaggio. Zamagni pochi giorni fa, diceva fosse allineato (con spostamento un po’ più a destra) alla visione economica di papa Francesco. Brancaccio e Realfonzo invece, l’hanno inquadrato come liberal-schumpeteriano. Dacché i lettori, col loro Letto di Procuste mentale, avranno tratto l’impressione sia in fondo un ambiguo poiché poco definibile rispetto alle misure del letto di pietra che hanno in testa.
Com’è Draghi al netto del Letto con cui vorremmo misurarlo? In realtà, anche Draghi che più di altri forse pensa che l’economia ordini tutto il resto, parte da una preferenza ideologica prettamente politica. Questa è un “ircocervo” direbbero i procustiani un “né-né” o un “e-e” ovvero la categoria a cui lui stesso, in una rara intervista, si è definito: liberalsocialista. Cos’è un liberalsocialista?
I liberalsocialisti innanzitutto sono pochi, da sempre, una sparuta pattuglia di gente che non s’è iscritta alle due partizioni dominanti liberale e socialista, trovandovi pragmaticamente del buono tanto nell’uno che nell’altro. Ora farò un elenco di liberalsocialisti che ai lettori più giovani dirà meno che un elenco dei componenti della nazionale di hockey canadese, ma che ai lettori più anziani dirà invece qualcosa di più. Si tratta di un ampio fronte (sì, sono storicamente pochi, ma molto vari) che include: Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Gobetti, per un po’ anche Benedetto Croce, Guido Calogero, Guido De Ruggiero, Aldo Capitini, Piero Calamandrei, Leone Ginzburg, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Leo Valiani, Norberto Bobbio (Ralf Dahrendorf), Silvio Trentin, Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, il padre di Berlinguer Mario, con una area intorno in cui piazzare Vittorio Foa, Adriano Olivetti, Giorgio Bocca, Federico Chabod, Enrico Cuccia, Ugo la Malfa, Carlo Bo, Bruno Zevi ed altri. Così per Carlo Azeglio Ciampi da cui discende in linea diretta Mario Draghi. Ma Draghi, a mio avviso, ha una sensibilità politica meno pronunciata di quella economica versione tendenzialmente tecnica. Si noti, del gruppo fanno parte per lo più teorici politici ed intellettuali, non economisti.
Se l’ispirazione ideale pregressa dei liberalsocialisti o socialisti-liberali è quella di Giuseppe Mazzini, nei fatti la gran parte dei nomi citati ha fatto parte del movimento Giustizia e Libertà ma di più Partito d’Azione che ne fu l’espressione più organica, fino al socialismo democratico. Dopoguerra, li troviamo solo per caso e per poco tempo nel PLI, soprattutto nel PRI, nel PSDI, nella galassia socialista dal PSI al PSIUP, nel Partito Radicale originario. L’affiliazione rara e poco organica alla Democrazia Cristiana per taluni (coloro nella cui mentalità cui fa perno la “fede”), deriva dalla coincidenza nella visione teorica della c.d “economia mista” per certi versi, nell’ordoliberalismo tedesco inziale (quello di W.Eucken e W.Ropke) ovvero l’economia sociale di mercato o più sfumatamente nella altrettanto variegata “sinistra DC” di cui Mattarella è erede come i “margherita” Letta-Franceschini. Ma per altre linee, si potrebbe aver riferimento nella terza via di Blair, Obama, fino a Renzi. Certo, tra Renzi, Foa, Parri, La Malfa e Olivetti passano fiumi, ma tant’è, l’area è piccola ma molto variegata. La sindrome pulviscolare o delle cinquanta sfumature non è esclusiva dei marxisti e dei liberali quindi lo sarà anche di questi un po’ dell’uno ed un po’ dell’altro che quindi non sono né l’uno, né l’altro
Di tutto ciò, Mario Draghi è solo una espressione tipicamente economica, molto più contemporanea del vecchio azionismo del ’45, quindi alle prese con evoluzioni dei significati di liberalismo, socialdemocrazia, mercato, società degli ultimi decenni, oltre ovviamente al potente cambiamento di scenario ormai non più nazionale, ma europeo (Draghi è idealmente un federalista europeo) e soprattutto mondiale o globale. Inoltre, più che ampiamente “economista”, Draghi ha una specializzazione monetaria e di bilancio, forse lo si potrebbe inquadrare come “keynesiano idraulico” secondo la sprezzante definizione data da A. Coddington, ma i teorici del keynesismo potranno esser più precisi nel rilascio della patente.
In breve del breve, questa area di pensiero è fortemente democratica anche se per composizione ed intensità intellettuale prende poi pose liberal-elitiste e crede che il modo economico migliore sia di tipo (capitalista) di mercato che però è solo un modo migliore relativo, il mercato spesso fallisce e non è detto che il suo bene si traferisca di per sé alla società. Va quindi guidato, corretto, assistito ma con discrezione, senza distorcene i delicati equilibri dinamici. In pratica sarebbero gli alfieri di una politica economica programmata che li differenzia dai fondamentalisti di mercato, tanto quanto dai pianificatori economici totali. Una mano visibile che aiuta la mano invisibile. Anzi due mani visibili, la mano destra e la mano sinistra.
C.Tito oggi, su Repubblica, sostiene come per altro indicavamo nel nostro precedente post, che l’azione di governo centrale ovvero con accanto problemi sanitari e problemi del Recovery, che Draghi indicherà nel discorso per la fiducia al Senato, sarà basata su tre punti: fisco, giustizia civile e pubblica amministrazione. Secondo ma ha sottovalutato infrastrutture (Giovannini) ed istruzione (Bianchi) ma insomma, l’anima strutturale di questa azione di riforma molto potente ed ambiziosa appare chiara. Il tutto basandosi sulla concordia e coesione sociale necessaria: “”Dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani se vogliamo sopravvivere come comunità” secondo quanto espresse al commiato di fine mandato alla BCE, valeva per l’Europa come per ogni singolo Stato componente l’Unione.
Rispetto quindi alle premesse, Draghi è un po’ tutte le cose che sono state dette dai principali commentatori, ma nessuna di queste singolarmente presa. Infine, da notare che nessuno in Italia ha delegato direttamente Draghi ad una simile riforma fondamentale (se non Mattarella che però democraticamente è solo uno che vale uno), ma non ha neanche delegato i partiti che lo appoggeranno. I partiti sono lì su altri mandati. Nessuno ha discusso ampiamente in Italia di questi temi di ambiziosa riforma in questi anni, per lo meno in maniera seria ed organica. Ne consegue che un uomo solo ha idee molto chiare ovvero Draghi, controllato e supportato da molti uomini che hanno tante idee ma altrettanto poco chiare e comunque mai sistemiche e sistematizzate ovvero i partiti non meno dei sindacati e le parziali associazioni di categoria, politici mandati lì da un popolo che di idee ne ha poche ma molto confuse.
Chiudo quindi con una citazione a me cara di Gunther Anders: “«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche ďinterpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi».
Si pone quindi sempre lo stesso storico problema: a quale mentalità condivisa è attaccata la mano che agisce? Cosa scegliere quando la realtà chiama l’intervento della mano ma questa non ha una mentalità condivisa che la ordina? Non fare nulla perché non siamo democraticamente pronti e pagare i prezzi salati dell’inazione? Delegare a chi sembra di sapere sebbene chissà poi cosa sa, se sa? O renderci conto che siamo sempre in ritardo e pensare a come cercar di evitare in futuro di esser sempre così distratti, trafelati e senza una meta decisa in autonomia dalla massa critica della nostra comunità?
Alcuni link utili per approfondire:
NB_Tratto da Facebook

Draghi sintetizzato, di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Draghi è un politico, non un tecnico. Per la precisione, è un proconsole inviatoci dall’impero euro-atlantico con l’obiettivo di stabilizzare il sistema politico italiano, non di “salvare l’Italia” e tanto meno di “salvare gli italiani”, i quali si arrangeranno (nostra specialità da secoli).
Formando questo governo zeppo di revenants, lo conferma. Con la sua sola presenza, Mario Draghi riesce a:
a) integrare il centrodestra polverizzando in nanoparticelle l’espressione politica del “sovranismo/populismo”
b) riconfigurare l’intero sistema politico italiano, centrosinistra compreso (PD e M5* dovranno rifondarsi)
c) ostendere urbi et orbi che il refrain qualunquista “sono tutti uguali” è una TAC della realtà, ossia a delegittimare il suffragio universale, che dà molto fastidio ma non è possibile abolire, e demoralizzare l’iniziativa politica autonoma
d) predisporre lo scarico di tutte le colpe sui partiti (tutti) e l’avocazione di tutti i meriti a sé e ai tecnici che purtroppo, rispettosi come sono delle leggi e dei popoli, non possono guidare da soli come sarebbe opportuno e giusto
e) infine, come effetto collaterale, semplificare il recupero crediti e le procedure fallimentari (la riforma della giustizia civile consisterà in questo) + gestire il Recovery Fund in modalità più presentabili.
E’ un risultato politico di eccezionale valore e importanza per i mandanti di Draghi (l’amministrazione USA), che così fanno un decisivo passo avanti nell’integrazione dell’intero Stato Maggiore politico di tutte le forze antisistemiche “sovraniste/populiste” occidentali, che li hanno seriamente preoccupati negli scorsi anni. L’Italia non è più un problema, la Francia è avviata nella stessa direzione. Più lungo e difficile il lavoro di integrazione delle forze che hanno espresso Trump negli Stati Uniti (normalizzazione del partito repubblicano tutto).
Comunque, il campo euro-atlantico si è guadagnato anni di tregua e di stabilità. I problemi di fondo restano insoluti, ma dormienti. “Goodnight, sweet prince”.
Non si capisce la questione della competenza se non si tiene presente che nel corso del Novecento – oltre al conflitto centrale tra capitale economico e capitale culturale che costituisce la vera “lotta di classe”, ovvero borghesi contro burocrati, trasfigurato nella fase di transizione in un conflitto tra padri e figli – è andato in scena un continuo conflitto *all’interno* della classe competente, attorno alla definizione stessa della competenza in funzione di una lotta per il potere direttivo, articolato in dicotomie: tecnici contro organizzatori, e prima ancora specialisti contro intellettuali. In più piccolo è lo stesso conflitto che ritroviamo in ogni dibattito contemporaneo, o meglio in tutti quei dibattiti che non arrivano all’esistenza perché un’opposizione radicale sul metodo li precede, e sostituisce direttamente il dibattito. La disfatta culturale cui oggi assistiamo consiste nell’avere costituito un sistema educativo perfettamente in grado di formare tecnici, specialisti e organizzatori, salvo renderci conto che essi non possono soddisfare domande di ordine valoriale (cioè relative ai fini) mentre siamo totalmente incapaci di formare chi sarebbe preposto a rispondervi, ovvero gli intellettuali (che era poi l’ideale della Bildung, su cui non a caso si era fondata la precaria legittimità dei tempi moderni). Non stupisce che quel vuoto ora pretenda di occuparlo la religione. Nel frattempo la sindrome dell’arto mancante ha prodotto una galassia di pseudo-intellettuali, nella peggiore ipotesi inconsapevoli dei propri giganteschi limiti e nella migliore impegnati a rimpiangere quello che avrebbero potuto essere se non fossero stati costretti a inventarsi da soli, senza maestri e senza direzione.

LA BISCIA NEL CESTO DEI SERPENTI, di Antonio de Martini

LA BISCIA NEL CESTO DEI SERPENTI
La scelta di Mario Draghi, un impiegato di prim’ordine, ha molto in comune con l’avvento di Berlusconi al potere.
Al suo arrivo il Cavaliere miliardario suscitò grandi aspettative e così pure Draghi.
L’italiano medio si disse irragionevolmente: “ ha fatto tanti soldi e farà arricchire anche noi”.
Il sogno si rivelò follia e il risveglio fu amaro.
In questo caso, ci siamo detti “ ha tanta esperienza e grinta che metterà le cose a posto in quattro e quattr’otto. Bravo Mattarella ! non ce lo facevo. Ha perso la pazienza e capito la situazione.”
La grinta si è rivelata un pio desiderio nostro.
Temo che la delusione e l’illusione siano di pari intensità, salvo un effetto prestigio internazionale che svanirà presto.
Mi spiego.
L’uomo ha preparazione e prestigio, ma non ha saputo imporsi e – come molti che hanno vissuto all’estero- temo che non conosca i suoi compatrioti.
Si è illuso d’essere coadiuvato ed ha accettato uomini e promesse dei boiardi che lo logoreranno lodandolo.
Mattarella – vorrei tanto sbagliarmi- lo ha chiamato per fare solo da tesoriere dei fondi “ recovery” e basta.
Ha fatto appello al luminare per fare un clisterino all’agonizzante.
Alla pattuglietta di fidi che gestiranno con rigore questi ultimi fondi ha aggiunto le indicazioni dei partiti secondo le consuetudini del manuale Cencelli ripescando tra “colleghi” universitari e posatori di fibbra ottica.
Pensa davvero che la Cartabìa possa impugnare l’accetta necessaria nel covo dei serpenti di via Arenula? Ha dato esagerata attenzione alla fiducia e da per scontata l’esecuzione delle sue idee….
Pensa davvero che la fibbra ottica in Aspromonte farà miracoli e sarà messa in opera dai boy scout?
Anche un paio di anni prima della rivoluzione in Francia, fu chiamato il banchiere ginevrino Necker col mandato di guardare solo i conti.
Attesa messianica che durò poco.
Lo richiamarono poi quando era ormai troppo tardi.
Mi ero illuso che avrebbe riformato l’Italia ma – a giudicare dalla compagine ministeriale distillata con l’alambicco temo che abbia fatto una insalata russa con majonese scaduta.

LE MANI SPORCHE E LA LEGA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE MANI SPORCHE E LA LEGA

Le recenti vicende della crisi politica hanno provocato il solito rosario di spiegazioni basate su ideali, coerenza, ecc. ecc., aventi tutte in comune: a) la funzione propagandistica, di favorire gli amici (globalsinistri) e denigrare i nemici (sovrandestri) b) ciò che più interessa, usando argomenti di contorno, secondari, ed eliminando (perché scomodi e spesso estranei al loro modo di pensare) quelli principali.

Utilizzando la “cassetta degli attrezzi” del realismo politico l’interpretazione delle mosse degli attori in gioco è diversa.

Il primo caso è la “conversione” europeista di Salvini onde – secondo i media mainstream lo stesso sarebbe: un voltagabbana traditore e/o sconfitto da Draghi e dalle panzerdivisionen europee.

In realtà la prima regolarità della politica è la ricerca del potere (e del dominio), e la conversione della Lega deve valutarsi alla luce di quella regolarità assai più della quantità (e qualità) degli improperi anti-europei lanciati da Salvini e rilanciati dagli euroglobalisti (per lo più dai loro araldi); anche perché i nemici sono sì quelli con cui si conduce la guerra, ma anche coloro con cui si fa la pace.

All’uopo è bene ricordare il dramma di Sartre “les Mains sales”, in cui il protagonista, estremista dissidente uccide il segretario del partito comunista Hoederer perché ha realizzato un accordo con il regime collaborazionista filotedesco, contro il quale comunisti e i loro alleati conducevano una guerra civile. La scena del negoziato tra i leaders è un insieme di topos realistici a favore del capovolgimento di fronte, la spartizione del potere e i fattori di potenza.

Senza alcun problema Hoederer propone un accordo – accettato dal nemico, il capo dei filonazisti, ma rifiutato dal leader degli alleati borghesi – nel quale il partito comunista ha un ruolo preponderante nel nuovo organo di governo (3 membri su 6); la ragione di ciò è l’avanzata delle armate sovietiche, e la necessità dei conservatori d’ingraziarseli, nonché quella di tutti di far cessare le lotte interne e la guerra (esterna). Come dice il Principe, capo dei filonazisti “è necessaria una visione realistica della situazione”; Karsky, il capo degli antinazisti non comunisti, che ricorre (anche) ad argomenti moralistici, rimane isolato e perdente.

Di accordi come quello rappresentato nel dramma da Sartre, nella storia ne sono stati realizzati infiniti, anche in una guerra fortemente “ideologizzata” come la seconda guerra mondiale.

Ma perché in un contesto istituzionale come quello italiano, la partecipazione al governo, anche con forze opposte, ha tale importanza, tenuto conto che la Lega rischia di pagare un prezzo in termini elettorali alla coerenza della Meloni? Qua occorre ricorrere a due pensatori del ‘900. Il primo, Carl Schmitt sostiene che in una Repubblica parlamentare (com’è l’Italia) “Chi detiene la maggioranza fa anche le leggi ed inoltre è in grado di far rispettare le leggi che esso stesso ha fatto. Ma la cosa più importante è che il monopolio di far valere le leggi in vigore gli conferisce il possesso legale degli strumenti di potere statali e di conseguenza anche un potere politico assai più ampio della semplice «validità» delle norme”. Il giurista di Plettemberg chiama ciò “un plusvalore politico addizionale che si aggiunge al potere meramente normativistico-legale: un premio super legale al possesso legale del potere legale ed alla conquista della maggioranza”.

Entrando nel governo la Lega (e Forza Italia) ottengono due vantaggi: fruire di detto “plusvalore” e sottrarne (una parte) agli avversari.

E qua occorre ricordare Gramsci, per cui “lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catene di fortezze e casematte”: ma in uno Stato amministrativo, “sociale”, distributivo e soprattutto ben più esteso di quello liberale di un secolo fa, una parte di quelle casematte, che il pensatore sardo vedeva nella società civile, sono ora collocate (e dirette) nel e dal settore pubblico. Occupare – almeno in parte – la direzione di (gran parte) di quelle casematte è un passo – più che notevole – verso il potere.

D’altra parte anche se Draghi è, per storia e curriculum personale tutt’altro che un sovran-popul-identitario, ma un euroglobalista, lo stesso realismo consiglia: a) di tener conto che la maggioranza del popolo italiano è dall’altra parte b) che seguire una politica che non ne tenga conto è indebolire il governo sia in termini di consenso che di potenza. I cattivi risultati ottenuti dai governi italiani degli ultimi dieci anni con l’Europa (e non solo) sono stati determinati – in buona parte – dal fatto che i poteri “forti” (statali e non) sapevano di avere a che fare con governanti deboli, carenti di consenso e anche perciò poco affidabili. Utilizzabili nell’immediato, ma controproducenti per gli sponsor nel futuro.

Il governo Monti, con l’enorme e rapido aumento dell’opposizione anti-sistema, l’ha provato.

Pensare che Draghi (e i leaders europei) voglia ripetere quel colossale errore, è far torto alla prudenza e alle indubbie capacità dell’ex capo della BCE. Certo, il futuro è incerto e, come sempre, saranno i risultati a dire se la manovra è riuscita o meno. Ma è sicuramente un errore giudicare vinta o persa la partita prima che l’arbitro ne fischi l’inizio, sulla base, magari, del colore delle magliette dei giocatori. Così si fa tifo da stadio, non analisi politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

La preparazione di Draghi_di Gianni Candotto

Draghi, comunque, appartiene alla schiera ristretta dei decisori o quantomeno al livello immediatamente inferiore. E’ in grado quindi di adattare e rivedere le proprie posizioni in un contesto diverso, ferma restando la costanza della sua rete di relazioni e della sua appartenenza a determinati centri decisionali. Che sia in corso e che ci sia la consapevolezza e la necessità da almeno un paio di anni di un cambio di paradigma pare ormai evidente ai più_Giuseppe Germinario
DRAGHI E’ PREPARATO E HA UN GRAN CURRICULUM. QUINDI VIVA DRAGHI? PERCHE’ NO.
Dopo due anni e mezzo di grillismo e di improvvisati al governo, la domanda di gran parte della società è quella di avere persone competenti che sappiano gestire la cosa pubblica. Quindi per alcuni la figura di Draghi, che rappresenta l’antitesi umana e culturale del Di Maio di turno, rappresenta una lieta novità.
Al netto del fatto che in politica la competenza deve essere nella politica, non in una materia tecnica (essere un bravissimo architetto di suo non ha nessun valore per determinare la competenza politica, come essere un bravissimo medico, un bravissimo banchiere o un bravissimo fioraio, non significa essere un politico competente), ma questo è un argomento complesso che ci fuorvierebbe rispetto al ragionamento che voglio fare, occorre capire perché prima della competenza personale è necessario analizzare le idee che un politico vuol portare a compimento.
In politica conta molto la preparazione, perché la preparazione politica permette l’essere in grado di mettere in atto le idee che si vogliono portare avanti. Ma prima di tutto contano le idee che si vogliono portare avanti. Perché se le idee sono sbagliate la competenza è un pericolo, non una qualità.
Faccio un esempio pratico per semplificare il concetto (esempio che non c’entra con Draghi, ma è in generale). Prendiamo due politici fortemente favorevoli a un aumento dell’immigrazione in Italia. Di quelli che “non esistono i confini”, non esistono le nazioni, i popoli, abbiamo bisogno di milioni di immigrati perché ci paghino le pensioni ecc. La differenza tra i due è che uno è competente, l’altro incompetente e fannullone. Il risultato finale è che se governa il competente riuscirà a far venire molti più immigrati perché creerà un sistema efficiente di sussidi per immigrati, con casa, assistenza ecc., mentre se al governo ci sarà l’incompetente riuscirà a farne venire molti meno perché non riuscirà a organizzare un sistema di accoglienza ecc.ecc. Ma alla fine, se assumiamo che far venire milioni di immigrati sia un danno e un problema per l’Italia, il competente farà molti più danni dell’incompetente. Potrei fare esempi molto più estremi su quanti più danni può fare un competente preparato rispetto a un incompetente fannullone quando le idee sono molto più radicali e criminali, per esempio sulla volontà di creare una dittatura totalitaria, o di sterminare delle persone, ma mi fermo qua sperando che il concetto sia chiaro.
Quindi assunto che la competenza serve ad applicare con efficienza delle idee di governo, ma che la cosa fondamentale è sapere quali sono le idee, parliamo di Mario Draghi.
Quali sono quindi le idee che negli anni ha propugnato Mario Draghi? Quali sono le politiche che Draghi ha portato avanti negli anni?
Dal 1991 al 2001 è stato direttore generale del Tesoro e si è reso protagonista in tre vicende: le privatizzazioni del patrimonio dell’IRI (dal 1992 in poi), l’acquisto di derivati di Morgan Stanley (1994) e la legge Draghi (Testo Unico della Finanza legge 58 del 1998). Sulle privatizzazioni, oggi è opinione comune che si trattò di una scellerata operazione di svendita del patrimonio pubblico italiano che costò tantissimo all’Italia. Se Draghi fu forse (o forse no?) più il braccio operativo di questa operazione che la mente, fu comunque Draghi a presentare la vendita del patrimonio pubblico alla grande finanza anglosassone sul panfilo Britannia nel 1992.
Sempre sovrainteso da Draghi fu l’acquisto dei derivati “a copertura del debito”, i celebri “credit default swap” di Morgan Stanley, operazione riprodotta da tante amministrazioni locali, che dal 2008 creò un grande buco di bilancio a favore della grande banca d’affari americana (circa 25 miliardi). Un’operazione sicuramente disastrosa.
Un’altra decisione poi rivelatasi disastrosa è l’eliminazione della separazione tra banche d’affari e banche commerciali decisa nella legge Draghi del 1998. Questa legge ha permesso alle banche di usare il credito dei cittadini per acquistare titoli derivati e fare operazioni a rischio. Questa legge, assieme agli accordi europei di Basilea 3, anche lì Draghi ebbe un ruolo come presidente della BCE, fu lo strumento che permise alle banche operazioni spericolate e portò al fallimento di tante di esse, con i conseguenti disastri per i cittadini che avevano lasciato alle stesse i loro risparmi.
I tanti che lo ammirano, e oggi si sono moltiplicati come funghi, ricordano il “whatever it takes” del luglio 2012 che mise fine alla speculazione sul debito italiano, riportando il celebre spread a livelli più normali. Ma a parte essere un’operazione normale di una banca centrale, che l’Italia, se avesse avuto una banca centrale propria, avrebbe fatto da sola senza tanto clamore, bisogna analizzare i tempi. Fu fatta nel luglio 2012, 10 mesi dopo che l’Italia era andata in sofferenza per lo spread. E non in crisi di debito pubblico, che un po’ tutti gli studiosi un po’ più seri sapevano non esistere, ma sotto attacco speculativo. E la dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi di tutti oggi. Col debito al 125% del 2011 dicevano che lo stesso era insostenibile, oggi col debito al 160% in netto peggioramento lo spread è quasi a zero e il debito risulta sostenibilissimo. Questo perché l’Italia può sostenere un debito pubblico, pur non avendo una banca centrale creditrice di ultima istanza, fino circa al 230/240% del proprio Pil. Quindi era solo una speculazione finanziaria, e aver aspettato 10 mesi per difendere uno stato da un attacco speculativo, per me è ben lungi dall’essere un merito. Ma nel 2012 c’era Monti che applicava alla lettera i “consigli” proprio di Draghi della lettera Draghi Trichet inviata a Berlusconi il 5 agosto 2011.
Cosa diceva quella lettera, che era un po’ il manifesto politico di ciò che andava fatto secondo Draghi? Parlava di necessità di tagli pesanti alla spesa sociale. Monti e i suoi successori applicarono questa direttiva. I 50 miliardi di tagli alla sanità nascono da lì. E le mancanze degli ospedali, del personale, delle terapie intensive, che abbiamo avuto sott’occhio con l’emergenza Covid hanno origine lì: nella visione politica di Draghi. Nella lettera si parla di necessità di rendere flessibili i contratti di lavoro. Il dramma del precariato estremo dei giovani ha origine nelle idee che hanno ispirato la lettera di Draghi. Nella lettera si parla liberalizzazione dei mercati e aumento della concorrenza. Il fatto che lo Stato non abbia fatto nulla per evitare la vendita di tantissime aziende italiane a francesi o hedge funds ha origine lì (mentre i francesi hanno fatto leggi che vietano l’acquisto di aziende private francesi da parte di stranieri), il fatto che Amazon, per fare un esempio, faccia una concorrenza sleale ai negozi e questi ultimi siano costretti a chiudere ha origine lì. E così via.
Quindi il suo curriculum è quello di un liberista intransigente. E’ vero che nell’intervista del 25 marzo 2020 al Financial Times Draghi parla anche di investimenti pubblici, ma un’intervista a un giornale vale di meno dell’attività di una vita. Coerente. Da uomo preparato. Da liberista intransigente.
Se pensate che il liberismo intransigente sia la cura necessaria per l’Italia abbracciate l’idea che Draghi sia la soluzione. Se non lo pensate no.
E io penso che il liberismo sia il problema.
Non la soluzione.

Mario Draghi, la sua potenza di fuoco_ con Antonio de Martini

Mario Draghi è ripiombato sulla scena politica. Salutato come un salvatore; etichettato come un esponente della grande finanza, delle lobby finanziarie, dei poteri finanziari. Un abito troppo stretto per un vero decisore politico o, nel minore dei casi, a stretto contatto con i decisori, con gli strateghi. Draghi è tornato in Italia per sistemare le cose, non per galleggiare. E’ diverse spanne sopra gli altri attori. Che poi ci riesca, sarà tutto da vedere.

L’Italia è un paese troppo importante per essere lasciato completamente alla deriva; è un tassello fondamentale per bilanciare la posizione di Francia e Germania; è una piattaforma imprescindibile per influire nell’area mediterranea. I pochi a non rendersene conto sono gli italiani e la quasi totalità del suo ceto politico. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vdmdkf-mario-draghi-la-sua-potenza-di-fuoco-con-antonio-de-martini.html

Governo Draghi, sintesi_di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Il campo anti-sistemico (populista/sovranista/nazionalista) ha tentato e fallito il superamento della contrapposizione destra/sinistra (governo gialloverde) in conformità alla comune designazione della UE come “nemico principale”.
Oggi riesce a superare la contrapposizione destra/sinistra il campo sistemico (euroatlantico/mondialista), e ottiene una vittoria strategica di prima grandezza: integra in forma subalterna la principale forza politica anti-sistemica italiana (Nuova Lega) e predispone un contenitore/ghetto per le lunatic fringes anti-sistemiche (Fd’I). Fd’I è il contenitore/ghetto ideale delle forze anti-sistemiche perché è una forza politica erede del fascismo, che con il suo semplice rifiuto di integrarsi nella maggioranza sistemica la definisce e legittima, sul piano dei valori, quale riedizione/riattivazione dell’ arco costituzionale antifascista.
Qualcosa di analogo era già avvenuto in Francia con la riuscita dell’esperimento Macron, brillantemente improvvisato per scongiurare il pericolo Front national nelle presidenziali 2016; ma il governo Draghi ne è la forma compiuta e integrale.
Come sempre avviene, la vittoria del campo sistemico consegue agli errori (catastrofici) e alle insufficienze anzitutto culturali (gravi) del campo anti-sistemico; e ovviamente alla bravura degli strateghi del campo vittorioso.
I problemi che hanno portato alla nascita di un campo anti-sistemico in tutto l’Occidente, però, non spariscono, sebbene per ora non trovino una sintesi culturale e politica adeguata.

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020, pp. 224, € 18,00

La globalizzazione dell’ultimo trentennio ha generato non soltanto la propria opposizione politica, ma anche, specie negli ultimi anni, una vasta letteratura critica, che insiste su uno o più caratteri negativi del processo (sociologici, religiosi, politici, economici); l’autore, economista e marxista, ne vede (prevalentemente ma non solo) la causa economica. E lo fa riandando alla legge di riproduzione e tendenza del capitale, la quale genera non sono un’ingiustizia crescente (il divario tra ricchi e poveri), ma una serie di contraddizioni che minano la sostenibilità del sistema.

La principale delle quali è “quella tra l’originaria struttura decentrata del mercato capitalistico e il progressivo accentramento dei poteri finanziari che operano in esso”; onde “la centralizzazione contribuisce ad accrescere le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, a restringere le condizioni di riproducibilità del capitale e a moltiplicare gli inneschi della crisi. Dove poi questa tendenza possa condurci, magari verso una moderna e civile logica di piano o piuttosto verso la barbarie, è una questione che resta drammaticamente aperta”.

La centralizzazione da un lato causa polarizzazione sociale, come già scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista: “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato”. Secondo Brancaccio questa è un’opposizione all’interno del capitalismo, di guisa che “Una lotta di emancipazione dai vincoli internazionali, che venisse egemonizzata dalle sole rappresentanze di un piccolo capitalismo frammentato e in affanno, assumerebbe pressoché inesorabilmente caratteri reazionari, potenzialmente neofascisti”; peraltro il capitalismo odierno, al contrario di quello descritto da Marx ed Engels, è stato soverchiato dai suoi stessi sviluppi. Se quello accresceva lo sviluppo sociale e la sua ripartizione, quello odierno li ha persi “Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalismo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini”.

Il compromesso socialdemocratico (o fordista) del secolo breve era stato determinato dal freno delle guerre e del bolscevismo. Crollato il quale la legge di riproduzione e tendenza è tornata a spiegare i suoi effetti. Il tutto influisce anche sulla sovrastruttura politica, in senso negativo sui valori e istituti del liberalismo. “La tendenza alla crescita del capitale rispetto al reddito e alla centralizzazione del suo controllo in sempre meno mani non sembra compatibile con il mantenimento futuro della democrazia, della libertà, al limite della pace”; “Il moto profondo del sistema costituisce in sé una minaccia per la sopravvivenza delle istituzioni su cui si reggono le democrazie liberali contemporanee”.

Quale rimedio alla crisi l’autore propone la pianificazione collettiva “Tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza devono riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo”. Tuttavia, ammette Brancaccio “la logica profonda del rapporto tra piano e libertà è ancora tutta da esplorare”.

In sintesi il volume presenta analisi difficilmente contestabili, ma soluzioni assai discutibili. A partire dall’ultima: come conciliare libertà e pianificazione se la costante del (fu) socialismo reale è stata di limitare al massimo libertà e democrazia? in questo senso è facile prevedere che il relativo percorso sia una strada tutta in salita.

Quanto alle conseguenze politiche della legge di riproduzione, già un pensatore controrivoluzionario come de Bonald, in un saggio/recensione pubblicato l’anno in cui Marx nasceva (1818) valutava realisticamente le conseguenze del costituzionalismo liberale e del potere ascendente della borghesia.

Secondo il controrivoluzionario l’effetto del nuovo ordine, in particolare col voto censitario e ristretto è “la promozione di una classe essenzialmente dedita ad attività economiche, a patriziato politico”; e sotto un altro profilo, così si crea una classe con un enorme potere, perché non basata, come la vecchia noblesse sulla proprietà fondiaria, per sua natura limitata, ma sulla ricchezza mobiliare, altrettanto naturalmente senza limiti “una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale immobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (i corsivi sono miei)”. Mentre “ grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè”. De Bonald aveva visto giusto: “far commercio di tutto il mondo” è ancora quanto con più sintesi ed efficacia descrive l’ethos del capitalismo attuale, finanziarizzato, informatizzato e uniformatore. Si noti che la critica del controrivoluzionario è rivolta più agli aspetti “istituzionali” cioè dell’organizzazione dello Stato che a quelli relativi ai diritti individuali di libertà.

Peraltro, individuava la classe (il soggetto) rivoluzionaria, “generata” dalle contraddizioni del capitalismo, ossia il proletariato. Solo che i proletari, nel senso di Marx (cioè operai dell’industria allora in espansione) se ne contano, nei paesi sviluppati, sempre meno.

A questo punto, e tenuto conto che come scriveva il filosofo di Treviri, e conferma l’autore, a essere proletarizzati, uniformizzati e, in definitiva sfruttai sono proprio quelle classi a vocazione “reazionaria”, non sarà che proprio tra queste e nella loro unione emergerà il soggetto rivoluzionario? Anche perché la sinistra “classica” pensa ad altro che a tutelare gli interessi dei lavoratori?

Il saggio, curato da Russo Spena – che ne ha scritto anche l’introduzione – è interessante; ma lo sarebbe stato ancora di più se l’autore avesse trattato l’incidenza sulla situazione odierna degli apparati amministrativi, della finanza pubblica e dell’imposizione fiscale. Tutt’altro che “neutre” (o di scarsa rilevanza) rispetto alle contraddizioni ed ai conflitti già in atto e che ci aspettano, anzi coadiuvanti la concentrazione di ricchezza e la “riduzione” dello Stato sociale.

In attesa e nella speranza di un altro saggio che ne tratti, consigliamo la lettura di questo.

Teodoro Klitsche de la Grange

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