Italia e il mondo

Il colle, il dragone e Sora Giorgia_di Ernesto

Il colle, il dragone e Sora Giorgia.

C’è un colle in Italia con uno scranno su cui si accomoda un tizio che dovrebbe rappresentare l’unità nazionale ed essere interprete della Carta Costituzionale nella sua evoluzione applicativa: non ci si vuole dilungare nella spiegazione della differenza tra costituzione materiale e costituzione formale. Basti in questa sede sottolineare che, le maggioranze parlamentari, la politica, hanno il compito di interpretare ed applicare la carta costituzionale ed a quel signore sul colle, spetta solo il compito di prenderne atto sorvegliando solo che la stessa non venga palesemente violata.

Insomma, in linea teorica, costui dovrebbe prendere atto della volontà popolare che esprime una maggioranza che ha un determinato programma ed è delegata dal popolo ad applicarlo.

Accade invece che questo personaggio, anche un po lugubre nella postura e nell’espressione, non perda occasione per rappresentare non già l’unità nazionale e gli interessi di questa ma, bensì, gli interessi di organismi sovranazionali a cui, a detta sua, dovremmo affidarci come un messia salvifico.

Non solo.

Egli si circonda di funzionari da Lui scelti e da noi pagati, che tramano per far cadere il governo eletto dal popolo e sostituirlo, senza passare per nuove elezioni, con uno diverso più congeniale ai desiderata di quegli organismi sovranazionali che tanto bene vogliono fare per questa povera Italia che, invece, asina quale è, si ostina a fare resistenza.

In particolare, questo disgraziato paese, ha un governicchio, eletto da un numero miserrimo di elettori che ancora credono che votare serva a qualcosa ma non completamente e del tutto supino a questi organismi sovranazionali.

Non che si opponga ma, sottotraccia e con mezze misure, fa un minimo di resistenza: si grida alle armi ed il governicchio non dice no ma fa poi dei distinguo sulle truppe, sui limiti e sull’opportunità.

Insomma, di mandare le truppe in guerra il governicchio dice che non se ne parla.

Ed allora, nel mentre dal Colle pubblicamente si incita alla adesione senza se e senza ma agli obiettivi di questi organismi, in uno di questi un Ammiraglio che colà, anch’egli, dovrebbe rappresentare gli interessi Italiani e la politica del governicchio, senza consultarsi con alcuno ciancia di attacchi preventivi ad un paese straniero con cui, formalmente, non abbiamo alcuna controversia neppure diplomatica.

Insomma questo Dragone si uniforma all’invito alle armi.

Tutti attendono con ansia una presa di posizione e guardano alla Garbatella da cui si spera, giungano segni di vita: ma niente nel Rione tutto tace.

A parte un malcelato imbarazzo e commenti di ministri vari con opposte valutazioni, Sora Giorgia, non prende una posizione.

Certo, “il bel tacer non fu mai scritto” ma che dire dell’idea della Signora in questione di varare una riforma costituzionale che prevedesse il ritorno alle urne in caso di caduta del governo prima della sua naturale scadenza?

Questa si, una misura che scongiurerebbe trame più o meno occulte per nuove maggioranze posticcie ed eterodirette.

Con buona pace di Colli e Dragoni.

Ma pare che, dopo una durissima lotta per una ennesima “non riforma” della giustizia, non ci sia spazio per altro.

Si tira a campare, come in Borgata.

Peccato che l’orizzonte non sia solo quello della Garbatella ma di un paese intero.

Sempre i soliti, di Teodoro Klitsche de la Grange

SEMPRE I SOLITI

Le ultime occasioni di dibattito pubblico interno e cioè quella sulla patrimoniale e l’altra sulle esternazioni a tavola dall’on. Garofani hanno un carattere comune: di manifestare le costanti di comportamento del centrosinistra italiano. Di guisa da renderle verosimili, anche se non fosse stata (quella sulla necessità d’impedire la vittoria della Meloni alle prossime elezioni politiche) confermata dall’esternatore.

Cos’ha detto l’on. Garofani? A quanto si legge sui giornali che, a distanza di meno di due anni dalle elezioni non c’è tempo per trovare un candidato-premier idoneo, onde per battere la Meloni servirebbe “un provvidenziale scossone”.

Prospettiva preoccupante perché negli ultimi anni gli scossoni sono stati non dipendenti dalla volontà degli italiani e delle forze politiche nazionali, ma ricordano i quattro cavalieri dell’Apocalisse: la peste (il Covid); le guerre (Ucraina e Gaza), e queste due guerre ci hanno riportato la morte. Manca la fame, ma non è escluso che, con gli auspici dell’on. Garofani, non si rifaccia viva, per propiziare la fuoriuscita della Meloni. In fondo cos’è una piccola carestia, a fronte di un risultato così provvidenziale (per il centrosinistra)?

Che buona parte dei dirigenti pubblici nominati dai governi precedenti cerchino di sdebitarsi, remando contro il governo, e diventando così dei partisan (senza la bi) è evidente, ma conoscendo il dettato dell’art. 97 della Costituzione, cercano di farlo sotto traccia, senza chiacchiere da bar o da salotto.

Ai tempo della Riforma, si chiamava nicodemismo. Invece Garofani ha contraddetto questa prassi e il consiglio di Machiavelli di parere (e non di essere) buono, devoto, legale, legittimo, ma soprattutto imparziale come prescrive l’art. 97 della Costituzione.

Una delle conferme che può quindi trarsi da questa vicenda, del tutto in linea con i precedenti (i ribaltoni anti-Berlusconi del 1994 e del 2011) è che, come scriveva Pareto, le classi dirigenti in decadenza si servono più dell’astuzia che della forza: manovre di corridoio, inciuci, finti scandali e vere calunnie sono gli espedienti preferiti per mantenersi al potere. Ciò per compensare la riduzione del potere (e dell’esercizio della forza) conseguente allo scemante consenso dei governati.

In questo Garofani ha perfettamente ragione: una legge elettorale, abilmente sfruttata, può capovolgere i risultati di una votazione persa o dubbia. Come avvenuto nel 1996 e nel 2006.

Anche l’altro tormentone mediatico sulla patrimoniale è in linea col pensiero del P.D. e non solo, come detto, con quello comunista. Se così fosse, ci sarebbe meno da preoccuparsi, perché finito il comunismo non resterebbe che aspettare la fine delle conseguenze.

Ma purtroppo non è così, confermato dalle recenti vicende italiane e dal sistema fiscale la cui maggior imposta patrimoniale, cioè l’IMU, è stata decisa dal governo Monti, non comunista, anzi tutt’altro, “tecnico” e non “politico”. I cui mediocri risultati e le politiche che li hanno causati sono stati continuati dai governi di centro sinistra che li hanno fatti propri. Come ritenuto dal pensiero politico economico realista (e liberale) dell’ultimo secolo (abbondante) la finanza pubblica può essere predatoria, parassitaria o anche mutualistica.

Di tali tipi non ripeto i criteri distintivi, resta comunque la stretta vicinanza tra assetto predatorio e imposta patrimoniale accomunati dal fatto che come in quello lo sfruttamento dei governati è tale da intaccare la capacità contributiva in misura superiore al reddito ricavabile (e così peggiora la situazione economica dei sudditi); nella seconda, proprio perché rapportata al patrimonio e non al reddito la suddetta conseguenza è del tutto irrilevante sul gettito ricavato.

Quindi per le classi dirigenti una rendita assicurata che la sinistra giubilante associa alle solite belle parole come sempre proclamate perché nascondono pessimi comportamenti.

E proprio questa è la novità del caso Garofani (almeno): che pratiche del genere sono tenute rigorosamente riservate, e se possibile segrete. Mentre il consigliere del Quirinale le ha tranquillamente esternate in allegra compagnia: per un congiurato (lo si sarebbe chiamato, in altri tempi) atteggiamento quanto mai imprudente.

Teodoro Klitsche de la Grange

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MATTARELLA BIS_di Michele Rallo

MATTARELLA BIS

una ricostruzione sulle orme di Poirot

di MICHELE RALLO

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Michele Rallo, già edito nel marzo 2022

Perché una seconda ondata di Mattarella? E, per giunta, quando ancóra a palazzo Chigi imperversa il virus Draghi? Semplice: perché Draghi non puó lasciare la guida del governo, se no quei pasticcioni di piddini e cinquestelle (con leghisti giorgettiani e forzisti brunettiani al séguito) sbagliano tutto e il PNRR va a farsi benedire. E, con il PNRR, anche le “riforme” e le “transizioni” che tanto a cuore stanno all’Unione Europea e a Wall Street.

Senza contare che – se finisse il governo Draghi – ci sarebbe il rischio concreto di interruzione della legislatura e di elezioni anticipate. E, questo, senza neanche il tempo di tentare la riforma del sistema elettorale, con il risultato di vedere a breve scadenza Giorgia Meloni alla Presidenza del Consiglio.

Il pericolo Giorgia é quello che i poteri fortissimi dei “mercati” devono assolutamente sventare. Pena il rischio concreto che l’Italia rifiuti di lasciarsi incaprettare senza opporre resistenza.

Ma, procediamo con ordine. Dunque, si era al muro contro muro. Un centro-destra apparentemente unito aveva le sue ottime carte da giocare (prima con la candidatura di Silvio Berlusconi, poi con quella della Presidente del Senato e con le altre). Ed un centro-sinistra apparentemente unito respingeva sistematicamente uno dopo l’altro tutti i nomi fatti dal centro-destra, accusati di essere “divisivi”. In mezzo Renzi (che cercava di approfittare del bailamme per piazzare il “suo” Casini) e tutta una pletora di minuscole aggregazioni piú o meno centriste.

Tutti sapevano che la situazione si sarebbe sbloccata quando la palude centrista fosse stata costretta a schierarsi di lá o di qua; o quando – al limite – fosse riuscita ad imporre ad uno degli altri schieramenti un terzo uomo, tipo Casini.

Un primo mutamento di questo schema si produceva quasi súbito, immediatamente dopo il ritiro della candidatura Berlusconi. L’unitá apparente del centro-destra andava in frantumi, e venivano fuori almeno cinque diverse linee. E cioé, le tre linee delle forze principali (leghisti, fratellini e forzisti, rigorosamente separati), una quarta rappresentata dall’ala ministeriale (georgettiani e brunettiani), ed una quinta che annoverava la componente centrista del centro-destra (a sua volta divisa al proprio interno tra i vari gruppuscoli che la compongono).

Seguiva la prevedibile melina: votazioni-bidone, partecipazioni, non partecipazioni, astensioni, schede bianche, candidature di bandiera. E, naturalmente, fuoco-di-fila di franchi tiratori centrodestristi. Con una novitá: questa volta i franchi tiratori non si nascondevano nel segreto dell’urna, ma uscivano allo scoperto, firmando quasi le schede infedeli con cospicui pacchetti di voti per Bossi, per Giorgetti, per Tajani, per Berlusconi, oltre che per vari nomi piú o meno centristi dell’altro versante.

Intanto, filtrava la voce che Draghi si sarebbe probabilmente dimesso se alla presidenza fosse stato eletta persona diversa da Mattarella o, in subordine, da Giuliano Amato, altro elemento amatissimo dai “mercati”. Naturalmente, la notizia non trovava conferma. Draghi continuava a mantenere un profilo basso. Ma cresceva l’inquietudine di cinquestelle e “responsabili” assortiti.

Poi, quella che sembrava la svolta: il summit Letta-Salvini-Conte e la decisione di far votare una candidatura by partisan nella persona di Elisabetta Belloni, una figura indipendente, una donna assai apprezzata da tutti, con alle spalle una lusinghiera carriera diplomatica e, in atto, direttore generale del DIS, l’organismo di coordinamento dei nostri servizi segreti.

Tutti contenti, tutti soddisfatti. Salvini correva a riferire al coordinamento dei partiti del centro-destra, ottenendo il via-libera anche di Fratelli d’Italia. La “quadra” era stata trovata: salvaguardata sia l’unitá del governo (che tanto a cuore stava ai peones timorosi di una crisi che avrebbe potuto sfociare in elezioni anticipate), sia quella delle due coalizioni. Trovata la soluzione, sbloccata l’impasse, scongiurato il muro-contro-muro, e – cose di cui quasi tutti si preoccupavano al massimo – assicurata la perfetta agibilitá del governo in carica, il PNRR, le riforme “che l’Europa ci chiede” e le “transizioni” che, insieme all’Europa, ci vengono chieste anche dai piú grossi affaristi del globo terraqueo.

Sir Drake poteva dormire sonni tranquilli. Invece, soffriva evidentemente d’insonnia, perché si precipitava da Mattarella, gli diceva che si rischiava la paralisi (proprio quando la situazione si stava sbloccando) e lo invitava a fare il “sacrificio” di un secondo mandato che, a quel punto, non stava né in cielo né in terra.

Piú o meno contemporaneamente, il Cavaliere – dal suo letto d’ospedale – alzava il telefono e chiamava il fido Braccobaldo Tajani, ordinandogli di fare una inversione a U e di schierarsi con Sergio II. A Salvini non c’era bisogno di fare alcuna telefonata, perché in Lega comanda ormai Giorgetti, e quello che una volta era il Capitano é ormai soltanto un caporale di giornata.

Fin qui, la cronaca. Una cronaca talmente inconcepibile – peró – da lasciar credere che dietro certi comportamenti allucinanti possa esserci altro, molto altro, moltissimo altro. Certo, nessuno potrá mai avere delle prove concrete, ma molti ormai si pongono delle domande e – come direbbe Marzullo – si danno delle risposte.

Anche io – nel mio piccolo – avrei elaborato un “dietro le quinte”. Beninteso, si tratta di opinioni personali, personalissime, non di fatti oggettivi, provati. E, tuttavia, la mia vecchia passione per i romanzi gialli mi induce ad abbozzare una pur fantasiosa ricostruzione. Dunque, ipotizziamo che i famosi “poteri forti” siano andati nel panico di fronte alla prospettiva che le prossime elezioni possano partorire un governo Meloni, e che tale governo possa adottare misure che disturbino i piani di Bruxelles e di Wall Street. A quel punto, Draghi viene accantonato nella corsa del Quirinale, e si opta per Mattarella, che ha l’esperienza politica e la preparazione giuridica necessarie per mettere i bastoni tra le ruote al governo. Si ricordi come fu bravo a impedire la nomina di Savona a Ministro.

Sennonché, una rielezione del Presidente della Repubblica é sia pur implicitamente esclusa dalla Costituzione. Occorre allora forzare la mano, disegnando l’immagine di un Presidente talmente amato dal popolo che sarebbe un peccato non rieleggere, talmente capace che da solo puó garantire la sopravvivenza del governo in carica, talmente prezioso da indurre tutti quanti a rieleggerlo con rulli di tamburo e squilli di tromba.

Ecco allora – é sempre la mia ricostruzione fantastica – iniziare la pretattica. Mentre il Presidente ripete in pubblico fino alla nausea che la Costituzione esclude ogni ipotesi di reincarico, si moltiplicano le occasioni ufficiali in cui il soggetto é esposto a favore di telecamera un giorno si e l’altro pure, magari con applausi scroscianti per piú e piú minuti (come se fossero stati provocati da qualche clac dislocata strategicamente), si fanno trapelare sulla stampa notizie di case affittate per un onorevole pensionamento, si fanno pubblicare le fotografie di un anticipo di trasloco, con un materasso in bella vista e con gli scatoloni giá pronti, che un solerte collaboratore mostra sui social con scarsa considerazione per la privacy del suo principale.

Poi inizia la liturgia dei vertici fra partiti e delle prime fumate nere in aula. Il centrodestra dá sfogo a tutta la sua fantasia per proporre nomi ineccepibili da sottoporre all’altra coalizione, e il centrosinistra li boccia uno ad uno, con motivazioni non proprio brillanti.

E quando, alla fine, il PD non riesce piú a trovare argomenti per bloccare una proposta by partisan e ci si avvia verso una soluzione che salverebbe capra e cavoli, ecco allora che il Presidente del Consiglio si precipita da Mattarella e lo scongiura di accattare una rielezione che ormai, anche con la migliore buona volontá, non puó essere considerata indispensabile.

E il buon Sergio, compunto, dimentica di colpo tutte le dotte argomentazioni di segno contrario, e si offre impavido al supremo sacrificio della rielezione. Intanto, per fugare le ultime resistenze di Lega e Forza Italia (che fino a 10 minuti prima avevano sparato a zero contro l’ipotesi di un Mattarella bis), ecco che il cavalier Berlusconi prende il telefono e detta i nuovi ordini di scuderia: contrordine, compagni – avrebbe detto il buon Guareschi – si vota Mattarella.

Ciliegina sulla torta: mentre fino ad ieri si ipotizzava soltanto una eventuale rielezione a tempo di Mattarella (che avrebbe dovuto dimettersi dopo un anno per consentire al nuovo parlamento di eleggere un Presidente della Repubblica con piena legittimazione), adesso di questa cosa non se ne parla proprio piú, dando per scontato che si tratti di una rielezione piena, tale da produrre i suoi effetti per l’intero settennato. Tale – cioé – da andare ad incidere sul governo che scaturirá dalle elezioni del 2023.

Fine della ricostruzione. Una ricostruzione fantasiosa, da giallofilo impenitente quale io sono, sulle orme di Poirot e di Nero Wolfe. E senza neanche scomodare personaggi meno letterari, come il Divo Giulio, il quale – si ricorderá – amava ripetere che a pensar male si fa peccato, ma…

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Il Documento di Crosetto: Una Mappa Strategica per Navigare nell’Arcipelago delle Minacce Ibride_di Cesare Semovigo

Il Documento di Crosetto: Una Mappa Strategica per Navigare nell’Arcipelago delle Minacce Ibride

Di Cesare Semovigo italiaeilmondo.com / X @italyworld

La doppia lettura di un testo strategico e di malcelata impulsività italica

Il documento presentato dal ministro Guido Crosetto si configura come un testo denso, carico di significati stratificati e malcelata impulsività italica, che richiede una decodifica ad alto livello. Come un iceberg, appare in superficie solo una frazione del suo valore reale, mentre la sua essenza più profonda si cela nel meta-testo che, in modo calibrato, parla più agli alleati che ai nemici e lo fa in una proporzione stimabile in circa 60 a 40. Leggerlo con strumenti di Open Source Intelligence (OSINT) e di analisi militare avanzata significa trasformarlo in una mappa indispensabile per orientarsi nell’arcipelago complesso e minaccioso delle guerre ibride del XXI secolo.

L’espressione “viviamo in un’era di instabilità senza precedenti”, presente nelle prime pagine del documento, non è un mero dato di fatto o una retorica di rito. Funziona da ancora emotiva, evocando nelle menti un senso di vulnerabilità esistenziale che legittima e giustifica misure straordinarie di sicurezza e difesa. Dietro questa scelta lessicale, si nasconde una velata critica all’attuale ordine mondiale liberale, ormai percepito come inadeguato a fronteggiare le sfide di un mondo multipolare, iperconnesso e radicalmente instabile. Più che un annuncio, questa frase è un invito a prepararsi a un cambio radicale di paradigma sulle politiche di sicurezza[1][2].

Il contesto geopolitico e la genesi del documento**

Non si può capire il documento di Crosetto senza contestualizzarlo nel teatro di tensioni geopolitiche che agitano l’Europa e l’Occidente negli ultimi anni. La guerra in Ucraina ha segnato una cesura decisiva, mostrando con brutalità come anche l’Europa, considerata spesso un’isola tranquilla, possa essere teatro di conflitto e fragilità sistemica. Intorno si aggiungono faglie geopolitiche nel Mediterraneo e la netta competizione tecnologica con la Cina, che approfondisce il senso di urgenza nella revisione della sicurezza nazionale ed europea.

Il documento utilizza con intelligenza la definizione di sicurezza “ibrida, fluida, pervasiva”, un “reframe” semantico che amplifica la complessità e mutabilità della minaccia, imponendo una visione olistica che rompe definitivamente con vecchi schemi militari settoriali. Non più solo eserciti o missili, ma una commistione di cyberattacchi, disinformazione, pressioni economiche e manipolazione sociale.

Tra questi aspetti emerge con concretezza la questione drammatica della sicurezza delle infrastrutture fisiche, un tema a lungo sottovalutato in Italia. I cavi sottomarini, metaforicamente definiti “sistema nervoso dell’economia digitale”[6], sono stati oggetto di cessioni strategiche a investitori esteri, in particolare cinesi, che hanno acquisito quote rilevanti in Sparkle, la controllata internazionale di TIM, nel 2016 per circa 250 milioni di euro. Queste vendite, avvenute fra il 2015 e il 2020 sotto governi Renzi e Gentiloni, hanno indebolito la sovranità italiana su asset critici, aprendo vulnerabilità pericolose per la sicurezza nazionale. Un simile disinvestimento è stato fatto anche nel settore energetico e delle infrastrutture, e oggi Crosetto ne dà atto ufficialmente.

L’idea che la territorialità digitale passi anche per il controllo di strutture fisiche come i cavi o le reti è una presa di coscienza tardiva che emerge con forza dal documento. D’altro canto, la privatizzazione selvaggia di TIM, iniziata alla fine degli anni ’90 e conclusa nei primi anni 2000, ha trasferito il controllo di infrastrutture vitali a soggetti con priorità finanziarie, e non strategiche. Oggi la rete TIM vale oltre 15 miliardi di euro, ma il suo valore reale come pilastro di sovranità digitale è incalcolabile.

Meta-narrazione e messaggio celato agli alleati

Il nucleo nervoso del documento risiede nella sua narrazione sottesa, di cui sono destinatari principalmente gli alleati europei ed occidentali. Il messaggio scorre sotto la superficie, solcando con forza i passaggi chiave ma presentato con una discrezione tipica di comunicazioni strategiche di alto livello. Output di un’analisi semiotica e di formato PNL avanzata evidenzia come il richiamo all’unità “solo insieme possiamo affrontare queste sfide epocali” sia un appello diretto ben più che retorico.

L’uso del termine “epocali” aumenta la gravità dell’appello, suggerendo che la divisione tra Stati membri è oggi un lusso che nessuno può permettersi. Questa espressione contiene un “meta-messaggio” critico verso egoismi nazionali e liti di cortile.

Soprattutto, il richiamo alla cooperazione industriale deve essere letto attentamente. Apparentemente un generico auspicio di collaborazione, diventa una missiva indiretta a potenze come Germania e Francia affinché superino la frammentazione industriale e tecnologica che mina l’autonomia europea, favorendo invece programmi multinazionali come la EDTIB (European Defence Technological and Industrial Base)[4]. È un messaggio che si inserisce in una realtà di mercato: Leonardo, fiore all’occhiello italiano, ha subito un calo di valore azionario di circa 3,4% nel primo semestre del 2023[1], a causa non solo della domanda contratta ma soprattutto per la latitanza di una visione strategica paneuropea che manca di coordinare ricerca, finanziamenti e indirizzi produttivi.

Il caso Panther KF51[2], esempio paradigmatico di questa disarmonia, è emblematico: nato da una joint venture tedesco-francese, con un budget iniziale stimato in 1,2 miliardi di euro, ha escluso efficacemente Leonardo dalle fasi decisionali chiave. Una marginalizzazione che segna l’italia come attore di secondo piano nei futuri programmi d’armamento europeo, a grave rischio di perdita di autonomia strategica.

Il documento, in forma celata, rivoluziona inoltre il modo di concepire l’alleanza atlantica: definire “l’Europa padrona del proprio destino” è un preciso segnale politico nei confronti degli USA, affermando implicitamente il desiderio (e la necessità) di una maggiore indipendenza, bilanciata da un’intesa più paritaria e autonoma nell’integrazione ai sistemi occidentali.

Screenshot

Un moto evolutivo indispensabile: formazione e competenze tecnologiche

Qui emerge la critica più ferma verso la realtà italiana. Crosetto evidenzia la vastità delle minacce nei “campi di battaglia” ibridi, con termini come “cyberspazio”, “spazio”, “infosfera” che, pur evocando innovazione e urgenza, restano un appello generico senza indicare con chiarezza le riforme strutturali necessarie. L’Italia soffre di un deficit formativo enorme: solo 2.500 laureati in cybersecurity ogni anno, contro 15.000 in Germania e 12.000 in Francia. Questa forbice si traduce inevitabilmente in incapacità di risposta “state of the art” nei servizi di intelligence e difesa cyber. 

L’ambizione di “investire nella sicurezza come mai prima d’oggi” implica dunque ben più della mera dotazione finanziaria. Serve un cambio culturale e operativo, con dettagliata programmazione di **counter-intelligence**, formazione coraggiosa e attrazione di talenti da settori privati ad alto contenuto tecnologico. Si rende necessario creare centri di eccellenza che, pur prendendo ispirazione da modelli come le cyber academy israeliane o i centri di formazione NSA, mantengano un’originalità strategica e culturale italiana, capace di integrare diplomazia e intelligence in modo unico, soprattutto in aree critiche come il Medio Oriente.

L’informazione è definita “moneta del potere del XXI secolo”, frase che usa una metafora mercatistica per sottolinearne il valore strategico. La condivisione dell’informazione, soprattutto in un contesto di minacce  ibride, è oggi il vero fattore di successo. Ma per condividerla necessita di una produzione di intelligence robusta, che richiede a sua volta investimenti e competenze avanzate. 

Non va infine dimenticata l’eccellenza italiana nei servizi di intelligence e unità speciali. Nonostante le limitazioni finanziarie e di struttura, organizzazioni come AISE e AISI, unità come GIS e COMSUBIN, hanno saputo fornirci vantaggi strategici in scenari complessi dal Mediterraneo fino al Sahel. Questa esperienza va tutelata, valorizzata e aggiornata, poiché rappresenta un patrimonio inestimabile che rischia di andare perso senza volontà e investimenti coerenti.

Il contesto nemico e il progetto emergenziale cyber

Il documento affronta con rara franchezza il quadro delle minacce, indicandole come una guerra ibrida continua e multidominio che è già realtà quotidiana per l’Italia[5]. La proposta di istituire un progetto emergenziale per la cybersecurity italiana prevede investimenti tra 5 e 7 miliardi di euro in cinque anni, per portare le strutture al livello di Francia e Germania. Si prevede anche di sviluppare capacità offensive nel cyber, difendere infrastrutture critiche e attivare una rete nazionale di centri di eccellenza.

Di particolare interesse è l’idea, forte e innovativa, di utilizzare il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità)[3] per finanziare questa spesa, evitando così il ricorso a un aumento incontrollato del debito pubblico italiano, oggi al 145% del PIL. Il MES, nato come risposta alla crisi del debito sovrano, potrebbe dunque trasformarsi in un pilastro anche della difesa europea, incarnando la fusione tra politica economica e sicurezza strategica, una strada percorsa con favore anche da Ursula von der Leyen.

La minaccia russa nel dominio ibrido è evidenziata apertamente come primaria, con i noti attacchi a infrastrutture energetiche, disinformazione e sabotaggio, come dimostrato dagli attacchi ai cavi sottomarini del Baltico nel 2023[6]. Più sfumata ma altrettanto grave è la minaccia cinese, data dalla penetrazione e controllo economico-strategico di punti nodali come porti europei (Trieste in primis), oltre allo spionaggio tecnologico e informatico.

Il progetto emergenziale di intelligence europea cyber prevede una dotazione di 2 miliardi di euro e mira a integrare, con governance trasparente, le capacità nazionali in un’unica piattaforma predittiva e reattiva ispirata al modello Five Eyes ma con specificità UE. Tra le proposte figura anche la creazione di un corpo di riserva cyber (stima a regime: 50.000 unità), essenziale per bilanciare la carenza di personale esperto nel settore pubblico. Il costo di questa unità sarebbe modesto se confrontato con i danni potenziali di un grave attacco cyber.

Ridefinizione di una sicurezza europea d’avanguardia

L’ultima pagina del documento è un appello potente: “Il futuro dell’Europa dipende dalle scelte che faremo oggi”. Qui la retorica si concretizza in responsabilità storica, un imperativo di azione immediata e strategica. È una chiamata che va oltre il semplice documento tecnico, posizionandosi come manifesto politico per una nuova stagione della difesa europea.

Questo testo rappresenta uno spartiacque che riconosce gli errori del passato — dalla svendita di asset strategici fino all’indebolimento delle capacità operative nelle nuove guerre ibride — ma indica anche la strada per un ritorno nelle stanze che contano. Solo con investimenti mirati, riforme strutturali e una visione politica lungimirante Italia e Europa potranno trasformare le minacce in opportunità per un’autonomia reale.

L’evoluzione formativa come chiave per un futuro all’altezza è imprescindibile, così come la volontà ferma di salvaguardare le eccellenze italiane di intelligence e forze speciali, aggiornandole agli standard tecnologici più avanzati.

Il documento è dunque un invito all’unità e alla collaborazione, che supera la canonica dicotomia amico-nemico per abbracciare la complessità del mondo ibrido, in cui la guerra si combatte tanto con i codici informatici quanto con le idee, la cultura e la capacità di leggere e influenzare la realtà.

 Note e Fonti

[1] Reuters, 2023 – Calo del valore azionario di Leonardo, con focus sul settore elicotteristico.

[2] Defense News, 2023 – Programma Panther KF51, joint venture Rheinmetall-KNDS.

[3] Il Sole 24 Ore, 2023 – Uso potenziale del MES per finanziamenti strategici.

[4] OSINT Framework, 2023 – Base industriale e tecnologica europea della difesa (EDTIB).

[5] NATO Review, 2023 – Definizione e impatti della guerra ibrida.

[6] Atlantic Council, 2023 – Vulnerabilità delle infrastrutture sottomarine (Baltico 2023).

Il Sole 24 Ore, 2023 – Privatizzazione TIM e implicazioni strategiche.

Kaspersky, 2023 – Gap formativo italiano in cybersecurity.

Politico, 2023 – Interventi Ursula von der Leyen sulla difesa europea.

NATO, 2023 – Debati sul 5% del PIL per la difesa europea.

L’ “acquarugiola sul colle”_di WS

L’  “acquarugiola  sul  colle”  fa parte   delle  manovre in corso  in Italia per portarci in guerra;  perché    qualcuno  la guerra  dovrà firmarla   ed in particolare il borbottio  di ieri   sembra  legato  ad  un  possibile “ Mattarella III “ .

Perché  di  sicuro  Mattarella la  sua firma  la metterà.

Sia   chiaro  che  non   è mia intenzione  di accusare  di alcunché  il  “nostro”    Augustissimo  Presidente.  La mia   è attualmente   solo    una ipotesi  (geo)politica   che potrebbe   essere  passata  nella testa  dei suoi meno  augusti   consiglieri , così come è stata denunciata   da un giornale  di destra.

Ma  facciamo prima un breve  ricapitolazione  della  “time  table”   con  cui  ci sta portando in guerra.

1)   La NATO provoca la Russia in Ucraina

2) La    Russia  fa un “prempitive  attack”   ( come previsto nel piano NATO).

3) L’ Ucraina     non  accetta le condizioni  politiche  richieste  dalla Russia   e dichiara la  guerra totale ( come previsto nel piano NATO).

4)  la Russia  non la segue  su  questo piano ,  si mette sulla  difensiva   e  si adatta  al conflitto (cosa non prevista  dal piano NATO).

5)  La NATO   spinge  l’ Ucraina  all’ offensiva,    assistendola in tutti i modi provocatorii possibili  ma mantenendo   una formale   negazione     del proprio  coinvolgimento  nel conflitto.

6) La  Russia    ignora le provocazioni  e   si limita  a difendersi     distruggendo  l’esercito Ucraino.

7) la NATO propone un cessate il fuoco   che  comunque lasci  l’ Ucraina   nelle  sue mani e politicamente scornata la Russia.

8) la Russia  rifiuta   questa “pace”   ribadendo le sue precondizioni  politiche  che però  l’ Ucraina  rifiuta. La Russia passa  all’offensiva.

 La NATO  però  non    può e non vuole     mollare l’ Ucraina; deve quindi intervenire DIRETTAMENTE   per salvare il  suo  regime  a Kiev.

Ma  così la posta  diventa troppo  grossa  per  il master  della NATO  (  gli U$A);  le potenze nucleari non possono  farsi      guerra  DIRETTAMENTE .  E così  gli U$A hanno deciso  di lasciare  l’ onere della guerra  ai suoi ascari  €uropei .

Il motivo per il quale    dovrà  essere    l’ €uropa  a   dover  correre il rischio  e prendersi il danno  facendo  guerra  alla  Russia in un modo  o nell’ altro.

E  qui  veniamo     al cumquibus. A nessun  ascaro   sarà permesso  di sottrarsi  a  questa  guerra.   Riguardo a  ciò il  problema non è politico,  nel senso  che  in €uropa  i padroni  della NATO   detengono  il controllo non solo dei governi ma anche delle opposizioni.   Si  tratta  solo  di definire    l’ opportuna  “ narrazione”  per portare  avanti le decisioni prese.

E  qui  veniamo all’ Italia .

 L’ attuale    governo   non ha la  maggioranza   bellicista necessaria. Il partito  contrario, la Lega,   ( per ora ) non  sembra  disponibile a   “cambiare idea”.   Nel caso si tratterebbe  quindi    di costruire  una  maggioranza     ”ad hoc”    con pezzi  di opposizione   atti  a sostituire  i  renitenti  alla guerra  della attuale maggioranza.  Una  dinamica che  “  a parti invertite”   abbiamo  già visto con il governo Prodi1

Quindi :

Ipotesi  uno  : Giorgia   sbatte  fuori  la Lega .

E’ un cosa  abbastanza  semplice   fare un Giorgia 2  “  deguera” .  Basterebbe  mettere insieme  TUTTO  FdI,   TUTTA FI,        i “calendiani ”  e un pugno  di leghisti    sedicenti  “padanisti”; con   un   sapiente    contributo  della opposizione   sarebbe  fatta.

 Ma Giorgia nicchia.  Lei ha costruito   tutto il suo  successo politico  succhiando le ruote leghiste; non è disposta   a ridare  alla Lega   la sua libertà d’ azione elettorale . Quindi non se parla

Ipotesi  due :   Giorgia   cade   come Prodi e  arriva  un  ammucchione   di “guerrafondai”  come  ai tempi  del governo  D’Alema.  

C’ è anche   l’uomo giusto  : Crosetto. Ma   Crosetto , al contrario  di D’Alema nel 1998,  non ha il controllo del suo partito;  se Giorgia non vuole  non se ne fa nulla. 

 Giorgia probabilmente  è tentata   di lasciare  ad altri   la patata bollente   del   governo  “deguera”  portando    gran parte  del  suo partito all’ opposizione   con Salvini , ma…

Il problema è  in quel “gran parte”;   per  vari motivi   “gran  parte”  di FdI   seguirebbe  comunque  Giorgia   e Crosetto  non potrebbe guidare  un governo   nel quale     la  sua  squadra   sarebbe  quella  di minor peso.

In   questo  caso   entrerebbe  in campo il “noto  garante”,    recuperando   il  noto  “SSalvatore  della patria”  per un “governo  di SSalvezza nazionale”.   Si  andrebbe  in guerra  e buonanotte  ma ad una condizione…

Solo dopo le elezioni del ‘27.   Come ben noto   dalle  fine   de  “l’ altro  SSalvatore  della patria”,  un  ammucchione  che massacra il paese  poi non potrebbe  presentarsi   alle  elezioni    e vincerle.

Quindi abbiamo  l’ ipotesi 3:  L’ ammucchione del “ salvatore”  si  fa  prima  delle elezioni .

 Ovviamente  su l’ onda  di un emergenziale  “fate presto” e in questo  caso  presentandosi   tutti insieme  contro  gioggia&salvini con  “il garante”  che farà  la  sua  ( solita) parte   in  cambio  di un “terzo mandato”   da consegnare poi (forse)  al “Ssalvatore”.

Tanto,   comunque   non si voterà più  perché   “c’è  la guera”…

E’   quindi ovvio  che  qualche  consigliore   del “nostro”  Re  possa  “coltivare”  questa ultima ipotesi   e  che   Giorgia  ci abbia  voluto “ veder  chiaro”.

Che  ci piaccia o meno,  siamo tutti nelle mani  di  Giorgia     la quale evidentemente   non vuol collaborare ( per ora).

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Sorteggio sì, sorteggio no!_di Teodoro Klitsche de la Grange

SORTEGGIO SI, SORTEGGIO NO

Tra gli argomenti addotti per rifiutare la recente riforma della giustizia con separazione delle carriere ce n’è uno particolarmente interessante: che il sistema elettivo del CSM garantiva la selezione dei migliori, mentre sorteggiarli significa affidarsi al caso; non è detto che quelli sorteggiati siano migliori di quelli scelti dal “corpo elettorale” (cioè dai componenti il collegio votanti).

In effetti l’uno e l’altro sistema sono considerati connotati l’uno (l’elezione) del principio aristocratico, l’altro (il sorteggio) da quello democratico.

Nel primo possono essere selezionate le capacità (e il comportamento) del candidato, nel secondo è esaltata l’eguaglianza tra gli elettori-candidabili. Come scrive Schmitt: “l’elezione può davvero creare un’autentica rappresentanza ed è quindi un metodo del principio aristocratico, se ha il senso di determinare la scelta dei migliori, se la direzione va dal basso verso l’alto, ossia gli eletti sono i più eminenti. Ma al contrario l’elezione può anche essere una mera nomina di agenti e rappresentanti di interessi. La tendenza va quindi dall’alto verso il basso, cioè l’eletto è un impiegato degli elettori, dipendente e subordinato… Nella determinazione mediante sorteggio l’eguaglianza è assicurata nel modo migliore, per quanto sia esclusa la possibilità di una distinzione secondo la capacità obiettiva”.

Il fatto che talvolta la nomina di magistrati fosse fatta con il metodo stocastico nelle antiche repubbliche, in particolare ad Atene e millenni dopo, a Venezia è dovuto probabilmente al numero dei componenti il collegio elettorale, di poche migliaia (al massimo decine di migliaia) per quelle antiche mentre è di parecchi milioni (o decine di milioni) per le moderne “democrazie rappresentative”, le quali sono un compromesso (status mixtus), coniugando elementi monarchici, aristocratici e democratici nell’ordinamento costituzionale.

D’altro canto il sorteggio, ancor più se accoppiato, come soprattutto a Venezia, dalla temporaneità delle cariche (spesso per pochi mesi) da incompatibilità, da divieti di nomine successive, oltre che derivare dal principio di uguaglianza, difende sia dal professionismo politico sia dalla bulimia del potere. Altro è il potere esercitato, come sta capitando in Italia per gli ultimi Presidenti della Repubblica, cioè per più di sette anni, altro quello dei componenti il Consiglio dei dieci di Venezia, sia per la brevità della carica, che per la rotazione dei capi, l’incompatibilità tra membri della stessa famiglia (e altro).

Nell’ordinamento pubblico italiano il sorteggio trova applicazione, anche se non diffusa, specie in uffici (e incarichi) amministrativi a carattere tecnico o con funzione di controllo quasi a sottolinearne l’aspetto tecnico o di verifica di conformità alla normativa.

Fa eccezione proprio l’amministrazione ella giustizia (anche se non è un’eccezione ampia).

Infatti il sorteggio è impiegato per la formazione delle Corti d’Assise e delle Corti d’Assise d’Appello, competenti a giudicare per le fattispecie delittuose più gravi, relativamente alla quota dei giudici popolari; il tutto avviene tra gli iscritti ad un albo che abbiano un certo grado d’istruzione. Ciò è un’attuazione dell’art. 102 della Costituzione sulla partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia.

Al vertice, e in tema di giustizia politica, è prevista l’integrazione della Corte costituzionale (ove debba giudicare  nei giudizi di alto tradimento e attentato alla Costituzione del Presidente della Repubblica) con sedici giudici sorteggiati da un elenco di 45 eletti, ogni nove anni, dalle Camere riunite. Giustificato dalla necessità di evitare un controllo preventivo e stretto sulla composizione del collegio giudicante.

Indubbiamente, più ancora nel caso delle Corti d’Assise la non professionalità del giudice popolare e sorteggiato non è stata ritenuta argomento sufficiente a contrastare le opposte considerazioni; anche se a sottoporsi al giudizio di giudici dalla ridotta perizia giuridica non è una prospettiva confortante per le parti del processo.

Nel caso del CSM tuttavia, essendo il Collegio da cui sorteggiare i candidati, composto  da funzionari dello Stato di elevata professionalità e selezionati per concorso, gli inconvenienti addotti sono meno rilevanti.
Va da se che comunque qualcuno rimane. Specie se come riteneva Schmitt il corpo elettorale seleziona i migliori non perché i più eminenti e preparati, ma perché i più adatti a rappresentare gli interessi della categoria; deviazione ricorrente nell’esercizio di ogni funzione pubblica.

Concludendo (ma l’analisi va rinviata ad un contributo più diffuso) occorre trovare (in parte già cennato nella legge de qua) le garanzie istituzionali della magistratura (e i diritti del singolo giudice conseguenti) non tanto nell’esterno – come per lo più nello Stato borghese – cioè tra poteri (come scriveva Montesquieu occorre che il potere arresti il potere), ma all’interno del potere stesso, come per l’appunto praticato nella Serenissima.

Teodoro Klitsche de la Grange

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La capra espiatoria_di Teodoro Klitsche del la Grange

LA CAPRA ESPIATORIA

Capita spesso di leggere sulla stampa e ascoltare in televisione che i risultati delle elezioni regionali stiano indebolendo la segreteria del PD. Questo perché la ormai (quasi) triennale  permanenza della Schlein non ha portato alcun significativo cambiamento nel consenso dei governati: il PD mantiene le posizioni, e la coalizione di governo anche: continuando, con tale andazzo, alle elezioni politiche prossime (salvo lo scioglimento del Parlamento)  nel 2027 il risultato sarà lo stesso delle ultime: maggioranza (confermata) al centrodestra. Secondo molti commentatori la prospettiva induce molti maggiorenti del PD a sostituire la (deludente) segretaria.

Non sono convinto che tale ragionamento sia corretto, e per due ragioni. La prima è che la difficoltà principale della Schlein e del PD non sono quelle che la stessa sbandiera a ogni piè sospinto, spesso smentite poco tempo dopo averle esternate.

In primis l’inadeguatezza del governo Meloni a gestire la situazione economica, l’imminente default (o simili) lo spread in agguato, ecc. ecc. Il fatto che da tre anni non sia successo nulla del profetizzato, anzi qualche giorno fa, si legge, l’Italia è tornata ad affacciarsi nella categoria “A” dei paesi debitori, per un governo dipinto come votato alla bancarotta, un risultato sorprendente. E assai migliore di quelli appoggiati dal PD, tanto osannati. E così per il resto: dalla tregua per Gaza dovuta all’amico Trump, della cui corte la Meloni farebbe parte (meglio, anche qua, un armistizio che un massacro ormai biennale); all’andamento dei flussi migratori (calati con i relativi naufragi e spese). Quasi in ogni campo risultati superiori a quanto realizzato dai precedenti governi appoggiati dal PD. Il fatto che il governo Meloni non sia come sostiene il PD, animato da buone intenzioni, non fa che confermare il vecchio detto che le vie dell’inferno (dei governati) è lastricata dalle buone intenzioni (dei governanti). Per cui a scegliere i malintenzionati spesso ci si indovina.

Ma non è questa la sola ragione delle difficoltà del P.D, e dei suoi segretari, così come dei loro omologhi di sinistra (???) negli altri Stati europei. I sistemi politici-partitici europei erano ordinati lungo l’asse destra/sinistra, a sua volta fondato sull’opposizione borghesia/proletariato. Ora largamente soppiantata da quella globalizzazione/sovranismo. Partiti come il PD, fondati sull’inimicizia calante, si trovano in crescenti difficoltà, dovendo nuotare contro corrente (della storia).

Pretendere che ne invertano il corso è chiedere il (quasi) impossibile. Tant’è che non c’è riuscito nessuno dei segretari frequentemente sostituiti negli ultimi (quasi) venti anni. Compresi i reggenti, siamo a 9, mentre il partito comunista dal 1943 al 1991 ne aveva cambiati 6 (durata media 8 anni). Si vede che il contesto era tutt’altro, a beneficio della durata delle leadership.

E di tutto ciò si pensa siano consapevoli i dirigenti del P.D. Onde far carico alla Schlein di non essere riuscita a fare quel che nessuno dei suoi predecessori aveva conseguito è profondamente errato. Nessuno di questi – a parte Renzi – in un’occasione aveva tirato il PD al di sopra del limite (superiore) del 30% dei votanti. Anche se nel 2008 la coalizione di centrosinistra riporti il 37,5% dei voti era per l’appunto una coalizione di più partiti di cui il PD era magna pars, ma non tutto. Nelle elezioni politiche del 2019 il PD conseguiva il 22,8% dei suffragi; nel 2022 il 19,07%.

I predecessori della Schlein non facevano quindi di meglio; anzi a sostegno della stessa, si può dire che i modesti risultati del PD governante non le sono ascrivibili, perché nei governi amici del PD non c’era lei, ma altri, compresi quelli pronti a silurarla.

Perciò se di sicuro la giovane segretaria non è un Bismarck o un Cavour, ma anche se ne avesse le capacità, non  ha la fortuna di tali grandi statisti: di essere spinti dall’onda lunga della storia. Con cui sarebbe più produttivo fare i conti.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’Italia e i Rapporti con le Due Libie e Mezzo_di Cesare Semovigo

L’Italia e i Rapporti con le Due Libie e Mezzo

L’Opposto al Sole

La recente luna di miele in Libia tra il comparto del golden power turco e italiano mi ha colpito, e molto. Parliamo di un’inversione storica clamorosa: eravamo quelli che bastava portare il nome e ci facevano accomodare in prima fila; ora ci tocca aspettare il nostro turno dietro la porta e, soprattutto, farci garantire il passaggio proprio dagli ex sfidanti ottomani. Sembra quasi di casa: quando ti si rompe la chiave nella serratura puoi metterti a sbracciarti o forzare, ma spesso tocca arrendersi e chiedere al vicino turco di tirarti fuori con il grimaldello giusto. Questa, più o meno, è diventata la condizione italiana in Libia: per entrare nella grande operazione ricostruzione – l’affare dove si decide chi vivrà e chi marcirà per i prossimi vent’anni – ci siamo dovuti piegare. Senza la “chiave” di Ankara, niente slot, niente commesse grosse, niente partita vera: in Libia oggi, se vuoi il biglietto, te lo timbrano i turchi alla frontiera degli affari. Ma cosa ha cambiato davvero le carte? Qui il prequel è spudoratamente monetario. Undici miliardi di dollari che si materializzano, come nei migliori colpi da Far West, direttamente nella disponibilità di Saddam Haftar, il figlio prediletto del generale. Soldi formalmente destinati alle grandi opere pubbliche e alla stabilizzazione, ma che nel contesto locale – dove governance significa in realtà controllo personale e delle risorse – diventano il carburante per alimentare clientelismi, pagare le milizie e comprare fedeltà. Chi detiene la banca e il porto, a Bengasi, non solo tiene in vita il potere, ma letteralmente compra la pace sociale. Ecco perché i fondi finiscono lì: in Libia non conta lo Stato, conta chi sta fisicamente seduto sulla cassaforte. Saddam Haftar questo ruolo non lo ha per caso, ma perché sa tessere la tela fra famiglia, esercito e tribù; il grosso dei flussi internazionali passa su quello snodo, garantendo solo a lui la possibilità di “offrire il banchetto”. Ma la festa, per Bengasi, rischia di essere l’ultima. Sotto l’urto delle azioni militari rivali, delle pressioni ONU e dei giochi sempre più aggressivi di Tripoli, il sistema di Haftar traballa ogni giorno di più. Se la Cirenaica perde la banca centrale e il controllo del porto – fonte di approvvigionamento e pagamento sia per le armi che per la fedeltà di centinaia di migliaia di stipendiati – finisce la magia. Si secca la linfa, le milizie cambiano bandiera, e il potere in Cirenaica si sgretola all’istante: senza cassa e senza traffico navale, Haftar rischia di non riuscire a comprarsi più nemmeno la fedeltà del parcheggiatore, figuriamoci quella dei comandanti. E, mentre la sabbia si sposta sotto i piedi dei potentati libici, l’Italia si è presentata con i soliti dossier polverosi e infinite cene tra funzionari, assumendo che per diritto naturale il tavolo spettasse a noi. Inoltre, non va sottovalutato come per Riyadh (e alleati) il controllo delle rotte commerciali e di traffico nel triangolo meridionale della Libia rappresenti un obiettivo parallelo a porto e finanza: una piattaforma fondamentale per influenzare i flussi dal Sahel verso il Mediterraneo, con tutto ciò che ne deriva in termini di sicurezza e proiezione regionale. L’equilibrio geopolitico che l’Arabia Saudita ricerca per il secondo piano politico di lettura con il nucleo dei “Fratelli Mussulmani “ si riconosce anche nelle influenze in quest’area , esattamente come facilmente riscontrabile nel ben controllato sostegno all’Egitto di Al Sissi . Il conto però stavolta ce lo hanno portato Turchia, Baykar : se vuoi giocare sei il benvenuto, dicono, ma toccherà passare dalla loro porta d’ingresso. Siamo scesi dal palco principale e ora impersoniamo , non per copione ,il ragazzo del latte che porta il cappuccino nei camerini, come comparse, pur di strappare ancora un giro di pista al grande banchetto della ricostruzione. Un discorso a parte lo merita il rapporto di Roma con il governo di Tripoli, la cui profondità strategica ormai rivaleggia esclusivamente con l’adulatoria cordialità tra i portieri di condominio e la signora dell’attico . Anche qui logorati dalla consuetudine post 92 di equiparare l’infrastrutturale delle ex Controllate Statali della golden era con il Mil-Diplomatico , stimo come era prevedibile raccogliendo i frutti , quelli buoni per il macero . E come sopra siamo passati al ricevere inviti che somigliano sempre più a quei biglietti da visita cinesi: dorati fuori, ma nel retro solo la scritta “vedremo” e ancora più in piccolo : se conosce qualcuno che vende un locale , paghiamo in contanti . Il protocollo “ Smile “ resiste per le agenzie stampa dove qualche sorriso si trova sempre; Il fatto deludente è che rispetto alla sue entità politiche e mezzo della Libia , l’Italia sia riuscita per l’ennesima volta di non conservare nemmeno il mezzo . A Tripoli infatti , ci fanno partecipare al valzer dei negoziati solo perché ogni tanto , per mezzo di qualche ricatto sul quale non mi dilungo , ma che potete facilmente immaginare , conviene chiamarci ancora . Onestamente , nel paese dove la linea tra il cerimoniale e l’umiliazione è sempre più sottile, questo tipo di trattamento per innegabili meriti storici ( esclusa la gestione Mattei) ce lo meritiamo pure , ed essere inseriti nella categoria “amici e parenti del sindaco”, non risulta nemmeno eccessivamente severa . Eccoci quindi alla somma delle conseguenze e alle valutazioni . Possiamo condensarle in questi termini : Il Paese che insegnava la diplomazia agli altri, oggi costretto a chiedere il permesso perfino per piantare una tenda nella casa che un tempo ci apparteneva per diritto di storia e influenza. Piccola considerazione finale detestando l’ipocrisia . L’Italia ha condotto una politica tra il tragico e il grottesco negli ultimi quindici anni in Libia e oltre a non avere fatto ammenda dopo l’intervento autolesionista nella guerra di Libia , assecondando Francesi e Anglosassoni e bombardando nei fatti i propri asset quasi secolari , si è giocata ancora peggio il dopo e nell’ultimo periodo nel tipico stile del nuovo mondo liberista , sacrificando la politica gli interessi privati in balletto incomprensibile ( dove ha anche il ricatto subito attraverso la leva dei migranti – vedi Al-Masri) tra il Governo sempre più debole di Bengasi e la zona controllata dal Generale Haftar . Cesare Semovigo

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Giù la maschera? Dedicato al Presidente_di Giuseppe Germinario

Giù la maschera?

Le recenti sortite di Sergio Mattarella, nostro Presidente della Repubblica, non mi hanno sconvolto, ma un po’ sorpreso sì.

Ai più avveduti è risaputo che il requisito  determinante  che consente la nomina e/o la riconferma del Presidente della Repubblica italiana non è l’adesione alla narrazione irenica e struggente della Unione Europea e nemmeno quello del generale consenso nazionale alla nomina di una figura emblematica dell’unità del paese, come solitamente si preferisce proferire, piuttosto che della Nazione. È imprescindibile, piuttosto,  il suo gradimento in particolare agli Stati Uniti e alla sua leadership, qualsiasi essa sia, meglio sia stata.

Gli apparenti momenti di discontinuità emersi nel recente passato, in primis la nomina di Giorgio Napolitano, non furono casuali. Il nostro, recentemente defunto, fu il primo e più importante esponente del PCI a cedere negli ormai lontani anni ’70 alle attenzioni, alla ospitalità e alle profferte amorose statunitensi, così come rivelate anni dopo, tra i tanti, dal “grande statista” Henry Kissinger.

Il recente conseguimento della laurea “honoris causa” conferita al nostro Presidente in carica dall’università di Marsiglia potrebbe rappresentare solo  un mero cedimento un po’ superficiale  al narcisismo e alla vanagloria della figura politica più emblematica di una nazione; cedimento  che ha purtroppo colpito già un numero impressionante, nell’ordine delle centinaia, di personaggi in vista e del sottobosco politico italiani adornati di onorificenze, in particolare della Legion d’Onore, del tutto a costo zero da parte di un paese, la Francia, il quale, assieme alla più discreta ma non meno velenosa Germania, nell’ultimo trentennio ha ripetutamente stilettato e pugnalato il proprio “cugino” subalpino, dalla schiena volutamente scoperta.

La guerra contro la Serbia, il massacro indegno di Gheddafi in Libia, la fortunatamente fallita in extremis pretesa territoriale nei mari Ligure e Tirreno, grazie ad un ripensamento dell’ultimo minuto del solo Parlamento Italiano,  sono stati gli episodi più evidenti di un saccheggio perpetrato ai nostri danni sotto la direzione e la mano anglo-statunitense.

Le esternazioni che hanno accompagnato e seguito quel conferimento, per la verità abbastanza in linea con altre precedenti, certamente più animose,  soprattutto inopportune e fuori luogo nel nuovo contesto geopolitico che si va determinando, rappresentano, però, un salto di qualità verso un mondo iperuranico di un personale politico storicamente e stoicamente predisposto a darsi la zappa, se non su organi più sensibili, sui piedi propri, e sin qui si rientrerebbe nelle scelte masochistiche, ma personali, e purtroppo del paese e della nazione che si rappresenta. Per così dire “cornuti e mazziati”.

In cosa potrebbe consistere questo salto? Esattamente nel passaggio surrettizio, probabilmente involontario, sto adottando il principio di precauzione,  della profferta di fedeltà da  uno stato “amico” straniero ad una fazione politica di esso, la peggiore.

Un salto che in verità potrebbe essere un disvelamento di una predisposizione atavica celata dalla coincidenza ed adesione simbiotica, sino al 20 gennaio scorso, tra quella leadership ormai decadente e quello Stato americano, così come svelato dal DOGE del tanto vituperato Elon Musk.

Nella mia modestia, vorrei aiutare il nostro Presidente a riconsiderare le sue perentorie affermazioni per evitare che si possa trasformare irrimediabilmente da capo-nazione a capo-fazione.

Non penso possa arrivare ad assumere il ruolo di capo-bastone; non sembra possederne l’indole e le “phisique du role”, mi si scusi il francesismo.

Vado quindi al punto, anche se non del tutto esaustivo, consapevole di colpire la suscettibilità un po’ permalosa del nostro:

  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza degli impegni sulla garanzia di neutralità dell’Ucraina sancita dagli accordi russo-statunitensi negli anni ’90?
  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza del contenuto degli accordi di Minsk e del ruolo di garanti assunto solennemente ed eluso da Francia e Germania?
  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza del trattato di mutuo sostegno, anche militare, sottoscritto da Ucraina e Stati Uniti e antecedente alle proposte ultimative dei russi nell’ottobre 2021?
  • Il nostro Signor Presidente, così sensibile ai temi dei diritti umani e dell’antinazi-fascismo, è a conoscenza delle reali dinamiche del colpo di stato e di mano a piazza Maidan nel 2013/2014, in Ucraina, delle persecuzioni e degli eccidi delle popolazioni russe e russofone presenti massivamente in Ucraina, come per altro in diversi paesi confinanti, appartenenti alla ex-URSS, della messa fuori legge della maggior parte dei partiti di quel “democratico” disgraziato paese, delle intenzioni dichiaratamente aggressive manifestate verso la Russia?
  • Il nostro signor Presidente è a conoscenza degli antecedenti storici del patto Molotov-Ribbentrop e dell’incongruenza della analogia offerta dal legame adombrato tra la guerra nazifascista e il conflitto ucraino?
  • Il nostro Presidente, da uomo politico, ritengo consumato, è consapevole dell’opportunità delle sue particolari esternazioni e forzature in un contesto e in una prospettiva di ripresa delle relazioni tra Stati Uniti e Russia?

La sua risposta documentata, ragionata ed esauriente a queste domande, pur nella modestia del ruolo dello scrivente, potrebbe offrire la spinta ad assumere il ruolo di mallevadore di una svolta positiva possibile nelle relazioni internazionali, innescato dal nuovo corso inaugurato dall’insediamento della presidenza statunitense. Basterebbe poco per imprimere una svolta decisiva sfruttando almeno per una volta in positivo l’atavica propensione trasformista del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente.

La conferma, al contrario, ostinata del vecchio corso lo relegherebbe al ruolo cieco di una mosca cocchiera, fuori tempo massimo, di una causa persa, di una classe dirigente e di un ceto politico in evidente stato di smarrimento e putrefazione.

La scelta è inderogabile; quella di un uomo destinato a conquistarsi un posticino, sia pure di second’ordine, nella storia che conta  oppure in quello tapino e grottesco nei cantucci più reconditi riservati ai paladini tardivi delle cause perse e meno nobili.

Dalla sua, la sfortuna e la commiserazione di risiedere e presiedere in un continente, quello europeo, destinato  ad assumere un ruolo centrale nello scontro politico ferale, tutto interno agli Stati Uniti, rimanendone, per altro, più ostaggio e strumento che protagonista.

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CASO AL-MASRI! MESSAGGIO PER GIORGIA MELONI?AUGUSTO SINAGRA GIUSEPPE GERMINARIO CESARE SEMOVIGO

Giorgia Meloni e il suo governo si trovano in una posizione particolarmente scomoda. Aver messo lo stesso piede in troppe scarpe comporterà il pagamento di un prezzo più pesante in vista di un ipotetico riallineamento ed espone la leader a ritorsioni e condizionamenti contrapposti difficilmente sostenibili. Una condizione che rischia di esporre ulteriormente il paese piuttosto che condurlo ad una posizione e postura più autonoma. Ci sarà sicuramente il tentativo strumentale dell’opposizione demoprogressista di cavalcare il malcontento per una situazione della quale essa stessa è la principale responsabile. Sarà questo il terreno di confronto e di provocazione sul quale misurarsi senza ignorare i problemi sul tappeto e la condizione del paese. Ogni crisi è la condizione ed il pretesto di un profondo riassetto della condizione sociale. L’Italia non ne sarà esente. La pubblicazione avviene, purtroppo, a due settimane dalla registrazione per i problemi ricorrenti di disturbo dell’attività del sito. Mantiene comunque la sua attualità_Giuseppe Germinario

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