Italia e il mondo

Il caso Oto/WASS e “l’anomalia” italiana nell’industria della Difesa

Qui sotto un articolo tratto dal sito https://www.analisidifesa.it/  Il Governo Draghi deve seguire il solco del PNRR, una delle sue ragioni essenziali di esistenza. Di Draghi, della sua caratteristica di funzionario, piuttosto che di leader politico e capo del governo, abbiamo discettato frequentemente su questo sito. L’azione politica è però fatta di singoli eventi chiarificatori. Il trattato internazionale prossimo venturo con la Francia e il possibile accordo industriale OTO/WASS  di cui all’articolo in calce faranno più luce sulla missione e sull’investitura dell’attuale Presidente del Consiglio. Del primo, a pochi giorni dalla firma, non si conoscono termini e linee generali; sul secondo non mancano le riserve, tanto più che la cessione della tecnologia hardware legata all’artiglieria navale, pur secondaria in ordine di importanza rispetto all’elettronica e al software, ambito nel quale le aziende italiane primeggiano, comporta delle implicazioni sul settore siderurgico già traballante e sulla sicurezza nelle forniture in mancanza di strategie comuni, non confliggenti, tra i paesi implicati. Un problema per altro già sorto, anche se non evidenziato dalla stampa, nei rapporti di cooperazione militare e tecnologica tra Germania e Francia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il caso Oto/WASS e “l’anomalia” italiana nell’industria della Difesa

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E’ bufera sulla cessione da parte di Leonardo della ex Oto Melara, storico produttore di cannoni navali e mezzi blindati e corazzati, e la ex WASS, società di punta nella realizzazione di siluri, equipaggiamenti e droni subacquei, dopo che è stata ufficializzata un’offerta di acquisto da parte del consorzio franco-tedesco KNDS.

Il colosso europeo nel settore degli armamenti terrestri che unisce KMW e Nexter, ha presentato a Leonardo un’offerta che si inserisce nei negoziati che da qualche settimana si susseguono tra Leonardo e Fincantieri, evidenziando il bivio strategico e industriale davanti a cui si trova l’Italia.

La notizia dell’offerta franco-tedesca, da tempo a conoscenza degli addetti ai lavori, pone il Governo Draghi davanti a una scelta che avrà ripercussioni rilevanti sull’industria della Difesa nazionale e al tempo stesso definirà le reali linee guide dell’esecutivo in termini di sovranità nazionale e di tutela del ruolo dell’Italia in Europa.

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Legittima la volontà di Leonardo, azienda pubblica, di cedere le attività e gli stabilimenti ex Oto Melara di La Spezia e Brescia ed ex Whitehead Sistemi Subacquei (WASS) di Livorno, dal 2016 confluite nella Divisione Sistemi di Difesa di Leonardo.

Il gruppo di Piazza Montegrappa vorrebbe cedere le attività per rafforzarsi in Europa nel settore dell’elettronica puntando a incassare dalla vendita i 600 milioni necessari all’acquisto del 25 per cento delle azioni dell’azienda tedesca Hensoldt.

Fincantieri, azienda anch’essa a controllo pubblico e leader mondiale nella produzione di navi da crociera e militari (ma attiva anche in numerosi altri settori militari e civili), si è offerta di rilevare le attività che Leonardo intende cedere anche se per alcune settimane sono circolate voci di una difficile intesa tra le due società italiane proprio sul prezzo. Nei giorni scorsi sono circolate sui quotidiani indiscrezioni che valutano l’’offerta di KNDS addirittura tripla di quella di Fincantieri: ipotesi che fonti ben informate sentite da Analisi Difesa hanno smentito.

La differenza sembra confermata tra le due offerte ma sarebbe di circa 100 milioni o poco più per un affare dal valore compreso tra 500 e 650 milioni di euro.

La vera anomalia, tutta italiana, è che un’operazione di cessione di attività e stabilimenti che coinvolge due aziende di Stato operanti in un settore così delicato non venga gestita direttamente, preventivamente e senza troppi clamori fino alla conclusione dell’accordo dal governo che di fatto è l’azionista di maggioranza di entrambi i gruppi.

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Si presume che la volontà di Leonardo di dismettere alcuni rami di attività (anche DRS negli Stati Uniti) per rafforzarsi in altri sia nota e condivisa dall’esecutivo così come l’opportunità di potenziare Fincantieri che con Oto Melara e WASS si rafforzerebbe sensibilmente nel settore navale entrando in quello degli armamenti terrestri e munizionamento avanzato.

Inoltre dovremmo considerare quanto meno auspicabile la volontà del governo di mantenere la proprietà italiana e pubblica degli stabilimenti e delle capacità delle due aziende. Mantenere all’interno del perimetro industriale nazionale aziende leader come OTO e WASS significa infatti salvaguardare nel tempo capacità produttive, posti di lavoro e competitività sui mercati.

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Per queste ragioni il dibattito sull’offerta straniera e sul “chi offre di più” risulta anomalo e poteva tranquillamente venire evitato gestendo nei ministeri appropriati l’intera vicenda, garantendo gli interessi di entrambi i gruppi industriali nazionali e quindi dello Stato.

A meno che non si voglia politicamente cogliere la palla al balzo per avviare, sull’onda del dibattito sull’offerta straniera finanziariamente più ricca, la svendita dell’industria italiana ad alta tecnologia di valore strategico.

E’ infatti di tutta evidenza che cedere le ex Oto Melara e WASS ai franco-tedeschi significa consentire ai nostri rivali europei di acquisire il know-how e le eccellenze nazionali in settori strategici col rischio che entro qualche anno gli stabilimenti italiani vengano chiusi per concentrare la produzione in Francia e Germania.

Per qualche centinaio di milioni vale forse la pena cedere a stranieri l’azienda leader nel mondo nei cannoni navali soprattutto ora che è stato validato il rivoluzionario munizionamento intelligente a lungo raggio Vulcano per cannoni navali da 127 mm e terrestri da 155mm?

Ha forse un senso cedere ai nostri competitor un’azienda che con i suoi siluri hi-tech compete nel mondo proprio con aziende francesi e tedesche in questo mercato ad alto valore strategico?

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E’ vero che sul fronte dei mezzi corazzati Oto Melara non è più da tempo competitiva ma rivitalizzarla, come intende fare Fincantieri per inserirla all’interno di progetti di cooperazione europea come il carro armato franco-tedesco MGCS o il nuovo cingolato da combattimento è cosa ben diversa dal cederla alla concorrenza.

Nei grandi programmi europei l’Italia può entrare da protagonista, più ad alto profilo nel settore navale, certamente con meno pretese in quello terrestre, ma mentendo sovranità, impianti produttivi e maestranze qualificate.

Oppure, in alternativa, l’Italia può entrarci con la cessione di interi rami industriali determinando così la nascita dell’Europa della Difesa non su una base di cooperazione ma rafforzando l’egemonia franco-tedesca e favorendo l’assimilazione della nostra industria a quelle delle due maggiori potenze continentali.

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Probabile che dell’affare Oto Melara/WASS abbiano parlato ieri Draghi e Macron e non c’è dubbio che l’esecutivo italiano sia oggi chiamato a mostrare un preciso indirizzo in termini di tutela degli interessi strategici nazionali.

Specie in un contesto in cui ben poca chiarezza è stata fatta finora circa l’accordo strategico bilaterale in fase di definizione con la Francia il cui dossier è gestito dal Quirinale.

Il ritornello della cessione di sovranità necessaria nel nome dell’Europa risulta infatti oggi quanto meno fuori luogo: basti ricordare dopo anni di trattative Parigi si è rifiutata di cedere il controllo dei Chantiers de l’Atlantique (STX) all’italiana Fincantieri mentre non aveva avuto difficoltà a cederne per anni il controllo a un partner sudcoreano.

Per comprendere poi con quale spirito di amicizia, cooperazione e “fratellanza europea” i francesi considerino le aziende italiane e il loro peso sul mercato è sufficiente leggere cosa ha scritto recentemente il quotidiano economico La Tribune, vicino all’industria della difesa d’OItralpe, che lamenta l’aggressività e i successi commerciali di Fincantieri nel settore delle navi militari come un grosso ostacolo e un temibile rivale per la cantieristica francese.

Difficile immaginare oggi che Parigi e Berlino siano disposti a cedere a gruppi italiani il controllo di aziende hi-tech, del settore della Difesa o meno.

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Nell’intera operazione Oto/WASS inoltre, risulterebbe arduo giustificare come conveniente per gli interessi nazionali la cessione degli stabilimenti italiani a un consorzio straniero per consentire in cambio all’azienda italiana che li pone in vendita di acquisire un quarto delle azioni di un’industria elettronica tedesca.

Sulla necessità di fare chiarezza e di mantenere le ex Oto Melara e WASS “italiane e pubbliche” si sono espressi in questi ultimi giorni tutti i sindacati e quasi tutti i partiti: per prima la Lega seguita poi da Partito Democratico, Forza Italia, Italia Viva, Coraggio Italia e Fratelli d’Italia.

Sulla stessa linea il governatore della Liguria, Giovanni Toti, mentre nel governo sono emerse finora solo le voci dei due sottosegretari alla Difesa. Stefania Pucciarelli (Lega) ha affrontato per prima la questione, l’11 novembre, sottolineando la necessità che “dall’ipotesi di vendita non debba derivare la consegna della proprietà nelle mani di imprese straniere”.

Giorgio Mulè, parlando oggi a Sky Tg24, si è espresso a favore della vendita a Fincantieri per “dare quella spinta che eviti ad un’azienda nazionale e strategica di finire in mano franco-tedesche”.

Foto: Leonardo, Fincantieri e Il Secolo XIX

https://www.analisidifesa.it/2021/11/il-caso-otowass-e-lanomalia-italiana-nellindustria-della-difesa/

Stati Uniti! Azzardi pericolosi di centri in stato confusionale, con Gianfranco Campa

Due leader in difficoltà ai due lati del Pacifico, ma uno di essi messo decisamente peggio. Un ceto politico che si dimena con sprezzo del ridicolo riuscendo a trasformare le proprie vittime designate in martiri al culmine della popolarità. Un tentativo di recupero dei consensi nella vecchia base elettorale con il rilancio di una politica estera della “working class” che pare una riproposizione in un contesto inidoneo della geopolitica degli anni ’90. Una classe dirigente tentata a contrabbandare qualche concessione nell’immediato con la rinuncia strategica in un contesto multipolare, specie quello indo-pacifico, nel quale sono numerosi e potenti gli attori in grado di condizionare le scelte. Una crisi interna che è prossima a rinunciare anche alle ultime certezze, come nella gestione della pandemia. Nel mezzo alcuni giochi inquietanti e pericolosi, difficilmente controllabili, in corso nei laboratori americani. Rischiamo un’altra Wuhan, questa volta a stelle e strisce? Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vpgzxt-stati-uniti-biden-e-gli-azzardi-pericolosi.html

 

 

Unione Europea tra retorica e realtà_con il professor Augusto Sinagra

La retorica europeista non riesce più a coprire le mancanze e le incongruenze di una organizzazione comunitaria che vorrebbe atteggiarsi ed essere riconosciuta come istituzione statale quando, in realtà, è un apparato amministrativo figlio di trattati che regolano in qualche maniera le dinamiche geopolitiche tra gli stati nazionali europei e soprattutto tra questi e gli Stati Uniti. Quando le questioni regali, proprie delle prerogative sovrane degli stati emergono, immediatamente vengono alla luce le ambiguità e il peccato di origine della Unione Europea. Lo squilibrio tra chi intende mantenere le proprie prerogative e chi, tra questi l’Italia, riesce inopinatamente a rinunciarvi in nome di un lirismo sterile è destinato ad accrescersi ai danni di questi ultimi. La UE è uno strumento di depotenziamento del concerto europeo e a lungo andare una incubatrice di conflitti tanto più perniciosi quanto più rimossi. La rinuncia, anzi la constatazione dell’impossibilità di un qualsiasi ruolo assertivo nelle situazioni di crisi sempre più frequenti ed improvvise trova giustificazioni ormai al limite del patetico. L’imperdonabile ritardo scientifico e tecnologico manifestatosi con la crisi pandemica e la trasformazione digitale in corso viene rimosso con il rifugio consolatorio nella primigenia fasulla della determinazione regolatoria di quei mercati e di quelle emergenze. Al ritardo nelle tecnologie legate alla difesa dell’ambiente e alla diversificazione energetica si reagisce con fughe in avanti foriere di crisi e dissesti esattamente proporzionali alla negazione dei necessari tempi di transizione e di costruzione di una propria capacità industriale. Sarà drammaticamente tardi quando ci si accorgerà di essere vittime del proprio stesso bluff. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE, a cura di Luigi Longo

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA

a cura di Luigi Longo

Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.

Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.

Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.

Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).

Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?

L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.

In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?

di Gianfranco La Grassa

1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.

Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).

Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.

In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.

Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.

Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.

2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.

Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).

Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.

I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.

In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.

3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.

Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.

Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.

In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.

Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.

Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.

4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.

In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.

Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.

Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone  dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.

Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.

Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.

5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.

Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).

I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.

Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.

E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.

Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e

l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.

Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.

E con questo fervorino finale, veramente Amen.

http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche

Imposta globale o imposta statunitense?_di Victor Fouquet

“Una svolta storica! Così è stata presentata la firma da parte di 130 dei 139 membri del quadro inclusivo dell’Ocse, il 1° luglio a Venezia, dell’accordo sull’applicazione dal 2023 di un’aliquota minima alle imprese del 15% nel mondo.

Per la stragrande maggioranza dei commentatori, questo testo, costringendo le multinazionali a versare con i loro profitti il ​​loro equo contributo alle finanze pubbliche, rappresenterebbe un grande passo avanti verso una maggiore “giustizia fiscale” internazionale, oltre a simboleggiare la vittoria di multilateralismo sugli “egoismi nazionali”. Tale analisi è doppiamente sbagliata. Da un lato ignora i fenomeni di equità spaziale e di incidenza fiscale, la cui conoscenza è tuttavia indispensabile se si vuole valutare correttamente la giustizia – interstatale e interindividuale – di una riforma tributaria di questo tipo. D’altro canto, ignora il reale equilibrio internazionale di forze alla base dell’accordo del 1 luglio, che è meno cooperativo di quanto si vorrebbe dire.

Giusto, la tassa minima globale? Per le piccole nazioni sovrane scarsamente dotate di fattori di produzione, l’assenza di un tax floor e la fissazione gratuita di aliquote appaiono normalmente i mezzi per attrarre loro il capitale finanziario e umano necessario al loro sviluppo ea quello della loro popolazione. Questo è ciò che i nove recalcitranti avidi di tasse hanno capito e rivendicano, più o meno direttamente: Irlanda, Ungheria, Estonia., Kenya, Nigeria, Barbados, Saint Vincent e Grenadine, Perù e Sri Lanka. Pertanto, l’attuazione di un’aliquota minima globale dell’imposta sulle società riflette più la volontà dei grandi Stati (“il più freddo dei mostri freddi”) di preservare il loro vantaggio competitivo e il loro guadagno fiscale, che riflette una genuina preoccupazione per la giustizia in la direzione dei piccoli paesi con spazi di mercato più deboli. La legge delle ripercussioni fiscali ci insegna anche che i contribuenti designati come imposti dalla normativa sono raramente coloro che contribuiranno, di fatto, al finanziamento della spesa pubblica. I più forti economicamente con ripercussioni sui più deboli, vi sono tutte le ragioni per pensare che l’eccedenza attesa di entrate fiscali (150 miliardi di dollari l’anno a livello mondiale;

Le menti più acute avranno capito qui che la tassazione, come ogni questione politica, ha prima di tutto una dimensione geopolitica. La prova migliore: Janet Yellen, Segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ha convinto gli europei che volevano continuare a tassare unilateralmente i Gafam americani a rinunciare obbedientemente al loro diritto alla tassazione. La richiesta di giustizia fiscale è diventata improvvisamente più tranquilla da parte di Washington quando si è trattato di proteggere le ammiraglie industriali americane. L’ingenuità di molti osservatori francesi e più in generale europei, che elogiano Biden dopo aver maledetto Trump, confonde ancora una volta. Lo scambio è sicuramente più cortese con Joe, e il potere di ritorsione meno evidente che con Donald. Ma lo scopo rimane lo stesso: America First!Non è nemmeno un caso che la riforma dell’imposta globale sulle società, dopo aver naufragato per molti anni, sembri sul punto di completarsi proprio mentre gli Stati Uniti decidono di aumentare la propria aliquota. L’amministrazione statunitense si assicura così entrate fiscali aggiuntive limitando significativamente i rischi di delocalizzazione e di clamore per le proprie multinazionali. Vincere su tutti i fronti!

https://www.revueconflits.com/impot-mondial-ou-impot-americain/

Mali e Libia: “Meno elezioni, più etnografia e ciascuno troverà il proprio rendiconto”, di Bernard Lugan

Considerazioni illuminanti, per altro già ribadite, di Bernard Lugan a proposito di Mali e Libia. A maggior ragione per l’Italia, visto il suo crescente coinvolgimento in posizione gregaria in questa area così prossima e strategica, sia dal punto di vista geografico che da quello dell’approvvigionamento energetico e dei flussi migratori. Lasciamo perdere, per il momento l’intreccio di relazioni economiche, altrettanto importanti, ma improponibili in condizione di guerra endemica. Un coinvolgimento in particolare al fianco della Francia, in chiara difficoltà in tutta l’area, con l’aggiunta clamorosa dell’Algeria. La Francia, appunto, un paese “fratello-coltello” che non ha esitato a sferrare un colpo distruttivo, ai danni dell’Italia in Libia, pensando di subentrarvi, in realtà aprendo ulteriori varchi a Turchia e Russia. Si ritorna sul luogo del delitto riproponendo la visione manichea di imposizione della “democrazia” in un contesto che richiede altre modalità di ricomposizione delle fratture; in caso di temporaneo e formale successo non farà che rendere endemica la condizione di guerra civile. Dobbiamo rassegnarci ai “successi” dei profeti dell’Occidente? Buona lettura_Giuseppe Germinario
Un breve comunicato stampa riassuntivo per fissare un punto fermo. Dal 2011 nel caso della Libia, e dal 2013 in quello del Mali – vedi i resoconti dei numeri di Afrique Réelle e i miei comunicati stampa – , lavorando solo sull’unico reale, annuncio ciò che accadrà a livello globale in entrambi i paesi. In tutta umiltà, i fatti sembravano darmi ragione:
1) In Mali siamo in presenza di due guerre, quella dei Tuareg al nord e quella dei Peul al sud. In entrambi i casi, la questione non è primariamente religiosa perché l’islamismo è solo la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie. Nel nord la chiave del problema è detenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Quest’ultimo è però da tempo sostenuto dall’Algeria, come lo confermano i recenti incontri che ha appena avuto con i servizi algerini.
Fin dall’inizio, non dovremmo, come ho costantemente suggerito, arrivare a un’intesa con questo leader Ifora con cui abbiamo avuto contatti, interessi comuni, e la cui lotta è identitaria prima di essere islamista? Per ideologia, rifiutando di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Molto recentemente, il presidente Macron ha ordinato ancora una volta alle forze di Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stanno negoziando con lui una pace regionale…
Anche il conflitto nel sud (Macina, Liptako e la cosiddetta regione dei “Tre Confini”) ha radici etno-storiche. Tuttavia, lì si svolgono due guerre. Uno è l’emanazione di grandi frazioni dei Fulani e il suo insediamento avverrà parallelamente a quello del nord, attraverso un negoziato globale. L’altro, su base religiosa, è guidato dallo Stato Islamico.
L’errore francese è stato quello di globalizzare la situazione quando era imperativo regionalizzarla. In tal modo :
1) Parigi non ha voluto vedere che l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) e l’AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ) hanno obiettivi diversi. L’EIGS, che è attaccato a Daesh, mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Dal canto suo AQIM essendo l’emanazione locale di grandi frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, ovvero i Tuareg a nord e i Peul a sud, i suoi capi locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Peul Ahmadou Koufa, hanno principalmente obiettivi locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.
2) Parigi non ha voluto vedere che, il 3 giugno 2020, la morte dell’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Quaïda per tutto il Nord Africa e per il BSS, ucciso dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente i dati del problema. La sua eliminazione diede autonomia al Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelle degli “emiri algerini” che avevano a lungo guidato Al-Qaeda nella SSB, quella di Abdelmalek Droukdal ha segnato la fine di un periodo, al-Qaeda non più governata da stranieri, da “arabi”, ma da “regionali”. “. Tuttavia, questi capi regionali hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Peul. La mancanza di cultura dei leader francesi ha impedito loro di vederlo. Da qui l’attuale impasse. Tuttavia, avrebbero potuto pensare a ciò che scrisse il Governatore Generale dell’AOF nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e ognuno troverà qualcosa di suo gradimento ” …
Tuttavia, per i leader francesi, la questione etnica è secondario o addirittura artificiale. Lo “specialista” che mi era succeduto all’EMS di Saint-Cyr Coëtquidan dopo che ne ero stato licenziato, non aveva paura di dire e scrivere che l’approccio etnico è un “c…. “. Con tale formazione in superficie, i nostri futuri capisezione furono quindi costretti a prepararsi alla loro proiezione nella BSS con la lettura clandestina del mio libro Les guerres du Sahel des origines à nos jours , opera costruita appunto dai corsi che tenni al L’Ecole de Guerre e l’EMS prima della mia cacciata…
2) In Libia dove la questione è prima di tutto tribale – e non etnica -, e dove la guerra insensata ispirata da BHL ha portato allo scioglimento delle confederazioni tribali, quindi nell’anarchia, ho spiegato fin dall’inizio che la soluzione risiede nella ricostruzione del sistema politico-tribale un tempo costruito dal colonnello Gheddafi. Inoltre, non ho mai smesso di sostenere che l’unico che può rimetterlo insieme è Seif al-Islam Ghedhafi, suo figlio. Per un semplice motivo: attraverso suo padre, fa parte delle alleanze tribali della Tripolitania, e attraverso sua madre, di quelle della Cirenaica. Attraverso di essa può quindi rinascere l’ingranaggio tribale su cui poggia tutta la vita politica del Paese. Tutto il resto è solo un’artificiosa patina politica europea-centrica.
Secondo alcune fonti, Seif al-Islam Gheddafi, sostenuto dal Consiglio tribale, starebbe valutando di candidarsi alle prossime elezioni. Dove e quando potrebbe annunciare la sua candidatura? Dalla Libia o da un paese del Maghreb?

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

Stati Uniti! La strada tracciata, gli imprevisti possibili_con Gianfranco Campa

Sino a pochi giorni fa si poteva parlare di una persistenza del movimento politico legato a Trump e di una situazione di stallo apparente. Le recenti elezioni in Virginia e in numerose realtà locali rivelano ormai una tendenza pressoché definita verso il successo di quest’area e la possibile deflagrazione del gruppo dirigente del Partito Democratico, ben lontano dall’aver risolto un confronto intestino distruttivo perché privo di indirizzo politico in grado di unire il paese pur poggiando paradossalmente sulle numerose identità reali ed artefatte annidate. I primi segni di cedimento e di abbandono della nave in piena navigazione sono evidenti; il tramonto di vecchie glorie, almeno così ritenute in Europa, ormai segnato. Si prospetta un rivoluzionamento degli equilibri politici, una conformazione inedita dell’azione destinata a rivoluzionare gli assetti statunitensi e ad influire pesantemente sul futuro delle classi dirigenti specie europee che si ostinano, per indole ed incapacità, ad abbarbicarsi e a baciare per la seconda volta le mani sbagliate; quelle che in pochi mesi potranno trasformarsi in ologrammi sfuggenti. La sicumera che attualmente li contraddistingue, nessuno escluso, nemmeno il nostro funzionario al vertice, difficilmente li metterà in condizione di attraversare impunemente le sabbie mobili dentro le quali si stanno avventurando e stanno trascinando i popoli di un intero continente. I pifferai che per pochi mesi hanno illuso di nuove speranze qui in Italia hanno dal canto loro rivelato la loro pochezza e il loro conseguente trasformismo di corto respiro, incapaci di cogliere le opportunità recenti e di presagire i cambiamenti in corso al di là del loro naso e delle loro spiagge. Bene hanno fatto, tre anni or sono, a concedere loro scarso credito Oltreatlantico. Mala tempora currunt. Buon ascolto! Ne vale la pena. Giuseppe Germinario

https://rumble.com/voonc3-tendenze-ed-imprevisti-negli-usa-con-gianfranco-campa.html

TELLURICI O COSMOTERRORISTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

TELLURICI O COSMOTERRORISTI

Ci si interroga sulle intenzioni dei talebani, ma senza particolare interesse al dubbio se cercheranno di esportare il conflitto oltre l’Afghanistan ovvero di rimanere nei confini del loro Stato. La domanda non è peregrina e coinvolge concetti, criteri e presupposti del pensiero politico e del diritto internazionale.

Scrive Schmitt nella “Teoria del partigiano” che il partigiano ha carattere tellurico “Tale caratteristica è importante per definire la posizione del partigiano la quale, a prescindere da ogni mobilità tattica, rimane fondamentalmente difensiva; ed egli deforma la sua natura quando fa propria un’ideologia di aggressività assoluta e tecnicizzata o vagheggia una rivoluzione mondiale…” e aggiunge relativamente a come distinguere il partigiano “è indispensabile fondarlo sul carattere tellurico, per rendere più evidente nello spazio la difensiva, cioè la limitatezza dell’ostilità e preservarla dalle pretese assolute di una giustizia astratta”. Questo lo differenzia da altre “categorie” di combattenti irregolari come il pirata o il corsaro, per necessità non-tellurici in quanto operano in un altro “spazio”, il mare. Tuttavia “Con l’ausilio della motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente. Nelle situazioni provocate dalla guerra fredda egli diventa un tecnico del combattimento clandestino, un sabotatore e una spia… La motorizzazione fa perdere dunque al partigiano la sua connotazione tellurica ed egli finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente su un piano mondiale”.

E con la “motorizzazione” e le possibilità che offre tende ad appannarsi il carattere difensivo del partigiano e della guerra partigiana.

Il connotato difensivo del partigiano non andò smarrito neanche dopo che la guerra partigiana divenne – per lo più – il mezzo di un’ostilità ideologica assoluta come durante la guerra fredda, specie da parte del blocco comunista. In effetti nessuna delle lotte partigiane, né dei capi, giunse a mutarne il carattere prevalentemente difensivo. Né Mao, né Ho Chi Min né il Fln algerino o l’Irgun hanno condotto operazioni offensive nel territorio del nemico.

Questo è cambiato con Al-Qaeda e con parte del terrorismo islamico contemporaneo: ormai è normale che ad un’occupazione militare da parte di una potenza (anche in mancanza) si risponda con attentati terroristici offensivi (dalle Torri gemelle al Bataclàn).

Vent’anni fa, in occasione dell’attentato alle Twin Towers mi capitò di scrivere che il successo dell’attentato era stato determinato: a) dalla sostanziale invulnerabilità di Al-Qaeda, gruppo terroristico senza popolazione e territorio, onde era quanto mai difficile organizzare una reazione b) il tutto lo distingueva dai movimenti partigiani, i quali, come insegna Santi Romano, hanno gli stessi elementi caratteristici dello Stato, solo in misura poco determinata e fluttuante.

Onde se era vero che ciò assicurava a Bin Laden un vantaggio militare, costituiva un handicap politico, impedendone o rinviando sine die la conversione in istituzione.

Non così sembra per i talebani, in questo assai più vicini ai movimenti partigiani “classici”. La prima volta che conquistarono il potere, la dinamica e il contesto sia della lotta contro l’occupante sovietico che della fase successiva per i talebani – come per gli altri movimenti afgani di resistenza, il rapporto con la popolazione e territorio era costituito almeno con i territori occupati dai gruppi etnici di riferimento (per i talebani i pastun).

Il fatto che i talebani avessero così compiuto il percorso “canonico”, diventando forza al governo dello Stato afgano, ne provocò la rovina. Dando protezione e asilo a Bin Laden e rifiutandosi di consegnarlo agli USA, si assunsero così la responsabilità politica, normale nel diritto internazionale, del territorio e di quando vi succedeva.

Da qui l’intervento americano, che, a quanto risulta dai mass-media – non riusciva a pacificare e a controllare (se non in parte) – il territorio del paese – né a consolidare il governo insediato dall’occupante.

Le zone “libere” (ossia controllate dai movimenti di resistenza), probabilmente la maggior parte del territorio, e la popolazione lì residente continuava ad essere il “santuario” dei partigiani. Santuario fluttuante, ma pur sempre accomunante il movimento partigiano all’istituzione statale.

Anche se la resistenza afgana – al contrario di Al-Qaeda così poteva fruire solo relativamente dei suggerimenti di Sun-Tzu. Questi sostiene che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… “più del sottile fino a rendersi privi di forma… Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; “dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, in guerra cioè, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma”; da ciò conclude “Insomma per quanto concerne l’azione militare una forma siffatta è quella che si assimila all’acqua” (i corsivi sono miei).

Quest’anno la situazione si è ripetuta: i talebani hanno ottenuto il governo dell’Afghanistan: sono così divenuti la classe dirigente dell’istituzione statale. Di conseguenza hanno riacquistato sia la responsabilità conseguente che l’obbligo politico di protezione della popolazione. A quanto risulta, pare abbiano capito la lezione del 1998-2001. Tutto sommato le azioni terroristiche compiute in occasione della sgombero delle forze occidentali e dei loro alleati locali sono state opera di altri gruppi di resistenza islamica, noti per averle praticate anche altrove.

Occorre trarre da ciò che l’insegnamento della teologia cristiana e controriformata, la quale tanto ha influenzato il diritto internazionale westphaliano ha ancora una sua validità: sia che bellum defensivum semper licitum, onde non si può tacciare di jniustus hostis chi difende il proprio territorio e la propria gente; e che fare guerra per violazione dei diritti (non dei propri sudditi o cittadini) ma degli altri (ad vindicandas iniurias totius orbis) è illecito: neque a deo data est necque ex ratione colligitur. E cioè un (aduso) pretesto che cerca di giustificare un intervento militare non meglio argomentabile. Di converso rispondere ad azioni aggressive è sempre consentito.

Così quando sentiamo in TV che i talebani avrebbero imposto il burqa o disposto che le scuole non siano miste, e se ne mena scandalo, mi rallegro. Personalmente sono convinto che facciano di peggio, ma se le malefatte fossero limitate a quelle non posso che riconoscere che condizione della pace è (da sempre) che ognuno decida di come vivere a casa propria.

Teodoro Klitsche de la Grange

Vincere senza combattere. Cultura strategica cinese Alban Wilfert di Alban Wilfert

Alcuni sono preoccupati per il rischio di una guerra imminente tra Stati Uniti e Cina, potenze mondiali all’inizio del 21° secolo. Se la Cina sta investendo sempre di più nel suo esercito, il primo al mondo per numero, è l’unico membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu a non aver sparato un colpo fuori dai suoi confini dal 1988. L’atteggiamento cinese di non fare la guerra si basa su una vecchia cultura strategica caratterizzata da una certa continuità, ma regolarmente rinnovata.

 

Studiare la cultura strategica cinese significa mettere in discussione il modo in cui la Cina affronta la strategia sia come stato dotato di mezzi militari sia come società che produce un pensiero. La strategia, definita da Georges-Henri Soutou come “l’arte della dialettica delle volontà e delle intelligenze che impiega, tra l’altro, la forza o la minaccia di ricorrere alla forza per fini politici”, consiste non solo nell’uso della forza, ma anche nel il suo semplice potenziale, che riesca o meno, che è illustrato dal caso cinese.

Il pensiero strategico antico quanto al centro delle notizie

Il più antico trattato di strategia che ci sia pervenuto, L’arte della guerra di Sun Tzu, proviene dalla Cina. Sembra sia stato scritto intorno al V secolo aC, epoca degli Stati Combattenti, stati principeschi che risolvono le loro controversie con le armi in pugno. La guerra vi passa dalla mischia rudimentale ad una questione di eserciti permanenti, diversificati e professionali, favorevoli all’espressione dei talenti individuali degli ufficiali. Sun Tzu dispensa poi consigli che, se mirano a prevalere in questo nuovo paradigma, lo superano al punto che, più di duemila anni dopo, lo stratega britannico Liddell-Hartscrive che “non sono mai stati superati in ampiezza e profondità di giudizio”. Sun Tzu, infatti, vede la guerra come “una questione di vitale importanza per lo Stato”, onnipresente e non anormale, ma non professa un uso illimitato e permanente della forza. Al contrario, con lui, il combattimento è solo l’ultima risorsa, quando l’uso dell’astuzia, per “attaccare i piani del nemico” e le sue “alleanze”, non è stato sufficiente. . Devi conoscere il tuo nemico, per mezzo di spie. Al contrario, è necessario fingere debolezza quando siamo forti e forza quando siamo deboli. “La guerra si basa sull’inganno” e l’apice dell’abilità è vincere senza combattere, non “conquistare cento vittorie in cento battaglie”. In questo modo, “Un esercito vittorioso è vittorioso prima di cercare il combattimento”. Una guerra prolungata non può essere vantaggiosa per lo stato, quindi prendere una città intatta è meglio che iniziare un lungo e costoso assedio, e “ci sono strade da non prendere, truppe da non colpire, città da non colpire. assalto e terra da non contestare”. L’interesse prevale e il desiderio di sorpresa non deve mai portare a rischi avventati. A volte è meglio lasciare che il nemico prenda una città, per raggiungere obiettivi a lungo termine più importanti, e meglio un generale razionale che disobbedisca al sovrano quando necessario, piuttosto che un signore della guerra senza paura. Soprattutto bisogna sapersi adattare alle situazioni esistenti. Questo consiglio generale permette ai precetti del Maestro Sole un’eterna giovinezza. Il suo pensiero è un pensiero delle variazioni, del circostanziale:

È evidente l’influenza dei tredici capitoli sulla Cina fino all’epoca della Repubblica Popolare Cinese (RPC) che nacque, nel 1949, dalla vittoria dei comunisti nella guerra civile che li opponeva ai nazionalisti del Kuomintang ( KMT). Dopo il disastro di Nan Ch’ang, Mao Zedong preferì seguire il consiglio di Sun Tzu piuttosto che gli ordini del Comitato Centrale del Partito, iniziando dall’ottobre 1934 all’ottobre 1935, la Lunga Marcia, un vasto ritiro di 10.000 km verso il nord-est della Cina volto ad evitare combattere contro un nemico meglio posizionato con l’iniziativa. Mao ha quattro slogan affrontati: “Il nemico avanza – noi ci ritiriamo, il nemico si ferma – lo preoccupiamo, il nemico è esausto – lo colpiamo, il nemico si ritira – lo inseguiamo!” “. In effeti, la manovra permette di passare dialetticamente dalla difensiva alla controffensiva, un tempo sulle montagne del nord dove la popolazione è favorevole ai comunisti e il nemico lontano dalle sue basi. Lì, fuorviato dall’eccessiva fiducia in se stesso che lo ha guadagnato a furia di perseguire un’Armata Rossa che credeva debole, viene sconfitto.

La strategia che Mao poi fa seguire al regime rimane, tra le righe, intrisa di questo pensiero antico. La “strategia di autodifesa nucleare”, che mira a realizzare una forza deterrente dal debole al forte mediante il possesso di un arsenale nucleare sufficiente a infliggere al nemico danni dello stesso ordine di quello che provocherebbe con un attacco nucleare, dà rinnovata rilevanza al consiglio di usare la forza solo come ultima risorsa.

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Forza dentro, diplomazia e sotterfugio fuori? Cultura strategica in azione

L’impero cinese, che durò dal III secolo aC al 1911, voleva essere tian xia, padrone di “tutto ciò che è sotto il cielo”. Da questa pretesa simbolica di universalità scaturiva una visione concentrica del mondo. Il primo cerchio comprendeva lo spazio imperiale delimitato e l’ultimo l’esterno del mondo cinese; in mezzo c’erano i vicini stati tributari, l’ultimo cerchio in cui l’Impero si riservava il diritto di intervenire. Anche se questo non è un espansionismo in stile occidentale, dal momento che la Cina non ha imposto la sua cultura agli altri con la forza, la sua strategia difficilmente si è discostata da questa concezione. La spedizione dell’ammiraglio Zheng He in Africa nel XV secolo non ha mai visto un futuro: l’ultimo intervento cinese al di là dei mari risale al XVII secolo. A volte ancoraMao Zedong come Tchang Kaï-shek ha quindi cercato di unificare il Paese con l’uso della forza, la Cina volendo essere uno Stato multinazionale comprendente minoranze etniche: è fuori discussione per lei lavorare per compromessi con i “briganti”. separatisti “che potrebbero minare lo Stato. La notizia ci mostra quali atrocità possono provocare sulla popolazione uigura.

I passati interventi esterni della Cina hanno risposto alla stessa logica: evitare il caos interno. L’invio di truppe in Corea nel 1950 mirava a stabilizzare il regime contro le forze interne “controrivoluzionarie” che potevano emergere rafforzate da una vittoria del campo capitalista. L’uso della forza all’estero, anche per le ostilità ideologiche della Guerra Fredda, risponde a un preciso obiettivo strategico, legato all’interno della cerchia ristretta.

Le grandi vittorie cinesi sono però frutto della diplomazia. Nel 1997 e nel 1999, Hong Kong e Macao sono state rispettivamente cedute dal Regno Unito e dal Portogallo, unendo la RPC con lo status di regioni amministrative speciali (SAR) che consente loro di mantenere le loro specificità e la loro autonomia per 50 anni. Tuttavia, il giorno stesso di queste retrocessioni, l’Esercito Popolare di Liberazione (APL) entrò in questi territori, contrassegnandoli come appartenenti alla cerchia unificata ex-imperiale. Nel 2019 e nel 2020, le proteste di Hong Kong vedono Pechino minacciare di impiegare l’esercito in caso di richiesta del governo locale, lo status di SAR subordinando ad esso l’uso della forza militare e quindi ostacolando una cultura strategica che lo prevede, anche per il mantenimento dell’ordine – ricordiamo la repressione di piazza Tienanmen. Questo è il principio di Deng Xiaoping, “un paese, due sistemi”, che dovrebbe valere anche per Taiwan.

One China: cultura strategica messa alla prova della questione taiwanese

La questione taiwanese è una delle maggiori questioni strategiche nella Cina contemporanea. Recuperata dal Giappone nel 1945, Taiwan fu vinta alla fine della guerra civile dal KMT, sconfitto in terraferma, che prese Taipei come sua capitale provvisoria. Taiwan è, oggi, l’unica vestigia del regime nazionalista, e il suo governo continua a sostenere di essere “Repubblica di Cina”, non riconoscendo la RPC, mentre quest’ultima considera l’isola di Taiwan come propria. La “politica della Cina unica”, secondo la quale sia la terraferma che l’arcipelago taiwanese fanno parte dello stesso Paese, paradossalmente è un consenso su entrambi i lati dello stretto, ma i due regimi ovviamente differiscono su chi dovrebbe governare questa Cina. .

Come raggiungere allora l’unità? “La politica migliore è mantenere intatto lo stato”, ha affermato Sun Tzu: sarebbe costoso e rischioso per i due regimi rivali fare i conti l’uno con l’altro mentre mirano all’unità cinese. Prima è necessario “attaccare la strategia del nemico” poi “fargli rompere le sue alleanze”. Infatti, la RPC si afferma rapidamente come una potenza geopoliticamente incomparabile rispetto alla sua rivale, e si impegna in un gioco performativo sul principio di una Cina, ponendosi come prerequisito per l’apertura di relazioni bilaterali con qualsiasi paese terzo. come unico governo della Cina. Nel 1971 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo riconobbe come tale, portandolo a sostituire il regime nazionalista nel Consiglio di Sicurezza. La visita del 1972 del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon rappresenta una vittoria diplomatica e strategica. Sette anni dopo, gli Stati Uniti a loro volta riconobbero il regime, promulgando ilTaiwan Relations Act che li impegna a “garantire la sicurezza dell’isola, della sua gente, del suo sistema economico e sociale”. Ricordano così a Pechino che, se viene riconosciuto come il governo legale della Cina, questo non potrebbe necessariamente costituire un assegno in bianco per un’invasione. La RPC non ha raggiunto pienamente i suoi fini diplomaticamente, quindi si impegna in spese militari e dimostrazioni di forza. Che abbia o meno intenzione di attaccare Taiwan, sa che abbassare la guardia correrebbe il rischio di una dichiarazione di indipendenza, in cui l’isola sarebbe invasa dalla legge anti-secessione del 2005.

Questi ultimatum da entrambe le parti sembrano impedire qualsiasi uso della forza e vedono il perpetuarsi di una Taiwan di fatto indipendente se non de jure, ma non si tratta di un vero e proprio status quo: di comune accordo, i legami tra le due sponde sono sempre più vicino, la circolazione di capitali e turisti tra continente e arcipelago aumenta. Le economie guadagnano in integrazione, favorendo una possibile futura unificazione secondo il principio “un Paese, due sistemi” rispettoso delle loro differenze. La RPC diluisce gradualmente il suo rivale in sé, dandogli un cappio a lungo termine. Negoziando con il KMT anche quando quest’ultimo è all’opposizione, gioca sulle divisioni politiche taiwanesi. Se, secondo Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi,

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Sviluppo pacifico?

La Cina sembra ancora fedele al principio di non ingerenza negli affari di un Paese situato al di fuori del mondo cinese, in linea con la natura ormai illegale dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. In questo contesto, la cultura strategica cinese oggi conosce per la sua declinazione il concetto di “sviluppo pacifico”, sviluppato intorno al 2005 all’interno della rete di istituti di ricerca e think tank cui si ispira il Partito Comunista Cinese (PCC) per la sua strategia estera. e teorie americane delle relazioni internazionali. Questo approccio prevale nella ricerca “di una situazione quanto più favorevole possibile ai suoi interessi economici e strategici”.

Nel 2013, denunciando l’ancora significativa presenza americana nella regione indo-pacifica, Xi Jinping ha proposto ai Paesi della regione “principi fondamentali per la strategia di buon vicinato”: lo sviluppo di relazioni amichevoli, la ricerca della sicurezza e della prosperità comune, relazioni vantaggiose e non esclusive. I paesi dell’Asia sarebbero legati da una “comunità di destino” nei loro rispettivi interessi. In effetti, l’integrazione delle rispettive economie è evidente, soprattutto a favore della Cina. Allo stesso tempo, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, creata nel 2001, le consente di rafforzare le sue relazioni con i suoi vicini, a fronte di una NATO presente in Asia centrale. Ci sono inclinazioni cinesi non per l’espansionismo, termine usato da alcuni pensatori americani, ma per proteggere i confini. È un “pericoloso gioco delle alleanze” quello della Cina, che porta aiuti economici e militari a un Pakistan con cui condivide una certa animosità per l’India, mantenendo così un “triangolo nucleare” tra le tre potenze. Il PLA non gioca un ruolo minore negli equilibri geopolitici regionali, come dimostra la strategia della “collana di perle”, consistente nella creazione di basi navali nel Mar Cinese Meridionale e nell’Oceano Indiano. Alcuni di loro situati nei territori di altri paesi e in aree contese, costituiscono staffette cinesi in tutta la regione. Nel 2017, per la prima volta, è stata aperta una base militare terrestre al di fuori della Cina, a Gibuti. La Cina è stabilita al di là dei mari, minacciando gli stati confinanti sconsiderati di attaccarlo. Si tratta di raggiungere un’egemonia regionale, la cui manifestazione è in parte di natura militare. Il decimo dei Trentasei stratagemmi, trattato cinese del Medioevo riscoperto nel XX secolo, raccomanda di “nascondere una spada in un sorriso”. La cultura strategica cinese, che promuove non solo la diplomazia, ma attraverso di essa una forma di doppio gioco, trova oggi, nella geopolitica dell’Indo-Pacifico, un terreno favorevole per la sua espressione.

Oltre la guerra, ai confini del mondo

La Cina è in prima linea nell’anticipare la guerra futura. La sua cultura strategica ha subito un significativo rinnovamento intellettuale subito dopo la Guerra del Golfo, con la pubblicazione dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsuidi La guerra fuori dai confini. Gli ufficiali del PLA prendono atto del fatto che, d’ora in poi, “l’umanità dà a qualsiasi spazio il senso di un campo di battaglia”, che ora è “ovunque”. La nuova guerra sarà caratterizzata da un crescente offuscamento dei suoi confini con la non guerra, sarà “qualcosa che non abbiamo mai considerato come guerra”, mobilitando risorse civili preesistenti in campo cibernetico, finanziario o commerciale, nelle mani di un “combattente digitale”. Senza una forma chiara, la guerra sarebbe ormai “fuori limite”, ed è una “nuova arte della guerra” – noteremo il riferimento a Sun Tzu -, che comprende tutti questi campi, che dovrebbe essere padroneggiata per vincita. Ci deve essere una coerenza, un uso combinato ponderato di questi mezzi basati su una “singola volontà”, dicono, usando le parole di Yu Fei, generale del XII secolo. Si attualizza così una cultura strategica che promuove l’uso delle armi solo se gli approcci non militari si sono rivelati inefficaci e raccomanda l’uso combinato della “forza ordinaria” (Cheng) e della “forza straordinaria” (Ch ‘i). La forza è ormai solo un frammento, un aspetto tra gli altri della guerra.

Lo ha capito bene lo Stato cinese, che investe costantemente in settori destinati a essere al centro della prossima guerra, in primis quello spaziale. Nel 2007 ha dimostrato, con la distruzione con un lancio di missili anti-satellite di uno dei suoi dispositivi, situato a 850 km di distanza, le sue capacità di attacco nello spazio, che investe e militarizza a tal punto da competere con gli Stati Uniti: vi ha lanciato 260 tonnellate nel decennio 2010-2020. Dal 2015, la forza di supporto strategico, una nuova componente del PLA, è responsabile dello spazio, oltre che del dominio cibernetico. Innovando in termini di pensiero e progresso tecnologico e scientifico, la Cina si sta affermando come una potenza leader in vista delle ostilità, militari e non, a venire.

Da alcuni decenni, infatti, il pensiero strategico cinese investe anche il campo dell’economia e del commercio, che ormai sono un mezzo privilegiato di espansione. Conosciamo i successi della politica economica e commerciale portata avanti dalla RPC dagli anni 1970. Nel 2013 è stato presentato il progetto One Belt One Road (OBOR), ora Belt and Road Initiative (BRI), che mira a sviluppare il commercio interno al continente eurasiatico attraverso un “corridoio economico” che collega la Cina all’Europa occidentale attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente, attraverso grandi progetti infrastrutturali. Questa “nuova via della seta”, così chiamata in riferimento a un tempo glorioso per la Cina, concretizza la “Grande Strategia Nazionale” definita dal generale Liu Yazhou, che chiamava nel 2001 ad “avanzare verso ovest” attraverso un “ponte terrestre tra Europa e Asia” per neutralizzare l’accerchiamento americano della Cina. Questa riflessione, radicata nel XXI secolo, non è da meno parte della tradizione di una strategia che preferisce aggirare il confronto frontale, facendo prendere in prestito beni e servizi a strade non controllate dagli Stati Uniti. Oltre agli interessi commerciali, spetta infatti alla Cina affermarsi come potenza indipendente, a capo di un ordine internazionale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti. Non tutti gli stati interessati vi aspirano, alcuni lo vedono come un mezzo per la Cina al servizio dei suoi soli interessi, non ignorando l’arte dell’ambiguità e dell’occultamento che è al centro della sua cultura strategica. .PCC , dal 2007, del soft power cinese, con lo sviluppo, prima nel sud-est asiatico, di istituti Confucio e scambi con università e centri culturali. Nel 2008 il Paese ha ospitato i Giochi Olimpici e l’Esposizione Universale, in linea con la diplomazia del ping-pong che ha contribuito al suo riavvicinamento con gli Stati Uniti. La Cina, che sa che in URSS mancava il soft power, ha compreso l’interesse di questo processo che, pur non violento, non va contro la sua tradizione strategica.

La Cina vuole la guerra? Niente è meno sicuro. La cultura strategica cinese promuove il dirottamento piuttosto che il confronto, mira a raggiungere i suoi obiettivi senza ricorrere alla forza. Questo pensiero trova oggi espressione concreta negli obiettivi della Repubblica Popolare Cinese sulla sua regione, obiettivi di unità ed egemonia, ma non di conquista. Forse non accetterebbe il colpo di una guerra frontale, convenzionale, contro gli Stati Uniti: infatti, i suoi obiettivi strategici non sono questi. Di fronte a una potenza americana che dedica enormi risorse alle guerre all’estero senza necessariamente raggiungere i propri fini, la Cina può segnare punti contestando l’ordine internazionale. È tanto, se non di più, per questa sua strategia a lungo termine che per la sua forza bruta, che sarebbe sbagliato sottovalutarla.

https://www.revueconflits.com/vaincre-sans-combattre-la-culture-strategique-chinoise/

Quanto sono realmente l’Europa e la Francia dipendenti dagli Stati Uniti? Intervista

Quanto sono realmente l’Europa e la Francia dipendenti dagli Stati Uniti?

Joe Biden ha intrapreso un importante tour europeo. Mentre la sua elezione ha sollevato le speranze di una luna di miele riconquistata dopo la presidenza Trump, i suoi primi 10 mesi in carica hanno smorzato le speranze.

Atlantico: Joe Biden inizia un nuovo tour diplomatico in Europa. Come scrive Gilles Paris su Le Monde, “Joe Biden aveva sbandierato il ritorno della leadership americana, ma tarda a manifestarsi”. È questa un’opportunità per l’Unione europea di accettare l’idea di un ritiro degli interessi statunitensi nei confronti del vecchio continente? Quanto è stata forte la disillusione dopo 10 mesi di presidenza Biden?

Cyrille Bret: In un anno, gli europei sono passati da un entusiasmo eccessivo a un’amarezza impotente nei confronti della presidenza Biden. Nell’autunno del 2019, gli europei hanno chiesto l’elezione di Joe Biden contro il presidente uscente Donald Trump. La speranza ha lasciato il posto al sollievo durante il periodo di transizione tra novembre e gennaio. Il candidato Biden aveva infatti promesso rispetto ai suoi alleati europei e asiatici durante la sua campagna. Ho quindi segnalato quanto fossero eccessive le speranze riposte in Joe Biden. Joe Biden è molto più gentile di Donald Trump. Il suo attaccamento al collegamento transatlantico è reale. Tuttavia, come ogni presidente americano, il suo obiettivo primario è la difesa e la promozione degli interessi nazionali americani, non di quelli europei..

Il tour autunnale in Europa di Joe Biden sarà molto diverso dal suo tour primaverile in cui ha incontrato i capi di stato e di governo della NATO e dell’Unione Europea. Oggi gli europei hanno visto che il ritorno degli Stati Uniti negli affari mondiali si concentrerà sull’Asia e darà priorità alla rivalità con la Cina. Dovrebbero risolversi ad affrontare l’ovvio: la presidenza Biden non intende investire troppo nelle aree e nelle questioni di interesse essenziale per gli europei: i rapporti con la Russia, l’instabilità in Medio Oriente. , la destabilizzazione dell’Africa settentrionale… Tuttavia, la fine della luna di miele arriva in un momento poco favorevole a questa consapevolezza: da un lato,

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Oggi la delusione è forte a Parigi o a Berlino ma non può essere tradotta in una generale presa di coscienza europea.

Gérald Olivier:  Quando Biden evoca un ritorno degli Stati Uniti sulla scena internazionale, in realtà parla di un ritorno agli organismi internazionali.

Questi includono un ritorno all’accordo di Parigi sul clima, un possibile ripristino dell’accordo nucleare nei confronti dell’Iran, o addirittura il reinserimento degli Stati Uniti nell’Organizzazione mondiale della sanità.

Biden vuole che gli Stati Uniti rientrino nel gioco internazionale e mettano in risalto la loro diplomazia, piuttosto che la loro potenza militare. Questo ritorno sulla scena diplomatica è accompagnato dal continuo ritiro dal campo militare. La partenza frettolosa dall’Afghanistan è un esempio calzante. Gli Stati Uniti non intendono più essere i poliziotti del mondo e inviare i propri soldati a combattere lontano dal continente americano.

È tempo che gli europei si rendano conto che la guerra fredda è finita da trent’anni e che in un momento in cui gli Stati Uniti si ritirano da alcuni teatri, colgono l’occasione per ritirarsi dagli Stati Uniti… Gli europei stanno finalmente costruendo questa Europa della Difesa di cui parlano da trent’anni. L’esperienza passata suggerisce che questo non accadrà. La protezione della NATO è troppo pratica e troppo economica per rinunciarvi.

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Anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rinnovato l’impegno degli Stati Uniti nel quadro dell’articolo 5 della Carta della NATO, impegno che Donald Trump aveva, per un po’ di tempo, messo in discussione, e gli europei si sentono perfettamente rassicurati.

Fino a che punto l’UE può fare a meno degli Stati Uniti?

Cirillo Bret:Gli Stati Uniti sono un alleato perfetto per gli europei per affrontare le diverse sfide contemporanee. La compenetrazione delle economie europea e americana, la vicinanza dei sistemi politici, il reciproco fascino culturale ei molteplici scambi tra società civili hanno creato per due secoli legami potentissimi tra le due sponde dell’Atlantico. D’altra parte, l’atlantismo beato sopravvaluta il “bisogno dell’America” ​​degli europei. Gli europei hanno fatto molto affidamento sugli Stati Uniti per la rivoluzione digitale e continuano a dipendere da GAFAM per molte infrastrutture e servizi nel settore. Allo stesso modo, in campo militare, molti Stati europei hanno riposto la loro fiducia nella protezione americana quasi più che nelle proprie forze armate.

Quando si parla di “bisogno dell’America”, è importante distinguere tra dipendenza irrazionale e convergenze reali. Oggi gli europei hanno bisogno degli Stati Uniti in molti campi tecnologici, militari e finanziari. Ma hanno anche bisogno urgente di rendersi conto dell’asimmetria del rapporto con Washington. Le priorità dell’America dalla presidenza Obama riguardano l’Asia, non l’Europa. Aspettarsi tutto da Washington è la strada più breve verso l’amarezza geopolitica.

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Gérald Olivier: L’Unione europea non può permettersi di fare a meno degli Stati Uniti, dal punto di vista politico, economico o militare.

Oltre ai paesi dell’Unione Europea, gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale di molti paesi europei, Francia in testa.

Il mercato americano e quello europeo sono i due maggiori mercati mondiali, tra i due blocchi più ricchi del pianeta.

Si tratta di un rapporto economico privilegiato ed essenziale, che si coniuga con un rapporto culturale e strategico.

Sul fronte della difesa, è molto più economico per gli Stati europei fare affidamento sulla protezione americana che finanziare la propria protezione. La Francia è l’unica vera potenza militare nell’Europa continentale (a parte la Russia ovviamente, ma quest’ultima occupa lo spazio eurasiatico).

Sul fronte economico , attraverso il suo mercato interno, come ha bisogno l’Unione Europea dell’estero e degli USA in particolare?

Cirillo Bret: Il commercio non è solo un pilastro essenziale delle relazioni transatlantiche, ma anche uno dei motori dell’economia mondiale perché rappresenta oltre il 40% del commercio mondiale nel 2021. Fornisce 8 milioni di posti di lavoro ed è estremamente diversificato. Per garantire la sua autonomia strategica in campo militare, medico o informatico, l’Europa non ha bisogno di rinunciare alle sue esportazioni e alle sue importazioni verso gli Stati Uniti in generale. Piuttosto, deve proteggere alcuni dei suoi interessi chiave. In materia digitale, deve recuperare risolutamente attraverso la tassazione dei GAFAM ma soprattutto degli investimenti interni. In campo giuridico, gli europei devono anche contrastare l’ambizione americana di imporre tutti i loro standard al di fuori del proprio territorio.

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Gérald Olivier : Siamo in un mondo globalizzato, un paese che aspira a una posizione di potere non può accontentarsi delle relazioni regionali. Gli Stati Uniti e l’Europa sono partner importanti. Gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale dell’Europa. È un cliente di prim’ordine per la Germania, in particolare per l’industria automobilistica ed elettronica. Europa e Stati Uniti sono i due blocchi più sviluppati e più ricchi del mondo. Hanno quindi bisogno di un rapporto d’affari sereno e aperto. L’Europa rappresenta anche una quantità significativa di esportazioni americane. La Francia è solo il 5° cliente degli Stati Uniti ma rimangono partner estremamente importanti.

Sul piano militare, fino a che punto l’Europa ha bisogno degli Stati Uniti? Dovremmo distinguere la loro capacità di rispondere alle minacce sul loro territorio, ad esempio nei confronti della Russia, dalla loro capacità di proiettarsi nei teatri di operazioni estere?

Cyrille Bret: In quest’area, gli europei hanno soprattutto bisogno di sviluppare i propri obiettivi strategici, le proprie capacità e le proprie operazioni. Le capacità di proiezione esterna dell’America sono sia quantitativamente che qualitativamente incomparabili. Ma gli europei sono intrappolati in un circolo vizioso: più si affidano agli Stati Uniti, meno si affidano a se stessi.

Gérald Olivier: Militarmente, l’Europa ha bisogno degli Stati Uniti al 100%. Non esiste un esercito europeo. Le capacità di proiezione dell’Europa sono estremamente limitate. Gli Stati Uniti, inoltre, hanno un certo disprezzo verso gli eserciti europei, ad eccezione dell’esercito francese. Qualunque siano le relazioni tra Francia e Stati Uniti, c’è un vero rispetto da parte dei militari americani nei confronti dei loro omologhi francesi, perché riconoscono il loro know-how, la loro esperienza sul campo e le loro capacità di adattamento. .

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Se consideriamo che esiste ancora uno spazio che possiamo chiamare “il mondo occidentale”, le cui nazioni condividono alcuni valori come l’attaccamento a un’economia di mercato, il rispetto delle libertà individuali, l’idea di governo del popolo da parte del popolo, al contrario di stati autoritari o totalitari, come la Russia o la Cina, allora potremmo concepire un approccio comune tra Stati Uniti ed Europa di fronte a questi avversari. Questo è esattamente ciò che vogliono gli Stati Uniti. Ma l’Europa non vede le cose allo stesso modo e considera, ad esempio, la Cina, come un partner del futuro, che può permetterle di guadagnare molti soldi e che non percepisce come un avversario esistenziale. …

In cambio, quello che si può rimproverare agli Stati Uniti, è una tendenza a non prendere in considerazione i paesi europei. Dall’inizio degli anni 2000, gli Stati Uniti hanno stabilito un’alleanza politica e militare con Australia, India e Giappone, nel mirino della zona indo-pacifica. Questa alleanza quadrilatera esiste ancora. La logica avrebbe voluto che la Francia, che è una potenza legittima nell’Indo-Pacifico attraverso le sue posizioni all’estero, fosse invitata a essere partner di questa alleanza. Non è successo. Idem ora con l’Aukus! Gli Stati Uniti si sono ritirati nel mondo “anglosassone”, ignorando i suoi legittimi partner nell’Europa continentale. Questo è un errore strategico, che maschera anche le rivalità economiche.

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