Italia e il mondo

la fine di un ordine mondiale, la costruzione di uno nuovo_traduzione e commento di Giuseppe Germinario

Il saggio riprodotto qui in calce è particolarmente interessante per due motivi: la rilevanza dell’autore e gli argomenti addotti. Prende atto del declino di un mondo e di un sistema di relazioni e di dominio. Sembra illudere inizialmente in qualche maniera i lettori sulla possibilità di un sistema di relazioni basato sull’equilibrio di potenze. Conclude la propria analisi riproponendo un multilateralismo fondato ancora una volta sulla supremazia “benevola” degli Stati Uniti. Sul finale, in perfetta continuità, rovescia le responsabilità del disordine sulle ambizioni delle potenze emergenti glissando elegantemente sulle politiche predatorie degli USA operate ai danni della Russia, negli anni ’90 e sull’espansionismo e la destabilizzazione cosciente di intere regioni del globo. La constatazione più amara è che negli Stati Uniti si riesce a discutere di questi momenti di transizione e della posizione da assumere nel contesto. A discutere ben inteso all’interno di un confronto politico cruento di una violenza inaudita e inedita da un secolo e mezzo a questa parte. L’Italia al contrario sembra galleggiare con l’incoscienza di chi non vuol vedere il pericolo tra i flutti. Il merito di Trump e della sua amministrazione sgangherata è di aver saputo porre e imporre la questione nel teatro politico. Il paradosso è che l’individuazione in un senso o nell’altro delle scelte di quel paese comporterà molto probabilmente comunque la sua sconfitta personale ed l’eliminazione probabilmente traumatica. L’editoriale del Washington Post del 22 dicembre https://www.washingtonpost.com/politics/a-rogue-presidency-the-era-of-containing-trump-is-over/2018/12/22/26fc010e-055b-11e9-b5df-5d3874f1ac36_story.html?utm_term=.ed45953c9237 rappresenta un chiaro facinoroso e arrogante avvertimento da prendere maledettamente sul serio. Lo abbiamo detto più volte nei nostri articoli e podcast. Si tratterà di un epilogo che esigerà comunque un fìo particolarmente doloroso.

Una nota che forse vale più di decine di considerazioni. Nella sua recente visita natalizia alle truppe stanziate in Iraq abbiamo visto Trump e una raggiante Melania immersi calorosamente nella truppa.

Anche Bush e Obama hanno fatto questa mossa, ma hanno preteso il contatto con truppe disarmate ed hanno goduto di un atteggiamento molto meno caloroso.

L’ex ambasciatore americano a Damasco ha sostenuto la scelta del ritiro americano dalla Siria; segno che gli stessi apparati non sono poi così monolitici nella loro avversione e che lo scontro politico rischia di non risolversi con un semplice regolamento di conti interno al palazzo_Buona lettura_Giuseppe Germinario

https://www.foreignaffairs.com/articles/2018-12-11/how-world-order-ends?cid=int-nbb&pgtype=hpg

Come finisce un ordine mondiale

E ciò che viene nel suo risveglio

Di Richard Haass

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Un ordine mondiale stabile è una cosa rara. Quando uno emerge, tende a venire dopo una grande convulsione che crea sia le condizioni che il desiderio di qualcosa di nuovo. Richiede una distribuzione stabile del potere e un’ampia accettazione delle regole che regolano la condotta delle relazioni internazionali. Ha bisogno anche di abilità di governo , dal momento che un ordine è fatto, non nato. E non importa quanto siano mature le condizioni iniziali o il desiderio iniziale, il mantenimento richiede diplomazia creativa, istituzioni funzionanti e azioni efficaci per adattarlo quando le circostanze cambiano e lo rafforzano quando arrivano le sfide.

Alla fine, inevitabilmente, anche l’ordine meglio gestito finisce. L’equilibrio del potere su cui si basa tende a dissestarsi. Le istituzioni che lo sostengono non riescono ad adattarsi alle nuove condizioni. Alcuni paesi cadono, e altri emergono, come risultato di mutevoli capacità, voleri vacillanti e crescenti ambizioni. I responsabili della difesa dell’ordine commettono errori sia in ciò che scelgono di fare che in ciò che scelgono di non fare.

Ma se la fine di ogni ordine è inevitabile, i suoi tempi e modi non lo sono. Né è ciò che viene nella sua scia. Gli ordini tendono a scadere in un prolungato deterioramento piuttosto che in un improvviso collasso. E così come il mantenimento dell’ordine dipende da una strategia efficace e da un’azione efficace, una buona politica e una diplomazia proattiva possono aiutare a determinare il modo in cui tale deterioramento si manifesta e ciò che comporta. Eppure, affinché ciò accada, qualcos’altro deve venire prima: riconoscere che il vecchio ordine non ritorna mai e che gli sforzi per resuscitarlo saranno vani. Come per ogni finale, l’accettazione deve venire prima che si possa andare avanti.

Nella ricerca di paralleli con il mondo di oggi, studiosi e professionisti hanno guardato molto lontano come all’ antica Grecia, dove l’ascesa di una nuova potenza ha portato in guerra Atene e Sparta; al periodo dopo la prima guerra mondiale, con gli Stati Uniti isolazionisti e gran parte dell’Europa seduta sulle proprie mani, come la Germania e il Giappone i quali hanno ignorato gli accordi e hanno invaso i loro vicini. Ma il parallelo più illuminante del presente è il Concerto dell’Europa nel diciannovesimo secolo, lo sforzo più importante e di successo per costruire e sostenere l’ordine mondiale fino al nostro tempo. Dal 1815 fino allo scoppio della prima guerra mondiale un secolo dopo, l’ordine stabilito in occasione del Congresso di Vienna ha definito molte relazioni internazionali e impostato (anche se spesso non è riuscito a far rispettare) le regole di base per la condotta internazionale. Fornisce un modello su come gestire collettivamente la sicurezza in un mondo multipolare.

La fine di quell’ordine e ciò che seguì offrì lezioni istruttive per oggi e un avvertimento urgente. Solo perché un ordine è in declino irreversibile non significa che il caos o la calamità siano inevitabili. Ma se il deterioramento è gestito male, la catastrofe potrebbe ben seguire.

FUORI Dalle CENERI

L’ordine globale della seconda metà del ventesimo secolo e la prima parte del ventunesimo nacquero dal naufragio di due guerre mondiali. L’ordine del diciannovesimo secolo seguì una precedente convulsione internazionale: le guerre napoleoniche che, dopo la rivoluzione francese e l’ascesa di Napoleone Bonaparte, devastarono l’Europa per oltre un decennio. Dopo aver sconfitto Napoleone e i suoi eserciti, gli alleati vittoriosi – Austria, Prussia, Russia e Regno Unito, le grandi potenze di quel tempo- si riunirono a Vienna nel 1814 e nel 1815. Al Congresso di Vienna, si impegnarono a garantire che gli eserciti di Francia non minacciassero mai più i loro stati e che i movimenti rivoluzionari non minacciassero mai più le loro monarchie. I poteri vittoriosi fecero anche la scelta saggia di integrare una Francia sconfitta, un percorso molto diverso da quello preso con la Germania dopo la prima guerra mondiale e un po’ differente da quello scelto con la Russia sulla scia della guerra fredda.

Il congresso ha prodotto un sistema noto come Concert of Europe. Pur essendo centrato in Europa, costituiva l’ordine internazionale del suo tempo data la posizione dominante dell’Europa e degli europei nel mondo. C’era una serie di intese condivise sui rapporti tra Stati, soprattutto un accordo per escludere l’invasione di un altro paese o il coinvolgimento negli affari interni di un altro senza il suo permesso. Un ruvido equilibrio militare dissuase qualsiasi Stato dalla tentazione di rovesciare l’ordine; dal tentare in primo luogo (e impedire a qualsiasi stato che provasse di avere successo). I ministri degli esteri si sono incontrati (in quello che è stato definito “congresso”) ogni volta che si è presentato un problema importante. Il concerto è stato conservatore in tutti i sensi. Il trattato di Vienna aveva apportato numerosi adeguamenti territoriali e poi bloccato i confini dell’Europa, permettendo modifiche solo con l’accordo di tutti i firmatari. Ha anche fatto il possibile per sostenere le monarchie e incoraggiare gli altri a venire in loro aiuto (come fece la Francia in Spagna nel 1823) quando furono minacciati dalla rivolta popolare.

JEAN-BAPTISTE ISABEY

Un’incisione del Congresso di Vienna, 1814.

Il concerto ha funzionato non perché ci fosse un accordo completo tra le grandi potenze su ogni punto, ma perché ogni stato aveva le proprie ragioni per sostenere il sistema generale. L’Austria era più preoccupata di resistere alle forze del liberalismo che minacciavano la monarchia dominante. Il Regno Unito si è concentrato sul respingere una nuova sfida dalla Francia, proteggendosi anche contro una potenziale minaccia dalla Russia (il che significava non indebolire la Francia così tanto da non poter aiutare a compensare la minaccia dalla Russia). Ma c’era abbastanza sovrapposizione di interessi e di consenso sulle domande di primo ordine da impedire la guerra tra le principali potenze dell’epoca.

Il concerto durò tecnicamente un secolo, fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Ma aveva smesso di svolgere un ruolo significativo molto prima di allora. Le ondate rivoluzionarie che hanno travolto l’Europa nel 1830 e nel 1848 hanno rivelato i limiti di ciò che i membri potevano fare per mantenere l’ordine esistente all’interno degli stati di fronte alla pressione dell’opinione pubblica. Poi, più consequenzialmente, arrivò la guerra di Crimea. In apparenza si combatteva per il destino dei cristiani che vivevano all’interno dell’Impero ottomano, in realtà il confronto era molto più incentrato su chi avrebbe controllato il territorio di quell’impero decadente. Il conflitto ha contrapposto Francia, Regno Unito e Impero ottomano alla Russia. Durò due anni e mezzo, dal 1853 al 1856. Fu una guerra costosa che mise in evidenza i limiti della capacità del concerto di impedire una guerra di grande potenza; la grande potenza che aveva reso possibile il concerto non esisteva più. Le guerre successive tra Austria e Prussia e la Prussia e la Francia dimostrarono che il conflitto di grande potenza era tornato nel cuore dell’Europa dopo una lunga pausa. Le cose sembravano stabilizzarsi per un po’ di tempo, ma era un’illusione. Sotto la superficie, il potere tedesco stava montando e gli imperi stavano marcendo. La combinazione pose le basi per la prima guerra mondiale e la fine di quello che era stato il concerto.

CHE COSA METTONO L’ORDINE?

Quali lezioni si possono trarre da questa storia? Come qualsiasi altra cosa, l’ascesa e la caduta delle grandi potenze determinano la fattibilità dell’ordine prevalente, dal momento che i cambiamenti di forza economica, coesione politica e potere militare modellano ciò che gli stati possono e sono disposti a fare oltre i loro confini. Durante la seconda metà del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo, una potente e unificata Germania e un moderno Giappone sorsero, l’impero ottomano e la Russia zarista declinarono, e la Francia e il Regno Unito diventarono più forti ma non abbastanza forti. Quei cambiamenti hanno capovolto l’equilibrio di potere che era stato il fondamento del concerto. La Germania, in particolare, è arrivata a considerare lo status quo incoerente con i suoi interessi.

Anche i cambiamenti nel contesto tecnologico e politico hanno influito su questo equilibrio sottostante. Sotto il concerto, le richieste popolari di partecipazione democratica e le ondate di nazionalismo minacciavano lo status quo all’interno dei paesi, mentre nuove forme di trasporto, comunicazione e armamenti trasformavano la politica, l’economia e la guerra. Le condizioni che hanno contribuito a dare origine al concerto sono state gradualmente annullate.

Poiché gli ordini tendono a terminare con un piagnisteo piuttosto che con un botto, il processo di deterioramento spesso non è evidente ai responsabili delle decisioni finché non si è evoluto considerevolmente.

Tuttavia sarebbe eccessivamente deterministico attribuire la storia alle sole condizioni sottostanti. L’arte del governo conta ancora. Che il concerto sia nato e sia durato finché ha messo in evidenza che le persone fanno la differenza. I diplomatici che lo fabbricarono – Metternich d’Austria, Talleyrand di Francia, Castlereagh del Regno Unito – furono eccezionali. Il fatto che il concerto abbia preservato la pace nonostante il divario tra due paesi relativamente liberali, la Francia e il Regno Unito e i loro partner più conservatori mostrano che i paesi con diversi sistemi e preferenze politici possono lavorare insieme per mantenere l’ordine internazionale. Il piccolo che si rivela buono o cattivo nella storia è inevitabile. La guerra di Crimea avrebbe potuto essere evitata se sulla scena fossero stati presenti leader più capaci e attenti. Non è affatto chiaro che le azioni russe abbiano giustificato una risposta militare da parte della Francia e del Regno Unito sulla natura e sulla scala che ha avuto luogo. Il fatto che i paesi abbiano fatto ciò che hanno fatto sottolinea anche il potere e i pericoli del nazionalismo. La prima guerra mondiale è scoppiata in gran parte perché i successori del cancelliere tedesco Otto von Bismarck non sono stati in grado di disciplinare il potere del moderno stato tedesco che ha fatto così troppo da provocare.

Altre due lezioni si distinguono. Innanzitutto, non sono solo i problemi principali che possono causare il deterioramento di un ordine. Il sodalizio di grande potenza del concerto si è conclusa non a causa di disaccordi sull’ordine sociale e politico in Europa, ma a causa della competizione alla periferia. E in secondo luogo, poiché gli ordini tendono a finire con un gemito piuttosto che con un botto, il processo di deterioramento spesso non è evidente per i responsabili delle decisioni finché non è avanzato considerevolmente. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, quando divenne evidente che il Concerto dell’Europa non si svolgeva più, era troppo tardi per salvarlo o addirittura per gestire la sua dissoluzione.

UN RACCONTO DI DUE ORDINI

L’ordine globale costruito all’indomani della seconda guerra mondiale consisteva in due ordini paralleli per gran parte della sua storia. Uno è nato dalla guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Al suo centro c’era un equilibrio approssimativo della forza militare in Europa e in Asia, sostenuto dalla deterrenza nucleare. Le due parti hanno mostrato un certo grado di moderazione nella loro rivalità. Il “Rollback” – il linguaggio della Guerra Fredda per quello che oggi viene chiamato “cambio di regime” – è stato respinto sia come irrealizzabile sia perché imprudente. Entrambe le parti hanno seguito regole informali della strada che includevano un sano rispetto reciproco per i cortili altrui e gli alleati. Alla fine raggiunsero una comprensione dell’ordine politico in Europa, l’arena principale della competizione della Guerra Fredda, e nel 1975 codificarono quella comprensione reciproca negli Accordi di Helsinki. Anche in un mondo diviso, i due centri di potere concordavano su come si sarebbe condotta la competizione; il loro era un ordine basato su mezzi piuttosto che fini. L’esistenza di solo due centri di potere ha reso più agevole raggiungere un simile accordo.

L’altro ordine post-seconda guerra mondiale era l’ordine liberale che operava a fianco dell’ordine della guerra fredda. Le democrazie sono state le principali partecipanti a questo sforzo che ha usato gli aiuti e il commercio per rafforzare i legami e promuovere il rispetto dello stato di diritto all’interno e tra i paesi. La dimensione economica di questo ordine è stata progettata per creare un mondo (o, più esattamente, la metà non comunista) definito dal commercio, dallo sviluppo e da operazioni monetarie ben funzionanti. Il libero scambio sarebbe diventato un motore di crescita economica e vincolerebbe i paesi in modo che la guerra venisse giudicata troppo costosa per il salario; il dollaro è stato accettato come valuta globale de facto.

La dimensione diplomatica dell’ordine ha dato risalto all’ONU. L’idea era che un forum globale permanente potesse prevenire o risolvere le controversie internazionali. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, con cinque membri permanenti di grande potenza e posti aggiuntivi per un membro in rotazione, orchestrerebbe le relazioni internazionali. Eppure l’ordine dipendeva tanto dalla volontà del mondo non comunista (e degli alleati statunitensi in particolare) di accettare il primato americano. A quanto pare erano pronti a farlo, poiché gli Stati Uniti erano considerati il ​​più delle volte come un egemone relativamente benigno, uno ammirato tanto per quello che era a casa quanto per quello che faceva all’estero.

Entrambi questi ordini servivano gli interessi degli Stati Uniti. La pace di fondo è stata mantenuta in Europa e in Asia a un prezzo che una crescente economia americana avrebbe potuto facilmente permettersi. L’aumento del commercio internazionale e le opportunità di investimento hanno contribuito alla crescita economica degli Stati Uniti. Nel corso del tempo, più paesi si sono uniti ai ranghi delle democrazie. Né l’ordine riflette un perfetto consenso; piuttosto ognuno ha offerto un consenso sufficiente in modo che non fosse direttamente messo in discussione. Laddove la politica estera degli Stati Uniti si è messa nei guai, come in Vietnam e in Iraq, non è stato per impegni di alleanza o considerazioni di ordine, ma per decisioni sconsiderate di perseguire costose guerre di scelta.

SEGNI DI DECADIMENTO

Oggi, entrambi gli ordini si sono deteriorati. Anche se la Guerra Fredda si è conclusa molto tempo fa, l’ordine che ha creato si è frammentato in modo più polverizzato in parte perché gli sforzi occidentali di integrare la Russia nell’ordine mondiale liberale hanno ottenuto ben poco. Un segno del deterioramento dell’ordine della Guerra Fredda è stata l’invasione del Kuwait del 1990 da parte di Saddam Hussein, cosa che Mosca probabilmente avrebbe evitato negli anni precedenti con la motivazione che era troppo rischioso. Sebbene la deterrenza nucleare sia ancora valida, alcuni degli accordi per il controllo degli armamenti sono stati infranti e altri sono sfilacciati.

Sebbene la Russia abbia evitato qualsiasi sfida militare diretta alla NATO, ha comunque mostrato una crescente volontà di perturbare lo status quo: attraverso il suo uso della forza in Georgia nel 2008 e in Ucraina dal 2014, il suo intervento militare spesso indiscriminato in Siria e il suo uso aggressivo della guerra informatica per tentare di influenzare i risultati politici negli Stati Uniti e in Europa. Tutti questi rappresentano un rifiuto dei principali vincoli associati al vecchio ordine. Dal punto di vista russo, si potrebbe dire lo stesso dell’allargamento della NATO, un’iniziativa chiaramente in contrasto con il detto di Winston Churchill “In vittoria, magnanimità”. La Russia ha anche giudicato la guerra del 2003 in Iraq e l’intervento militare NATO del 2011 in Libia, intrapresa in nome dell’umanitarismo, ma evolutisi rapidamente in cambiamenti di regime.

L’ordine liberale mostra gli stessi segni di deterioramento. L’autoritarismo è in aumento non solo nei posti più ovvi, come la Cina e la Russia, ma anche nelle Filippine, in Turchia e nell’Europa orientale. Il commercio globale è cresciuto, ma recenti cicli di negoziati commerciali si sono conclusi senza accordo e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) si è dimostrata incapace di affrontare le sfide più urgenti di oggi, comprese le barriere non miranti e il furto di proprietà intellettuale. Il risentimento nei confronti dello sfruttamento del dollaro da parte degli Stati Uniti per imporre sanzioni aumenta, così come la preoccupazione per l’accumulo di debito del paese.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU è di scarsa rilevanza per la maggior parte dei conflitti mondiali e gli accordi internazionali non sono riusciti in modo più ampio a far fronte alle sfide associate alla globalizzazione. La composizione del Consiglio di sicurezza ha sempre meno somiglianze con la reale distribuzione del potere. Il mondo si è messo a verbale, come contro il genocidio e ha affermato il diritto di intervenire quando i governi non riescono a mantenersi rispettando la “responsabilità di proteggere” i loro cittadini, ma il discorso non si è tradotto in azione. Il Trattato di non proliferazione nucleare consente solo a cinque stati di avere armi nucleari, ma ora ce ne sono nove (e molti altri che potrebbero seguirne l’esempio se decidessero di farlo). L’UE, l’accordo regionale di gran lunga più significativo, sta lottando con la Brexit e con le dispute sulla migrazione e la sovranità. E in tutto il mondo, i paesi sono tentati di resistere alla supremazia americana

BAZ RATNER / REUTERS

Soldati russi in corrieri militari corazzati su una strada vicino a Sebastopoli, Crimea, marzo 2014.

SPOSTAMENTI DI POTENZA

Perché sta succedendo tutto questo? È istruttivo guardare indietro alla graduale fine del concerto d’Europa. L’ordine mondiale di oggi ha faticato a far fronte all’avvicendamento di potere: l’ascesa della Cina, l’apparizione di diverse potenze medie (Iran e Corea del Nord, in particolare) che rifiutano importanti aspetti dell’ordine e l’emergere di attori non statali (dai cartelli della droga alle reti terroristiche ) che possono rappresentare una seria minaccia per l’ordine all’interno e tra gli stati.

Anche il contesto tecnologico e politico è cambiato in modo importante. La globalizzazione ha avuto effetti destabilizzanti che vanno dal cambiamento climatico alla diffusione della tecnologia in molte più mani che mai, incluso una serie di gruppi e persone intente a sconvolgere l’ordine. Il nazionalismo e il populismo sono aumentati – il risultato di una maggiore disuguaglianza all’interno dei paesi, la dislocazione associata alla crisi finanziaria del 2008, la perdita di posti di lavoro causata dal commercio e dalla tecnologia, l’aumento dei flussi di migranti e rifugiati e il potere dei social media di diffondere l’odio.

Nel frattempo, l’arte di governo efficace è carente. Le istituzioni non sono riuscite ad adattarsi. Nessuno oggi progetterebbe un Consiglio di sicurezza dell’ONU che assomiglia a quello attuale; ma una vera riforma è impossibile dal momento che chi perde l’influenza blocca qualsiasi cambiamento. Gli sforzi per costruire quadri efficaci per affrontare le sfide della globalizzazione, compresi i cambiamenti climatici e gli attacchi informatici, sono venuti meno. Gli errori all’interno dell’UE, ovvero le decisioni di stabilire una moneta comune senza creare una politica fiscale comune o un’unione bancaria e di consentire un’immigrazione quasi illimitata in Germania, hanno creato una forte reazione contro i governi esistenti, le frontiere aperte e la stessa UE.

Gli Stati Uniti, da parte sua, si sono impegnati con costosi sforzi per cercare di ricostruire l’Afghanistan, invadere l’Iraq e perseguire il cambio di regime in Libia. Ma ha anche fatto un passo indietro dal mantenere l’ordine globale e in alcuni casi si è reso colpevole di costose iniziative coperte. Nella maggior parte dei casi, la riluttanza degli Stati Uniti ad agire non ha riguardato le questioni centrali ma quelle periferiche che i leader hanno cancellato perché non valevano il costo, come il conflitto in Siria, dove gli Stati Uniti non hanno risposto significativamente quando la Siria ha usato per la prima volta armi chimiche o fare di più per aiutare i gruppi anti-regime. Questa riluttanza ha aumentato la propensione degli altri a ignorare le preoccupazioni degli Stati Uniti e ad agire in modo indipendente. L’intervento militare a guida saudita nello Yemen è un esempio calzante. Le azioni russe in Siria e in Ucraina dovrebbero essere viste anche in questa luce; è interessante notare che la Crimea ha segnato la fine effettiva del Concerto d’Europa e ha segnato una battuta d’arresto drammatica nell’ordine attuale. I dubbi circa l’affidabilità degli Stati Uniti si sono moltiplicati sotto l’amministrazione Trump, grazie al suo ritiro dai numerosi patti internazionali e il suo approccio condizionale verso gli inviolabili impegni di alleanza degli Stati Uniti in Europa e in Asia.

GESTIONE DEL DETERIORAMENTO

Dati questi cambiamenti, sarà impossibile far risorgere il vecchio ordine. Sarebbe anche insufficiente, grazie all’emergere di nuove sfide. Una volta riconosciuto, il lungo deterioramento del Concerto dell’Europa dovrebbe servire da lezione e da avvertimento.

Per gli Stati Uniti tenere a mente che l’avvertimento significherebbe rafforzare alcuni aspetti del vecchio ordine e integrarli con misure che spiegano il cambiamento delle dinamiche di potere e i nuovi problemi globali. Gli Stati Uniti dovrebbero imporre il controllo degli armamenti e gli accordi di non proliferazione; rafforzare le sue alleanze in Europa e in Asia; rafforzare gli stati deboli che non possono competere con terroristi, cartelli e bande; e contro l’interferenza dei poteri autoritari nel processo democratico. Tuttavia, non dovrebbe rinunciare a cercare di integrare Cina e Russia in aspetti regionali e globali dell’ordine. Tali sforzi implicheranno necessariamente un mix di compromessi, incentivi e pushback. Il giudizio che i tentativi di integrare la Cina e la Russia sono per lo più falliti non dovrebbe essere un motivo per respingere gli sforzi futuri.

Gli Stati Uniti devono anche rivolgersi ad altri per affrontare i problemi della globalizzazione, in particolare i cambiamenti climatici, il commercio e le operazioni informatiche. Questi richiederanno di non risuscitare il vecchio ordine ma di costruirne uno nuovo. Gli sforzi per limitare e adattarsi ai cambiamenti climatici devono essere più ambiziosi. L’OMC deve essere modificata per affrontare le questioni sollevate dall’appropriazione della tecnologia da parte della Cina, la fornitura di sussidi alle imprese nazionali e l’uso di ostacoli non chiari al commercio. Le regole della strada sono necessarie per regolare il cyberspazio. Insieme, questo equivale a un invito per un concerto dei nostri giorni. Tale chiamata è ambiziosa ma necessaria.

Gli Stati Uniti devono mostrare moderazione e riprendere un certo grado di rispetto per riconquistare la propria reputazione di attore benevolo. Ciò richiederà alcune nette distinzioni dal modo in cui la politica estera degli Stati Uniti è stata praticata negli ultimi anni: per cominciare, non invadere più incautamente altri paesi e non più armare la politica economica degli Stati Uniti attraverso l’uso eccessivo di sanzioni e tariffe. Ma più di ogni altra cosa, l’attuale e riflessiva opposizione al multilateralismo deve essere ripensata. È una cosa che un ordine mondiale può svelare lentamente; è tutt’altra cosa per il paese che ha avuto una grande mano nel costruirlo per prendere l’iniziativa per smantellarlo.

Tutto ciò richiede anche che gli Stati Uniti mettano la propria casa in ordine – riducendo il debito pubblico, ricostruendo le infrastrutture, migliorando l’istruzione pubblica, investendo di più nella rete di sicurezza sociale, adottando un sistema di immigrazione intelligente che permetta agli stranieri di talento di venire e rimanere, affrontando disfunzione politica rendendo meno difficile votare e rovinando il frangente. Gli Stati Uniti non possono promuovere efficacemente l’ordine all’estero se sono divisi in casa, distratti da problemi interni e privi di risorse.

Le alternative principali a un ordine mondiale modernizzato supportato dagli Stati Uniti appaiono improbabili, poco attraenti o entrambe. Un ordine guidato dalla Cina, ad esempio, sarebbe di natura illiberale, caratterizzato da sistemi politici interni autoritari e da economie stataliste che premiano il mantenimento della stabilità interna. Ci sarebbe un ritorno alle sfere di influenza, con la Cina che tentava di dominare la sua regione, probabilmente con il risultato di scontri con altre potenze regionali, come India, Giappone e Vietnam le quali probabilmente avrebbero costruito le loro forze convenzionali o addirittura nucleari.

Un nuovo ordine democratico, basato su regole, modellato e guidato da potenze medie in Europa e in Asia, così come il Canada, per quanto un concetto attraente, semplicemente mancherebbe della capacità militare e della volontà politica interna di arrivare molto lontano. Un’alternativa più probabile è un mondo con poco ordine, un mondo di più profondo disordine. Il protezionismo, il nazionalismo e il populismo guadagnerebbero e la democrazia perderebbe. Il conflitto all’interno e oltre i confini diventerebbe più comune e la rivalità tra grandi potenze aumenterebbe. La cooperazione sulle sfide globali sarebbe quasi del tutto esclusa. Se questa immagine sembra familiare, è perché corrisponde sempre più al mondo di oggi.

Il deterioramento di un ordine mondiale può innescare tendenze che provocano catastrofi. La prima guerra mondiale è scoppiata circa 60 anni dopo che il Concerto dell’Europa era stato demolito a tutti gli effetti in Crimea. Quello che vediamo oggi assomiglia alla metà del diciannovesimo secolo in modi importanti: l’ordine post guerra mondiale, post-guerra fredda non può essere ripristinato, ma il mondo non è ancora sull’orlo di una crisi sistemica. Ora è il momento di assicurarsi che non si concretizzi mai, che si tratti di un crollo delle relazioni USA-Cina, uno scontro con la Russia, una conflagrazione in Medio Oriente o gli effetti cumulativi dei cambiamenti climatici. La buona notizia è che è tutt’altro che inevitabile che il mondo alla fine arriverà a una catastrofe; la cattiva notizia è che è tutt’altro che certo che non lo farà.

 

Macron, il re bambino_di Emmanuel Todd_Traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Todd: “Lo stato non può essere incarnato da un bambino … o Emmanuel Macron è ora visto come un bambino dai francesi”

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Esclusivamente per Atlantico, Emmanuel Todd ci fornisce la sua analisi del fenomeno dei giubbotti gialli. Per lo storico, i Yellow Vests rappresentano una forma di padre collettivo in un paese disorientato da un re bambino.

Atlantico: in un contesto segnato dall’emergere del movimento dei giubbotti gialli, qual è oggi la principale sfida affrontata da Emmanuel Macron?

Emmanuel Todd: Al di là di tutte le politiche economiche, sociali, politiche, europee che sorgeranno nel 2019, che sembra terribile, Emmanuel Macron sarà di fronte ad un problema di legittimità assolutamente nuova. Max Weber aveva usato il concetto di potere carismatico; un individuo, un leader, che affascina in modo subliminale e irrazionale ma che non è necessariamente un dittatore pericoloso. E mi sembra che Emmanuel Macron arricchirà le nostre tipologie del concetto di presidente anti-carismatico. Mi spiego Dobbiamo riprendere la sequenza. C’era un elemento carismatico nell’elezione di Macron, che affascinava le classi medio-alte. Ho visto questo intorno a me. Parlava con un’aria un po’ allucinatoria, in un modo che percepivo assolutamente privo di interesse, ma che, nell’ambiente piuttosto macronista in cui vivo, trasportava le persone. Era percepito come giovane e molto intelligente. Credo che la questione della sua intelligenza superiore sia risolta per tutti, tuttavia ha prodotto una crisi sociale senza precedenti in Francia. Ma rimane giovane. E, infatti, quando sentiamo parlare di lui, dei manifestanti o anche dei giornalisti, è chiaro che ora ha l’immagine di un bambino per tutti noi francesi. “È un bambino” “È un bambino cattivo, viziato.”

La possibilità teorica di un’incarnazione stabile dello stato da parte di un bambino non esiste. Nella funzione di governo c’è la funzione paterna; una banalità che non ha atteso Freud e la psicoanalisi. Il re, il presidente, il capo, devono essere un padre. E oggi siamo in una situazione strutturalmente invertita in cui il leader è un bambino e dove non è impossibile che, simmetricamente, i Gilets Gialli rappresentino una forma di padre collettivo. Perché ciò che colpisce di queste rotonde era l’età delle persone. Erano occupati, tra gli altri, da persone dai capelli bianchi, pensionati, padri nel senso generico del termine. Un paese non può vivere con una sfida che rappresenta un’immagine paterna e un leader che rappresenta l’immagine di un bambino.

Quindi, come si fa a interpretare il fatto di un movimento dagli effettivi contenuti, ma sostenuto da una larga maggioranza della popolazione, in un clima insolitamente violento?

Forse uno dei motivi della loro approvazione generale da parte della popolazione corrisponde al modello di autorità inversa. Se iGiubbotti Gialli sono il padre, allora è normale che essi sono, essi stessi, un potere carismatico collettivo e sono supportati dal 70-75% di opinione. Sono la legittimità. Il modello interpretativo funziona molto bene qui. Spiegherebbe anche la tolleranza per la violenza, la cosa più sorprendente. Sarebbe una forma simbolica di sculacciata politica. Più semplicemente: stiamo vivendo una nuova forma di potere vacante che ha tutti i tipi di applicazioni. Ci soffermiamo sull’autorità implicita dei Giubbotti Gialli, ma si pone anche  la questione di un efficace controllo dell’apparato statale da parte di Emmanuel Macron. Non conosciamo quale sia il suo livello di controllo della forza di polizia i cui leader sindacali vengono ad annunciare il primo atto delle loro rivendicazioni il giorno dopo l’atto quinto dei Gilets. Ricadiamo sull’idea che l’autorità non può essere incarnata da un bambino che a partire dai suoi attacchi verbali contro la gente comune a terra, dal caso Benalla, si è costruito anche l’immagine di un bambino violento.

La sua politica europea è in genere immatura. Emmanuel Macron, con le sue riforme radicali, voleva che i francesi si comportassero come bambini saggi e che i tedeschi gli dessero un buon punto. La politica di Emmanuel Macron è da un capo all’altro completamente infantile. L’attuale dibattito a cui stiamo assistendo sulla resistenza di Bercy rafforza questa immagine di un presidente bambino. Un presidente adulto avrebbe già decimato Bercy.

Vedi questo movimento trovare la via della strutturazione politica?

Al di là di Emmanuel Macron, ciò che abbiamo potuto vedere, specialmente negli spettacoli televisivi, è stato un rovesciamento generalizzato del rapporto dell’autorità intellettuale. Abbiamo visto macronisti, enarchi o meno, deputati LREM, persone con un minimo di istruzione e pulizia su di loro di fronte a Giubbotti Gialli emersi dalla base. Ma era così ovvio che erano più intelligenti e dinamici dei superiori istruiti che erano di fronte a loro! Siamo di nuovo qui davanti a un problema di inversione di autorità. Sono rimasto molto colpito dal livello di coerenza e determinazione di queste persone, tuttavia presentato dal sistema dei media come incoerente e incapace di unirsi. Si potrebbe immaginare l’emergere di un partito politico. Daniel Schneidermann, nei suoi commenti a RT France, tendeva verso questa ipotesi. Ma gli ultimi sondaggi di opinione non evocano questo percorso.

Durante i tuoi primi interventi su questo movimento, hai mostrato dispiacere per il fatto che i giubbotti gialli non attacchino l’Europa. Tuttavia, possiamo vedere che i giubbotti gialli sono sovrarappresentati nei cosiddetti partiti “euroscettici”. Come spiega questo paradosso?

Ho deplorato che i gilet gialli non non mettano sotto accusa direttamente, non solo l’euro come cintura monetaria europea, responsabile di gran parte dei mali dell’economia francese, ma anche l’impossibilità di una protezione commerciale nell’Unione europea. Mi dispiace che non ci sia alcun riferimento all’Europa. D’altra parte, quello che colpiva era l’abbondanza di riferimenti alla nazione rivoluzionaria. C’erano bandiere francesi ovunque, cantavano la marsigliese, c’era una richiesta esplicita della nazione come processo rivoluzionario. Questo è molto importante perché se siamo in un processo di rinascita nazionale, il movimento marcia lui stesso verso lo shock frontale con il concetto europeo.

Qualcosa viene lanciato a un livello ideologico profondo. Penso di essere stato un po’ ingenuo, un po’ techno, nella mia concezione delle cose, dicendo solo che dovevamo uscire dall’euro, che è un discorso tecnico. Quello che sta accadendo è molto più profondo e ci mette in una traiettoria di rottura con l’euro. E, naturalmente, è un processo generale in Europa. Ognuna delle nazioni europee viene rinazionalizzata: i tedeschi hanno iniziato il processo, poi gli inglesi con la Brexit, e oggi gli italiani e i francesi. Lo stile di ciascuno è caratteristico della moltiplicazione delle nazioni. Credo che ciò che dobbiamo integrare in Francia sia questa idea della rinascita della nazione rivoluzionaria.

Non ho una visione astratta delle nazioni, non voglio tornare a un’essenza del popolo come è stato fatto in precedenza in deliri nazionalisti, ma le sottostanti strutture familiari tradizionali, che hanno i loro valori legati al mondo moderno o post-moderno. La Germania rimane condizionata dai valori autoritari e ineguali della famiglia, con la sua primogenitura maschile; il liberalismo inglese si riferisce a una famiglia nucleare individualista che fa ampio uso della volontà; la tradizione rivoluzionaria francese si riferisce alla famiglia nucleare egualitaria del bacino parigino, cioè a una precoce autonomia dei bambini e ad un egualitarismo intransigente delle regole ereditarie. Negli ultimi anni, di fronte ad una inerte Francia, come ferma nella storia, con le sue classi dirigenti germanofile, il suo tasso di disoccupazione del 10%, e la sua popolazione passiva, non ero lontano dall’immaginare che la tradizionale cultura francese fosse morta. Ma il movimento dei Giubbotti Gialli, questa formidabile protesta spontanea contro lo Stato, è il risorgere della potente cultura liberale francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare. Questa formidabile protesta spontanea contro lo stato è la potente rinascita della cultura liberale egualitaria francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare.

Come analizzi le difficoltà della sinistra nell’incarnazione di questo movimento?

Se prendiamo gli ultimi sondaggi per le prossime europee, vediamo il Rassemblement National al 24%, Debout France all’8%, quindi France Insoumise al 9%. Quello che stiamo attraversando, forse per me, è un’altra battaglia persa. Ho combattuto per una rinascita della nazione a sinistra, ma quello che sembra emergere è l’incapacità della France Insoumise di incarnare l’idea nazionale. Si sono appena separati da Djordje Kuzmanovic che ha rappresentato questa corrente sovrana. È davvero triste per me, questa incapacità della sinistra, persino quella contestataria, di incarnare e prendere in mano l’idea di nazione.

Seguendo la logica dell’elezione di Donald Trump o Brexit, è la destra di governo che è riuscita a canalizzare e incarnare quelli che potremmo chiamare i Gilet gialli anglosassoni; questo ruolo dovrebbe quindi spettare a LR?

C’è una generalità occidentale del supporto dell’aspirazione nazionale da parte della destra, con Trump e Brexit per esempio. Ma in Francia, la servitù volontaria delle classi superiori nei confronti della Germania frammenta il modello. I LR mi sembrano sempre più vicini a LREM, probabilmente tentati da una fusione degli europeisti, vale a dire gli anti-nazionali, in un’unica forza. Questo è il significato della consultazione di Sarkozy da parte di Macron prima del suo discorso riparatore ai francesi. Noto di sfuggita che Wauquiez soffre anche della sua immagine di bambino.

Perché oggi solo le forze di destra sono in grado di occuparsi delle aspirazioni popolari? C’è un’apparente contraddizione. Ma tutto diventa sorprendente. La rappresentazione ideologica è vacillante, oscillante. Sentiamo che i giovani sovranisti di destra riprendono un discorso di lotta di classe, parlano come il Marx della “lotta di classe in Francia”. Esiste tuttavia una logica di simmetria nella confusione: la realtà socialista prima di Macron era di persone che si ritenevano di sinistra quando erano di destra. Quindi, perché non ora il contrario? L’assurdo bussa alla porta: la scienza politica avrà bisogno di un’ampia infusione di psicoanalisi, di fantascienza e umorismo.

Quindi ho difficoltà a immaginare una traduzione politica dei giubbotti gialli. Quello che osservo è piuttosto un aumento della sovranità di destra che si incarna nella DLF e nella RN e, incidentalmente, Florian Philippot al suo piccolo livello. Sarebbe pericoloso per gli europeisti rallegrarsi di questo implicito rinnovamento della scissione delle ultime elezioni presidenziali. La situazione diventa così grave che non è più certo che “il bambino” sarà rieletto.

Quali sono le particolarità francesi di questa tendenza “voto Brexit e Trump”?

La più grande di queste è in Francia la violenza dello scontro tra un mondo popolare e di classi medie che aspirano alla rinazionalizzazione e le classi superiori che raggiungono un livello eccezionale di universalismo post-nazionale. Io lo percepisco come una perversione dell’universalismo Francese sostenuto dalle sue classi superiori, un sogno umano universale per i soli potenti. “Educati in alto di tutti i paesi, unitevi!” È, naturalmente, di solito il sogno della globalizzazione, ma è probabile che in Francia, con il nostro concetto di uomo universale, il mito ha preso forme isteriche che si fonde in modo sottile con il nostro bisogno di sottomissione alla Germania. “Uomo universale borghese ben oltre il trauma del 1.940” la strada maestra per una denazionalizzazione della classe dirigente francese. O per meglio dire, il tradimento.

Come anticipi le conseguenze di questo movimento a medio-lungo termine?

Il movimento attuale può portare a qualcosa di diverso da quello che abbiamo vissuto con le elezioni politiche del 2017. L’ortodossia politologica benpensante ci dice: da una parte ci sarebbe una forza fascista xenofoba, il Rassemblement National (RN), e dall’altra una forza democratica, moderata e universalista, l’europeismo. Ma non è la realtà. è ciò che David Adler ha rivelato nel New York Times lo scorso maggio: i centristi sono i più ostili alla democrazia. La realtà del mondo è che le forze europee sono autoritarie e antidemocratiche, i vettori del fascismo 2.0. I referendum sono inutili nell’Unione e il punto di svolta per la Francia in questo campo è stato il 2005. Nel 2018, la personalità di Emmanuel Macron ha svelato una natura autoritaria e violenta dell’europeismo con la pretesa di rappresentare valori democratici e liberali. Il macronismo è un estremismo.

Mi sembra che la polarità che si instaura sia un’opposizione tra la “nazione rivoluzionaria”, con una dimensione xenofoba, evidente nella dottrina del RN “e un” impero autoritario europeo “. Democrazia xenofoba contro sistema imperiale. Nel mio ultimo libro, “Dove siamo? Sono tornato alle origini della democrazia e ho notato che era sempre, in un primo momento, più o meno xenofoba. Un particolare popolo che si organizza liberamente internamente ma contro un altro. Questo era il caso della democrazia ateniese, della democrazia americana, razzista nei confronti dei neri e degli indiani, della proto-democrazia inglese, anticattolica. D’altra parte, l’idea di uomo universale ci viene da Roma, derivata dal principio del dominio imperiale.

La polarità che si sta stabilendo in Europa è quindi un ritorno al punto di partenza. L’impero europeo agita il concetto universale, con la riserva che non tutti gli uomini sono realmente uguali nello spazio europeo. Il voto dei francesi vale meno di uno tedesco, quello di un italiano meno di uno francese, quello greco meno di tutti. Ma l’impero europeo sembra affermare un universalismo senza gradazione nel suo sogno di aprire ai profughi. Ci sentiamo paradossalmente di fronte a un ansia crescente di persone che vogliono un maggiore controllo delle frontiere, contrapposta a un crescente immigrazionismo delle classi istruite. Questa polarizzazione aggiuntiva e totalmente irragionevole è affascinante per lo storico.

Vivremo un incredibile anno 2019. Non sappiamo come cambierà la Brexit, ma è difficile immaginare che gli americani accettino un’Europa dominata dai tedeschi; non sappiamo come andranno le cose anche in Italia. La Francia è paralizzata e la Germania mostra segni di instabilità. La nostra unica certezza è che il tenore di vita continuerà a diminuire per le persone comuni. In tale contesto, si potrebbe davvero imporre l’idea che il vero confronto non sia più tra “fascismo xenofobo” e “democrazia liberale” (l’ortodossia degli ultimi vent’anni), ma tra “democrazia xenofoba” e ” impero autoritario”. E il possibile cambiamento non finisce qui: l’immigrazionismo delle élite, con demografi ufficiali del regime che continuano ad affermare che non vi è alcun problema di immigrazione o integrazione, potrebbe trasformare nelle menti di persone moderate l’originale “xenofobia” del Front National in un legittimo desiderio di un minimo di sicurezza territoriale per la popolazione francese, compresi bambini e nipoti di immigrati nordafricani. Nessuna democrazia rappresentativa è possibile senza un minimo di sicurezza territoriale. Solo l’Impero può far fronte al caos migratorio. E se, inoltre, in un tale contesto, il candidato dell’Impero europeo autoritario ha un’immagine infantile, allora non possiamo escludere la vittoria nel secondo turno delle forze combinate del RN e di Dupont-Aignan.

Quindi escludi l’ipotesi che le élite attuali tengano conto delle aspirazioni delle classi medie e medie?

Considero il peggio, ma ben inteso per evitare il peggio. L’idea che io difendo nel post scriptum al mio ultimo libro è quella di una nuova negoziazione tra la classe superiore e il mondo popolare, conla presa in carico della necessità di nazione da parte delle élite tradizionali. Se cito situazioni di polarizzazione drammatica, è, naturalmente, con la speranza che le persone diventino consapevoli dei rischi e facciano il necessario per evitarli. Sembra, tuttavia, che Emmanuel Macron sia ora un ulteriore ostacolo in questo processo. Ci si chiede se sarà in uno stato intellettuale, psicologico e di legittimità per governare nei prossimi tre anni. Si può sognare un miracolo: lo Spirito Santo che cade su Emmanuel Macron, che capirebbe che dobbiamo uscire dall’euro. Ma non vedo da nessuna parte, né in economia, o nel suo rapporto con Donald Trump, o Vladimir Putin, o il suo approccio alla Brexit, un qualsiasi elemento di flessibilità mentale e originalità. Vedo un elettroencefalogramma piatto. La mia sensazione è che lo shock liberatorio verrà a noi dal di fuori; da un cattiva gestione della Brexit che devasta l’economia europea oppure dalla Germania talmente irrigidita da costringere le classi superiori italiane e francesi alla indipendenza.

Nell’episodio dei Giubbotti Gialli, l’elemento più inquietante è stato l’aumento della violenza da entrambe le parti e la tolleranza della società francese a questa crescente violenza. L’elemento più rassicurante era la simpatia del 70-75% della popolazione per i giubbotti gialli, una simpatia che, a vari livelli, comprendeva ancora l’intera società francese, tutte le categorie sociali, che coinvolgeva persino persone che hanno votato per Emmanuel Macron. Questa solidarietà globale significa che esiste la possibilità di riconciliazione in Francia. La verità della società francese non è l’odio universale. Ma per conseguire una riconciliazione praticabile tra le élite e il popolo, dobbiamo abbandonare gli ormeggi europei, ritrovarci tra francesi, rimboccarci le maniche per riavviare l’economia e la società.

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

È Huawei la prima vittima della guerra economica fra Usa e Cina?, di Giuseppe Gagliano

tratto da https://www.ilprimatonazionale.it/economia/huawei-prima-vittima-guerra-commerciale-usa-cina-99335/?fbclid=IwAR2xuRHH5orSdiqlwcMTj9Myzv0oIbEottR1e-EGUyn1n7jSmatvKuPOS54

Roma, 24 dic – Il gigante cinese delle telecomunicazioni è rimasto così deluso dagli Stati Uniti che pare stia valutando di ritirarsi da questo mercato. Huawei infatti non è la benvenuta negli Usa almeno dal 2012, anno in cui un rapporto del Senato americano indicava delle falle nella sicurezza dei suoi dispositivi. Secondo questo richiamo, inoltre, il gruppo rappresentava “una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti”, senza nemmeno fornire delle prove concrete a supporto delle accuse. Qualche mese dopo, gli sforzi delle autorità americane per impedire a Huawei di accedere al loro mercato sono aumentati. A marzo 2018, i principali operatori e distributori telefonici americani (AT&T, Verizon e BestBuy) si sono arresi alla pressione politica e hanno deciso di non vendere i cellulari o altri prodotti a marchio Huawei. Il gruppo cinese ha rinunciato così a mettere sul mercato americano il suo ultimo modello di cellulare, il Mate 10 Pro. Il vero duro colpo per Huawei è arrivato però ad agosto, con la promulgazione del Defense Authorization Act. La legge vieta alle agenzie governative statunitensi o al personale e alle strutture che desiderano lavorare con il governo di utilizzare i dispositivi Huawei, ZTE o di altre imprese cinesi. I prodotti Huawei e ZTE sono così ufficialmente banditi dal mercato pubblico americano.

A seguire, in altri Paesi alleati degli Stati Uniti, in particolare quelli appartenenti al club “Five Eyes” (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada), si sono moltiplicati i sospetti riguardo Huawei. Il 23 agosto, l’Australia ha dichiarato il divieto a Huawei e ZTE di aprire la loro rete 5G, appellandosi al rischio di spionaggio. In ottobre il Regno Unito ha avviato un’inchiesta per valutare se il Paese fosse “troppo dipendente” da un unico fornitore per le telecomunicazioni. In un Paese dove la maggioranza degli operatori internet utilizza prodotti Huawei, il gruppo cinese sembrava direttamente preso di mira. Il 28 novembre la Nuova Zelanda ha vietato al suo operatore storico, Spark, di rifornirsi da Huawei, citando i problemi di sicurezza legati alla tecnologia 5G. Una settimana dopo anche all’operatore inglese BT è toccato rinunciare al rifornimento da Huawei per le reti 5G, citando nuovamente i problemi relativi alla sicurezza. Il giorno precedente, il titolare dell’MI6 aveva chiesto di punto in bianco ai media di bandire completamente le apparecchiature telefoniche Huawei. Infine, il 7 dicembre, Reuters ha annunciato che anche il Giappone si apprestava a ritirare Huawei e ZTE dal suo mercato pubblico sul 5G.

Le conquiste realizzate da Huawei sui mercati dei vicini alleati degli USA sembrano così franare come un castello di sabbia. L’insieme dei Paesi o delle aziende che hanno deciso di non fare più affari con il marchio cinese motivano la loro scelta indicando i rischi connessi alla sicurezza. Seppur non si citi espressamente il rischio di spionaggio, l’obiettivo sembra proprio quello di dimostrare l’inaffidabilità del gruppo. Nel Regno Unito, BT ha dichiarato che “Huawei rimane un importante fornitore di dispositivi al di fuori della rete principale, nonché un partner prezioso per l’innovazione” e ha anche annunciato di aver già ritirato, come misura di sicurezza, i componenti dello stesso marchio per le reti 3G e 4G. In Nuova Zelanda si cerca di spiegare che “non si tratta del Paese, ma dell’azienda nello specifico” e che sono i proprietari della 5G ad aver creato una rete più vulnerabile ai cyberattacchi… un altro modo per dire che Huawei non si merita fiducia su questo tipo di tecnologie sensibili. Solo l’Australia ha ufficialmente menzionato il rischio di spionaggio stimando che “le implicazioni per i fornitori (dei prodotti per le telecomunicazioni) esposti alle decisioni extragiudiziarie di un governo straniero” costituiscono un rischio per la sicurezza. Le autorità australiane si riferivano all’art. 7 della legge sui servizi segreti nazionali cinesi del 2017, secondo cui tutte le attività imprenditoriali cinesi devono cooperare con l’intelligence del proprio Paese. Huawei ha risposto negando d’intrattenere rapporti con lo Stato cinese.

Un temibile concorrente

Sia che intendano allertare i propri partner dei gravi rischi che corre la sicurezza, sia che vogliano vincere una guerra commerciale, non si può non notare lo sforzo concertato delle autorità statunitensi per indebolire Huawei. Il 23 novembre, il Wall Street Journal ha accusato gli Stati Uniti di condurre una campagna nei confronti di alcuni dei suoi alleati – tra cui l’Italia, la Germania e la Francia – al fine che questi rinuncino alla tecnologia 5G prodotta dall’azienda cinese. In un’intervista rilasciata al Journal du Dimanche il 24 novembre, l’amministratore delegato di Huawei France ha cercato di rassicurare tutti i suoi clienti europei puntando il dito contro le manovre americane: “Lavoriamo da più di dieci anni in Germania e non abbiamo mai avuto il minimo problema, esattamente come negli altri 170 Paesi dove ci siamo stabiliti. Sospetti senza fondamento come questi emergono in un clima di tensioni commerciali e geopolitiche”.

In effetti è difficile non vedere in queste misure un tentativo da parte degli Stati Uniti di indebolire un rivale temibile su un mercato che, peraltro, si prospetta promettente. Un rapporto del Senato americano del 15 novembre dedicava un intero capitolo al dominio cinese sul mercato mondiale del 5G, il quale si può descrivere come un nuovo terreno di guerra economica che va conquistato. Secondo il rapporto, “il governo cinese cerca di superare a livello industriale gli USA per aggiudicarsi una fetta più grande di benefici economici e d’innovazione tecnologica”. Malgrado la concorrenza sleale degli Stati Uniti e il rischio spionaggio, si sottolineava la necessità di superare la Cina.

Le accuse americane coincidono peraltro con i primi lanci delle reti 5G al mondo, i quali hanno avuto inizio negli Stati Uniti nell’ottobre 2018 e che, in Cina e in Europa, inizieranno rispettivamente nel 2019 nel 2025. È così che gli Stati Uniti cercano di sabotare gli sforzi di Huawei, la quale sembrava essere molto favorita in questi mercati. L’azienda, leader del 5G, ha di recente annunciato di aver siglato 22 contratti commerciali per l’installazione di questa rete: è stata l’unica a guadagnare terreno sui mercati nel 2017, passando dal 25 al 28%, strappando il trono ai suoi rivali europei, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. Huawei rappresenta, anche nel mercato del 5G, una minaccia crescente per il gigante americano Qualcomm. L’azienda cinese ha infatti sviluppato le proprie smart card compatibili con la tecnologia 5G, mettendo in pericolo il predominio di Qualcomm, che primeggiava ampiamente sul mercato.

La rimessa in gioco della carta dell’extraterritorialità del diritto statunitense

La campagna di destabilizzazione di Huawei sul mercato del 5G appare come un’ulteriore rappresentazione della guerra economica che Cina e Stati Uniti stanno per scatenare. Dopo aver cercato di gettare fango sulla reputazione del gigante cinese, pare che gli Stati Uniti vogliano passare alla fase successiva. Mentre il 1° dicembre aveva inizio a Buenos Aires il vertice del G20, la direttrice finanziaria cinese Meng Wanzhou veniva arrestata all’aeroporto di Vancouver su richiesta degli Stati Uniti. Meng Wanzhou, che è figlia del capo di Huawei, rischia l’estradizione negli Stati Uniti. Le ragioni ufficiali dell’arresto non sono chiare, ma, secondo Le Figaro, Huawei è accusata di violare l’embargo statunitense contro l’Iran. Lo spettro dell’extraterritorialità del diritto americano sembra così essersi abbattuta nuovamente sul suo avversario economico. Un altro esempio recente si è verificato il 22 novembre, quando la Société Générale si è vista precipitare addosso una multa da 1,35 miliardi di dollari per aver violato gli embarghi americani. Se Huawei verrà condannata, nell’arco di un anno per la Cina saranno due le società di telecomunicazioni – leader nel settore – a essere prese di mira: a giugno 2018, infatti, ZTE è stata accusata di aver violato gli embarghi del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) all’Iran e alla Corea del Nord. ZTE ha dovuto pagare una multa da 1 miliardo di dollari e si è vista imporre la presenza nelle sue sedi di un “compliance team”, una squadra addetta al controllo della conformità, per un periodo di dieci anni.

Rispetto all’arresto di Meng Wanzhou, le autorità cinesi hanno reagito senza celare la collera, pretendendo fermamente la liberazione della cittadina. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il consigliere all’economia alla Casa Bianca ha assicurato che il Presidente Donald Trump non fosse stato informato dell’arresto della dirigente. È quindi così che, durante il G20, si è svolto il tête-à-téte con il Presidente Xi Jinping. Una nota amara che non può accontentare la parte cinese e che sembra suonare la campana a morto per la tregua commerciale tra i due giganti.

Giuseppe Gagliano

ONU e i global compact su migrazioni e rifugiati. Intervista al professor Augusto Sinagra

La firma all’ONU dei recenti compact su migrazioni e rifugiati ha sollevato anche se tardivamente qualche discussione anche in Italia. Un po’ poco rispetto alla rilevanza del problema e all’enfasi e al clamore che ha accompagnato l’impegno di Matteo Salvini in materia di immigrazione sin dalla costituzione del Governo Conte. Il motivo lo si può trovare nell’atteggiamento acritico dell’opposizione e nell’imbarazzo che un tale argomento suscita in un governo composto da forze politiche così diverse. Da qui l’atteggiamento furtivo della diplomazia e  il tentativo di lasciar passare sotto silenzio la posizione italiana. Sarà un tema che comunque non tarderà a conquistare la ribalta. Il professor Sinagra ha offerto le sue autorevoli opinioni sull’argomento. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

GLI STATI UNITI NEL VICINO ORIENTE. ORDINI E CONTRORDINI_intervista ad Antonio de Martini

Trump ha annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria e dall’Afghanistan. Putin ha sostenuto la scelta dell’amico Donald “sempre che riesca a darvi corso”. Un annuncio che ha innescato un ulteriore conflitto all’interno dello staff presidenziale, con le dimissioni del generale Mattis e certamente accelererà le dinamiche già convulse nel Vicino Oriente. Al provvedimento, sempre che abbia seguito, farà certamente da contrappeso qualche compensazione alle vittime designate di questa scelta: parte dei curdi sul campo di battaglia, l’Arabia Saudita di Ben Salman nel contesto geopolitico di quell’area. Non di meno la scelta assume un carattere dirompente. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://www.youtube.com/watch?v=-BUnvgcHFR4&feature=youtu.be

 

SALOMON ON THE POTOMAC. IL PERICOLO SI AVVICINA, di Antonio de Martini

 SALOMON ON THE POTOMAC

Gli USA in Siria erano alleati coi turchi ( NATO) contro il governo siriano; coi curdi contro il daesch e con gli insorti siriani contro Assad.

Problema: i turchi sparavano ai curdi ; i curdi del PKK ai curdi YPG ( Peshmerga) e ai turchi; gli USA contro il daesch che però rifornivano e i siriani sparavano a tutti tranne che agli iraniani che sparavano a chiunque, ma venivano bombardati dagli israeliani.

La Turchia la scorsa settimana ha annunciato che intende ripulire la riva orientale dell’Eufrate fino a Mossul dai curdi di ogni orientamento sparando a chiunque porti insegne curde – come ad esempio i “ consiglieri” USA frammisti si Peshmerga. Lunedì ha annunziato che il dispiegamento delle truppe era pronto e attendevano “ l’ordine politico”.

Problema N 2 : che fare se i turchi sparano agli americani ? Denunciare l’alleanza atlantica ed espellere la Turchia o tradire – sarebbe la quinta volta in trenta anni- i curdi in generale e i Peshmerga in particolare?

Dopo attenta meditazione, Trump ha deciso che la guerra ai jihadisti del daesch era conclusa vittoriosamente e che gli americani potevano quindi ritirarsi dalla Siria.

Così, in un solo colpo, ha tradito i curdi di ogni colore, i residui ribelli siriani del FDS (forze siriane democratiche) e il residuo di immagine che gli USA avevano nel Vicino Oriente.

Conseguenze prevedibili sulla situazione irachena, sull’embargo all’Iran e sulla sorte di Fetullah Gulen, il predicatore considerato l’ispiratore del golpe del 2016 contro Erdogan che potrebbe essere estradato entro breve.

E sui rapporti israelo curdi dato che Israele è il “ main sponsor “ dei curdi.
Dulcis in fundo, ha di fatto ammesso che il daesch è da tempo
una “ quantité négligeable « e che gli USA stavano in Siria principalmente per costituire una minaccia alla sua indipendenza e a Assad.

La narrativa USA sulla Siria costruita dal 2005 politicamente e dal 2011 militarmente, non esiste più.

IL PERICOLO SI AVVICINA

Il Pentagono ha notificato al Congresso USA di aver approvato una vendita da parte della Raytheon di missili antiaerei Patriot alla Turchia per un importo di 3,5 miliardi di dollari.

Il contratto non è firmato, la vendita incerta, ma l’approvazione del Pentagono è definitiva.

Ora la scelta sta ad Ankara.

Le truppe USA ( in pratica una brigata di 2.000 uomini con mezzi pesanti) ha ricevuto ordine di abbandonare il territorio siriano ( andranno probabilmente in Irak) al più presto e il personale diplomatico americano ha ricevuto ordine di evacuazione.

Il portavoce dello SM turco ha annunziato che i Peshmerga che rimarranno sulla riva orientale dell’Eufrate “ verranno sepolti nelle loro buche”.

Anche qui la scelta sta ad Ankara.

Al quadro del rinnovato idillio tra Trump e Erdogan manca solo la consegna di Fetullah Gulen legato mani e piedi.

Certo, il Pentagono ha anche contraddetto il Presidente dichiarando che “ l’ISIS non è stato ancora sconfitto” e tacendo eloquentemente circa il futuro dei Peshmerga.

La ragione l’ho detta nel post di ieri: gli Stati Uniti non possono permettersi di perdere l’alleato NATO che assicura basi e tenuta del fianco destro dell’alleanza che fronteggia la Russia.

Ovviamente non possono permettersi nemmeno di ignorare che con l’iniziativa diplomatico militare russa, lo schieramento è stato aggirato e Putin si è insinuato a Cuneo tra la Turchia e l’Arabia Saudita e gli Emirati.

Manovra speculare a quella americana che dalle basi afgana e irachena chiudono in una morsa l’Iran.

I prossimi trenta giorni saranno decisivi e dipenderanno dalle scelte di Erdogan tra est e ovest.

Ecco perché Putin nella conferenza stampa di fine anno ha evocato lo spettro della guerra nucleare: ricorda ai turchi che , comunque, l’impatto del primo urto toccherà a loro.

PRIMATO ENERGETICO E GEOPOLITICA, di Gianfranco Campa

PER LA PRIMA VOLTA DOPO 70 ANNI GLI STATI UNITI HANNO ESPORTATO PIÙ PETROLIO DI QUANTO NE ABBIANO IMPORTATO.

 In un articolo che abbiamo pubblicato su Italia e il Mondo lo scorso Giugno (https://italiaeilmondo.com/2018/06/10/2155/ ), abbiamo annunciato come gli Stati Uniti siano diventati il primo produttore di Petrolio, Idrocarburi e gas naturale al mondo.

Ebbene la settimana scorsa la EIA, cioe la U.S.Energy Information Administration (https://www.eia.gov/), l’agenzia federale, parente del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che si occupa di collezionare, analizzare e disseminare  tutti i dati pertinenti alle importazioni, esportazioni e produzione su carbone, petrolio, gas naturale, energia elettrica, energia rinnovabile e nucleare, ha divulgato dati importantissimi che dimostrano la crescente potenza energetica degli Stati Uniti.

E ormai confermato che gli Americani sono diventati la potenza energetica principale al mondo e l’ultimo tassello nel consolidamento di questa epocale trasformazione si è avuto nell’ultimo semestre del 2018; per la prima volta dal 1949, cioè quando il presidente Harry Truman era ancora in carica alla Casa Bianca, quasi 70 anni fa, le importazioni nette settimanali di petrolio greggio e prodotti petroliferi sono scese a meno 211.000 barili al giorno (bpd) a fronte di un’impennata delle esportazioni di greggio con il record settimanale di oltre 3,2 milioni di bpd. In altre parole gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di energia, hanno esportato più di quanto abbiano importato.

Sempre secondo i dati forniti dalla EIA, le importazioni nette di petrolio negli Stati Uniti hanno raggiunto un picco nel 2005 di oltre 14 milioni di barili al giorno e da allora sono sono costantemente scese fino a raggiungere, la settimana scorsa il livello più basso mai registrato. Durante questo periodo, la produzione di petrolio negli Stati Uniti è più che raddoppiata, trasformando gli Stati Uniti nel più grande produttore di petrolio e gas naturale del mondo, avanti all’Arabia Saudita e alla Russia.

Questa trasformazione energetica è dovuta a molti fattori, ma soprattutto all’uso della fratturazione idraulica (fracking) conseguente alla perforazione orizzontale che ha permesso di sfruttare i giacimenti del Shale Gas (gas da argille). Il miracolo energetico degli Stati Uniti deve essere quindi ricercato nello sfruttamento dello Shale Gas, ma non solo.

Un altro fattore importante nel determinare la rivoluzione energetica americana va vista nel programma di riforme del presidente Trump. Programma teso a stimolare la crescita economica eliminando regolamenti federali eccessivi e onerosi cha hanno alleggerito l’impatto burocratico nell’industria in generale ma energetica in particolare. Grazie alle politiche di sostegno dell’industria energetica, i produttori di shale continuano a stabilire risultati record, in primis riducendo i costi di estrazione e di conseguenza aumentando l’input di produzione, al punto tale che anche se il costo a barile dovesse scendere a 40 dollari, i produttori americani non perderebbero la loro competitività.

L’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) ha, in gran parte, dettato il mercato del petrolio negli ultimi 50 anni. L’Agenzia internazionale per l’energia, tuttavia, ha recentemente stimato che gli Stati Uniti rappresenteranno quasi il 75% della crescita della produzione petrolifera mondiale da qui al 2040. L’Energy Information Administration prevede che il Shale Gas, solo nello stato del Texas rappresenterà il 50% di tutta la nuova produzione mondiale di petrolio nei prossimi cinque anni. Spinti da questi livelli di produzione, nel 2017, l’economia del Texas è cresciuta più velocemente di qualsiasi altro stato americano, a confronto, fino a due volte e mezzo in più rispetto al PIL registrato all’epoca dell’amministrazione Obama. C’e` di piu! Nel 2017 la produzione di Shale Gas associata a tutta quella del comparto energetico statunitense, ha alimentato la crescita del settore manifatturiero, soprattutto in Texas dove ha significativamente superato la media nazionale. L’aumento della produzione energetica americana ha creato nuovi posti di lavoro, posti di lavoro altamente remunerati. Ma non è solo il Texas a beneficiare di questa rivoluzione energetica; anche stati come la Pennsylvania, il North Dakota, il New Mexico, il Colorado e tanti altri hanno fruito economicamente del boom energetico Americano. I grandi giacimenti nella regione del bacino Permiano, nel Texas e nel Nuovo Messico, passando per la riserva Bakken nel North Dakota, un “serbatoio”  petrolifero di circa 200 mila miglia quadrate di estensione,  fino alla formazione della Marcellus in Pennsylvania, hanno contribuito al miracolo energetico degli Stati Uniti. Come se tutto ciò non bastasse il Dipartimento degli Interni americano ha annunciato, il 6 dicembre scorso, la scoperta del più grande giacimento di petrolio e gas mai visto. Il giacimento è situato nel cosiddetto Wolfcamp Shale e sovrasta il Bone Spring Formation in Texas nonchè nel bacino Permiano del Nuovo Messico. Si stima che il nuovo giacimento contenga 46,3 miliardi di barili di petrolio, 281 trilioni di metri cubi di gas naturale e 20 miliardi di barili di gas naturale per un valore stimato in trilioni di dollari. (https://www.doi.gov/pressreleases/usgs-identifies-largest-continuous-oil-and-gas-resource-potential-ever-assessed )

Secondo l’API (American Petroleum Institute) (https://www.api.org/) per bocca del suo vicepresidente, Erik Milito, ha dichiarato che:  “L’industria petrolifera e del gas naturale statunitense continua a essere all’avanguardia, portando grandi benefici economici, inclusi investimenti e posti di lavoro, in varie comunità sparse per il paese, oltre naturalmente a energia abbordabile e affidabile.. Il Nuovo Messico, per esempio, nel 2015,  beneficiò di oltre 90.000 nuovi posti di lavoro sostenuti dal 13% del suo PIL derivante dall’industria del petrolio e del gas naturale…Tecnologie avanzate e alti standard industriali consentono all’industria petrolifera e del gas naturale di esplorare e sviluppare in modo sicuro e responsabile sia onshore che offshore..”

 

La differenza principale tra produzione tradizionale di petrolio e quella dello Shale Gas è la diversità di accesso alla produzione che, invece delle grandi compagnie petrolifere, vede come attori principali le piccole e medie imprese energetiche. In altre parole i proprietari terrieri trasformati da mandriani a milionari dell’energia nel giro di pochi anni. Una Arabia Saudita agli antipodi; lì i proprietari di dromedari si sono trasformati in sceicchi del petrolio, mentre qui in USA, i Cowboy delle praterie del Dakota in imprenditori del settore energetico.

La notizia che gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di petrolio per la prima volta dopo quasi 70 anni è stata oscurata, la scorsa settimana, dall’incontro dell’OPEC a Vienna, dove i 15 membri e la Russia hanno deciso di tagliare la produzione di 1,2 milioni di barili per i primi sei mesi del 2019.

Gli Stati Uniti erano esclusi dal summit tra i produttori OPEC e non OPEC; ciononostante l’influenza del paese a stelle e strisce sui mercati petroliferi globali è destinata inevitabilmente a rafforzarsi e ad oscurare il cartello petrolifero , come afferma anche l’International Energy Agency (IEA) che nel suo ultimo rapporto ha dichiarato  “Mentre gli Stati Uniti non erano presenti a Vienna, nessuno può ignorare la loro crescente influenza…”  All’incontro dell’OPEC insomma c’era un convitato di pietra, mai nominato, non invitato, ma inevitabilmente presente, soprattutto nei pensieri dei partecipanti al vertice: gli Stati Uniti. Se l’ombra degli Stati Uniti non bastasse, si aggiungono ai dolori dell’OPEC anche la notizia che il Qatar si ritirerà dall’organizzazione. Intervenendo ad una conferenza stampa, il ministro dell’Energia del Qatar, Saad al-Kaabi, ha dichiarato che il paese si ritirerà dall’OPEC dal primo  gennaio 2019, ponendo fine a un’adesione che dura da più di mezzo secolo.

E chiaro che il boom energetico americano crea una serie di problematiche a livello geopolitico non indifferenti. L’OPEC è in fase di declino, gli analisti mettono in discussione la rilevanza a lungo termine del cartello petrolifero in un contesto storico dove gli Stati Uniti assumono un ruolo sempre più importante in quel mercato. Il rapporto tra Stati Uniti e resto del mondo , in particolare gli stati arabi del golfo, verrà senza dubbio influenzato da queste nuove dinamiche economiche-energetiche. Il futuro verrà rimodellato in parte dai cowboys delle praterie americane, trasformati in magnati del petrolio. Se sia una cosa positiva o meno ce lo dirà solo il tempo.

Nel frattempo gli Stati Uniti, ormai secondi al mondo dopo la Cina nel campo delle rinnovabili, stanno comunque sviluppando la produzione alternativa di energie rinnovabili a dispetto della nomea generale diffusa.

Il settore delle energie rinnovabili ha continuato a crescere significativamente nel 2018 nonostante alcune storture di natura burocratica e fiscale. L’innovazione tecnologica legata alla produzione e allo stoccaggio di queste energie sta compiendo passi significativi e progressivi.

Nel frattempo la decisione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo climatico di Parigi, provocò, all’epoca, indignazione tra i politici, la comunità internazionale e gli ambientalisti, definendola una scelta di isolazionismo pericoloso per l’ambiente e di conseguenza per l’umanità.

L’American Enterprise Institute (AEI) analizzando i dati a disposizione, ha pubblicato un grafico che indica come gli Stati Uniti sono leader mondiali nella riduzione di emissioni di carbonio. Dal 2005 le emissioni annue di biossido di carbonio sono diminuite di 758 milioni di tonnellate. Nello stesso periodo, per l’intera comunità Europea, le diminuzioni sono state di 770 milioni di tonnellate. Nel 2017 le emissioni di carbonio negli Stati Uniti sono diminuite di oltre 42 milioni di tonnellate, questo nonostante l’uscita dall’accordo di Parigi. Tra il 2005 e il 2017 le emissioni di anidride carbonica sono diminuite del 12,4% su base assoluta e del 19,9% su base pro-capita. In contrasto la Cina, firmataria di Parigi, si è confermato il paese con le emissioni inquinanti più alte del mondo, emettendo nel 2017, il più alto numero di carbonio nell’atmosfera, accoppiati con l’India hanno rappresentato quasi la metà del totale delle emissioni globali di carbonio.

Qui sotto i link illustrativi delle tendenze in atto:

https://www2.deloitte.com/us/en/pages/energy-and-resources/articles/renewable-energy-outlook.html?fbclid=IwAR0Im0ARrlxluB5oeasJkixoA1zDXvA_yg60cob9WfGO7Rcxw787it4YJO8

https://capitalresearch.org/article/u-s-achieves-largest-decrease-in-carbon-emissionswithout-the-paris-climate-accord/?fbclid=IwAR2m6YBCj0ISubdVrdXF5ryF4Kqpt_8TBdfAxtI-fYLeLDOBZobLC0PNv3A

https://capitalresearch.org/article/u-s-achieves-largest-decrease-in-carbon-emissionswithout-the-paris-climate-accord/?fbclid=IwAR2kJ9xraYo19Lr4eaq30wn_Xa-hF5rl_D149i3Lpz5tZXe6ClFTPfmbvhU

NB_ Il traduttore di google offre una traduzione attendibile in caso di necessità

I NEMICI DELL’EUROPA, di Fabio Falchi_SINTESI DEL MATCH di Roberto Buffagni

I NEMICI DELL’EUROPA

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2018/12/le-improvvide-e-gravi-dichiarazioni-del.html?fbclid=IwAR1lbQ1kqs1rRZo_1QDe14vkea9RFTXBTyMa7zRgQ67Wjb-61rja4UnrlKo

Le improvvide e gravi dichiarazioni del ministro Salvini su Hezbollah e la politica di Israele hanno suscitato il più che comprensibile sdegno di molti italiani (tra cui non pochi sostenitori del “capitano del popolo” leghista), che non sono disposti a tollerare la pre-potenza di Israele (anche se detestano i pregiudizi antisemiti di non pochi che si definiscono  antisionisti), ma hanno pure offerto l’occasione agli “europeisti antiamericani” di sferrare un attacco durissimo contro i populisti e i cosiddetti “sovranisti”. Invero, è particolarmente significativa sotto il profilo geopolitico la posizione di coloro che considerano i “sovranisti” dei nemici dell’Europa (e della stessa Eurasia) più pericolosi dei neoliberali euro-atlantisti. Questa critica del populismo e del “sovranismo” si caratterizza  per la contrapposizione della politica degli Usa a quella della Ue, senza che sia preso in seria considerazione lo scontro in atto ai vertici della potenza d’oltreoceano.

In pratica, gli “europeisti antiamericani” prendono in esame solo un aspetto che contraddistingue oggi lo scenario geopolitico occidentale, ossia il “sovranismo”, sostenuto soprattutto da Trump e Bannon, in quanto si contrappone all’eurocrazia. In questo modo è facile dimostrare che i populisti (compresi i gilet gialli) o i “sovranisti” sono solo dei burattini della Casa Bianca, il cui scopo è mantenere l’Europa “sotto il tallone americano”, facendo a pezzi l’Ue e privilegiando i rapporti bilaterali tra gli Usa e i singoli Paesi europei.

Ovviamente costoro si guardano bene dal prendere in esame la politica degli eurocrati che ha permesso alla Nato di piantare saldamente le tende in Europa orientale o le conseguenze disastrose per l’Europa mediterranea del neomercantilismo (e del nazionalismo!) della Germania o il ruolo della Ue nel golpe neofascista di piazza Maidan, né prendono in esame la politica marcatamente “russofoba” di Bruxelles.

Agli “europeisti antiamericani” è bastato che Macron dichiarasse che per difendersi dall’America (di Trump, non della Clinton o di Robert Kagan!), dalla Russia e dalla Cina (ma senza che egli precisasse come dovrebbe essere questo esercito, chi dovrebbe comandarlo e in funzione di quali interessi dovrebbe essere costituito), per considerare Macron una sorta di “campione” dell’Europa antiamericana, come se il presidente francese (noto idolo dei “bobos” e dei “venusiani” europei per la sua difesa dei “mercati” e del peggiore melting pot) non avesse esplicitamente menzionato la Russia e la Cina tra i nemici della Ue, né fosse il “rappresentante” europeo di quel deep State americano che è così ferocemente ostile a Trump da accusare esplicitamente (Robert Kagan, Madeleine Albright, ecc.) il cowboy della Casa Bianca di essere “fascista” e amico di Putin (“peccato” imperdonabile per i neoliberali).

Non a caso l’Europa che buona parte di costoro hanno in mente è una specie di IV Reich. L’egemonia americana sul Vecchio Continente viene quindi sì criticata ma appunto in un’ottica geopolitica in sostanza non diversa da quella del III Reich. Si capisce quindi che essi vedano nell’Ue “egemonizzata” dalla Germania la possibilità di dar vita ad un nuovo Reich, dopo la catastrofica sconfitta della Germania nella Seconda guerra mondiale, che di fatto portò l’Europa occidentale ad essere dominata dall’America e quella orientale dall’Unione Sovietica. Ma è proprio la “condizione di vassallaggio” rispetto agli Stati Uniti  in cui si trova ancora l’Europa (occidentale e orientale) che impone ai gruppi (sub)dominanti europei (che sono tali in quanto non hanno intenzione di smarcarsi dall’America) di schierarsi dalla parte di Trump o di quella degli americani contro Trump, e che prova che le affermazioni di Macron sulla necessità di un esercito europeo sono mera propaganda euro-atlantista.

Nondimeno, secondo questi “europeisti” (che evidentemente non comprendono bene che cosa implichi la “condizione di vassallaggio” dell’Europa rispetto agli Stati Uniti) pure Macron può essere utile “alla causa”, dato che pare “riprendere” quel progetto di difesa europea (la Ced) che fallì (all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso) proprio per l’opposizione della Francia. Ci si “dimentica” però che la Ced era sostenuta dagli americani, i quali, una volta preso atto del fallimento del progetto di difesa europea (in funzione antisovietica), si adoperarono per far entrare la Germania federale nella Nato (il che portò pure alla nascita del Patto di Varsavia). Ben diversa era la politica di De Gaulle, che aveva compreso che l’europeismo in realtà non era altro che euro-atlantismo (proprio come l’europeismo di Macron). Certo anche la politica di De Gaulle non era esente da gravi difetti (a cominciare da uno sciovinismo anacronistico). Comunque sia, il generale francese non solo riconobbe la repubblica popolare cinese, allacciò rapporti con l’Unione Sovietica, fece uscire la Francia dal comando militare della Nato, si oppose all’intervento americano in Vietnam, criticò la politica di pre-potenza di Israele e contestò l’egemonia del dollaro, ma mirava a creare un’Europa delle patrie, ossia una Confederazione europea, rispettosa della sovranità nazionale dei diversi Paesi europei nonché delle molteplici espressioni culturali che caratterizzano il Vecchio Continente. In altri termini, De Gaulle mirava a smarcare l’Europa non dalla politica di un presidente americano ma dall’America, senza però che l’Europa tornasse ad essere minacciata dalla pre-potenza della Germania.

Questo significa allora che i “sovranisti” hanno ragione? Certamente no, né si possono ignorare i pericoli del “trumpismo”. Ma nella misura in cui la politica di Trump (benché sia detestabile soprattutto, ma non solo, per quel che riguarda il Medio Oriente) manda all’aria i disegni egemonici dell’euro-atlantismo, creando dis-ordine a livello geopolitico e indebolendo i centri di comando della Ue, “apre” nuovi scenari geopolitici, che rendono possibile una ridefinizione della politica dei singoli Paesi europei sia sotto il profilo economico che sotto quello geopolitico.

Tuttavia, il fatto che i populisti non sappiano o non vogliano approfittarne, ma preferiscano svolgere il ruolo di lacchè della Casa Bianca, privilegiando una forma di ottuso nazionalismo (senza comprendere che il multipolarismo rende necessaria una politica imperniata sui grandi spazi) e difendendo l’estremismo sionista, non implica certo che si debba fare l’apologia di un europeismo che è funzionale solo agli interessi dell’oligarchia neoliberale occidentale (ossia a quelli del gruppo dominante d’oltreoceano – che si oppone a Trump – e dei cosiddetti “europeisti”), con buona pace di chi pensa che l’orologio della storia si sia fermato nel 1945. In definitiva, i nemici più pericolosi dell’Europa non sono solo i populisti filoamericani  ma pure gli “europeisti”, che siano o non siano filoamericani, perché sia gli uni che gli altri di fatto “sognano” un’Europa senza europei.

Infatti, essere europei significa in primo luogo non essere sudditi – né dell’impero americano (“trumpista” o non “trumpista”) né del IV Reich né di qualsiasi altro impero – ma essere cittadini di una qualsiasi polis europea.  E ciascuna polis europea è contraddistinta da una storia che non si può comprendere senza comprendere la storia e le civiltà dell’Eurasia. La possibilità che le diverse poleis europee, a differenza dalle poleis dell’antica Grecia, coesistano e cooperino in unico grande spazio, superando definitivamente divisioni e opposizioni “incapacitanti”, non è diversa quindi dalla possibilità che anche l’Europa e l’Asia coesistano e cooperino in un grande spazio eurasiatico.

ROBERTO BUFFAGNI

Sintesi partita: se la UE si complimenta con il governo e accetta il compromesso, segna un punto. Se cerca l’umiliazione, si apre al contropiede (non si sa se poi siamo in grado di giocarlo e farle gol). Allo stato, è una sconfitta simbolica, non decisiva benchè seria. Diventa scontro decisivo solo se lo cerca la UE. Il che la dice lunga sul problema di fondo del governo, che è la mancanza di strategia. Se non hai strategia, l’iniziativa ce l’ha sempre l’avversario, e tu reagisci più o meno ordinatamente. Importante evitare gesti disonoranti irreversibili; salvo quelli, niente è perduto. Ci sono voluti vent’anni per sprofondare, non bastano sei mesi per tornare a galla.

Uyghur: nuovi fronti ad Oriente, a cura di Giuseppe Germinario

Uyghur: Il Partito Islamico del Turkestan, in rotta verso la globalizzazione della lotta, con un focus prioritario, Cina e buddisti.

Fonte: Madaniya, René Naba , 03-12-2018

Questo interessante articolo rivela ormai un dato di fondo. La pressione occidentale rimane costante nelle zone grige, lungo i margini dei confini degli avversari strategici, ma con due pesanti incognite: l’esistenza di zone di contesa lontane  da quei bordi, marginalmente in America Latina e soprattutto in Africa; l’accerchiamento non più di un solo paese, la Russia, ma di un altro colosso, la Cina, suscettibile di produrre e consolidare un sodalizio inedito al centro del continente asiatico con una possibile opzione del terzo gigante, l’India. Come vero collante di questo possibile esito, più che l’insorgenza del movimento islamico integralista prospettata dal saggista, un mero strumento e corollario, potrebbe fungere l’acceso, inedito e feroce confronto politico in corso apertamente da ormai due anni negli Stati Uniti e la conseguente incapacità di individuare ed affrontare con una politica coerente l’avversario geopolitico principale. A  quel punto ci si dovrà chiedere chi saranno alla fine in realtà gli accerchiati. Buona lettura_Giuseppe Germinario

1 – Turchia e Stati Uniti, padrini nascosti della PIT

Dopo otto anni di presenza in Siria, in particolare nel nord, nella zona di Aleppo-Idlib, il movimento jihadista del Turkestan si appresta a dare un impulso trans-regionale alla lotta, al di là della Siria , con obbiettivo prioritario: la Cina.
Tale almeno è la sostanza del discorso mobilitatore del predicatore Abu Azzam Zir tenuto in occasione del Festival Fitr nel mese di giugno 2018, mettendo in evidenza la “ingiustizia” subita dal Turkestan nei suoi due versanti, il versante occidentale ( Russia) e il lato orientale (Cina).

Tuttavia, il progetto TIP potrebbe essere vanificato, da un lato, dal maggiore coinvolgimento della Cina nella guerra siriana e, dall’altro, dalla possibile modifica della precedente relazione strategica tra la Turchia e gli Stati Uniti, due ex soci della guerra fredda, ora in conflitto.
Secondo il discorso del predicatore di Abu Zir Azzam, la mobilitazione verso la Siria è stata congelata. Il Partito islamista del Turkestan (PIT) si prepara a lanciare la Jihad contro i buddisti. I jihadisti uiguri in Siria rimarranno sul posto fino a quando la loro missione non sarà completata, ma le nuove reclute verranno inviate su altri fronti.

Nel giugno 2017, la Turchia e gli Stati Uniti, i padrini occulti PIT, hanno incoraggiato questo orientamento con il pretesto di preservare i combattenti di questa formazione per assegnarli ad altri teatri di operazioni contro gli avversari degli Stati Uniti coagulatisi all’interno dei BRICS (Cina e Russia), polo di protesta per l’egemonia americana nel mondo.

2- La duplicità della Turchia: verso una zona turca in Siria sul modello di Cipro del Nord?

Ansioso di preservare i suoi allievi, “Hayat Al Tahrir Cham”, già Jabhat Un Nosra sotto filiale di Al Qaeda, in particolare gli uiguri del partito islamista del Turkestan, strattonati d’altronde tra alleanze conflittuali, il neoislamista Recep Tayyip Erdogan -Membro del gruppo di Astana (Russia, Iran, Turchia), allo stesso tempo membro della NATO, ha proposto la costruzione di una grande area per ospitare i jihadisti in una zona sotto l’autorità della Turchia per procedere alla cernita tra i gruppi islamici inclusi nella lista nera del terrorismo jihadista e raggruppate sotto la sigla VSO (opposizione siriana convalidato dal Ovest). Un’operazione in linea di principio per consentire all’esercito turco per separare il bene dal male secondo lo schema della NATO.

In altre parole, per liberare i siriani pentiti e per tenere i combattenti stranieri (ceceni, uiguri) sotto il gomito per introdurli di contrabbando in altri teatri di operazioni.

Approfittando del dispiegamento delle forze Usa nel nord della Siria nel perimetro della base aerea di Manbij, così come nella zona di Idlib, la Turchia ha approfittato di questa fase preliminare dell’offensiva per spostare  i suo sostenitori, per lo più uiguri e al Moharjirine (migranti) sotto “Hayat Tahrir come Ham” tendenza salafita jihadista; il gruppo è stato incluso nella lista nera del terrorismo dalle Nazioni Unite nel 2013.
Il presidente russo Vladimir Putin ha dato la sua approvazione alla proposta turca al vertice di Sochi del 17 settembre, ansiosa di preservare la nuova alleanza con la Turchia di fronte a una guerra ibrida da parte degli Stati Uniti.

Il bracconaggio della Turchia è la carta principale della Russia nei suoi negoziati con la coalizione occidentale al punto che Mosca sembra così ansiosa di incoraggiare questa sconnessione strategica dell’asse Turchia Stati Uniti, sino a promettere la consegna del sistema balistico SSS 400 per il 2019.
Ankara spera, nel frattempo, conservando la maggior parte della sua forza di interdizione nella zona, con un obiettivo di fondo teso allo sviluppo nella zona di Idlib di un’enclave turca sul modello della Repubblica turca di Cipro. Per fare questo, si prevede di condurre un cambiamento demografico nella zona in modo da formare una sorta di barriera umana con cittadini siriani sotto la sfera d’influenza dei Fratelli Musulmani considerati come de facto sotto la propria autorità. In questa zona l’ambizione era di concentrare un terreno fertile jihadista da poter gestire secondo le esigenze della propria strategia.
Il DMZ concesso temporaneamente in Turchia si estende su una fascia ampia oltre 15 km lungo il confine siriano-turco nella zona di Idlib, che copre l’area di dispiegamento delle forze curde sostenute dagli Stati Uniti.

Con la disposizione di Sochi, la Russia ha voluto dare tempo per testare le reali intenzioni della Turchia tra cui il modus operandi che utilizza per eliminare, se non almeno neutralizzare “Hayat Al Tahrir Cham”, in conformità con le raccomandazioni dell’ONU che considera “terrorista” il franchise di Al Qaida in Siria.

Manna per la Turchia, la decapitazione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul, 2 ottobre 2018, ha permesso ad Ankara l’avvio della campagna mediatica metodica contro l’Arabia Saudita per assicurare il ritiro di Riyadh dalla gestione del dossier siriano e chiedere, allo stesso tempo, l’inclusione dei jihadisti protetti nella commissione di redazione della futura costituzione siriana dalla quale erano stati precedentemente esclusi.

Il presidente Erdogan ha fatto della guerra in Siria una questione personale, che lo costringe a una certa rigidità sotto pena di sconfessione, non riuscendo a raggiungere un duplice obiettivo: la garanzia di interessi turchi in progetti di ricostruzione in Siria e soprattutto la neutralizzazione politica e militare dei curdi siriani, i protetti degli alleati americani. Una quadratura di un cerchio in modo vizioso che porta la Turchia ad esercitare un ampio strappo al punto di rottura … .. fino al punto di smembramento.

Sulla duplicità della Turchia nella guerra siriana, vedi questi collegamenti:

3- Terminologia marxista come vestizione legale al punto di svolta

L’abito ideologico della svolta del PIT è stato tratto dalla terminologia marxista. Al termine di un dibattito interno di diversi mesi, gli avvocati di questa formazione hanno deciso di dare una dimensione globale alla loro lotta privilegiando il nemico vicino (Cina) a quello lontano (Siria).
La concorrenza giurisprudenziale è stata stabilita tra i prescrittori rivali Abdel Rahman Al Chami, vicino a Jabhat An Nosra, la frangia siriana di Al Qaida e Abdel Halim Al Zarkaoui, vicino a Daech.

– Il discorso mobilitante di Azzam Abu Zir
Il predicatore ha fatto un’irruzione politica sostenuta da un discorso militante in onda in occasione del Festival Fitr nel mese di giugno 2018, mettendo in evidenza la “ingiustizia” subita dal Turkestan nei suoi due versanti , il versante occidentale (Russia) e il versante orientale (Cina). Facendo appello al boicottaggio commerciale della Cina, ha elencato gli abusi storici subiti dagli uiguri cinesi, citando lo “stupro di musulmano” e “l’obbligo di mangiare carne di maiale.”

“Il partito islamico del Turkestan si sta preparando per la Jihad contro i buddisti”, questo link per gli arabi

3- La guerra siriana, il rivelatore del PIT

Se la guerra siriana ha elevato Hezbollah al rango di stratega e spinto la formazione sciita al ruolo di interlocutore diretto del comando militare russo, allo stesso tempo ha rivelato il Partito islamico del Turkestan, come parte del campo jihadista nel campo di battaglia della Siria settentrionale, al confine con la Turchia.

La battaglia per la conquista di Aleppo, nel dicembre 2016, ha così conferito a Hezbollah il ruolo di stratega statuale piuttosto che semplice esecutore della strategia iraniana, un attore maggiore militare contro Israele e la Siria. Anticipando le risposte jihadiste, non esitando a condurre battaglie di strada, la pulizia degli edifici più pulito, Hezbollah ha avuto la consacrazione dei suoi piani di battaglia condotti per otto anni in Siria  nelle accademie militari russo. Un successo ottenuto a costo di pesanti sacrifici.

Il rovescio della medaglia. Diversi leader della formazione, tra cui Moustapha Badredddine, il capo dell’ala militare di Hezbollah, Jihad Mughniyeh, il figlio del fondatore del l’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, Samir Kintar, ex doyen di prigionieri politici arabi in Israele hanno perso la vita in Siria. Nel campo avverso il comandante Abu Omar Saraqeb che ha guidato la più grande coalizione di ribelli e jihadisti in Siria, responsabile della conquista di Jisr Al Shughour, anche, è morto nel teatro delle operazioni come pure Omar Al Shishani, il comandante jihadista del Fronte Nord.

4- Rafforzamento della presenza militare russa e l’importante svolta strategica della Cina nel Mediterraneo

Dal suo intervento militare diretto a sostegno del presidente siriano Bashar Al Assad, la Russia ha aumentato significativamente la sua presenza in Siria, dove ora ha due basi; la base aerea di Hemeimine, a sud-est della città di Lattaquieh e l’importante base navale di Tartous.

Rompendo il monopolio delle aree detenute dalla NATO nella zona dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il sistema di difesa russo include missili da crociera, batterie dei missili S.400 TRIUMPH, con base a Hemeimine, il cui raggio di  azione copre l’intero Mediterraneo orientale (Siria, Turchia, Cipro, Libano Israele), garantendo la protezione di fatto non solo dello spazio aereo della Siria, ma anche della zona di schieramento di Hezbollah nel Libano meridionale.

Allo stesso tempo, la Cina ha stabilito due punti di ancoraggio nel Mediterraneo; Tartous (Siria) e Cherchell (Algeria); una svolta strategica importante del Regno di Mezzo in quest’area dall’inizio dei tempi.

5 – Cina: la Siria, un ricettacolo per il terrorismo globale

Il fermento Jihadista-Uighur in Siria e in paesi lontani dalla Cina ha indotto Pechino, nel marzo 2018, a schierare con discrezione truppe in Siria con il motivo ufficiale di tutoraggio di reparti dell’esercito siriano fornendo loro supporto logistico e medico.
Pechino ha giustificato questo atteggiamento proattivo con la sua connessione ideologica con il potere baathista a causa della sua natura secolare, così come con la presenza nel nord della Siria di un grande contingente di combattenti uighuri.

In tal modo, la Cina mira a fronteggiare i jihadisti Uighur, che vuole neutralizzare dal loro possibile ritorno in Cina, a conferma quindi dei legami tra separatisti islamici nelle Filippine e nel Mayanmar e i gruppi islamici che operano in Siria, come dimostra l’arresto di agenti dello Stato islamico (Daesh) in Malesia nel marzo 2018, a Singapore nel giugno 2018.

La fase di graduale inserimento della Cina nel teatro siriano, dove ha già ottenuto impianti navali nel campo di applicazione della base navale russa di Tartus mira consolidare la sua posizione tra i tre maggiori investitori e finanziatori della ricostruzione in Siria assieme a Russia e Iran.

Oltre a Tartous, la Cina ha costruito la sua prima base navale all’estero in Gibuti nel 2017. Adiacente al porto Doraleh e alla zona libera di Gibuti – costruito dalla Cina-tale base dovrebbe ospitare inizialmente 400 uomini. Ma, secondo diverse fonti, sono circa 10.000 gli uomini che potrebbero stabilirsi lì entro il 2026, quando l’esercito cinese trasformerà questo enclave in un avamposto militare della Cina in Africa.

In seguito all’inaugurazione della base navale cinese a Gibuti, una nave portacontainer gigante ha scaricato materiale per i progetti di ricostruzione siriani il 17 agosto nel porto di Tripoli (Nord Libano).

Con una lunghezza di 300 metri, per una larghezza di 40 metri, la nave portacontainer “Nerval”, appartenente alla società francese CGM-CMA, ha scaricato migliaia di contenitori di materiali dalla Cina e dall’Indonesia, per essere trasportati lungo la rotta verso la Siria.

In sovrapposizione, la Cina ha partecipato alle manovre navali russe al largo del Mediterraneo all’inizio di settembre, le più importanti manovre della flotta russa nella storia navale mondiale. Ha inviato truppe in Siria, per la prima volta nella sua storia nel marzo 2018, per sostenere le forze del governo siriano durante la conquista di Idbib, tra l’altro decrittando le comunicazioni tra i jihadisti uighur al fine di neutralizzarle.

Per quanto riguarda la Cina, la Siria funge da ricettacolo del terrorismo globale, anche per l’interno cinese. Ansioso di alleviare lo sforzo russo e sostenere lo sforzo bellico siriano, la Cina ha concesso un aiuto militare da 7 miliardi di dollari alla Siria le cui forze combattono nella battaglia di Aleppo, i jihadisti uiguri (musulmani di lingua turca nella Cina nord-occidentale), dove circa 5.000 famiglie, quasi quindicimila persone, si trovano ad est di Aleppo.

6- La problematica uigura

L’uso degli uiguri da parte degli americani risponde al loro desiderio di avere una leva contro Pechino, in quanto “la Cina e gli Stati Uniti sono impegnati, a lungo termine, lungo una rotta di collisione.

I precedenti storici indicano che una potenza in ascesa e un potente in declino sono vocati principalmente a confronto “, dice l’ex primo ministro francese Dominique de Villepin, soprattutto in un momento in cui la fase diplomatica internazionale è in fase di transizione verso un mondo post-occidentale. L’obiettivo di fondo è quello di contrastare l’implementazione della “2a strada della seta”.

Musulmani turcofoni, gli Uighur vivono nella provincia di Xinjiang nel lontano occidente della Cina, al confine con otto paesi (Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Tagikistan, Pakistan e India). Molti uiguri hanno combattuto in Siria sotto la bandiera del Turkistan Islamic Party (Sharqi Turkestan), alias Xinjiang, una lotta armata separatista il cui obiettivo è la creazione di uno “Stato islamico Uighur” nello Xinjiang.

I combattenti uyghur sono stati assistiti dai servizi di intelligence turchi per il loro trasferimento in Siria attraverso la Turchia. Questo ha generato tensioni tra i servizi intelligence turchi e cinesi di intelligence con la Cina preoccupata per il ruolo dei turchi nel sostenere i combattenti uiguri in Siria e per il supporto che potrebbero fornire per i prossimi combattimenti nello Xinjiang.

La comunità uigura in Turchia conta 20.000 membri, alcuni dei quali lavorano per l’Associazione di solidarietà e istruzione del Turkestan orientale, che fornisce aiuti umanitari ai siriani e viene osservata dalla Cina. Un video dell’IPO di gennaio 2017 afferma che la sua brigata siriana ha combattuto con il fronte di al-Nusra nel 2013 nelle province di Raqqa, Hassakeh e Aleppo.
Nel mese di giugno 2014, il gruppo jihadista ha formalizzato la propria presenza in Siria: la sua brigata sul posto, guidata da Abu al-Ridha Turkestani, un interlocutore arabo, probabilmente un siriano, ha sostenuto un attacco suicida a Urumqi nel maggio 2014 e un attacco VBIED in Piazza Tiananmen nell’ottobre 2013.

Il gruppo ha giurato fedeltà al mullah Omar dei talebani. Ventidue uiguri sono stati detenuti a Guantanamo Bay e rilasciati per mancanza di prove. Seguendo l’esempio di Emirato islamico del Caucaso, il cui ramo siriano operava sotto Jaysh Muhaajireen Wal-Ansar, il PIT ha creato la sua propria filiale in Siria, che opera in collaborazione con Jabhat Un Nosra tra le province di Idlib e Latakia.

7 – L’ambiente jihadista dell’India e il suo passaggio verso Israele.

La distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei Talebani nel marzo 2001, sei mesi prima del raid dell’11 settembre contro i simboli della superpotenza americana, era un innesco che porta l’India ad abbandonare la sua tradizionale politica di amicizia con il Paesi arabi, in particolare l’Egitto, suo principale partner nel Movimento dei non allineati, per avvicinarsi a Israele.

L’ambiente jihadista in India ha anche portato i suoi leader ad avvicinarsi agli Stati Uniti in un contesto segnato dalla scomparsa del partner sovietico, insieme ad un aumento della cooperazione sino-pakistana che ha portato al trasferimento di tecnologia nucleare a Islamabad e il lancio di un programma nucleare pakistano con sussidi sauditi.

La nuova alleanza con Stati Uniti e Israele è stata suggellata sulla base di una convergenza di interessi e un approccio sostanzialmente simile di paesi che si presentano come democrazie che condividono la stessa visione del mondo plurale, avendo lo stesso nemico comune, “Islam radicale”.
Il riavvicinamento ad Israele ha determinato una normalizzazione delle relazioni israelo-indiano nel 1992 materializzato nella prima visita di un leader israeliano a New Delhi nel 2003, nella persona del primo ministro Ariel Sharon, anno dell’invasione americana dell’Iraq.

La terza potenza regionale con Cina e Giappone, l’India è in una posizione ambivalente nel mantenere stretti legami con le superpotenze per mantenersi nelle prime fila della leadership mondiale, senza allentare i suoi legami. con il Terzo Mondo, di cui è stata a lungo uno dei leader. La sua presenza nei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) risponde a questa logica.

Gli Uiguri, dalla memoria degli osservatori, non sono mai morti per la Palestina. Ma molti sono stati contro la Siria, seguendo una deviazione settaria dalla loro ideologia.

Agli occhi degli strateghi del Pentagono, la strumentalizzazione dell’irredentismo uighur dovrebbe avere lo stesso effetto destabilizzante sulla Cina del jihadismo ceceno sulla Russia di Putin. Ma un possibile aumento del Partito islamico del Turkestan potrebbe avviare una redistribuzione delle carte; le principali vittime potrebbero essere gli stessi jihadisti uiguri, come gli islamisti in Siria.

A voler servire troppo come “carne di cannone” di mercenari in combattimenti decisi da sponsor motivati esclusivamente dalla ragion di stato, il destino degli ausiliari è inevitabilmente segnato: tacchino ripieno di un gigantesco inganno.

8 La defezione di tre paesi musulmani alleati dell’Occidente

Di fronte a una tale configurazione, il Pakistan, pyrotecnico vigile del fuoco del jihadismo globale per decenni sembrava avviare una drastica revisione delle sue alleanze, rinunciando al suo precedente ruolo di guardia del corpo della dinastia wahhabita per un ruolo più gratificante di partner della Cina, potenza planetaria in via di realizzazione, attraverso il progetto OBOR. Due altri paesi musulmani, una volta alleati dell’Occidente, hanno seguito le sue orme: Malesia e, probabilmente, nel medio termine, la Turchia colpita da sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti.

Se l’ipotesi del movimento jihadista antibuddhista dovesse materializzarsi, essa potrebbe avviare una gigantesca  tettonica a placche sino a suggellare un’alleanza de facto tra la Cina e l’India, i due stati continenti di Asia, non musulmani, per sconfiggere l’idra islamista che si aggira intorno a loro.

Fonte: Madaniya, René Naba , 03-12-2018

Heather Nauert. CHI E` LA NUOVA AMBASCIATRICE ALL’ONU?, di Gianfranco Campa

CHI E` LA NUOVA AMBASCIATRICE ALL’ONU?

Il presidente Donald Trump ha annunciato tre nuove importantissime nomine a tre altrettanti importantissimi posti del cabinetto del suo governo. In aggiunta la notizia che il generale John Kelly, capo di gabinetto, lascerà presto la sua posizione anche se non conosciamo ancora il nome del suo sostituto. La prima nomina è quella di Heather Nauert come nuova ambasciatrice all’ONU. Seconda nomina il nuovo Procuratore Generale che prenderà il posto di Jess Sessions, William Barr. La terza nomina quella del  generale a quattro stelle Mark Milley, già Capo di Stato Maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti, a Presidente del Capo di Stato Maggiore Congiunto in sostituzione del generale Joe Dunford, prossimo alla pensione. Del sostituto di Kelly, quando sarà reso pubblico il nome e di William Barr parleremo in dettaglio nei prossimi giorni poiché queste due nomine richiedono un’analisi più minuziosa; vorrei solo soffermarmi su due aspetti importanti del curriculum di Barr: ha prestato servizio nella CIA tra il 1973 e il 1977. La cosa particolarmente significativa è che Barr è già stato Procuratore Generale sotto l’amministrazione di George H.W. Bush (padre, appena morto) dal 1991 al 1993. Perché Trump ha scelto Barr? Quale il significato della nomina di Barr nel contesto dello scontro in atto fra Trump e lo stato profondo? Quale sarà la differenza tra Barr e Sessions? Nella attesa di rispondere a queste domande, ritorniamo alla nomina di Heather Nauert come rimpiazzo della dimissionaria Nikki Haley. È stata la stessa Haley su Twitter a dare il benvenuto alla signora Nauert: “Congratulazioni a Heather Nauert per la sua nomina da parte del Presidente ad ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. Le  auguriamo ogni bene e non vedo l’ora di aiutarla durante e dopo la transizione.

https://twitter.com/nikkihaley/status/1071061683790077953

Heather Nauert arriva dal Dipartimento di Stato dove è stata portavoce prima sotto Rex Tillerson e poi sotto Mike Pompeo. A questo riguardo, annunciando la nomina di Heather Nauert, Trump l’ha così elogiata:  “Ha fatto un ottimo lavoro con Mike Pompeo presso il Dipartimento di Stato”, ha detto ai giornalisti. “È molto talentuosa, molto intelligente, molto sveglia e penso che sarà rispettata da tutti.”

Nauert, 48 anni, è anche sottosegretario di Stato per la diplomazia pubblica e gli affari pubblici. Prima di entrare nel Dipartimento di Stato ha lavorato come giornalista per Fox News e come corrispondente per la ABC News.

Prima della sua carriera da giornalista, Nauert, laureatasi alla Graduate School of Journalism della Columbia University e al Mount Vernon College di Washington, ha lavorato come consulente di un agenzia di assicurazione sanitaria a Washington. I detrattori di Nauert la considerano una bambola bionda di poca intelligenza. Lo scontato stereotipo insomma. Ma per chi la conosce bene la signora Nauert tutto è eccetto una persona stupida. Chi ha avuto modo di frequentare entrambi, sia la signora  Nauert che la signora Haley, Nauert è considerata più  intelligente, forse anche più diplomatica della dimissionaria ambasciatrice, ex governatrice della Carolina del Sud.

Durante il suo mandato, nel Dipartimento di Stato, Nauert ha impressionato per le sue capacità di gestire situazioni di importanza e difficoltà significative, ogni volta che è stata chiamata a farlo.

La signora Nauert non manca ovviamente di collegamenti politici importanti. Se così non fosse, intelligenza e bellezza non servirebbero comunque ad arrivare ai posti così importanti. Infatti Heather Nauert è membro del Council of Foreign Relations (CFR). Sposata inoltre con Scott Norby, direttore esecutivo di Private Credit e Equity per Morgan Stanley, il quale in precedenza aveva ricoperto anche incarichi presso la National Veterinary Associates, la UBS, la Goldman Sachs e Cargill.

La nomina arriva dopo che Nikki Haley ha annunciato in ottobre le proprie dimissioni per la fine dell’anno. Erano originariamente tre i nomi che circolavano tra i principali candidati a  sostituire Haley: Nauert, Richard Grenell e John James. Indipendentemente dalla nomina di questi tre candidati, tutti e tre avevano qualcosa che Nikki Haley non aveva: una incondizionata fedeltà al presidente Trump. Haley era stata ”imposta” a Trump all’inizio del sua mandato, vista la penuria di personale qualificato associato all’allora nuovo presidente, Trump accolse la nomina di Haley suo malgrado, visto che fra i due non è mai corso buon sangue. Infatti Haley è stata uno dei principali oppositori all’allora candidato Trump, incarnando perfettamente una creatura del vecchio establishment. Haley aveva più volte criticato apertamente Trump quando era la governatrice Repubblicana della Carolina, entrando di fatto nei ranghi dei “never trump” come una delle figure principali. Alle Nazioni Unite si è trovata quasi in sintonia con il pensiero geopolitico di Trump, dico quasi ma non sempre, poiché più di una volta i due hanno avuto contenziosi e differenze drastiche, soprattutto per quanta riguarda le politiche verso la Russia.  Fin dall’inizio dell’amministrazione Trump, Haley ha preso una posizione da falco nei confronti della Russia, mettendo a dura prova e probabilmente aiutando a dare un colpo mortale alla ora defunta, nuova distensione, auspicata da Trump durante la sua campagna elettorale.

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Nikki Haley esce, Heather Nauert entra. Cosa cambia nel rapporto tra Stati Uniti, amministrazione Trump e Nazioni Unite? Praticamente niente. La nomina di Nauert arriva in un momento delicatissimo per l’ONU e Trump. I rapporti tra gli Stati Uniti e molti dei rappresentanti dell’apparato dell’ONU, sono a dir poco animati. La linea politica finora tracciata rimarrà quasi la stessa: Pilastri della geopolitica dell’amministrazione Trump, come per esempio l’appoggio incondizionato ad Israele e il sostegno al Regno Saudita in contrasto con un inasprimento dei rapporti con l’Iran, non cambieranno di una virgola. Tra Haley e Nauert l’unica differenza sarà nella misura della loro fedeltà a Trump. Il resto, per noi mortali, cambierà poco o niente.

 

 

 

 

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