DA MAYERLING A MINSK, di Antonio de Martini

DA MAYERLING A MINSK
La guerra si avvicina.
Alle minacce di “ sanzioni economiche mai viste” fatte dai portavoce dell’occidente circa l’Ucraina, la Russia ha risposto, per bocca del suo capo minacciando brutalmente “sanzioni militari”.
Pensando che l’Ucraina sarebbe stata filo russa per sempre, all’atto dello scioglimento dell’URSS, le conferirono la Crimea e un grande stock di armi nucleari pensando di scaricare dei costi.
Ora paventano l’adesione ucraina alla NATO.
La Russia di Eltsin, all’atto della stesura delle intese con gli USA , diede per assodata l’esistenza sempiterna di una serie di protettivi stati cuscinetto appartenenti all’ex patto di Varsavia e non pretese di mettere nero su bianco.
Succede quando si vuole restare nell’ombra e nei negoziati ci si fa rappresentare da un alcolista.
Gli ex paesi dell’est si stanno, ad uno a uno, facendo incantare dall’idea che aderire alla NATO sia lo stesso che aderire all’Europa e con questo si sono fatti sfuggire la possibilità di creare un blocco di stati neutrali in grado di diventare aghi della bilancia.
Pensavano anche loro che non ci sarebbe più stata una rivalità russo americana da arbitrare.
Per ovviare al grande errore di ingenuità commesso, i russi hanno fatto un colpo di mano in Crimea che ha sorpreso gli USA, provocando una crescente aggressività politico-economica ma non militare ( come deciso da Chamberlain contro la Germania nel 36 in attesa di riarmare).
Gli Stati Europei, troppo poco e troppo tardi, vogliono distinguersi dalla NATO creando in esercito europeo distinto.
I russi pensano , come Hitler con Danzica e Saddam col Kuwait, di aver avuto mano libera e progettano un colpo di mano sull’Ucraina o almeno sul Donetz.
Adesso siamo in balia del menomo errore di valutazione di un elenco sterminato di cretini chiamati “ le cancellerie” che hanno una tradizione centenaria di giudizi errati e esiti terribili.
Nessuno invoca più la “ pace in terra agli uomini di buona volontà “.
Anche il Papa divaga sul sociale e i migranti e monta il presepe senza la scritta tradizionale.
Ken Follet, nel suo ultimo best seller natalizio evoca il caso della guerra mondiale per errori che tradiscono le intenzioni, ma nessuno dice che dal 1914 in poi ogni errore fu provocato e sfruttato con abilità per distruggere un rivale ingombrante.

Sulle strategie di approccio alla pandemia da Coronavirus: tiriamo le fila_di Roberto Buffagni

Sulle strategie di approccio alla pandemia da Coronavirus: tiriamo le fila

Cari amici vicini & lontani,

proviamo a tirare le fila di questo enorme pasticcio.

Premessa: lo scritto che segue è interamente congetturale. Non ho informazioni privilegiate, non ho competenze epidemiologiche o scientifiche, non ho il numero di telefono del Fato. Come tutti ho osservato gli eventi, e sulla base delle mie esperienze e riflessioni mi sono fatto un’idea di come e perché le cose sono andate così. Ho cercato di mettermi nei panni di chi ha preso le decisioni rilevanti e di chi vi reagiva, di comprenderne le motivazioni, e di individuare le principali dinamiche psicologiche e sociali che ci hanno condotti qua, a questo tragicomico casino. Quindi, tutto ciò che segue è congettura, e l’esposizione di fatti e loro cause che propongo è soltanto verisimile: verisimile secondo me, ovviamente. Vedete voi se siete d’accordo, in tutto o in parte. Benvenuta ogni critica espressa in forma cortese.

Nel marzo 2020, all’esordio dell’epidemia, ho scritto un breve articolo, I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto1, che con mio grande stupore ha avuto circa un milione (sì, avete letto bene) di letture e una miriade di citazioni sulla stampa, e persino in articoli scientifici.

In estrema sintesi, affermavo che le due polarità di approccio strategico all’epidemia erano:

Stile 1. Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati e si sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione, nessun sistema sanitario essendo in grado di prestare cure ospedaliere all’alto numero di malati che ne abbisognano.

Ratio stile 1: prevenire il grave danno economico che consegue alle misure di confinamento della popolazione, accrescere la propria potenza economico-politica relativa rispetto agli Stati che scelgono lo stile 2, e con un’azione rapida e violenta, cogliere un vantaggio strategico immediato sugli avversari.

Stile 2: Si contrasta anzitutto il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione.

Ratio stile 2: accettare il danno economico temporaneo, e, così proteggendo la propria popolazione, rafforzarne la coesione sociale e culturale, per infondere “uguali propositi nei superiori e negli inferiori” (Sun Tzu) e cogliere un vantaggio strategico di lungo periodo sugli avversari.

Riconducevo infine le scelte di stile strategico degli Stati alla cultura, non solo politica, in essi prevalente.

In contemporanea all’esordio dell’epidemia, accade quanto segue.

Il centro del sistema politico occidentale, gli Stati Uniti d’America all’epoca presieduti da Donald Trump, sceglie d’istinto lo stile 1 (compatibilmente al margine di autonomia decisionale degli Stati, che specie quando siano diretti dai Democrat fanno scelte diverse, più prossime allo Stile 2). Il governo federale tende a ridurre al minimo i confinamenti, senza imporli mai, e incarica i suoi consulenti medico-scientifici di approntare cure efficaci nel minor tempo possibile. Obiettivo principale: garantire il normale funzionamento del sistema economico; obiettivo secondario: ridurre al minimo l’intervento del governo federale nella vita quotidiana degli americani. La ratio culturale è liberal-darwinista: il primo bene da preservare è la libertà individuale, anzitutto la libertà economica di confliggere sul mercato, simbolicamente assimilato alla frontiera, uno dei maggiori miti di fondazione degli USA; il secondo bene da proteggere è l’autonomia degli individui e delle comunità locali dall’invasiva ingegneria sociale del governo federale, connotato tipico dell’avversario politico Democrat, e tradizionalmente odiato dagli elettori del Presidente Trump.

Ovviamente questa scelta strategica ha un costo, e offre l’immagine di uno Stato che non protegge o protegge poco la popolazione dall’epidemia: mentre la funzione primaria di ogni Stato è, appunto, proteggere la sua popolazione. Seguono le elezioni presidenziali, e Trump viene sconfitto con un lieve margine. Egli contesta il risultato, a suo dire viziato da gravi brogli. È probabile che i brogli vi siano effettivamente stati (è un fenomeno ricorrente nel sistema elettorale USA) ma è assai verisimile che l’esito elettorale consegua anche alla sua strategia di approccio all’epidemia da Coronavirus: molti americani che altrimenti avrebbero potuto appoggiare Trump hanno sentito che il Presidente non si curava di proteggerli dal morbo, e quindi non lo hanno votato.

Nel frattempo, in Italia. Nel frattempo in Italia si inaugura un monumentale, tragicomico pasticcio. Anzitutto, i decisori politici si accorgono che non esiste alcun piano nazionale operativo aggiornato, utilizzabile per reagire all’epidemia di un morbo ignoto e molto contagioso, sebbene, grazie al Cielo, esso abbia conseguenze letali molto ridotte. Si accorgono anche che la frammentazione istituzionale introdotta dalla regionalizzazione, che ha affidato alle Regioni le responsabilità sanitarie, ha seminato il caos nella gerarchia delle competenze e delle decisioni in una situazione di emergenza; condizione esiziale in quel contesto, ove il requisito primo per reagire con efficacia e urgenza sarebbe l’unità di comando. Il governo potrebbe legalmente avocarsela, ma non lo fa perché è politicamente troppo debole e teme le reazioni dei presidenti di Regione, molti dei quali appartengono all’opposizione. Preferisce, al contrario, manipolare tatticamente gli eventi e giocare, al pari degli avversari politici, al rimpallo delle responsabilità. La risposta dunque è disorganica, contraddittoria e lenta, ossia l’esatto contrario di quel che dovrebbe essere per circoscrivere e contenere il contagio. L’efficacia delle misure sanitarie dipende, in buona sostanza, dalla qualità professionale e umana dei dirigenti sanitari delle Regioni, e dall’ascolto che trovano presso il personale politico dirigente. Dove i dirigenti sanitari sono competenti e sanno farsi ascoltare, ad esempio in Veneto, le misure adottate in quella fase sono adeguate. Dove i dirigenti sanitari sono incompetenti e yesmen, ad esempio in Lombardia, si verificano veri e propri disastri.

Le forze politiche, dal canto loro, annaspano. Sulle prime, ciascuna forza politica reagisce pavlovianamente incollando i propri slogan preferiti all’emergenza epidemica. Il PD invita ad abbracciare un cinese, tirando in ballo l’antirazzismo. La Lega sbandiera Milano che non si ferma e non si deve fermare, fotocopiando i timori per l’interruzione dell’attività economica della sua base sociale ed elettorale. Eccetera, con più rovesciamenti di posizione bipartisan di 180°; un eccetera che non dettaglio perché appartiene alla storia della comicità (nera) più che alla storia d’Italia.

Quando ormai il contagio è nazionale, il governo centrale e i governi regionali prendono atto di un minimo di realtà, e si accordano per decretare il confinamento della popolazione: un confinamento severo ma non totale. È l’unica misura possibile nell’immediato per prevenire un collasso del sistema sanitario, altrimenti certo, perché il morbo è molto contagioso, i ricoveri ospedalieri specie in terapia intensiva e sub-intensiva sarebbero percentualmente troppi se il contagio dilagasse, e ovviamente manca esperienza clinica di cura del Covid19. Il disordine istituzionale si rivela endemico come il Coronavirus; l’apparato amministrativo è poco flessibile e articolato; il ceto politico, per inveterata abitudine, si limita a promulgare provvedimenti e non sa seguirne e verificarne la concreta attuazione. Non viene predisposto niente in merito alle cure domiciliari. Non viene predisposto un piano logistico per l’approntamento di padiglioni ospedalieri dedicati al solo Covid19, sia mediante precettazione di strutture già esistenti, sia mediante costruzione di ospedali da campo (l’esercito sa costruire in una settimana un ospedale da campo in zona di guerra). Soprattutto, non viene trovata l’unità di comando, ma il blando surrogato di una “cabina di regia”, all’interno della quale non si accomodano Stanley Kubrick, Federico Fellini o Martin Scorsese, ma mestieranti buoni per i B movies. La popolazione nel suo insieme si sottomette al confinamento volentieri, con disciplina, perché riconosce l’effettiva necessità della misura e si attende che produca il ritorno alla normalità, come ostendono dai balconi d’Italia gli striscioni casalinghi che profetizzano “Andrà tutto bene”.

Nel contempo, nel “sovranismo” italiano (e non solo italiano), una quota della popolazione significativa (v. votanti per M5* e Lega nelle ultime elezioni politiche), si diffonde un altro morbo, stavolta psichico: l’irrazionalità. Salvo eccezioni individuali, anche numerose ma non organizzate, molti “sovranisti” cortocircuitano le misure di confinamento della popolazione dettate dallo stato di emergenza sanitaria con una tendenza – beninteso reale e importantissima – della società occidentale odierna. È la tendenza verso il controllo tecno-burocratico, legittimato su basi scientiste; in due parole, la “gabbia d’acciaio” weberiana che si fa sempre più fitta e oppressiva, erode le basi reali delle Costituzioni democratiche, invade le vite personali degli individui, impone i propri ukase come uniche scelte razionali possibili. Da questo cortocircuito nascono spassose antropomorfizzazioni (Cupolone Mondialista che ti imporrà il chip sottopelle e ridurrà del 50% la popolazione mondiale) escursioni nell’escatologia (inaugurazione dell’Apocalissi, protagonisti Papa Francesco e Soros) secche negazioni della realtà effettuale (il Covid19 non esiste o al massimo è una blanda influenza o è stato diffuso intenzionalmente dai powers that be) e un ampio ventaglio di combo tra queste ed altre simbolizzazioni deliranti della situazione reale; alcune delle quali, generate da persone intelligenti e immaginose, non prive di valore come spunto per la fiction letteraria e televisiva.

In effetti, Thomas Mann prese lo spunto per scrivere La montagna magica da una sua visita a Davos, per accompagnare la moglie che si recava in sanatorio per un periodo di cura. Il direttore lo invitò a fermarsi anch’egli per un po’, che male non faceva, ma Mann si rifiutò. Rientrato, certo si chiese: “Che sarebbe accaduto se mi fossi fermato lassù?” Risultato, il celeberrimo romanzo filosofico, dove nella cornice di una casa di cura per malattia epidemica qual era la tubercolosi, si mette in scena la crisi cruciale d’un’intera civiltà. Come si vede, il cortocircuito simbolico dei “sovranisti” e il cortocircuito simbolico di Mann funzionano esattamente allo stesso modo. Il risultato però è diverso perché a) l’analisi di una realtà effettuale e la sua trasposizione letteraria rispondono a diverse categorie di verità e di senso b) Mann non perde mai il controllo razionale sul materiale simbolico incandescente che mette in forma, i “sovranisti” invece lo perdono eccome. Ne consegue che La montagna magica è molto utile per capire la realtà storica (oltre ad essere altre cose, per esempio un capolavoro della letteratura), mentre le simbolizzazioni deliranti dei “sovranisti” aumentano la confusione e basta. Le rare eccezioni individuali che non perdono la testa provano a richiamare alla realtà i girovaghi, ma non ci riescono perché quando si inizia a delirare non si riceve più la lunghezza d’onda della ragione, e per risintonizzarsi ci vuole lo scossone di un impatto frontale con la realtà.

Dopo la sconfitta di Trump, sale al centro decisionale USA il partito progressista Democrat. Grazie al confinamento, attuato in diversi Stati dell’Unione, e ad altri fattori quali la stagione calda, l’epidemia di Covid19 pare regredire. I consulenti medico-scientifici del governo statunitense, tra i quali in prima fila organizzazioni internazionali quali l’OMS, presentano ai decisori politici, in buona sostanza, un solo rimedio all’epidemia: il vaccino, ossia la specifica risposta tecnica richiesta con insistenza dalla precedente presidenza Trump. Tutte le nazioni industrializzate, occidentali e no, hanno lavorato all’approntamento di un vaccino, che, se efficace, sarebbe in effetti la soluzione più rapida e radicale del problema Covid19. Ovviamente, visti i tempi ristrettissimi, è impossibile sapere con certezza sia quanto siano efficaci i vaccini, sia quali siano i loro effetti collaterali indesiderati, gravi e meno gravi. È notevole il fatto che la principale industria produttrice di vaccini, la Merck, abbia scelto di non ricercarne uno, e di incaricare invece il proprio reparto Ricerca e Sviluppo di mettere a punto farmaci per le cure. O meglio, il fatto sarebbe notevole, ma non viene notato dai decisori politici.

Al decisore politico centrale del sistema politico occidentale, gli Stati Uniti d’America, viene dunque presentata dai consulenti una sola opzione tecnica: vaccinare. Il decisore politico, per adottare la strategia di risposta al morbo, deve rispondere alle seguenti domande:

  1. allo stato degli atti, si può avere la certezza che il vaccino eradicherà il morbo? La risposta razionale è: “no”.

  2. allo stato degli atti, si può avere la certezza che il rapporto rischi/benefici del vaccino sia favorevole sempre e per tutti? La risposta razionale è “no”. Si può avere la ragionevole certezza che il rapporto rischi/benefici del vaccino sia favorevole per le categorie di popolazione che il morbo più mette a grave rischio (es., i vecchi, o chi sia affetto da particolari patologie), non si può averla per gli altri.

Il decisore politico deve inoltre tener conto di tre obiettivi politici per lui importanti:

  1. garantire il funzionamento del sistema economico e il ritorno alla normalità nel più breve tempo possibile

  2. far sentire protetti dal morbo i cittadini americani, così differenziandosi dall’avversario politico che ha scontato il proprio opposto approccio strategico all’epidemia

  3. riaffermare la primazia culturale e politica degli Stati Uniti d’America come paese-guida del mondo intero in un periodo di crisi imperiale, obiettivo che presenta il vantaggio collaterale di un’ulteriore differenziazione rispetto all’avversario politico interno Trump, e alle sue velleità isolazioniste.

Il decisore politico statunitense coglie immediatamente l’importanza dei tre obiettivi politici principali c), d), e); e, forse perché deve rispondere sotto la forte pressione dell’urgenza, non presta la dovuta attenzione alle due domande, a) e b), che dovrebbero guidare la sua scelta; o non le prende in considerazione, o le prende in considerazione senza riflettervi seriamente, rispondendosi “sì, all’incirca, più o meno”.

Questo è un fenomeno ricorrente nella formazione delle decisioni politiche difficili e urgenti, che devono sempre semplificare tanto la scelta, quanto l’enorme quantità di informazioni disponibili, e devono per di più mediare la pressione dei grandi interessi politici ed economici che si affollano intorno al decisore. La fretta poi è la peggiore delle consigliere: una delle raccomandazioni consuete ai generali responsabili di decisioni strategiche urgenti in tempo di guerra è di concedersi sempre un tempo di riflessione, per lasciar decantare le emozioni, e analizzare razionalmente la congerie di stimoli e informazioni che li assalgono.

Fatto sta che il decisore politico centrale del sistema occidentale prende una decisione sbagliata, questa:

  1. l’unica strategia di risposta all’epidemia è il vaccino (ovviamente, il nostro vaccino)

  2. il vaccino garantirà il pieno ritorno alla normalità: ossia, l’eradicazione del morbo, anche se questa non viene promessa esplicitamente; si promette per un po’ l’immunità di gregge finché non balza agli occhi che è impossibile ottenerla perché il virus continua a mutare

  3. essendo l’epidemia una pandemia mondiale, ed essendo necessario garantire le comunicazioni globali per un ritorno alla piena normalità, la strategia di risposta al morbo dovrà essere mondiale

  4. dunque, dobbiamo vaccinare tutto il mondo, e lo vaccineremo.

Ora, già solo menzionare l’obiettivo di vaccinare tutto il mondo è un forte segnale di irrazionalità, perché nella pratica è impossibile. Si può vaccinare molto, moltissimo, ma non si può vaccinare tutto il mondo perché in vaste plaghe della Terra non ci sono le condizioni politiche e tecniche minime per vaccinare tutti; e se il vaccino non protegge al 100%, per riaccendere un focolaio di contagio, anche in un paese dove sia vaccinato il 100% della popolazione, basta l’ingresso di una sola persona contagiosa. Che il vaccino non protegga al 100% i vaccinati era già noto al decisore. È poi impossibile sigillare le frontiere e prevenire l’infiltrazione di singole persone.

In sintesi, e omettendo per brevità altre considerazioni: la strategia di eradicazione del morbo è irrazionale. La strategia razionale è, o meglio sarebbe, una strategia di contenimento del morbo, che si articoli su varie risposte flessibili: vaccino per le categorie di popolazione che presentano un rapporto rischi/benefici favorevole; intensificazione della ricerca e sviluppo delle cure; approntamento di padiglioni ospedalieri dedicati al Covid19; continuazione e intensificazione della ricerca e sviluppo sui vaccini; immunità naturale che si estende nelle categorie di popolazione a minor rischio, non vaccinate; varie ed eventuali.

La razionalità, però, è spesso fuori stanza quando entrano in ufficio obiettivi politici importanti, e riflessi condizionati culturali decisivi. Nel caso presente, il riflesso condizionato decisivo è l’asserzione della potenza culturale, tecnica, scientifica, degli Stati Uniti d’America, la riaffermazione della loro egemonia sul mondo intero, la prova della loro fiducia in se stessi e nella loro capacità di fare cose apparentemente impossibili, nella loro cultura del “can do”.

A questo punto, il dado è tratto. I consulenti del decisore centrale statunitense hanno ricevuto, forte e chiaro, il messaggio di quel che il decisore desidera sentirsi dire; e com’è naturale, quasi tutti glielo dicono. Non hanno bisogno di mentire, per dirgli quel che vuole sentire: il vaccino esiste, effettivamente funziona, ed effettivamente non risultano, nell’immediato, vistosi effetti collaterali indesiderati. Va appena rilevato, di passaggio, che incoraggiano questo atteggiamento dei consulenti i grandi interessi economici in ballo, e il coinvolgimento personale in essi di non pochi tra i consulenti di più alto livello, che sono in numero assai ristretto. Nella comunità scientifica, chi solleva dubbi viene zittito dal rumore di fondo dell’opinione dominante, o, più spesso, si zittisce da solo per non subire ripercussioni.

Quindi si procede a carrarmato nel perseguimento dell’obiettivo “vacciniamo tutto il mondo eccetera”. Fa presto capolino la realtà, e segnala i limiti – già noti o facilmente prevedibili – dei vaccini (durata limitata della copertura, possibilità che anche i vaccinati contagino, effetti collaterali indesiderabili, a volte gravi). La realtà segnala anche i limiti della politica di vaccinazione totale: già difficile nei paesi centrali, è impossibile nei paesi periferici.

I decisori non colgono le segnalazioni della realtà se non per modificare lievemente, introducendovi varianti marginali, la loro narrazione, che in sintesi dice: “Questa è l’unica via, c’è qualche ostacolo lungo il percorso ma lo supereremo insieme grazie alla scienza che è cosa nostra.” I decisori non impongono per legge l’obbligo vaccinale ma un sistema di punizioni crescenti, in buona sostanza ricatti, che chiamano Green Pass; sia per adesione irriflessa al loro economicismo (il Green Pass è mutuato dalla teoria del nudge, o spintarella, nata in ambito economico e premiata col Nobel), sia per rendere se non impossibile, almeno difficilissimo ottenere risarcimenti danni in caso di effetti collaterali gravi del vaccino: così manlevando insieme se stessi, gli Stati che dirigono, i loro consulenti tecnici e le case produttrici del vaccino.

La larga maggioranza delle popolazioni occidentali presta fiducia ai decisori politici, e si sottomette di buon grado al Green Pass, perché quando sono in gara la libertà e la sicurezza, la sicurezza inizia la corsa con un vantaggio incolmabile; e perché i decisori godono di un altro vantaggio incolmabile, il controllo dei media, che se non vengono costantemente alimentati dai decisori con le comunicazioni istituzionali non sanno più cosa raccontare 24/7.

C’è una quota, non trascurabile, di dissenzienti. All’interno di questa quota di dissenzienti, ci sono ovviamente, in prima fila, i “sovranisti” che già all’esordio della pandemia avevano cortocircuitato la realtà con la loro simbolizzazione delirante, e che ora vedono confermate tutte le loro previsioni di controllo totalitario. Essi dunque pensano di aver sempre avuto ragione, e riprendono con rinnovata lena i loro viaggi psichici nella twilight zone. Le individualità che all’esordio dell’epidemia avevano cercato di richiamarli al realismo constatano anch’essi sia gli errori della strategia di eradicazione del morbo, sia le distorsioni autoritarie nella struttura istituzionale e giuridica da essa occasionate, sia il silenziamento attivo o passivo delle voci che, nella comunità scientifica e nell’accademia in generale, avanzano obiezioni, dubbi, accuse. Protestano, cercano di farsi sentire. Vengono invitati a dibattere sui media, perché lo spettacolo vive sul conflitto e i media vivono sullo spettacolo. Qui però i loro avversari hanno gioco facile a confondere, in buona o malafede, le loro contestazioni razionali con le contestazioni deliranti degli altri dissenzienti. Risultato: anche chi abbia abbondanti qualifiche e notorietà personale e argomenti razionali fa la figura dell’imbecille e/o dell’incompetente e/o del mattoide, e non esistendo alcuna forza politica organizzata rilevante che traduca le contestazioni ragionevoli in opposizione, contano zero. Molti dunque abbandonano la contestazione, per disgusto o perché cominciano a chiedersi “Chi me lo fa fare?”

Questa situazione si diffonde, a cascata, dagli USA a tutto l’Occidente. Ragioni:

  1. i consulenti principali del decisore politico sono le organizzazioni internazionali. Fatta una scelta al centro dell’organizzazione, salvo sua strepitosa erroneità essa viene replicata nelle sedi periferiche, perinde ac cadaver. I dirigenti di grado più elevato, in contatto diretto con la sfera decisionale, sono molto pochi e hanno interesse a conservare buoni rapporti con i decisori. Dire a qualcuno “Guarda che ti sbagli” su argomento delicatissimo può avere effetti collaterali indesiderabili.

  2. Gli Stati clienti degli USA, tra i quali l’Italia, si guardano bene dal contestare le scelte strategiche del centro imperiale, perché scegliere audacemente un’altra via sarebbe una critica implicita al centro. Di fatto non ci pensano neppure, sia per inveterata abitudine, sia perché un eventuale maggiore successo di strategie alternative farebbe perdere la faccia al decisore centrale, con serie ripercussioni per l’audace innovatore.

  3. L’impostazione culturale di fondo, economicista e scientista, è la stessa al centro e in periferia.

Ciò che basta e avanza perché si proceda imperterriti per una via che – diventa ogni giorno più chiaro – è sbagliata, all’inseguimento di un obiettivo che – diventa ogni giorno più chiaro – è irraggiungibile: perché eradicare il morbo è impossibile, vaccinare il mondo è impossibile. È invece, o meglio sarebbe, possibile contenere il morbo, adottando un’opportuna strategia di contenimento, riduzione del danno e convivenza con il Covid19, flessibile e differenziata. Però non si adotterà mai, in un futuro prevedibile, perché i decisori occidentali tutti hanno investito un enorme capitale politico nella strategia di eradicazione, i dissenzienti non sono organizzati politicamente, e ci sono colossali interessi economici a favore della strategia sbagliata.

Non c’è niente di strano. È già accaduto molte volte che i consulenti tecnici abbiano dato una spintarella alla realtà per dire ai decisori quel che preferivano sentirsi dire. Nella Prima Guerra Mondiale, per esempio, il responsabile dell’intelligence militare britannica mitigava sistematicamente le spaventose perdite subite nelle sue relazioni al comandante in capo sul fronte francese, generale Haig; e si giustificava con la necessità di non scuotere i nervi del decisore. La realtà dei fatti riuscì a far capolino, e a modificare l’approccio operativo di Haig, solo dopo due anni e mezzo: quando un giovane capitano, di fresca nomina al comando dello staff dell’intelligence militare, rientrò a Londra in licenza. Il giovane capitano, un figlio naturale di re Edoardo VII che in seguito avrebbe diretto per vent’anni il Servizio Segreto, disponendo di entrature privilegiate poté far sapere alla famiglia reale e allo Stato Maggiore Imperiale come stavano le cose.

Di recentissimo c’è stato l’esempio preclaro della guerra in Afghanistan. La guerra in Afghanistan è stata decisa per ritorsione all’attacco contro le Twin Towers (i Talebani avevano dato ospitalità al presunto responsabile). Duemilacinquecento anni di storia militare suggerivano che l’occupazione dell’Afghanistan era un obiettivo irraggiungibile. Obiettivo raggiungibile sarebbe stata una spedizione punitiva: si colpisce duramente, si dichiara vittoria e si rientra, abbandonando l’Afghanistan a se stesso, come sempre è stato e sempre ha voluto restare. Però una serie complessa di fattori culturali, politici, economici, psicologici, non interamente decifrabile neppure ai decisori, ha condotto gli Stati Uniti d’America alla decisione clamorosamente sbagliata di occupare l’Afghanistan, e di impiantarvi un regime democratico totalmente alieno alla cultura di quelle lande.

Fu subito chiaro a chiunque ne sapesse qualcosa, persino a me che non sono von Clausewitz, che proponendosi quell’obiettivo strategico ci si condannava a combattere una guerra persa in partenza: ma ormai la decisione era stata presa, con tutta la zavorra di immenso capitale politico speso e formidabili interessi economici che essa trascinava con sé.

Tutti i comandanti in capo della coalizione a guida americana che si sono succeduti nel corso di vent’anni hanno avuto chiaro, appena messo piede colaggiù (e anche prima di partire, secondo me) che vincere con quella strategia era impossibile. Nessuno lo ha detto chiaramente ai decisori politici. Nessuno, se ci ha provato ed è rimasto inascoltato, si è dimesso. Uno solo, il generale McChrystal, ha dato voce a serie obiezioni ed è stato rimosso. La guerra è andata avanti per vent’anni, con un costo terrificante di vite perdute, e immani danni materiali e politici; fino a quando la realtà, con l’ausilio del tempo che è galantuomo ma non ha fretta, è riuscita a farsi valere, e gli USA hanno deciso il ritiro (eseguendolo male).

Quanto ci vorrà per correggere la rotta sbagliata, nel caso della pandemia da Covid19? Non lo so. Direi un bel po’. Dice il nostro Presidente del Consiglio che difenderemo la nostra normalità “con le unghie e con i denti”. Le unghie e i denti però non servono a niente contro il Covid19. Servirebbe la ragione, e magari anche l’indipendenza di pensiero. Chissà se le troveremo sotto l’albero di Natale.

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas, di Andrea Muratore

Le conseguenze di un paese preda di fondamentalismi e di condizionamenti esterni. Il caro bollette e la crisi energetica non sono conseguenze di un fato avverso, ma di scelte politiche nefaste nella loro continuità e perseveranza_Giuseppe Germinario

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas

La scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici

Un danno economico, un errore politico, un errore strategico: la scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici. Gli errori del Conte I non sono stati sanati dai giallorossi e dal governo Draghi, almeno fino ad ora. E da Ravenna un attento consigliere regionale avverte sugli effetti a cascata per l’economia nazionale.

Un Paese in bolletta

Al cavallo tra l’estate e l’inverno, tra settembre e ottobre del 2021, l’Italia è la nazione che ha sperimentato i maggiori aumenti nella spesa dei cittadini e delle imprese per le bollette energetiche,   sulla scia della convergenza tra crisi dei rifornimenti e pressioni inflazionistiche. I dati di Energy Live, infatti, segnalano che Roma, già in testa alla classifica del costo in termini di euro per megawatt/ora nel mese di settembre, ha accelerato la sua spirale a ottobre, passando in meda da 158,59 €/MWh a 217,63 €/MWh (+37,22%), un aumento che batte quelli di Spagna (a ottobre 199,90 €/MWh, +28%), Francia (172,58 €/MWh, +27%) e Germania (139,59 €/MWh, +8,74%).

L’Italia alla canna del gas

La crisi dell’energia colpisce i cittadini, le imprese e i consumatori a più livelli in un Paese che è importatore netto di materie prime come il nostro: nel consumo privato, alla pompa di benzina, nelle filiere produttive dalla generazione al consumo finale, sulla scia delle tensioni finanziarie e borsistiche. Ed è a dir poco tafazziano il fatto che nel nostro Paese l’avvicinarsi di quello che potrebbe essere un inverno dello scontento sul fronte energetico vada di pari passo con la paralisi di ogni discussione sullo sfruttamento a pieno regime dell’energia che potrebbe essere il vero e proprio volano di una, almeno moderata, riduzione del fardello: il gas naturale.

Riserve di gas ai minimi già dallo scorso inverno

Martedì 30 novembre il prezzo del gas ha subito una nuova impennata: i future sul metano contrattati alla Borsa di Amsterdam, punto di riferimento per il gas europeo, hanno toccato un massimo di 101 euro. Come riporta Panorama, infatti, “l’’Europa nord-occidentale è stata colpita da ripetute ondate anomale di freddo. Di conseguenza, il volume di gas in stoccaggio nei 27 paesi dell’Unione europea e in Gran Bretagna è sceso dell’equivalente di 58 terawattora (TWh) rispetto all’inizio di ottobre, uno dei più grandi prelievi dell’ultimo decennio. Il problema è che le scorte di gas erano già ai minimi lo scorso inverno, con volumi al livello più basso dal 2013, secondo Gas Infrastructure Europe. E la situazione delle scorte non è migliorata nei mesi successivi”, creando un effetto-valanga che si è ripercosso sui prezzi.

Danni autoinferti con la ripresa della domanda

L’Italia, in questo contesto, è come un ciclista esposto al vento in discesa. Nel 2020, i consumi di gas naturale in Italia sono diminuiti del 4,2% rispetto al 2019, per un totale di 70.651 milioni di metri cubi standard (Smc), rispetto ai 73.770 milioni di Smc dello scorso anno), ma se da un lato nel 2020 le importazioni totali sono state del 6,4% inferiori a quelle del 2019 (pari a 65.855 milioni di Smc, contro 70.356 milioni nel 2019), dall’altro la produzione nazionale è scesa del 15% circa (per un totale di 3.842 milioni di Smc). La ripresa della domanda nel 2021 e la crisi energetica hanno rimesso in campo la questione della necessità di sfruttare la generazione nazionale.

Il Pitesai ostacola lo sfruttamento dei giacimenti nazionali

Dal 2018, quando con il governo Conte I il Movimento Cinque Stelle e la Lega decretarono il rallentamento delle trivellazioni, il problema dell’estrazione nazionale, soprattutto offshore, è diventato annoso. Il Pitesai, «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee», il piano introdotto nel 2018 ufficialmente come piano regolatore delle trivelle è diventato nella realtà uno strumento per impedire in modo discreto lo sfruttamento dei giacimenti nazionali. Nel gennaio 2019, in particolare, su iniziativa grillina i gialloverdi introdussero una norma che vincolava esplicitamente le ricerche di nuovi giacimenti all’approvazione del Pitesai. Essa sarebbe dovuto arrivare dopo 18 mesi, ma ancora non se ne sa nulla: l’ultima scadenza, dopo alcune proroghe, era fissata al 30 settembre ma il documento non risulta ancora approvato. Anzi, quel giorno prendeva le strade di un ennesimo giro per la Conferenza Stato-Regioni in attesa di essere ulteriormente affinato.

L’import costa dieci volte tanto

“Quello italiano”, nota Il Sole 24 Ore“è metano il cui costo di estrazione si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. È una stima indicativa, una media avicola trilussiana, citata da Marco Falcinelli segretario della Filctem Cgil e dall’economista Davide Tabarelli di Nomisma Energia. Ecco invece il prezzo di mercato del gas che l’Italia importa da Paesi remotissimi: fra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, più di 10 volte tanto”, con picchi nel quadro del gas naturale liquefatto importato da Paesi come il Qatar. Nel 2000 l’Italia, per fare un paragone con il presente, estraeva 17 miliardi di metri cubi l’anno principalmente in Adriatico, ove oggi la produzione è ridotta a 800 milioni di metri cubi. Nessun operatore si impegna a mettere un singolo euro sul gas italiano fino a non avere la certezza del via libera del Pitesai. Secondo Assorisorse bisognerebbe investire 322 milioni per raddoppiare a 1,6 miliardi di metri cubi l’anno l’ormai stanca produzione, e un risultato di 10 miliardi di metri cubi l’anno, meno del 60% di inizio millennio, sarebbe ad oggi un trionfo e un toccasana per le tasche dei cittadini.

E in quest’ottica le ricadute economiche per le tasche dei cittadini si uniscono ai problemi per la crescita nazionale. L’energia pesa enormemente in negativo sulla bilancia commerciale italiano e solo nel 2019 ha comportato extra costi per 40 miliardi di euro. E in questo contesto l’Eni, che è per il 30% di proprietà dello Stato, realizza in Italia il 7% della sua produzione, dunque dell’attività operativa che contribuisce a generare flussi di cassa per lo Stato italiano.

La necessità di un cambio di passo: il gas italiano come chiave di volta per la transizione energetica

“Perché invece non programmare la produzione di gas naturale nei giacimenti italiani per i quali Eni possiede già le concessioni e pochi anni fa ha presentato un piano di investimenti consistente di oltre 2 miliardi, che produrrebbe ricchezza per i territori. Il piano porterebbe ad un aumento della produzione delle piattaforme nell’Adriatico, da meno di 40.000 barili equivalenti al giorno a oltre 100.000”, ovvero da meno di 6,2 a 15,5 milioni di metri cubi al giorno, ha dichiarato a Pandora Gianni Bessi.  Consigliere regionale del PD in Emilia-Romagna e analista geopolitico esperto in questioni energetiche, Bessi è da tempo in prima linea per difendere la produzione energetica nazionale sia in un’ottica di rilevanza strategica degli asset italiani sia nella consapevolezza che il gas italiano sia la chiave di volta per abilitare la transizione energetica. Destinata ad essere castrata, piuttosto che aiutata, dalle politiche ideologiche dei gialloverdi.

L’equazione di Mattei: l’energia nazionale è energia a buon mercato

Per Bessi “si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, incrementando un’attività che va avanti da oltre cinquant’anni”, e che includendo anche l’entroterra richiama all’epoca eroica dell’energia italiana, quella di Enrico Mattei. L’equazione che animava l’azione di Mattei vale ancora oggi: energia nazionale significa energia a buon mercato; energia a buon mercato significa sviluppo e sicurezza economica per i cittadini; sviluppo e sicurezza economica contribuiscono alla sicurezza nazionale.

“Inoltre”, come ha fatto notare Bessi,  l’attività “italiana” di Eni e degli altri player energetici non si limita alla mera estrazione ma “coinvolge le componenti tecnologiche dell’oil&gas made in Italy. Lo scorso autunno dal porto di Ravenna”, città natale del consigliere e capitale dell’energia italiana, “è stata spedita una piattaforma Tolmount destinata al Regno Unito, un manufatto da 5.500 tonnellate progettato e realizzato dalla Rosetti Marino, una commessa di 125 milioni di euro che ha richiesto oltre un milione di ore lavoro di migliaia di tecnici specializzati. È un esempio di come l’oil&gas produca ricchezza non solo economica, ma anche di occupazione di qualità”.

Quell’occupazione di qualità che, aggiungiamo noi, serve come l’aria al Paese per lo sviluppo post-pandemico. Lasciare l’Italia alla canna del gas non è solo un errore politico, ma anche un potenziale suicidio economico che non aiuta affatto a conseguire alcun vantaggio per l’ambiente. E dal Conte I a Draghi ben poco, di fatto, sembra essere cambiato: in tempi di crisi energetica tutto questo dovrebbe ricordarci che la prima transizione di cui necessitiamo è quella verso il buon senso economico.

https://www.true-news.it/economy/energia-come-litalia-ha-scelto-di-ridursi-alla-canna-del-gas

TUNISIA: ARRIVA LA NUOVA COSTITUZIONE ?_di Antonio de Martini

TUNISIA: ARRIVA LA NUOVA COSTITUZIONE ?

IL PRESIDENTE SAIED ELETTO NEL 2019 E COI PIENI POTERI DA LUGLIO, ANNUNZIA UNA NUOVA COSTITUZIONE. «LE COSTITUZIONI NON SONO ETERNE ». QUESTA ERA STATA VARATA NEL 2014.

Dopo sei mesi di stato di emergenza durante il quale il presidente ha esautorato il Primo ministro, il Parlamento e il partito di maggioranza Ennahda – accusato di estremismo islamico- nel consiglio dei ministri della scorsa settimana ha annunziato che la nuova costituzione , meno parlamentare, é quasi pronta e che sarà sottoposta a referendum popolare.

Le vicissitudini tunisine possono così essere riassunte: nel 2011 una rivolta popolare a seguito del drammatico suicidio di un ambulante angariato dalla polizia, sfocia in un cambio di regime a causa della fuga del Presidente Zine el abidin ben Ali che si rifugia in Arabia Saudita ospite del ministro dell’interno.

Nel 2014 viene varata una nuova Costituzione che trasforma la Repubblica in un regime parlamentare che fa prevalere il partito confessionale Ennahda, guidato da Rachid Ghannouchi.

Ovviamente, gli investimenti esteri languono, i capitali locali emigrano e l’assassinio di un paio di sindacalisti e il tentativo di ”moralizzare” le donne secondo la tradizione mussulmana, provocano una reazione filo occidentale evidente.

L’intervento di mediazione delle Nazioni Unite affida il potere a un quartetto di associazioni ( sindacati, patronato e i principali partiti).

il nuovo sistema regge fino alla morte del Presidente Caid Essebsi, già ministro di Bourghuiba. Le nuove elezioni parlamentari danno la maggioranza a Ennahda, ma l’elezione presidenziale premia uno sconosciuto outsider – Khais Saied appunto- che dopo un anno di convivenza con Ennahda ed il suo abile leader Ghannouchi che presiede il Parlamento, perde la pazienza , si arroga tutti i poteri e – godendo della comprensione degli occidentali- proclama lo stato di emergenza.

Ieri l’annunzio che presto verrà sottoposta a referendum la NUOVA COSTITUZIONE che dovrebbe avere carttere presidenzialista ( o comunque meno assembleare).

In tanto il 15 dicembre verrà presentato il nuovo bilancio. Il combinato disposto di queste due innovaioni, dovrebbe, secondo le parole del presidente “consentire al popolo di passare dalla disperazione alla speranza”.

La crisi economica e quella sanitaria infatti incrudeliscono e sembrano senza via d’uscita senza un poderoso aiuto internazionale che si materializza a mano a mano che la democrazia ben guidata farà i suoi passi in avanti.

Al sud, nella zona del passo di Mareth al confine algerino, focolai di guerriglia islamista alimentati dalla estrema povertà dell’area baluginano sinistramente ma non riescono a dilagare nelle città.

https://corrieredellacollera.com/2021/12/14/tunisia-arriva-la-nuova-costituzione/

Stati Uniti! Percorsi paralleli…per ora_Con Gianfranco Campa

Qualsiasi formazione sociale, prima o poi, è costretta ad affrontare una situazione di crisi della propria classe dirigente e del corrispondente ceto politico. La dinamica di queste crisi è una particolare cartina di tornasole utile a definire queste fasi di transizione come un percorso di declino oppure di trasformazione attiva e rigeneratrice. Un indizio significativo è la capacità di ricambio e rinnovamento di soggetti promotori e protagonisti. Negli Stati Uniti stiamo assistendo a due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, nel campo democratico e neoconservatore, alla parziale riproposizione di personaggi in grado di proporre spartiti ormai ripetitivi e desueti; maschere consunte ormai in grado di incantare, con la loro narrazione e in un quadro di degrado morale e di corruzione di costumi sterili, fasce sempre più ristrette di pubblico; dall’altra ad una dinamica del confronto politico tra due forze che, impossibilitate a comunicare e incapaci di definire un terreno comune di gioco, ormai procedono lungo percorsi paralleli sino a creare luoghi propri e separati di comunicazione, di organizzazione sociale, propri canali di finanziamento. Una situazione che non potrà protrarsi ancora per troppo tempo, pena il disfacimento dell’attuale formazione socio-politica statunitense. Una situazione che potrà trovare una soluzione di continuità quando una delle parti avrà saputo completare la propria fase di rinnovamento e di formazione di una classe dirigente e di un ceto politico presentabile e convincente. Al momento è il movimento legato a Donald Trump ad avere più prospettive di successo e a offrire una qualche prospettiva realistica a quel paese. Il fatto che una parte dell’establishment sempre più significativa abbia preso atto di questa dicotomia e stia scegliendo, a differenza di quattro anni fa, quest’ultima componente rivela il carattere ormai strutturato del movimento. Si vedrà se a questa maggiore solidità corrisponderà altrettanta coerenza e saldezza politica. L’oggetto del contendere sono l’accettazione o meno della coesistenza in un mondo multipolare ormai consolidato e le modalità costitutive di una formazione sociale sufficientemente coesa e dinamica. Due temi sempre più presenti in quella nazione e sempre più evanescenti nel nostro amato e decadente Bel Paese. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_ Abbiamo il fondato sospetto, quasi la certezza, che You Tube, in buona compagnia con piattaforme dello stesso orientamento, manipolano pesantemente i dati di accesso e la condivisione di testi e video. Suggeriamo, quindi, di digitare in maniera preferenziale la piattaforma di rumble, indicata con il link dedicato. Quando disporremo di altri mezzi attingeremo ad una fonte del tutto autonoma

https://rumble.com/vqpy3f-stati-uniti-e-i-percorsi-paralleli-con-gianfraco-campa.html

Transizione energetica e dogmatismo, di Alessandro Visalli

Si parla di leggi inesorabili del mercato; in realtà la condizione di sofferenza dei paesi europei nelle forniture energetiche è il frutto della sudditanza geopolitica e di scelte scellerate sulle modalità di fornitura e sulla gestione delle scelte di conversione ecologica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Dati ed informazioni.
Transizione energetica.
Settore fotovoltaico.
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Nel 2021 a livello mondiale si prevedono 180.000.000 di kW di nuova potenza installata (3 kW sono la potenza media installabile per i consumi di una famiglia) e nel 2022 se ne prevedono pochi di più. Equivalente quindi alla capacità per i consumi domestici di 60.000.000 di famiglie, una nazione come l’Italia o la Corea del Sud.
La spinta ad installare viene dagli Usa e Australia, in misura minore dall’Europa, ma soprattutto dalla Cina, nel paese asiatico si installano 25.000.000 di kW con una crescita del 60% sul 2020.
Ma molti progetti in questo momento sono rinviati per la dinamica dei prezzi delle componenti. I moduli sono cresciuti di prezzo del 15% negli Usa, ma, soprattutto, c’è molta incertezza nella catena logistica che si traduce in difficoltà a rispettare tempi e qualità delle consegne. Chiaramente per i grandi cantieri questo è un problema enorme ed un fattore di costo molto rilevante. In un impianto il costo della manodopera incide almeno al 30%.
Il prezzo dei moduli dipende da un vertiginoso incremento del costo del polisilicio con cui sono costruiti, che è aumentato da 6,3$/kg del 2020 a 37 $/kg del 2021. Si spera che comincino a scendere dal 2023-24, in concomitanza con l’aumento della produzione cinese (fuori dello Xinjiang) e la riapertura degli stabilimenti americani e tedeschi o malesi che erano stati chiusi per la concorrenza cinese.
Altri fattori di rallentamento ed incertezza sono le difficoltà di spedizione ed i relativi costi. Nel 2020 e 2021 sono aumentati del 500%, arrivando a 0,03 $/Wp (ovvero 17,5 $ per un pannello da 585 Wp), prima erano circa 3 $.
Quindi l’incremento dei costi delle altre materie prime (argento, rame, alluminio, vetro) che in alcuni casi sono letteralmente fuori controllo.
D’altra parte la stessa congiuntura mondiale (che non sono convinto essere passeggera, potendo essere invece un punto di svolta di sistema) determina alti costi dell’energia in tutto il mondo. Quindi la riattivazione di investimenti potrebbe avvenire anche rinegoziando i precontratti di vendita (per lo più gli impianti di grande taglia sono ‘bancati’ avendo in pancia un contratto di vendita di lungo periodo a sconto sul prezzo medio atteso, che con i prezzi in vertiginosa crescita di questi mesi è diventato estremamente svantaggioso per loro).
II
Mi dicono che nel libro (che non ho letto) di Diego Zanetti “Adam Smith a Mosca”, nel quale è analizzata la politica russa degli ultimi venti anni la tesi sia che nel sistema del grande paese euroasiatico sia stato sviluppato un modello a-capitalistico nel quale la salda presa dello Stato si esprime nella predominanza delle imprese statali (70% del Pil), con il monopolio della produzione ed esportazione energetica che è stata la grande battaglia di Putin al suo esordio (ricordare la lotta senza esclusione di colpi ai satrapi energetici privati) altamente tassato, e la presenza complementare di piccole e medie imprese che operano in mercati tenuti in stato molto concorrenziale (per cui i profitti sono bassi, la composizione organica del capitale non supera certi livelli e l’occupazione è alta). La conclusione sarebbe, appunto, che questo modello assomiglia a quello cinese e allo ‘sviluppo naturale’ smithiano (su questo torniamo leggendo “La ricchezza delle nazioni” prossimamente). E quindi sarebbe propriamente ‘non capitalista’ (se con questo termine si intende il dominio del capitale mobile, ovvero dell’alleanza tra alta finanza e grande industria internazionalizzata).
La politica della nazione russa sarebbe quindi rivolta essenzialmente a garantirsi un sentiero di sviluppo autonomo dal grande capitale internazionale e dalle intromissioni dell’imperialismo occidentale.
In questa direzione assume qualche interesse la vicenda che ci sta colpendo (e ci colpirà) ogni mese quando paghiamo e pagheremo le nostre bollette elettriche (e del gas). Il prezzo del gas, dopo mesi di tensione causati dalle strozzature distributive frutto dello shock pandemico mondiale, è andato in sofferenza per la ripresa delle produzioni e dei consumi in questo rimbalzo mondiale nel ’21. Alla ripresa post estiva (quando i prezzi calano per effetto della chiusura delle fabbriche) Gazprom (società monopolista pubblica russa) ha ridotto in una misura che per alcune fonti è del 70% le forniture di gas all’Europa. In parte perché le ha aumentate alla Cina e perché i contratti di lungo periodo, che garantivano la fornitura, erano stati sostituiti da contratti “spot” durante la crisi. Ciò è accaduto sui gasodotti che passano per la Bielorussia tra settembre ed ottobre, quando sono scese da 112 milioni di mc a 30. Ma anche quelle attraverso l’Ucraina sono scese da 110 ml a 85. Infine le forniture tramite l’oleodotto Yamal, che sbocca in Polonia, sono scese della metà. Quindi i prezzi ‘future’ sul mercato TTF olandese sono saliti del 100%.
La Russia si è dichiarata pronta ad aumentarle e, nello stesso momento, ha assicurato che le forniture a lungo termine sono state sempre rispettate (ma, appunto, ormai erano ridotte ad una frazione del necessario perché la Commissione uscente aveva deciso di comprare “spot” il necessario di volta in volta, per lucrare sul basso prezzo di mercato nella fase di debolezza).
Che succede?
Se ricordiamo l’analisi prima condotta, sulla centralità delle grandi aziende estrattive e distributive di Stato nella strategia di assunzione di controllo del proprio percorso di sviluppo (e, quindi, in ottica chiaramente geopolitica), si apre una chiave.
Ma, prima, ci vuole un altro tassello: la Russia ha appena completato l’allaccio del gasodotto North Stream che ha provocato negli scorsi anni le più fiere battaglie con gli Usa e i suoi alleati e le tensioni degli stessi con la Germania (terminale e quindi principale beneficiario della infrastruttura).
Il gasodotto fornisce energia direttamente dalla Russia alla Germania senza passare per la delicata regione bielorussa o ucraina. E ha la potenzialità di fornire 1/3 del fabbisogno europeo, risolvendo d’un sol colpo qualsiasi problema di forniture e, quindi, riportando i prezzi del gas (e quindi dell’energia elettrica) sotto controllo. Ciò mentre arriva l’inverno.
Facile, no?
Non proprio, perché la Ue tiene ferma la cosa in quanto vuole imporre ai Russi “l’accesso non discriminatorio alla rete” per tutti i concorrenti. Ovvero imporre che il proprietario dell’infrastruttura non possa praticare prezzi diversi ai diversi clienti, inibirne l’accesso, (il gas si può comprare, ad esempio, da un operatore o distributore italiano, anche alla fonte e far passare sui tubi pagando il servizio, se viene consentito). Ma la Russia vuole gestire il gasodotto come un proprio monopolio, avendolo costruito. La Bundesnetzagentur all’inizio del mese ha quindi minacciato multe.
La battaglia vede quindi, semplificando, la Russia che tiene sulla corda l’Europa con le forniture di gas per ottenere una piena capacità di vendita discrezionale sulla infrastruttura del North Stream. La Ue, probabilmente d’accordo con il Dipartimento di Stato, che vuole imporre allo Stato estero il rispetto della normativa europea sulla concorrenza, e quindi disattivare il potenziale geopolitico della fornitura.
Noi che, per ora, siamo in mezzo paghiamo i rincari del 40% delle
bollette.
In ogni piccola cosa non si capisce niente del mondo se non si considera quanto è interdipendente, e quanto sono grandi i conflitti per diminuire la dipendenza (ed imporla agli altri).

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome, di Alastair Crooke

Casa

11 dicembre 2021 // Le crisi

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome

L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente, scrive Alastair Crooke

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke
Tradotto dai lettori del sito Les-Crises

© Foto: REUTERS / Kevin Lamarque

Parlando all’Aspen Security Forum due settimane fa, il generale Milley ha ammesso che il secolo americano è finito, una consapevolezza che avrebbe dovuto essere presa molto tempo fa, si potrebbe dire. Eppure, che sia tardi o meno, questa dichiarazione sembra segnalare un importante cambiamento strategico: “Stiamo entrando in un mondo tripolare, con Stati Uniti, Russia e Cina come grandi potenze. [e] Solo mettendo tre su due aumenta la complessità “, ha detto Milley.

Più recentemente, in un’intervista alla CNN, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, ha affermato che è stato un errore cercare di cambiare la Cina: “L’America non sta cercando di contenere la Cina: non è una nuova guerra fredda. Le osservazioni di Sullivan arrivano una settimana dopo che il presidente Biden ha affermato che gli Stati Uniti non stavano cercando un “conflitto fisico” con la Cina, nonostante le crescenti tensioni. “Questa è una competizione”, ha detto Biden.

Questo in effetti sembrava segnalare qualcosa di importante. Ma è davvero così? L’uso della parola “competizione” è una terminologia un po’ strana e richiede un po’ di decrittazione.

L’intervistatore della CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Sullivan: cosa è stato ottenuto dalla Cina dopo tutto il tuo duro discorso, cosa è stato negoziato? Si potrebbe immaginare una risposta che descriva come Biden pensa di gestire al meglio questi interessi in competizione in un complesso mondo tripolare. Beh, quella non era la linea di Sullivan. “Brutta domanda”, ha detto senza mezzi termini: non chiedere informazioni sugli accordi bilaterali, chiedi cos’altro abbiamo.

Il modo corretto di guardare a questo, ha detto Sullivan, è: “Abbiamo stabilito i termini per una concorrenza effettiva in cui gli Stati Uniti siano in grado di difendere i propri valori e promuovere i propri interessi, non solo nella regione indo-pacifica, ma anche Intorno al mondo. Quando si tratta dei nostri alleati in tutto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa sono allineati su questioni commerciali e tecnologiche per garantire che la Cina non possa “abusare dei nostri mercati”; e poi sul fronte indo-pacifico, siamo andati avanti in modo da poter ritenere la Cina responsabile delle sue azioni. “

“Vogliamo creare la situazione in cui due grandi potenze opereranno all’interno di un sistema internazionale per il prossimo futuro – e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori americani: è più di una disposizione favorevole in cui il Gli Stati Uniti e i suoi alleati possono modellare le regole di condotta internazionali sui tipi di questioni che saranno fondamentalmente importanti per il popolo del nostro paese [America] e per i popoli del mondo “, ha affermato. -aggiunge.

L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era cercare una trasformazione politica in Cina, ha detto Sullivan, ma modellare l’ordine internazionale in un modo che servisse i suoi interessi e quelli di altre democrazie che la pensano allo stesso modo: “Vogliamo le condizioni per questa coesistenza in il sistema internazionale favorevole agli interessi e ai valori americani. Vogliamo che le regole del gioco riflettano una regione indo-pacifica aperta, equa e libera, un sistema economico internazionale aperto e il rispetto dei valori e degli standard fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nelle istituzioni internazionali, ha dichiarato. . Sarà una competizione mentre andiamo avanti. “

Sullivan propone molto chiaramente un ordine mondiale basato su “regole di condotta internazionali” che si svilupperebbe attorno ad un interesse strategico centrale (quello dell’America), senza preoccuparsi delle conseguenze che potrebbero derivarne per gli altri. Questo “sistema internazionale aperto, equo e libero” è solo uno strumento per la globalizzazione del sistema neoliberista occidentale finanziarizzato. Josh Rogin ha scritto questa settimana: “L’internazionalismo a guida americana, nonostante i suoi difetti e i suoi passi falsi, rimane l’ultima, la migliore speranza per l’umanità. “

E per intenderci, quando sentiamo parlare di un sistema economico aperto e libero favorevole agli interessi americani, non sono gli “interessi del 99%” a essere sanciti nel sistema, ma quelli della classe finanziaria dell’1%. , che pretendono il diritto di spostare denaro e beni ovunque, in qualsiasi momento, senza restrizioni.

Il riferimento di Sullivan ai diritti umani riflette lo “spirito” dell’UE, dove la dottrina dello stato di diritto europeo è servita come dispositivo pratico per estendere l’autorità centrale dell’Unione senza riscrivere i trattati. O, in questo caso simile, che gli Stati Uniti espandano la propria autorità e procedano senza dover concludere accordi bilaterali con la Cina (o la Russia) o chiunque altro. Sullivan è stato molto chiaro su questo punto: gli accordi negoziati con la Cina non erano il “parametro di riferimento” giusto per giudicare il successo della politica statunitense.

Inizialmente, nessuno in Europa si è preoccupato molto quando la Corte europea ha “scoperto” che nei trattati dell’UE era nascosta una supremazia generale dei valori e del diritto dell’UE (sebbene a prima vista non fosse così evidente). Questa tranquilla reazione, tuttavia, è in gran parte dovuta al fatto che la competenza dell’UE era ancora piuttosto limitata all’epoca.

Successivamente, il trasferimento graduale della sovranità nazionale a un interesse strategico centralizzato (Bruxelles) divenne il principale motore di quella che è stata definita “integrazione attraverso il diritto”. Nel tempo, una lettura approfondita dei trattati (per i trattati europei, leggi la “consacrazione” di Sullivan della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) ha offerto nuove ragioni per sottoporre le politiche nazionali democratiche a una lettura sovranazionale. “

Allo stesso modo, la Dichiarazione universale dei diritti umani offrirà probabilmente a Sullivan nuove ragioni e possibilità per armare il testo e piegare alleati e “avversari” alla disciplina di interesse strategico centrale (altrimenti nota come Washington).

Quindi, quello che sembrava segnalare un cambiamento significativo nel pensiero americano, dopo un po’ di decrittazione, si è rivelato nulla del genere. La competizione tra le grandi potenze non è altro che l’ordine globale globalista, incentrato sugli Stati Uniti e basato su regole. Gli Stati Uniti si astengono dal “trasformare” (cioè fomentare una rivoluzione colorata) il Partito Comunista Cinese, perché non possono; questo strumento si applica ancora ai piccoli pesci (es. Nicaragua).

Da un lato, abbiamo visto le conseguenze di questo approccio centralizzato alle “regole” – praticato a Bruxelles oa Washington: ne deriva una sorta di torpore soporifero. Tutte le energie sono dedicate a mantenere a galla il fragile sistema (che si tratti delle regole del gioco dell’UE o degli Stati Uniti), piuttosto che trovare soluzioni reali. Si aprono divisioni che politicamente è impossibile contenere; il risentimento aumenta; le crisi sono gestite e non risolte; giochiamo con il tempo; le riforme sono graduali e poi improvvisamente unilaterali; e, alla fine, regna l’immobilità. In Europa si chiama Merkelismo (dal nome del Cancelliere tedesco).

Dopo il tranquillo vertice del G20 a Roma e la COP26 a Glasgow, sembra che stiamo iniziando a vedere la Merkelizzazione del mondo. La sensazione che rimane è quella di un meccanismo (due in realtà se includiamo l’UE), che produce suoni convincenti di macchine ruggenti e che fa sperare in qualche risultato, ma che non porta alla fine a poco o nulla – ad eccezione di un crescente deficit democratico, con il trasferimento a una tecnocrazia sovranazionale di decisioni che prima erano di competenza dei parlamenti.

D’altra parte, per quanto grave sia (date le crisi economiche che affrontiamo), il suo più grande ” peccato ” (come ha detto Sullivan) è la sua richiesta di ” regole ” globali, il cui fondamento è semplicemente “Gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner”. Sullivan sostiene che gli Stati Uniti non cercano più di trasformare il sistema cinese (il che è positivo), ma insiste sul fatto che la Cina operi all’interno di un “ordine” costruito attorno agli interessi e ai valori degli Stati Uniti – in breve[in francese nel testo, ndr]. E come ha sottolineato Sullivan, lo sforzo diplomatico americano deve mirare a costringere la Cina a conformarsi a questo sistema. Da nessuna parte si parla dei costi per gli alleati, che dovrebbero rinunciare ai rapporti con la Cina o la Russia, per compiacere Biden.

Il peccato più grande , molto semplicemente, è che il tempo di queste ambizioni arroganti sia passato. L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente. Cina e Russia – le altre due componenti del mondo tripartito del generale Milley – lo hanno detto abbastanza chiaramente: rifiutano le lezioni dell’Occidente.

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke, 15-11-2021

Che succede tra la Francia e l’Egitto?, di giuseppe_gagliano/

Qui sotto un interessante articolo di Giuseppe Gagliano, tratto dalla rivista https://www.startmag.it/ riguardante un episodio di informazione pilotata in grado di condizionare ed alterare gli indirizzi di politica estera francese in tutta l’area mediorientale e mediterranea. La lettura spinge ad alcune considerazioni a più livelli di astrazione. Ci suggerisce che limitare l’analisi geopolitica al mero rapporto può essere riduttivo e fuorviante. Chi agisce non è lo Stato in quanto tale, ma sono i soggetti, siano essi individui o soprattutto gruppi, in conflitto e cooperazione tra di essi, dotati di poteri decisionali e di condizionamento, in grado di rappresentarlo, di detenere le leve operative e di influenzarle. La titolarità dell’autorità è un fattore importante di agibilità se ad essa corrisponde una coerenza ed un controllo effettivi e sostanziali degli apparati. L’impegno ufficiale e formale va di pari passo con le azioni sotto traccia, rivelatrici dei legami trasversali che attraversano la dinamica di questi centri. Nella fattispecie l’articolo rivela le dinamiche di confronto e cooperazione tra alcuni centri decisionali francesi e turchi nel plasmare i rapporti con l’Egitto e i paesi del Golfo, anch’essi attraversati da spinte e controspinte. Il tutto in logiche ancora più estese che fanno riferimento alle fazioni statunitensi, una, quella obamiana, sostenitrice delle primavere arabe, l’altra ad esse ostile. Definire per altro in questo contesto Jamal Khashoggi giornalista, non rende bene la natura di questo scontro e di quell’assassinio. Rivela altresì la permeabilità e la fragilità di quelle formazioni socio-politiche che hanno aperto indistintamente, in nome di una “società aperta” apparentemente priva di identità, i propri spazi a vere e proprie comunità chiuse in grado di condizionare pesantemente e destabilizzare all’interno l’azione politica. Ad un livello ancora inferiore di riflessione deve portare a considerare la portata del Trattato del Quirinale tra l’Italia e la Francia nelle sue implicazioni nell’area mediterranea, in particolare la Libia e l’Egitto. Il trattato in qualche maniera vorrebbe mettere molto parzialmente al riparo l’Italia dalle mire turche nel vicinato prossimo della Libia e dei Balcani, in particolare l’Albania e la Bosnia. La postura, però, è talmente subordinata da farle perdere quasi ogni capacità di mediazione, sostenendo le poche figure, tra queste il figlio di Gheddafi in grado di ricomporre il mosaico libico; l’ultima possibilità di ricostruire in tal modo una nuova capacità di influenza diretta in quell’area. Lo stesso dicasi dei rapporti con l’Egitto di Al Sisi dove l’Italia, grazie all’affare Regeni, è ridotta più o meno consapevolmente a strumento di trame altrui. La liberazione di Zaki sarà probabilmente il contentino per far cadere in ombra l’omicidio Regeni; il prezzo della gestione “dell’affaire” è stato comunque già molto pesante anche per oche giulive artefici di tal fatta di questa tragicommedia. La posta in palio più significativa riguarda la Turchia di Erdogan ed il tentativo di trasformare il suo rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia in ostilità dichiarata; di ridurre quindi i suoi margini di iniziativa autonoma e ricondurli nell’alveo del confronto strategico con la Cina e la Russia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ecco perché il fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R) non condivide quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo Disclose. L’articolo di Giuseppe Gagliano

 

Secondo quanto sostenuto da Eric Denécé, fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R), quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo francese Disclose sarebbe viziato da numerose deficienze informative oltre che da un’impostazione palesemente unilaterale e faziosa.

In primo luogo l’autore osserva – non senza amarezza – come i documenti che sono stati forniti al sito francese provengano dal ministero delle Forze armate e, in particolare, dalla Direzione dell’intelligenza militare e dal ministero degli Affari esteri. Insomma, una vera e propria fuga di notizie fatta probabilmente da analisti che non condividono le scelte poste in essere dall’attuale amministrazione francese in relazione alla vendita di armi e al sostegno al regime egiziano di Al-Sisi.

Data la gravità della condotta posta in essere da questi informatori verrà avviata un’indagine da parte del controspionaggio soprattutto perché chi ha dato questi documenti al sito investigativo francese lo ha fatto con premeditazione cioè con la volontà di danneggiare esplicitamente le relazioni bilaterali tra Francia ed Egitto. Che lo si voglia o no queste informazioni avvantaggeranno i concorrenti della Francia.

In secondo luogo, l’autore sottolinea come il sito dei giornalisti investigativi non sia certo neutrale ma sia relativamente noto in Francia per le sue posizioni antimilitariste e soprattutto per aver sostenuto le rivoluzioni arabe in particolare quelle egiziane.

Un altro aspetto sottolineato dall’autore è il fatto che secondo il sito non vi sia alcun legame tra contrabbando e terrorismo al confine occidentale con l’Egitto. I trafficanti, invece, trasportano come e quando vogliono armi, droga, migranti e vari prodotti di contrabbando come il riso per rifornire il mercato nero.

Il quarto aspetto sottolineato dall’autore è di natura squisitamente geopolitica: egli infatti afferma che l’Egitto stia vivendo in questo momento una grave minaccia terroristica determinata anche dai numerosi traffici di armi sui confini che alimentano diversi gruppi di jihadisti.

Per tutte queste ragioni – che lo si voglia o meno – non si può escludere che questa indagine sia un vera e propria opera di destabilizzazione di natura informativa. Bisogna infatti interrogarsi sullo scopo di questa indagine.

Citiamo le parole dell’autore: “Oltre allo scooping e all’attivismo politico, Disclose mira a interrompere la vendita di armi all’Egitto… a vantaggio conscio o inconscio dei nostri concorrenti. Si tratta innegabilmente anche di un attacco diretto al regime egiziano di Al-Sisi che ha posto fine alla nefasta parentesi dei Fratelli Musulmani e che ha saputo ricostruire stretti rapporti con la Francia. Non ho alcun ricordo di Disclose e dei suoi giornalisti che difendevano i copti egiziani vittime di attacchi terroristici e persecuzioni da parte dei Fratelli musulmani o che hanno riferito come Morsi stava consegnando segreti di Stato egiziani ai suoi padrini turchi e qatarioti che lo hanno sostenuto per destabilizzare il paese, ecc. La loro indignazione è quindi molto selettiva”.

Perché in definitiva le osservazioni di Denécé sono di estremo interesse?

In primo luogo perché i lettori comuni non hanno gli strumenti né per poter verificare quanto sostenuto dal sito investigativo ma neppure per poterlo smentire. In secondo luogo è molto ingenuo pensare – come fanno molti lettori in assoluta buona fede – che da un lato ci sia la verità e che quindi le informazioni debbano essere lette come oro colato e dall’altra parte invece ci sia solo ed esclusivamente la ragion di Stato e le logiche perverse della politica internazionale.

In secondo luogo perché la vendita fatta recentemente dal presidente francese Emmanuel Macron di Rafale ha suscitato la durissima reazione del giornalisti investigativi del sito francese Disclose?

Il sito dei giornalisti investigativi francesi ricorda che dal 2015, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono stati coinvolti nella guerra in Yemen, che ha causato quasi 400.000 vittime. Nonostante la gravità degli abusi commessi e le accuse di crimini di guerra, il tema non è stato all’ordine del giorno della visita di Macron nel Golfo venerdì 3 e sabato 4 dicembre.

Tuttavia, le armi vendute dalla Francia alle due monarchie del Golfo vengono utilizzate direttamente nel conflitto, come rivelano i documenti di “confidenzialità-difesa” ottenuti da Disclose. Queste note scritte dal Segretariato generale per la difesa e la sicurezza nazionale (SGDSN), organizzazione posta sotto l’autorità di Matignon, rivelano che lo Stato francese ha autorizzato, nel 2016, la consegna di quasi 150.000 proiettili all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Pur sapendo che queste munizioni sarebbero state utilizzate nella guerra in Yemen.

Il 12 maggio 2016 si è tenuta a Parigi una riunione della Commissione interministeriale top secret per lo studio delle esportazioni di materiale bellico (CIEEMG), alla presenza dei rappresentanti del ministero degli Affari esteri, della Difesa, dell’Economia e del palazzo dell’Eliseo, poi occupata da François Hollande.

Al centro dei dibattiti, la proposta di rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi verso i Paesi coinvolti nella guerra in Yemen. Il ministero degli Esteri, allora guidato da Jean-Marc Ayrault, è favorevole. Si interroga, in particolare, sulle consegne in corso di armi Caesar all’Arabia Saudita.

“La Francia è oggetto di interrogatorio da parte del Parlamento europeo e delle Ong per presunte violazioni del Trattato sul commercio delle armi”, ha avvertito un diplomatico.

Qualunque sia l’avvertimento, il gabinetto di Jean-Yves Le Drian si oppone a ogni forma di restrizione: “Un blocco doganale di apparecchiature già oggetto di un contratto sarebbe difficile da giustificare all’Arabia. I diplomatici sono costretti a concordare con questa opinione. Le armi verranno consegnate”.

Nel dettaglio, si tratta di 41.500 proiettili della compagnia Junghas, sussidiaria di Thales, destinati alla guardia saudita; 3.000 proiettili anticarro, 10.000 proiettili fumogeni, 50.000 proiettili ad alto potenziale esplosivo e 50.000 razzi di artiglieria prodotti da Nexter all’esercito degli Emirati, nonché 346 missili anticarro dalla società MBDA all’esercito del Qatar. Importo totale dei contratti: 356,6 milioni di euro.

Non importa di quali crimini siano accusati i “partner” della Francia. Come l’assassinio dell’ottobre 2018 del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Sabato 4 dicembre, Macron sarà il primo leader occidentale a rimettere in sella il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, sospettato dalla comunità internazionale di aver ordinato l’omicidio.

https://www.startmag.it/mondo/che-succede-tra-la-francia-e-legitto/?fbclid=IwAR3RSddir9W7FO8m42LHWF4En0qe0RfyoDzLgOuooPaNOs9cQyC-kev7KpI

Algeria, la pericolosa fuga in avanti_di Bernard Lugan

La crisi che ogni giorno si aggrava tra Algeria e Marocco si spiega perché
L’Algeria è contro il muro. Per anni, negando il suo appoggio diretto al Polisario, ha voluto
far credere che fosse solo un’osservatrice della questione del Sahara occidentale. Oro
il crollo del Polisario e la disgregazione del suo appoggio, ora lo costringe ad agire per primo linea in un’escalation verbale e militare [1]

Dopo aver interrotto unilateralmente le relazioni
relazioni diplomatiche con il Marocco, poi dopo aver
vieta il suo spazio aereo ai suoi aerei civili e mette
la fine del progetto del gasdotto per
Spagna di passaggio in Marocco, il discorso
Il guerriero algerino è salito di livello
dopo la distruzione di due camion algerini da parte di
un drone marocchino. Da entrambe le parti, truppe
sono ammassati al confine. Mentre il Marocco
si astiene da qualsiasi dichiarazione bellicosa, il
Il governo algerino si fa avanti
parole ostili abbondantemente trasmesse da a
stampa falco.
Cosa sta cercando l’Algeria? Dov’è l’interesse?
anche un “Sistema” difficile da suonare
pericolosamente con il fuoco?
La linea di fondo è che il “Sistema”
L’algerino sa che i suoi giorni sono contati e che,
semplicemente risparmiare tempo, ritardare
l’inevitabile implosione, ha bisogno di un derivato
nazionalista. Esattamente come nel 1963
quando la “guerra delle sabbie” glielo aveva permesso
per evitare la secessione della Cabilia da
designazione di un nemico conveniente, il Marocco
(pagina mappa…).
Oggi l’Algeria è diplomaticamente
isolato. Economicamente, è in bancarotta e
politicamente è sull’orlo di un precipizio. quanto a
nella sua giovinezza ha un solo futuro, il
haraga in Europa…
Per una gerontocrazia senza fiato, di cui
l’esercito, suo ultimo pilastro, è diviso in clan che
odiatevi a vicenda – per un decennio 30 generali hanno
stato imprigionato – l’unica via d’uscita è l’unità

artificiale, sia contro il vicino marocchino che
contro l’ex colonizzatore francese. Le due
sono attualmente il suo obiettivo…
Il problema è che le accuse in piedi
contro la Francia ha avuto un risultato contrario al gol
Ricerca. Nonostante tutte le sue concessioni, di tutto
i suoi abbandoni e anche tutte le sue genuflessioni, il
Il presidente Macron che non è stato pagato in cambio
Sembra aver finalmente capito che non lo farà mai
basta agli occhi di Algeri, che vuole tenere la Francia sotto il
giogo del pentimento perpetuo.
Inoltre, a parte i soliti “portatori di
valigie ”, questo stravagante ricatto della memoria esercitato
dal “Sistema” algerino finì per risvegliarsi a
parte dell’opinione pubblica francese. Così tanto che
uno dei temi della campagna presidenziale è
proprio quello del rifiuto del pentimento.
Più così ora è sempre meno
raro sentire politici francesi
tenere il seguente discorso: come ha dimostrato l’Algeria
che la Francia non farebbe mai abbastanza nel
contrizione, quindi non c’è più niente da aspettarsi da lei.
Quindi, in queste condizioni, perché no?
sostenere apertamente la posizione marocchina e rendere
come gli Stati Uniti, riconoscendo
ufficialmente il carattere marocchino del Sahara occidentale?
Per quanto riguarda il Marocco, l’incessante
Anche le accuse algerine sono a
totale inefficacia. Algeri lo sa benissimo
le sue richieste riguardo al Sahara marocchino no
non può mai essere soddisfatto.
Tanto più che l’Algeria, che occupa il suo
confine occidentale di intere regioni

storicamente marocchina e quella colonizzazione
abbastanza artificialmente attaccato a lui, non ignorare
che il Marocco non accetterà mai di rinunciare al suo
province sahariane.
Allora perché l’Algeria insiste?
rimanere in un’impasse conflittuale fondata
su un rifiuto concreto della realtà? Invece di prendere
prendere in considerazione la questione non negoziabile di
marocchina del Sahara occidentale, e, a partire da
questa realtà, per cercare di trarne vantaggio
commerciale o altro negoziando con il
Marocco, perché, al contrario,
lei affonda un po’ più a fondo in un?
all’endismo che minaccia la pace regionale?
Il rischio è che, indurendo il tono e

tenere discorsi bellicosi, un punto no
ritorno sarà eventualmente raggiunto, con il risultato,

un conflitto che avrebbe solo esiti negativi
per entrambi i paesi. A meno che, avendone solo uno
solo obiettivo a brevissimo termine, vale a dire il suo unico
sopravvivenza, il “Sistema” algerino e lo stato maggiore
impegnarsi in un conflitto suicida nel tentativo di
aprirsi all’Algeria “bloccata” sulla costa
mediterraneo una finestra sulla facciata
Atlantico… Una scommessa pazzesca. Ma c’è un altro?
spiegazione per l’autismo politico algerino?

Il cuore del problema è quello dei confini
tra i due paesi. Per creare l’Algeria che
non è mai esistita, la Francia infatti si è smembrata
Marocco, eliminando le regioni storicamente
Marocchino, che sia Tindouf, il
Gourara, Tidikelt ecc. come è stato
spiegato nel numero di ottobre 2021 di
Vera Africa.
A ciò si aggiunge la questione del Sahara occidentale,
immensità strappata al Marocco dalla colonizzazione
Spagnolo. Tuttavia, per i marocchini, questo è
loro “Alsazia-Lorena” mentre gli algerini
vorrebbe la creazione di uno “Stato del Sahara” che
essere loro subordinato e che vieterebbe al Marocco di
avere una costa di diverse migliaia
chilometri da Tangeri a nord fino al confine
Mauritano a sud.
Ecco perché, come diceva Hubert Védrine,
ex capo della diplomazia francese: “(…)
l’affare Sahara è un affare nazionale per
Il Marocco e una questione di identità per l’esercito
algerina “.
Tanto più che l’attuale capo di gabinetto
algerino, il generale Saïd Chengriha, ex
Comandante della Terza Regione Militare,
colui il cui cuore è Tindouf e che perciò
nei confronti del Marocco, alimenta una nota avversione per
nei confronti dei suoi vicini marocchini.ù

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

L’oceano mondiale contro il continente, di  Jacek Bartosiak

L’oceano mondiale contro il continente

La potenza marittima dominante sta acquisendo forza per una contesa con una crescente potenza terrestre.

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Per secoli, il potere che controlla i mari – il “World Ocean” – ha ostacolato con successo i rivali continentali e dettato le regole del commercio mondiale. Il geografo tedesco Friedrich Ratzel descrisse questo conflitto come uno tra il Leviatano e il Behemoth, rispettivamente. Il Behemoth cerca di fare a pezzi il Leviatano usando le corna e i denti, mentre il Leviatano cerca di soffocare il Behemoth in modo che non possa respirare, mangiare o bere. Classicamente, questo si riferisce ai blocchi navali, ma nel mondo moderno il Leviatano – gli Stati Uniti – ha altre opzioni meno rischiose, come tagliare l’accesso del Behemoth alla valuta di riserva globale. Questo era di progettazione.

Halford Mackinder credeva che nel tempo il continente avrebbe ottenuto un chiaro vantaggio sull’Oceano Mondiale perché l’Heartland eurasiatico, sebbene inaccessibile alle navi mercantili, è inaccessibile anche alle navi da guerra, ed è quindi immune all’autorità dell’Oceano Mondiale. Allo stesso tempo, le innovazioni nei trasporti ferroviari, stradali e aerei migliorerebbero notevolmente i collegamenti terrestri. La massa terrestre eurasiatica, sosteneva Mackinder, possedeva tutti gli elementi per la mobilità economica e militare (quella che oggi chiameremmo la libera proiezione del potere) su distanze molto lunghe. Come ulteriore vantaggio, il continente godrebbe di linee di comunicazione interne in tutta la massa terrestre eurasiatica, in contrasto con le inefficienti linee di comunicazione esterne del potere che controlla l’Oceano Mondiale intorno all’Eurasia.

Oggi, la Cina sta implementando le idee di Mackinder per il consolidamento eurasiatico tramite la sua Belt and Road Initiative. Autostrade, ferrovie, collegamenti aerei, porti, cavi, 5G e flussi di dati sono tutti sintomi del consolidamento eurasiatico. I decisori di Pechino non hanno dimenticato gli insegnamenti di Nicholas Spykman – anche la loro Belt and Road corre lungo la costa e attraverso i mari costieri eurasiatici – ma il continente verrà necessariamente prima.

L'iniziativa cinese Belt and Road

clicca per ingrandire )

La firma del patto di investimento UE-Cina nel dicembre 2020 è stato un segnale che l’unità transatlantica che ha definito gli equilibri di potere dal 1945 potrebbe scomparire molto rapidamente e che l’Eurasia potrebbe diventare un sistema per la prima volta. Il sistema eurasiatico sarebbe molto complesso e la concorrenza per i mercati e il denaro sarebbe intensa. Una tale svolta degli eventi sarebbe una minaccia per lo stato dell’Oceano Mondiale, una minaccia che gli Stati Uniti non possono tollerare.

La battaglia per la supremazia ha sempre riguardato le catene del valore e la conseguente divisione globale del lavoro. Questi determinano nuove tecnologie e cicli di investimento, che conferiscono denaro e potere a coloro che entrano nel mercato per primi o in una posizione strutturale migliore. L’arbitro ultimo è la potenza militare in grado di dominare la scala dell’escalation, che per la maggior parte è determinata dalla ricchezza.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti godettero di un dominio indiscusso (o, come preferiscono chiamarlo gli americani, leadership o primato). È stata l’unica egemone negli ultimi 30 anni di globalizzazione, sostenuta dal dollaro, dalla Marina degli Stati Uniti e dalle sue portaerei, dal GPS, dalla Silicon Valley, dalla Borsa di New York, da Hollywood, dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Gli Stati Uniti stabiliscono le regole, che gli conferiscono un’influenza massiccia sulla divisione del lavoro nella produzione, nei servizi e nelle catene del valore; prezzi e flussi strategici; la valuta in cui avvengono le transazioni; la direzione e gli obiettivi di investimento; cicli tecnologici e nuove scoperte scientifiche; e regolamenti che modellano il mercato.

La ricchezza e il potere degli Stati Uniti si basano sulle dimensioni della classe media americana, sulla sua immensa capacità di domanda e sulla forza del mercato interno degli Stati Uniti, ma tale potere non sarebbe sorto senza il commercio marittimo nell’Oceano Mondiale. Né gli americani avrebbero il primato senza il controllo dell’Oceano Mondiale, dove ha luogo la maggior parte dei flussi strategici mondiali. Le regole dell’Oceano Mondiale sono fatte in America e difese dalla US Navy, che domina i suoi nemici con la sua flotta ammiraglia di portaerei in grado di proiettare forza lontano dalle coste del Nord America.

Nel mondo moderno, la proiezione di potenza globale attraverso gli oceani e il controllo del traffico marittimo fanno sempre più uso di molti sistemi di osservazione e comunicazione spaziali che aiutano sia la navigazione che la guerra. Ciò riduce notevolmente la nebbia di guerra, che era la rovina del dominio marittimo, soprattutto in mare aperto. Ha aiutato gli Stati Uniti a controllare il corso della globalizzazione e a promuovere i principi del commercio mondiale che hanno funzionato a loro favore, il tutto mentre gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro posizione dominante nella finanza internazionale e il dollaro funge da valuta mondiale. Gli Stati Uniti sono stati in grado di diffondere la propria influenza attraverso gli investimenti e il mantenimento di alleanze militari vantaggiose per Washington, come accordi bilaterali con Giappone, Australia e Corea del Sud e accordi di sicurezza collettiva come la NATO.

Negli ultimi 500 anni, il Nord Atlantico è stato il fulcro geostrategico del mondo. Il controllo del Nord Atlantico nel XIX e XX secolo ha aiutato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a coordinare e attuare congiuntamente le politiche durante le principali guerre europee dell’epoca. Durante entrambe le guerre mondiali e la guerra fredda, la comunicazione ininterrotta dalla costa orientale degli Stati Uniti all’Europa occidentale è stata la base della forza della NATO e il fondamento della presenza avanzata dell’America nel continente, che ha reso credibili le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti in Europa contro il Vecchio Continente.

L’obiettivo fondamentale della strategia di entrambe le potenze è proteggere i loro interessi e la loro sicurezza e garantire la stabilità e la prevedibilità di un sistema internazionale che serva i loro interessi. Gli elementi chiave di questo sistema sono le linee di comunicazione, anche transfrontaliere, che garantiscono stabilità sociale ed economica e, ove necessario, assistenza militare. Esistono differenze significative tra i confini terrestri e marittimi, e quindi tra le linee di comunicazione. Le linee di comunicazione terrestri sono sempre meno sicure perché le persone vivono sulla terraferma e le loro azioni e interazioni (flussi di capitali, rimesse, migrazioni, ecc.) significano che i confini terrestri sono molto più inclini a cambiare, specialmente in assenza di barriere naturali come le montagne , paludi o foreste.

Inoltre, bilanciare i comportamenti contro la pressione dei poteri terrestri è molto più comune perché a terra ogni minaccia è più immediata. La storia dell’Europa ne è un esempio lampante. I confini terrestri generano più conflitti, che era un’altra ragione per cui l’Eurasia era strutturalmente più debole dell’Oceano Mondiale.

Alfred Thayer Mahan è famoso per aver affermato che le potenze navali che controllano le rotte marittime sono intrinsecamente più potenti delle potenze terrestri. Questo è vero, ma c’erano e ci sono ancora importanti vie di terra. In effetti, per alcuni paesi eurasiatici, come il Kazakistan, non c’è alternativa. Uno di questi percorsi era l’antica Via della Seta, che collegava la Cina all’Europa e attraversava il Medio Oriente e il Levante. Una rete di oleodotti e gasdotti, ferrovie e autostrade essenziali per il funzionamento dell’economia globale garantisce ancora la connettività tra le aree ricche di risorse.

L’Eurasia – abitata da molte nazioni, stati, imperi, gruppi etnici e persino tribù legate insieme in una rete di interessi conflittuali – è estremamente volatile, soprattutto su lunghi orizzonti. Le alleanze sono mutevoli e la fiducia è scarsa. Al contrario, la stabilità delle rotte marittime può cullarci nella falsa sensazione che la navigazione degli oceani sia libera e aperta, al di là del controllo di qualsiasi potenza. Questa percezione persiste in tempi di dominio di un’unica potenza marittima, prima la Gran Bretagna e ora gli Stati Uniti. Ma l’egemonia del mare può in qualsiasi momento negare ad altri il diritto alla navigazione libera e indisturbata, interrompendo i flussi marittimi strategici. Il commercio marittimo tedesco è stato interrotto durante la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti hanno interrotto Cuba durante la crisi missilistica cubana. Lo stesso potrebbe essere tentato in qualsiasi momento lungo gli approcci a Malacca o nel Mar Cinese Meridionale,

Jacek Bartosiak è un esperto di geopolitica e geostrategia e analista senior di Geopolitical Futures. È fondatore e proprietario di Strategy & Future. Il Dr. Bartosiak è l’autore di tre libri: Pacific and Eurasia: About the war (2016), che tratta dell’imminente rivalità delle grandi potenze in Eurasia e della potenziale guerra nel Pacifico occidentale; Il Commonwealth tra terra e mare: On war and peace (2018), sulla situazione geostrategica della Polonia e dell’Europa nell’era della rivalità tra le potenze in Eurasia; e Il passato è un prologo sui cambiamenti geopolitici nel mondo moderno. Inoltre è Direttore del Programma Giochi di Guerra e Simulazione della Fondazione Pulaski; Senior Fellow presso The Potomac Foundation a Washington, co-fondatore di “Play of Battle”, che prepara simulazioni militari; socio della Nuova Confederazione e del New Generation Warfare Center di Washington; membro del gruppo consultivo del Plenipotenziario del governo per il porto di comunicazione centrale (2017-2018), presidente del consiglio di amministrazione della società Centralny Port Komunikacyjny Sp. z oo (2018–2019). Il Dr. Bartosiak interviene a conferenze sulla situazione strategica nell’Europa centrale e orientale, nel Pacifico occidentale e in Asia. Laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza e Amministrazione dell’Università di Varsavia, è socio amministratore di uno studio legale che si occupa di servizi alle imprese dal 2004.
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