Guarda chi si rivede, l’esercito europeo 24 settembre 2021_ del Generale Marco Bertolini

Proseguiamo con il tema della difesa comune europea_Giuseppe Germinario

Guarda chi si rivede, l’esercito europeo

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Una ventina d’anni fa, nello stesso periodo nel quale iniziava quell’impegno in Afghanistan dal quale siamo usciti sconfitti, l’Italia cambiava il modello della propria Difesa, passando da Forze Armate a coscrizione obbligatoria a Forze Armate basate su personale di truppa volontario.

Tutti gli schieramenti politici volevano fortemente questo cambiamento, certamente necessario per esigenze di funzionalità operativa, ma non fu questo il motivo per il quale venne adottato in un regime di sostanziale unanimità: a destra forse si sperava che una maggiore componente professionale avrebbe dato più peso al tradizionale conservatorismo dei quadri militari; nel “nuovo” centro si auspicava una riduzione  quantitativa di un apparato in buona sostanza ritenuto poco utile, in nome della “lotta agli sprechi” mentre a sinistra, probabilmente, si intravvedeva la possibilità di inserire in uno strumento che si percepiva estraneo alla propria tradizione quelle istanze sociali che avevano già eroso l’autorevolezza dello Stato in altri ambiti.

A partire dalla Scuola: obiettivo conseguito con la recente affermazione delle associazioni sindacali che in buona sostanza smilitarizzano i militari.

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Ora sono in tanti a mangiarsi le mani, vista la caduta educativa alla quale è stata esposta la nostra gioventù, privata del più elementare senso dello Stato, esclusa da ogni rifermento all’orgoglio nazionale e orbata di quel sentimento che portava tutti, anche le ragazze e coloro che magari con qualche amicizia altolocata riuscivano a scansare o edulcorare la naja, a considerarsi in debito con la società.

Anche da questo, l’esplosione della retorica dei diritti, a partire dai più assurdi, che ha sostituito quella un po’ bolsa ma rassicurante dei doveri, da quello dell’obbedienza a quello che potremmo definire della “dignità” dei comportamenti.

Comunque, problema superato: indietro non si torna, infatti, visto che abbiamo smantellato quegli strumenti e quelle procedure che ci consentivano di individuare, chiamare, selezionare, assegnare ai reparti decine di migliaia di giovani ogni anno, tenendo conto dei limiti di età, dei criteri di rivedibilità, dei motivi di studio, dei desiderata, delle situazioni familiari, delle esigenze dei reparti e chi più ne ha più ne metta.

E che con i congedati ci consentivano di costituire unità di riservisti, composte da personale già addestrato con il quale allungare il brodo delle unità in vita in caso di necessità. In compenso abbiamo la Riserva Selezionata, fatta da professionisti di vario genere ma senza alcuna esperienza militare pregressa che con un fucile in mano si troverebbero come minimo a disagio.

Poco male: i fucili, come insegnava un nostro recentissimo ex Presidente del Consiglio, possono essere scambiati con altrettante borse di studio per la pace, senza scandalo e con soddisfazione di tutti.

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Da quel cambiamento radicale sono passati vent’anni e a quanto pare siamo pronti ad un altro passo avanti.

Il riferimento è al cosiddetto “Esercito Europeo” che ora entusiasma tutti coloro che non si sono mai entusiasmati per quello che fanno i nostri marmittoni e che magari preferiscono considerarli dei perditempo o dei pigri guardiani della Fortezza Bastiani, abituati agli ozi di una vita inutile.

Il termine scelto per questa ulteriore invenzione è una irritante semplificazione semantica con la quale si definisce “Esercito” quelle che sarebbero in realtà tutte le Forze Armate, naturalmente; ma come si può pretendere una maggiore definizione, e un maggiore rispetto, da una società a-militare come la nostra?

Ma veniamo al sodo. Intanto varrebbe la pena di osservare che l’ideona nasce, anzi rinasce, proprio con la fine ingloriosa della presenza occidentale in Afghanistan. Tutti a osservare, argutamente, che l’Europa è stata assente di fronte alle decisioni unilaterali statunitensi.

Nessuno, invece, si è sentito in dovere di osservare che l’Europa in Afghanistan era presente, presentissima, con molti contingenti dei paesi dell’UE.

L’Unione avrebbe quindi potuto dire la sua ma ha deliberatamente scelto di abbandonare i “propri” paesi ad una linea d’azione non coordinata e ancillare nei confronti degli Usa, facendo proprie le loro strategie e le loro parole d’ordine.

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Infatti, di fronte a un nemico brutale ma tutto sommato contenibile non abbiamo saputo trovare una linea di comportamento comune, trincerandoci dietro “caveat” e Regole di Ingaggio differenziate da paese a paese proprio per non essere costretti a un impegno percepito in mille maniere differenti. Altro che Esercito Europeo!

In Italia, da questo punto di vista, tutti i governi succedutisi in questi vent’anni hanno evidenziato un sostanziale disinteresse per quel che facevano laggiù i nostri uomini; salvo prodursi, a favore di telecamere, nei soliti fervorini sui burka, sull’istruzione femminile (i maschietti non contano) e su un falso ma rivendicato afflato a-militare dei nostri soldati, quasi fossero una sorta di sanfranceschi intenti a parlare coi lupi. Solo ora sembrano accorgersi, con sorpresa, che invece in quel paese non avevamo solo pozzi da scavare e buoni sentimenti da spandere ma anche un nemico da sconfiggere; un nemico che ha vinto.

Tra le sorprese che spingerebbero a questa nuova necessità, anche la sconcertante constatazione che Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia hanno stretto un’alleanza con funzione anticinese che potrebbe trasformare il “nuovissimo continente” in un’altra semi-superpotenza, con sommergibili nucleari e missili balistici. Ma come?

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Non c’eravamo già noi, i vecchi amici della Nato? Forse sfugge a qualcuno che un’alleanza anglosassone tra Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda (i “Five Eyes”) esiste da sempre ed è la stessa per la quale un semplice alleato Nato non aveva in Afghanistan l’accesso alle stesse informazioni alle quali poteva accedere un Australiano o un Neozelandese magari di passaggio, che della Nato non fanno parte.

E’ inutile girarci attorno, quindi: senza una politica estera comune non è possibile esercitare sforzi militari comuni. Ed una politica estera comune può basarsi solo su un’identità ed un mutuo rispetto attualmente schiacciati da condizionamenti che la rendono impossibile. Si pensi al seggio della Francia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: lo cederà a Ursula Von der Leyen?

E rinuncerà Macron alla sua Force de Frappe rendendola disponibile per interventi approvati “a maggioranza” e che prescindano dagli interessi diretti d’oltralpe? I virtuosi e frugalissimi paesi nord europei accetteranno di spartirsi le decine di migliaia di disperati che approdano nelle nostre coste, complice la nostra inerzia, e che ora è facilissimo bloccare a passi alpini?

La Germania accetterà di perseguire una parità stipendiale tra lavoratori tedeschi, greci e italiani? E noi rinunceremmo a far giudicare da un nostro tribunale un militare olandese o norvegese che avesse commesso un atto che la nostra giurisprudenza considera reato, mentre per i due paesi gli dovrebbe meritare una decorazione al valore?

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Insomma, penso che per l’Italia quella dell’Esercito Europeo sia un’altra seducente parola d’ordine per nascondere il desiderio di sbolognare ad altri la gestione di uno strumento militare che non si ama, assieme a quello che resta della sovranità nazionale, quale esercizio di responsabilità nei confronti del bene comune che ci è stato lasciato dalle generazioni che ci hanno preceduto.

Uno strumento militare del quale non si sa cosa fare, visto che abbiamo rinunciato anche alla politica estera che ne dovrebbe giustificare l’esistenza, come confermato dall’abbandono della Libia, prima ai disegni franco-anglo-americani e poi alle ambizioni della Turchia, dall’assurdo braccio di ferro con l’Egitto nonché dall’umiliazione della nostra cacciata dalla base aerea di Al Minad negli Emirati Arabi Uniti, per non avere onorato precedenti contratti commerciali in materia d’armamento.

Per concludere, quello dell’esercito europeo sarebbe un bellissimo sogno, ma richiederebbe un minimo comun denominatore tra paesi che ora dimostrano differenze di vedute e di interessi tutt’altro che marginali.

E che, forse per questo, si ostinano a non abbandonare gli stereotipi ereditati dalla Guerra Fredda con l’idea decisamente ipocrita di un’Europa Occidentale virtuosa che fronteggia un’Europa Orientale da “rieducare”, come nel caso delle manifestazioni di aperta ostilità verso Ungheria e Polonia, colpevoli di voler tutelare i propri valori, le proprie tradizioni più interiorizzate e la propria dignità.

Foto EUTM Mali ed EUTM Somalia

https://www.analisidifesa.it/2021/09/guarda-chi-si-rivede-lesercito-europeo/

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…, di Hajnalka Vincze

Non si tratta comunque di determinare chi sia il più europeista, quanto di precisare una realtà il più delle volte rimossa: l’esistenza stessa di questa classe dirigente tedesca dominante dipende dai suoi legami e dalla sua subordinazione agli Stati Uniti e la ricerca del proprio interesse non può e non intende prescindere oltre un certo limite da questo dato; essa è parte integrante di una componente ben definita di classe dirigente americana. Tutto è apparso alla luce del sole durante la presidenza Trump. L’attuale Unione Europea è un ingranaggio di questa dinamica. Le ambiguità e i cedimenti della Francia in quest’ultimo ventennio sono cresciuti parallelamente ai suoi proclami di autonomia europea anche se si deve riconoscere quantomeno l’esistenza in essa di un confronto ed un conflitto tra centri decisionali contrapposti. Giuseppe Germinario

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…

Portfolio – 25 settembre 2021
News Note

… stanno solo usando l’UE per rafforzare il proprio potere nazionale?

Sul tema delle elezioni tedesche, è dilagante la speculazione su cosa significherebbe questo e quest’altro nuovo governo tedesco per la costruzione dell’Europa. Sarebbe senz’altro utile tornare prima a cosa significa Europa, in generale, per la Germania e viceversa. Perché ci sono poche possibilità che le linee principali, le stesse da molti decenni, cambino. Nel 1963 il presidente francese Charles de Gaulle tagliò corto: “I tedeschi si comportano come maiali. Tradiscono l’Europa”. Questa visione, certamente accuratamente celata dietro formule diplomatiche, è comunque largamente condivisa in tutto il Reno, anche oggi. Allo stesso tempo, in altri luoghi è comune considerare Berlino come il buon studente dell’UE: La Germania pagherebbe come una vera vacca da mungere; darebbe sempre più potere alle istituzioni comunitarie; non ci sarebbe stato più verde di lei; e sui temi della difesa è modesto (al massimo si spende qua e là qualche parola sul disarmo globale e la pace universale). Potrebbe essere che tutto questo sia solo una tattica intelligente?

Attivista per la pace, con le bombe atomiche

L’osservazione che paragonava i tedeschi ai “maiali” è stata fatta in relazione al trattato di amicizia franco-tedesco, detto dell’Eliseo. Questo accordo aveva originariamente una forte dimensione di sicurezza e difesa e deliberatamente non faceva menzione né degli Stati Uniti né della NATO. Ma il Bundestag lo ratificò alla sola condizione di allegare un preambolo collocandolo immediatamente nel quadro dell’alleanza con l’America. Il generale de Gaulle notò, furioso, che non ci si poteva fidare dei tedeschi: “sono appiattiti davanti agli americani”. Sessant’anni dopo, niente di nuovo sotto il sole. L’ex presidente del Parlamento europeo Pat Cox ha recentemente osservato: “L’autonomia strategica è fonte di tensione tra Francia e Germania: non sono d’accordo su quanto l’Europa possa e debba fare affidamento sugli Stati Uniti”. Qua e là, i politici tedeschi si sono lasciati sfuggire che l’UE avrebbe guadagnato acquisendo “un certo grado di sovranità”. Ma quando la Francia insiste che è tempo che gli europei diventino indipendenti, la Germania ribatte che “le illusioni di autonomia strategica devono finire”. Berlino continua a ripetere: “L’Europa dipende dall’alleanza transatlantica, non può difendersi”.

Quando il presidente Macron evoca il fatto che la forza d’attacco francese difende, senza dirlo, l’intero continente europeo e chiede cooperazione ai suoi partner, la Germania si fa notare per la sua riluttanza. A volte sostiene che esiste già un ombrello americano, a volte suggerisce che prima ci liberiamo dell’atomo, meglio è. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2020, il presidente francese ha messo in evidenza le contraddizioni dell’ardente pacifismo di Berlino. Come dice lui: questa riluttanza verso le questioni militari è finta, perché la Germania è bagnata fino all’osso in una politica di potere, inclusa la sua componente nucleare, attraverso la NATO – tranne che è una politica americana. Infatti: sotto l’egida della condivisione nucleare (alla quale Parigi non partecipa) dell’Alleanza, gli Stati Uniti hanno una ventina di cariche nucleari sul territorio tedesco. Inoltre, i servizi segreti federali (BND) occasionalmente spiano l’Eliseo e la Commissione europea per conto di Washington. L’atlantismo patentato di Berlino nasce da un ragionamento lucido. Da un lato, Berlino spera che in cambio del suo incrollabile sostegno al primato USA/NATO nella sicurezza europea, Washington sarà più indulgente con i suoi scherzi in altre aree (i suoi legami commerciali con Russia e Cina, in particolare). D’altra parte, la stessa Berlino beneficia di questo primato americano: questo relativizza il peso e la portata degli assetti militari francesi, e riduce così il vantaggio politico di Parigi negli equilibri di potere all’interno dell’UE.

(Credito fotografico: Portfolio.hu)

Zelo europeo per egoismo?

In ogni caso, l’atteggiamento della Germania nei confronti dell’integrazione europea è, per così dire, complesso. Berlino è sempre stata una fervente sostenitrice delle istituzioni sovranazionali dell’Unione, tanto più che le aveva investite per molto tempo e la sua influenza lì è schiacciante. Resta il fatto che il freno più netto al futuro dell’integrazione è arrivato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Nella sua decisione del 2009 che interpreta il Trattato di Lisbona, questo organo supremo dichiara nero su bianco che il quadro nazionale è l’unico rilevante per la democrazia e la sovranità tedesche. Il diritto europeo non ha la precedenza, l’Europa non è un’entità sovrana, non ha quella che si chiama “la competenza della competenza”. Quanto alle azioni concrete, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer osserva: “I governi tedeschi ora vedono sempre più l’Europa in termini di promozione degli interessi tedeschi. E lì c’è un pericolo per l’Europa”.

Berlino sta ora anteponendo sempre più apertamente le proprie considerazioni a ogni “comune interesse europeo”. Era disposto a sacrificare anche il più importante progetto strategico europeo fino ad oggi, il sistema di navigazione satellitare Galileo, a meno che il sistema tedesco OHB, ma totalmente incompetente per il compito, non si aggiudicasse l’appalto. In questi giorni, la Germania si rifiuta di discutere del futuro del razzo Ariane, anche se ciò significa mettere a repentaglio uno degli strumenti strategici (e commerciali) più cruciali dell’Europa, il suo accesso indipendente allo spazio. Certo, Berlino può anche essere generosa, purché trovi un profitto clamoroso.

Se ha tanto sostenuto l’allargamento dell’Unione verso Est, è perché ha trovato il suo tradizionale “Hinterland”, con manodopera a basso costo a disposizione delle sue aziende, nello stesso spazio normativo. Per quanto riguarda l’attuale piano di stimolo dell’UE, la Germania ha accettato solo l’idea del pooling del debito per garantire meglio gli sbocchi europei di cui la sua industria ha estremo bisogno (a causa della contrazione dei mercati internazionali). Sul versante della diplomazia, Berlino non esita più a far sentire la propria voce, anche a discapito delle considerazioni europee, a seconda dei casi. Quando la Turchia si avventura, ad esempio, nelle acque greche e cipriote, l’UE nel suo insieme è il bersaglio delle sue provocazioni. Atene insiste: “La Grecia protegge i confini europei”. Tuttavia,

L’eterno avversario: la Francia

Caso dopo caso, Berlino si trova ripetutamente di fronte alla Francia. Sono le due potenze centrali dell’UE, e la storia del nostro continente è in gran parte quella dei loro scontri. La Germania è principalmente interessata all’idea europea nella misura in cui questa può far pendere a suo favore gli equilibri di potere tra i due paesi. Prendiamo l’esempio di questa idea, a priori simpatica, secondo la quale Parigi potrebbe rinunciare al suo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, a favore dell’Unione europea. Sorpresa, sorpresa: ancora una volta la Germania intende “rafforzare” l’Europa sacrificando un… asset francese. Inoltre, l’UE ne trarrebbe ben poco. Infatti, finché gli Stati membri concordano su una posizione, è meglio avere diversi membri del Consiglio di sicurezza per difenderlo (un seggio equivale a un voto – e ci sono sempre uno o due paesi dell’UE tra i membri non permanenti). E se i Ventisette non dovessero trovare un accordo, la cosiddetta voce unica “comune” rimarrebbe in silenzio. Ovviamente a Berlino non interessa.

Lo stesso vale per il cambiamento climatico. La Germania ha deciso di chiudere al più presto tutte le sue centrali nucleari a favore delle energie rinnovabili (risultato: riprende la produzione di carbone, e Berlino punta, con Nord Stream 2, sull’aumento dei consumi di gas naturale. ). D’altra parte, quasi il 70% dell’elettricità francese proviene dal nucleare, una fonte non solo economica e permanente (affidabile sia in inverno che in estate), ma che riduce anche al minimo le emissioni di CO2. Tuttavia, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC) e il Centro comune di ricerca (JRC) dell’UE affermano entrambi che l’energia nucleare, nonostante tutti i suoi difetti, è attualmente uno dei nostri migliori strumenti per passare a un modello senza carbonio, La Germania sta conducendo una dura battaglia contro di essa. Di recente è riuscita ad escludere il nucleare dai bond “verdi” dell’Ue, per un importo di 250 miliardi, a differenza dei cosiddetti progetti “transitori” sul gas naturale che vi troveranno posto.

Ancora una volta, gestendo bene le istituzioni dell’UE, Berlino sta lavorando per indebolire le risorse francesi, gettando nel processo gli interessi europei. Quando reindirizza le risorse e gli investimenti dell’UE a società e progetti tedeschi, distrugge anche le prospettive per l’energia nucleare europea. Che avrebbe però il multiplo vantaggio di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica per l’UE entro il 2050, di promuovere la competitività delle industrie, di garantire energia elettrica stabile a un prezzo accessibile anche ai cittadini, il tutto senza che l’Europa non cada in un mercato energetico dipendente da potenze esterne come Russia, Turchia o Stati Uniti.

Il settimanale tedesco Der Spiegel ha recentemente riassunto i 16 anni al potere della cancelliera Merkel sotto il titolo “Opportunità mancate”. Questa osservazione vale anche, se non soprattutto, per l’Europa. Il giornale cita il filosofo Jürgen Habermas, per il quale Angela Merkel ha cercato soprattutto la pace – da qui la grave mancanza di qualsiasi strategia degna di questo nome durante le crisi successive e l’attenzione sul solo armeggiare per far ripartire la macchina, senza fare di più. In effetti, c’è una ragione molto più profonda per questo ostinato rifiuto di imparare dalle difficoltà. Il problema, per la Germania, è che la maggior parte degli eventi degli ultimi quindici anni, dalla crisi finanziaria alla pandemia passando per la presidenza Trump, hanno confermato la rilevanza degli obiettivi francesi per l’Unione, sovente agli antipodi delle priorità tedesche.

Che si tratti di emancipazione dagli Stati Uniti (la famosa autonomia strategica), di riportare in Europa le filiere produttive, di rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, di necessità di un’agricoltura autosufficiente, di utilità del nucleare nella lotta al riscaldamento globale, o l’importanza degli eserciti e di un’industria degli armamenti indipendente in un contesto internazionale caratterizzato da una crescente rivalità tra poteri – il mondo intero è consapevole di queste tendenze e cerca di trarne le conseguenze. Ma la Germania, dal canto suo, si oppone con le unghie e con i denti a che l’Europa faccia lo stesso, per paura che ciò favorisca troppo il suo partner francese. Perché, ovviamente, perseguire una politica capace di dare risposte concrete a tutte queste sfide significherebbe, per l’Europa, intraprendere la strada che Parigi ha sempre raccomandato. In questo caso, l’influenza della Francia sarebbe rinforzata automaticamente e le sue risorse ancora esistenti sarebbero immediatamente valorizzate. Tuttavia, Berlino vuole evitare a tutti i costi un simile spostamento negli equilibri di potere tra i due paesi.

Il generale de Gaulle ha detto: “E’ destino della Germania che nulla possa essere costruito in Europa senza di lei”. D’altra parte, c’è da temere che con essa non ci possano essere che “anticipi” che, a ben guardare, finiranno sempre per giovare all’Europa molto meno che a Berlino.

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/604-les_allemands_sontils_de__bons_europeens__ou/

Un addio senza rimpianti_di Antonio de Martini

Domenica prossima 26 settembre le elezioni tedesche archivieranno l’ “ epoca Merkel”.
Ha regnato due anni più di Hitler e uno meno di Adenauer.
Sarà ricordata come una zelante burocrate di formazione DDR di cui i tedeschi non serberanno ricordo passati tre anni.
Avrebbe potuto concludere brillantemente il processo di integrazione europea iniziato da Adenauer, De Gasperi e Shuman, oppure rilanciare la Ost-politik di Bismarck e di Brandt, ma ha preferito fare la Kellerina degli Stati Uniti e scambiarsi occhiate di intesa con Sarkozy, un altro profugo dell’est di cui l’Europa avrebbe fatto volentieri a meno.
Gli esegeti la elogiano perché andava personalmente a fare la spesa e si é fatta fotografare a dieci anni di distanza con lo stesso vestito.
Pochino per quattro lustri di regno.
Ha fatto da zelante eco a tutte le dichiarazioni del Presidente USA che ne controllava le telefonate come a una cameriera sospettata di fare la cresta sulla spesa.
Accettò di chaperonare la Turchia per conto della NATO per ricondurla all’ovile coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
In casa, con politiche ambigue e rinunciatarie ha fatto rinascere una forte estrema destra nazionalista.
Anche il Parlamento Europeo sta sbarazzandosi dei suoi protetti.
Scialba e stinta ma stabile. Come un vecchio divano della casa di campagna, disponibile ad ogni uso, ma non é il salotto buono.
E’ stata l’ideale di una democrazia borghese, rassicurante perché imbelle; una miope amministratrice col braccetto corto.
Uno statista si distingue perché impone una cultura e/o lascia dietro di sè una squadra di eredi di cui la Germania sembra invece già ansiosa di sbarazzarsi.

I confini dell’Europa, di Christophe Réveillard

Christophe Réveillard è uno dei maggiori storici ed analisti europei, per altro sconosciuto in Italia. Uno dei pochissimi che già sul finire degli anni ’80 ha offerto una ricostruzione storica molto ben documentata della costruzione europea a partire dal punto di vista e dalla spinta determinante americana nel dopoguerra, ma già preparata sin dagli anni ’30. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Christophe Réveillard

Christophe Réveillard è laureato in Diritto Internazionale Pubblico, Dottorato in Storia, Membro dell’UMR Roland Mousnier (Scuola di Dottorato Moderna e Contemporanea Paris-Sorbonne Paris IV – Centre for European History and International Relations), Direttore del Seminario di Geopolitica, War School, Joint Defense College (CID), Scuola Militare, Revisore dei Conti del Center for Advanced Studies on Modern Africa and Asia (CHEAM – classe 1999), Research Engineer, European Professor-Jean Monnet

Più che in qualsiasi altro continente, il concetto di confine ha un’evidente rilevanza geopolitica in Europa. Tuttavia, è anche legato alla complessità derivante dalla storia del continente che plasma, all’interno dell’identità globale, identità particolari.

Poiché la geografia da sola non può essere sufficiente a determinare e fissare i limiti del continente, si pone la questione delle caratteristiche dell’identità collettiva europea come legittimazione o invalidazione dell’appartenenza di territori e società all’Europa. Questi sono i confini dell’appartenenza. Se le coste delimitano facilmente il nord, l’ovest e il sud dell’Europa, è nei confronti della zona orientale che l’elemento identitario e culturale, attraverso il prisma storico e politico, deve sovrapporsi agli apporti della geografia. Ovviamente, come i recenti Stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, la delimitazione geografica copre la Bielorussia, la Moldova e l’Ucraina. La Russia è bicontinentale eurasiatica, ma ha una popolazione molto prevalentemente europea e soprattutto fissata ad ovest degli Urali, anche se il suo territorio è situato per il 75% in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: Le relazioni tra la Russia e 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nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali:“Raduno dagli Urali a Gibilterra, dalla Tracia alle Ebridi; e seguita dalle sue processioni di imperi, [l’Europa] avrebbe potuto sfidare il mondo” (Jules Romains, Les hommes de bon will ) e il generale de Gaulle con l’obiettivo di “creare la solidarietà europea dall’Atlantico agli Urali” , ma anticipando che “l’URSS non è più quello che è, ma la Russia” . Gli Urali manifestano una scelta di europeizzazione senza fissare un termine politico, poiché Mosca conserva la scelta di proiettarsi anche sulle sue periferie orientali ( Michel Foucher ).

Dove finisce l’Europa?

La questione si pone quindi più particolarmente in primo luogo per il Caucaso meridionale, la Transcaucasia o quella che fu chiamata un tempo Asia occidentale comprendente gli Stati di Armenia, Georgia e Azerbaigian; sorge anche per l’Asia Minore o l’Anatolia, la Turchia per la maggior parte.

Il Caucaso è stato a lungo considerato l’asse di separazione tra l’Europa a nord e l’Asia a sud, ma il suo cuore georgiano e armeno beneficia del contributo di analisi storiche e politiche al servizio della profonda comprensione delle caratteristiche identitarie e culturali, per il riconoscimento europeo e respingere al fiume Araxe il vero limite con l’Oriente turco, la Persia e le sponde occidentali del Mar Caspio. La porzione di confine turco nel continente europeo è la Tracia orientale, confine politico che rappresenta meno del 3% della superficie totale del territorio turco schierato quasi esclusivamente nell’Asia anatolica. Ciò che la geografia suggerisce facilmente da questo rapporto totalmente squilibrato tra Europa e Asia è confermato dalla rigorosa linea di demarcazione tra i due continenti rappresentati dal Mar di Marmara. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa fondate sul loro retroterra religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali.

Il continente frammentato

Se Michel Foucher evoca i “frammenti d’Europa” è in particolare perché il continente ha vissuto una moltiplicazione dei suoi confini interni secondo un processo continuo e accelerato dalle crisi; inoltre, “più di ogni altro, l’Europa è il continente dei confini”  (Yves Gervaise). La creazione e poi la generalizzazione del concetto di stato-nazione è la causa principale di un periodo inaugurato a distanza dal Trattato di Westfalia.(1648), ma la cui vera portata si fonde con l’ideologia del diritto dei popoli all’autodeterminazione, favorita dal crollo dei maggiori gruppi politici storici. La scomparsa degli imperi russo, ottomano, austro-ungarico e tedesco è il risultato di un conflitto che ha visto il suo completamento la creazione di nuovi stati, in particolare Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, i tre Stati baltici, la nuova Polonia e Jugoslavia nonché il mantenimento di rivendicazioni di indipendenza da altre minoranze nazionali o il loro manifestarsi per contestare le disposizioni dei Trattati di Versailles (anche Saint-Germain, Trianon, Sèvres). Nuovo conflitto, nuovo sconvolgimento dei confini interni del continente europeo: la sovietizzazione, poi chiamata “sovranità limitata”dell’Europa centrale e orientale e di parte dei Balcani, la divisione della Germania e il recupero dei paesi baltici da parte dell’URSS. La Guerra Fredda (1947-1991) ha rappresentato un periodo di glaciazione geopolitica per l’Europa continentale durante il quale non si sono verificati notevoli cambiamenti di confine nello spazio continentale.

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Poi, improvvisamente, la caduta del comunismo ha provocato una riconfigurazione dello spazio europeo, degli Stati e dei loro rispettivi confini, secondo schemi derivanti dalla storia o in un inedito quadro essenzialmente orientale. La caduta dell’impero sovietico rende la loro rilevanza politica ai confini delle regioni sotto il giogo comunista, consente la riunificazione della Germania, ma mantiene l’enclave di Kaliningrad o Koenisberg. Più tardi, la Cecoslovacchia si divise in due entità e la Germania causò la disgregazione della Jugoslavia. In totale, è stata la comparsa di una quindicina di nuovi stati al suo interno e il numero di diadi corrispondenti, a cui l’Europa continentale ha assistito senza contare gli stati di fatto e contesi, come, ad esempio, Kosovo. , Cipro del Nord, Transnistria,Repubbliche Lugansk e Donetsk , Nagorno-Karabakh, Abkhazia, Ossezia del Sud, quasi cinquanta Stati di fatto o e de jure. Va precisato che l’Unione Europea a 27, quindi, non copre, tutt’altro, l’intero territorio europeo. La principale particolarità di questa frammentazione europea, e ciò che tendiamo a dimenticare troppo, è che queste delimitazioni politiche dei confini europei sono il risultato di crisi, insediamenti postbellici e lotte di potere. Un certo numero di questi confini non sono ancora stati accettati dai popoli e portano, in tutte le loro possibili varianti, a reazioni, sia contro l’isolamento politico serbo e per l’accesso alle coste dell’Adriatico, sia per la non adeguatezza del confini politici dell’Ungheria con le popolazioni magiare per citare solo questi due esempi. Sottolineando il posto unico dell’Europa nel mondo,“89 diadi o il 28  % del totale mondiale per il 23% del numero degli stati, l’8% della popolazione e il 3% della superficie. In totale, il continente europeo è aumentato di 26.000 km dagli anni ’90. Da questo punto di vista, l’Europa è il più nuovo dei continenti”.

Il caso dell’Unione Europea

La particolarità del rapporto dell’UE con la frontiera è che “  qualsiasi riflessione che voglia fissare definitivamente i limiti dell’Unione è in contraddizione con il processo di costruzione europea che, dal 1950, è una “creazione continua”” (Pascal Fontaine) . Deriva dal processo di integrazione sul tema delle frontiere sia interne che esterne dell’UE, la cancellazione del quadro territoriale e il disuso della linea di confine a favore del concetto di grande mercato interno, l’allargamento di uno spazio deterritorializzato gestito da istituzioni integrate e da una nuova identità plurale garantita dalla cittadinanza europea da un lato, e dalla moltiplicazione dei partenariati, della politica di vicinato e della gestione dei candidati, dall’altro.

I cambiamenti geopolitici degli anni ’90 hanno portato all’adesione 2004-2007-2013 all’Unione Europea e hanno raddoppiato il numero dei suoi chilometri di frontiere esterne e diadi. Oggi l’UE condivide più di 14.500 km di confini terrestri con 21 Stati. Confini di fattofurono anche erette come quelle che delimitano la Transnistria, il Kosovo, ecc. Ci sono anche casi particolari come l’isolamento di territori non membri dell’UE nel suo spazio territoriale, come Svizzera, Liechtenstein, Kaliningrad (Russia) e i piccoli stati, Andorra, Monaco, San Marino e lo Stato del Vaticano. Anche gli Stati balcanici extra UE possono essere considerati privi di sbocco sul mare a causa del loro accerchiamento in un asse nord-ovest-sud-est, da Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia, e ad ovest con la chiusura costiera dal mare Adriatico. Esiste una situazione geografica inversa con l’area senza sbocco sul mare spagnola di Ceuta e Melilla (16 km) al centro del territorio marocchino dall’indipendenza di quest’ultimo nel 1956, nonché la vicinanza dell’arcipelago delle Isole Canarie L’ondata di adesioni del 1995, Austria, Finlandia, Svezia, ha dato un confine di 1.300 km con la Russia, ampliato di ulteriori 1.000 km con l’adesione, nove anni dopo, della Polonia (Kaliningrad), della Lituania, dell’Estonia e della Lettonia. È con l’adesione della Bulgaria nel 2007 che la Turchia (446 km) può ormai condividere un confine con l’UE sulla rotta che era stata fissata nel 1923 dal Trattato di Losanna. Un altro caso particolare è l’uscita del Regno Unito dall’UE: quest’ultima perde i suoi 244.820 km 2di superficie e i vantaggi del dispositivo geopolitico globale offerto fino ad allora dalla presenza di Londra al suo interno. I negoziatori europei credevano di poter imporre, giocando sulla rete di sicurezza nordirlandese e nonostante la manifesta volontà popolare del Regno Unito per la Brexit, le regole di un’unione doganale con l’UE separando di fatto Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Tuttavia, questo per dimenticare che la prima ragione del desiderio britannico di lasciare l’UE era il suo rifiuto del suo sistema di integrazione normativa e giudiziaria. Non va inoltre trascurato l’impatto sulla Brexit della presenza di oltre 3 milioni di stranieri europei nel Regno Unito. Ovviamente l’uscita britannica riguarda anche tutte le regioni ultraperiferiche del Regno Unito e in particolare Gibilterra.

All’interno dei meccanismi annessi alle frontiere esterne, i collegamenti tra l’Unione Europea e il continente sono realizzati sulla scala, in parte, dei Balcani occidentali; per l’altra parte dell’Europa orientale nell’ambito del partenariato orientale: Ucraina, Moldova, Bielorussia e Caucaso meridionale. Le articolazioni tra l’UE ei suoi margini esistono con la Turchia, la Russia, gli Stati del Maghreb e del Medio Oriente e l’arco di crisi mediorientale. L’UE ha svolto nella sua politica di vicinato alternativamente la ricerca realistica di poli di stabilità e l’avvio di grandi politiche di stretti accordi di associazione al servizio di una visione atlantica propositiva, soprattutto con il vicinato orientale,

È così che si conferma, su una base identitaria comune, la grandissima diversità delle caratteristiche che definiscono i territori all’interno della delimitazione dei confini dell’Europa continentale. Questa varietà europea ha radici profonde, in particolare mitiche, spirituali e culturali. Nulla può, però, garantirne la sostenibilità in modo assoluto rispetto alle diverse sfide e minacce che si sono recentemente accumulate al suo interno, senza un periodico richiamo ai limiti che ne costituiscono il quadro.

https://www.revueconflits.com/frontieres-europe-reveillard/

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE, di Pierluigi Fagan

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE. Nella logica dei sistemi, le transizioni di fase sono cambiamenti strutturali dello stato, logica o ordine interno del sistema. Considerando l’Europa politica (l’UE) un sistema, vediamo di fare una fotografia aggiornata di quella che sembra proprio una transizione di fase.
La notizia, ed è una vera e propria notizia, è che Italia e Francia starebbero per firmare un trattato bilaterale, sul tipo di quello a suo tempo firmato da De Gaulle ed Adenauer agli albori della Comunità europea (1963), poi rilanciato nel famoso trattato di Aquisgrana (2019) tra Francia e Germania. Di questo hanno discusso nel recente incontro di Marsiglia Macron e Draghi, per cui pare che ora la bozza approvata a Parigi sia in ultimo esame a Roma per poi arrivare alla firma. I temi dell’accordo sono vari ma alcuni sono più rilevanti di altri.
Il tema fondamentale però, non è un contenuto dell’accordo ma l’accordo stesso. Gli accordi bilaterali Francia e Germania erano di corredo alla ragione prima sottostante la stessa idea di Comunità e poi Unione europea ovvero incatenare tra loro le due potenze continentali che hanno dato vita a una lunga sequenza di guerre lungo gli ultimi tre secoli. Erano quindi accordi diciamo “difensivi”, a difesa dal pericolo del riproporsi di una sregolata competizione diretta. Ma i singoli stati europei oggi, non vivono più una fase in cui il primo pericolo è interno, ma esterno. Russia, Cina, Medio Oriente, Africa, pandemie, nuove tecnologie, corsa allo spazio, precario sviluppo economico, migranti, difesa, demografia, ecologia, sono la sempre più problematica agenda del mondo a cui ci si deve politicamente adattare.
In più, l’atteggiamento americano verso l’Europa inaugurato da Trump, pur con stile diverso, viene conformato nei fatti da Biden. Gli USA hanno problemi loro, strategie loro, nuovi egoismi quali nascono dall’essere sottopressione e vivere una fase di contrazione di potenza. Tra cui l’ossessione cinese che invece per gli europei, tale non è affatto, anzi. Tanto per dirne una, il prossimo 24 settembre, Biden farà un vertice QUAD con Australia, India e Giappone ovvero l’asse Indo-Pacifico, il vero contesto primo delle preoccupazioni americane ovvero il contenimento della Cina. A tale proposito, spero siano fake news quelle che spifferano di una eventuale intenzione americana di aprire una propria base a Taiwan. Lo spero proprio, la reazione cinese potrebbe esser imprevedibile.
Passando dalla fase “difensiva” a quella “progettuale”, i francesi hanno dovuto prender atto che ciò che gli unisce alla Germania è davvero poco, se si esce da una logica di relazione di convenienza limitata, senz’altro meno di quello che li unisce all’Italia e più in generale ai paesi latino-mediterranei. Potenza della geo-storia, questa logica a lungo trascurata per dominio della logica puramente economicista. Da un paio di anni, la Francia capeggia per molti versi le richieste verso l’Europa del gruppo latino-mediterraneo di cui, in tutti i sensi, fa parte anche se da sempre coltiva una sua schizofrenia interna che vagheggia un asse franco-carlomagnesco.
In più, i tedeschi sono anche loro in transizione di fase. Lo sono perché lo è l’Europa ed il mondo (vedi “globalizzazione”), ma anche perché dopo sedici anni, perderà la sua capofamiglia, la signora Merkel. Tra undici giorni si vota per il nuovo Bundestag e nuovo Cancelliere. Al momento, si prevede un successo SPD ma soprattutto un crollo verticale di CDU/CSU, tanto da presentare l’ipotesi di un governo SPD-Verdi-Liberali con i democristiani fuori, una vera novità tellurica. Ma è prematuro fare congetture sull’esito del voto, però si possono fare tre considerazioni. La prima è che la Germania termina la sua lunga stabilità in accordo ad una relativa stabilità del quadro mondiale. La seconda è che l’eventuale coalizione “semaforo” è più numerica che politica. La terza è che sarà molto importante capire come e se si sposteranno gli equilibri interni alla Germania in rapporto ai problemi europei cosa che in sostanza si capirà quando verrà stabilito il ministro delle finanze, pare non prima di dicembre. I tedeschi impiegano molto tempo a fare un governo di coalizione dopo le elezioni, poi dura tutta la legislatura. Noi facciamo governi di coalizione in una settimana, poi durano qualche mese.
Due questioni, più di ogni altra, si presentano in chiave europea. La prima è la riforma del Patto di Stabilità. Qui si stanno già da tempo muovendo i pezzi sulla scacchiera con Francia-Italia e paesi latino-mediterranei da una parte e Austria, Finlandia, Paesi Bassi, Danimarca, Lettonia, Slovacchia, Svezia e Repubblica Ceca, dall’altra. In gioco, ovviamente, le questioni di bilancio, il debito comune e tutta la cascata di dettagli architettonici dell’economia e finanza dell’Unione per i prossimi anni che i latino-mediterranei vorrebbero più simili agli ultimi due che non ai precedenti intercorsi tra il 1997 e l’inizio della pandemia. Ma è forse la seconda questione la più importante. All’interno della Commissione, gli italo-francesi vorrebbero portare il principio di maggioranza semplice rompendo il paralizzante dogma dell’unanimità. Ad occhio, infatti, gli otto paesi detti “frugali” contano -tutti assieme- un terzo di popolazione dei cinque latino-mediterranei e gli interessi delle nazioni si pesano, non si contano solo come diceva il buon vecchio Cuccia a proposito delle azioni nei consigli di amministrazione. E’ ovvio che questo nuovo principio sovvertirebbe le logiche unioniste ed è quindi ovvio si aspetti di vedere cosa succede in Germania per capire i margini di manovra di tale possibile innovazione che procurerebbe qualche strappo politico di una certa rilevanza.
A latere, ci sono anche le questioni sulla nuova forza armata di pronto intervento europea con seimila effettivi tra esercito-marina-aeronautica. Piccola forza, ma di una certa rilevanza politica e geopolitica. La forza, infatti, presuppone un comando politico e questo, di nuovo, deve prodursi per maggioranza semplice stante che tale forza sarebbe in pratica fatta da francesi, italiani, spagnoli e tedeschi ed agli interessi geopolitici di questi risponderebbe. Interessi geopolitici che per Spagna, Francia ed Italia, non possono che esser mediterranei (Africa, Medio Oriente, Turchia) come geo-storia indica con precisione.
Ci sarebbe molto altro da dire ed approfondire su tutte queste ed altre questioni, ma qui siamo su un formato che ci limita. Aggiungerei solo due cose.
La prima è che dell’eventuale nuovo trattato italo-francese abbiamo anticipazioni, ma ovviamente nessun contenuto preciso. Il tono però sembra complesso e non solo formale. Si prevedono, almeno nelle intenzioni, forti intendimenti comuni certo economici, ma anche politici, culturali, geopolitici, insomma qualcosa di più che non una amicizia occasionale. Il che, lo diciamo chiaramente, ci piace assai. Chi segue questa pagina da più tempo, saprà che per quanto alle mie analisi, il futuro auspicato è quello di una vera Unione politica dei paesi latino-mediterranei, costituzionalizzata e parlamentare, quindi democratica e politica. Lo richiede l’adattamento al mondo dei prossimi trenta anni. La sovranità non è un principio astratto, si deve difendere con la potenza ed oggi, nessun singolo stato europeo ha la potenza adeguata. E quanto a “potenza” non ci sono solo questioni militari, si tratta anche di nuove tecnologie, investimenti e ricerca, politiche energetiche, questioni demografiche, peso geopolitico, peso economico-finanziario-monetario, peso culturale. Naturalmente questo prescinde da simpatie ed antipatie, anche da Macron e Draghi, non sottostima il pericolo che la Francia pensi di dominare la relazione a proprio egoistico vantaggio. Non so se mai si farà, come e quando, però dai contenuti che emergono del trattato una certa propensione a davvero unirsi ad altri per aver maggior massa che è presupposto della potenza necessaria a far qualsiasi cosa, sembra emergere. Ma siamo alla prima riga di un lungo romanzo ipotetico. Vedremo.
La seconda è che Italia e Francia sono i due soli paesi europei in cui si applica il Green Pass con una certa decisione. I due paesi hanno una quota vaccinati (completi) simile intorno al 67%, più bassa di Spagna e molto più bassa di Portogallo. I greci, invece, stanno più indietro. L’obiettivo mai esplicitato ufficialmente, ma quello che si ritiene a grana grossa tale, è arrivare il prima possibile almeno ad una copertura del 75%. Questo darebbe ragionevole garanzia (“ragionevole” per quanto lo permetta lo stato attuale delle conoscenze su questo virus che, come tutti notano, è quantomeno incerta) di un più limitata circolazione del virus, limitata cioè “gestibile” senza ricorrere di nuovo alle zone colorate, alle chiusure o limitazioni segmentate o addirittura a nuovi lockdown. E’ la capienza ospedaliera che fa da termine ultimo, fatto questo noto da due anni ma su cu i governi tacciono per pudore e cattiva coscienza e gli anti-governisti tacciono perché vanno appresso ad una loro nuvola di diversi presupposti per sostenere la loro narrazione sulla dittatura biopolitica ordita a Davos che ha come obiettivo ultimo la sola Italia perché “chi doma l’Italia doma il mondo”. Potenza degli immaginari. Problemi di gestibilità invece, attiverebbero di necessità nuove norme limitanti che limiterebbero la ripresa economica che limiterebbero lo spazio di agibilità politica per andare in Europa a richiedere di estendere in permanenza forme di debito comune e minor ossessione sulle politiche di bilancio. Quindi i due governi italiano e francese sono quelli che vanno più per le spicce, hanno fretta e non possono sbagliare, questo è per altro noto a tutte, ripeto “tutte” le fazioni politiche di governo e non in Italia che infatti stanno zitte, assecondano o giocano a fare la forza di lotta -su twitter- e di governo -nei fatti-. Fallire la ripresa economica e fallire l’utilizzo dei miliardi -per quanto condizionati- dati dall’UE, sarebbe la morte per il progetto di parziale modifica della logica UE italo-francese. E si tenga pure conto che Macron, ad aprile, va ad elezioni e sulla carta, pure non proprio per lui promettenti.
Bene, il post è ricco, lo saranno immagino anche i commenti. Tutti benvenuti eccetto quelli che invece di trattare l’argomento nel suo insieme ovvero nel suo complesso, estrapoleranno singoli fatti per esprimere qualche inutile, più o meno biliosa, convinzione personale non poggiata su analisi razionali. Del tutto da evitare, invece, polemiche sulle faccende Covid, il post non è su quello. Per vostra conoscenza non sono favorevole al Green Pass, lo sono personalmente verso i vaccini, preferirei lo sviluppo di forme di cura a casa per evitare le temute invasioni ospedaliere, trovo l’intera gestione di comunicazione del problema Covid delirante con distribuite responsabilità tra Governo, circo mediatico ed una certa parte di area critica egemonizzata da vari tipi di deliri anche psichici, ma non è di questo che il post invita a discutere.

 

Stati Uniti, NATO e Unione Europea! L’illusione di un addio, il miraggio dell’autonomia_di Giuseppe Germinario

Gli alti lai hanno raggiunto alla fine l’Olimpo; sono riusciti a smuovere la magnanimità dell’Onnipotente. Per quattro anni gli orfanelli hanno smarrito la guida; hanno dovuto sopportare smarriti le bizze dell’impostore. Hanno avuto davanti a sé l’uscio maliziosamente socchiuso verso le incertezze della libertà; non dovevano far altro che liberarsi dei guardiani arcigni, ma privi di una guida. Non hanno nemmeno avuto il coraggio di sbirciare il nuovo mondo dai pertugi. Hanno tramato invece per il ritorno del vecchio padrone aspirando nient’altro che al ripristino delle sicurezze di una strada obbligata scelta da altri. Joe Biden, il nuovo messia, li ha accontentati prontamente. Ha indicato loro la strada obbligata con piglio fermo e modi cortesi; ma la direzione indicata non è proprio la medesima percorsa per trenta anni. Biden, però, impersona più l’umanità e le debolezze delle divinità greche, che la purezza del dio cristiano; il prezzo chiesto agli alleati è stato quindi piuttosto salato e guidato da una tattica levantina.

I recenti vertici del G7 e della NATO tenutisi a giugno non possono infatti essere considerati nella ordinaria routine diplomatica.

Il G7 ha certamente assunto la funzione politica di allineare preliminarmente il gruppo di paesi determinanti per lo svolgimento degli indirizzi; nella divisione dei compiti ha assunto il compito politico-culturale di offrire nuovamente al mondo, in particolare nelle zone critiche di competizione con la Cina e la Russia, il modo di vita, i valori e la generosità occidentali. Ben più corposi i due vertici successivi della NATO e con Putin.

Mi ero ripromesso di scriverne a ridosso. Non è stato possibile, ma il tempo trascorso non è passato invano.

Tra la piaggeria e il lirismo prevalenti, non sono mancati commenti e analisi più avveduti; tra questi la constatazione che nell’assemblea NATO i diversi punti di vista, gli interessi strategici potenzialmente divergenti hanno spinto l’egemone statunitense ad una salomonica divisione dei compiti tra gli alleati eurorientali impegnati a sostenere gli USA nel fronteggiare la Russia e i fondatori originari, in particolare Italia, Francia e Germania impegnati nel loro sostegno ai propositi americani di arginare la Cina nel Pacifico con alcune varianti legate al comportamento britannico. In pratica una fotografia se non una interpretazione sin troppo letterale del contenuto dei colloqui e dei testi finali concordati.

Eppure quei documenti, i finali ed i preparatori, in particolare quelli della NATO, rivelano qualcosa di ben più complesso ed articolato.

LA NATO, QUESTA (S)CONOSCIUTA

Già soffermandosi sulla constatazione “fotografica” dei testi non è sufficiente ricondurre la dicotomia (schizofrenia?) al classico schema delle divisioni e differenze tra alleati senza considerare quindi l’acceso conflitto e le incertezze ormai, con l’uscita di Trump, tutte interne alla amministrazione americana in primo luogo, ma anche in particolare e in subordine in quella francese.

Una prima chiave di interpretazione di questa complessità la si trova in alcune frasi apparentemente anodine a partire da pag 77 del documento preparatorio dell’Assemblea NATO*: “a partire dal 2014 la NATO ha adattato con successo le proprie strutture militari e la propria postura di potenza. Continua a farlo alla luce delle nuove sfide (Depuis 2014, l’OTAN a adapté avec succès ses structures militaires et sa posture de forces. Elle continue de le faire à la lumière des nouveaux défis.)”; ancora: “tuttavia il braccio politico della NATO che permette al segretario generale e all’Organizzazione stessa di adattarsi e posizionarsi in un ambiente securitario in rapida trasformazione, deve ancora evolvere (Cependant, le bras politique de l’OTAN, qui permet au secrétaire général et à l’Organisation ellemême de s’adapter et de se positionner dans un environnement de sécurité en rapide transformation, doit encore évoluer).

La riproposizione in ambito NATO della pratica funzionalista brillantemente adottata nell’ambito della Unione Europea.

Niente di originale in un caso come nell’altro. Tutto rientra da sempre nei normali canoni dell’azione politica dei centri decisionali più avveduti capaci di occupare i posti chiave, di innescare le inerzie degli apparati e di creare una situazione di fatto propedeutica alla sanzione politica o quantomeno in grado di contrastare e rendere improbabili eventuali scelte alternative. Nella fattispecie imporre di fatto con un livello di integrazione addirittura maggiore quello che gli statunitensi non riuscirono a sancire per decisione esplicita negli anni ‘50 con la CED (Comunità Europea di Difesa).

Il filo conduttore del documento è sin troppo chiaro ed esplicito e si traduce in pochi indirizzi strategici della NATO:

  • deve affermarsi sempre più come un centro di decisione politica in quanto detentrice della forza militare;

  • deve diventare una sede privilegiata di incontro, di consultazione e di coordinamento non solo dei ministri della difesa, ma anche degli esteri e degli altri ambiti che abbiano implicazione con la difesa e la sicurezza della alleanza e dei singoli appartenenti, in particolare la ricerca scientifica, le comunicazioni, l’energia; devono essere ulteriormente rafforzati i legami e il coordinamento con le strutture della UE (Unione Europea);

  • deve decidere, operare e comunicare in maniera univoca evitando progressivamente sovrapposizioni delle altre istituzioni nazionali e comunitarie concorrenti sino a curare la stessa formazione culturale e tecnica del personale e dei collaboratori nonché dell’ambiente operativo;

  • deve agire statutariamente in ambiti operativi e spazi geopolitici più ampi e globali rispetto a quelli fondativi della fase bipolare di confronto sul fronte occidentale con la Unione Sovietica ipotizzando, anche se non ancora esplicitamente, l’allargamento ad una “NATO mondiale” e praticando l’estensione dei rapporti di collaborazione;

  • deve stabilire una linea di comando più efficace che superi su più temi l’obbligo della unanimità nelle decisioni, che attribuisca maggiori poteri al Segretario Generale, compresa la maggiore autonomia nell’utilizzo delle risorse disponibili e la verifica della effettiva esecuzione delle decisioni, che stabilisca tempi certi nelle decisioni, che attribuisca infine al Comando Generale maggiori poteri nella preparazione degli interventi in situazioni di emergenza anche in anticipo e propedeutici alle decisioni politiche.

Una chiarezza, una puntualità ed una sicumera inedite ampiamente corroborate e indotte da due situazioni:

  • la progressiva affermazione pratica e ormai sempre più adozione concettuale del modello di guerra ibrida e in subordine asimmetrica che estende compiutamente il classico confronto militare diretto con armi da fuoco ai più diversi ambiti e spazi dell’agire umano e lo “diluisce” di fatto nell’ambito del più generale confronto geopolitico; una dinamica innescata inesorabilmente dall’avvento dell’economia industriale e resa organica dalle nuove potenzialità tecnologiche e dalla capacità operativa e di influenza delle grandi potenze. Un modello che implica un salto qualitativo della visione strategica e della capacità operativa e una mole immane di risorse necessarie;

  • l’accelerazione ormai trentennale dei processi di integrazione militare, innescata dalla prima Guerra del Golfo, proseguita con l’allargamento delle adesioni all’Allenza Atlantica e non ancora compiuti. Una integrazione che ha riguardato il rapporto tra le forze territoriali e le unità mobili centrali, l’integrazione e velocizzazione delle reti di mobilità e comunicazione, l’integrazione delle reti energetiche, quella dei centri di comando e la creazione di centri operativi e logistici (17?) a direzione NATO nei diversi ambiti compreso quello tecnologico. Tutti processi che stanno svuotando di fatto la capacità e le prerogative dei singoli stati nazionali europei in materia di difesa e di influenza geopolitica.

In questo quadro vengono definiti i punti dichiarati di attacco dell’alleanza: quello in atto contro la Russia, dovuto bontà loro al carattere estremamente aggressivo sul fronte europeo pur riconoscendo capacità operative non comparabili con quelle della Unione Sovietica; quello in divenire con la Cina, paese le cui ambizioni vanno contenute ma con il quale ci sono margini di trattativa e collaborazione.

In sintesi, più che l’individuazione pur indispensabile degli avversari colpisce, a parere dello scrivente, il tentativo articolato di allargare ed approfondire il campo di azione e le prerogative “statuali” su base oligarchica di una alleanza sino ad ora statutariamente definita “militare” e basata nominalmente sulla pari dignità degli aderenti. Non a caso prendono piede proposte tali quali la costituzione di una DARPA atlantica, di una agenzia quindi in grado di sviluppare l’uso civile e militare delle applicazioni tecnologiche frutto della ricerca scientifica con tutto quello che ne consegue nei rapporti con le università e con gli apparati industriali; l’uso ventilato delle forze militari a fini di sicurezza interna nei paesi dell’alleanza in risposta alle minacce del terrorismo, ma anche di fenomeni politici emergenti.

L’esigenza di rispondere tempestivamente alle dinamiche multipolari sempre più complesse e imprevedibili sono certamente un impulso potente all’accentramento politico. Un proposito più facilmente perseguibile in una struttura chiusa come la NATO nel quale il personale è selezionato sulla base della fedeltà alla missione. Più complicato e meno dissimulabile nelle intenzioni reali e nelle contraddizioni intrinseche quando deve essere adottato coerentemente dai paesi e dagli stati nazionali europei.

Su questo ci offre lumi particolari il documento conclusivo dell’assemblea, altrettanto articolato di quello preliminare; meno compassato, decisamente più pervaso piuttosto da enfasi propagandistica ed ideologica.

A prima vista ha colpito il furore con il quale si scaglia contro il pericolo ru(o)sso, reo di revanscismo, di militarismo, di autoritarismo ai danni delle democrazie dei paesi vicini; una sfrontatezza tale da rimuovere e ribaltare la realtà della delusione della fine dello spolpamento della Russia, dell’aggressività continua perpetrata ai suoi danni, dell’impronta russofoba dell’adesione alla NATO e alla UE dei paesi dell’Europa Orientale, dei colpi di mano perpetrati in Ucraina ed altri paesi; in particolare della rimozione vergognosa della questione del trattamento riservato alle popolazioni russe e russofone rimaste intrappolate nei nuovi stati frutto dell’implosione dell’URSS, tanto più grave in quanto perpetrata dai sedicenti paladini dei diritti umani.

Del tutto ignorato al contrario l’insolito lirismo, un vero e proprio panegirico di numerose pagine, riservato al decisivo contributo offerto dalla UE e dalla sua Commissione al processo di integrazione intensiva e allargamento della NATO. Un cappello addirittura imbarazzante nella sua evidenza tale da mettere in dubbio impietosamente l’immagine di relativa autonomia politica costruita intorno alla costruzione europea. Un florilegio che manca il punto qualificante e più paradossale di questo altruismo comunitario: quello dell’apprezzamento di un documento della Commissione Europea sulla politica estera e di difesa autonoma europea che prevede la costruzione di una forza militare per le missioni estere, in realtà di supporto e che ignora del tutto la creazione di una forza militare autonoma posta a difesa dei confini territoriali europei.

“Italia e il Mondo”nel proprio piccolo, grazie in particolare agli articoli di Luigi Longo, ha cercato di smontare nel merito questa immagine sottolineando in particolare la coincidenza dei progetti infrastrutturali europei con gli interessi strategici e di riorganizzazione della NATO; ci stanno ora pensando in grande gli stessi artefici principali della costruzione europea a demolirla assieme al giocattolo stesso. Un gioco rischioso che intanto di fatto mette in imbarazzo e erode ogni sponda a quella componente europeista, di impronta radicale e progressista, che fonda la propria fedeltà al progetto sul carattere endogeno della formazione e sul potenziale offerto di autonomia politica dell’istituzione rispetto a tutte le grandi potenze, compresi gli stessi Stati Uniti.

LO STATO dell’ARTE

Un gioco rischioso appunto, che rischia di creare problemi ben più gravi di quanti ne possa risolvere, ma non per questo meno sagace ed articolato.

Gli Stati Uniti, i loro centri decisori in particolare, hanno diversi problemi strategici di fondo da risolvere:

  • la individuazione e la scelta del nemico principale da affrontare con una strategia coerente. Questo nemico sta diventando oggettivamente la Cina in uno scenario nel quale sta emergendo e riemergendo l’intraprendenza di numerosi attori regionali ed alcuni “quasi globali”, come la Russia; in una situazione però nella quale gli Stati Uniti hanno grosse collusioni e interdipendenze nella Cina stessa e della cui ascesa a potenza sono di fatto uno dei principali responsabili assieme alla geniale abilità della classe dirigente mandarina;

  • il baricentro politico e militare statunitense è orientato ancora prevalentemente in Europa, area da cui trae la maggiore forza politico-economica e la maggiore capacità pervasiva; lo rimarrà per altro ancora per molto tempo. La resilienza ormai settantennale di questo enorme coagulo di potere ha consentito la formazione di potenti ed imprescindibili centri decisionali e di apparati di potere in grado di condizionare e decidere degli orientamenti e dello scontro politico interno agli Stati Uniti, come si è visto apertamente durante i quattro anni di presidenza Trump; centri difficili da scalzare, ridimensionare e riorientare a seconda delle necessità e delle condizioni;

  • gli Stati Uniti dispongono, in termini relativi, non assoluti, di una minore quantità di risorse materiali e umane rispetto ai numerosi fronti che si stanno aprendo e al peso degli avversari in lizza ferma restando la ancora sostanziale superiorità tecnologica, economica ed operativa. Sono ancor meno in grado di sostenere più di un confronto militare diretto e di gestire soprattutto l’esito dello scontro;

  • gli Stati Uniti, sfortunatamente per i loro centri decisori ancora prevalenti, fortunatamente per il resto del mondo, stanno vivendo una situazione interna nella quale gran parte, forse la maggioranza della popolazione è nettamente contraria ad ulteriori impegni militari diretti sul terreno e dotata di una superiore consapevolezza, rispetto agli europei, delle implicazioni interne della collocazione e delle scelte geopolitiche del paese. Questo grazie soprattutto alla evidenza e alla violenza dello scontro politico in atto, alla pesantezza in termini di squilibri delle conseguenze delle dinamiche concrete della globalizzazione; alla formazione infine di una sorta di platea magmatica particolarmente inquieta e manipolabile sempre più legata ad una visione assistenziale dei diritti.

In tale contesto, in attesa che lo scontro politico interno, nient’affatto sopito, si delinei e risolva più chiaramente, nella sua sostanza quindi sciolga il dilemma tra una delimitazione della propria sfera d’influenza accettando la condizione multipolare oppure la conferma della propria ambizione egemonica mondiale, ai centri decisori americani non resta che rifugiarsi sempre più nel modello egemonico britannico del secolo XIX teso a giocare sulle rivalità e a creare un equilibrio nel quale fungere da arbitro-giocatore senza eccessive esposizioni militaresche.

Da questo punto di vista il gioco europeo assume caratteristiche particolarmente complesse e sofisticate; di questo vissuto si alimenta anche la Alleanza Atlantica.

ESEMPI DI PERVICACIA

Le dinamiche in corso, compreso il manifesto programmatico appena illustrato, accrediterebbero la parvenza di autonomia istituzionale e di esercizio di sovranità della NATO; un accredito sempre in voga tra i fautori e gli esorcisti del governo mondiale.

Niente di più ingannevole.

La NATO rimane una alleanza militare con precise gerarchie interne attraverso le quali la potenza egemone americana esercita uno stretto controllo sugli alleati; le uniche libertà che possono esercitare entro certi limiti i paesi subalterni sono quelle di astenersi dalle azioni, ma mai e poi mai di agire in contrasto.

Si tratta però di un esercizio molto sofisticato, dai meccanismi assunti ormai quasi naturalmente e dove l’uso dell’imposizione esplicita pende sulla testa, ma solo come estrema ratio; un esercizio che agisce soprattutto per vie interne o sfruttando i dualismi presenti in un continente così affollato e variegato o ancora attraverso il sistema di relazioni bilaterali dirette.

Già di per sé sarebbe sufficiente osservare la localizzazione della sede di comando militare (Norfolk-USA) e il centro di elaborazione strategica della NATO e a chi deve rispondere direttamente il comandante militare.

Per chi non dovesse accontentarsi vi sono numerosi esempi di tecniche avvolgenti a conforto:

  • si parla di creare un complesso industriale-militare europeo a sostegno delle forze militari europee con il patrocinio della UE ed un primo significativo sforzo di 17 miliardi di euro? Arriva la batteria di paesi filogermanici che riescono a ridurre l’investimento a 7 miliardi e la cancelliera Merkel che esorta ad essere “inclusivi” e ad inserire le industrie americane nel pool;

  • alcuni paesi europei si avventurano a creare con successo un sistema di posizionamento satellitare simile e più efficiente del GPS (Galileo)? Il bon ton non consente sgarbi e dinieghi di principio; il prezzo dell’accoglienza è però il divieto di utilizzo del sistema a fini militari;

  • qualcosa di analogo accade con AIRBUS, nato con la contrarietà della Commissione Europea, sviluppatosi per altro quasi esclusivamente nel settore civile, incappato nello spionaggio industriale americano grazie alla posizione equivoca del proprio ex-amministratore delegato tedesco, successivamente nelle grinfie delle sanzioni economiche statunitensi per quegli stessi finanziamenti pubblici dei quali fruiscono le imprese aeronautiche americane dal proprio governo;

  • si tratta di sviluppare tecnologia “atlantica”, di creare addirittura una DARPA ( agenzia per le applicazioni miste civili-militari delle tecnologie) della NATO? L’Alleanza decide di creare il centro più importante a ridosso di quello francese, a controllarne ed assorbirne le attività. Tutto questo dopo che il governo francese, lo stesso Macron, ha consentito la cessione di ALSTOM energia, una azienda strategica nel settore nucleare civile e militare, alla General Electric americana e quest’ultima, a pochi mesi dall’acquisizione, ha annunciato la chiusura del suo centro ricerche nei pressi di Parigi con il suo corredo di novecento dipendenti altamente qualificati;

  • la NATO decide di creare qualche decina di centri operativi e logistici sparsi per l’Europa? Guarda caso chi riesce a far man bassa degli incarichi di direzione, in particolare i più strategici, è la Germania con il corollario dei paesi più germano-americanofili; il paese più debole militarmente e più occupato e infiltrato, in termini assoluti e relativi alla potenza economica, soprattutto nei settori della sicurezza, della difesa, dell’intelligence e della comunicazione;

  • Francia e Germania decidono a più riprese di creare una forza militare comune, una prima volta a ridosso dell’intervento nei Balcani negli anni ‘90? Puntualmente queste iniziative non riescono a decollare, mentre funzionano le collaborazioni tedesche con olandesi, cechi ed altri;

  • Francia e Germania decidono di incontrare Putin a ridosso del G7, vista l’analoga iniziativa di Biden? Puntualmente arriva la retromarcia per l’opposizione vivace di paesi dell’Europa Orientale russofobi, debitamente incoraggiati e sostenuti da inglesi, americani e tedeschi.

L’elenco potrebbe proseguire. Le costanti sono il ricorrente cedimento pubblico di tutti e il tornaconto politico ed economico della propria subalternità che riesce ad ottenere la classe dirigente tedesca, compresa qualche fregatura di successo come le acquisizioni in America della Bayer tedesca. È accaduto all’inizio del periodo esaminato con la guerra nei Balcani; è riconfermato appena adesso con il clamoroso via libera americano al Northstream II, dopo la beffa al diniego del Southstream all’Italia di cinque anni fa. Un chiaro messaggio a Putin di garanzia almeno temporanea di statu quo e la concessione di un ulteriore strumento di controllo tedesco, per conto terzi, della platea europea utilizzando lo strumento strategico della rete energetica.

RIMOSTRANZE e DETERMINAZIONE

Non si tratta di proseguire nelle rimostranze più o meno violente nei confronti degli americani. Le rimostranze sono comunque un segno di subalternità e di debolezza. Le classi dirigenti e i centri decisori statunitensi fanno semplicemente il loro mestiere; riescono ancora a sfruttare egregiamente in Europa il successo politico-militare ottenuto nella seconda guerra mondiale e con l’implosione della Unione Sovietica; sono stati capaci di proporsi positivamente, offrendo in cambio di subordinazione politica, un modello economico e culturale altrettanto subordinato ma di successo e proficuo anche per i subordinati pur con evidenti segni di crisi e decadenza. Modelli in larga misura adottati da quegli stessi paesi che si stanno ergendo ad alternativa geopolitica.

Una proposta positiva, proattiva che non si è ancora esaurita.

Gli indirizzi di movimento geopolitico non sono solo una presa d’atto e un utilizzo, a mo’ di constatazione, dei dualismi geopolitici presenti in Europa con i paesi dell’Est impegnati in prima linea contro la Russia e la triade italo-franco-tedesca distolta dalle tentazioni di pacificazione con i russi e indotta a limitare le potenziali relazioni strategiche con la Cina, trascinata com’è, con la complicità britannica, nella partecipazione militare marittima e in futuro aerea nel Pacifico. La Francia e la Gran Bretagna, per inciso, hanno ancora corposi interessi in quell’area.

Si tratta di qualcosa di più propositivo e complesso. Si tratta di assecondare e vellicare, in condizioni di aperta dipendenza politico-militare, le ambizioni politiche e geopolitiche della triade, soprattutto di Francia e Germania, nelle loro aree tradizionali di influenza, il Vicino Oriente, il Mediterraneo, l’Africa Sahariana e Sub-sahariana, in modo tale da evidenziare il loro contrasto di interessi con la Cina e la Russia in quelle aree. L’impressione è che sia ancora la Germania il fulcro sul quale gli statunitensi agiranno principalmente per mantenere le redini del gioco. Sta di fatto che gli Stati Uniti devono risolvere un problema di fondo ancora più complicato. La NATO nel Pacifico per ovvi motivi logistici e di geografia potrà svolgere una funzione pur importante di supporto; lo zoccolo duro delle alleanze e il teatro delle operazioni dovrà essere costruito soprattutto con gli stati e i paesi posti sul Pacifico con dinamiche affatto diverse da quelle adottate in un continente simile culturalmente e particolarmente frammentato politicamente. Non sarà semplice condurre rigorosamente al proprio gioco giganti come l’India e i paesi del Sud-est asiatico i quali si sono guadagnati recentemente l’indipendenza a scapito degli occidentali e tessono rapporti importanti con il vicino rivale.

Il nodo da sciogliere e l’ostacolo da affrontare sono le classi dirigenti, i centri decisionali e i ceti politici unionisti e dei singoli paesi europei; soprattutto la doppiezza di quelli tedeschi. Non tanto quelli politico-economici particolarmente adatti a sfruttare gli spazi ed interstizi offerti dalle congiunture politiche e ad adagiarvisi; non ha caso in questi i tedeschi non conoscono rivali. Quanto quelli presenti negli altri ambiti, particolarmente in quelli prettamente politico-istituzionali. Coaguli abbarbicati inesorabilmente a questo sistema di relazioni dal quale traggono forza e ragion d’essere.

Basterebbe ricordare la determinazione e il sollievo con i quali hanno contribuito a chiudere la parentesi di Trump, ovverossia della finestra e dell’occasione più eclatante di potersi ritagliare la propria autonomia.

L’evolversi delle dinamiche interne alla NATO cercheranno di accrescere l’incisività della sua azione, ma porteranno in seno alla alleanza militare competenze e funzioni in parte esorbitanti la missione propria dell’organizzazione e con la corrispondenza in senso sempre più univoco delle sue relazioni con gli stati nazionali e soprattutto con le strutture della UE la priveranno sempre più di uno scudo ed una maschera sino ad ora particolarmente efficaci ma in via di logoramento.

Cogliere queste dinamiche e approfittare degli spazi che inevitabilmente si apriranno in forme inedite comporta l’evaporazione di due illusioni ben radicate sia nelle componenti più servili per giustificare le proprie implorazioni che in quelle “sovraniste” più o meno presenti nei paesi europei, ma particolarmente strutturate in Francia in settori chiave, che confidano nella facilità di strade aperte generosamente dai liberatori:

  • che saranno gli statunitensi ad allontanarsi di buon grado dall’Europa e dagli europei

  • che gli sforzi di autonomia ed indipendenza politica e geopolitica comporta una sagacia e degli sforzi economici e socio-politici non particolarmente impegnativi e difficilmente perseguibili senza una particolare coesione politica.

In questo contesto è comunque possibile una azione politica interna a queste organizzazioni; deve servire però ad inibire ulteriori processi di subordinazione e soprattutto di integrazione tali da perpetuare a costi inferiori il predominio e rendere sempre più difficoltoso l’eventuale districarsi dal groviglio, piuttosto che puntare su velleitarie riforme ormai storicamente rivelatesi un fattore di paralisi o di mistificazione opportunista. Su queste basi sarà possibile determinare su basi più paritarie e di confronto i rapporti con la Cina e la Russia, ma anche con gli stessi Stati Uniti.

Contribuirebbe certamente a far uscire gli Stati Uniti da una impasse e una incertezza particolarmente rischiose per il mondo e favorevole ad incontrollati colpi di mano di centri decisori fuori controllo. Di seguito offriremo la traduzione di un articolo di “Foreign Affairs” particolarmente illuminante in proposito.

https://www.consilium.europa.eu/media/50361/carbis-bay-g7-summit-communique.pdf

https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/12/pdf/201201-Reflection-Group-Final-Report-Fre.pdf

file:///C:/Users/admin/Downloads/OF0116825FRN.fr.pdf

https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_185000.htm

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-08-04/right-way-split-china-and-russia

https://www.startmag.it/mondo/cina-russia-cyber-e-non-solo-ecco-cosa-scrive-la-nato/

Giorgia Meloni en français_a cura di Giuseppe Germinario

Non siamo soliti riprendere interviste di leader politici italiani. La stampa italiana offre sin troppo spazio e piaggeria ai nostri pressoché inutili protagonisti. L’intervista del settimanale francese “Valeurs Actuelles” https://www.valeursactuelles.com/ a Giorgia Meloni rappresenta quindi un’eccezione alla regola e una conferma che un minimo di chiarezza di termini la si può trovare su lidi stranieri. I motivi sono il fatto che Giorgia Meloni si avvia a qualificarsi come leader di un centrodestra che all’avvicinarsi delle elezioni sembra sempre più destinato a sparigliarsi in parallelo ai problemi di stallo e di decomposizione dello schieramento avverso. Una eccezione giustificata dalla maggiore coerenza delle posizioni assunte nel merito e nel tempo, facilitate dalla postura politica e dalla strutturazione storica del partito. Una coerenza che dovrà fare i conti con i punti critici della sua costruzione analitica. “L’Europa delle Nazioni” è il richiamo sul quale si appoggia la leader nel tentativo di prospettare una nuova costruzione europea; la costruzione di un asse latino-mediterraneo lo strumento per riequilibrare i rapporti di forza interni all’Europa. Manca però una riflessione sul sostanziale fallimento di quella prospettiva, del tutto ignorata e osteggiata dagli altri paesi europei. Una mancanza non casuale in quanto nell’intervista vi è un grande assente, gli Stati Uniti d’America, il vero dominus dell’Occidente. Un egemone che per perpetuare la propria posizione ha bisogno di giocare su almeno tre poli europei debilitati in competizione che di due aree più caratterizzate che potrebbero spingere la Germania a posizioni più autonome. In questa ottica le rivalità europee possono essere viste in funzione della ricorrente conquista di un rapporto privilegiato con gli USA, piuttosto che una dinamica di sganciamento da questi, specie con la probabile permanenza di Macron in Francia e della componente più atlantista della CDU-CSU in Germania. La finestra aperta dall’avvento di Trump si è ormai chiusa e la collocazione geopolitica della Meloni e di FdI non sembra dare adito a dubbi. La Meloni, in sovrappiù, è stata la maggiore artefice, in un gioco speculare con i progressisti, della riproposizione della dinamica destra-sinistra alternativa e complementare al processo di assorbimento nello schieramento liberal-progressista promosso da altre forze. Uno scotto il cui pagamento non dovrà tardare a pagare sulla sua coerenza, viste le fibrillazioni e la frenesia “statica” delle dinamiche politiche italiane. Buona lettura_Giuseppe Germinario

GIORGIA MELONI:“È ORA DI COSTRUIRE UN’ALLEANZA TRA NAZIONI DELL’EUROPA LATINA”
La figura emergente della destra
L’italiana spiega le ragioni
della sua lotta e di ciò che vuole
per il suo paese. Ci dice anche lei
come un’alleanza franco-italiana
può cambiare l’Europa.
Intervista di Antoine Colonna

Rifiutando, a differenza di Matteo Salvini, di entrare a far parte del governo di Mario Draghi, hai affermato la tua linea e ora sei in testa ai sondaggi.
Hai anche appena rifiutato la fusione con Berlusconi. I compromessi non sono il tuo forte?

Ci impegniamo per gli italiani a non appoggiare i governi di sinistra e il Movimento 5 Stelle (M5S), perché noi crediamo che la convivenza con loro possa portare solo a compromessi al ribasso, che i promotori non sono utili all’Italia, soprattutto in questa fase storica. La storia di questa legislatura ha purtroppo dato ragione: il governo Lega-M5S non ha avuto un impatto, il governo M5S-Partito Democratico è stato disastroso e accompagnò l’Italia negli abissi durante la pandemia e il governo Draghi non è comunque riuscito a fare il cambio di passo che molti si aspettavano.
Per quanto riguarda il partito unico di centrodestra, ho fondato Fratelli d’Italia (FdI) proprio perché ho capito che il partito unico di centrodestra (il Popolo della Libertà, di Berlusconi, all’epoca) non aveva funzionato e aveva gradualmente emarginato la rappresentazione delle idee di destra. Ecco perché preferisco una coalizione unita di centrodestra ma plurale al partito unico. non ho intenzione portare i nostri elettori, un’altra volta, su vecchie strade che si sono già rivelate infruttuose e mi sembra che gli italiani apprezzino la chiarezza di queste posizioni, che riempie di orgoglio.
Sei stata recentemente eletta alla guida del partito ECR (Conservatori e Riformisti europei). L’hai spesso menzionato l’idea di un’Europa confederale, proposta dal generale de Gaulle. È questa ancora la tua idea?
Assolutamente, questa è la visione alternativa che noi vogliamo portare alla Conferenza sul Futuro d’Europa, che è stato appena lanciato dall’Unione europea ma che è concepita come un semplice podio che porta ad un risultato prestabilito in direzione federalista, senza alcun spazio all’autocritica. La sua tesi è allo stesso tempo semplice e sbagliata: se l’Europa non funziona
non è perché non ha abbastanza potere; togliamo quindi la sovranità agli Stati nazionali, lascia che passi a Bruxelles e tutto andrà di bene in meglio. La gestione dell’attuale crisi sanitaria, dove il tentativo della Commissione Europea di subentrare agli stati si è rivelato un disastro, ha recentemente negato questo principio.
Crediamo nell’idea che l’Unione Europea non debba fare altro che farle bene, non dovrebbe fare tutto, ma agire solo nei settori in cui può portare un reale valore aggiunto ai suoi cittadini. Ad
esempio, per quanto riguarda il Gafam, la concorrenza sleale dei mercati extraeuropei, dumping fiscale, sicurezza delle frontiere, lotta al terrorismo e sinergie in politica estera; deve rispettare la sovranità nazionale, dove risiede la vera democrazia, e il principio di sussidiarietà, che porta il potere di scelta dei cittadini valorizzando le specificità di ogni nazione e di ogni popolo. Il famoso slogan “L’Europa delle nazioni” di cui parlava anche de Gaulle.
In questo contesto, che futuro vuoi per l’euro?

L’euro è una moneta, come tale uno strumento, mentre negli ultimi anni si è trasformato in un fine; i risparmi dei cittadini di alcuni paesi, Italia al prima posto, si sono piegati alla sua stabilità. Inoltre, è
una moneta nata male, con una forza definita più in base alle esigenze tedesche rispetto alle esigenze europee, in cui l’Italia è entrata ancor peggio con un tasso di cambio troppo alto. Quando un’area valutaria comune si crea anche tra economie diverse, è necessario fornire compensazioni tra coloro che beneficiano del moneta unica e coloro che essa svantaggia. Non è stato così e, dopo la crisi finanziaria del 2008, la Banca centrale europea ha dovuto svolgere questo compito, anche se parzialmente e indirettamente, al fine di evitare l’implosione della zona euro, ma questo ha dato origine a nuove tensioni tra i paesi cosiddetti “frugali” e paesi più indebitati come l’Italia.
La nostra economia è profondamente interconnessa e, con l’altissimo livello del nostro debito pubblico aggravato dalla pandemia, sarebbe impossibile uscirne. Quello che è certamente necessario, invece, è una riforma approfondita delle norme di accompagnamento.
Pensa, ad esempio, che dal 1 gennaio 2023, il patto di stabilità potrebbe essere ripristinato in vigore con i parametri di riduzione di debito in vigore prima della pandemia; è follia e provocazione inaccettabile.
Sarebbe come massacrare la società e uccidere aziende anche quando dovrebbero ricominciare. E questo annullerebbe tutto il lavoro, anche imperfetto, eseguito sul fondo per il recupero e resilienza.
Con l’emergenza Covid, gli italiani però, tra i più fiduciosi nella costruzione europea, sentivano di essere traditi da Bruxelles. Quali tracce quando la crisi se ne andrà?
I primi mesi hanno sicuramente lasciato un po’ di tracce, come se pensassimo in Europa che
noi italiani avevamo una responsabilità specifica nell’innescare la pandemia.
Purtroppo abbiamo avuto solo la sfortuna di fare da cavia per tutti, permettendo ad altre nazioni europee di osservare ciò che stava accadendo e di evitare i nostri errori. C’era
certamente responsabilità politica nei dettagli attribuibili al precedente governo e Fratelli d’Italia furono i primi a evidenziarli fortemente. Ma la percezione che avevamo dell’Europa era pessima: mentre chiedevamo respiratori e maschere, altri paesi dell’Unione Europea impedivano le esportazioni, i nostri autotrasportatori erano bloccati alle frontiere e, in un pomeriggio, Christine Lagarde [Presidente della Banca European Central, ndr] ha bruciato dozzine di miliardi di euro di denaro italiano con un solo comunicato stampa. Un disastro. Poi venne l’idea di un debito comune per finanziare la ripresa, un’idea giusta anche se si tratta di un tuffo tardivo, che porterà molti soldi per l’Italia ma con troppe condizioni politiche grazie alle quali pagheremo il conto. Infine, c’è stata la cattiva gestione della questione vaccini, con contratti opachi scritti sulla sabbia e la comunicazione confusa che ha creato incertezza tra i cittadini. In breve, l’Europa della pandemia ha molto da farsi perdonare.
Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno molte vicinanze. Noi stiamo parlando di un “trattato del Quirinale” sul modello di quello dell’Eliseo che la Francia ha firmato per il riavvicinamento franco-tedesco. Cosa ne pensi?
Trovo paradossale che chi sostiene allora l’azione da campioni dell’europeismo, agisce attraverso trattati bilaterali, ammettendo di fare quello che diciamo da tempo, vale a dire che le strutture comunitarie attuali non sono in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini europei. Detto questo, io non so se un’iniziativa simile al trattato sul modello franco-tedesco sia la più efficace, ma sono convinta che i nostri due paesi devono cercare un nuovo modo per impostare le proprie relazioni. In passato, purtroppo, ai nostri occhi le autorità francesi sull’Italia sembravano più concentrarsi sulle possibilità di acquisire i nostri beni e parti preziose del nostro sistema di produzione piuttosto che concentrarsi sullo sviluppo di una partnership strategica; cosa che ha generato il risentimento dell’opinione pubblica italiana verso il tuo paese. Anche questo è spiegato dal fatto che accanto alla determinazione con con cui la Francia ha sempre difeso il suo interesse nazionale, abbiamo assistito alla facilità con la quale i leader italiani erano pronti a svendere i nostri interessi. È quindi necessario ricreare un clima di fiducia, amicizia e cooperazione tra i nostri due popoli, perché noi
abbiamo così tante sfide comuni da superare.
Vorresti un’alleanza latina tra Francia e Italia? Credi che questo sia un movimento necessario per controbilanciare il peso della Germania?
Assolutamente. Fino ad ora, la Francia spesso ha preso la guida di un asse mediterraneo, ma solo per ragioni opportunistiche, per aumentare il tuo potere contrattuale al tavolo con la Germania, senza molto successo. È tempo di passare dalla tattica alla strategia, provando a costruire una vera alleanza tra nazioni dell’Europa latina, grazie alle somiglianze in termini di identità, storia, lingua, tradizioni, costumi, valori, vocazione; la geopolitica e le emergenze da affrontare possono dare un impulso nuovo e alternativo al progetto Europeo. Se un minimo di pressione coordinata tra Italia, Francia e Spagna sulla Germania è bastato a tenerla lontana dalle sirene di paesi del Nord e per convincerla a porre uno strumento di redistribuzione come il fondo di stimolo, immagina cosa potremmo fare se ci organizzassimo come i paesi di Visegrád o della Nuova Lega Anseatica. Ci sono molti argomenti sui quali una forte cooperazione tra i nostri paesi potrebbe portare l’Europa a un cambio di passo. Pensa a un cambiamento nei paradigmi economici che governino l’Unione Europea o al superamento di iniziative inefficaci come il Trattato di Dublino e il Patto migratorio per la gestione dei flussi migratori e, più in generale, la strategia per il Mediterraneo e l’Africa
dove l’Unione brancola nel buio ma dove la sinergia tra Italia e Francia potrebbe favorire
stabilizzazione di aree come il Sahel e Nord Africa, prevenendo, da un lato, la proliferazione del terrorismo islamista e, dall’altro il contenimento della penetrazione di potenze straniere come Turchia e Cina.
Poi c’è la questione dell’industria manifatturiera, dove entrambi ci inseriamo nella grande tradizione che è stata soffocata dalle redini dell’Unione Europea e dove potremmo, al contrario, cooperare per raggiungere l’Asia e l’America in termini, ad esempio, di tecnologia in prodotti all’avanguardia e di alta qualità generale. Inoltre Italia e Francia sono due nazioni il cui gigantesco retaggio culturale è un vettore di influenza e soft power nel mondo; un strumento in grado di garantire all’Europa un posto al sole sull’attuale scena internazionale; insomma non una semplice reazione alle tendenze egemoniche tedesche, ma l’ambizione di un vero progetto strategico che mira a costruire un nuovo modello di Europa, di identità sociale e geopolitica, che mette le persone e non i mercati al centro.
Quanto alla Francia, come vede il suo futuro politico? Cosa ispirano Emmanuel Macron, Xavier Bertrand, Marine Le Pen, Éric Zemmour, Marion Marechal a cui a volte vieni paragonata in termini di linea politica?
Seguo gli sviluppi politici francesi con grande curiosità e, da osservatore esterno, mi è sempre dispiaciuto vedere un sistema politico bloccato in cui gli elettori che non si identificano con la sinistra sono incapaci di avere una rappresentanza unificata. Certo, conosco le ragioni storiche di
questa situazione, ma spero che prima o poi saranno superate. Da quando sono stata eletta Presidente dei Conservatori Europei, mi sforzo ad operare per favorire lo sviluppo di un partito di
destra in tutto il continente che non tradisce valori e che possano trasformarli in una offerta politica matura, concreta e credibile, in modo che non siano emarginati, ma che diventino azione di governo. Noi costruiamo una famiglia politica che possa fare affidamento su forti realtà nazionali e
affermati ovunque, a cominciare dall’Italia, Spagna e Polonia, e con partnership in tutto l’Occidente. In questo panorama, ovviamente posso guardare solo con grande interesse una nazione importante come la Francia e siamo pronti a collaborare con chiunque nel tuo paese condivida questo progetto.
Hai appena pubblicato una storia scritta in prima persona: Io sonoGiorgia, che rieccheggia la tua celebre frase: “Io sono Giorgia, sono una donna, Sono una mamma, sono italiana, sono cristiana! Puoi sentire che la tua esperienza, l’assassinio del giudice Borsellino, ti ha segnato.
Come se volessi “aggiustare” la società…
È vero, le stragi mafiose del 1992 sono state la scintilla che mi ha portato all’attivismo politico. Ero molto giovane, ho visto un’Italia tradita da una classe politica corrotta eattaccata al cuore da un contropotere mafioso. Non potevo accettarlo e ho scelto di bussare alla porta dell’unica forza politica che era estraneo alla mafia e alla corruzione. Vedi, per me la politica è sempre stata prima di
tutto una lotta per il bene della mia patria, che ho sempre vissuto come la mia famiglia allargata secondo questo principio di comunità che trae origine in famiglia e si estende a cerchi concentrici
come ci ha insegnato Aristotele.
Quindi mi sono sempre sentita in dovere di agire per difenderla, per garantirle il benessere, per riparare le sue ferite. Questo è quello che si intende politico per me, prima ancora che potere, nomine e dinamiche elettorali; questo è anche il motivo per cui ho deciso di accettare di raccontare la mia storia in un libro, qualcosa che di solito non faccio di mia spontanea volontà, proprio per aggirare il filtro delle ricostruzioni giornalistiche, che si limitano ovviamente a un resoconto parziale e strumentale dei propri interessi; spiegare alle persone la vera natura della missione
che sto perseguendo. Vederlo come il più venduto è stato una sorpresa straordinaria, perché ha confermato che gli italiani volevano conoscere meglio la natura della mia passione e del mio impegno politico. È vero che attraverso queste pagine si può capire molto del mio carattere e quindi anche sul mio modo di intendere la vita e la politica, che sono entrambe guidate dallo stesso principio guida: non fare niente non sono completamente convinta.
Tra le grandi sfide che attendono l’Italia, c’è la demografia. Come? “O” Cosa?
restituire alle donne italiane “il diritto di essere”madre”?

Fin dalla sua creazione, Fratelli d’Italia ha preso l’iniziativa nel proprio programma elettorale dell’emergenza demografica e il sostegno alla famiglia come pilastro economico, sociale e valoriale della nostra Comunità. Avevamo ragione, perché, dieci anni dopo queste domande sono più che mai
attualità e non abbiamo smesso di lavorare ogni giorno per affermarlo, sia in Italia che in Europa, dove, come presidente dei conservatori europei, combatto quotidianamente contro i tentativi della sinistra di imporci politiche che vanno nella direzione opposta sostenendo che l’immigrazione compenserà il declino demografico dei popoli europei.
La verità è che viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che ci definisce è sotto attacco. La nostra identità nazionale è sotto attacco, e ancora di più il ruolo della famiglia, diritto alla vita, libertà educativa dei genitori e nostra identità sessuale. Cercano di rompere ogni punto di riferimento dell’identità e della comunità dell’essere umano per svuotarlo di qualsiasi arma di difesa
e modellarlo a immagine e somiglianza di interessi di mercato. Ecco perché non lo facciamo,
non dobbiamo aver paura di rivendicare e riaffermare questi valori, ma soprattutto, una volta al governo, dobbiamo essere pronti a dare risposte concrete, a partire da regimi fiscali favorevoli alle famiglie, asili nido gratuiti e di sostegno per le giovani madri che scelgono di non abortire.
Il tuo prossimo grande appuntamento politico saranno le elezioni comunali di Roma, il prossimo ottobre. Prendere Roma, non è simbolicamente molto di più di prendere una città?
Roma è la nostra capitale e, negli ultimi anni, ha sofferto della cattiva gestione del movimento 5 stelle. È quindi soprattutto una città che dobbiamo salvare da un declino inaccettabile per ciò che rappresenta, per la sua storia di faro della civiltà europea e per la cultura millenaria che incarna. Lo stesso giorno si svolgeranno anche le votazioni in altre importanti città italiane, come Milano, Torino, Napoli e Bologna. È una tendenza diffusa in tutta Europa che la destra è forte nelle province ma incapace di esprimere un’offerta politica tale da convincere la maggioranza degli abitanti nelle grandi città, i cui profili economici e sociali sono sicuramente più elitari e quindi meno consapevoli delle conseguenze negative del sistema in cui viviamo. Io credo che la destra debba colmare questa lacuna dall’espressione di proposizioni e classi dirigenti leader in grado di portare il diritto di amministrare i centri maggiori, come fa Fratelli d’Italia, che – pur essendo un partito relativamente giovane – governa già due importanti regioni del centro-sud Italia (Marche e Abruzzo) e città come
Catania, Cagliari, Verona •

Riusciranno le ONG e il Parlamento europeo a provocare la guerra civile in Ciad?_di Bernard Lugan

Intanto che, per “miracolo”, il Ciad non è (ancora?) deflagrato dopo la morte di Idriss Déby  solo perché un forte potere ha riempito il vuoto politico causato dalla sua scomparsa, il Parlamento europeo giunge a convocare il CMT (Transitional Military Council ), per avviare “urgentemente un processo democratico pluralista” chiedendo un ritorno surrealista all ‘”ordine costituzionale e al rispetto dei valori democratici”, cedendo il potere agli “attori della società civile”, al fine di “garantire la transizione pacifica attraverso elezioni democratiche ”.
Totalmente ignaro  delle faglie nella tettonica etnica ciadiana e della storia caotica del paese dagli anni ’60, accecato dall’ideologia democratica, la “cosa” di Bruxelles non poteva fare di meglio per creare le condizioni per il caos. Questa posizione fuori dal mondo non dovrebbe sorprendere perché, in verità, questa cecità  è la conseguenza del “lobbismo” praticato da ONG irresponsabili che tessono il web  ideologico in cui imprigionano il parlamento di Bruxelles. Dietro questa posizione troviamo, tra gli altri, il marchio  di “Bread for the World”, l’organizzazione delle chiese protestanti ed evangeliche tedesche, quella di “CCFD Terre solidaire”, quella di “Agire insieme per i diritti umani, quella di“ Misereor ”l’organizzazione dei vescovi cattolici tedeschi” e quella di Acat (Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura). E l’elenco potrebbe proseguire …
Così, in nome delle “virtù cristiane destinate all’impazzimento”, queste ONG, in gran parte confessionali, si sono impegnate coscienziosamente a preparare la strada alla dislocazione del Ciad, una serratura essenziale della stabilità regionale. Infatti, se il CMT avviasse un processo democratico, l’etno-matematica elettorale ciadiana darebbe potere ai più numerosi, cioè ai meridionali. Tuttavia, dall’indipendenza, la vita politica in Ciad ha invece ruotato attorno ai principali gruppi etnici del nord, ovvero gli Zaghawa, i Toubou di Tibesti (i Teda), i Toubou di Ennedi-Oum Chalouba (i Daza-Gorane) e gli arabi di Ouadaï che ammontano a meno del 25% della popolazione del paese (si veda su questo argomento il mio libro: Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri ) . Tuttavia, le ONG e gli eurodeputati rifiutano di vedere che è intorno alle loro relazioni interne a lungo termine, alle loro alleanze, alle loro rotture e alle loro riconciliazioni più o meno effimere che da allora è stata scritta la storia del paese. È intorno a loro che si sono combattute tutte le guerre in Ciad dal 1963. È dalle loro relazioni che dipende il futuro del paese, essendo la maggioranza della popolazione solo spettatrice-vittima dei loro crepacuori e delle loro ambizioni. Eccoci qua, la legge della “democrazia parlamentare …”
Se gli attuali leader ciadiani cedessero al diktat europeo ispirato dalle ONG, il Ciad cadrebbe in guerra come il Mali, con le minoranze settentrionali che rifiutano il totalitarismo democratico meridionale basato sulla sola legge dei numeri.
Il Ciad deve quindi rifiutare il ricatto democratico e il suo complice, l’odioso e ipocrita neocolonialismo della  pietà ed emotivo. Ne va della pace civile. Non perdiamo di vista il fatto che è stato il diktat democratico imposto dalla Francia socialista al generale Habyarimana che ha risvegliato e poi esacerbato le fratture della società ruandese, che hanno portato al genocidio (si veda su questo argomento il mio libro Rwanda: un genocide en questions ) .
Più in generale, e a meno di rimanere per l’eternità  colonizzati, gli africani devono cacciare gli sciami di ONG che si abbattono su di loro. Cosa possono fare queste organizzazioni costituite da persone escluse, lasciate o pensionati dai paesi del Nord, le cui motivazioni altruistiche mascherano il fatto che troppo spesso sono loro stesse alla ricerca di soluzioni ai loro  problemi esistenziali o materiali? Salvo rare eccezioni in campo medico o come nel caso di alcune ammirevoli organizzazioni come l’Ordine di Malta, questi “piccoli bianchi” soffocano letteralmente l’Africa sotto il peso delle loro lamentele umanitarie, sotto i loro “piccoli” progetti dalle “piccole” capacità, mosse da “piccole” ambizioni, tutte supportate da “piccole” risorse e soprattutto con una totale mancanza di prospettiva e coordinamento.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

Draghi e ologrammi, di Giuseppe Germinario

Il 10 marzo scorso Mario Draghi ha compiuto il secondo atto significativo del suo ministero, seguito alla sostituzione del vertice della Protezione Civile e del Commissario all’Emergenza Sanitaria: il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, sottoscritto con i sindacati confederali “http://www.governo.it/sites/governo.it/files/PATTO_INNOVAZIONE_LAVORO_PUBBLICO_COESIONE_SOCIALE.pdf “.

Di fatto una discontinuità rispetto agli ultimi governi in materia di relazioni sindacali; apparentemente una riedizione di quella concertazione che ha conosciuto il proprio sussulto crepuscolare con il Governo Ciampi, a metà anni ‘90.

I motivi pesanti che hanno spinto e reso necessario questa inversione sono diversi:

  • l’iniziativa fa da necessario corollario al sostegno quasi ecumenico offerto dai partiti al Governo Draghi in un contesto di paralisi e di grande disgregazione e debolezza di questi ultimi. Se il Governo Ciampi si era assunto il compito di preparare l’investitura del PDS/DS, della sinistra in pratica, di un partito graziato da “tangentopoli”, l’unico sufficientemente strutturato, radicato ed autorevole, a direttore di orchestra delle future compagini governative, il Governo Draghi a sua volta dovrà creare le condizioni per una ricostruzione e riconfigurazione di quasi tutti i partiti, alcuni dei quali in fase di evidente disgregazione ed assecondare il riallineamento nello schieramento europeista di quelli riottosi. Non che la condizione dei sindacati confederali sia molto migliore, tanto più che la caratteristica di confederalità, di progettualità e costruzione politica unitaria delle associazioni quindi, si sta ormai affievolendo vistosamente nel corso degli anni; rimangono comunque la sola significativa forza intermedia in grado di assecondare in qualche maniera ordinata i pesanti processi di riorganizzazione in corso e che soprattutto si annunciano nel prossimo futuro

  • la gestione della crisi pandemica, tra i tanti aspetti anche oggettivi dai quali si potrà valutare, si sta rivelando un test attendibile della capacità di affabulazione e di manipolazione della classe dirigente dominante e della reattività e della lucidità di azione di centri alternativi ben lungi ancora da sedimentarsi, ammesso che esistano attualmente. L’enormità dei problemi da affrontare in un contesto drammatico di recessione e ridimensionamento delle basi sociali e produttive è probabilmente la molla principale che sta spingendo questo governo a riproporre un coinvolgimento più stretto delle parti sindacali. Sta accelerando inesorabilmente la dinamica di un gigantesco processo di riorganizzazione, legato alla digitalizzazione e alla ridefinizione delle catene e delle gerarchie di produzione, che riguarderà all’interno i processi produttivi e la qualità dell’organizzazione e delle gerarchie delle varie attività economiche, istituzionali e di comando. Sono la nervatura e la base le quali definiscono le stratificazioni sociali, la conformazione dei ceti e la formazione dei blocchi sociali di una particolare formazione. In Italia assumerà connotazioni ancora più radicali per le caratteristiche proprie della formazione sociale costituita da industria ed attività più polverizzate e mediamente più arretrate tecnologicamente ed organizzativamente e da una pletora di piccola borghesia legata a rendite ed attività interstiziali, ma fondamentale nel garantire la coesione sociale e la stabilità politica.

Mario Draghi è arrivato per gestire al meglio alcune di queste dinamiche senza mettere in discussione la collocazione geopolitica e senza compromettere la collocazione geoeconomica del paese in maniera talmente grave e distruttiva da rischiarne la dissoluzione.

L’accordo quadro affronta un aspetto particolare e fondamentale di questa riorganizzazione; quello del funzionamento e della operatività degli apparati amministrativi fondamentali per il governo di questa riorganizzazione in vista in particolare dell’arrivo dei fondi europei.

Una missione che rende alquanto improbabili le analogie di questo patto con quello sottoscritto a suo tempo con Ciampi: quello intendeva regolare le cadenze contrattuali e la componente salariale della contrattazione interconfederale e di categoria; questo propone uno scambio tra i rinnovi contrattuali, il riconoscimento di aumenti stipendiali contrattuali, al momento per il solo pubblico impiego, in cambio della disponibilità ad affrontare e cogestire i processi di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Quello era un accordo che riguardava tutte le categorie di dipendenti, questo riguarda il pubblico impiego allargato, anche se probabilmente, in caso di successo, fungerà da apripista per un sistema di relazioni paragonabile per le altre categorie, ma da gestire più in autonomia con le associazioni datoriali.

Le ambizioni dichiarate in questo accordo sono grandi.

Gli organi di stampa hanno sottolineato soprattutto nell’avvicendamento legato ai prepensionamenti, nella formazione continua, tra i più avveduti nella assunzione di personale e quadri tecnici gli aspetti salienti dell’accordo. I punti essenziali in realtà riguardano ben altro: la possibilità di creare collaborazioni, comitati ed agenzie a conduzione privatistica o mista che gestiscano gli aspetti cruciali dei progetti, che fungano da supporto e da modello da implementare nelle amministrazioni attualmente incapaci di progettare e gestire interventi rilevanti; il cambiamento dello stato giuridico del pubblico impiego e l’intercambiabilità dei quadri dirigenti con il settore privato; una verifica operazionale legata al rispetto della tempistica e al raggiungimento dei risultati piuttosto che al rispetto formale delle procedure. Orientamenti che prendono ad esempio i modelli operativi della burocrazia europea legata per lo più all’utilizzo dei fondi strutturali e in maniera più approssimativa quelli della amministrazione inglese e statunitense.

Non è la prima volta però che si sono manifestate queste ambizioni.

La legge quadro sul pubblico impiego del 1983 è stato sino ad ora il tentativo più organico di riorganizzazione del personale pubblico ad eccezione parziale delle carriere direttive. Quell’articolato non intendeva agire direttamente sulla organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sulle fonti che ne determinavano le modalità di funzionamento; definiva la contrattualizzazione collettiva del rapporto di lavoro, i soggetti abilitati a trattare e i criteri di inquadramento professionale; l’obbiettivo era di liberare il rapporto di lavoro pubblico dal legame diretto e dal clientelismo dei politici e dai provvedimenti legislativi dedicati a gruppi specifici, di trasformare il rapporto di lavoro secondo criteri civilistici e attribuire al sindacato del pubblico impiego un ruolo autonomo piuttosto che di mera appendice dei voleri delle fazioni politiche. Obbiettivo raggiunto, ma solo in parte e con qualche implicazione negativa, piuttosto pesante. La principale, che il sindacato oltre ad aver acquisito una propria autonomia operativa e una ragione d’essere costitutiva ha accentuato la sua pervasività nei meccanismi decisionali e operativi sino ad entrare a pieno titolo nelle pratiche di selezione delle promozioni e di occupazione dei centri decisionali diventando di fatto, in particolare la CISL, anche un’associazione lobbistica imprescindibile per il funzionamento. Una prerogativa rimasta anche in quegli ambiti, come quello di Poste Italiane, trasformatisi in aziende a gestione privatistica con tutte le distorsioni e i soffocamenti che ne sono conseguiti.

Il patto proposto e sottoscritto da Draghi è qualcosa di più profondo e strutturale, di più complesso.

Non può prescindere assolutamente da questa realtà informale che sino ad ora è sempre riuscita a neutralizzare i propositi di ridefinizione delle gerarchie sul campo.

L’altra cartina di tornasole in grado di svelare la reale credibilità e positività di quanto sottoscritto è la riorganizzazione istituzionale che definisca chiaramente le gerarchie e le competenze dello Stato centrale e delle amministrazioni periferiche nonché due o tre modelli organizzativi, non di più, ai quali attenersi secondo la missione dei vari ambiti operativi, siano essi aziende di servizio o ordinamenti funzionali. È la via attraverso la quale lo Stato ed il Governo centrali possono assumere il pieno controllo interno della situazione e possono porsi come interlocutori autorevoli e meno permeabili all’esterno, soprattutto in sede di Unione Europea (UE). Una riforma, mancando la quale, rischia in partenza di annacquare le potenzialità del patto o di ricondurlo lungo le dinamiche di disarticolazione ulteriore del controllo centrale e di ulteriore connessione diretta con la burocrazia della UE

Questo non pare rientrare nel programma di governo per due motivi, uno di orientamento strategico, l’altro tattico.

Il primo è che il nostro, essendo paladino di questo europeismo, non ha nessuna intenzione di accettare il fatto che quello della UE è, pur con regole particolari, un campo di azione di stati nazionali sul quale vince chi riesce a preservare meglio le proprie prerogative piuttosto che uno spazio di liquefazione concordata della propria realtà istituzionale; il secondo è che porre sul piatto la questione metterebbe prematuramente in crisi la Lega, soprattutto la componente più convinta nel sostegno a Draghi, ma comunque l’unico partito al momento non in crisi convulsiva, sostenitore del governo almeno sino a quando non si risolverà, se si risolverà, in qualche maniera lo stato confusionale del PD.

Una riorganizzazione istituzionale potrà aver luogo, comunque non in maniera risolutiva, solo nel momento in cui la componente europeista tradizionale dovesse assumere il pieno controllo non solo dei centri decisionali ma anche dell’opinione pubblica.

C’è un altro fattore che impedisce di porre correttamente sia la questione istituzionale che l’impostazione e l’applicazione del Patto. L’atteggiamento gretto e settario della destra radicale che contrappone visceralmente gli interessi e la condizione privilegiata dei ceti “garantiti” a quelli più minacciati dalla crisi pandemica e socioeconomica. Una postura che le impedisce di cogliere la effettiva posta in palio e l’opportunità di entrare nel merito delle questioni. Una ottusità ricorrente che le ha impedito di cogliere gli spazi che le si erano aperti nel mondo del lavoro e negli stessi ambienti sindacali. Una miopia che ad esempio non ha colto, almeno non nella stessa entità, Donald Trump negli Stati Uniti.

Un complesso di fattori ed orientamenti che nell’ipotesi riduttiva di attuazione del Patto rischiano di annichilire le migliori intenzioni riformatrici e di ridurre quel documento ad un mero pretesto per giustificare gli aumenti contrattuali, in quella più estensiva porterà a rendere più efficienti le amministrazioni soprattutto per rendere più fluido e subordinato il rapporto con la burocrazia della UE. Mario Draghi sarà il pendolo che oscillerà tra questi due estremi; se non sarà calamitato su uno dei due versanti, potrà conseguire qualche successo nel breve termine, portare a termine quindi quanto meno il Recovery Plan e la campagna di vaccinazione, ma cadrà ancora una volta nella trappola delle ulteriori duplicazioni di apparati ed amministrazioni che renderanno ancora più inestricabile la matassa istituzionale. La speranza di un afflato nazionale che dia senso e sentimento alla riorganizzazione dipenderà purtroppo da un contesto internazionale che deciderà dei destini della UE e del ruolo egemonico, quantomeno delle sue modalità di esercizio, degli Stati Uniti in questa area, piuttosto che da un irrefrenabile impulso interno al paese; con tutti i costi e i condizionamenti che si dovranno pagare. La stessa unità di Italia del resto è scaturita da un contesto simile; stiamo proseguendo su quella falsariga, ma senza grandi diplomatici, senza politici accettabili e con impulsi sempre più flebili. Le stesse organizzazioni sindacali, uno dei “corpi intermedi” con i quali Draghi cerca di puntellare la propria collocazione, stanno rivelando una tale povertà culturale da rendere impossibile la creazione di un sostrato “propositivo” nei settori che ancora rappresentano. È sufficiente tenere conto della condizione inerme di fronte alle innumerevoli crisi aziendali aperte, della posizione piattamente acritica sulle dinamiche di fondo del Recovery Fund e sulla natura della UE, della incapacità di coniugare il conflitto sociale con una ipotesi di difesa dell’interesse nazionale per comprendere come il carattere interconfederale tenderà sempre più ad affievolirsi in una frammentazione di iniziative giustapposte. La carrellata recente di interviste è alquanto illuminante. L’unica predominante preoccupazione riguarda l’estensione e la regolazione degli ammortizzatori sociali. Per condurre dove, non si sa.

PS_non ho trattato gli argomenti dell’articolo nell’ottica delle relazioni transatlantiche e dell’egemonia USA almeno in Europa, semplicemente perché in Italia il problema non si pone in nessuna delle forze politiche significative

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?_di Hajnalka Vincze

BREXIT, AFFRONTO O REGALO PER L’EUROPA?

Portfolio – 28 gennaio 2021
Nota di notizie

Dietro le infinite lamentele sulla “perdita” del Regno Unito, in realtà molti si rallegrano, chi per un motivo, chi per un altro. I sostenitori dell’Europa federale ritengono che la strada sia chiara ora che il nemico giurato di qualsiasi idea di pooling (approfondimento dell’integrazione) è definitivamente fuori gioco. I campioni di un’Europa indipendente – che dipenderebbe meno dall’America – sorridono alla partenza del “cavallo di Troia” degli Stati Uniti, credendo che il loro momento sia finalmente arrivato: senza Londra, l’eterna torpediniera di qualsiasi iniziativa politica dell’Unione, l’Europa potrebbe anche diventare uno dei poli del potere nel mondo. Tale ragionamento non è del tutto infondato, ma non tiene conto dei malumori interni dei restanti Ventisette.

Sempre presente nelle teste

La Gran Bretagna ha sempre avuto una visione molto particolare della costruzione europea. Ha preferito stare lontano dal suo lancio; non solo, ha creato un’area di libero scambio che dovrebbe competere con esso e renderlo obsoleto sin dal suo inizio. Rendendosi conto del loro fallimento, gli inglesi cambiarono strategia: entrarono per meglio silurare, questa volta dall’interno, tutto ciò che prometteva di diventare più di un semplice mercato aperto. Che si trattasse di tariffe protettive, diritti sociali, autonomia strategica o politica industriale, Londra è stata un freno. Di conseguenza, le lotte più dure e frequenti l’hanno opposta alla Francia, paladina di un’Europa politica e indipendente. Quindici anni fa Jean-Claude Juncker, l’allora primo ministro lussemburghese, ha giustamente osservato, dopo una battaglia franco-britannica particolarmente dura nell’UE: “Qui si confrontano due filosofie. Ho sempre saputo che un giorno o l’altro sarebbe venuto a galla ”.

(Credito fotografico: Reuters)

Non è un caso che ciò sia avvenuto proprio in questo momento. Londra è stata rafforzata dall’adesione, nel 2004, del primo gruppo di paesi dell’Europa centrale e orientale. Nel dilemma “allargare o approfondire” che ha definito i dibattiti per tutti gli anni ’90, la Gran Bretagna spingeva per l’allargamento dell’UE più rapido e più ampio possibile nella speranza di abbattere l’inclinazione politica diluendo il progetto in un gigantesco supermercato. Di fronte a ciò, i francesi – e di tanto in tanto i tedeschi – cercavano di salvare, se necessario sotto forma di un’Europa a più velocità, l’essenza politico-strategica del progetto. Un tentativo coronato da scarso successo. Dopo l’ingresso dei nuovi Stati membri, seguaci della visione britannica, tutto suggeriva che lo scenario di un’Europa dei supermercati addormentata nell’inesistenza geopolitica sotto l’ala protettrice della NATO avrebbe prevalso per sempre.

È vero che lo spirito dei tempi ha lavorato a favore di Londra. Durante i quindici anni trascorsi dal crollo dell’ordine bipolare, il modello globalista-neoliberista controllato a distanza da Washington ha innestato una marcia in più, mentre la NATO, invece di scomparire con la Guerra Fredda, si è adattata, rinvigorita e ha persino effettuato una vera mutazione. In queste circostanze, Londra non ha avuto troppe difficoltà a promuovere, nelle parole dell’ambasciatore Usa, “la posizione comune anglo-americano all’interno dell’UE”. In vista del referendum sulla Brexit, il presidente Obama ha messo in guardia gli elettori britannici: la presenza di Londra è la garanzia che l’UE rimanga economicamente aperta e militarmente attaccata all’America. Sarà interessante osservare, dopo la Brexit, come si comporteranno i paesi membri che fino ad ora, su questi due temi, si nascondevano comodamente dietro Londra.

Minare, dall’esterno

Allo stesso modo, saranno intriganti da osservare gli sforzi che gli inglesi dispiegheranno, d’ora in poi dall’esterno, per indebolire qualsiasi dimensione politica e strategica dell’Unione. Un esempio molto divertente è il caos intorno al sistema di navigazione satellitare, Galileo (“GPS europeo”). Londra è sconvolta dalla perdita, a seguito della Brexit, del suo accesso automatico al “servizio pubblico regolamentato” (PRS) crittografato e ultra sicuro, controllato dai governi e dalle istituzioni dell’UE e in gran parte dedicato agli usi militari. La Gran Bretagna ha giurato il giorno dopo il referendum sulla Brexit che avrebbe messo in atto un proprio sistema simile, dicendo: “la sicurezza dei nostri soldati non può dipendere da un sistema esterno, che non dipende da esso”. Curioso argomento del Paese che, al lancio del programma Galileo, aveva lottato con le unghie e con i denti per impedire ogni uso militare. Con il pretesto del GPS e della NATO, non aveva trovato nulla di imbarazzante nell’essere, insieme a tutti gli altri europei, dipendente da un sistema sotto il controllo esclusivo americano.

Risultato della contesa: oggi l’Europa ha un proprio sistema di navigazione satellitare globale, mentre Londra può solo sperare in una costellazione regionale attaccata al GPS. Per una volta, l’Europa non ha ceduto ai tentativi britannici di sbrogliare. Perché Londra aveva chiesto, al di là dell’accesso diretto, un posto e una voce nel corpo di “governo” e controllo di Galileo. Esattamente come chiede un accesso privilegiato al Fondo europeo per la difesa (FES) destinato ai programmi europei di armamento, dal bilancio dell’UE. Questo gli avrebbe permesso di prendere due piccioni con una fava. Perché la Gran Bretagna ha sempre fatto di tutto per rendere le istituzioni della politica di difesa dell’UE più “flessibili”, cioè permeabili agli alleati della NATO che non sono membri dell’Unione. Da ora in poi, proverà a continuare lo stesso lavoro di affondamento, ma questa volta dall’altra parte dell’uscio.

Faccia a faccia franco-tedesco

Il successo dei tentativi britannici dipende dal fatto che i restanti Stati membri vi cedano o meno. Innanzitutto la Germania, caratterizzata da un’eterna ambiguità ma che generalmente si trova (sulla questione del grande mercato transatlantico di libero scambio o sul primato dell’Alleanza atlantica) piuttosto vicina agli inglesi. Charles Grant, il direttore del Centre for European Reform con sede a Londra, ha avvertito i parlamentari di Sua Maestà all’inizio degli anni 2010: la Gran Bretagna non può permettersi di essere passiva all’interno dell’UE, perché la sua emarginazione rischierebbe di avvicinare le posizioni di Berlino su queste questioni a quelle francesi. Non è un caso che oggi, a seguito della Brexit, la meccanica interna del motore franco-tedesco sia sotto i riflettori.

Con la partenza di Londra, Parigi e Berlino hanno perso un forte alleato all’interno dell’UE, ovviamente su argomenti diversi. Per la Francia, la Gran Bretagna è stata utile nella misura in cui – a differenza della maggior parte dei paesi membri, Germania inclusa – comprendeva l’importanza cruciale di costruire capacità militari (anche se Londra lo considerava piuttosto all’interno della struttura della NATO) e che era ferocemente desiderosa di preservare il carattere intergovernativo delle politiche estere, di sicurezza e di difesa europee. Per i tedeschi, gli inglesi sono stati un prezioso freno, sempre pronti a bloccare qualsiasi iniziativa francese che mirasse ad emarginare la NATO o mettere in discussione i principi del libero scambio deregolamentato. A seguito della Brexit, questo comodo scudo scompare su entrambi i lati; Francia e Germania si trovano ora faccia a faccia.

È sempre più difficile negare che, dietro i grandi discorsi europeisti, i due cerchino di posizionarsi nel modo più vantaggioso possibile l’uno sull’altro. Parigi vorrebbe correggere la sopraffazione economica tedesca proponendo meccanismi di solidarietà finanziaria europea, sempre più collettivizzanti. Berlino, da parte sua, si sta sforzando di neutralizzare le risorse diplomatiche e militari francesi (come il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o la superiorità nella tecnologia delle armi) spingendo, nell’UE, per una sempre maggiore integrazione in queste aree e sostenendo un passaggio delle decisioni a maggioranza qualificata. I due cercano di raccogliere intorno a loro quanti più alleati politici possibili, consapevoli delle rispettive debolezze.

La fine, ma la fine di cosa?

Chris Patten, ex commissario europeo per le relazioni esterne e rettore dell’Università di Oxford, ha prontamente ricordato un disegno della Chained Duck degli anni ’70 che mostrava un minuscolo Primo Ministro britannico, a letto, tra le braccia di una voluttuosa regina, Europa. Quest’ultimo, ovviamente seccato, gli disse: “Entra o esci, mio ​​caro Wilson. Ma smettila con questo ridicolo andirivieni ”. Con la Brexit, gli inglesi finalmente hanno obbedito e se ne sono andati, ma solo dopo più di quarant’anni. Inoltre, nel frattempo avevano in gran parte ridisegnato l’Europa striminzita. Come efficaci portatori dell’ideologia dominante degli ultimi decenni, sono riusciti a diluire il progetto al punto che, oggi, la stragrande maggioranza dei restanti Stati membri perseguirà la linea atlantista-neoliberista. O piuttosto lo avrebbero perseguito … se gli eventi non fossero stati di ostacolo.

Perché in questo periodo di cose ne stanno accadendo a livello internazionale. La pandemia del nuovo coronavirus ha inferto un colpo grave, persino fatale agli occhi di molti, a un dogma globalista-neoliberista che vacilla già da dieci anni. Chi meglio  nell’illustrarlo se non il prestigioso Financial Times di Londra, la Bibbia dei decisori europei, il cui giornale stesso nel suo editoriale dell’aprile 2020 ha sostenuto una rottura con gli orientamenti degli ultimi quattro decenni e ha chiesto un maggiore interventismo da parte dei governi, più ridistribuzione, più spesa statale a favore dei servizi pubblici. Sul fronte transatlantico, la presidenza di Donald Trump ha avuto un effetto rivelatore simile. Dietro i grandi consessi occidentali programmati a intervalli regolari, la realtà è sempre più evidente: alleanza o no, le relazioni sono principalmente determinate dai rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Ciò è generalmente vero anche per lo stato attuale delle relazioni internazionali. La riconfigurazione dei centri di gravità ha dissipato le illusioni sul trionfo universale, inevitabile, del modello liberale occidentale; ha riproposto il confronto tra grandi potenze. Ciò rivaluta, nell’Ue, “la dimensione politica” e “l’autonomia strategica”, le stesse caratteristiche che la concezione britannica avrebbe voluto scacciare una volta per tutte. È questa combinazione di sviluppi esterni (e non la Brexit) che probabilmente rimescolerà le carte in Europa. L’ex primo ministro britannico Harold Macmillan è stato intervistato da un giornalista alla fine degli anni ’50 su ciò che più influenza la politica del governo. La sua risposta: “Gli eventi, mio ​​caro ragazzo, gli eventi! “. Il dilemma dei 27 paesi dell’UE in questi giorni è se rispondere all’accelerazione degli eventi secondo il punto di vista dell’impasse britannico o preferire rilanciare il progetto dell’Europa politica. Ovviamente stanno facendo quello che sanno fare meglio: esitano.

Il testo completo, in ungherese, è disponibile sul sito Portfolio, cliccando qui .

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/591-le_brexit_camouflet_ou_cadeau_pour_leurope

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