Italia e il mondo

Geopolitica dell’energia, di François Campagnola

L’energia è uno dei principali motori delle economie industriali e, come tale, terreno fertile per il confronto di interessi tra protagonisti in un contesto di scarsità di risorse. È quindi prima di tutto un fattore e un determinante della guerra. In tempo di pace, il confronto degli interessi rimane attraverso i mezzi pacifici di strutturazione dei mercati e determinazione dei prezzi.

Gli elementi costitutivi della geopolitica energetica

In tempo di guerra, l’energia è sia un fattore di guerra che una determinante della guerra. Per quanto riguarda il tempo di pace, cinque elementi stanno oggi riconfigurando la geopolitica globale dell’energia. Sono questi i vincoli dell’imperativo climatico, l’importanza assunta oggi dal gas, il peso assunto da Cina e India nel consumo energetico mondiale, il riemergere degli Stati Uniti come primo produttore mondiale di energia, il continuo peso energetico del Golfo paesi e Russia, nonché l’arrivo sul mercato di nuovi attori statali.

La geopolitica dell’energia in tempo di guerra: guerra ed energia

Dalla prima guerra mondiale, l’energia è stata tanto un fattore nella guerra quanto una determinante della guerra. L’energia infatti è diventata una determinante della guerra quando la meccanizzazione delle forze armate ha reso il peso dell’accesso al petrolio una costante nelle operazioni militari. A questo proposito, la seconda guerra mondiale ha consumato quasi 350 volte più petrolio della prima guerra mondiale. Come determinante, la supremazia della flotta britannica sulla flotta tedesca durante la seconda guerra mondiale è dovuta a una decisione di W. Churchill prima della prima guerra mondiale per dotare la flotta di propulsione a petrolio e non più a carbone. La dottrina tedesca Blitzkrieg basata sulla mobilità del carro armato, la sua azione combinata nell’aviazione, le scoperte tecnologiche nel campo dei segnali e la ricerca dell’elemento sorpresa è fondamentalmente una dottrina volta ad ottenere una rapida decisione militare perché la configurazione geopolitica di La Germania ha limitato le sue possibilità di fornire petrolio e materie prime per una lunga guerra. In fin dei conti, la decisione del 1942 che portò alla sconfitta tedesca a Stalingrado distolse la Germania dall’obiettivo di prendere Mosca in favore di un’azione militare nel Caucaso al fine di impossessarsi del petrolio di Baku per l’uso delle sue forze e per bloccare l’approvvigionamento di petrolio delle forze sovietiche.

L’energia è stata anche un fattore nella guerra quando, nel 1941, il Giappone ha lanciato la sua guerra preventiva contro gli Stati Uniti a Pearl Harbor per sfuggire al soffocamento economico prodotto dall’embargo petrolifero americano. All’indomani della seconda guerra mondiale, l’intervento franco-britannico a Suez nel 1956 fu una risposta alla nazionalizzazione del Canale di Suez attraverso il quale passava la maggior parte del petrolio importato dagli europei. Il primo shock petrolifero del 1973 fu anche una risposta diretta al sostegno occidentale a Israele attaccato nel 1973 da una coalizione guidata da Egitto e Siria. La guerra Iran-Iraq dal 1980 al 1988 tra due paesi che da soli hanno prodotto un terzo del petrolio del Golfo e che hanno prodotto 1, 2 milioni di morti sono in parte dovuti a una disputa di confine sul possesso di petrolio dallo Shatt-el-Arab allo sbocco del Golfo Persico. La prima guerra del Golfo del 1990/1991 segue l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq per il possesso delle riserve energetiche della seconda. La seconda guerra del Golfo del 2003 per il rovesciamento di Saddam Hussein è stata in gran parte motivata dal desiderio americano di prendere il controllo del petrolio iracheno. L’embargo petrolifero è ancora un’arma anche nelle controversie interstatali, compresa quella contro l’Iran, perché il suo possesso di armi nucleari rappresenterebbe un grande rischio per lo Stretto di Hormuz e per Israele. Infine, è probabile che la recente autosufficienza energetica degli Stati Uniti dovuta allo sfruttamento degli idrocarburi di roccia li porti a ritirarsi dal Medio Oriente per concentrarsi sulla Cina, divenuta nel frattempo il suo principale avversario strategico. Nei conflitti intra-statali, anche la risorsa petrolifera svolge un ruolo importante in quanto alimenta rivolte e guerre interne per il controllo della sua rendita, come avviene oggi in Libia, Ciad e Sudan, così come intorno al Golfo di Guinea.

Da leggere anche

Russia: la geopolitica dell’energia

Geopolitica dell’energia in tempo di pace: l’attuale riconfigurazione

In termini di clima, è stato calcolato che il riscaldamento globale potrebbe essere limitato a 1,5°C. in caso di neutralità carbonica raggiunta nel 2050, a 2°C. se questo tappo fosse stato ottenuto nel 2070 e a 2,5°C. se fosse ottenuto nel 2100. La questione è dunque quella dei mezzi necessari per raggiungere questa carbon neutrality in un contesto internazionale segnato da una grande divergenza degli interessi economici e delle risorse ambientali dei paesi come recentemente dimostrato. Glasgow. In termini energetici, questo obiettivo prevede la riduzione del consumo di carbone e idrocarburi a favore del nucleare e delle rinnovabili. Per quanto riguarda il consumo mondiale di energia è previsto un aumento di un altro 50% nel 2030 rispetto al 2005 e la produzione annua di gas naturale che era di 3, 9 miliardi di m3 nel 2018 prima della crisi covid dovrebbero continuare ad aumentare entro il 2030/2040. Questo perché è un’energia alternativa meno inquinante del carbone in un contesto globale di tentativi di ridurre le emissioni di gas serra. All’interno di questa produzione di gas naturale, dovrebbe aumentare significativamente anche la quota di gas di base, in particolare dagli Stati Uniti.

La Cina oggi concentra il 24% del consumo mondiale di energia primaria e il 18,5% della sua produzione mondiale. È il primo produttore mondiale di carbone con una produzione di 3,8 miliardi di tonnellate, il 4 ° produttore di gas con una produzione di 191 Gm 3 e il 6 ° produttore di petrolio con una produzione di 195 milioni di tonnellate. È anche il primo importatore mondiale di energia con volumi rispettivamente di 505 milioni di tonnellate di petrolio, 125 miliardi di m 3 di gas e 306 milioni di tonnellate di carbone. Questa situazione non può che peggiorare entro il 2030 mentre, sulla sua scia, cresce anche il consumo energetico indiano. Si trova a 3 eclassifica mondiale per consumo dietro a Stati Uniti e Cina con, tuttavia, un basso livello di consumo pro capite. E ‘il 5 ° rango per le sue riserve di carbone, che corrispondono al 10% delle riserve mondiali e 2 e la produzione di rango dopo la Cina. Le sue riserve di petrolio e gas sono meno dell’1% delle riserve mondiali con produzioni che coprono solo il 16% del suo consumo di petrolio e il 45% di gas. Ha finalmente localizzato a 2 E in tutto il mondo per le sue importazioni di petrolio e carbone. Tuttavia, le sue energie rinnovabili coprono il 23% del suo consumo di energia primaria.

Grazie agli idrocarburi di roccia, gli Stati Uniti, che all’epoca erano il maggior importatore mondiale di petrolio e gas, sono diventati il ​​maggior produttore mondiale. La sua produzione di petrolio è così aumentata da 333 a 747 milioni di tonnellate tra il 2010 e il 2019 e la sua produzione di gas da circa 230 milioni di m3 nel 2010 a oltre 600 milioni di m3 nel 2019. Il tutto non dovrebbe raggiungere il suo picco prima del 2030 sebbene la caratteristica del substrato roccioso depositi è che si esauriscono più rapidamente rispetto ai depositi convenzionali. Per quanto li riguarda, Russia e Arabia Saudita sono il 2 ° e il 3 °produttori di petrolio con una produzione rispettivamente di 568 e 560 milioni di tonnellate nel 2019. La Russia è anche il primo esportatore di gas naturale in Europa e ora in Cina con una produzione annua di circa 650 miliardi di m 3. Infine, la geografia globale della produzione di energia si è arricchita di nuovi attori. Il Canada oggi beneficia delle sue immense riserve di petrolio e gas di base. La sua produzione annuale di petrolio oggi è di 275 milioni di tonnellate di petrolio. Il Brasile è diventato un importante produttore di petrolio con una produzione annua di 150 milioni di tonnellate grazie alla recente scoperta di grandi giacimenti di acque profonde al largo delle sue coste. Infine, molto importanti sono anche le riserve energetiche dell’Africa, soprattutto offshore, che offrono un forte potenziale di crescita anche se la produzione del continente è ancora di soli 400 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. I principali giacimenti sono nel Golfo di Guinea, Nigeria, Angola, Gabon, Ghana, Niger e Mozambico.

L’energia in un’economia di mercato: logica di mercato e sistema dei prezzi

In un’economia di mercato, la geopolitica dell’energia è essenzialmente condizionata dalla struttura dei mercati e dalla determinazione dei prezzi. Nell’economia liberale, entrambi sono determinati dall’esistenza o meno di ostacoli alla libertà di mercato. Questi prendono la forma di nazionalizzazione, cartello, potere di mercato e contratti a lungo termine.

La struttura dei mercati energetici

In termini di produzione, l’energia è prima di tutto un settore fortemente capital-intensive per l’importanza dei suoi costi fissi e per la concentrazione della produzione nelle mani di poche grandi aziende attorno alle quali ruotano una miriade di società di servizi. Accanto alle compagnie statali che oggi controllano l’83% e l’85% delle riserve di petrolio e gas, le compagnie private continuano a svolgere un ruolo fondamentale nell’esplorazione e nello sfruttamento delle risorse energetiche del pianeta, investendo circa il 30% del totale mondiale. Sul primo elemento, l’attaccamento al principio di sovranità sulle risorse naturali ha portato a numerosi Stati produttori di energia in Medio Oriente, L’Africa e l’America Latina hanno nazionalizzato la loro produzione energetica tra il 1960 e il 1980 quando le risorse dell’URSS e della Cina erano già state nazionalizzate dalle rivoluzioni del 1917 e del 1949. Ciò ha portato in particolare alla creazione di società nazionali come Saudi Aramco per l’Arabia Saudita, Nioc per Iran, Sonatrach per l’Algeria e PEMEX per il Messico. Infine, le principali società cinesi sono Sinopec, CPC e CNOOC. Sul secondo elemento degli interessi privati, le risorse energetiche della Russia sono state parzialmente privatizzate negli anni ’90 dando vita ai colossi Gazprom e Lukoil mentre Saudi Aramco è stata parzialmente quotata in borsa nel 2019. In Occidente, lo smembramento nel 1911 della Standard Oil creata da Rockefeller in base alla legge antitrust americana aveva dato vita a 6 società private tra cui Chevron, Exxon e Mobil. Oggi, tra le major mondiali in ordine di importanza in termini di fatturato, la Royal Dutch Shell dei Paesi Bassi, ExxonMobil derivante dalla fusione delle due società nel 1998,British Petroleum (BP) per il Regno Unito, Total per la Francia che si è fusa con Elf nel 2000 e Gulf-Chevron.

Sul fronte dei trasporti, la geopolitica dei flussi energetici corrisponde prima di tutto a quella delle rotte marittime per il petrolio e ora per il gas. Le principali strozzature che richiedono un controllo sono lo Stretto di Hormuz attraverso il quale passa il 20% della produzione mondiale di petrolio, i canali di Suez e Mozambico, il Capo di Buona Speranza e gli Stretti di Gibilterra e Malacca e la Sonda. Le principali aree marittime interessate sono l’Oceano Indiano e l’Oceano Atlantico, nonché il Mar Mediterraneo, il Mar Nero e il Mare del Nord. Così, metà della produzione mondiale di petrolio e gas naturale liquefatto passa attraverso l’Oceano Indiano verso l’Asia. Infine, i golfi di Aden e Guinea sono aree marittime a rischio per l’ondata di pirateria marittima e l’Oceano Artico è proiettato nel futuro come una nuova frontiera marittima ed energetica su scala globale. Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella dei tubi e delle reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella di tubi e reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella dei tubi e delle reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdottiBlue Stream e Turkish Stream , nonché un progetto di costruzione di South Stream . Sotto il Mar Baltico, ciò ha portato alla costruzione del Nord-Stream1 e 2 verso la Germania. In Asia esiste una vasta rete di oleodotti e gasdotti tra Cina e Russia e tra Cina e Asia centrale Uno degli obiettivi energetici delle nuove Vie della Seta è quello di aggirare finalmente lo Stretto di Malacca attraverso il quale passa l’80% dell’energia cinese importazioni, ma che la Cina non controlla. Questa è in particolare la funzione degli oleodotti progettati tra la costa meridionale del Pakistan e lo Xinjiang per trasportare 1 milione di barili al giorno, ovvero il 15% del consumo cinese. Infine, esistono anche progetti per realizzare collegamenti elettrici tra Europa e Cina in modo da far fronte all’aumento del 70% dei consumi cinesi previsto entro il 2040.

In termini di commercio, le risorse energetiche prima competono strutturalmente tra loro. La prima funzione del petrolio era quindi quella di sostituire l’olio di balena per l’illuminazione individuale prima di raggiungere gradualmente tutti i settori dell’economia, in particolare a scapito del carbone. Il petrolio ha così conquistato la sua quota di mercato perché è una risorsa di grande flessibilità di utilizzo e di costo di produzione altamente competitivo e la strategia delle compagnie petrolifere è stata sin dall’inizio molto aggressiva in ottica di controllo delle quote di mercato dell’energia. Ha anche beneficiato per lungo tempo del mercato vincolato del trasporto su strada. Il gas è anche un sostituto del carbone, in particolare per il riscaldamento in concorrenza con l’elettricità prodotta dal nucleare e dalle energie rinnovabili. Le ragioni del commercio energetico sono poi dominate da un’altissima concentrazione di aree di produzione di petrolio e gas e una relativa dispersione per il carbone. Il grosso della produzione petrolifera è infatti concentrato nei paesi OPEC più che sono i paesi OPEC (Arabia Saudita, Venezuela, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti. Iran, Algeria, Libia, Angola, Gabon, Nigeria, Guinea Equatoriale e Repubblica di Congo.) E i nuovi arrivati ​​all’OPEC Plus che sono Russia, Azerbaigian, Kazakistan e Messico, nonché Bahrain, Brunei, Malesia, Oman e Sudan. Tre paesi infine condividono il 48% delle riserve di gas convenzionale che sono la Russia, Iran e Qatar a cui si aggiungono oggi i nuovi paesi produttori di idrocarburi di roccia, ancora principalmente gli Stati Uniti. Infine, le ragioni di scambio sono dominate dalla concorrenza dei contratti a lungo termine e dei mercati a pronti a breve termine in rapido sviluppo, i cui termini e prezzi non obbediscono alle stesse regole. A parte il GNL, la maggior parte delle consegne di gas naturale e due terzi delle consegne di petrolio per lungo tempo sono passate attraverso contratti a lungo termine. In tema di gas, la tendenza degli europei è stata comunque negli anni 2010 a rimettere in discussione i contratti a lungo termine a favore delle consegne al mercato spot. In parallelo,

Da leggere anche

Nuovo numero speciale: Army, il salto verso l’alta intensità

Determinazione dei prezzi dell’energia

Innanzitutto, i costi fissi sono inclusi nel calcolo del prezzo dell’energia. Si tratta di costi di esplorazione tanto più elevati quanto più difficili sono le condizioni di esplorazione, come nell’Artico o in acque profonde, e più incerto il risultato. In media, si ritiene che una campagna esplorativa su quattro porti a una start-up. Si tratta, invece, di costi operativi che si suddividono in spese infrastrutturali e spese operative. Nel primo caso si tratta in particolare del costo di installazione o noleggio di piattaforme di produzione, in particolare offshore. Il tutto induce costi di accesso che variano da 8 dollari al barile per il greggio onshore del Vicino Oriente a 45 dollari al barile per il deep offshore del Mare del Nord o del Golfo di Guinea. Nel calcolo del prezzo sono comprese anche le spese di trasporto che variano in base alle distanze e alla natura dell’energia trasportata. Poiché è pesante e costoso da trasportare e poiché i siti di produzione sono relativamente sparsi, il carbone è sempre stato consumato vicino ai siti di estrazione o nei paesi limitrofi. È quindi solo quando il prezzo di altre energie alternative aumenta che diventa interessante trasportarlo, come dimostra l’attuale importazione di carbone americano in Europa come sostituto dell’impennata del prezzo del gas. Al contrario, il prezzo del trasporto è basso per il petrolio, da uno a due dollari al barile, ma cinque volte più alto per il trasporto di gas naturale a potere calorifico equivalente. Per quanto lo riguarda, il costo del trasporto GNL è dell’ordine di 4-6 volte il costo del trasporto terrestre via metanodotto con un andamento comunque decrescente dovuto al progresso tecnologico e all’ammortamento degli investimenti già effettuati. Infine, l’importanza degli investimenti in queste ultime infrastrutture spiega perché i contratti per la fornitura di GNL siano contratti a lungo termine dell’ordine di un decennio.

Poiché sono soggetti alla legge della domanda e dell’offerta, il prezzo dell’energia oscilla in base ai capricci del mercato e alla politica dei prezzi dei produttori. A livello internazionale, la maggior parte del diritto internazionale applicabile, sia esso prodotto dall’OMC o dalle diverse leggi regionali, converge da tempo sul principio della rimozione degli ostacoli alla libertà di mercato. Il risultato è una tendenza alla veridicità dei prezzi e all’aumento dei mercati spot a breve termine. Tuttavia, ciò non impedisce l’uso continuato di contratti a lungo termine da 10 a 25 anni, come tradizionalmente avviene per la fornitura di gas russo all’Europa. Questo è il caso quando il peso degli investimenti necessari per la produzione e il trasporto richiede di assicurarsi gli investitori attraverso questo tipo di contratto. La verità dei prezzi può anche essere minata da politiche di prezzo aggressive delle aziende produttrici nazionali. Così, dal 2014 al 2016, in un contesto di rallentamento della domanda cinese di petrolio e di concomitante consolidamento della produzione americana di shale oil, l’Arabia Saudita e i paesi OPEC hanno intrapreso una politica di liberalizzazione dell’offerta a 30 $ al barile destinata, da un lato da un lato, per guadagnare quote di mercato attraverso prezzi più bassi e, dall’altro, per indebolire la situazione finanziaria dei produttori americani di idrocarburi di roccia madre che competono con loro e la cui sopravvivenza richiede un prezzo al barile superiore a $ 40.

Su questa base, la struttura dei prezzi del petrolio mostra da diversi decenni una curva al rialzo con periodi di elevata volatilità. Il prezzo medio del petrolio era quindi di 2 dollari al barile prima del primo shock petrolifero del 1973, di 12 dollari il giorno successivo e di 40 dollari dopo il secondo shock petrolifero del 1979. È sceso a 10 dollari al barile con il controshock del 1986. poi di nuovo al tempo della crisi asiatica del 1998. Dall’inizio degli anni 2000 al suo crollo nel 2014/2016, il prezzo del petrolio non ha smesso di salire fino a raggiungere i 100 $ all’inizio del 2008 per poi crollare nuovamente a 40 $ durante la crisi finanziaria del 2008 per poi risalire a 100 dollari tra il 2010 e il 2014 e crollare nuovamente a 30 dollari nel 2016. È poi risalito a 65 dollari all’inizio del 2019 e raggiunge oggi il livello di 80 dollari al barile. Per quanto la riguarda, la struttura dei prezzi del gas è distinta da quella del petrolio anche se ad esso è in tutto o in parte indicizzata. Si distingue perché, a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL costituisce un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL costituisce un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi.

Infine, il potere di mercato dei produttori ha a lungo giocato un ruolo nella determinazione dei prezzi degli idrocarburi. Negli Stati Uniti, prima del suo smantellamento nel 1911, la Standard Oil di D. Rockefeller era il prezzo del petrolio perché monopolizzava l’80% del trasporto del petrolio americano e il 90% della sua raffinazione. A livello internazionale e fino alla creazione dell’OPEC, le Sette Sorelle americane che monopolizzavano il 90% del commercio petrolifero internazionale formarono un cartello che istituì un sistema noto come prezzo unico Gulf Plus ritenuto proveniente dalla costa orientale degli Stati Uniti. Oggi, però, le cinque major private rappresentano solo il 12% del mercato petrolifero dalla nazionalizzazione della produzione petrolifera e vedono quindi il loro potere di mercato notevolmente ridotto. La nazionalizzazione dell’83% delle riserve mondiali di petrolio in tutto il mondo e la corrispondente creazione dell’OPEC nel 1960 hanno quindi stabilito un potente potere di mercato per i paesi dell’OPEC. L’affermazione di quest’ultimo potere di mercato è stata tuttavia graduale. In un primo momento, l’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro il calo dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana. L’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro la caduta dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana. L’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro la caduta dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana.

In termini di struttura dei prezzi, il primo shock petrolifero mirava a introdurre una rendita di scarsità nel prezzo del petrolio anticipando un probabile aumento dei prezzi del petrolio dovuto all’aumento della domanda internazionale in quel momento. Successivamente, il secondo shock petrolifero mirava a introdurre nel mercato una rendita di monopolio. Tuttavia, il potere di mercato dell’OPECtendeva rapidamente a erodere dal 54% della produzione mondiale di petrolio nel 1973 al 30% nei primi anni 1980. Di conseguenza, l’OPEC ha dovuto scegliere tra due tipi di strategie di prezzo di mercato. La prima strategia è una strategia di difesa delle proprie quote di mercato attraverso un aumento della produzione e una diminuzione dei prezzi in modo da escludere dal mercato i concorrenti con costi di produzione più elevati. Questo è stato il caso negli anni ’80 così come nella seconda metà degli anni 2010. La seconda strategia mira a mantenere il potere d’acquisto dei paesi produttori riducendo l’offerta di petrolio per aumentare i prezzi. Infine, si scopre oggi che, a parte il ruolo di bilanciamento che l’Arabia Saudita svolge nell’OPEC, quest’ultimo ha dovuto espandersi nel 2016 in un’OPEC Plus che includeva la Russia ei paesi dell’Asia centrale per garantire il potere di mercato di fronte all’ascesa dello shale oil americano. Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare). Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare). Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare).

https://www.revueconflits.com/geopolitique-de-lenergie-francois-campagnola/

IDEE CON LE RADICI_di Pierluigi Fagan

IDEE CON LE RADICI. Era il 2013 quando feci uscire sul mio blog, un articolo a ripresa e promozione di una vecchia idea strategica formulata a suo tempo da Alexandre Kojève, russo trapiantato in Francia, in favore di quello che lui chiamava “Impero latino”. Un articolo di Giorgio Agamben di qualche mese prima, lo aveva riportato all’attenzione. Da allora promuovo questa idea, più o meno in solitaria. Ma giovedì prossimo, qualcosa che accenna a questa idea diventerà fatto, dal momento che Macron verrà a Roma a firmare quello che pare si chiamerà “Trattato del Quirinale”, un trattato come quello di Aquisgrana firmato con la Merkel nel 2019, di “collaborazione rinforzata” tra Francia e Germania. Ma questa volta tra Italia e Francia. Vediamo meglio la faccenda.
Il primo punto è: di quale disegno fa parte questa strategia? Kojève oltre ad esser stato il più influente interprete di Hegel in quel di Francia, con famosi seminari a cui pare si formarono Raymond Queneau, Georges Bataille, Raymond Aron, Roger Caillois, Michel Leiris, Henry Corbin, Maurice Merleau-Ponty, Jean Hyppolite , Éric Weil e Jacques Lacan (ma vi passarono a volte anche André Breton e Hannah Arendt), era anche alto funzionario del Ministero di Economia e Finanza, nonché poi sospettato di esser un agente sovietico. In tale veste di alto funzionario produce nel 1945 il documento originario cui abbiamo fatto cenno, indirizzato a De Gaulle. La tesi del franco-russo era che la Francia, doveva porsi la domanda su quale sarebbe stato il suo posto nel mondo da lì in poi. Questa domanda poteva avere diverse risposte, ma prima di vedere quali, bisognava pesare la sua potenza poiché qualsivoglia gioco in ambito internazionale o geopolitico, presuppone la forza per poterle metterle in atto. La forza della Francia era costituzionalmente inadeguata quindi doveva esser rinforzata, ma come?
L’idea di Kojève che per questo motivo Agamben segnalava al tempo, era di osservare quelle che Platone chiamava: le nervature dell’essere. Platone diceva che il macellaio, nel tagliare la carne, seguiva sua segreta conoscenza delle muscolature e nervature perché non puoi tagliere ciò che tiene assieme o metter assieme ciò che non ha trama connettiva. Kojève quindi ne deduceva che le nervature dell’essere di Europa, indicavano una area culturale di relativa omogeneità all’intero della sfera latina. Era una constatazione linguistica, quindi culturale, quindi geo-storica. In un comune ambito tale definito dalla geografia che non segna ma indica, non a caso si è sviluppata una storia comune e quindi molteplici interrelazioni che hanno sedimentato una cultura comune, a partire dall’origine romana antica.
L’idea piaceva ad Agamben e debbo dire anche a me, perché consistente ovvero dotata di radici concrete e non solo volontà astratta. E la cosa aveva grande attualità perché nel 2013 così come negli anni ’90 che portarono a Maastricht, ancora fino ad oggi, le nervature dell’essere che si osservano nel pensare ai processi di formazione di potenza allargata ai confini degli storici Stati-nazione in Europa, seguivano e seguono altre nervature. Per lo più di interesse economico o come nel caso dell’asimmetrica diarchia Francia-Germania, logiche di problematico vicinato competitivo. Kojève invece, stratega geopolitico che a lungo sviluppò relazioni di pensiero con Leo Strauss e Carl Schmitt, anche quando nel dopoguerra quest’ultimo era ostracizzato dato il suo passato mischiato al nazismo, non seguiva parametri contingenti pur importanti, ma le nervature dell’essere e queste erano cultura depositata nella geostoria. Va ricordato che nel ’45, per i francesi, si trattava di capire da che parte volgersi dato che era noto si stesse formando l’alleanza di ferro anglo-americana che poi portò al Patto Atlantico. In quella alleanza, la Francia non avrebbe avuto alcun ruolo, oltre a non avere alcuna nervatura dell’essere in comune. Men che meno con la Germania.
L’idea di Kojève, quindi, era di natura prettamente geopolitica, non politica contingente o tantomeno economica, era strategica non tattica. Ed il sottostate di geopolitica è nella geostoria. Si possono far sistemi di ordine superiore con coloro con i quali c’è del pregresso “in comune”, altrimenti anche la più brillante delle strategie di convenienza, naufraga per eccesso di eterogeneità. Le ragioni che portano a far matrimonio longevo e resistente non sono della natura con cui scegliamo amici ed amiche o partner sessuali. Notoriamente, molte unioni tra soci, essendo basate sulla convenienza contingente, naufragano perché fatte per unirsi nella buona sorte, non reggono alla cattiva sorte. Pe reggere alle ingiurie della cattiva sorte, ci vogliono nervature dell’essere. Queste non garantiscono, ma la loro assenza garantisce altresì il fallimento di qualsiasi unione, come quella europea che di nervature dell’essere ne ha tante e non certo in favore di un affare a 27 stati a meno che di “affare” non si vogli dare il significato mercantile.
Se quindi l’idea apparteneva alla categoria geopolitica ovvero la politica estera da svolgere partendo dalle costituzioni geostoriche, a cosa era finalizzata nel concreto? A quale domanda doveva cercar risposta? La domanda era data dalla constatazione che la Francia era una ex-potenza, retrocessa a media potenza, la potenza dominante in Occidente era il nuovo asse anglo-americano, la Germania era a pezzi ma con i tedeschi non si sa mai, poi cerano i sovietici e sullo sfondo lontano c’erano le preoccupazioni di scenario già note ai primi del Novecento, il Giappone, l’Asia e sia mai la Cina se si fosse risvegliata come ebbe a notare Napoleone a suo tempo. Ai primi del Novecento, verso la fine della Seconda guerra mondiale, viepiù nei successivi settanta anni e così ancora oggi e in prospettiva da qui al 2050 e solo perché al 2050 le variabili esplodono e non si possono fare previsioni sensate, il quadro geopolitico è mondiale. Con grandi potenze che sviluppano grandi vantaggi competitivi e quindi forza per giocare il gioco di equilibrio in un mondo sempre più complesso. La domanda era quindi: come acquisire maggior forza da trasformare in potenza per rimanere in gioco in una ambiente sì competitivo secondo logica a cui appartiene l’argomento ovvero la geopolitica che si basa sulla geostoria?
Che si voglia pensarlo come “Impero” o Stato federale o Unione confederale o semplice poligono di relazioni privilegiate, non v’è dubbio che l’ambito latino ha consistenza geostorica, quindi potenzialmente geopolitica. Semplice.
Come si vede il ragionamento è semplice e se fosse vero che Kojève era davvero un sovietico infiltrato, risultava consistente, logica e conveniente anche per i russi poiché che la logica multipolare fosse più promettente di quella bipolare o dei deliri unipolari quali poi vedremo a fine anni ’90 con le balzane idee sul “Nuovo Secolo Americano”, era nelle cose. Un ambito latino oggi, con 200 milioni di persone, varrebbe un soggetto di buon peso, la terza economia al mondo, un seggio all’ONU con armamento atomico, molti punti di forza e senz’altro altrettanti di debolezza su cui lavorare. Ma poiché poggiato su nervature dell’essere, ci si potrebbe lavorare e potrebbe funzionare.
In questi anni, questa idea mi è toccato discuterla con schiere di avversanti. Ma il problema era che non erano avversari di idee ma di categorie. Ad esempio, coloro che ignorano la geostoria e parlano di queste cose perché si sono risvegliati da poco con qualche eccitata attenzione alla geopolitica che a loro ricorda tanto Risiko un gioco senz’altro divertente, ma che dà una falsa idea della logica geopolitica reale. Coloro che si sono svegliati di recente scoprendo il concetto di sovranità, ma non hanno strumenti culturali per declinarlo non nell’astratto ma nel concreto dei suoi vari assi. Coloro che ignorano, come molti ancora oggi continuano ad ignorare, tanto in campo “europeista” che “sovranista”, il doppio problema dell’impossibilità che l’UE diventi un soggetto geopolitico ed il problema del nanismo dello Stato-nazione europeo nato nei contesti del XVI secolo quando il mondo era tutto in Europa ed eravamo 80 milioni e non 500, il mondo era di 450 milioni e non 7,8 miliardi andanti a 9,7 nel 2050. Coloro che si sono fatti una dimensione intellettual-politica partendo dall’Unione europea che non è un costrutto di logica geopolitica, ma geoeconomica. O peggio coloro che trattano il mondo complesso partendo da un solo paio di lenti molate negli studi monetari, seguiti da quelli altri che leggono solo fatti attinenti al neo-liberismo. Poi ho incrociato mentalità per lo più tattiche che leggono qualche articolo su Internet e così pensano di poter aver voce su argomenti di strategia quando al massimo l’avranno di tattica. O quella simpatica schiera di gente che non è in grado di pensare costruttivamente e specializzati in critica trovano loro godimento nel notare solo le cose che non vanno in una strategia perché inabili a pensarne un’altra. Ad esempio “Ah ma la Francia ci vuol dominare” oppure “Ah ma il nostro Nord ha interessi strutturali con la Germania” oppure “Ah ma gli US non ce lo faranno mai fare” o anche “Ma perché dar retta a questi inciuci tra Macron e Draghi che odiamo cordialmente?” fino a quei pazzerelli che dicono “Ah no, buona idea ma va allargata a tutto il Mediterraneo”. Tutti costoro non hanno idee diverse dalle mie e da quella in oggetto, sono in categoria diverse, economiche, ideologiche, finanziarie, sottodotate culturalmente, contingenti, idealistiche, possiamo discuterne per anni ma mai ci intenderemo perché parliamo di cose diverse, che partono da presupposti diversi, in ambiti diversi, con logiche diverse.
Firmare un patto su quindici cartelle che diranno tante belle cose ma nessuna concreta, a vaghi fini di “amicizia privilegiata” può sembrar poco. Ma a chi scrive, invece, dicono che le idee hanno radici o meno e se hanno radici hanno potenzialità di germogliare e poi fiorire. In tempi di desertificazione del pensiero e dell’azione politica, non è poco.
[Il mio primo articolo sul tema, altri ne seguirono: https://pierluigifagan.wordpress.com/…/leuro-nostrum/…]

Stati Uniti! Azzardi pericolosi di centri in stato confusionale, con Gianfranco Campa

Due leader in difficoltà ai due lati del Pacifico, ma uno di essi messo decisamente peggio. Un ceto politico che si dimena con sprezzo del ridicolo riuscendo a trasformare le proprie vittime designate in martiri al culmine della popolarità. Un tentativo di recupero dei consensi nella vecchia base elettorale con il rilancio di una politica estera della “working class” che pare una riproposizione in un contesto inidoneo della geopolitica degli anni ’90. Una classe dirigente tentata a contrabbandare qualche concessione nell’immediato con la rinuncia strategica in un contesto multipolare, specie quello indo-pacifico, nel quale sono numerosi e potenti gli attori in grado di condizionare le scelte. Una crisi interna che è prossima a rinunciare anche alle ultime certezze, come nella gestione della pandemia. Nel mezzo alcuni giochi inquietanti e pericolosi, difficilmente controllabili, in corso nei laboratori americani. Rischiamo un’altra Wuhan, questa volta a stelle e strisce? Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vpgzxt-stati-uniti-biden-e-gli-azzardi-pericolosi.html

 

 

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE, a cura di Luigi Longo

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA

a cura di Luigi Longo

Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.

Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.

Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.

Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).

Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?

L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.

In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?

di Gianfranco La Grassa

1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.

Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).

Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.

In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.

Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.

Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.

2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.

Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).

Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.

I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.

In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.

3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.

Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.

Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.

In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.

Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.

Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.

4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.

In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.

Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.

Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone  dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.

Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.

Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.

5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.

Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).

I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.

Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.

E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.

Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e

l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.

Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.

E con questo fervorino finale, veramente Amen.

http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche

atlantismo. Mutazioni e domande, di Pascal Gauchon

Per la sua prima visita ufficiale all’estero (lo scorso giugno), Joe Biden ha scelto l’Europa. Per lui si trattava di rivitalizzare l’alleanza atlantica nata dopo il 1945. Ma l’atlantismo ha ancora un significato?

Il termine atlantismo significa che una stretta solidarietà unisce le due sponde dell’Atlantico, il Nord America e l’Europa occidentale.

Atlanticismo versioni 1949 e 2021

Questa solidarietà era umana e culturale all’indomani della seconda guerra mondiale, quando i popoli dei due sub-continenti erano principalmente di origine europea, con la notevole eccezione dei neri americani; parlavano le stesse lingue e condividevano le stesse religioni cristiane. Hanno aderito allo stesso modello democratico, liberale e capitalista contro l’URSS comunista e atea. Proclamavano gli stessi principi provati nel 1941 dalla Carta Atlantica avviata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Significativamente, tuttavia, questo documento non è stato ufficialmente firmato e Churchill ha rivelato che solo Roosevelt ne aveva una copia siglata dal presidente degli Stati Uniti che aveva firmato anche per il primo ministro britannico. Sul piano simbolico era già stato detto tutto.

Fortunatamente per lui, l’atlantismo aveva basi più tangibili. Primo, la paura dell’URSS. Non dobbiamo dimenticare che furono gli europei a pregare gli americani di restare in patria e a volere la creazione della NATO nel 1949. L’idea atlantista faceva parte anche della geografia del secondo oceano mondiale, attraversato da potenti rotte commerciali e delimitato da porti, i più importanti al mondo in quel momento. Il North Atlantic Track era allora la rotta marittima più importante del mondo (il 20% del commercio mondiale in valore alla fine degli anni ’60, quando gli Stati Uniti inviavano un terzo delle proprie esportazioni verso l’Europa occidentale). Non sono solo le idee nella vita, c’è anche il dollaro.

Questo atlantismo non è più di stagione. Il legame tra le due sponde del grande oceano si è indebolito. La scomparsa dell’URSS ha scosso la dimensione strategica dell’Alleanza. Potremmo persino credere in un disaccoppiamento tra Stati Uniti ed Europa durante la guerra in Iraq, quando fu delineato un asse Parigi-Berlino-Mosca. Ma questo asse si è rotto sull’opposizione di Polonia e Lituania, poi sugli affari ucraini e georgiani che Mosca ha interpretato come un tentativo di portare questi due paesi nella NATO. Nel frattempo, Washington ha martellato la sua opposizione alla creazione di una difesa europea che avrebbe potuto competere con la NATO – Madeleine Albright , segretario di Stato di Bill Clinton, è stato categorico su questo argomento. Le divisioni dell’Europa, la sua dipendenza militare, soprattutto la sua incapacità di definire una strategia alternativa a quella propugnata dagli Stati Uniti hanno portato all’incapacità degli europei di affermarsi come l’altro polo dell’atlantismo. Lo abbiamo visto durante la visita di Biden in Europa durante la quale le cancellerie europee si sono accontentate di elogiare il nuovo presidente, Londra che ha abbassato la testa sotto le critiche alla Brexit, la Francia che ha piegato le spalle alla volontà americana di riallacciarsi con una Turchia che ci aveva provocato da poco fa. Gli europei avevano paura delle minacce di Trump di far saltare la Nato, minacce che avevano risvegliato le paure del 1945: i paesi europei temono di essere abbandonati dal fratello maggiore, accolgono con favore il suo ritorno. Di servitù volontaria.

Da leggere anche: La Francia atlantista o il naufragio della diplomazia. La Francia è di nuovo in riga!

riallineamento

Sono quindi costretti ad accettare i cambiamenti dell’Alleanza nella direzione voluta da Washington. L’Alleanza Atlantica è sempre meno atlantica, è intervenuta in Afghanistan (che non faceva parte del suo campo di intervento come mostra una semplice mappa), ha assistito ai trasferimenti di truppe dall’Europa all’Asia, sotto Obama e lei approva Biden quando spiega che il vero pericolo oggi è la Cina. Si è capito che si trattava della Russia governata da un “killer” secondo la formula meno diplomatica usata da Biden (alla quale Putin aveva risposto ironicamente augurando “buona salute” al suo omologo). In effetti, gli Stati Uniti stanno riattivando vecchie paure mentre ne suscitano di nuove per rimanere gli stessi.“Leader delle democrazie” come li hanno chiamati i media occidentali.

Il cambiamento geografico è accompagnato da un cambiamento ideologico, la democrazia auspicata dall’Alleanza si allinea agli sviluppi americani. Basta vedere come i paesi europei hanno accolto questo, dai Black Life Maters al neofemminismo e alla teoria del genere, dal ginocchio alla terra per cambiare i nomi delle strade e sfatare le statue. Le specificità nazionali vengono gradualmente cancellate, l’atlantismo diventa un blocco molto più allineato con gli Stati Uniti che nel 1945. Il cambiamento principale è strategico. Gli Stati Uniti hanno scelto il loro principale avversario, la Cina. Eppure l’avevano aiutata a raggiungere la vetta, il loro errore principale era la decisione di Clinton di portarla nel WTO senza altra garanzia che buone parole. Gli europei lo seguivano altrettanto spesso;[1] . Poi si riprendono, va detto che gli Stati Uniti di Trump li incoraggiano a farlo. Biden spinge nella stessa direzione.

L’Alleanza Indebolita

Rimangono due problemi.

Innanzitutto, quale atteggiamento adottare nei confronti della Russia? La linea di Trump era chiara: cercare un alloggio con lei di fronte a Pechino; ma un’intera parte dell’establishment repubblicano era riluttante ei media democratici lo accusavano di compromesso. È per accontentare quest’ultimo che Biden ha adottato un tono più fermo, per non dire più brutale, anche se significa ritirarsi durante il suo incontro con Putin quando ha ammesso che quest’ultimo non voleva un ritorno alla Guerra Fredda. Allo stesso tempo, ha fatto una consistente concessione revocando l’embargo sul gasdotto North Stream 2 che collegherà la Russia alla Germania: consentirà a Mosca di raccogliere più valuta estera, priverà l’Ucraina di una parte delle entrate che ne derivano dal transito del gas russo, rafforzerà i legami, per non dire la dipendenza energetica di Berlino da Mosca. Un regalo alla Germania, unico Paese dell’Unione Europea che conta per la Casa Bianca, e ancor di più per la Russia. Capiamo che Putin abbia sorriso quando ha incontrato Biden. Quali altri doni avrà Biden da offrire per staccare Mosca da Pechino, se sarà ancora possibile?

Il confronto con il suo omologo americano potrebbe anche soddisfare il presidente russo. Biden ha mostrato una preoccupante debolezza fisica e intellettuale durante il suo tour europeo. Forse è per questo che ha rifiutato una conferenza stampa congiunta con Putin; Aveva paura che la sua lettura esitante del suo testo preparato e le sue risposte frettolose a un numero limitato di domande impallidissero in confronto a quella che deve essere definita la facilità di Putin? Non dovremmo vederci il simbolo di un Paese indebolito, diviso, che non sa più quale pericolo favorire o dove volgersi?

Questo è il secondo problema dell’Alleanza Atlantica. Come gli Stati Uniti, non ha più il vigore che possedeva nel 1949. Rivolgendosi al Pacifico, e persino al mondo intero, si espone alla sofferenza della sovraestensione imperiale. Fissandosi obiettivi troppo ambiziosi – estendendo la sua visione delle cose in tutto il mondo – rischia di moltiplicare i suoi nemici. Allineandosi sistematicamente con gli Stati Uniti, rischia di rafforzare la sua immagine di falso naso di questi ultimi.

https://www.revueconflits.com/atlantisme-mutation/

Stati Uniti! La strada tracciata, gli imprevisti possibili_con Gianfranco Campa

Sino a pochi giorni fa si poteva parlare di una persistenza del movimento politico legato a Trump e di una situazione di stallo apparente. Le recenti elezioni in Virginia e in numerose realtà locali rivelano ormai una tendenza pressoché definita verso il successo di quest’area e la possibile deflagrazione del gruppo dirigente del Partito Democratico, ben lontano dall’aver risolto un confronto intestino distruttivo perché privo di indirizzo politico in grado di unire il paese pur poggiando paradossalmente sulle numerose identità reali ed artefatte annidate. I primi segni di cedimento e di abbandono della nave in piena navigazione sono evidenti; il tramonto di vecchie glorie, almeno così ritenute in Europa, ormai segnato. Si prospetta un rivoluzionamento degli equilibri politici, una conformazione inedita dell’azione destinata a rivoluzionare gli assetti statunitensi e ad influire pesantemente sul futuro delle classi dirigenti specie europee che si ostinano, per indole ed incapacità, ad abbarbicarsi e a baciare per la seconda volta le mani sbagliate; quelle che in pochi mesi potranno trasformarsi in ologrammi sfuggenti. La sicumera che attualmente li contraddistingue, nessuno escluso, nemmeno il nostro funzionario al vertice, difficilmente li metterà in condizione di attraversare impunemente le sabbie mobili dentro le quali si stanno avventurando e stanno trascinando i popoli di un intero continente. I pifferai che per pochi mesi hanno illuso di nuove speranze qui in Italia hanno dal canto loro rivelato la loro pochezza e il loro conseguente trasformismo di corto respiro, incapaci di cogliere le opportunità recenti e di presagire i cambiamenti in corso al di là del loro naso e delle loro spiagge. Bene hanno fatto, tre anni or sono, a concedere loro scarso credito Oltreatlantico. Mala tempora currunt. Buon ascolto! Ne vale la pena. Giuseppe Germinario

https://rumble.com/voonc3-tendenze-ed-imprevisti-negli-usa-con-gianfranco-campa.html

TELLURICI O COSMOTERRORISTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

TELLURICI O COSMOTERRORISTI

Ci si interroga sulle intenzioni dei talebani, ma senza particolare interesse al dubbio se cercheranno di esportare il conflitto oltre l’Afghanistan ovvero di rimanere nei confini del loro Stato. La domanda non è peregrina e coinvolge concetti, criteri e presupposti del pensiero politico e del diritto internazionale.

Scrive Schmitt nella “Teoria del partigiano” che il partigiano ha carattere tellurico “Tale caratteristica è importante per definire la posizione del partigiano la quale, a prescindere da ogni mobilità tattica, rimane fondamentalmente difensiva; ed egli deforma la sua natura quando fa propria un’ideologia di aggressività assoluta e tecnicizzata o vagheggia una rivoluzione mondiale…” e aggiunge relativamente a come distinguere il partigiano “è indispensabile fondarlo sul carattere tellurico, per rendere più evidente nello spazio la difensiva, cioè la limitatezza dell’ostilità e preservarla dalle pretese assolute di una giustizia astratta”. Questo lo differenzia da altre “categorie” di combattenti irregolari come il pirata o il corsaro, per necessità non-tellurici in quanto operano in un altro “spazio”, il mare. Tuttavia “Con l’ausilio della motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente. Nelle situazioni provocate dalla guerra fredda egli diventa un tecnico del combattimento clandestino, un sabotatore e una spia… La motorizzazione fa perdere dunque al partigiano la sua connotazione tellurica ed egli finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente su un piano mondiale”.

E con la “motorizzazione” e le possibilità che offre tende ad appannarsi il carattere difensivo del partigiano e della guerra partigiana.

Il connotato difensivo del partigiano non andò smarrito neanche dopo che la guerra partigiana divenne – per lo più – il mezzo di un’ostilità ideologica assoluta come durante la guerra fredda, specie da parte del blocco comunista. In effetti nessuna delle lotte partigiane, né dei capi, giunse a mutarne il carattere prevalentemente difensivo. Né Mao, né Ho Chi Min né il Fln algerino o l’Irgun hanno condotto operazioni offensive nel territorio del nemico.

Questo è cambiato con Al-Qaeda e con parte del terrorismo islamico contemporaneo: ormai è normale che ad un’occupazione militare da parte di una potenza (anche in mancanza) si risponda con attentati terroristici offensivi (dalle Torri gemelle al Bataclàn).

Vent’anni fa, in occasione dell’attentato alle Twin Towers mi capitò di scrivere che il successo dell’attentato era stato determinato: a) dalla sostanziale invulnerabilità di Al-Qaeda, gruppo terroristico senza popolazione e territorio, onde era quanto mai difficile organizzare una reazione b) il tutto lo distingueva dai movimenti partigiani, i quali, come insegna Santi Romano, hanno gli stessi elementi caratteristici dello Stato, solo in misura poco determinata e fluttuante.

Onde se era vero che ciò assicurava a Bin Laden un vantaggio militare, costituiva un handicap politico, impedendone o rinviando sine die la conversione in istituzione.

Non così sembra per i talebani, in questo assai più vicini ai movimenti partigiani “classici”. La prima volta che conquistarono il potere, la dinamica e il contesto sia della lotta contro l’occupante sovietico che della fase successiva per i talebani – come per gli altri movimenti afgani di resistenza, il rapporto con la popolazione e territorio era costituito almeno con i territori occupati dai gruppi etnici di riferimento (per i talebani i pastun).

Il fatto che i talebani avessero così compiuto il percorso “canonico”, diventando forza al governo dello Stato afgano, ne provocò la rovina. Dando protezione e asilo a Bin Laden e rifiutandosi di consegnarlo agli USA, si assunsero così la responsabilità politica, normale nel diritto internazionale, del territorio e di quando vi succedeva.

Da qui l’intervento americano, che, a quanto risulta dai mass-media – non riusciva a pacificare e a controllare (se non in parte) – il territorio del paese – né a consolidare il governo insediato dall’occupante.

Le zone “libere” (ossia controllate dai movimenti di resistenza), probabilmente la maggior parte del territorio, e la popolazione lì residente continuava ad essere il “santuario” dei partigiani. Santuario fluttuante, ma pur sempre accomunante il movimento partigiano all’istituzione statale.

Anche se la resistenza afgana – al contrario di Al-Qaeda così poteva fruire solo relativamente dei suggerimenti di Sun-Tzu. Questi sostiene che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… “più del sottile fino a rendersi privi di forma… Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; “dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, in guerra cioè, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma”; da ciò conclude “Insomma per quanto concerne l’azione militare una forma siffatta è quella che si assimila all’acqua” (i corsivi sono miei).

Quest’anno la situazione si è ripetuta: i talebani hanno ottenuto il governo dell’Afghanistan: sono così divenuti la classe dirigente dell’istituzione statale. Di conseguenza hanno riacquistato sia la responsabilità conseguente che l’obbligo politico di protezione della popolazione. A quanto risulta, pare abbiano capito la lezione del 1998-2001. Tutto sommato le azioni terroristiche compiute in occasione della sgombero delle forze occidentali e dei loro alleati locali sono state opera di altri gruppi di resistenza islamica, noti per averle praticate anche altrove.

Occorre trarre da ciò che l’insegnamento della teologia cristiana e controriformata, la quale tanto ha influenzato il diritto internazionale westphaliano ha ancora una sua validità: sia che bellum defensivum semper licitum, onde non si può tacciare di jniustus hostis chi difende il proprio territorio e la propria gente; e che fare guerra per violazione dei diritti (non dei propri sudditi o cittadini) ma degli altri (ad vindicandas iniurias totius orbis) è illecito: neque a deo data est necque ex ratione colligitur. E cioè un (aduso) pretesto che cerca di giustificare un intervento militare non meglio argomentabile. Di converso rispondere ad azioni aggressive è sempre consentito.

Così quando sentiamo in TV che i talebani avrebbero imposto il burqa o disposto che le scuole non siano miste, e se ne mena scandalo, mi rallegro. Personalmente sono convinto che facciano di peggio, ma se le malefatte fossero limitate a quelle non posso che riconoscere che condizione della pace è (da sempre) che ognuno decida di come vivere a casa propria.

Teodoro Klitsche de la Grange

Vincere senza combattere. Cultura strategica cinese Alban Wilfert di Alban Wilfert

Alcuni sono preoccupati per il rischio di una guerra imminente tra Stati Uniti e Cina, potenze mondiali all’inizio del 21° secolo. Se la Cina sta investendo sempre di più nel suo esercito, il primo al mondo per numero, è l’unico membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu a non aver sparato un colpo fuori dai suoi confini dal 1988. L’atteggiamento cinese di non fare la guerra si basa su una vecchia cultura strategica caratterizzata da una certa continuità, ma regolarmente rinnovata.

 

Studiare la cultura strategica cinese significa mettere in discussione il modo in cui la Cina affronta la strategia sia come stato dotato di mezzi militari sia come società che produce un pensiero. La strategia, definita da Georges-Henri Soutou come “l’arte della dialettica delle volontà e delle intelligenze che impiega, tra l’altro, la forza o la minaccia di ricorrere alla forza per fini politici”, consiste non solo nell’uso della forza, ma anche nel il suo semplice potenziale, che riesca o meno, che è illustrato dal caso cinese.

Il pensiero strategico antico quanto al centro delle notizie

Il più antico trattato di strategia che ci sia pervenuto, L’arte della guerra di Sun Tzu, proviene dalla Cina. Sembra sia stato scritto intorno al V secolo aC, epoca degli Stati Combattenti, stati principeschi che risolvono le loro controversie con le armi in pugno. La guerra vi passa dalla mischia rudimentale ad una questione di eserciti permanenti, diversificati e professionali, favorevoli all’espressione dei talenti individuali degli ufficiali. Sun Tzu dispensa poi consigli che, se mirano a prevalere in questo nuovo paradigma, lo superano al punto che, più di duemila anni dopo, lo stratega britannico Liddell-Hartscrive che “non sono mai stati superati in ampiezza e profondità di giudizio”. Sun Tzu, infatti, vede la guerra come “una questione di vitale importanza per lo Stato”, onnipresente e non anormale, ma non professa un uso illimitato e permanente della forza. Al contrario, con lui, il combattimento è solo l’ultima risorsa, quando l’uso dell’astuzia, per “attaccare i piani del nemico” e le sue “alleanze”, non è stato sufficiente. . Devi conoscere il tuo nemico, per mezzo di spie. Al contrario, è necessario fingere debolezza quando siamo forti e forza quando siamo deboli. “La guerra si basa sull’inganno” e l’apice dell’abilità è vincere senza combattere, non “conquistare cento vittorie in cento battaglie”. In questo modo, “Un esercito vittorioso è vittorioso prima di cercare il combattimento”. Una guerra prolungata non può essere vantaggiosa per lo stato, quindi prendere una città intatta è meglio che iniziare un lungo e costoso assedio, e “ci sono strade da non prendere, truppe da non colpire, città da non colpire. assalto e terra da non contestare”. L’interesse prevale e il desiderio di sorpresa non deve mai portare a rischi avventati. A volte è meglio lasciare che il nemico prenda una città, per raggiungere obiettivi a lungo termine più importanti, e meglio un generale razionale che disobbedisca al sovrano quando necessario, piuttosto che un signore della guerra senza paura. Soprattutto bisogna sapersi adattare alle situazioni esistenti. Questo consiglio generale permette ai precetti del Maestro Sole un’eterna giovinezza. Il suo pensiero è un pensiero delle variazioni, del circostanziale:

È evidente l’influenza dei tredici capitoli sulla Cina fino all’epoca della Repubblica Popolare Cinese (RPC) che nacque, nel 1949, dalla vittoria dei comunisti nella guerra civile che li opponeva ai nazionalisti del Kuomintang ( KMT). Dopo il disastro di Nan Ch’ang, Mao Zedong preferì seguire il consiglio di Sun Tzu piuttosto che gli ordini del Comitato Centrale del Partito, iniziando dall’ottobre 1934 all’ottobre 1935, la Lunga Marcia, un vasto ritiro di 10.000 km verso il nord-est della Cina volto ad evitare combattere contro un nemico meglio posizionato con l’iniziativa. Mao ha quattro slogan affrontati: “Il nemico avanza – noi ci ritiriamo, il nemico si ferma – lo preoccupiamo, il nemico è esausto – lo colpiamo, il nemico si ritira – lo inseguiamo!” “. In effeti, la manovra permette di passare dialetticamente dalla difensiva alla controffensiva, un tempo sulle montagne del nord dove la popolazione è favorevole ai comunisti e il nemico lontano dalle sue basi. Lì, fuorviato dall’eccessiva fiducia in se stesso che lo ha guadagnato a furia di perseguire un’Armata Rossa che credeva debole, viene sconfitto.

La strategia che Mao poi fa seguire al regime rimane, tra le righe, intrisa di questo pensiero antico. La “strategia di autodifesa nucleare”, che mira a realizzare una forza deterrente dal debole al forte mediante il possesso di un arsenale nucleare sufficiente a infliggere al nemico danni dello stesso ordine di quello che provocherebbe con un attacco nucleare, dà rinnovata rilevanza al consiglio di usare la forza solo come ultima risorsa.

Da leggere anche

Nuovo numero speciale: Approfondimenti sulla guerra

Forza dentro, diplomazia e sotterfugio fuori? Cultura strategica in azione

L’impero cinese, che durò dal III secolo aC al 1911, voleva essere tian xia, padrone di “tutto ciò che è sotto il cielo”. Da questa pretesa simbolica di universalità scaturiva una visione concentrica del mondo. Il primo cerchio comprendeva lo spazio imperiale delimitato e l’ultimo l’esterno del mondo cinese; in mezzo c’erano i vicini stati tributari, l’ultimo cerchio in cui l’Impero si riservava il diritto di intervenire. Anche se questo non è un espansionismo in stile occidentale, dal momento che la Cina non ha imposto la sua cultura agli altri con la forza, la sua strategia difficilmente si è discostata da questa concezione. La spedizione dell’ammiraglio Zheng He in Africa nel XV secolo non ha mai visto un futuro: l’ultimo intervento cinese al di là dei mari risale al XVII secolo. A volte ancoraMao Zedong come Tchang Kaï-shek ha quindi cercato di unificare il Paese con l’uso della forza, la Cina volendo essere uno Stato multinazionale comprendente minoranze etniche: è fuori discussione per lei lavorare per compromessi con i “briganti”. separatisti “che potrebbero minare lo Stato. La notizia ci mostra quali atrocità possono provocare sulla popolazione uigura.

I passati interventi esterni della Cina hanno risposto alla stessa logica: evitare il caos interno. L’invio di truppe in Corea nel 1950 mirava a stabilizzare il regime contro le forze interne “controrivoluzionarie” che potevano emergere rafforzate da una vittoria del campo capitalista. L’uso della forza all’estero, anche per le ostilità ideologiche della Guerra Fredda, risponde a un preciso obiettivo strategico, legato all’interno della cerchia ristretta.

Le grandi vittorie cinesi sono però frutto della diplomazia. Nel 1997 e nel 1999, Hong Kong e Macao sono state rispettivamente cedute dal Regno Unito e dal Portogallo, unendo la RPC con lo status di regioni amministrative speciali (SAR) che consente loro di mantenere le loro specificità e la loro autonomia per 50 anni. Tuttavia, il giorno stesso di queste retrocessioni, l’Esercito Popolare di Liberazione (APL) entrò in questi territori, contrassegnandoli come appartenenti alla cerchia unificata ex-imperiale. Nel 2019 e nel 2020, le proteste di Hong Kong vedono Pechino minacciare di impiegare l’esercito in caso di richiesta del governo locale, lo status di SAR subordinando ad esso l’uso della forza militare e quindi ostacolando una cultura strategica che lo prevede, anche per il mantenimento dell’ordine – ricordiamo la repressione di piazza Tienanmen. Questo è il principio di Deng Xiaoping, “un paese, due sistemi”, che dovrebbe valere anche per Taiwan.

One China: cultura strategica messa alla prova della questione taiwanese

La questione taiwanese è una delle maggiori questioni strategiche nella Cina contemporanea. Recuperata dal Giappone nel 1945, Taiwan fu vinta alla fine della guerra civile dal KMT, sconfitto in terraferma, che prese Taipei come sua capitale provvisoria. Taiwan è, oggi, l’unica vestigia del regime nazionalista, e il suo governo continua a sostenere di essere “Repubblica di Cina”, non riconoscendo la RPC, mentre quest’ultima considera l’isola di Taiwan come propria. La “politica della Cina unica”, secondo la quale sia la terraferma che l’arcipelago taiwanese fanno parte dello stesso Paese, paradossalmente è un consenso su entrambi i lati dello stretto, ma i due regimi ovviamente differiscono su chi dovrebbe governare questa Cina. .

Come raggiungere allora l’unità? “La politica migliore è mantenere intatto lo stato”, ha affermato Sun Tzu: sarebbe costoso e rischioso per i due regimi rivali fare i conti l’uno con l’altro mentre mirano all’unità cinese. Prima è necessario “attaccare la strategia del nemico” poi “fargli rompere le sue alleanze”. Infatti, la RPC si afferma rapidamente come una potenza geopoliticamente incomparabile rispetto alla sua rivale, e si impegna in un gioco performativo sul principio di una Cina, ponendosi come prerequisito per l’apertura di relazioni bilaterali con qualsiasi paese terzo. come unico governo della Cina. Nel 1971 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo riconobbe come tale, portandolo a sostituire il regime nazionalista nel Consiglio di Sicurezza. La visita del 1972 del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon rappresenta una vittoria diplomatica e strategica. Sette anni dopo, gli Stati Uniti a loro volta riconobbero il regime, promulgando ilTaiwan Relations Act che li impegna a “garantire la sicurezza dell’isola, della sua gente, del suo sistema economico e sociale”. Ricordano così a Pechino che, se viene riconosciuto come il governo legale della Cina, questo non potrebbe necessariamente costituire un assegno in bianco per un’invasione. La RPC non ha raggiunto pienamente i suoi fini diplomaticamente, quindi si impegna in spese militari e dimostrazioni di forza. Che abbia o meno intenzione di attaccare Taiwan, sa che abbassare la guardia correrebbe il rischio di una dichiarazione di indipendenza, in cui l’isola sarebbe invasa dalla legge anti-secessione del 2005.

Questi ultimatum da entrambe le parti sembrano impedire qualsiasi uso della forza e vedono il perpetuarsi di una Taiwan di fatto indipendente se non de jure, ma non si tratta di un vero e proprio status quo: di comune accordo, i legami tra le due sponde sono sempre più vicino, la circolazione di capitali e turisti tra continente e arcipelago aumenta. Le economie guadagnano in integrazione, favorendo una possibile futura unificazione secondo il principio “un Paese, due sistemi” rispettoso delle loro differenze. La RPC diluisce gradualmente il suo rivale in sé, dandogli un cappio a lungo termine. Negoziando con il KMT anche quando quest’ultimo è all’opposizione, gioca sulle divisioni politiche taiwanesi. Se, secondo Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi,

Da leggere anche

Guerra per Taiwan? Precedenti storici e rischi militari

Sviluppo pacifico?

La Cina sembra ancora fedele al principio di non ingerenza negli affari di un Paese situato al di fuori del mondo cinese, in linea con la natura ormai illegale dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. In questo contesto, la cultura strategica cinese oggi conosce per la sua declinazione il concetto di “sviluppo pacifico”, sviluppato intorno al 2005 all’interno della rete di istituti di ricerca e think tank cui si ispira il Partito Comunista Cinese (PCC) per la sua strategia estera. e teorie americane delle relazioni internazionali. Questo approccio prevale nella ricerca “di una situazione quanto più favorevole possibile ai suoi interessi economici e strategici”.

Nel 2013, denunciando l’ancora significativa presenza americana nella regione indo-pacifica, Xi Jinping ha proposto ai Paesi della regione “principi fondamentali per la strategia di buon vicinato”: lo sviluppo di relazioni amichevoli, la ricerca della sicurezza e della prosperità comune, relazioni vantaggiose e non esclusive. I paesi dell’Asia sarebbero legati da una “comunità di destino” nei loro rispettivi interessi. In effetti, l’integrazione delle rispettive economie è evidente, soprattutto a favore della Cina. Allo stesso tempo, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, creata nel 2001, le consente di rafforzare le sue relazioni con i suoi vicini, a fronte di una NATO presente in Asia centrale. Ci sono inclinazioni cinesi non per l’espansionismo, termine usato da alcuni pensatori americani, ma per proteggere i confini. È un “pericoloso gioco delle alleanze” quello della Cina, che porta aiuti economici e militari a un Pakistan con cui condivide una certa animosità per l’India, mantenendo così un “triangolo nucleare” tra le tre potenze. Il PLA non gioca un ruolo minore negli equilibri geopolitici regionali, come dimostra la strategia della “collana di perle”, consistente nella creazione di basi navali nel Mar Cinese Meridionale e nell’Oceano Indiano. Alcuni di loro situati nei territori di altri paesi e in aree contese, costituiscono staffette cinesi in tutta la regione. Nel 2017, per la prima volta, è stata aperta una base militare terrestre al di fuori della Cina, a Gibuti. La Cina è stabilita al di là dei mari, minacciando gli stati confinanti sconsiderati di attaccarlo. Si tratta di raggiungere un’egemonia regionale, la cui manifestazione è in parte di natura militare. Il decimo dei Trentasei stratagemmi, trattato cinese del Medioevo riscoperto nel XX secolo, raccomanda di “nascondere una spada in un sorriso”. La cultura strategica cinese, che promuove non solo la diplomazia, ma attraverso di essa una forma di doppio gioco, trova oggi, nella geopolitica dell’Indo-Pacifico, un terreno favorevole per la sua espressione.

Oltre la guerra, ai confini del mondo

La Cina è in prima linea nell’anticipare la guerra futura. La sua cultura strategica ha subito un significativo rinnovamento intellettuale subito dopo la Guerra del Golfo, con la pubblicazione dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsuidi La guerra fuori dai confini. Gli ufficiali del PLA prendono atto del fatto che, d’ora in poi, “l’umanità dà a qualsiasi spazio il senso di un campo di battaglia”, che ora è “ovunque”. La nuova guerra sarà caratterizzata da un crescente offuscamento dei suoi confini con la non guerra, sarà “qualcosa che non abbiamo mai considerato come guerra”, mobilitando risorse civili preesistenti in campo cibernetico, finanziario o commerciale, nelle mani di un “combattente digitale”. Senza una forma chiara, la guerra sarebbe ormai “fuori limite”, ed è una “nuova arte della guerra” – noteremo il riferimento a Sun Tzu -, che comprende tutti questi campi, che dovrebbe essere padroneggiata per vincita. Ci deve essere una coerenza, un uso combinato ponderato di questi mezzi basati su una “singola volontà”, dicono, usando le parole di Yu Fei, generale del XII secolo. Si attualizza così una cultura strategica che promuove l’uso delle armi solo se gli approcci non militari si sono rivelati inefficaci e raccomanda l’uso combinato della “forza ordinaria” (Cheng) e della “forza straordinaria” (Ch ‘i). La forza è ormai solo un frammento, un aspetto tra gli altri della guerra.

Lo ha capito bene lo Stato cinese, che investe costantemente in settori destinati a essere al centro della prossima guerra, in primis quello spaziale. Nel 2007 ha dimostrato, con la distruzione con un lancio di missili anti-satellite di uno dei suoi dispositivi, situato a 850 km di distanza, le sue capacità di attacco nello spazio, che investe e militarizza a tal punto da competere con gli Stati Uniti: vi ha lanciato 260 tonnellate nel decennio 2010-2020. Dal 2015, la forza di supporto strategico, una nuova componente del PLA, è responsabile dello spazio, oltre che del dominio cibernetico. Innovando in termini di pensiero e progresso tecnologico e scientifico, la Cina si sta affermando come una potenza leader in vista delle ostilità, militari e non, a venire.

Da alcuni decenni, infatti, il pensiero strategico cinese investe anche il campo dell’economia e del commercio, che ormai sono un mezzo privilegiato di espansione. Conosciamo i successi della politica economica e commerciale portata avanti dalla RPC dagli anni 1970. Nel 2013 è stato presentato il progetto One Belt One Road (OBOR), ora Belt and Road Initiative (BRI), che mira a sviluppare il commercio interno al continente eurasiatico attraverso un “corridoio economico” che collega la Cina all’Europa occidentale attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente, attraverso grandi progetti infrastrutturali. Questa “nuova via della seta”, così chiamata in riferimento a un tempo glorioso per la Cina, concretizza la “Grande Strategia Nazionale” definita dal generale Liu Yazhou, che chiamava nel 2001 ad “avanzare verso ovest” attraverso un “ponte terrestre tra Europa e Asia” per neutralizzare l’accerchiamento americano della Cina. Questa riflessione, radicata nel XXI secolo, non è da meno parte della tradizione di una strategia che preferisce aggirare il confronto frontale, facendo prendere in prestito beni e servizi a strade non controllate dagli Stati Uniti. Oltre agli interessi commerciali, spetta infatti alla Cina affermarsi come potenza indipendente, a capo di un ordine internazionale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti. Non tutti gli stati interessati vi aspirano, alcuni lo vedono come un mezzo per la Cina al servizio dei suoi soli interessi, non ignorando l’arte dell’ambiguità e dell’occultamento che è al centro della sua cultura strategica. .PCC , dal 2007, del soft power cinese, con lo sviluppo, prima nel sud-est asiatico, di istituti Confucio e scambi con università e centri culturali. Nel 2008 il Paese ha ospitato i Giochi Olimpici e l’Esposizione Universale, in linea con la diplomazia del ping-pong che ha contribuito al suo riavvicinamento con gli Stati Uniti. La Cina, che sa che in URSS mancava il soft power, ha compreso l’interesse di questo processo che, pur non violento, non va contro la sua tradizione strategica.

La Cina vuole la guerra? Niente è meno sicuro. La cultura strategica cinese promuove il dirottamento piuttosto che il confronto, mira a raggiungere i suoi obiettivi senza ricorrere alla forza. Questo pensiero trova oggi espressione concreta negli obiettivi della Repubblica Popolare Cinese sulla sua regione, obiettivi di unità ed egemonia, ma non di conquista. Forse non accetterebbe il colpo di una guerra frontale, convenzionale, contro gli Stati Uniti: infatti, i suoi obiettivi strategici non sono questi. Di fronte a una potenza americana che dedica enormi risorse alle guerre all’estero senza necessariamente raggiungere i propri fini, la Cina può segnare punti contestando l’ordine internazionale. È tanto, se non di più, per questa sua strategia a lungo termine che per la sua forza bruta, che sarebbe sbagliato sottovalutarla.

https://www.revueconflits.com/vaincre-sans-combattre-la-culture-strategique-chinoise/

Il passato impensabile: per una narrativa europea critica, di Hans kundnani

Un articolo interessante nell’individuare alcuni  de”i punti ciechi” dell’universalismo europeista; molto meno nel tentativo generico di riproporlo. Si tratta comunque di un dilemma attualmente irrisolvibile per vari motivi: per il peccato originale costitutivo della Unione Europea, nato come conseguenza di una sconfitta e di una occupazione militari; per l’inesistenza di una nazione europea e di una formazione egemonica interna ad essa capace di plasmare una sufficiente identità ed una missione comune. Un universalismo quindi figlio di una abdicazione ad un ruolo autonomo piuttosto che di una vocazione imperialista. Da sottolineare anche che i residui impulsi veterocolonialisti presenti in Europa posero freni alla costruzione europea, in particolare alla CED (Comunità di Difesa Europea) sponsorizzata dagli americani, piuttosto che incentivarne la costruzione. Uno dei motivi che indussero alla tiepidezza di Francia e Gran Bretagna verso la CED fu appunto che avrebbero dovuto indebolire pesantemente il proprio complesso militare nelle colonie, una volta constatata la trazione statunitense della costruzione europea e la priorità strategica riservata al nemico sovietico. Giuseppe Germinario

Come Luuk van Middelaar ha recentemente sostenuto in una discussione con Pierre Manent per Le Grand Continent , l’Europa ha bisogno di una “storia”. Tale narrazione, che lega il presente al passato, secondo van Middelaar, è sia “il carburante di qualsiasi forma di organizzazione politica” sia anche una “bussola” di cui l’Europa ha bisogno per “guidare la sua azione sulla scena internazionale”. “Senza una storia”, ha scritto, “non sai dove stai andando, da dove vieni, non hai criteri per giudicare un’azione o per decidere cosa fare. In altre parole, senza una narrazione, l’Europa – con cui van Middelaar intende presumibilmente l’Unione europea – mancherebbe sia di una direzione che di una fonte di energia.

Mi sembra che questo appello piuttosto disperato a una narrazione sia esso stesso sintomatico di un problema in Europa. Dopotutto, una volta l’Unione aveva una narrativa abbastanza avvincente basata sull’idea di un “modello europeo”, incentrato sull’economia sociale di mercato e sullo stato sociale. È stato un discorso basato su una reale offerta ai cittadini europei di una qualità della vita e di un senso di solidarietà. È importante notare, tuttavia, che questa era un’idea dell’Europa e di ciò che rappresenta, facendo attenzione a non definirla in relazione a un Altro. Piuttosto, si basava su un rapporto speciale tra Stato, mercato e cittadini che aveva prodotto crescita economica e coesione sociale, in altre parole un modello civico.

Tuttavia, nell’ultimo decennio questo modello è stato svuotato della sua sostanza ed è diventato meno credibile. Mentre l’Unione, guidata dalla Germania, ha lottato con una serie di crisi, a partire dalla crisi dell’euro nel 2010, ha cercato di diventare sempre più “competitiva”, il che, in pratica, ha portato al ricorso all’austerità e alle riforme strutturali. In questo contesto, c’è stata anche una reazione populista contro il modo di governo tecnocratico rappresentato dall’Unione. È a causa della perdita di credibilità di questa narrazione precedente, incentrata su un modello socio-economico e sulle modalità di governo dell’Unione, che i “pro-europei” hanno finito per cercare di definire l’Europa in termini culturali – realizzando ciò che ho proposto chiamare la svolta di civiltà del progetto europeo .

Questo cambiamento si può osservare anche nell’evoluzione dell’idea, portata avanti in particolare da Emmanuel Macron, di una “Europa che protegge”. Quando usa per la prima volta il termine, dopo essere stato eletto presidente nel 2017, lo intende in senso lato nel senso di protezione contro le forze di mercato. Macron vuole riformare la zona euro e creare un’Europa più redistributiva; in un certo senso è un’idea di centrosinistra. È solo dopo che il cancelliere Angela Merkel ha respinto – o meglio semplicemente ignorato – le sue proposte di riforma della zona euro, che reinventa questa idea di “Europa che protegge” dandole un sapore culturale. Sotto la pressione dell’estrema destra in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno, ciò da cui oggi si cerca di proteggere i cittadini europei sembra essere meno il mercato che l’islamismo.

Questa richiesta piuttosto disperata di una narrazione è essa stessa sintomatica di un problema in Europa.

HANS KUNDNANI

La maggior parte degli “europeisti” è cieca a questo pensiero di civiltà che si insinua nel progetto europeo – e talvolta volontariamente, perché se ne ammettessero l’esistenza, dovrebbero criticare gli altri “europeisti”. Ciò che distingue van Middelaar dagli altri è che ne è un attivo sostenitore. Fa esplicitamente “appello a una storia più lunga, a una civiltà più ampia per aprire l’immagine di sé dell’Europa”. In altre parole, vuole che l’Europa si consideri un quasi-stato di civiltà; van Middelaar non vede alcun problema a questo riguardo nel ragionamento in termini di Huntington. Al contrario, tenderebbe a pensare che questo sia esattamente ciò di cui l’Europa ha bisogno.

L’Unione come distillato della storia europea

Van Middelaar afferma che l’Europa deve riscoprire la sua storia pre-1945, dalla quale si è “tagliata fuori”. Invidia il modo in cui i leader americani, cinesi e russi sono capaci, secondo lui, di porsi come “portavoce di una storia lunghissima” e di “incarnare contemporaneamente la modernità del loro Paese facendo riferimento a un passato. “. Ritiene che i leader europei siano incapaci di farlo perché immaginano che la storia europea su cui possono fare affidamento – cioè la storia dell’Unione stessa – “è iniziata solo con la Dichiarazione Schuman del 1950.

L’argomento del rifiuto da parte dell’Europa della propria storia, che anche l’onorevole van Middelaar ha avanzato in un altro articolo all’inizio di quest’anno, non è privo di fondamento. L’anno 1945 è spesso visto nell’immaginario collettivo come una sorta di “anno zero” europeo, il momento in cui l’Europa ha posto fine alla sua disastrosa storia di conflitti e ha ricominciato da capo. A partire dalla creazione della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA), la storia ci dice che gli europei hanno trasformato le relazioni internazionali in Europa per rendere impossibile la guerra tra stati-nazione e in particolare tra Francia e Germania – è l’idea dell’Unione Europea come progetto di pace. Questo spiega perché molti “europeisti” pensano che l’Altro dell’Europa di oggi è il proprio passato – come afferma Mark Leonard.

Tuttavia, se è vero che i “filoeuropei” vedono l’inizio dell’integrazione europea come una rottura con la storia dell’Europa prima del 1945, anche su questa storia si sono costantemente affidati, tanto per legittimare che con una funzione di pathos. In particolare, invocano costantemente l’Illuminismo, che sarebbe alla base dei “valori europei” difesi dall’Unione, e figure come Erasmus, il cui nome designa il programma di scambio studentesco finanziato dall’Unione che ha vocazione a creare “élite pro-europee”. Ma invocano anche figure più problematiche della storia europea – basti pensare al Premio Carlo Magno, ad esempio, assegnato in nome dell’incarnazione di una visione medievale dell’identità europea, sinonimo di cristianesimo e definita in opposizione all’Islam.

Quindi, affermare, come fa van Middelaar, che “l’Europa si è tagliata fuori dalla sua storia” è troppo semplicistico. Al contrario, i “pro-europei” vogliono avere entrambe le cose quando si tratta della storia del continente – e il modo in cui “dimenticano” la storia europea è molto più specifico di quanto afferma van Middelaar. I “pro-europei” vogliono davvero tagliarsi fuori da quelle che considerano le parti più oscure della storia europea, in particolare il nazionalismo – e vedono l’integrazione europea come un’espressione di questo rifiuto. Ma vedono anche l’Unione come l’incarnazione di ciò che è buono nella storia europea, in particolare le idee dell’Illuminismo. In altre parole, immaginano l’Unione come la soluzione di una storia europea distillata – o, per dirla in altro modo, come il prodotto delle proprie lezioni.

L’Europa come sistema chiuso

L’aspirazione a distillare il meglio della storia europea non è di per sé negativa. Il problema, tuttavia, è che quando “pro-europei” come van Middelaar cercano di farlo , si basano generalmente su una visione idealizzata e semplicistica della storia europea. In particolare, tendono a immaginare l’Europa come un sistema chiuso, ovvero come una regione con una propria storia autonoma, separata dalle altre regioni. Riduce la storia europea a una narrazione lineare che va dall’antica Grecia e Roma all’Unione europea, al cristianesimo e all’Illuminismo. Ignora le numerose influenze esterne esercitate sull’Europa, in particolare quelle dell’Africa e del Medio Oriente.

Peggio ancora, così come questo approccio esclude la presenza della non-Europa all’interno dell’Europa, esclude anche quella dell’Europa nella non-Europa, cioè le interazioni degli europei con il resto del mondo al di là dei confini geografici dell’Europa. Tuttavia, l’incontro degli europei con le popolazioni dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe dal XVI secolo in poi ha chiaramente modellato cosa significasse “essere europei”. Fu durante questo periodo che apparve una nuova versione moderna dell’identità europea, più razziale che religiosa, in altre parole, meno sinonimo di cristianesimo che di bianchezza. La stretta relazione tra questi due termini – “europeo” e “bianco” – è chiaramente visibile nel contesto coloniale.

Così come questo approccio esclude la presenza della non-Europa all’interno dell’Europa, esclude anche quella dell’Europa nella non-Europa, cioè le interazioni degli europei con il resto del mondo al di là dei confini geografici dell’Europa.

HANS KUNDNANI

Una delle conseguenze di questa tendenza dei “pro-europei” a vedere l’Europa come un sistema chiuso è il modo in cui, fin dall’inizio, il progetto europeo si è basato esclusivamente sull’apprendimento delle lezioni “interne” del mondo. – ovvero ciò che gli europei si sono fatti gli uni agli altri, e in particolare i secoli di conflitti interni al continente culminati nella seconda guerra mondiale. La narrativa ufficiale dell’Unione non ha quasi mai tentato di trarre le lezioni “esterne” della storia europea, cioè di ciò che gli europei hanno fatto collettivamente al resto del mondo. Dalla metà degli anni Sessanta, L’Olocausto è stato anche sempre più integrato nella narrativa ufficiale dell’Unione – Tony Judt ha persino sostenuto che la memoria dell’Olocausto è diventata il “biglietto d’ingresso europeo contemporaneo”. Ma il progetto europeo non è mai stato informato allo stesso modo dalla memoria del colonialismo.

Questa tendenza a vedere l’Europa come un sistema chiuso porta anche a un resoconto distorto delle idee universaliste che i “pro-europei” credono di difendere e di come sono state propagate al resto del mondo. La rivoluzione haitiana è un buon esempio. Per lungo tempo è stato cancellato dalla storia delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo. Eppure, come mostra la storiografia recente, era molto più vicino alla realizzazione delle aspirazioni universaliste dell’Illuminismo rispetto alle rivoluzioni americana o francese. Pertanto, la storia della diffusione dei moderni valori europei basati sull’Illuminismo nel resto del mondo deve includere il modo in cui i non europei hanno combattuto contro gli europei in nome di questi valori.

Una storia seria dell’Europa deve essere onesta anche sull’Unione stessa, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra la fase iniziale dell’integrazione europea e la decolonizzazione. Non solo questi due fenomeni coincidevano – quando fu firmato il Trattato di Roma nel 1957, la Francia era nel bel mezzo della sua brutale guerra coloniale in Algeria – ma anche, come hanno dimostrato Peo Hansen e Stefan Jonsson, l’integrazione europea è stata concepita in parte come un mezzo per il Belgio e la Francia per consolidare i loro possedimenti coloniali nell’Africa occidentale. In altre parole, lungi dall’essere un progetto postcoloniale, figuriamoci anticoloniale, l’integrazione europea fa parte della storia del colonialismo europeo. È quello che si potrebbe chiamare il “peccato originale” dell’Unione europea.

La storia della diffusione dei moderni valori europei basati sull’Illuminismo nel resto del mondo deve includere il modo in cui i non europei hanno combattuto contro gli europei in nome di questi valori.

HANS KUNDNANI

Un passato “utilizzabile”

Questo ci porta alla questione dell’obiettivo del “racconto” che van Middelaar vuole sviluppare. Si tratta di adottare un atteggiamento più trasparente e onesto sulla storia reale dell’Europa e della stessa Unione? O si tratta piuttosto di creare miti capaci di solidificare un “noi” in nome del quale i leader europei potrebbero parlare, come sembra suggerire van Middelaar? Il tentativo di strumentalizzare la storia e creare un passato “utilizzabile” è ciò che ha sostenuto la costruzione della nazione europea del XIX secolo. Ciò che van Middelaar sembra voler fare è replicare questo progetto a livello dell’Unione – in altre parole, costruire una regione piuttosto che una nazione – nel 21° secolo.

L’importanza di queste domande sull’identità è in parte spiegata dal fatto che le società europee ora hanno molte più persone con origini in altre parti del mondo rispetto all’Europa. Si potrebbe quindi pensare che l’obiettivo politico di una narrativa europea dovrebbe essere quello di migliorare la coesione sociale nelle società ora multiculturali. La visione più complessa della storia europea che ho proposto – quella in cui l’Europa non è vista come un sistema chiuso e dove sono riconosciute le sue interazioni, buone e cattive, con il resto del mondo – aiuterebbe a compiere questo sforzo.

Ma ciò che interessa davvero all’onorevole van Middelaar è qualcos’altro. La ragione per cui pensa che l’Europa abbia così tanto bisogno di una narrazione è in realtà più esterna che interna. Vuole che gli europei creino un’agenzia europea per agire – “agire e […] difendere gli interessi in quanto europei” – in un mondo in cui l’Europa è sempre più minacciata. In questo senso, le sue argomentazioni sono tipiche degli attuali dibattiti di politica estera europea che vertono su “autonomia strategica”, “sovranità europea” e Handlungsfähigkeit , ovvero “capacità di agire”, ovvero potenza europea. Ma se questo è l’obiettivo di creare una narrazione, la tendenza sarà inevitabilmente quella di semplificare e distorcere la storia europea, in breve, di creare miti..

Particolarismo e universalismo

In fondo, la questione più interessante – ma anche più difficile – sollevata dalla discussione tra van Middelaar e Manent riguarda il rapporto tra particolarismo e universalismo nell’idea di Europa. Gli europei hanno sempre considerato universali le proprie idee e i propri valori – che tuttavia sono emersi in circostanze specifiche della storia del continente. Era anche la base dell’idea di una “missione civilizzatrice” europea. Questa missione civilizzatrice è stata un elemento straordinariamente continuo nella storia dell’idea di Europa, anche se il suo contenuto è cambiato nel tempo da una missione religiosa a una razionalista, razzializzata, poi, nel dopoguerra e nel postcoloniale periodo, a una missione tecnocratica.

Molti “pro-europei” semplicemente non riconoscono la tensione tra particolarismo e universalismo e quindi sostengono che non c’è alcun problema nel considerare i “valori europei” come valori universali. Van Middelaar riconosce che questo è troppo facile – ad esempio, riconosce come, durante il periodo medievale, “europeo” e “cristiano” fossero “quasi intercambiabili”. C’è quindi qui una sorta di riconoscimento di ciò che Paul Gilroy chiamava “la particolarità che si nasconde sotto le pretese universalistiche del progetto illuminista”. La questione, però, è come risolvere questo complesso rapporto tra particolarismo e universalismo nell’idea di Europa – come “posizionarsi di fronte all’universale”, per dirla con le parole di van Middelaar. .

Se i valori europei di oggi sono radicati nelle idee illuministe, come affermano i “pro-europei”, la sfida è capire l’eredità di tali punti ciechi nel loro stesso pensiero.

HANS KUNDNANI

Un modo per farlo è abbandonare del tutto ogni aspirazione all’universalismo e adottare una sorta di relativismo. Vi alludono alcuni analisti di politica estera europea, che si considerano realisti . Esortano gli europei a perseguire semplicemente i loro interessi particolari – comunque li definiscano – e ad abbandonare ogni aspirazione a diventare un ” potere normativo ”  . »Che revisiona la politica internazionale a immagine dell’Unione. In un mondo anarchico in cui l’Europa è sempre più minacciata, sostengono che gli europei dovrebbero rinunciare all’idea di fare ciò che è bene per il mondo intero e semplicemente fare ciò che è bene per loro. In altre parole, propugnano una sorta di europeismo spudorato.

Né Manent né van Middelaar arrivano a tanto. Entrambi sembrano volere che gli europei abbraccino, o rivendichino, una sorta di particolarismo, ma da una prospettiva di civiltà piuttosto che realistica. Ad esempio, van Middelaar vuole che gli europei possano parlare della “peculiarità del loro modo di vivere” come pensa che facciano gli americani e dice che non dovrebbero “cancellare” le origini cristiane di questo modo di vivere. Ma allo stesso tempo, non sembra nemmeno voler rinunciare all’idea dell’universalismo europeo: ripete che i valori elencati nell’articolo 2 dei trattati europei sono valori universali. Non è quindi chiaro come concili particolarismo e universalismo.

Invece di ripiegare su narrazioni di civiltà e creare miti sull’Europa, un modo migliore per risolvere il dilemma sembra piuttosto adottare un approccio più critico alla storia europea – e alla storia dell’Unione stessa – come un passo verso un universalismo veramente universale. Un tale approccio segue generazioni di pensatori, molti dei quali provengono da tradizioni radicali antimperialiste e nere, che hanno cercato non di rifiutare le aspirazioni universaliste ma di realizzarle. In particolare, implica confrontarsi con la storia dell’Europa in tutta la sua complessità, comprese le sue interazioni con il resto del mondo e i modi in cui l’Europa non è stata all’altezza della sua retorica universalista.

Implica anche un approccio più critico alla storia dell’Illuminismo rispetto a quello di molti “pro-europei” che invocano l’Illuminismo ma sembrano ignorare le complessità della loro storia. Come ha dimostrato Susan Buck-Morss1, sebbene il contrasto tra libertà e schiavitù fosse al centro del pensiero illuminista, “i filosofi illuministi europei insorsero contro la schiavitù , tranne dove essa esisteva letteralmente “. Rousseau, ad esempio, non aveva nulla da dire sul codice nero che, ad Haiti e altrove, teneva gli esseri umani in catene reali piuttosto che metaforiche. Se i valori europei di oggi sono radicati nelle idee illuministe, come affermano i “pro-europei”, la sfida è capire l’eredità di tali punti ciechi nel loro stesso pensiero.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/10/26/le-passe-impense-pour-un-recit-critique-europeen/?mc_cid=7fd03f228e&mc_eid=4c8205a2e9

L’illusione del nazionalismo arabo, di Hilal Khashan

L’identità araba non è mai stata ben definita.

Di: Hilal Khashan

Le rivolte arabe hanno brevemente resuscitato l’idea del nazionalismo arabo. Durante i Giochi Panarabi del 2011 in Qatar, gli spettatori hanno cantato l’inno nazionale arabo non ufficiale, i cui testi promuovono l’idea che gli arabi non possono essere separati da confini artificiali o religione perché la lingua araba li unisce tutti. Ma l’euforia del momento si è presto dissolta, quando la realtà della faziosità ha preso il sopravvento. Nonostante i vari tentativi di unità, le nazioni arabe hanno ripetutamente fallito nell’agire collettivamente o concordare interessi comuni.

Falsi inizi

Il primo movimento nazionalista arabo fu lanciato a Beirut nel 1857. La Società Scientifica Siriana inaugurò una rinascita culturale e intellettuale araba di breve durata. Non riuscendo ad attirare un vasto pubblico, svanì con l’inizio della prima guerra mondiale. Era essenzialmente un’organizzazione elitaria di cristiani principalmente siriani e libanesi e alcuni americani e britannici che vivevano nella zona. (Il nazionalismo arabo laico piaceva ai cristiani perché significava che potevano essere integrati come cittadini a pieno titolo.) Decenni dopo, la Young Arab Society fu fondata a Parigi in risposta al colpo di stato dei Giovani Turchi del 1908 contro il sultano ottomano Abdul Hamid. Il gruppo ha chiesto una transizione democratica, autonomia amministrativa per gli arabi e la designazione dell’arabo come lingua ufficiale alla pari del turco.

Le politiche repressive del governatore militare ottomano della Siria portarono i Giovani Arabi a chiedere l’indipendenza per le province arabe dell’Asia occidentale, aprendo la strada alla Grande Rivolta Araba sostenuta dai britannici nel 1916. L’ordine mondiale emerso dopo la prima guerra mondiale diede fino agli attuali stati dell’Oriente arabo, mentre i paesi indipendenti del Nord Africa sono emersi all’indomani della seconda guerra mondiale. I paesi imperiali occidentali hanno creato gli stati arabi nel loro formato attuale per garantire la loro continua fragilità e dipendenza dall’Occidente per la loro sicurezza.

L’identità araba non è un indicatore etnico. Emerse durante il califfato abbaside come linea di demarcazione politica tra i califfi arabi ei loro sudditi persiani nel IX secolo. Per essere considerato un arabo bastava pretendere di esserlo e parlare la lingua araba. Il nazionalismo arabo era per lo più limitato all’orgoglio per i risultati della comunità, in particolare la diffusione dell’Islam e della lingua araba al di fuori della penisola arabica. L’ossessione dei regimi arabi di rimanere al potere ha impedito loro di cooperare, assicurando che il nazionalismo di stato superasse il panarabismo.

 


(clicca per ingrandire)

Il mito del grande mondo arabo

L’idea del mondo arabo – una regione che si estende dall’Oceano Atlantico a ovest al Golfo Persico a est e l’Oceano Indiano a sud – è stata introdotta all’inizio del XX secolo da Sati al-Husary, ministro dell’Istruzione iracheno durante il regno di re Faisal I. A quel tempo, la sua concettualizzazione del nazionalismo arabo rimase per lo più un attaccamento sentimentale alla religione e alla lingua. In effetti, gli arabi erano orgogliosi della loro identità e cultura, ma non estendevano il loro senso di unità al regno economico o politico.

Nel 1920, Faisal fondò il Regno Arabo di Siria. Pochi mesi dopo, una forza francese – che comprendeva anche la cavalleria marocchina e due battaglioni algerini – sconfisse la forza siriana scarsamente equipaggiata e con personale insufficiente nella battaglia di Maysaloun vicino a Damasco, rivendicando la Siria come mandato francese. Ciò ha inferto un duro colpo al nazionalismo arabo, impedendo a Damasco di diventare un centro panarabo e condannando le sue prospettive di funzionare come uno stato centrale in grado di influenzare gli arabi ovunque.

A differenza del nazionalismo in Europa, il nazionalismo arabo non si è sviluppato a causa di una svolta tecnologica nella produzione che ha inaugurato un’era industriale. Non ha dato origine a una comunità politica inclusiva che ha sostituito le identità settarie, tribali e di clan. I leader arabi, sperando di ottenere la legittimità popolare, hanno promosso manifestazioni pubbliche dell’ortodossia sunnita invece di trattare la fede come una questione privata, cosa che ha alienato le sette islamiche eterodosse e i cristiani. Ad esempio, il vicepresidente egiziano Hussein el-Shafei, che ha servito sotto il presidente Gamal Abdel Nasser, ha cercato di attirare i cristiani copti egiziani all’Islam. Negli anni ’70, il libico Moammar Gheddafi esortò i cristiani libanesi maroniti ad abbracciare l’Islam per porre fine alla guerra civile.

Il pensiero nazionalista arabo ha contribuito a far rivivere il dogma religioso. In Sudan, ad esempio, il presidente Jaafar Numeiri si è trasformato da nazionalista arabo laico a fanatico religioso, introducendo la sharia in tutto il Paese, anche nella regione meridionale non arabizzata e non islamica.

Mancanza di azione collettiva

Questa faziosità e interesse personale ha bloccato ogni tentativo di genuina coesione. Il Consiglio di cooperazione del Golfo è stato creato nel 1981 da sei nazioni arabe – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Qatar, Kuwait e Oman – apparentemente per integrare le loro economie e capacità di difesa. Ma il gruppo non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi dichiarati e le relazioni tra gli stati membri sono state segnate dal conflitto. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono ancora coinvolti in problemi di confine in corso. E nel 2017, tre degli Stati membri (più l’Egitto) hanno imposto un blocco di tre anni al Qatar.

L’idea di fondare l’Unione del Maghreb Arabo – un’alleanza tra Marocco, Tunisia, Algeria, Mauritania e Libia – è nata nel 1956 dopo che Tunisia e Marocco hanno ottenuto l’indipendenza dalla Francia. Ma anche questo non è riuscito a ispirare un senso di unità. L’invasione del territorio algerino da parte del Marocco nel 1963 diede inizio alla Guerra della Sabbia, che inasprì permanentemente le relazioni tra i due paesi. La loro disputa sul Sahara occidentale ha ulteriormente aggravato le tensioni e il mese scorso l’Algeria ha interrotto le relazioni diplomatiche con il Marocco. I cinque paesi hanno tenuto il loro primo vertice nel 1988, ma i capi di Stato non si sono incontrati da quando l’Algeria ha chiuso il confine con il Marocco nel 1994. L’AMU ha raggiunto 30 accordi multilaterali, ma solo cinque di essi sono stati ratificati.

L’accordo Sykes-Picot del 1916, che divise parti della Mezzaluna Fertile in mandati francesi e britannici, smorzò la spinta nazionalista araba. A differenza dell’Iran e della Turchia, dove uno stato centrale forte promuoveva coesione e solidarietà, il nazionalismo arabo non aveva un paese impegnato a portare avanti la sua causa e a creare un’entità panaraba unificata. Non è riuscito a decollare principalmente perché i principali stati arabi erano distratti dai propri problemi con la corruzione, il dispotismo, la stagnazione economica e l’avventurismo militare.

I movimenti nazionalisti arabi si divisero, dando origine a partiti politici di sinistra e marxisti. Il Partito comunista libanese, ad esempio, si è dissociato dall’internazionalismo sovietico per partecipare alla guerriglia contro le truppe israeliane nel sud del Libano. George Habash, che fondò il Movimento Nazionalista Arabo nel 1951, lo ribattezzò Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Questo movimento marxista-leninista ha orchestrato trame terroristiche di alto profilo in Israele e una serie di dirottamenti aerei negli anni ’60 e ’70.

“Il risveglio della nazione araba”, un libro scritto nel 1905 dal cristiano maronita Naguib Azoury, prevedeva uno scontro tra nazionalismo arabo e sionismo, che non sarebbe terminato finché uno dei due movimenti non avesse sconfitto l’altro. La profezia di Azoury si è avverata nel 1967, quando la Guerra dei Sei Giorni ha deluso ogni speranza per una nazione panaraba mentre le preoccupazioni si rivolgevano al recupero del territorio catturato da Israele. La sconfitta ha permesso alle minoranze etniche e religiose della regione araba, che per la maggior parte non avevano articolato richieste specifiche, di contestare l’autorità statale e di premere per l’autonomia. Sono diventati militarizzati e hanno presentato richieste politiche di vasta portata in Algeria, Sudan, Iraq e oltre.

L’identità araba esiste ancora in senso stretto come ricordo della gloria passata e di una cultura comune. È una forza simbolica che non ha meccanismi di azione collettiva in tutta la regione. Avendo vissuto sotto una successione di imperi religiosi, gli arabi non subirono una trasformazione necessaria per facilitare il trionfo del nazionalismo. Nella regione araba la religione resta la forza sociale decisiva e il motore dell’azione collettiva.

https://geopoliticalfutures.com/the-illusion-of-arab-nationalism/?tpa=YzY4N2E2YzRlMGEyYjYxMTc0MzQ4MjE2MzQ4MzAzOTBhMDlhODc&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https://geopoliticalfutures.com/the-illusion-of-arab-nationalism/?tpa=YzY4N2E2YzRlMGEyYjYxMTc0MzQ4MjE2MzQ4MzAzOTBhMDlhODc&utm_content&utm_campaign=PAID%20-%20Everything%20as%20it%27s%20published

 

1 241 242 243 244 245 298