Ieri pomeriggio ho visto “Oppenheimer”, un brutto film. Anticipo che mi sono perso gli ultimi venti minuti perché mi sono addormentato, come al solito mi ero svegliato molto presto e non avevo potuto fare il solito pisolino pomeridiano.
Prima di vedere il film, di Robert Oppenheimer non sapevo niente tranne quel che sanno tutti, che era stato il direttore del “Manhattan Project”, che dopo la bomba aveva citato le Baghavad-Gita, che aveva avuto qualche problema con il maccartismo, che portava un caratteristico cappello. Dopo il film, non ho imparato niente di più tranne un aspetto interessante e preoccupante della sua vita di cui parlerò dopo.
“Oppenheimer” è un brutto film perché un film incentrato sulla vita di un uomo che non ce ne mostra l’interiorità, con le sue motivazioni, il suo percorso e il suo cambiamento è un brutto film, a meno che l’uomo non sia Conan il Barbaro.
Dal film si evince quanto segue (che non so in che misura corrisponda alla realtà biografica):
Oppenheimer è un fisico brillante. Quanto brillante non si sa. L’impressione che si ricava è che fosse un brillante fisico di second’ordine (essere di second’ordine quando di prim’ordine sono Heisenberg, Bohr, Einstein è ovviamente un risultato notevolissimo). Pare invece che fosse un organizzatore e un venditore di primissimo ordine; anzitutto, venditore di se stesso, della sua immagine e della sua superiorità, tant’è vero che riesce a radunare menti brillantissime e a coordinarle nel progetto che dirige.
Non ha opinioni solide in merito alla politica o alla società. È genericamente “di sinistra” perché in quegli anni, praticamente tutti gli intellettuali che lo circondano lo sono. Il momento della verità coincide con la guerra di Spagna, che con la creazione della Legione internazionale a sostegno del governo repubblicano fornisce l’occasione per dimostrare quanto si fa sul serio a tutti gli intellettuali.
Ovviamente si può fare sul serio per davvero, ovvero prendere parte alla guerra anzitutto per sostenere le proprie idee e la causa repubblicana e antifascista, come fanno Orwell, che poi scrive il bel libro “Homage to Catalunia”, e Simone Weil, l’improbabile guerriera che appena giunta in Spagna si rovescia sui piedi un pentolone d’acqua bollente e deve tornare a casa, e poi, letto il meraviglioso “Les Grands Cimetières sous la lune”, scrive una lettera indimenticabile a Bernanos, un uomo di destra che militava dall’altra parte; oppure si può fare sul serio per finta, cioè per far vedere a tutti quanto siamo più fighi e valorosi di voi, come Hemingway, che fa un giro in Spagna e poi scrive uno dei libri più farlocchi della letteratura universale, “For Whom the Bell Tolls”, un sogno bagnato adolescenziale che pensando all’età in cui lo scrisse risulta seriamente imbarazzante.
Oppenheimer non fa nessuna delle due cose perché, a quanto risulta dal film, è abbastanza astuto e lungimirante da non compromettersi politicamente e così bruciarsi la possibilità di accedere all’ufficialità che desidera ardentemente. Si limita insomma a sostenere le cause di sinistra a parole.
Allo stesso modo non ha opinioni solide in merito alla bomba atomica. È persuaso che bisogna arrivarci prima dei tedeschi, e ovviamente ci sta. Dopo Hiroshima e Nagasaki ha qualche perplessità, che si manifesta nei seguenti modi: citazione dalla Baghavad-Gita (“Io sono morte, il distruttore di mondi”) e contrarietà alla ricerca per la bomba all’idrogeno, come se un aumento quantitativo della potenza distruttiva fosse il punto chiave. Non firma la petizione contro la bomba atomica promossa da Leo Szilard. Butta lì qualche auspicio inconcludente su una trattativa mondiale per la rinuncia generale agli armamenti atomici, non cogliendo il punto della questione: l’atomica non si può disinventare, le ipotesi possibili sono solo a) gli USA finché ne hanno il monopolio nuclearizzano l’URSS e creano un governo mondiale, come suggerito da Bertrand Russell al Segretario alla Difesa statunitense b) si entra nella meccanica avventurosa della deterrenza.
Ci sarebbe poi il tema della mutazione ontologica inaugurata dalla bomba atomica, ossia il fatto nuovo che l’uomo, uscito dalla minorità con l’Illuminismo come dice Kant, è diventato capace di distruggere sul serio se stesso, ma a questo tema Oppenheimer pare non dedicare pensiero alcuno.
Nel dopoguerra, con l’inizio della Guerra Fredda, il sostegno a parole alle cause di sinistra lo frega perché essendo molto vanitoso ha pestato i piedi a personalità importanti che si vendicano.
L’unica cosa nuova che ho imparato su Oppenheimer è che a un certo punto sbologna il figlio piccolo a una coppia di amici, perché sia lui sia la moglie non hanno voglia di occuparsene. Gli amici accettano, forse (è una mia inferenza, non c’è nel film) perché sono entrambi comunisti e sperano che Oppenheimer ricambi il grosso favore con informazioni sulla ricerca atomica da passare all’URSS.
Al momento della consegna del piccolo sventurato, Oppenheimer dice più o meno: “Siamo due persone orrende, insensibili ed egocentriche” e l’amico comunista ribatte “Le persone orrende, insensibili ed egocentriche non sanno di esserlo”, una affermazione totalmente falsa, come ognun sa: sono i PAZZI che credono di essere Napoleone che non sanno di essere pazzi, gli egocentrici sanno benissimo di esserlo e salvo qualche eventuale rimorso, di solito a parole, gli va bene così, sennò non sarebbero egocentrici.
In effetti Oppenheimer e sua moglie, se hanno fatto quel che il film mostra, SONO due persone orrende, insensibili ed egocentriche, anche perché sono entrambi ricchi di famiglia e se proprio non ce la facevano a occuparsi del bambino potevano tranquillamente pagarsi una o più governanti. Il film non spiega come mai non gli sia venuta in mente questa soluzione più semplice e tradizionale del problema “bambino piccolo che dà noia”. Si evince, o almeno io evinco, che non gli è venuta in mente perché sono effettivamente due persone orrende, insensibili ed egocentriche che vogliono sbarazzarsi totalmente della povera creatura che hanno messo al mondo, e per farla fuori non hanno abbastanza pelo sullo stomaco.
Quanto al film come tale, il povero Cillian Murphy che interpreta Oppenheimer brancola nel buio sgranando gli occhi dal primo all’ultimo minuto (salvo errore per gli ultimi venti in cui ho dormito), perché nessun attore può interpretare bene un personaggio così, sfuggente come un’anguilla, che resta sempre identico a se stesso e inspiegato nelle sue motivazioni. Gli altri attori forniscono il minimo sindacale perché i loro personaggi – tutti di contorno anche quando sarebbero interessanti, come l’amante di O. – sono anch’essi costruiti sulla sabbia, figure di cartone.
Bella fotografia di paesaggi, di esplosioni, di manifestazioni dell’energia con tante righine ondulatorie luminose che ci rinviano alla fisica quantistica (di cui si capisce, ovviamente, zero).
Costo: sei euro grazie alla riduzione per vecchi over 65. That’s all folks.
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Il post è rivolto alle anime belle, quelle che la mattina si svegliano ignare del mondo, leggono alcune notizie terribili su ciò che accade nel mondo (altre no perché non vengono date) ma non distinguono notizie da giudizi, assumono entrambi come il cappuccino con la brioche.
Caricati di verità sul mondo, sono pronti a far lezione di etica e morale per la quale quelli della loro parte sono in bene e gli altri il male, hanno avuto la loro esaltazione urlante ed isterica le prime settimane del conflitto russo-ucraino. Sono loro che permettono le atrocità del mondo poiché illuminando gli angoli bui della politica internazionale e capendo almeno il minimo dovuto di ciò che succede nel mondo, il mondo sarebbe diverso, almeno un po’.
A questi ciechi chiacchieroni sentenziosi farebbe bene spendere pochi minuti per capire quanto il male del mondo dipende anche dalla loro ignoranza supponente. Ma figurati se ai pasdaran del Bene, interessa scoprire che invece militano a fianco delle file del Male.
Parliamo del breve conflitto o meglio dell’invasione manu militari della ragione Nagorno-Karabakh abitata e rivendicata dall’Armenia pur stando in territorio dell’Azerbaijan, da parte appunto degli azeri. Per ora si lamentano “solo” duecento morti ma si prospetta una pulizia etnica profonda visto che la regione è abitata per tre quarti da armeni che ne erano gli unici abitanti un secolo fa.
Impossibile qui risalire alla storia del conflitto che è complessissima e, come spesso accade, alla fine basata su ragioni di contesa valide da tutti i punti di vista e quindi priva di una verità unica, passibile solo di mediazione, aggiustamento, composizione. Ci provarono quelli dell’OSCE di Minsk (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa, istituzione multilaterale in condominio coi russi, ora bloccata dalle vicende ucraine), già noti per i due protocolli di pacificazione sulle questioni del Donbass tra ucraini e russi, benedetti dalla mediazione europea che un secondo dopo la firma si è disinteressata della loro applicazione. Motivo per il quale l’attuale conflitto ucraino si sarebbe potuto evitare, ma evidentemente non c’era alcun interesse ad evitarlo o meglio c’era interesse palese a lasciar andasse come è andata.
Sulla faccenda del N-G, si stabilì un accordo, poi venne rotto, poi si ridiscusse, poi si litigò di nuovo, poi -nei fatti- nessuno più, soprattutto gli azeri, hanno dato minima attenzione a questo ruolo mediatore esso stesso poco convinto di sé stesso.
I giornali di stamane, giubilano a riferire di manifestazioni armene contro il governo locale ma soprattutto contro i russi che dovevano esser loro protettori. Giorni fa giubilavano per esercitazioni armate congiunte tra armeni ed americani, un accenno di tradimento di allineamento poiché l’Armenia è parte del CSTO e della EEC russa (Lavrov, tra l’altro, è anche di origini armene).
Quindi, gli azeri invadono la regione contesa, tale ritenuta nel diritto internazionale, protetta da accordi, la colpa è dei russi che non l’hanno protetta. Se l’avessero protetta sarebbero stati accusati di imperialismo fuori dei loro confini e ne sarebbe nata una nuova guerra per il Bene. Duecento morti, accordi internazionali calpestati, pulizia etnica in arrivo? Nessun problema, il radicalismo etico spacciato a piene mani per farci sentire “giusti” oggi non si applica, si applica il “crudo realismo”, un altro fallimento russo. Vedi che tenerli sotto pressione in Ucraina li sta indebolendo?
L’Azerbaijan è la classica pedina ambigua piazzata nel fianco del nemico. Sciti amici di Erdogan, di antica origine iranico-caucasica (gli armeni sono invece cristiani indoeuropei caucasici) sono il nostro miglior amico della strategica regione, anche se ce ne vergogniamo un po’ e non diamo pubblicità al fatto. Decine i casi di violazione dei diritti umani, noti livelli stratosferici di corruzione politica e finanziaria, tortura attestata di prigionieri politici. L’Armenia è invece un paese civile e democratico (secondo i nostri standard di democrazia).
Viaggi, regali, soldi, sostanze e corpi disponibili pagati dal governo azero per la “diplomazia del caviale”, come venne denominata la loro disponibilità verso politici e funzionari occidentali. Ripagati anche dandogli l’improbabile Gran Premio di F1 che dal 2017 romba per le strade di Baku, oltreché chiudendo entrambi gli occhi su quelle effrazioni etico-morali che in altri casi valgono una guerra per “i diritti umani”. Ma ci sono umani ed umani, dipende da dove abitano per la nostra geo-etica.
L’Azerbaijan è il terminale di pompaggio e trasmissione dell’oleodotto promosso per darci una alternativa alle forniture russe, gestito da British Petroleum (ovviamente gli inglesi altrimenti irremovibili sui diritti umani e gli standard democratici, qui fanno eccezione, si sa il petrolio ed il gas rendono l’etica scivolosa ed aeriforme per contagio) e di cui noi italiani siamo i principali clienti. Noi diamo bei soldi a questa gente qua. Chissà se Mentana troverà tempo di farci una puntata del suo serial “qui c’è un aggredito ed un aggressore”, dubito. O forse Gramellini dirà che “no, non è la stessa cosa dell’Ucraina, qui la cosa è più “complessa”.
Ma sull’Azerbaijan ci sono anche progetti più ampi, come passaggio del gasdotto che partirebbe dal Turkmenistan, paese di area d’influenza russa corteggiato affinché defezioni e ci dia energia a basso costo. Così da un bel po’, con gli azeri ogni tanto ci facciamo colloqui per stabilire relazioni strette con l’UE anche se certo non possiamo farli entrare dalla porta principale perché impresentabili. Poiché la geografia li rende strategici, gli azeri ogni tanto fanno finta di avere buoni rapporti coi russi per farci sganciare qualcosa di più per trattenerli dalla nostra parte. Lo stesso fanno in tono minore con l’Iran. Ricattano, detto altrimenti. In Relazioni Internazionali, si dice “si bilanciano”.
L’Azerbaijan fu uno dei pochi paesi ad aprire lo spazio aereo per il transito dell’aviazione americana nella guerra contro Saddam, ma il loro ruolo più strategico e particolarmente scabroso è nella guerra in Afghanistan. Washington Post sosteneva in un articolo del 2016, che lì facevano tappa di trasferimento volumi di almeno un terzo di cibo, vestiti, attrezzature ed ovviamente armi, per le truppe americane in Afghanistan. Ma, come per l’Ucraina, un bel po’ di armi e non pochi soldi, hanno preso altre vie. Ultimamente, Zelensky, ha il suo bel da fare a licenziare capi amministrativi e militari che tramite oligarchi si rivendono le nostre armi inviate lì per la “resistenza”. Poi, tra un po’, ci accorgeremo a chi le hanno vendute, non certo alla camorra o la ndrangheta.
Mi interessai del caso a proposito della giornalista maltese saltata in aria una mattina mettendo in moto l’auto per andare al lavoro. Daphne Caruana aveva messo troppo il naso in un potente traffico d’armi che coinvolgeva banche maltesi (anglo-maltesi spesso), il locale potere politico ed armi che provenivano dall’Azerbaijan, armi NATO. Se ne era accorta anche una giovane giornalista bulgara che indagava in Siria, quando trovò in un covo ISIS appena conquistato e mostrato ai giornalisti, parecchie casse di armi con scritte in bulgaro, domandandosi cosa mai ci facessero lì e risalendo a quelli che ufficialmente dovevano esser flussi NATO per l’Afghanistan, via Azerbaijan. Sappiamo tutti che c’erano grossi flussi di armi NATO in favore dell’ISIS, ma guai a dirlo.
Sulla pagina wiki della Caruana trovate la lista di più di una cinquantina di “awards and honours” dati dagli europei per il suo indomito coraggio investigativo. Dopo che è morta e per altro senza definitiva verità su chi l’ha ammazzata e perché (del resto Malta è UE, UE è bene, quindi Malta è bene, siamo per la potenza delle deduzioni noi razionalisti). Siamo così, con una mano prendiamo, con l’altra diamo, la prima è invisibile, la seconda ci rassicura che siamo quelli dalla parte giusta della storia. Ci sarebbe da scrivere non un post ma un intero libro sulla faccenda dei traffici d’armi NATO via Azerbaijan, basta leggere il minimo e senza poi frequentare chissà quali fonti bizzarre, è tutto abbastanza a portata di onesto interesse, ad averci il tempo.
Ma le anime belle non hanno il tempo, hanno solo fretta di far vedere che sono informati sul mondo e sanno dare giudizi moralmente alti, cappuccino, brioche e che inizi un nuovo giorno nel dorato stile di vita occidentale, il modo giusto di stare al mondo, se non ti piace vai a vivere in Russia! Io vivo qui e ne sono contento per molti aspetti e molto meno per altri, solo, preferirei non doverlo fare accanto a loro.
Il punto di partenza dell’attuale guerra in Mali, Burkina Faso e Niger non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Il conflitto è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. Gli insorti hanno dichiarato di essere membri del MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad), fondato nell’ottobre 2011, due anni dopo la fine della quarta guerra tuareg. L’MNLA riuniva diversi movimenti tuareg e la sua spina dorsale era costituita da membri della tribù Ifora che avevano servito nell’esercito del colonnello Gheddafi.
Con l’MNLA, oltre al riemergere di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, si stava formulando una nuova forma di rivendicazione. Durante le quattro guerre precedenti, i Tuareg avevano lottato per ottenere maggiore giustizia dallo Stato maliano guidato dal Sud. Nel gennaio 2012, chiedevano qualcosa di molto diverso, ovvero la divisione del Mali e la creazione di uno Stato tuareg, l’Azawad.
Tuttavia, per le classiche e più che consuete ragioni di rivalità tra sottoclan tuareg, Iyad Ag Ghali, anch’egli Ifora e leader delle precedenti rivolte, era stato tenuto fuori dalla fondazione dell’MNLA. Non potendo accettare questa situazione, ha dato vita a un movimento rivale i cui obiettivi etno-nazionali erano gli stessi dell’MNLA. Ma, per poter esistere, lo ha dichiarato islamista. All’inizio di gennaio 2013, Iyad Ag Ghali ha superato l’MNLA lanciando un’offensiva a sud, verso Mopti e poi Bamako. L’8 gennaio 2013 è stata presa la città di Konna e l’11 gennaio 2013 diverse colonne dirette a sud sono state “trattate” dagli elicotteri francesi. Il regime del sud a Bamako è stato quindi salvato da una sconfitta prevista, cosa che i membri dell’attuale giunta hanno ben dimenticato…
Da quel momento in poi, l’analisi francese era sbagliata. I “decisori” francesi non hanno visto – o si sono rifiutati di vedere – che l’islamismo non era altro che una copertura per le rivendicazioni dei tuareg, che in un certo senso non era altro che la superinfezione di una ferita etno-razziale millenaria. Questo significava che per l’Eliseo Iyad Ag Ghali era il nemico, mentre in realtà era la soluzione del problema e bisognava parlare con lui… Negli anni successivi, la Francia si è rifiutata di comprendere questa realtà, con il presidente Macron che ha persino ordinato l’eliminazione di Iyad ag Ghali, cosa che quest’ultimo non ha dimenticato…
Ora, con la partenza delle forze francesi e dell’ONU dal Mali, il vero problema, il cuore della questione, è riapparso alla luce del sole: non si tratta di islamismo, ma di irredentismo tuareg. Vorrei chiarire questo punto a coloro che si compiacciono di distorcere le mie parole: sto parlando solo del nord del Mali, non della regione transfrontaliera, dove la situazione è diversa perché l’islamismo e il problema dei Fulani sono sovrapposti o intrecciati.
Come scrivo da anni, e come ben sanno gli abbonati a L’Afrique Réelle, Iyad Ag Ghali, il leader storico dei combattenti tuareg, ha costantemente cercato di riunire i clan tuareg attorno alla sua leadership. E ci è riuscito! I gruppi armati tuareg si sono riuniti nel CSP-PSD (Quadro Strategico Permanente – Per la Pace, la Sicurezza e lo Sviluppo), di cui fa parte anche la CMA (Coordination des mouvements de l’Azawad), per offrire un fronte comune contro l’esercito maliano che, con l’appoggio finora poco determinante del gruppo Wagner, sta cercando di riconquistare l’Azawad da cui era stato cacciato nel 2012.
Di conseguenza, il 12 settembre, le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra che ha incendiato l’intera regione. La città di Timbuctù è praticamente circondata. E poiché questa volta le forze francesi non verranno a salvarli, i meridionali potrebbero presto pentirsi di aver chiesto la partenza di Barkhane…
La lunga storia è riemersa in modi che sono naturalmente ignorati da coloro che pretendono di definire la politica africana della Francia e che portano la terribile responsabilità dell’umiliazione che il nostro Paese sta attualmente subendo nel Sahel e, più in generale, in tutta l’Africa. Questa lunga storia è raccontata nel mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours (Storia del Sahel dalle origini ai giorni nostri).
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Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta ora pubblicando anche alcune traduzioni in italiano. Grazie a tutti i traduttori.
Nel mio ultimo saggio ho parlato di come i politici occidentali stiano facendo un lavoro sempre peggiore come politici, e di come questo crescente dilettantismo sia assolutamente evidente nella loro risposta ad alcune crisi recenti, in particolare quella ucraina. Ho detto che sarei tornato su quell’esempio, e questo saggio riguarda i risultati del dilettantismo, dell’egoismo e dell’autoriferimento dell’Occidente in merito a qualsiasi tentativo di risoluzione della crisi ucraina.
Parlerò soprattutto dei negoziati, che sono improvvisamente diventati un tema del dibattito interno in corso in Occidente sul tipo di esito in Ucraina che il suo fragile ego politico collettivo potrebbe tollerare. Eppure non ho visto praticamente nessuna discussione informata su cosa possa significare in pratica “negoziazione” in questo caso, né tantomeno alcun segno che coloro che coraggiosamente hanno iniziato a usare questa parola abbiano la più remota nozione di ciò di cui stanno parlando. Vediamo quindi di aiutarli. Per alcuni, quanto segue potrà sembrare eccessivamente specialistico e dettagliato; posso solo rispondere che in questa partita i dettagli possono essere estremamente importanti. Al contrario, se fra i lettori ci sono diplomatici di carriera, in servizio o in pensione, probabilmente penseranno che ho semplificato troppo le cose. Quindi, scusandomi con entrambi, cominciamo con la domanda più elementare: perché negoziare? Qual è lo scopo?
La risposta più semplice è che si tratta di raggiungere un obiettivo di qualche tipo che non si può raggiungere da soli, e già qui si possono immediatamente notare una serie di sottigliezze e ulteriori domande contenute in questa semplice risposta. L’obiettivo è condiviso, o almeno compatibile, da entrambe le parti? Tutti hanno la stessa comprensione del significato dell’obiettivo e del modo in cui può essere raggiunto? Entrambe le parti sono ugualmente impegnate nella trattativa? E così via.
Per comodità, possiamo dividere i negoziati in tre grandi categorie. La prima è quella che probabilmente conosciamo tutti nella nostra vita privata. In linea di massima, io ho qualcosa che tu vuoi e tu hai qualcosa che io voglio, ed è nel nostro reciproco interesse cercare di scambiarli. L’esempio più semplice è quello della compravendita: dalla semplice bottega all’acquisto di un’auto, di una casa o di un’intera azienda, c’è un compratore disposto a pagare fino a una certa cifra e un venditore disposto a vendere per una certa cifra. A volte questo processo è molto rapido: ad esempio, un minuto per acquistare un’imitazione di una polo Lacoste da un venditore ambulante di Bangkok a un prezzo considerato equo da entrambe le parti. A volte ci vuole molto più tempo, come quando un’azienda ne acquisisce un’altra e c’è una grande quantità di dettagli da definire. Inoltre ci sono sempre complicazioni di contorno: il logo Lacoste, ad esempio, non sembra ben cucito. Sebbene questo modello non sia sconosciuto nelle relazioni internazionali, la maggior parte dei negoziati reali è molto più complessa e coinvolge molti più fattori.
Un secondo tipo di trattativa prevede tipicamente un obiettivo comune, a volte ben definito, a volte no, condiviso in misura diversa da diversi attori. L’idea è quindi quella di negoziare un accordo che soddisfi tutti in modo ragionevole, raggiungendo un’interpretazione dell’obiettivo che possa essere accettata da tutti. Tutti i trattati economici e politici europei, a partire dall’accordo sul Mercato Comune del 1958, sono stati di questa natura: un obiettivo ampiamente condiviso, accompagnato da una quantità di divergenze di dettaglio su singole questioni che dovevano essere ricomposte nel testo finale. Il classico esempio singolo di questo tipo di negoziato è probabilmente il Trattato di Washington del 1949, che non ha effettivamente “istituito la NATO” (quello è avvenuto diversi anni dopo), ma ha stabilito il principio dell’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza dell’Europa occidentale contro il potere e l’influenza sovietica. Mi soffermerò un attimo su questo esempio.
In questo caso le motivazioni delle parti si sovrapponevano, ma non erano identiche. Per gli europei, il problema era la massa di forze sovietiche a est e la possibilità che venissero usate per intimidire gli elettori e portare al potere i partiti comunisti (come era accaduto in Ungheria e in Cecoslovacchia) e minacciare gli stessi governi occidentali, esausti e in bancarotta dopo la guerra, inducendoli a fare concessioni politiche. Soprattutto, c’era la paura di un’altra futura guerra, alla quale l’Europa non sarebbe sopravvissuta, anche perché, come in Grecia e come era quasi accaduto in Francia e in Italia, la guerra sarebbe stata anche civile. Se da un lato gli europei non temevano un attacco militare deliberato, dall’altro cercavano un esplicito impegno di sicurezza da parte degli Stati Uniti, in modo che Mosca fosse più cauta nei suoi rapporti con gli Stati occidentali e nell’uso dei partiti comunisti europei. La prospettiva americana era piuttosto diversa. Il Paese era già in preda a un panico anticomunista che stava peggiorando, ma era diretto principalmente contro obiettivi interni. Un vero e proprio confronto militare con l’Unione Sovietica aveva pochissimo sostegno a Washington e, sebbene l’amministrazione Truman fosse determinata a non lasciare che l’Europa cadesse ulteriormente sotto l’influenza sovietica, c’era poca voglia di un’alleanza formale che impegnasse gli Stati Uniti a intervenire militarmente in Europa così presto dopo la fine della guerra e la smobilitazione su vasta scala che l’aveva seguita. Inoltre nel Congresso americano, che avrebbe dovuto ratificare qualsiasi trattato, era presente una significativa lobby isolazionista, che doveva essere rispettata.
Il risultato si vide soprattutto nel famoso articolo 5 del Trattato, una clausola che colmava il divario tra il minimo che gli europei potevano accettare e il massimo che gli americani potevano dare tramite una formula gnomica che entrambe le parti potevano interpretare come volevano. Sebbene la struttura militare istituita in seguito coinvolgesse gli Stati Uniti militarmente e assicurasse che le truppe statunitensi fossero tra le prime vittime di eventuali combattimenti, le tensioni di fondo non sono mai scomparse e, fino alla fine della Guerra Fredda, gli europei hanno temuto che gli Stati Uniti avrebbero cercato di imporre un accordo ai loro alleati piuttosto che combattere effettivamente al loro fianco.
Un terzo tipo di negoziato è quello che viene imposto a una parte, o che quest’ultima non può evitare. L’accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani per il ritiro delle forze americane nel 2021 ne è un esempio. Anche tutti i negoziati di resa rientrano in questa tipologia: persino la resa incondizionata delle forze tedesche e giapponesi nel 1945 incluse una serie di dettagli pratici da definire tra le due parti. La ritirata delle forze serbe dal Kosovo nel 1999 non è stata una vera e propria resa (se ne sono andate in buon ordine e in gran parte intatte), ma è stata politicamente imposta ed era ineluttabile, e anche in questo caso c’era tutta una serie di dettagli pratici che dovevano essere negoziati. Il rischio, naturalmente, è che la potenza o le potenze vincitrici si lascino prendere la mano e cerchino di imporre condizioni pericolose o irrealistiche alla parte più debole. Finora i russi si sono comportati con moderazione, ma la guerra non è ancora finita.
Quindi, di queste tre grandi tipologie, a quale sembrano riferirsi i sostenitori dei “negoziati” sull’Ucraina? Beh, a nessuna di esse in realtà, per quanto posso vedere. Il dibattito sembra incentrato sulle condizioni che l’Occidente dovrebbe cercare di imporre alla Russia e sulle concessioni che gli ucraini potrebbero accettare di fare, almeno nel breve periodo. Le ragioni sono molteplici e riguardano soprattutto il delicato ego collettivo della comunità strategica occidentale, e tornerò su questo punto alla fine del saggio. Ma per ora il punto che voglio sottolineare è che anche i più audaci e arroganti pensatori radicali occidentali non solo tradiscono la completa mancanza di una visione realistica del mondo (ma questo lo sapevamo già), ma dimostrano anche una totale ignoranza di cosa siano i negoziati, del perché avvengano, di come vengano condotti e di cosa ci si possa ragionevolmente aspettare da essi.
Ora, una suggestione che circola tra le frange più audaci della comunità strategica occidentale è l’idea di un “congelamento” del conflitto, apparentemente sul modello di armistizio che ha congelato la guerra di Corea. Questo permetterebbe all’Occidente di ricostruire l’Ucraina e le sue forze armate per il prossimo round. Anche tralasciando l’ovvia considerazione che non esiste alcuna ragione al mondo per cui la Russia dovrebbe accettare un’idea del genere – che potrebbe funzionare solo se entrambe le parti cooperassero – questa ipotesi suggerisce che queste persone certamente sanno poco o nulla dell’esempio cui si riferiscono.
Per cominciare, l’armistizio di Corea fu un esempio della seconda categoria di negoziati sopra descritta. Ovvero, un numero sufficiente di attori chiave da entrambe le parti (di fatto i cinesi e le Nazioni Unite) ha accettato il fatto che una vittoria completa sarebbe stata costosa e difficile, e forse impossibile, e quindi aveva senso congelare i combattimenti. Dopo di che, sebbene formalmente esista ancora uno stato di guerra, non c’è mai stata alcuna seria possibilità che il conflitto ricominciasse. (Dubito che coloro che parlano di un conflitto “congelato” siano mai stati nella DMZ o abbiano un’idea delle guarnigioni che la circondano). È evidente che oggi una simile ipotesi sia da escludere. I russi non hanno alcun interesse a una stasi del conflitto poiché, se da un lato stanno pagando un prezzo per la guerra, dall’altro il prezzo che sta pagando l’Occidente è più alto, e sarà sempre più così. In ogni caso, una sospensione dei combattimenti (l’ipotesi di cui stiamo parlando) potrebbe in realtà destabilizzare internamente l’Ucraina stessa e creare una frattura tra il suo governo e quelli delle nazioni occidentali. Vale la pena ricordare che sono state le Nazioni Unite, e soprattutto gli Stati Uniti, i maggiori fautori di un armistizio: le leadership politiche di entrambe le fazioni coreane volevano combattere fino alla vittoria totale, e ci è voluto del tempo per convincerle a non farlo. Qualcosa di simile potrebbe accadere in Ucraina. C’è quindi un’idea dilettantesca e disinformata del quadro politico di base della situazione, e la presunzione che i “negoziati” del tipo che l’Occidente ipotizza possano avvenire quando l’Occidente desidera, senza tenere conto delle opinioni e degli obiettivi delle controparti.
In ogni caso, l’accordo di armistizio firmato nel luglio 1953 aveva una portata molto limitata. Aveva un contenuto puramente militare, fu firmato dalle Nazioni Unite, dai cinesi e da quella che sarebbe stata la Corea del Nord (la Corea del Sud non l’ha mai firmato) e riguardava questioni puramente militari di cessazione delle ostilità e di scambio di prigionieri di guerra. Avrebbe dovuto essere seguito da negoziati di pace e da uno o più trattati, ma ciò non è mai avvenuto, soprattutto a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. È questo che gli opinionisti chiedono ora? Dopo tutto, qualcuno crede davvero che l’Occidente avrebbe mano libera in Ucraina dopo un ipotetico cessate il fuoco? E che senso avrebbe, anche nella ristretta prospettiva occidentale, un cessate il fuoco che lasciasse l’Ucraina di fatto ancora in guerra, tenuta in vita solo dagli aiuti occidentali, senza alcuna prospettiva di resistere a un serio attacco militare russo, con una popolazione in continua diminuzione e in perenne crisi politica, il tutto a fronte della promessa di un futuro invio di aiuti militari una volta ricostituite le scorte occidentali e aumentata la produzione? Questo approccio, per usare un eufemismo, contraddice uno dei principi fondamentali dei negoziati: decidere cosa si vuole dalle trattative e cosa si intende fare una volta ottenuto.
Eppure è strano che gli opinionisti (che presumibilmente riflettono almeno alcune posizioni ufficiali) abbiano scelto la Corea come esempio. Ce n’è uno molto più vicino a noi: l’Accordo di Minsk, o meglio gli Accordi, che avrebbero dovuto risolvere il problema che ha determinato la guerra. Poiché spesso ci si riferisce a quegli accordi, ma raramente vengono davvero citati, diamo un’occhiata al loro testo. Il primo degli accordi, datato 5 settembre 2014 (“Minsk 1”), è stato trasmesso dalla delegazione ucraina alle Nazioni Unite il 24 febbraio 2015 e vale la pena soffermarsi su di esso perché esemplifica una serie di questioni sollevate da questo tipo di accordi. In primo luogo, il documento stesso è costituito sia da un “Protocollo”, descritto come un'”Intesa”, sia da un “Memorandum” di accompagnamento che tratta alcuni aspetti della sua attuazione. In altre parole, i documenti non contengono impegni da parte di alcun Paese né specifici obblighi giuridici o politici. I documenti registrano semplicemente ciò che i partecipanti dicono di aver concordato. È previsto il monitoraggio, ma non l’applicazione di quanto concordato.
Il secondo punto riguarda i partecipanti e i firmatari. Il testo è firmato dai rappresentanti del Gruppo di contatto trilaterale (Ucraina, Russia e Oblast’ secessionisti, oltre che dall’OSCE, responsabile del monitoraggio). I leader di Francia e Germania hanno fatto da intermediari nei colloqui, ma non hanno firmato alcun documento. D’altra parte, gli ucraini (che non hanno riconosciuto le regioni secessioniste) hanno insistito affinché i loro leader di allora firmassero solo come singoli individui, non come rappresentanti di alcuna entità politica. Questa è la più semplice delle anticipazioni del tipo di problemi che si presenterà in qualsiasi “negoziato” che l’Occidente voglia prendere in considerazione.
Il terzo punto è il contenuto. Entrambi i documenti sono molto brevi, come ci si potrebbe aspettare da documenti che si occupano principalmente di stabilire dei principi. Detto questo, il Memorandum è estremamente dettagliato in una parte, e ovviamente redatto da specialisti militari, dal momento che contiene anche elenchi molto precisi di equipaggiamenti (soprattutto artiglieria) insieme alle distanze a cui dovrebbero essere arretrati dalla linea di contatto. Il documento è quindi uno strano miscuglio di vaghe aspirazioni future e misure pratiche molto dettagliate da adottare immediatamente.
Infine, la lingua. Quando si tratta di traduzioni le cose sono sempre complicate, ma possiamo dire che entrambi i documenti contengono in gran parte dichiarazioni di buone intenzioni, senza obiettivi o date associate. Qualcuno (presumibilmente il governo ucraino) “attuerà il decentramento amministrativo”, altri “promulgheranno una legge” per punire i crimini di guerra, qualcun altro ancora “adotterà un programma” per la rinascita economica del Donbas. I testi evitano accuratamente di dire chi sia responsabile di cosa, come e quando il “cosa” debba essere realizzato e tanto meno valutato. Il documento evita palesemente qualsiasi accento che assomigli al linguaggio dei trattati (ad esempio, “raggiunta un’intesa” al posto di “concordato”). Ma questa di per sé non è una vera e propria critica: questo era quanto era possibile ottenere dalle parti in quel momento, e rifletteva la loro riluttanza a stipulare un accordo giuridicamente vincolante. D’altra parte, ciò che veramente conta è quello che le parti intendono fare a prescindere dai documenti che hanno firmato, e da ciò che è seguito è chiaro che nessuna delle due parti si fidava dell’altra. Qualsiasi “accordo”, che sia quest’anno o in seguito, sarà molto più complicato e difficile di questo.
A causa della mancanza di fiducia e di impegno sono ricominciati i combattimenti e, dopo ulteriori pressioni da parte di Francia e Germania e una riunione molto lunga e difficile, il 12 febbraio 2015 è stato finalmente concordato un “Pacchetto di misure” per attuare gli accordi di Minsk originali (diventato noto come “Minsk 2”). Si noti ancora una volta che anche questo non è un trattato o un documento esecutivo di alcun tipo, ma si tratta essenzialmente di una registrazione dei punti concordati durante l’incontro firmata dai membri del Gruppo di contatto trilaterale. In alcuni casi (ad esempio la riforma costituzionale) risulta chiaro che il governo ucraino ha promesso di fare qualcosa, in altri non è chiaro chi debba fare cosa. Anche in questo caso sono presenti alcune disposizioni dettagliate relative alle armi pesanti. Vale anche la pena sottolineare che alcune disposizioni vanno al di là dei normali limiti di un trattato, perché impegnano i non firmatari a fare delle cose: ad esempio, il Parlamento ucraino doveva adottare una risoluzione sulle aree a cui si sarebbe applicato un regime amministrativo speciale. Questo genere di cose non compare mai nei trattati per il semplice motivo che nessun governo può impegnare il proprio parlamento. In sostanza, quindi, si tratta di una raccolta di idee intelligenti che, se attuate, avrebbero dovuto contribuire all’attuazione dell’Accordo di Minsk. Anche in questo caso, non si tratta di una critica: è tutto ciò che è stato possibile ottenere dalle parti in quelle circostanze.
Questi risultati estremamente limitati sono stati l’esito di una notevole pressione esercitata dopo un piccolo e breve conflitto in un’area limitata di un Paese. Per questo motivo gli accordi sono venuti meno molto rapidamente, con le parti (comprese quelle non rappresentate) che si sono accusate a vicenda di malafede. (Non entrerò ora nel merito dei diritti e dei torti della questione, ciò che conta è la percezione). La realtà è che, se ci fosse stata la volontà di entrambe le parti di far funzionare gli accordi, in qualche modo avrebbero funzionato. È un errore costante degli esperti di relazioni internazionali (e non solo) supporre che solo perché è stato firmato un accordo di pace scritto ne seguiranno necessariamente dei risultati pratici. In realtà, come ho sostenuto altrove, in assenza di un genuino desiderio di fare dei progressi, gli accordi di pace possono essere pericolosi, e più sono complessi, più possono esserlo. Alcuni accordi di pace hanno scatenato guerre.
Al contrario, negoziati che sembrano impossibili possono in realtà diventare possibili molto rapidamente a causa di un cambiamento o di uno sviluppo della situazione politica. I negoziati per la Riduzione Reciproca ed Equilibrata delle Forze (Mutual and Balanced Force Reductions, MBFR) si sono svolti a Vienna dal 1973 al 1989 senza produrre alcun tipo di trattato perché mancava la volontà politica di fare qualcosa se non parlare. Nel 1989 sono stati sostituiti dai negoziati sulle forze armate convenzionali in Europa (CFE), che all’inizio sono stati accolti con un certo scetticismo. Ma divenne presto chiaro che sia l’Est che l’Ovest avevano deciso che la Guerra Fredda stava per finire e che i colloqui CFE erano il metodo scelto per darle una degna sepoltura. Così sono state stanziate importanti risorse, e in meno di due anni è stato negoziato un trattato enorme e complesso.
Quindi, al di là e prima dei dettagli, che affronteremo tra poco, il primo tema è la volontà politica. Nel sempre mutevole diagramma di Venn di ciò che gli Stati vogliono e sono disposti ad accettare, c’è un’area minima di sovrapposizione in cui si potrebbe raggiungere un accordo utile, e c’è la volontà di raggiungere tale accordo e farlo funzionare? Se sì, bene. In caso contrario, i negoziati potrebbero peggiorare la situazione anziché migliorarla. Per quanto ammiri la professione diplomatica, essa ha la tendenza a considerare tutti i negoziati come buoni e tutti gli accordi, anche i più banali e provvisori, come risultati. (Sebbene, come diceva Churchill, le trattative sono meglio della guerra, la storia dimostra che una trattativa troppo precoce può produrre comunque una guerra.
Quanto detto sopra spero dia un’idea del tipo di questioni che il termine vago e generico di “negoziati” dovrà affrontare. Esaminiamone ora alcune più nel dettaglio, sicuri che nessuno in nessuna capitale occidentale avrà dedicato riflessioni serie ai problemi in questione.
La prima domanda è semplice: negoziati a che scopo? Ammesso che gli opinionisti occidentali abbiano una qualche idea di ciò di cui stanno parlando, sembra che stiano pensando a un Minsk 3, ossia a un cessate il fuoco, al ritiro delle armi pesanti, a promesse di riforme politiche da parte dell’Ucraina e a uno scambio di prigionieri. Non si tratterebbe di un trattato (poiché tali documenti non lo sono per definizione), e sebbene possa essere monitorato ancora una volta dall’OSCE non ci sarebbero disposizioni per la sua applicazione. L’obiettivo sarebbe quello di fermare gli attacchi e le avanzate russe e ricostruire le forze armate ucraine per il prossimo round. Detto così, risulta ovvio che solo chi abbia perso completamente il contatto con la realtà, come il signor Blinken, potrebbe immaginare che un’idea del genere sia accettabile per la Russia.
D’altra parte, è abbastanza chiaro quale sarà l’obiettivo dei russi in qualsiasi negoziato, perché qualsiasi proposta sarà basata sulla bozza di trattato del dicembre 2021, che la NATO si è rifiutata di discutere. Il loro obiettivo sarà un trattato che allontani gli Stati Uniti dall’Europa e riporti la NATO al 1997, e la loro proposta iniziale potrebbe essere ancora più dura dopo diversi anni di combattimenti. Di conseguenza, al netto della parola “negoziati”, le due parti parleranno in realtà di cose completamente diverse.
Forse in questo caso è possibile una certa flessibilità. Ad esempio, l’Occidente non potrebbe presentare delle controproposte (come avrebbe dovuto fare nel 2021) per una futura architettura di sicurezza in Europa? Il problema è che il sistema esistente nel 2021 in realtà andava piuttosto bene per l’Occidente, quindi qualsiasi proposta avanzata ora non può che essere basata sull’accettazione di un sistema peggiore di quello precedente, anche come posizione negoziale di apertura. E chi farà esattamente queste concessioni sulla sicurezza? Chi deciderà? Dopo tutto, i parlamenti degli Stati partecipanti (ci arriveremo tra un attimo) dovrebbero ratificare qualsiasi trattato che alla fine dovesse riusltare. Naturalmente nulla impedisce all’Occidente di presentare proposte volte a far ritirare i russi da una parte o da tutta l’Ucraina, ma questo sarebbe semplice teatro. Il problema è che la NATO non ha nulla da offrire che sia accettabile per i propri elettori, che i russi non possano prendersi o far accadere comunque, e non può costringerli a dare qualcosa di importante in cambio. Questa quindi non è una buona base per i negoziati.
Ma c’è di peggio, a causa delle posizioni politiche estreme delle due parti. La versione ufficiale occidentale del 2021-22 sembra emergere ora, ad esempio dal recente discorso di Stoltenberg, il Segretario Generale della NATO. In questa rappresentazione la Russia, forte del suo massiccio rafforzamento militare, ha tentato di ricattare la NATO affinché rifiutasse l’adesione dell’Ucraina, per poi tornare ai confini del 1997. Quando la NATO ha rifiutato di farsi intimidire, Putin ha lanciato una guerra per invadere tutta l’Europa, ma è stato fermato dai coraggiosi ucraini con l’aiuto dell’Occidente. Ora, vista l’enorme quantità di denaro e di armi che le nazioni della NATO hanno fornito, come può un leader nazionale andare in parlamento e dire: “Bene, ragazzi, in realtà l’Ucraina alla fine non entrerà nella NATO e la Russia potrà prendersi i territori che vuole: lo dice la bozza di trattato che abbiamo presentato”? Dal canto suo, il governo russo sarà probabilmente soggetto alle medesime pressioni, al punto che la bozza di trattato del dicembre 2021 potrebbe ora sembrare troppo mite per gran parte della popolazione. E gli ucraini? Beh, a loro ci arriveremo tra un attimo.
Ora, non è impossibile che in qualche modo, da qualche parte, un gruppo di Stati si riunisca per scambiare opinioni, registrare richieste, rifiutare richieste e così via, e se fossimo di buon umore potremmo chiamare tutto questo “negoziati”. Ma non saranno negoziati, nel senso che non ci sarà né la volontà né la capacità di fare alcun progresso sostanziale.
Il che ovviamente solleva un’altra questione: chi parteciperà e, in questo contesto, chi firmerà e chi sarà vincolato da cosa? Gli accordi di Minsk sono stati (relativamente) facili. Da una parte il governo ucraino, dall’altra i ribelli e i russi, nel mezzo l’OSCE e, a intermediare fra le parti, i francesi e i tedeschi. Da allora la situazione è diventata incomparabilmente più complessa: i Paesi della NATO, in misura diversa, sono sostanzialmente ma non formalmente parti in causa nel conflitto. Gli oblast’ occupati fanno ora parte della Russia. Logicamente, qualsiasi negoziato dovrebbe avvenire tra Russia e Ucraina, ma questo pone due problemi evidenti. Il primo è che non è chiaro chi parli a nome dell'”Ucraina” anche sul fronte interno. Qualsiasi conclusione o anche solo una pausa dei combattimenti potrebbe scatenare forze politiche con obiettivi molto diversi, tanto che qualsiasi delegazione ucraina non sarebbe in grado di parlare a nome del Paese nel suo complesso. Cosa succede se a metà dei negoziati si verifica un colpo di stato militare? Cosa succede se diversi gruppi pretendono di rappresentare il governo e il popolo, con obiettivi diversi? E se altri gruppi non presenti ai negoziati cercassero di esercitare un controllo a distanza? (Questo è ciò che è accaduto ai negoziati di Rambouillet nel 1999, che hanno preceduto l’attacco alla Serbia. Secondo qualcuno che era presente ai negoziati il leader della delegazione kosovara albanese, un esponente politico, fu costretto a dire a Madeline Albright, la principale negoziatrice statunitense, che era impossibile per lui firmare la bozza di trattato preparata dagli Stati Uniti poiché in tal caso l’Esercito di liberazione del Kosovo lo avrebbe assassinato al suo ritorno a casa).
Il secondo problema è che l’Ego collettivo dell’Occidente non tollererebbe di essere escluso da tali negoziati, anche se è assai più incerto se essi sottoscriverebbero effettivamente degli obblighi, e ancor meno se i loro parlamenti accetterebbero di ratificarli. Eppure tutti sarebbero perfettamente consapevoli che l’Occidente sta manipolando la delegazione ucraina, o che almeno ci sta provando. Da parte loro, è chiaro che i russi non considerano gli ucraini come attori indipendenti, e quindi pretenderebbero che i negoziati fossero tra loro e la NATO, con l’Ucraina come semplice punto all’ordine del giorno.
Da quanto ho detto finora dovrebbe risultare evidente la necessità di abbandonare l’idea di “negoziati” in senso proprio, almeno finché la situazione non cambierà radicalmente. Ma ipotizziamo un’improvvisa esplosione di razionalità e moderazione nelle capitali occidentali, un cambio di governo, una crisi economica e politica o altro del genere. Cosa si potrebbe organizzare che assomigli a un negoziato e che possa portare a qualche risultato? Supponiamo che l’Occidente accetti un modello di accordo simile alla proposta russa: un nuovo assetto di sicurezza per l’Europa, con le questioni relative alla NATO in discussione e l’Ucraina da considerare come caso a sé. Benissimo. Ma come si potrebbe far funzionare tutto ciò?
Tanto per cominciare, chi parla a nome dell'”Occidente”? I negoziati si svolgono classicamente tra entità sovrane che possiedono la capacità giuridica di stipulare trattati. L’Unione Europea ce l’ha (ad esempio nel trattato di uscita dall’UE stipulato con il Regno Unito), ma la NATO no. Quindi, ad esempio, l’adesione della Finlandia alla NATO è stata registrata sotto forma di Protocollo al Trattato di Washington, stabilendo che “le Parti del Trattato Nord Atlantico” avevano concordato che la Finlandia avrebbe depositato uno strumento di adesione presso gli Stati Uniti (come Stato depositario) e che ogni membro della NATO avrebbe poi notificato la propria accettazione dello strumento. La ragione di questa procedura farraginosa è che la “NATO” non può concordare nulla, né i suoi Stati membri le permetterebbero di farlo. In qualsiasi futuro trattato teorico, la “NATO” non sarebbe firmataria, né sarebbe rappresentata al tavolo dei negoziati, né avrebbe obblighi e diritti in base al trattato. Tutto questo è di pertinenza dei singoli Stati. Qualcosa di simile è già accaduto in passato, con il già citato Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa del 1990. In quel caso è stato necessario un abile lavoro per conciliare il fatto che i negoziati fossero tra blocco e blocco, tra la NATO e il Patto di Varsavia, con il fatto che il trattato doveva essere firmato e attuato dalle singole nazioni. Allo stesso modo, all’interno della stessa NATO furono necessari infiniti, laboriosi e spesso difficili negoziati interni per cercare di stabilire una posizione comune.
Quindi, in pratica, un futuro “negoziato” intercorrerebbe con i membri ufficiali della NATO, che tratterebbero in modo indipendente ma cercando di mantenere una posizione comune, la Russia, l’Ucraina in una o più configurazioni e forse altri soggetti. L’Australia vorrebbe partecipare? E la Svizzera? Chi decide? E che status avrebbe, ad esempio, l’Australia in veste di fornitore di aiuti? Quali obblighi sottoscriverebbe Canberra? Sarebbe necessario un grado di concordia quasi sovrumano anche solo per definire il contenuto dei negoziati e le regole procedurali. Sebbene esistano numerosi esempi di trattati firmati tra un gran numero di Stati con diverse posizioni non esiste, per quanto ne so, alcun precedente di un negoziato effettivamente aperto che coinvolga un numero così elevato di partecipanti, su questioni così difficili e complesse, con la maggior parte dei partecipanti obbligati a coordinare i propri punti di vista nonostante le enormi differenze oggettive delle loro rispettive situazioni. Anche in questo caso, un altissimo grado di concordanza politica potrebbe teoricamente unire i governi occidentali e questo potrebbe accelerare le cose, ma il problema è che la posta in gioco è così importante e complessa, e le implicazioni strategiche per i diversi Paesi così diverse, che mantenere un tale consenso è davvero pura fantasia. Il risultato pratico è che, anche se un tale negoziato dovesse iniziare, potrebbe essere interrotto in qualsiasi momento da dispute tra gli Stati su un numero quasi infinito di questioni.
C’è un’intera lista di altre questioni di dettaglio ma comunque importanti, per le quali potrebbero servire mesi per trovare un accordo. Ad esempio, dove tenere i colloqui? Molte delle classiche sedi neutrali (Ginevra, Helsinki, Vienna) sembrano ora sconsigliabili. Ankara potrebbe andare bene, ma dopotutto si tratta di una nazione appartenente alla NATO anche se i turchi hanno fatto il doppio gioco. I russi potrebbero quindi proporre Minsk, e le discussioni cadrebbero subito. Senza dubbio gli ucraini indicherebbero Kiev o Washington. Questa situazione potrebbe andare avanti (e probabilmente lo farebbe) per mesi. E immaginate, ad esempio, le difficoltà logistiche di organizzare i negoziati tra, diciamo, trentacinque Paesi? Quaranta? Tenendo presente che la maggior parte del lavoro reale non si svolge in seduta plenaria ma in gruppi di lavoro e sessioni informali, quanti luoghi al mondo possiedono un’infrastruttura in grado di ospitare questo incubo logistico? E poi ci sono la traduzione e l’interpretazione. Quante lingue ufficiali ci sarebbero? Almeno tre (russo, inglese e francese) e probabilmente anche “ucraino”. Immaginate le discussioni su quale sia la lingua autentica di default per i documenti e sul reperimento degli interpreti e dei traduttori necessari.
Potrei continuare ancora. Ma alla fine quello che stiamo vedendo è la comunità strategica occidentale negoziare con sé stessa, dato che nessun altro negozierà con lei, e cercare di sondare i limiti estremi di ciò che il suo fragile ego è in grado di accettare senza crollare. Nulla di tutto ciò ha una grande attinenza con la vita reale. Una delle cose da tenere a mente per quanto riguarda il successo dei negoziati è che non si possono forzare le persone o le loro conclusioni. L’Occidente ha una lunga storia di forzature nei negoziati e negli accordi con altre nazioni, naturalmente per quelle che considera buone ragioni. Questi tentativi falliscono perché i partner non sono pronti o non si fidano l’uno dell’altro, o perché le circostanze sottostanti non sono favorevoli. Non ci sarà nulla di tutto ciò con i russi, che negozieranno quando ne avranno voglia, se mai ne avranno voglia. L’Occidente parla di una guerra infinita che non ha né le forze, né l’equipaggiamento, né la capacità, né la volontà politica di affrontare. Il risultato effettivo sarà una sorta di perenne ostilità e, alla fine, i sogni occidentali di trionfo tramite i negoziati si riveleranno un’illusione come i loro sogni di trionfo sul campo di battaglia.
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La guerra di Zelensky sembra essere sull’orlo del baratro. Dopo una delusione all’assemblea delle Nazioni Unite a New York, è ora a Washington per l’ultima tappa del suo viaggio di supplica per assicurare la continuazione della guerra.
Purtroppo finora non sta andando molto bene. Il tanto sperato e decantato ATACMS sembra essere già fuori uso:
Uno dei punti chiave di questo viaggio, ci è stato detto per diverse settimane, era che Biden avrebbe annunciato il trasferimento dell’ATACMS in Ucraina di persona con Zelensky, il che avrebbe rappresentato un grande momento simbolico di solidarietà, dimostrando la continua determinazione e l’impegno degli Stati Uniti nella tanto chiacchierata prosecuzione a lungo termine della guerra. Anche Jihad Julian è sconfortato:
Foreign Policy afferma che tutte le agenzie statunitensi avrebbero accettato di inviare il missile, ma l’ultima decisione è stata lasciata a Biden:
Un collaboratore del Congresso, che ha parlato con Foreign Policy a condizione di anonimato, ha detto che tutte le agenzie statunitensi avevano accettato di inviare il sistema missilistico tattico dell’esercito americano. “Se non si farà, sarà perché lo stesso [presidente Joe] Biden ha detto di no”, ha detto la persona.
Invece, le cose si stanno inasprendo e nulla va come previsto per Zelensky. Ricordiamo che recentemente qualcuno aveva chiesto quali fossero le linee rosse dell’Ucraina nei confronti dei loro padroni negli Stati Uniti. Alcuni osservatori continuano ingenuamente a pensare che gli Stati Uniti siano una forza impenetrabile e intoccabile – come amano dipingersi – che non teme alcuna linea rossa russa. Al contrario, continuo a informare le persone che dietro le quinte esistono serie linee rosse che gli stessi Stati Uniti temono di oltrepassare. Questo perché rimangono molte leve di pressione che la Russia stessa non ha ancora esercitato e che potrebbero facilmente rendere la vita degli Stati Uniti molto più difficile, sia militarmente che economicamente e geopoliticamente in Europa.
Il Presidente della Camera McCarthy ha ora annullato l’auspicato discorso di Zelensky al Congresso:
Ora sono in corso una serie di furiosi negoziati, con i membri del Congresso che cercano disperatamente di ottenere da Zelensky una qualche garanzia. Tuttavia, un ampio contingente di repubblicani sta cercando di rovinare le cose:
Per non essere messo in ombra, il più grande sviluppo di tutti è stato che un’improvvisa e inaspettata spaccatura tra Ucraina e Polonia ha minacciato di far fallire completamente la guerra. Stufa delle buffonate dell’Ucraina sulla vicenda del grano, il premier polacco ha dichiarato in modo inusuale che la Polonia non fornirà più armi all’Ucraina:
Per essere chiaro, ha anche aggiunto un’ulteriore minaccia:
Morawiecki ha poi proseguito con una dichiarazione televisiva che ha rappresentato un ulteriore inasprimento della frattura apparentemente crescente. “Metto in guardia le autorità ucraine”, ha dichiarato, “perché se dovessero inasprire il conflitto in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia”. “Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata. Stiamo proteggendo gli agricoltori polacchi”.
E questo dopo che lo stesso presidente polacco ha scioccamente definito l’Ucraina un “uomo che sta annegando” e che può trascinarvi a fondo insieme a lui:
A ciò è seguita una serie di rapidi “interventi di pulizia”, che hanno visto il portavoce polacco Piotr Müller massaggiare la dichiarazione di Morawiecki in: “Le autorità polacche stanno fornendo all’Ucraina le armi concordate in precedenza” – il che suona come se stesse dicendo solo quelle concordate in precedenza, ma non altre nuove.
Nel frattempo, l’ex premier polacco Szydlo ha rivelato la verità dicendo la parte silenziosa ad alta voce:
Il deputato polacco Kaczyński ha dichiarato: “La Polonia continuerà a sostenere l’Ucraina nella sua lotta contro la Russia, ma nel nostro accordo non c’era alcuna clausola che prevedeva la liquidazione dell’agricoltura polacca a causa della protezione dell’Ucraina”.
Un membro del “Partito della Confederazione” polacco ha persino presentato una finta fattura all’Ucraina, mostrando tutto ciò che la Polonia ha fornito:
Il conto che il partito polacco “Confederazione” ha presentato ieri all’Ucraina per il pagamento, dopo il brillante discorso di Zelensky all’ONU (in zloty):Aiuti militari – 14 miliardiAiuti umanitari – 4,3 miliardiAssistenza finanziaria – 1,6 miliardiAssistenza ai rifugiati ucraini – 71,4 miliardiAssistenza privata da parte dei polacchi – 10 miliardiTOtale: 101,3 miliardi di zloty, o 23,5 miliardi di dollariStiamo aspettando che Zelensky firmi un assegno?
AsiaTimes scrive:
“Zelensky potrebbe convincere il Congresso degli Stati Uniti a stanziare più soldi per i combattimenti. Ma questa potrebbe essere la sua ultima vittoria. Potrebbe ricevere un pacchetto ridotto ed essere mandato via. Non c’è stata una vera svolta durante la controffensiva e l’Ucraina ha consumato la maggior parte delle sue riserve strategiche. I rapporti dicono che l’Ucraina sta perdendo più di mille persone al giorno, a volte circa duemila, e questo non è un granché. Gli Stati Uniti e alcuni dei loro partner della NATO hanno chiarito che non approvano le tattiche militari dell’Ucraina, anche se gran parte di esse sono state guidate da modelli informatici della NATO e da un forte supporto di intelligence“.
Ma la delegazione ucraina persiste. Comicamente, il portavoce Yuri Ignat guarda già oltre gli F-16 e parla di ricevere gli F-35:
“Dobbiamo anche pensare al futuro, non a un solo F-16. Ci sono gli F-35 e ci sarà anche un nuovo modello di Gripen”. Ci sono aerei F-35, ci sarà anche un nuovo modello di Gripen”, ha detto durante un briefing presso il centro media ucraino, che è stato trasmesso su YouTube.Ignat ha detto che al momento l’Ucraina considera una priorità ricevere i caccia di quarta generazione F-16 dagli Stati Uniti, al secondo posto nella lista delle priorità – i caccia della stessa generazione JAS 39 Gripen in servizio in Svezia.
Detto questo, credo che la maggior parte delle questioni sarà risolta per ora, ma rappresentano una chiara direzione del conflitto. Ad esempio, il conflitto con la Polonia ha probabilmente a che fare con la postura in vista delle prossime elezioni polacche di ottobre. Il premier Morawiecki deve apparire forte e dimostrare che sta difendendo valorosamente gli interessi polacchi, in modo da poter essere riconfermato.
Allo stesso modo, i membri del Congresso degli Stati Uniti stanno probabilmente recitando un po’ per mostrare al popolo americano che stanno facendo la loro “due diligence” nell’assicurarsi che ogni dollaro americano sia contabilizzato in Ucraina, ma alla fine l’accordo per ulteriori finanziamenti probabilmente andrà in porto.
Ma, come ho detto, questi sviluppi rappresentano ancora una chiara tendenza al ribasso per la traiettoria dell’Ucraina. E poiché questo è solo il risultato di una stagione offensiva fallita, il procedimento è indicativo e portentoso di ciò che accadrà nel corso del prossimo anno, quando l’Ucraina si troverà ancora più in difficoltà.
Nonostante i finanziamenti siano stati messi a punto per il momento, è probabile che rappresentino comunque una cifra molto inferiore, e il completo rinnegamento delle sperate armi “wunderwaffen” rappresenta un importante cambiamento di realtà.
Per quanto riguarda il budget, il bilancio federale annuale dell’Ucraina richiede circa 50 miliardi di dollari solo per far funzionare i servizi governativi. Ora che l’Ucraina è in stato di guerra e che decine di milioni di persone sono fuggite, le entrate fiscali sono catastroficamente diminuite. Negli anni precedenti, credo che l’Ucraina stesse già operando con un pesante deficit, in cui il governo riceveva solo circa 20-25 miliardi di dollari, con un enorme ammanco di 20-25 miliardi di dollari.
Ora la situazione è ancora peggiore. E si tenga presente che questo non conta nemmeno le spese militari/di guerra, che si aggirano tra i 60 e i 100 miliardi di dollari. Ciò significa che l’Ucraina ha bisogno di un totale di oltre 100 miliardi di dollari all’anno per far funzionare il suo Stato e continuare a portare avanti la guerra. Ecco perché le iniezioni di 25 miliardi di dollari attualmente in discussione a Washington sono sostanzialmente trimestrali.
Come ho detto, la pressione sta iniziando a diventare evidente dopo solo pochi mesi di tentativi falliti di controffensiva. Entro la prossima primavera, l’Ucraina avrà trascorso 6 mesi da oggi, probabilmente, ad essere schiacciata nell’oblio senza più alcuna speranza all’orizzonte. Se i titoli dei giornali sono negativi ora, il sentimento prevalente tra 6 mesi sarà apocalittico.
L’articolo di Newsweek sopra citato, scritto dal tenente colonnello in pensione Daniel L. Davis, fa una delle più grandi ammissioni del conflitto fino ad ora:
Dice che l’Ucraina ha perso altri 50.000 morti solo durante la parte di quest’anno, presumibilmente tenendo conto di Bakhmut e della controffensiva. Ciò significa che anche le fonti occidentali ammettono che l’Ucraina ha perso decine di migliaia di persone in ognuna di esse. Non è ancora del tutto la realtà, dato che Prigozhin ha parlato di 60-70 mila morti dell’AFU solo a Bakhmut, ma stanno iniziando ad avvicinarsi alla verità. Un’ammissione di 50k morti – senza contare le decine di migliaia di mutilati e feriti irrecuperabili – solo da marzo o giù di lì (dato che ha detto che questo conteggio è di un anno dopo l’inizio dell’SMO, che sarebbe alla fine di febbraio 2023) di quest’anno significa 50k in 6 mesi, cioè 8.333 al mese o quasi 300 al giorno.
Quindi, stanno ammettendo che l’Ucraina ha una media di 300 morti al giorno per tutto l’anno, il che significa almeno altri 100-200 feriti irrecuperabili e altre centinaia di feriti regolari, per un totale potenziale di 1000 vittime e oltre al giorno, in media. Inoltre, per ammissione dei loro stessi numeri, stanno dicendo che l’Ucraina ha subito un aumento di circa il 400% delle perdite rispetto allo scorso anno. Questo perché 50.000 vittime in un periodo di 6 mesi quest’anno corrispondono a 100.000 vittime in 12 mesi. Ha dichiarato che l’anno precedente le vittime erano state 17k.
Anche se sappiamo che la cifra di 17k è falsa, il punto è che stanno ammettendo che l’Ucraina sta sperimentando un aumento di 5 volte delle vittime quest’anno rispetto all’anno scorso. Se si estrapola questo dato in cifre reali e si dice che nel 2022 si sono avute 100.000 vittime, allora quest’anno se ne prevedono 500.000, ecc. O 50k per il 2022 contro 250k per il 2023, ecc.
Tra l’altro, un deputato della Rada ucraina non solo ha detto che l’Ucraina dovrà fare una mobilitazione “molto più intensa”, ma è interessante notare che l’80% delle forze armate sono ora mobilitate che non hanno mai combattuto prima…
Secondo il deputato, l’Ucraina dovrà effettuare una mobilitazione “più intensa di quella attuale” se la Federazione Russa, come ha riferito in precedenza lo Stato Maggiore ucraino, richiamerà altre 700.000 reclute: “Ora ci stiamo mobilitando, reagendo alle forze e ai mezzi che hanno i russi. Per esempio, hanno circa 400.000 militari. Pertanto, stiamo rispondendo alla mobilitazione, rifornendo le nostre unità in prima linea, formandone di nuove. Naturalmente, se la mobilitazione in Russia avrà un ritmo tale, dovremo aumentare la mobilitazione per essere in grado di rispondere adeguatamente”, ha detto Kostenko. Secondo Kostenko, le Forze armate dell’Ucraina sono composte per l’80% “o anche di più” da persone mobilitate che in precedenza non erano militari professionisti.
Ricordiamo la rivelazione dell’ultima volta, in cui il commissario di Poltava ha detto che il tasso di vittime per la sua regione era dell’80-90% e abbiamo parlato di come questo potesse estendersi a tutte le forze armate. Sembra sempre più chiaro che l’80-90% dell’intera AFU sia stato effettivamente spazzato via. A seconda di quale sia il numero di partenza, se 200.000 o 1 milione, come ha sostenuto Zelensky, si possono trarre le proprie conclusioni sulle perdite totali. Sembra che quelle osservazioni “ironiche” sul fatto che l’Ucraina abbia spazzato via l’intero primo esercito e che ora stia operando con il secondo o il terzo esercito, forse non erano lontane dalla verità.
E se non credete ai numeri di cui sopra, ecco un soldato dell’AFU catturato di recente che afferma chiaramente che il 95% della sua unità era costituito da coscritti appena mobilitati:
Ma torniamo al tenente colonnello Davis, che conclude l’articolo di Newsweek con la triste constatazione che il potenziale offensivo dell’Ucraina è finito e che gli Stati Uniti dovrebbero ora non solo cedere le proprie responsabilità di finanziamento/armatura agli alleati, ma anche istruire l’Ucraina a passare a una strategia difensiva:
Non esiste quindi una base realistica per credere che l’Ucraina abbia la capacità di raggiungere l’obiettivo strategico dichiarato di recuperare tutto il suo territorio, compresa la Crimea. Ciò che è realistico è continuare a fornire a Kiev i mezzi militari per difendersi da ulteriori incursioni russe. Questo obiettivo dovrebbe essere combinato con lo spostamento di una percentuale crescente dell’onere per ulteriori armi e munizioni ai nostri ricchi amici europei. Gli Stati Uniti dovrebbero continuare a garantire che la guerra non si espanda oltre i confini dell’Ucraina e aumentare gli sforzi diplomatici con tutte le parti interessate per porre fine alla guerra alle migliori condizioni possibili per Kiev, il tutto a vantaggio degli interessi americani. Piuttosto che ripetere nel prossimo anno e mezzo ciò che non ha già funzionato – che potrebbe costare all’Ucraina altre centinaia di migliaia di perdite – è ora di provare qualcosa che abbia una possibilità di successo. In altre parole, è ora di riconoscere la realtà oggettiva e di adottare politiche che possano funzionare.
Sta dicendo che l’Ucraina dovrebbe semplicemente passare a difendersi da qualsiasi ulteriore avanzata russa e che gli Stati Uniti dovrebbero iniziare a cercare una via d’uscita da questa guerra. Che sorpresa.
E la nuova edizione dell’Economist, appena uscita dalla stampa, ha una copertina sgargiante con un messaggio leggermente diverso:
L’Economist ritiene che tutto debba essere riconfigurato per una lunga guerra, con l’Europa che intensifica la produzione e l’Ucraina che ripensa la propria economia per una piena produzione bellica. La pace non è un’opzione, secondo l’Economist di proprietà di Lynn Forester de Rothschild.
Nel frattempo, ieri sera la Russia ha iniziato il primo dei colpi debilitanti di questa stagione sulle infrastrutture ucraine. Le strutture energetiche sono state colpite con gravi perdite di energia elettrica in tutta una rete di città.
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Giovedì i missili russi hanno danneggiato le infrastrutture energetiche dell’Ucraina centrale e occidentale, ha dichiarato l’operatore della rete nazionale ucraina Ukrenergo. Sulla app di messaggistica Telegram ha dichiarato che gli attacchi hanno causato l’interruzione dell’elettricità in cinque regioni: Kiev, Zhytomyr, Dnipropetrovsk, Rivne e Kharkiv.
Decine di video mostrano impianti in fiamme a Kiev, Lvov e in molte altre città.
Come al solito, l’Ucraina ha affermato di aver abbattuto la maggior parte dei missili, una solita tattica per salvare la faccia:
La cosa importante è che le statistiche che ho visto sostengono che solo il 25% delle infrastrutture distrutte durante gli attacchi dello scorso inverno sono state riparate. Se fosse vero, ciò significherebbe che la Russia potrebbe dare un colpo mortale alla rete elettrica ucraina nel prossimo autunno e inverno. Con la diminuzione delle spedizioni di armi, dei finanziamenti occidentali e così via, ciò contribuirebbe notevolmente a creare la massa critica entro la prossima primavera che ho descritto in precedenza.La Russia girerà le viti di quelle pinze e continuerà a stringere il suo boa constrictor sull’Ucraina e su tutta l’Europa fino a quando il dissenso, i disordini e gli attriti interni non saranno arrivati al culmine. Basta guardare il video che ho postato prima, in cui Schumer cita Zelensky: “Se non otteniamo questi aiuti, perderemo la guerra”.Questo è il motivo per cui non credo che la Russia abbia una particolare fretta di effettuare presto una qualsiasi improvvisa “offensiva delle grandi frecce”. L’attuale tattica attrattiva sta già facendo il suo lavoro da manuale, con solo piccoli intoppi che la guastano, come gli occasionali successi dell’Ucraina con le Ombre della Tempesta. A parte questo, l’Ucraina si è impalata sui pali della linea di Zaporozhye di Vlad, così come l’Europa ha ritenuto opportuno impalarsi sul dito medio economico alzato della Russia.
Più antico dell’Edda: “La risorsa più preziosa in guerra, che sempre manca, non sono le armi, le munizioni, i trasporti e nemmeno il personale. La risorsa più preziosa è il tempo, perché se lo si possiede si possono trovare armi, piazzare munizioni, mettere in ordine i trasporti e persino risolvere in qualche modo il problema della mancanza di personale. Ma se non c’è tempo e le vostre decisioni vengono ritardate a causa delle rapide azioni del nemico, allora anche avere a disposizione tutto ciò che abbiamo detto potrebbe non salvarvi.Il tempo è esattamente ciò che abbiamo ora, grazie al fatto che l’offensiva di Khokhl sta andando come sta andando. Il lento rosicchiamento in “assalti di carne” ci permette di rafforzare le nostre difese, di mettere ulteriori campi minati, di trasferire le riserve da aree meno stressate e di pensare in generale a cosa dobbiamo fare dopo”.
Indipendentemente dall’angolazione da cui gli eurocrati con gli occhi a muro affrontano le prospettive per il prossimo anno, non sembrano favorevoli.
Gli Stati Uniti hanno annunciato di voler espandere la produzione di artiglieria un po’ prima del previsto, con 100.000 proiettili mensili entro il 2025 invece degli 80.000 previsti. Ora ne produce 25k, quasi il doppio rispetto ai 14k mensili dell’anteguerra. Entro il 2024, si prevede di sfornare 65.000 granate al mese. Ma questi numeri, anche nel 2025, non sono affatto sufficienti e i problemi sono infiniti:
“I prezzi delle attrezzature e delle munizioni stanno aumentando. In questo momento, stiamo pagando sempre di più esattamente per le stesse cose”, ha detto sabato l’ammiraglio olandese Rob Bauer, presidente del comitato militare della NATO, dopo una riunione dei capi della difesa dell’alleanza a Oslo. “Questo significa che non possiamo assicurarci che l’aumento della spesa per la difesa porti effettivamente a una maggiore sicurezza“.
I 100.000 proiettili mensili degli Stati Uniti entro il 2025 significherebbero una produzione di 1,2 milioni all’anno. Un nuovo articolo del NYTimes afferma che la Russia sta già producendo 2 milioni di proiettili. Anche se le mie stime mostrano che questo dato è probabilmente molto più basso della realtà, ma almeno sono sulla strada giusta.
Senza contare che:
I costi di produzione della Russia sono anche molto più bassi di quelli occidentali, in parte perché Mosca sta sacrificando la sicurezza e la qualità nel suo sforzo di costruire armi più economiche, ha detto Salm. Per esempio, la produzione di un proiettile d’artiglieria da 155 millimetri costa a un Paese occidentale dai 5.000 ai 6.000 dollari, mentre alla Russia costa circa 600 dollari produrre un proiettile d’artiglieria da 152 millimetri.
Certo, “sicurezza e qualità” sono le ragioni per cui i proiettili russi sono più economici. La quantità di piviale per salvare la faccia in Occidente è semplicemente mozzafiato. Si tratta di un aumento di quasi il 1000% sui proiettili russi. I proiettili magici della NATO sono del 1000% più “sicuri” ed efficaci di quelli russi? I filmati sul campo di battaglia suggeriscono un clamoroso no.
Come se non bastasse, sembra che gli Stati Uniti stiano affrontando un grave sabotaggio o semplicemente il tipico lento declino di una civiltà decadente ed esasperata. Due giorni fa un F-35 si è schiantato nella Carolina del Sud e le autorità militari hanno dovuto lanciare un imbarazzante appello pubblico per aiutare a trovare l’aereo.
Ma il retroscena più allarmante riguarda le voci di un insabbiamento di ciò che è realmente accaduto. L’incidente presenta molte incongruenze e un esperto di sicurezza informatica sostiene che l’intera suite di sicurezza software dell’F-35 sia stata compromessa:
Green Hills Software produce il sistema operativo Integrity 178B che alimenta gli F-35, F-22, F-16 e B-2. Inoltre, alimenta l’Airbus A380. È anche possibile che sia trapelato. Ora capite perché l’intera flotta aerea dell’USMC è stata messa a terra. Curiosità: l’amministratore delegato di Green Hills Software non è altro che il famigerato odiatore di Elon Musk Dan O’Dowd.
La fuga di notizie sull’audio del controllo del traffico aereo sembra suggerire che l’aereo “zombie” abbia continuato a volare da solo dopo che il pilota si è espulso, il che ha fatto sì che non avessero idea di dove si fosse effettivamente schiantato:
E perché mai un pilota dovrebbe espellersi da un aereo che è ancora in grado di volare a lungo da solo? Sembrerebbe quasi che qualcuno abbia preso il controllo remoto dell’aereo e abbia premuto il pulsante di espulsione.
Le riprese del “campo di detriti” non mostrano alcun segno chiaro, o addirittura poco chiaro, di detriti, e ciò fa pensare alla strana scomparsa dei jumbo jet dell’11 settembre. Sembra anche strano che tutta l’aviazione sia stata bloccata, indicando una potenziale compromissione che riguarda ogni piattaforma:
Lunedì, il Corpo dei Marines avrebbe emesso una sospensione di due giorni per tutte le unità aeree a causa della scomparsa dell’F-35 militare, scomparso dopo che il suo pilota si è espulso in sicurezza a causa di un “incidente”.
Naturalmente potrebbero essere solo speculazioni, ma sembra che ci sia qualcosa di marcio in Danimarca. Se c’è anche solo un briciolo di verità in tutto questo, suggerisce che le forze armate statunitensi hanno cose molto più importanti di cui preoccuparsi rispetto alla loro campagna ucraina in crisi.
E questo è l’aereo che Zelensky sta chiedendo a gran voce?
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La Nigeria ha una storia di interventi militari nella subregione dell’Africa occidentale. Se non fosse per l’attuale clima geopolitico, l’ultimo intervento della Nigeria sarebbe passato in gran parte inosservato da molti commentatori al di fuori della subregione, proprio come è accaduto quando la Nigeria è intervenuta in Liberia (1990, 2003), Sierra Leone (1997), Guinea-Bissau (1999, 2012, 2022) e Gambia (2017).
Uno dei maggiori punti deboli di alcuni commentatori “antimperialisti” nello spazio dei media alternativi è l’assoluta mancanza di sfumature quando si parla di questioni africane.
Gli Stati africani sono spesso visti solo come vascelli sfortunati, soggetti passivi di continue lotte tra potenze straniere per l’influenza – Francia, Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito. Gli africani devono sempre scegliere da che parte stare. O stanno con i “buoni” (Cina e Russia) o con i “cattivi” (USA, Francia, Regno Unito).
Non si cerca mai di capire che anche all’interno dell’Africa alcuni Stati sono più grandi e più avanzati di altri. E questi Stati avanzati hanno enormi interessi regionali da proteggere.
Nel 1998, il Sudafrica è intervenuto militarmente nel vicino Regno del Lesotho per ristabilire l’ordine dopo lo scoppio di rivolte di massa e l’ammutinamento delle forze armate del piccolo regno. Nel 2014, nello stesso Lesotho si è verificato un colpo di Stato. Il Sudafrica ha minacciato di intervenire, ma alla fine non l’ha fatto perché i golpisti sono fuggiti prima dell’intervento previsto, lasciando alla polizia sudafricana il compito di scortare i funzionari esiliati del governo reale rovesciato nel loro Paese per reclamare il potere politico. Perché il Sudafrica ha agito in questo modo? La risposta è: la sicurezza regionale nella più ampia regione dell’Africa meridionale è un interesse nazionale fondamentale del Sudafrica post-apartheid.
I. L’ESEMPIO DELLA TANZANIA:
La Tanzania invase l’Uganda nel 1978, scatenando la guerra Uganda-Tanzania (1978-1979) che eliminò il regime di Idi Amin e riportò al potere il presidente ugandese rovesciato Milton Obote.
Idi Amin era un nemico del Regno Unito e quindi si potrebbe essere tentati di concludere che la Tanzania stesse facendo gli interessi degli inglesi. Ma questa sarebbe la conclusione di una persona che non conosce la situazione della subregione dell’Africa orientale all’epoca.
A quel tempo, c’era un flusso costante di rifugiati ugandesi in fuga dalla crudele dittatura di Idi Amin. Questi rifugiati si riversarono nella vicina Tanzania, creando una crisi umanitaria. Come se non bastasse, il dittatore militare ugandese Idi Amin aveva invaso e occupato il Kagera, una regione di confine con la Tanzania, che secondo Idi Amin era territorio ugandese.
A prescindere da come la si voglia tagliare, la Tanzania ha agito nel suo interesse nazionale, non in quello di Stati Uniti, Israele o Regno Unito. Il socialista Julius Nyerere non era nemmeno vicino al Regno Unito. In realtà aveva trascorso gran parte della sua vita adulta nella lotta anticoloniale nell’Africa orientale sotto il controllo britannico.
Naturalmente, questo non ha impedito al regime di Idi Amin di dipingere Giulio Nyerere come un fantoccio britannico, convincendo così un giovane colonnello Gheddafi a inviare truppe di spedizione libiche in Uganda. Yasser Arafat inviò persino dei combattenti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in Uganda per difendersi dall’invasione dell’esercito tanzaniano.
II. CREAZIONE NIGERIANA DELL’ECOWAS:
La Nigeria è il centro di potere regionale dell’Africa occidentale. È una delle poche in Africa a disporre di un esercito, di un’aeronautica e di una marina formidabili. Nonostante si affidi pesantemente alla Russia e alla Cina per le attrezzature militari, l’esercito nigeriano produce alcuni veicoli blindati leggeri. L’aeronautica nigeriana produce piccoli droni. E la Marina nigeriana produce alcune delle proprie motovedette.
Su questa piattaforma ho pubblicato un video che parla della costruzione di navi militari in Nigeria, un paio di mesi fa:
Dalla fine della guerra civile (1967-1970), durante la quale la Nigeria orientale ha tentato, senza riuscirci, di separarsi dalla Repubblica del Biafra, lo Stato federale nigeriano, vittorioso nel dopoguerra, ha goduto di una grande quantità di profitti petroliferi. Questo ha finanziato il boom edilizio degli anni ’70 in Nigeria e parte del denaro è stato distribuito ai Paesi più poveri della subregione dell’Africa occidentale per acquistare buona volontà. Non ci volle molto perché la Nigeria creasse l’ECOWAS nel 1975 per consolidare la sua posizione egemonica nella subregione.
Durante la guerra fredda, la Nigeria puntò ancora più in alto. Ha concesso borse di studio e documenti diplomatici ai neri sudafricani in fuga dal regime dell’apartheid. Il regime dell’apartheid non riconosceva i sudafricani neri come cittadini e quindi rifiutava loro i passaporti. La Nigeria, insieme ad altri Stati africani, ha rilasciato documenti di viaggio e, a volte, ha concesso cittadinanze e passaporti.
La Nigeria ha anche fornito armi ai namibiani e agli zimbabwesi, anche se non su scala gigantesca come Cina e URSS. L’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki ha vissuto a Lagos City negli anni ’70 come attivista anti-apartheid in esilio a spese del governo nigeriano. Gli attivisti dell’ANC in esilio in Nigeria godevano di simili vantaggi e i loro figli non pagavano le tasse scolastiche, mentre i cittadini nigeriani dovevano pagare l’istruzione dei loro figli.
Nel frattempo, in Africa occidentale, sotto la guida nigeriana, l’ECOWAS si è evoluta da un’organizzazione puramente economica a un’organizzazione con una missione di maggiore integrazione regionale nella sfera politica, educativa e culturale.
Ad esempio, ora esiste un esame regionale standardizzato per il conseguimento del diploma di scuola superiore dell’Africa occidentale (WASSCE) per i giovani che si diplomano alle scuole superiori. Sia che si provenga dalla Costa d’Avorio francofona o dal Ghana anglofono, si sostiene lo stesso esame – anche se in una lingua diversa – e si ottiene lo stesso certificato riconosciuto a livello internazionale come requisito d’ingresso valido per proseguire gli studi in tutto il mondo.
Da allora è stata istituita la libera circolazione e la possibilità di ottenere la residenza in tutti gli Stati membri dell’ECOWAS. Così un ghanese può entrare in Nigeria senza visto e viceversa. Esiste una rete di gasdotti che fornisce gas naturale nigeriano ad alcuni Stati dell’ECOWAS. Esistono anche reti stradali internazionali che collegano questi Stati membri tra loro, per gentile concessione delle imprese di costruzione cinesi.
L’establishment militare e di sicurezza nigeriano si è sempre preoccupato della sicurezza delle frontiere fin dagli anni Settanta e Ottanta. Allora si temeva che i combattenti secessionisti tuareg della Repubblica del Niger violassero il confine internazionale di 1.600 chilometri condiviso con la Nigeria. La Nigeria nutriva preoccupazioni simili anche per una serie di guerre civili che si sono susseguite in Ciad e che avrebbero potuto riversarsi in Nigeria. Anche il coinvolgimento delle truppe libiche di Gheddafi in alcune di queste guerre civili ciadiane era una costante fonte di preoccupazione per la Nigeria.
Anche lontano dai suoi confini, la Nigeria si è sempre preoccupata della sicurezza regionale in Africa Occidentale e questo l’ha portata a intervenire in diversi conflitti: Liberia (1990, 2003); Sierra Leone (1997); Guinea-Bissau (1999, 2012, 2022); Gambia (2017).
L’insurrezione jihadista è diventata per la prima volta un serio problema regionale alla fine degli anni ’90, come conseguenza della guerra civile algerina (1992-2002). Gli insorti jihadisti cacciati dall’Algeria si sono semplicemente trasferiti nelle zone settentrionali del Mali e vi hanno operato.
(c) Relazioni bilaterali tra Nigeria e Repubblica del Niger
La Nigeria utilizza l’ECOWAS, la Commissione del Bacino del Lago Ciad e la Multinational Joint Task Force come strumenti per garantire i propri interessi nazionali. Queste diverse organizzazioni offrono alla Nigeria un forum per discutere della sicurezza delle frontiere con 16 Stati dell’Africa occidentale, 2 Stati dell’Africa settentrionale e 4 Paesi dell’Africa centrale.
Ma la Nigeria utilizza anche le relazioni bilaterali individuali come strumento. Le relazioni bilaterali tra Nigeria e Niger ruotano attorno alla sicurezza.
Il Niger è estremamente povero, anche per gli standard regionali. Per questo la Nigeria fornisce al Niger camion di grano, sovvenzioni monetarie e un po’ di elettricità gratuita. Questa mossa è molto impopolare tra i nigeriani perché la Nigeria stessa non è autosufficiente nella produzione di cibo. Inoltre, i cittadini nigeriani sono obbligati a pagare le bollette elettriche anche durante i periodi di blackout.
Il Niger ricambia la buona volontà della Nigeria collaborando alla sicurezza delle frontiere come membro di tutte e tre le organizzazioni dominate dalla Nigeria: la Commissione del Bacino del Lago Ciad, la Multinational Joint Task Force e l’ECOWAS.
La task force ha fatto progressi nel corso degli anni. Ha respinto i terroristi jihadisti e li ha tenuti confinati nella periferia più settentrionale della Nigeria, nelle aree desertiche e scarsamente popolate del Paese, lontane dalle aree rurali e urbane ben popolate.
Ogni colpo di Stato nella Repubblica del Niger è trattato in Nigeria come un forte allarme antincendio. C’è una buona ragione per cui la Nigeria si è rifiutata di intervenire quando si sono verificati i colpi di stato militari in Mali e Burkina Faso, nonostante le pressioni degli Stati Uniti, ma ora è pronta a buttarsi a capofitto nella Repubblica del Niger e a invertire il colpo di stato prima che degeneri nel solito circolo vizioso di un colpo di stato dopo l’altro, come è tipico di quel povero Paese arido.
La Nigeria non può permettersi di diventare come la Repubblica Centrafricana (RCA), dove gli insorti islamici hanno conquistato il 75% del Paese e massacrato i cittadini, costringendo i suoi leader a implorare l’intervento del presidente francese Hollande nel gennaio 2013.
La Francia aveva chiuso la sua unica base militare in RCA nel 1998. Per questo motivo, non è stato facile intervenire. Prima che Hollande potesse mobilitare le truppe francesi dalla Francia metropolitana e dalle sue basi militari all’estero in Gabon, gli islamisti hanno saccheggiato la capitale Bangui, costringendo l’allora presidente della RCA Francois Bozize ad abbandonare il suo incarico e a fuggire dal Paese il 15 marzo 2013.
Le truppe interventiste francesi sono arrivate nel dicembre 2013, ma hanno ottenuto scarsi risultati. Nell’ottobre 2016, il presidente Hollande ha dichiarato la vittoria e ha ritirato le truppe, abbandonando la RCA al suo destino.
WAGNER GROUP, THE RUSSIAN STATE AND AFRICA: THE PAST, THE PRESENT AND THE (POSSIBLE) FUTURE
Nota importante per i nuovi lettori: Questo autore scrive sempre in inglese britannico (Commonwealth) e le sue grafie riflettono questo fatto.
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A differenza della Repubblica Centrafricana, la Nigeria dispone di un esercito, di una marina e di un’aeronautica adeguati, ma ciò non impedisce loro di preoccuparsi dello scenario da incubo del caos politico nella Repubblica del Niger e del superamento del confine da parte delle orde jihadiste.
Oltre alle potenziali lotte intestine tra gli elementi della giunta militare post-golpe, la storia suggerisce che la rimozione del presidente nigerino Mohammed Bazoum potrebbe portare a una potenziale guerra civile.
Credo che questo sia in linea con la mia analisi secondo cui il Cremlino non ha alcun interesse a mettere la Russia in rotta di collisione diplomatica con la Nigeria.
Ora, permettetemi di parlare del ruolo dei Paesi della NATO…
Sì, Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e Francia stanno spingendo la Nigeria a intervenire, ma stanno già predicando al coro. Anche se tutti e quattro fossero contrari all’intervento, la Nigeria potrebbe comunque farlo.
Non è nemmeno il neoeletto Tinubu a guidare questa vicenda. Sono i servizi di sicurezza e l’establishment militare nigeriano a fare pressione su Tinubu affinché intervenga. Gli Stati della NATO stanno semplicemente aggiungendo la loro voce di sostegno a qualcosa che è già una conclusione scontata.
Non sono riusciti a far intervenire la Nigeria in Mali e in Burkina Faso. Ma questa volta sono sicuri che la Nigeria interverrà in Niger. Gli Stati della NATO sono pienamente consapevoli della complessa rete di interessi che vede i loro desideri di portata globale convergere con l’ossessione della Nigeria per la sicurezza regionale, soprattutto ai suoi confini settentrionali a rischio jihadista.
Nonostante le pressioni degli Stati Uniti sulla Nigeria per un immediato intervento militare, il Presidente Bola Tinubu ha cercato di vedere se la questione potesse essere risolta pacificamente.
In primo luogo, ha inviato degli emissari per informare l’Algeria sulle intenzioni della Nigeria. L’Algeria collabora con la Nigeria per la sicurezza dei confini attraverso la Commissione del bacino del lago Ciad. Entrambi i Paesi stanno inoltre costruendo il gasdotto intercontinentale Nigeria-Algeria (Trans-Sahara), come ho riportato in un articolo del luglio 2022:
Fin dagli anni ’70, i governi nigeriani che si sono succeduti hanno sempre nutrito l’ambizione di fornire gas all’Europa attraverso un gasdotto onshore-offshore che dalla città di Warri, nella Nigeria centro-occidentale, attraversasse la Repubblica del Niger e l’Algeria fino alla Spagna e all’Italia. Questo ambizioso progetto era noto come Gasdotto Trans-Sahariano (TSGP) o Gasdotto Nigeria-Algeria (NIGAL) e…
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In secondo luogo, per volere del presidente Tinubu, l’ex capo di Stato nigeriano Abdulsalami Abubakar e il sultano di Sokoto Muhammad Sa’ad Abubakar III sono stati inviati a tenere colloqui di pace con la nuova giunta militare in Niger. Il diplomatico gambiano Omar Alieu Touray, attuale presidente della Commissione ECOWAS, ha accompagnato i due emissari nigeriani all’incontro.
Il presidente Bola Tinubu ha presentato al Senato federale nigeriano una richiesta scritta di autorizzazione all’uso dell’esercito e dell’aviazione nigeriana per intervenire nella Repubblica del Niger.
Il tentativo della Nigeria di trovare una soluzione pacifica si è arenato perché la giunta militare nigerina ha appena bloccato i membri nigeriani della Multinational Joint Task Force dall’operare in alcune zone di confine in cui i territori dei due Paesi si sovrappongono. L’ambasciatore nigeriano in Niger è stato dichiarato persona non grata.E soprattutto, la giunta militare nigerina ha mancato di rispetto agli emissari nigeriani inviati per risolvere pacificamente la crisi. Pertanto, il presidente Tinubu si è rivolto al Senato nigerino per chiedere l’autorizzazione a iniziare l’intervento militare.Nel frattempo, l’aviazione nigeriana è stata autorizzata a prepararsi ad attraversare lo spazio aereo del Niger in qualsiasi momento. L’esercito nigeriano sta ammassando truppe al confine.
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La candidatura alle primarie democratiche statunitensi di Bobby Kennedy rischia di sconvolgere in ogni caso i già arrischiati piani dei demo-neocon. In caso di successo anche relativo potrebbe annichilire la candidatura di Biden addirittura nelle primarie; rafforzerebbe la convinzione di quella consistente fetta di elettorato democratico, già tradita da Sanders e turlupinata dalle varie Ocasio Cortez, a disattendere la disciplina di partito e ad aderire ad un eventuale terzo partito, in caso di brogli o di sconfitta onorevole di Kennedy. Una situazione che metterebbe a grave rischio l’esito anche di candidature pesanti come quelle di Michelle Obama. Giuseppe Germinario
UN ALTRO KENNEDY NEL MIRINO DEI POTERI FORTI. LA STORIA SEMBRA RIPETERSI.
“Sono molto grato alle mie guardie del corpo che questa sera hanno individuato e bloccato un uomo armato che ha tentato, durante il mio comizio al Wilshire Ebell Theatre di Los Angeles, di accostarmi. L’uomo, che indossava due fondine a tracolla con pistole cariche e caricatori di riserva, portava con sé anche un distintivo degli U.S. Marshals e un tesserino federale nella cintura. Si è identificato come un membro della mia scorta. Gli addetti alla sicurezza si sono mossi rapidamente per isolare e trattenere l’uomo fino all’arrivo della polizia per procedere poi al suo arresto. Sono grato alla polizia di Los Angeles per la loro tempestiva risposta.
Voglio sperare ancora che il Presidente Biden mi conceda la protezione dei servizi segreti. Nella storia sono il primo candidato alla presidenza al quale la Casa Bianca ha negato una richiesta di protezione”.
Il presidente John F. Kennedy fu assassinato il 22 novembre 1963 a Dallas, in Texas. Lee Harvey Oswald fu arrestato e accusato dell’omicidio; lo stesso Oswald fu ucciso prima di poter essere processato. Da allora le teorie su chi avesse realmente commissionato l’assassinio di Kennedy hanno proliferato, ma tutti gli elementi ci portano a credere che fu un’operazione orchestrata da quelli che oggi chiamiamo componenti dello Stato Ombra.
Il fratello del Presidente Kennedy, il senatore Robert F. Kennedy, fu assassinato il 5 giugno 1968 a Los Angeles, California, mentre stava facendo campagna elettorale per la presidenza. È stato ucciso da Sirhan Sirhan, un individuo con “problemi mentali.” Anche qui tutto ci fa credere che sia stata un’operazione orchestrata dai centri occulti dello Stato allo scopo di neutralizzare un altro Kennedy.
Sono passati 55 anni dall’assassinio di suo padre e Robert Kennedy Junior (RFK Jr.), meglio conosciuto come Bobby Kennedy, sembra essere diventato, come lo zio prima e il padre dopo, il bersaglio di quelle stesse entità diaboliche che hanno già colpito in precedenza la sua famiglia. La colpa di Bobby Kennedy? Presentarsi alle elezioni presidenziali sfidando Biden alle primarie democratiche, pur non avendo né il beneplacito dei vertici del partito democratico, né il sostegno dei grandi finanziatori dei politici democratici. Non solo la corsa di Bobby va contro i poteri forti e le direttive dell’establishment politico americano, ma rischia di creare una corrente “MAGA” anti establishment all’interno degli stessi Democratici. D’altronde gli ultimi sondaggi di Rasmussen ci dicono che il 33% dei democratici potrebbe votare per RFK Jr. come candidato. Un quarto degli elettori democratici è favorevole a Robert F. Kennedy Jr. e molti voterebbero per Kennedy se si candidasse come terzo partito nel 2024.
La domanda posta nel sondaggio di Rasmussen agli elettori democratici era la seguente: “Se i candidati alla nomination presidenziale democratica del 2024 fossero Joe Biden, Robert F. Kennedy Jr. e Marianne Williamson, per quale candidato voteresti?“.
Kennedy: 38%
Biden: 34%
Williamson: 4%
Qualcun altro: 14%
Indecisi: 11%
Se questi sondaggi fossero confermati, Biden sarebbe nei guai non solo alle presidenziali in un ipotetico testa a testa con Trump, ma avrebbe difficoltà enormi addirittura alle primarie democratiche.
COSA SAPPIAMO:
Lo scorso 14 Settembre, mentre Bobby Kennedy era intento a pronunciare un discorso a Los Angeles, gli addetti alla sua sicurezza hanno bloccato un uomo armato di tutto punto e munito di distintivo federale (di seguito risultato falso.) Lo hanno trattenuto fino all’arrivo della polizia che lo ha posto in arresto.
PERCHÉ NESSUNA PROTEZIONE DEI SERVIZI SEGRETI?
A luglio, la Casa Bianca ha negato a Bobby Kennedy la richiesta di protezione dei servizi segreti.
“Dall’assassinio di mio padre nel 1968, i candidati alla presidenza sono protetti dai servizi segreti. Ma non io“.
Secondo il sito dei Servizi Segreti degli Stati Uniti, essi forniscono protezione ai candidati presidenziali solo a partire da 120 giorni prima delle elezioni generali, il che significa che RFK Jr. non avrebbe diritto alla protezione fino al luglio 2024.
È importante notare, tuttavia, che a Obama è stata concessa la protezione dei Servizi Segreti all’inizio della sua campagna elettorale, la medesima modalità dello stesso Kennedy, “poiché deve fronteggiare minacce particolari in quanto uomo di colore con una possibilità realistica di diventare Presidente“.
Tenendo conto della storia di assassinii a membri della sua famiglia, la logica ci dice che Bobby Kennedy è in pericolo quanto, se non di più di Obama. La decisione di non dare a Kennedy la scorta richiesta può essere solo inquadrata in un’ottica politica.
CHI È L’UOMO CHE HA CERCATO DI AVVICINARSI A KENNEDY ARMATO DI TUTTO PUNTO?
Come sempre non mancano le teorie complottistiche veritiere o presunte che siano.
Appena la notizia di un tentativo di possibile attentato alla sicurezza di Kennedy si è diffusa, i pochi mass media che hanno riportato la notizia dell’arresto dell’uomo armato al comizio di Kennedy, hanno attribuito l’incidente a un elemento con appartenenze ad ambienti MAGA e con problemi mentali.
In realtà l’uomo è stato identificato come Adrian Paul Aispuro (44 anni).
Appena il giorno prima, il 13 settembre, la moglie del leader del cartello messicano di El Chapo, tale Emma Coronel Aispuro, è stata rilasciata dalla prigione federale. “Possiamo confermare che Emma Coronel Aispuro è stata rilasciata dalla custodia del Federal Bureau of Prisons (FBOP) oggi, 13 settembre 2023“.
Non necessariamente i due eventi sono collegati o connessi; dobbiamo tuttavia tenere presente che non sarebbe la prima volta che lo Stato Ombra (servizi di intelligence) utilizza o collabora con vittime inconsapevoli con problemi mentali, nonché con membri appartenenti al crimine organizzato, per compiere azioni di sabotaggio, false flag e assassini di natura politica ai danni di cittadini americani.
Se RFK Jr. fosse stato assassinato, Adrian Paul Aispuro sarebbe stato il perfetto capro espiatorio. Aispuro potrebbe anche essere imparentato con la moglie del El Chapo, anche lei una Aispuro. In cambio del suo rilascio i cartelli della droga Messicani potrebbero essere stati chiamati in causa e arruolati dallo Stato Ombra per condurre operazioni “sporche” contro nemici politici.
Altra pista da seguire, alternativa e/o complementare alla prima, sarebbe quella della manipolazione della persona con problemi psichiatrici. Al NEW YORK POST, il fratello di Aispuro, Raymond, che lo ha accompagnato all’evento ed è stato anch’egli brevemente arrestato, ha dichiarato che l’intera faccenda è stata un malinteso e che a suo fratello, un operatore sanitario, disoccupato, era stato detto che c’era un lavoro da guardia giurata a disposizione.
Come però Aispuro sia venuto in possesso di un tesserino di membro delle Forze dell’ordine federale e chi abbia chiamato per l’offerta di “lavoro” da guardia giurata all’evento di Kennedy, non è del tutto chiaro e forse mai lo sarà.
Il 31 luglio 2023 Adrian Aispuro aveva pubblicato su TikTok un video minaccioso e delirante nel quale la sua pistola e il suo finto distintivo da sceriffo erano in bella mostra. Possiamo supporre che un’agenzia federale (la CIA? L’FBI?) abbia intercettato enotato quel video; il resto poi viene da sé…Certe entità federali sono maestre di manipolazione…
Se vogliamo confermare la nostra indole complottista la trama potrebbe essere la seguente: Lo stato Ombra arruola Adrian Aispuro (con tanto di corredo di pistole e distintivi falsi) il quale verrebbe selezionato, manipolato e conseguentemente identificato come cecchino di Kennedy. Ad assassinio di Bobby compiuto, il movente più plausibile potrebbe essere la vendetta della banda di El Chapo nei confronti degli Stati Uniti per l’incarcerazione di Emma Aispuro, oppure la stessa instabilità mentale di Adrian Aispuro come causa della “follia omicida”…Alle teorie complottistiche non c’è fine…Di Cesar Sayoc, Sirhan Sirhan e di Adrian Aispuro l’america ne è piena; lo Stato Ombra ha solo l’imbarazzo della scelta.
Allacciate le cinture di sicurezza, perché questa stagione politica si preannuncia incandescente, un giro vertiginoso sulle montagne russe delle elezioni presidenziali a stelle e strisce. E siamo solo all’inizio…
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Entrambe le parti si trovano in un dilemma in base al quale ciascuna ritiene di avere più da guadagnare a livello di interessi nazionali e politici in un’escalation di tensioni piuttosto che essere la prima a smorzarle. Si sta quindi formando un ciclo che si autoalimenta e che rischia di portare a un deterioramento così drastico dei loro legami che l’attuale stato di degrado potrebbe presto essere guardato con affetto.
La rivelazione del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ai media locali, mercoledì scorso, che il suo Paese ha smesso di fornire armi all’Ucraina per armarsi da solo, ha dimostrato quanto siano precipitati i rapporti bilaterali nell’ultima settimana. Varsavia ha esteso unilateralmente le restrizioni sulle importazioni agricole del suo vicino orientale alla scadenza dell’accordo della Commissione europea il 15 settembre, al fine di proteggere i suoi agricoltori, il che ha spinto Kiev a presentare un reclamo all’OMC lunedì.
Più tardi, lo stesso giorno, il portavoce del governo polacco Piotr Muller ha suggerito che Varsavia potrebbe lasciare scadere gli aiuti ai rifugiati ucraini la prossima primavera invece di estenderli, lasciando intendere la volontà di espandere la loro disputa commerciale ad altre dimensioni. Se ciò accadesse, gli oltre un milione e mezzo di ucraini che risiedono temporaneamente in Polonia dovrebbero tornare a casa o andare altrove, ad esempio in Germania. Martedì tutto si è trasformato in una vera e propria crisi politica.
Il ministro polacco degli Affari europei Szymon Szynkowski vel Sek ha minacciosamente avvertito che:
“Le azioni dell’Ucraina non ci fanno impressione… ma fanno una certa impressione all’opinione pubblica polacca. Lo si può vedere nei sondaggi, nel livello di sostegno pubblico per il mantenimento del sostegno all’Ucraina. E questo danneggia l’Ucraina stessa. Vorremmo continuare a sostenere l’Ucraina, ma per farlo dobbiamo avere il sostegno dei polacchi. Se non lo avremo, sarà difficile per noi continuare a sostenere l’Ucraina come abbiamo fatto finora”.
Zelensky ha poi sfruttato il suo pulpito globale all’Assemblea generale dell’ONU per far credere quanto segue:
“Stiamo lavorando per garantire la stabilità alimentare. E spero che molti di voi si uniranno a noi in questi sforzi. Abbiamo lanciato un corridoio marittimo temporaneo per l’esportazione dai nostri porti. E stiamo lavorando duramente per preservare le rotte terrestri per le esportazioni di cereali. È allarmante vedere come alcuni in Europa, alcuni dei nostri amici in Europa, giochino alla solidarietà in un teatro politico – facendo un thriller del grano. Può sembrare che recitino il proprio ruolo, ma in realtà stanno aiutando a preparare il palcoscenico per un attore di Mosca”.
La risposta del presidente polacco Andrzej Duda, condivisa con i giornalisti, ha mostrato quanto fosse offeso:
“L’Ucraina si sta comportando come una persona che sta annegando e si aggrappa a tutto ciò che può… ma noi abbiamo il diritto di difenderci dai danni che ci vengono fatti. Una persona che sta annegando è estremamente pericolosa, può trascinarti negli abissi… semplicemente annegare il soccorritore. Dobbiamo agire per proteggerci dal male che ci viene fatto, perché se la persona che sta annegando… ci annega, non potrà ricevere aiuto. Dobbiamo quindi tutelare i nostri interessi e lo faremo in modo efficace e deciso”.
È in questo contesto che la Polonia ha convocato d’urgenza l’ambasciatore ucraino mercoledì, dopo che Morawiecki ha rivelato che la Polonia non invierà più armi a Kiev. Prima che l’Ucraina si lamentasse della Polonia presso l’OMC, il che ha messo in moto questa rapida sequenza di eventi, le tensioni erano già in ebollizione da tempo, a causa del fallimento della controffensiva che ha fatto passare la sbornia dalla reciproca illusione di una vittoria apparentemente inevitabile sulla Russia.
Queste nazioni vicine hanno quindi iniziato naturalmente a litigare tra loro, in quanto l’intera gamma delle loro differenze preesistenti è stata esacerbata e ha rapidamente rimodellato le relazioni bilaterali. La disputa commerciale era solo la punta dell’iceberg, ma dimostrava che ciascuna parte stava iniziando a dare priorità ai propri interessi nazionali contraddittori a scapito di quelli politici comuni. Questo ha segnalato alle loro società che era di nuovo accettabile prendere di mira l’altro con rabbia nazionalista, invece di concentrarsi esclusivamente sulla Russia.
Tutto questo sarebbe stato evitato, tuttavia, se solo l’Ucraina avesse mostrato un po’ di gratitudine alla Polonia per tutto ciò che Varsavia ha fatto per lei negli ultimi 19 mesi e non si fosse lamentata con l’OMC per la questione del grano. Ancora più grave è stato il fatto che Zelensky abbia infranto il tabù di accusare il suo omologo polacco, che guida uno degli Stati più russofobi della storia, di fare presumibilmente gli interessi geopolitici della Russia. Ha oltrepassato una linea rossa e ora non si può più tornare indietro alla loro illusoria fiducia reciproca.
I legami tra Polonia e Ucraina sono destinati a precipitare ulteriormente nelle prossime settimane, mentre la prima si avvicina alle prossime elezioni del 15 ottobre, che il partito di governo “Diritto e Giustizia” (PiS) spera di vincere facendo leva sulla sicurezza nazionale. Questo spiega perché hanno tagliato le spedizioni di armi all’Ucraina in risposta alle ridicole insinuazioni di Zelensky sul fatto che la Polonia sia un fantoccio russo, ed è possibile che presto seguano altre mosse significative per ricordare all’Ucraina che è in debito con la Polonia per la sua sopravvivenza.
Tenendo conto di questi calcoli, si può prevedere con sicurezza che i legami tra Polonia e Ucraina continueranno a precipitare non prima della metà di ottobre, dopodiché potrebbero riprendersi se l’ultima campagna mediatica dell’opposizione “Piattaforma Civica” (PO) riuscirà a mettere contro il PiS un numero sufficiente di elettori rurali. Sarà una battaglia in salita per loro, e il PiS potrebbe formare un governo di coalizione con il partito anti-establishment Confederazione se non sarà completamente sconfitto, quindi il ritorno al potere di PO non è garantito.
Stando così le cose, c’è una credibile possibilità che i legami tra Polonia e Ucraina possano precipitare ulteriormente nel corso del prossimo anno, soprattutto se il PiS sarà costretto a formare un governo di coalizione con la Confederazione. La prima ha iniziato a nutrire risentimento nei confronti di Zelensky negli ultimi mesi, mentre la seconda è sempre stata contraria al ruolo di primo piano della Polonia nel condurre la guerra per procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina, il che potrebbe portare a una combinazione devastante per Kiev. In una situazione del genere, tutto potrebbe peggiorare, e a un ritmo ancora più veloce.
In assenza di una vittoria del PO alle urne il mese prossimo, l’unica altra variabile che potrebbe realisticamente controbilanciare questo scenario è che Kiev faccia marcia indietro sulla sua minacciata causa all’OMC e che Zelensky mostri finalmente una sincera gratitudine in pubblico per tutto ciò che la Polonia ha fatto per l’Ucraina. Tuttavia, nessuno dovrebbe sperare in questo, poiché si prevede che Zelensky cercherà di essere rieletto la prossima primavera e potrebbe temere che il fatto di tornare indietro sulla sua politica recentemente assertiva nei confronti della Polonia possa fargli perdere il voto dei nazionalisti.
Entrambi i partiti si trovano quindi in un dilemma in cui ciascuno ritiene di avere più da guadagnare a livello di interessi nazionali e politici inasprendo le tensioni che non essendo il primo a smorzarle. Si sta quindi formando un ciclo che si autoalimenta e che rischia di portare a un deterioramento così drastico dei loro legami che l’attuale stato di degrado potrebbe presto essere guardato con affetto. Soprattutto se nel prossimo futuro la Polonia dovesse esercitare più apertamente la sua strisciante egemonia sull’Ucraina occidentale.
Per essere chiari, la sequenza di eventi di cui sopra è lo scenario peggiore in assoluto e di conseguenza non è così probabile, ma non può nemmeno essere esclusa, dato che pochi prevedevano quanto i loro legami sarebbero precipitati solo pochi mesi fa. È innegabile che le relazioni polacco-ucraine siano entrate in un periodo di incertezza che potrebbe durare ancora per un po’, per cui entrambi farebbero bene a preparare le loro società alla possibilità di continue tensioni, in modo da potersi adattare nel modo più efficace a questa realtà geostrategica emergente.
Il Caucaso meridionale può ora consolidarsi in un polo geoeconomico indipendente nell’ordine mondiale emergente, nel quale l’Armenia farebbe bene a integrarsi senza indugio. A tal fine, deve estradare tutti i criminali di guerra, pagare i risarcimenti, sbloccare il corridoio Zangezur e fare pace con l’Azerbaigian.
L’operazione antiterrorismo dell’Azerbaigian all’inizio di questa settimana ha posto fine in modo decisivo al conflitto del Karabakh, durato tre decenni, che finora aveva permesso alle forze straniere di dividere e governare il Caucaso meridionale. L’Armenia, la sua potente lobby della diaspora e i suoi sostenitori online sono furiosi proprio perché speravano di perpetuare indefinitamente quel conflitto precedentemente congelato, ma ora sono costretti ad accettare questa nuova realtà. Lungi dal “genocidio” paventato, ecco cosa ci si può aspettare che accada:
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* Gli sfollati dell’Azerbaigian possono finalmente tornare alle loro case
Gli oltre 1,2 milioni di azeri che sono stati ripuliti etnicamente dalle forze di occupazione armene tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 possono finalmente tornare nelle terre dei loro antenati, dopo il ripristino del controllo di Baku sul Karabakh.
* La riconciliazione, non la vendetta, caratterizzerà gli atteggiamenti dei rimpatriati nei confronti degli armeni locali.
Gli azeri di ritorno sono disposti a riconciliarsi con gli armeni locali rimasti in Karabakh dopo aver accettato di seguire le leggi del governo nazionale, invece di cercare di vendicarsi contro di loro per l’occupazione, poiché sanno che atti di punizione non farebbero altro che macchiare la reputazione del loro Paese.
* Coloro che hanno commesso crimini violenti saranno portati davanti alla giustizia.
Nessuna riconciliazione è possibile con coloro che hanno le mani sporche di sangue, ed è per questo che l’Azerbaigian ha riferito di aver trasmesso una lista di criminali di guerra e simili che chiede di consegnare alla giustizia, il che presumibilmente include la loro estradizione dall’Armenia se sono già fuggiti lì.
* L’Armenia deve pagare i risarcimenti per l’occupazione illegale dell’Azerbaigian durata tre decenni.
A proposito di giustizia, è giusto che l’Armenia paghi i risarcimenti per l’occupazione illegale dell’Azerbaigian durata tre decenni, che ha portato alla completa distruzione di quasi un quinto del territorio di quest’ultimo, senza i quali sarà estremamente difficile e forse impossibile normalizzare veramente i loro legami.
* Ha anche bisogno di attuare pienamente il cessate il fuoco mediato da Mosca a partire dal novembre 2020
Il ripristino delle relazioni bilaterali richiederà anche la piena attuazione da parte dell’Armenia del cessate il fuoco mediato da Mosca a partire dal novembre 2020, in particolare l’ultimo paragrafo che obbliga l’Armenia a sbloccare i collegamenti economico-trasportistici regionali, compreso quello con il Nakhchivan che sarà protetto dalle guardie di frontiera russe.
* Il Corridoio Zangezur è la migliore speranza per il futuro economico dell’Armenia
L’ultimo collegamento economico-trasportistico citato è noto in Azerbaigian come Corridoio Zangezur ed è la migliore speranza per il futuro economico dell’Armenia, che potrà trarre profitto dal commercio azero-turco lungo questa rotta e ritagliarsi una propria nicchia di valore aggiunto tra i due, se sarà sufficientemente intraprendente.
* La Russia continuerà a incoraggiare l’Armenia a raggiungere un accordo di pace con l’Azerbaigian
Nell’ultima telefonata con il suo omologo azero Ilham Aliyev, il Presidente Putin ha confermato che la Russia continuerà a spingere per una pace formale nella regione e il comunicato stampa ufficiale del Cremlino ha specificamente menzionato che Mosca vuole lo sblocco dei collegamenti di trasporto regionali, cioè il Corridoio Zangezur.
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Come si può vedere, la giustizia e lo sviluppo seguiranno la fine del conflitto del Karabakh, non il “genocidio” come l’Armenia e i suoi agenti di guerra informativa hanno falsamente paventato per giustificare l’ingerenza americana. Il Caucaso meridionale può ora consolidarsi in un polo geoeconomico indipendente nell’ordine mondiale emergente, nel quale l’Armenia farebbe bene a integrarsi senza indugio. A tal fine, deve estradare tutti i criminali di guerra, pagare i risarcimenti, sbloccare il corridoio di Zangezur e fare pace con l’Azerbaigian.
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IL NUOVO PIVOT TO INDIA. Al G20 appena tenutosi a Delhi, si è manifestato il sempre più nuovo assetto del mondo multipolare. Il protagonista assoluto è stato il padrone di casa Modi a capo del più popoloso paese del mondo, per ora quinta ma presto quarta economia del mondo in Pil assoluto.
La prima sorpresa è arrivata qualche giorno fa con l’invito spedito ai 19 altri leader a nome del Presidente della Repubblica di Bharat. Magari qualcuno si sarà domandato che affare fosse questo Bharat. Si tratta del vecchio termine sanscrito per più o meno quella che conosciamo tutti come India.
L’anno prossimo l’India va ad elezioni e, come qui segnalato, Modi si troverà contro una coalizione di ben 26 partiti con a capo l’ennesimo Gandhi, la coalizione si chiama Indian National Developmental Inclusive Alliance cioè I.N.D.I.A. Così, il furbo ultranazionalista, sta buttando lì il nuovo nome che fa nazione, tradizione e radici, dicendo che India è il nome coloniale che la nuova potenza rigetta. Bel colpo! Non è detto che il cambio di nome diventi definitivo, ma la mossa c’è ed è brillante e tradisce tutta la nuova ambizione del subcontinente.
A seguire, la rinuncia di Xi di recarsi al vertice che ovviamente segna anche l’assenza di Putin. Nel caso di Xi, motivi ignoti, speculazioni varie.
Si arriva così al vertice di sabato con non poche divergenze e tensioni dovute al fatto che l’India, come ha fatto per il vertice BRICS, non vuol sentir parlare di geopolitica ma solo di affari, sviluppo, cooperazione, clima e quant’altro dell’agenda mondo in senso multilaterale. Americani ed occidentali, invece, pretendevano l’esplicita condanna della Russia per la guerra in Ucraina. La stessa cosa s’era verificata al G20 di Bali in Indonesia e s’era rischiato, per la prima volta dalla nascita del formato nel 1999, di arrivare ad un passo dal chiudere il vertice senza dichiarazione congiunta, eventualità minacciata anche questa volta.
Nel frattempo, secondo impegno preso già alla riunione BRICS in allargamento, Modi ha invocato la cooptazione dell’Unione Africana nel formato, la seconda unione dopo l’UE, probabilmente non l’ultima. Adesione per acclamazione, il formato diventa G21, entusiasmo del presidente sudafricano lì già come G20 che aveva perorato la causa per l’intero continente, Modi s’è fatto un nuovo amico e sviluppa la sua strategia di diventare il paese leader del Global South.
Ma al vertice, Biden era arrivato anche con un bel pezzo di formaggio per il topo. Si tratta di una nuova linea intermodale che dovrebbe collegare via nave Mumbai con gli Emirati, qui si passa a ferrovia che poi va in Arabia Saudita, Giordania ed arriva in Israele ad Haifa pronti per risalire in nave e giungere ad Atene/Europa. Sette giorni risparmiati rispetto alla rotta marina, nonché i rischi di futuri problemi a Suez evitati per sempre. La cosa in realtà era nota da tempo, poiché s’è formato un nuovo format I2U2 (ovvero India e Israele e UAE ed USA) che già da un anno studiava il piano di una nuova amicizia euro-indo-abramitica. Nel progetto c’è anche l’UE e comprende energia, tlc, idrogeno, tecno-cooperazione varia. Colpo contro il monopolio strategico infrastrutturale della Via della Seta, normalizzazione americana delle relazioni con i sauditi dopo il grande freddo che aveva generato il grande caldo con i cinesi e gli iraniani (sauditi a cui si prometterà anche l’ok per lo sviluppo del nucleare civile), piattino da portare a Tel Aviv in cambio di altrettanta normalizzazione dei rapporti con i palestinesi, carta questa da giocarsi eventualmente l’anno prossimo per le elezioni americane.
Lo scaltro Modi deve aver chiuso Biden nello stanzino dicendogli: “amico, delle due l’una, o la pianti con sta lagna dei russi in Ucraina ed io ti firmo l’adesione al “chemin de fer” o se insisti chiudiamo senza accordi, senza dichiarazione, fai fallire il vertice a casa mia ed io lo segno nel quaderno -gravi sgarbi da vendicare-“. Poiché l’India o il Bharat, andrà avanti fino a che non ha ottenuto il seggio al Consiglio di Sicurezza e sta diventando perno di equilibrio del nuovo gioco multipolare, meglio prendere che lasciare.
Ne esce così la dichiarazione finale già sabato, accenno anche più vago di quello di Bali alla guerra in Ucraina, condannata, esecrata, citata per i gravi contraccolpi alle reti economiche planetarie, senza citare i russi (per altro Modi aveva rimbalzato la solita richiesta americana di ospitare capitan Ucraina già a monte), dichiarazione approvata all’unanimità, Mosca contenta, Kiev no. Dopo il papa filorusso ed i BRICS, ora a Kiev schifano pure il G20, chissà magari qualcuno dovrebbe realisticamente trarne delle conseguenze…
Ma a lato, anche accordo indo-abramitico con MBS e soci fatto. A Pechino, ovviamente, non l’hanno presa bene, dopo tutta la fatica fatta per pacificare la regione! Ci manda solo il nucleare civile a Riyad sì e Teheran no. Nonché il doppio-triplo gioco anche già all’interno dei BRICS appena allargati.
Occorre però sempre considerare che tra i dire ed i fare c’è sempre mare, magari ondulato. US che notoriamente quanto ad infrastrutture di questo tipo stanno a settanta anni fa, ci mette il peso geopolitico e forse spremerà un po’ di Banca mondiale. L’UE non ha un euro e comincerà con la solfa del contributo attivo delle imprese (soprattutto francesi, italiane, tedesche) perché non avendo stato c’è solo il privato. Sauditi ed emiratini dovrebbero esser effettivamente sia interessati che capienti. Gli indiani, capienti proprio no. A parte che sono impegnati in analogo progetto via Iran per arrivare in Russia e secondo me, presto, li vedremo oltreché sulla Luna in Africa orientale, l’India rimane il 144° paese per Pil pro-capite, tra Ghana e Pakistan. Ha una lista di investimenti interni necessari che va via di pagine e pagine.
In più, nel progetto c’è un doppio bug. Primo, se il progetto è condizionato a trovare la quadra coi palestinesi mi sa che il binario diventerà del tipo binario 9 e 3/4 del Hogwarts Express di Harry Potter. Ma c’è anche un problema già sollevato alla prima riunione dei I2U2 ovvero l’Egitto. Sauditi ed emiratini, specie se poi c’è Israele di mezzo, non faranno nulla se non c’è anche Il Cairo, questioni di equilibrio islamico inaggirabili. E l’Egitto sta nei nuovi BRICS su esplicito invito russo.
Tuttavia, nel nuovo mondo multipolare, anche il dire con poi un difficile fare, ha comunque un suo valore. Bisogna vedere difficile quanto, tutto entra in tavoli molto grandi in cui ci sono accordi bilaterali, multilaterali, nomine nelle grandi istituzioni globali, collaborazioni militari, tecnologiche, investimenti, stazioni spaziali, insomma partite lunghe e complicate. Il segnale a Pechino comunque è partito, chiaro e forte. Sebbene certo che a Pechino la cosa era diplomaticamente nota in anticipo e magari è proprio per evitare di guardare i cinque nuovi amici sorridenti alla foto opportunity, che Xi ha preferito rosicare a casa.
Comunque, il G21 con il suo 85% di Pil ed il 75% di global trade, si candida ad essere l’istituzione che media tra G7, BRICS e tutti gli altri principali nuovi attori. La prossima presidenza sarà brasiliana. Biden ora vola in Vietnam mentre il cinese Li Qiang, prima di Delhi ha fatto scalo a Jakarta (Indonesia) con cui i cinesi tessono tele molto fitte. Modi può sorridere.
Quanto all’India, c’è da dire che da una parte la posizione di perno mediano può esser molto fruttuosa, dall’altra espone molto e richiede doti strategico-diplomatiche molto fini. In patria, Modi ha fatto coalizzare dai dravidici ai musulmani ai marxisti leninisti, è un Paese pieno di contraddizioni. Modi deve allargare il raggio d’azione indiano per garantirsi anni di crescita sostenuta, altrimenti le contraddizioni interne potrebbero prendere il sopravvento.
Quanto al G20, pare che Modi abbia fatto esplicito fronte con Brasile, Sud Africa, Indonesia ed altri per ricondurre USA-UE a stare nel gioco degli equilibri planetari. Ad USA-UE si presenta, in prospettiva, un dilemma. Se pretenderanno troppo non otterranno nulla, se non staranno ben equilibrati nel G20, gli altri si butteranno nei BRICS. Ma la di là dei giochi societari e dei pesi di potenza, lo stato del mondo è chiaro, la stragrande maggioranza del mondo ha bisogno di pace, commercio ed investimenti, ha bisogno di crescita e sviluppo in modo necessario. Chi perturba troppo ed unilateralmente questa convenzione dell’interesse ultra-maggioritario, si mette contro quattro quinti del pianeta, decisamente un cattivo affare.
In effetti, com’è nella logica dei sistemi multipolari, sarebbe l’era del grande ritorno della diplomazia (vecchio pallino dell’acuto Kissinger) e della tessitura di intricate reti di accordi, legami, trame, idea che per altro piacerebbe molto anche agli europei. Si può competere, ma è meglio non confliggere.
Tuttavia, sull’intero ordine planetario incombe il problema da una parte degli indici asimmetrici di crescita (relativamente facile per i paesi in via di sviluppo, sempre più difficile per i paesi ipersviluppati) ad un certo punto le chiacchiere vanno a zero e contano i soldi che girano o meno (ultimamente ne girano meno), dall’altra il problema del travaso dei pesi di potenza conseguente, sul terzo lato i limiti eco-ambientali della casa comune.
Trovare soluzioni alla difficile quadra (che poi è un triangolo) ci darà un mondo nuovo che però cambierà molto le nostre vite occidentali, non trovarla potrebbe portare a più severe conseguenze. Vedremo nei prossimi anni e forse decenni.
[Su varia stampa occidentale, il vertice è stato commentato più per le ombre che per le luci. Chissà, forse avranno bisogno di un po’ di tempo per capire meglio dove va il grande gioco del mondo. Da quando hanno dismesso la funzione di pensiero autonomo per diventare l’Ufficio Stampa e Propaganda di Washington, la lucidità latita]
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LA CONFUSIONE DI GIULIANO AMATO E LA RICERCA DELLA VERITA’ SULLA STRAGE DI USTICA
di Luigi Longo
Giuliano Amato, intervistato da Simonetta Fiori sulla strage di Ustica (nella quale il 27/6/1980 morirono 81 persone) per “La Repubblica” (intervista apparsa il 2/9/2023 con il titolo Ecco la verità su Ustica. Macron chieda scusa) ha dichiarato: a) «La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario»; b) «Purtroppo sì. E questo non dovrebbe accadere perché la Nato sta dentro l’articolo 11 della Carta, quindi dovrebbe operare in modo da realizzare pace e giustizia fra le Nazioni. Qui invece cosa è successo? Un apparato costituito da esponenti militari di più paesi ha negato ripetutamente la verità pensando che il danno sarebbe stato irrimediabile per l’alleanza atlantica e per la stessa sicurezza degli Stati. E quindi tutte queste persone hanno coperto il delitto per “una ragion di Stato”, anzi dovremmo dire per “una ragion di Stati” o per “una ragion di Nato”. In base alle regole della ragion di Stato, il crimine forse sarebbe stato meno grave se fosse stato soppresso il leader libico, che era l’obiettivo dell’azione militare. Ma invece sono stati uccisi ottantuno innocenti passati lì per caso. E quindi resta un delitto gravissimo»; c) «Mi chiedo perché un giovane presidente come Macron, anche anagraficamente estraneo alla tragedia di Ustica, non voglia togliere l’onta che pesa sulla Francia. E può toglierla solo in due modi: o dimostrando che questa tesi è infondata oppure, una volta verificata la sua fondatezza, porgendo le scuse più profonde all’Italia e alle famiglie delle vittime in nome del suo governo. Il protratto silenzio non mi pare una soluzione».
Perché Giuliano Amato, uomo di potere (braccio destro di Bettino Craxi, deputato, ministro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Presidente del Consiglio, giudice e presidente della Corte Costituzionale, uscito indenne, insieme al PCI e alle sue metamorfosi degenerative, da Mani Pulite) rilascia questa intervista, dopo 43 anni dalla strage che, ricordo, non ha ancora un colpevole (ci sono ancora 18 documenti non declassificati) (Massimo Nesticò, Sette documenti Difesa su Ustica nonancora declassificati, www.ansa.it, 15/9/2023), nella quale sostanzialmente non dice niente di nuovo ma afferma chiaramente che la Francia è la responsabile della strage di Ustica? Già Francesco Cossiga, Presidente del Consiglio all’epoca della strage, nonchè Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992, aveva detto (nel febbraio del 2007) che ad abbattere per errore il DC9 dell’Itavia sarebbe stato un missile francese. Queste le affemazioni di Francesco Cossiga davanti ai giudici «Il capo del Sismi, ammiraglio Martini, da me interpellato confermò di aver fornito questa informazione a Giuliano Amato e precisò che l’aereo francese aveva in realtà come missione l’abbattimento di un aereo che trasportava il colonnello Gheddafi». E aggiunge: «Ricordo anche che insieme all’ammiraglio Martini considerammo a tal proposito, la circostanza che un radar italiano aveva “battuto la traccia” sulla diagonale di Olbia; questa circostanza, infatti, rendeva plausibile che l’aereo fosse partito da una portaerei». «Chiesi all’ammiraglio Martini come avesse saputo queste cose e lui mi rispose che queste informazioni giravano negli ambienti dei servizi» precisa l’ex presidente, che fornisce altri particolari. «L’ammiraglio durante il nostro colloquio mi riferì anche che sembrava che il pilota francese si fosse suicidato, dopo aver appreso che l’aereo che aveva colpito era in realtà un aereo civile italiano. Chiesi all’ammiraglio se avesse chiesto informazioni ai francesi sul punto, ma lui mi rispose di no in quanto i francesi non gli avrebbero dato alcuna spiegazione o informazione» (Lirio Abbate, Quarant’anni di depistaggio. La verità senza colpevoli, “La Repubblica”, 2/9/2023). Alle stesse conclusioni era arrivato anni prima (1990) il deputato di Democrazia Proletaria Luigi Cipriani, componente della Commissione stragi che si batté con impegno, caparbietà e passione durevole per la ricerca della verità, sia dentro la Commissione che fuori, incontrando grande difficoltà insieme all’amarezza della solitudine della sua ricerca. Luigi Cipriani produsse un dossier sul caso, inquadrando il ruolo della Libia di Mu’ammar Gheddafi, nel Mediterraneo e nel continente Africa, che disturbava le strategie statunitensi in una fase pre-multicentrica, delicata per i nuovi equilibri mondiali che si metteranno in moto con l’implosione dell’ex URSS (1990-1991) e le trasformazioni della Nato; in secondo piano c’erano la tensione tra la Libia e la Francia sul Ciad e il deterioramento del rapporto tra la Libia e l’Italia a seguito dell’incidente della Secca della Medina (dove una piattaforma della Saipem, impegnata in ricerche petrolifere per conto di Malta, venne attaccata dalla Marina libica) (il dossier è riprodotto in Aa.Vv, Quel Marx di san Macuto, Fondazione Luigi Cipriani, Milano, 1993, pp.113-209; si veda, sul sito della Fondazione Luigi Cipriani, il suo intervento su Ustica e Bologna, il grande imbroglio).
La sentenza-ordinanza del giudice istruttore, Rosario Priore, terminata nel 1999, chiarisce che la causa della distruzione del DC9 è da attribuire ad una azione esterna:<< Certo se la caduta dell’aereo civile è stata determinata da quasi collisione, che ha cagionato la rottura dell’ala di sinistra, cui è conseguito quel break up che s’è descritto dai periti di Ufficio, Misiti e gli altri successivamente alla ipotizzata da loro esplosione, e da Casarosa e Held più di recente ed in modo completo, a partire cioè dal sorpasso stesso; la causa diretta dell’evento sarebbe la condotta del pilota dell’aereo sorpassante, ma questi che di certo ha agito mosso non da dolo diretto, non può non aver previsto la quasi collisione con il velivolo civile i cui ben conosceva la posizione dal momento che volava proprio approfittando della sua ombra radar. Lo ha sorpassato accettando questa eventualità. Ma quand’anche si versasse nell’ambito di questo dolo, la sua condotta sarebbe stata pur sempre determinata da un’esigenza di difesa da un attacco più che probabilmente mortale.
Quanto al dolo di coloro che attaccavano è difficile accertare se essi abbiano agito solo nell’intento d’inseguire o colpire il velivolo nella scia, certamente non civile, o se avendo di certo visto, direttamente o a mezzo radar il nostro DC9, ne abbiano previsto la possibilità del danno e l’abbiano accettata.
Non diverse le conclusioni anche se la caduta è stata determinata da una qualche esplosione esterna, come di missile a prevalente effetto di blast; così come descritto dai consulenti di parte civile. In questo caso si tratterebbe di vera e propria aberratio ictus. Resterebbe perciò comunque la strage, secondo il diritto interno. Ma l’azione è principalmente un atto di guerra, guerra di fatto non dichiarata – com’è d’abitudine da Pearl Harbour in poi, sino all’ultimo conflitto nei Balcani – operazione di polizia
internazionale, di fatto spettante alle grandi Potenze, giacchè non v’era alcun mandato in questo senso; azione coercitiva non bellica esercitata lecitamente o illecitamente, da uno Stato contro un altro; o atto di terrorismo, come poi s’è voluto, di attentato a un capo di Stato o leader di regime >> (Sentenza-ordinanza del Giudice Istruttore Rosario Priore depositata il 31/8/1999, www.stragi80.it/doc/la-sentenza-ordinanza-del-g-i/, capitolo 7, pag. 4965). Per Rosario Priore, quindi, il DC9 è stato abbattuto: “è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto”.
Di più non si poteva dire per il blocco di potere che faceva capo alla Nato che è l’illegalità fatta legge dagli Stati Uniti (alla faccia della separazione dei poteri e della sovranità nazionale!).
Ricordo che siamo nella fase pre-multicentrica, fine anni ‘70 inizio anni ’80, che anticipa la fase monocentrica con coordinamento mondiale degli Stati Uniti; la durata di tale fase, per nostra fortuna, è finita nel 2011 (è tutta da riscrivere la storia perché in Italia accadono cose che apparentemente sono slegate ma che appaiono, oggi, intrecciate: la seconda guerra della mafia, il ruolo delle Brigate rosse, l’uccisione di Aldo Moro, le trame di potere dei Servizi segreti, l’istituzionalizzazione del dissenso, la fine della tolleranza democratica degli Usa, il ruolo di Mani Pulite nel cambio della servitù agli Usa).
E’ nel 2011, con la strategia statunitense di distruzione della Libia (con la barbara uccisione di Mu’ammar Gheddafi) e il tentativo non riuscito della distruzione della Siria, che si entra nella fase multicentrica, con l’ascesa delle potenze mondiali di Cina e Russia (Daniele Ganser, Le guerre illegali della Nato, Fazi editore, Roma, 2022, in particolare sulla Libia pp. 365-398 e sulla Siria pp. 455-524). Faccio notare che la Francia è stato lo strumento degli Usa, via Nato, [sia nel 1980 (fase pre-multicentrica) sia nel 2011 (fase multicentrica)] usato per la eliminazione di Mu’ammar Gheddafi perchè gli interessi economici francesi si incastravano nelle strategie degli Stati Uniti che vedevano (come ho evidenziato in scritti precedenti) in Mu’ammar Gheddaffi un leader che ha portato la Libia ad essere una nazione superando le divisioni tribali; per averla fatta diventare la nazione sovrana più importante dell’Africa; per aver costruito una strategia di sviluppo non dipendente soltanto dalle risorse energetiche; per le sue azioni politiche ed economiche intraprese in Medio Oriente; per il ruolo svolto nella costruzione dell’Unione Africana (gli stati uniti d’Africa) con obiettivi strategici di autodeterminazione e di costruzione di un polo geopolitico sovrano come il continente africano, con una sua moneta, un fondo monetario africano, una banca centrale africana; per il suo anticolonialismo.
La strage di Ustica nel 1980 (fallito tentativo di assassinare Mu’ammar Gheddafi) e la distruzione della Libia nel 2011 (con l’assassinio di Mu’ammar Gheddafi) hanno come filo conduttore le strategie statunitensi nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nell’Africa, per i nuovi equilibri mondiali che si intravedevano nella fase pre-multicentrica (implosione dell’ex Urss) e si concretizzano nella fase multicentrica (ascesa di Cina e Russia come potenze mondiali): tutto torna ma in maniera diversa!
Quindi Giuliano Amato crea volutamente confusione quando sostiene che fu la Francia la responsabile della strage di Ustica, ben sapendo che furono gli Usa, via Nato, i mandanti del tentativo di uccidere Mu’ammar Gheddafi che provocò la tragedia di Ustica. La Francia è stata la serva, per i propri interessi soprattutto economici nella Libia a scapito della povera Italia, che ha eseguito l’ordine di abbattere Gheddafi nel 1980 (non riuscendoci) e contribuendo alla sua fine nel 2011. La Nato non coprì il massacro di Ustica con il silenzio, ma è stata la mandante del tentativo di assassinare Mu’ammar Gheddaffi. Quando si dice la Nato si intendono gli Usa!
Allora perché Giuliano Amato attacca la Francia? Non sarà certo perché rappresenta una Italia autorevole e sovrana che difende i suoi interessi nei nuovi equilibri che si andranno a consolidare nella fase multicentrica tra le potenze mondiali, ma sicuramente perché è al servizio dei centri strategici statunitensi che vogliono un forte ridimensionamento della Francia in Europa ed in Africa con la speranza che agli interessi di parte dei sub-decisori italiani venga riconosciuto un ruolo avanzato nella servitù.
Pertanto, in questa logica, avanzo alcune ipotesi da verificare ed approfondire, che riguardano: 1) la messa in discussione del Trattato del Quirinale tra Francia e Italia non più attuabile così come non è più attuabile il Trattato tra la Francia e la Germania sulla cooperazione e integrazione franco-tedesca per promuovere l’unità, l’efficienza e la coesione dell’Europa (sic). L’Europa non esiste più, è la Nato lo strumento di coordinamento europeo degli Usa che usa i luoghi istituzionali europei per realizzare, attraverso la gestione e l’esecuzione degli agenti strategici sub-dominanti, le strategie dei dominanti statunitensi; 2) il ridimensionamento della Francia (ritenuta non più affidabile dagli Usa) nell’Africa, che è diventata un continente importante nel conflitto strategico tra le potenze mondiali della fase multicentrica; 3) le relazioni ambigue di Emmanuel Macron con la Cina e con il Brics; 4) la definitiva chiusura per un ruolo determinante della Francia in Europa-Nato, così come è stato per la Germania. La fine del progetto statunitense dell’Unione Europea con la sostituzione della Nato a coordinamento delle nazioni europee ha comportato la inutilità dei coordinatori europei (la Germania per la sfera economica, la Francia per la sfera militare); 5) il conflitto interno tra i sub-decisori (si pensi a Giuliano Amato e a Mario Draghi due figure inquietanti per lo sviluppo del nostro povero Paese) per una migliore garanzia di servitù ai desiderata degli Stati Uniti sia direttamente sia indirettamente (via Nato). L’ultimo esempio della revoca del Memorandum sulle Vie della Seta tra Cina e Italia è significativo. E’ proprio da stupidi uscire dall’unico grande progetto di respiro mondiale.
E’ di grande attualità la riflessione di Dante Alighieri sull’Italia << Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! >> (Dante Alighieri, La divina commedia. Purgatorio, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1975, pp. 125-126), così come lo è quella di G.W.F. Hegel << In questo periodo di sventura, quando l’Italia correva incontro alla sua miseria ed era il campo di battaglia delle guerre che i principi stranieri conducevano per impadronirsi dei suoi territori, ed essa forniva i mezzi per le guerre e ne era il prezzo; quando essa affidava la propria difesa all’assassinio, al veleno, al tradimento, o a schiere di gentaglia forestiera sempre costose e rovinose per chi le assoldava, e più spesso anche temibili e pericolose […] quando tedeschi, spagnoli, francesi e svizzeri la mettevano a sacco ed erano i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione […] >> (Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di, Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp.246-247).
Nel ricordare, con Gyorgy Lukacs, che la stupidità e la disonestà si manifestano anzitutto nell’adattamento dei sentimenti e delle idee alla infamia della realtà sociale, concludo questa breve riflessione affermando che l’onta non pesa direttamente su Parigi ma su Washington! Non è Emmanuel Macron che deve chiedere direttamente scusa, nè Joe Biden che deve assumersi la responsabilità dell’assassinio di 81 persone innocenti che si sono trovate nel momento sbagliato al posto sbagliato, ma è Giuliano Amato che invece di chiedere le scuse di Emmanuel Macron dovrebbe ricercare la verità che esige una scelta di campo e una lotta al potere illegale della Nato, cioè, degli Usa. Altro che scuse!
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