LA RIVINCITA _ EN MARCHE, di Giuseppe Germinario

Il colpo clamorosamente fallito sette mesi fa a Washington, negli Stati Uniti, è perfettamente riuscito questa volta, il 7 maggio, a Parigi. Almeno per adesso.

Gli artefici dei due eventi appartengono, fatte salve le dovute gerarchie, allo stesso establishment. La compattezza del sodalizio è apparsa lampante al momento della sconfitta della Clinton; così pure la complicità e la simbiosi inestricabile di quel groviglio di affinità ed interessi svelate dai ripetuti attacchi del tutto inusitati nella loro forma e natura e dal muro eretto dalle due sponde dell’Atlantico contro il neopresidente americano.

Nessuna giustificazione a posteriori delle repentine ed improvvide giravolte di Trump; piuttosto una semplice constatazione.

A novembre l’inaspettata vittoria di “the Donald” aveva potuto contare sulla supponenza di una classe dirigente sicura del proprio totale controllo dei media tradizionali e sull’accondiscendenza e la complicità delle gerarchie addomesticate dalle epurazioni perpetrate negli ultimi venti anni tra gli alti gradi militari, negli apparati amministrativi e nell’intelligence e culminate nell’apoteosi degli ultimi sei di amministrazione Obama; tanto supponente da riproporre imperterrita una vecchia guardia ormai logorata. Una élite talmente tronfia da tollerare l’ascesa di un outsider alle primarie repubblicane nella convinzione che fosse il miglior nemico da battere alle presidenziali; vittima sacrificale più o meno inconsapevole sull’altare della sacra alleanza tra esportatori di diritti umani e interventisti militari fautrice dei numerosi focolai di guerra sempre più pericolosamente prossimi al nemico dichiarato: la Russia di Vladimir Putin. Una sicumera che ha accecato la loro mente e reso invisibile sino ad un paio di settimane dalla scadenza elettorale l’azione coordinata di un manipolo di “carbonari cospiratori”. Tanto limitato nel numero quanto compatto e sagace nello sfruttare ogni interstizio ed ogni crepa di quel moloch per scovare una improbabile candidatura, nello stringere i giusti contatti tra le pieghe degli apparati insofferenti ed esasperati da quella strategia, nel canalizzare con nuovi strumenti il consenso a un nuovo corso sino al successo finale di Trump.

Quanto quel successo si sia rivelato al momento e per il prossimo futuro effimero e foriero di un trasformismo che sta riconducendo rapidamente lo scontro politico nell’alveo e nelle ambizioni tradizionali della politica americana, pare ormai probabile; non basta però a ridimensionare la rilevanza di quell’impresa. Lo testimonia l’acutezza dello scontro ancora in atto dal giorno del suffragio e la inusitata trasparenza di un conflitto che in altri frangenti si ha solitamente cura di condurre dietro le quinte. Segno che i giochi non sono ancora conclusi, né tanto meno il risultato consolidato. Qualche avvisaglia di un ritorno alle intenzioni originarie infatti lo si coglie nella rimozione del capo del FBI, nella decisione di armare i curdi, nella gestione dell’esito elettorale in Corea del Sud favorevole ad una maggiore apertura a Cina e NordCorea. Staremo a vedere.

Con Macron, invece, è filato tutto meravigliosamente liscio.

La Francia di Le Pen e forse di Fillon avrebbe potuto diventare quella sponda necessaria a recuperare almeno alcuni aspetti delle originarie intenzioni in politica estera dichiarate a piena voce da Trump; a costruire un ponte stavolta più discreto verso la Russia di Putin, ad isolare quella classe dirigente tedesca così implicata e imbrigliata nelle strategie demo-neocon americane. Una evenienza da scongiurare assolutamente, secondo i canoni del politicamente corretto.

Da qui la selezione di un candidato, fresco di età e di esperienza sulla scena politica, ma già navigato nella tessitura di relazioni; da qui il suo repentino distacco dalla gestione presidenziale di Hollande, l’apparente ripudio della tradizione politica della sinistra socialista e della destra repubblicana conservatrice e la fondazione di un movimento di rinascita nazionale basato sull’iperattivismo e l’esasperazione delle attuali politiche di declino piuttosto che su un reale programma di rifondazione del paese e della nazione.

Agli evidenti impacci di gioventù del neofita ha sopperito per il resto l’incensamento mediatico orchestrato dai gruppi editoriali, tutti, ancor più che nella precedente avventura americana, direttamente implicati nella campagna elettorale e impegnati nella costruzione del personaggio come nel censurare apertamente sin dalla fonte le informazioni controproducenti. Ad essi si è aggiunta una sottile campagna giudiziaria tesa a eliminare l’avversario più pericoloso, Fillon, per quanto scialbo e improvvido, e a insinuare il discredito verso Marine Le Pen, la candidata vincente al ballottaggio, ma con ancora sulla fronte il marchio pur sbiadito dei collaborazionisti, dei traditori della Resistenza e della Repubblica e del razzismo da additare agli indignati o sedicenti tali.

Il successo di Macron è incontrovertibile, ma non così schiacciante e solido come la percentuale dei voti e il battage mediatico lascerebbero intendere. Non va sottovalutata la capacità di aggregazione e di ricomposizione degli interessi, ma nemmeno la loro fragilità e scarsa pervasività.

Ci sarebbero i milioni di schede bianche e nulle a certificare che il muro non è più così granitico e che tra i due schieramenti esiste ormai una zona grigia contendibile o quanto meno neutrale.

Buona parte dei voti presi, a dispetto dell’ostentata positività di Macron, sono voti contro l’avversario piuttosto che a lui favorevoli; disponibili probabilmente a rientrare in qualche misura nell’alveo classico dei vecchi partiti e ad alimentare una frammentazione politica propedeutica alla paralisi e allo stallo.

Il sostegno proviene da un movimento, “en marche”, dalle scarse probabilità di diventare una forza strutturata, mosso da motivazioni generiche; l’humus destinato a alimentare uno scontro di oligarchie tanto agguerrite quanto ristrette, rissose e instabili perché svincolate dalla ricerca di consensi organizzati estesi. Una dinamica che porta a sconvolgere le modalità di cooperazione e conflitto tra centri di potere così come regolate.

La grande stampa ha già iniziato ad evidenziare il gaullismo di Macron dimenticando che l’ascesa di De Gaulle coincise con il suo isolamento politico nell’Europa comunitaria dei Sei giustapposto ad un recupero dei legami con l’Unione Sovietica e con il mondo arabo; in particolare con un progetto di comunità europea antitetico a quello di Macron. Il richiamo al gaullismo appare credibile solo perché quel movimento è ormai frammentato e disperso in gran parte tra chi per recuperare parte degli antichi fasti perduti ha spinto verso la sudditanza atlantista e chi sogna un recupero della “grandeur” della Francia anacronistica e velleitaria dovesse prescindere da una politica di alleanze tra i più grandi paesi europei che si affranchi dalla sudditanza scaturita nel secondo dopoguerra. Non è casuale il silenzio di Macron sulla crisi che sta investendo l’organizzazione dell’ossatura economica delle passate ambizioni gaulliste: l’industria nucleare, quella del complesso militare e la meccanica pesante. La rivendicazione di una Unione Europea riformata rischia ancora una volta  di risolversi nella versione francese della battaglia renziana sui decimali di deficit da conquistare, su un efficientismo apparentemente fine a se stesso e su una precarizzazione dell’economia.

Il suo reale programma si può arguire dalla statura dei sostenitori indigeni e stranieri, a cominciare da Obama, già attivamente impegnato due anni fa nella ricerca di un candidato alle elezioni presidenziali francesi. Sta di fatto che, fondata sulla disgregazione dei due partiti tradizionali, in particolare il Partito Socialista, piuttosto che sulla loro trasformazione, Macron è riuscito al momento laddove in Italia Renzi ha subito un drastico rallentamento.

LIMITI DEL MINORITARISMO

La forza e la persistenza di Macron non rifulge però solo di luce propria; deriva soprattutto dalla incertezza, dalla approssimazione e dalle ambiguità delle due forze contrapposte, opposizioni nell’indole e nell’anima; quella di sinistra di Melenchon e quella del Front National di Marine Le Pen.

Opposizioni per l’appunto, non forze alternative di governo.

Sino a quando la sinistra continuerà a fondare la propria azione sugli esclusi, sugli “indisciplinati”, sugli “insoumis” (ribelli, non sottomessi) per esistere avrà sempre bisogno di oppressori; sarà sempre destinata ad essere forza di mera redistribuzione, di rimessa rispetto ad altri decisori, di sostanziale collateralismo. Negli ultimi tempi lo si è visto con “Podemos” in Spagna e con Syriza in Grecia. Melenchon sembra destinato a seguire quella traiettoria solo con qualche convulsione e conflitto più radicale e con qualche attenzione in più alla condizione dello Stato, come da tradizione francese.

L’ultimo  confronto preelettorale tra Le Pen e Macron ha rivelato come questa impronta non sia una prerogativa della sola sinistra, ma continua a pregiudicare l’aspirazione del Fronte Nazionale a costruire una linea coerente di ricostruzione nazionale e un indirizzo di politica estera tesa a fondare un’alleanza dei principali paesi europei in grado di sostenere il confronto soprattutto con gli Stati Uniti libero da rapporti di sudditanza.

Non è l’unico indizio rivelatore di tale incapacità.

Quattro anni fa ci fu un primo avvicinamento tra alcune componenti gaulliste meno attratte dalla svolta atlantista degli ultimi dieci anni e il FN. Avrebbe potuto fornire l’embrione di una nuova classe dirigente in grado di consentire il controllo degli apparati statali e l’attuazione concreta delle linee operative. Un avvicinamento durato appena due anni e in gran parte malamente rifluito. Non è un caso che il sostegno garantito da Dupont-Aignan non sia riuscito nemmeno a convogliare la totalità dei propri voti su Le Pen. La stessa campagna elettorale non solo ha conosciuto oscillazioni repentine e contraddittorie delle parole d’ordine e una debolezza di argomentazioni specie sul futuro dell’Unione Europea; ha rivelato un comportamento schizofrenico con linee e comportamenti antitetici degli esponenti tra un distretto elettorale e l’altro. La stessa performance protestataria poco presidenziale tenuta nell’ultimo confronto, più che a un errore o a un cattivo consiglio potrebbe essere, al netto di eventuali trappole ben congegnate del contendente, il risultato dell’impulso di contenere innanzi tutto il dissenso della componente identitaria del partito reso alla fine pubblico con la rinuncia della nipote Marion Le Pen a candidarsi alle elezioni parlamentari di giugno.

Sta di fatto che un pur rispettabile incremento di consensi, inferiore per altro alle aspettative, rischia di risolversi in uno stallo che impedirà l’assunzione della leadership e la definitiva maturazione di una forza nazionale scevra da grandi lacerazioni e fratture traumatiche.

A differenza della leadership americana, in Italia ed in Francia il tentativo in atto nasce da una rimozione improbabile di retaggi politici originari di queste formazioni, assolutamente incompatibili con il nuovo corso auspicabile.

Se, inoltre, in qualche maniera negli Stati Uniti si è trattato di uno scontro politico sostanzialmente impermeabile ad influenze esterne, vista la posizione dominante di quel paese, in Francia tali influssi risultano determinanti anche se non dalla direzione denunciata dalla stampa, quella russa. Si può affermare, al contrario, che l’interesse di quest’ultima sia scemato man mano che risaltavano le contraddizioni del movimento.

La recente tornata elettorale in Austria, Olanda, Stati Uniti e Francia ha rivelato ciò che la scuola del realismo politico ha sempre evidenziato. Le elezioni politiche “democratiche” non sono il momento fondamentale e decisivo del confronto politico.

Intanto i centri decisivi di potere, luoghi di confronto e conflitto di gruppi decisionali, coincidono solo marginalmente con le sedi di governo, in particolare quelli su base elettiva. Il controllo o la destrutturazione di quei centri è decisivo per l’affermazione o meno delle strategie politiche. Ogni forma di confronto e conflitto politico, anche quello più partecipato, si sviluppa tramite l’azione di gruppi dirigenti e con la manipolazione delle leve di potere e degli strumenti di formazione ed informazione secondo i punti di vista di gruppi dirigenti più o meno emergenti. La formazione di blocchi di consenso sono, quindi, sempre il frutto di azione politica. La detenzione delle leve di governo non comporta necessariamente la detenzione delle leve di potere. Una formazione politica tesa al cambiamento ma tutta concentrata nella competizione elettorale è destinata per tanto a vivere cocenti delusioni se non pesanti trasformismi dettati dalla realtà dello scontro politico.

PRIGIONIERI DEI PROPRI SLOGAN 

Anche se essenziale, il limite decisivo che impedisce il salto di qualità alle forze cosiddette sovraniste non è questo.

Il dibattito e lo scontro politico di questi ultimi anni si è sviluppato secondo dicotomie semplificatrici: sovranismo/globalismo, stato/sovrastatalismo, nazionalismo/mondialismo, pubblico/privato, protezionismo/liberismo, tecnocrazia/popolo, mercato/comunità, élite/popolo e così via.

Una dinamica comprensibile e inevitabile in una fase di stridenti contraddizioni, di contrapposizione aperta ad una ideologia sino a poco tempo fa ormai sulla soglia dell’affermazione del pensiero unico.

In effetti è servita a riproporre il ruolo e la funzione dello Stato e delle comunità nazionali, quello delle strategie e della decisione politica nei vari ambiti dell’agire umano, compreso quello economico, nonché il problema della costruzione di formazioni sociali e comunità nazionali più coese ed inclusive, fondate su valori condivisi piuttosto che sul mero scambio di valori economici.

Una rappresentazione antitetica elementare, necessaria a fondare un punto di vista e a motivare e compattare schieramenti politici, nel tempo può diventare fuorviante se non addirittura un ostacolo all’affermazione in mancanza di una analisi concreta e di una tattica efficace di una leadership politica.

L’assolutizzazione dei poli della coppia protezionismo/liberismo rimuove il fatto che il mercato, anche il più liberista, è comunque un luogo normato  attraverso il quale si afferma il predominio di una formazione sociale sull’altra; un luogo dove le tariffe doganali assumono un’importanza sempre minore e dove divengono predominanti la definizione delle caratteristiche dei prodotti, le modalità di formazione ed espansione delle imprese, la regolazione del commercio estero, il controllo dei flussi finanziari, l’orientamento del mercato interno, la detenzione delle tecnologie, ect. Lo scontro politico va condotto sulla definizione di queste norme e gli esempi storici, oggetto di analisi e studio, di formazione di sistemi economici sono innumerevoli.

L’analoga assolutizzazione dei poli pubblico/privato tende ad identificare il pubblico come bene esclusivo della collettività contrapposto all’interesse privato nell’economia. Riduce ad un aspetto morale una necessità storica, ignora che la funzione pubblica, con modalità diverse, è altrettanto importante anche nelle gestioni più privatistiche come quella americana, glissa sul fatto che anche il pubblico è gestito da élites e centri di potere in competizione.

Quella tra sovranismo e globalismo tende a mettere in relazione un concetto di potere con un flusso di relazioni molecolari, quando in realtà anche i più accesi globalisti, almeno quelli non accecati dalla taumaturgia delle parole, comprendono e utilizzano benissimo il ruolo fondamentale degli stati di appartenenza a scapito degli altri.

Lo stesso vale per le altre dicotomie, sulle quali si dovrebbe riflettere piuttosto che ridurre a slogan.

Più che per il valore intrinseco, i poli delle dicotomie andrebbero valorizzati in relazione agli obbiettivi politici di un gruppo dirigente. Il rischio, altrimenti, è di ricadere in una ottica reazionaria che cambi semplicemente le modalità di degrado delle formazioni sociali e in operazioni trasformistiche dal respiro corto.

Il recupero, la ridefinizione ed il rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali devono essere, quindi, lo strumento e la modalità attraverso le quali ridefinire le relazioni internazionali, così come si sono delineate ad esempio nell’Unione Europea, sia nella definizione di una politica estera autonoma, sia nella regolamentazione ad esempio di un mercato che consenta la formazione di imprese adeguate nelle dimensioni e nelle capacità tecnologiche e impedisca la distruzione delle capacità produttive e manageriali di interi settori e paesi, sia nella composizione di formazioni sociali più coese e dinamiche dove possano trovare posto anche gli attuali “esclusi”.

La perdurante, anche se ormai logorata, superiorità   del vecchio establishment deriva soprattutto dalla paralisi di una nuova classe dirigente ancora prigioniera dei propri slogan.

In Francia il Fronte Nazionale si sta avvicinando rapidamente ad una cruenta resa dei conti interni con un successo elettorale insufficiente a garantire il netto predominio dell’attuale gruppo dirigente e a favorire il processo di affrancamento da un atteggiamento minoritario. L’ambizione, quindi, di guidare un fronte gaullista/sovranista appare al momento frustrata; sarebbe già significativo riuscire a svolgere e mantenere un ruolo da comprimario.

In Italia la situazione appare ancora più disgregata, proprio perché gli attuali maggiori aspiranti a dirigere un tale movimento non provengono nemmeno da forze di impronta nazionale e devono, quindi, liberarsi di retaggi ancora più vincolanti per assumere una linea sufficientemente coerente e realistica.

 

PODCAST NR 4- Trump licenzia James Comey direttore dell’FBI, di Gianfranco Campa

Con il licenziamento del capo del FBI, gli equilibri interni all’amministrazione Trump sembrano subire un nuovo cambiamento, questa volta più favorevole al nucleo storico duramente ridimensionato dalle dimissioni di Flynn, dalla defenestrazione di Bannon e dal sopravvento di Matis a Segretario della Difesa. Due mesi fa Comey affermava al Congresso Americano che le indagini non riguardavano il Presidente, ma lo staff che lo ha portato a vincere le elezioni. Voleva essere forse un segnale di salvezza a Trump in cambio del sacrificio dei collaboratori più fedeli; ma era probabilmente anche la confessione che il vecchio establishment intendeva eliminare ogni condizione che riproducesse in futuro una tale situazione. Una guerra senza prigionieri. Dopo i primi cedimenti, probabilmente Trump non deve aver evidentemente creduto al proprio salvacondotto. Contemporaneamente, nello scacchiere internazionale l’esito elettorale in Corea del Sud, il sostegno militare diretto ai curdi siriani, i prossimi colloqui israelo-palestinesi, i primi contatti ufficiali tra i massimi diplomatici russi e americani sembrano indebolire alcune recenti scelte interventiste americane nel Pacifico e delineare meglio gli orientamenti in Medio Oriente e le basi di una trattativa. L’offensiva del vecchio establishment che da mesi cerca di logorare e annichilire la nuova amministrazione assume sempre più i connotati di una fibrillazione di una forza tanto potente ma dallo scarso respiro strategico. La vera cartina di tornasole sarà il ruolo che i militari alla testa del Segretariato alla Difesa sapranno conservare o meno. Qualche crepa comincia a manifestarsi. Si vedrà. Comey è stato accusato anche dai democratici per aver avvallato per pochi giorni le indagini sulla Clinton stessa, legate alle rivelazioni sulle sue mail.  In realtà è stato costretto dalla veementi pressioni di settori stessi del FBI e della Polizia di New York a cedere per alcune settimane. Quello che è certo è che il conflitto politico negli USA sta sempre più assumendo l’aspetto di uno scontro cruento che sta erodendo ulteriormente la coesione di quella formazione sociale. Qui sotto i link del memorandum di accusa a Comey  (http://www.dolphnsix.com/news/3745892/rosenstein-memo ) e del documento dell’agente britannico da cui è partita la campagna sulle presunte intromissioni russe (https://www.documentcloud.org/documents/3259984-Trump-Intelligence-Allegations.html). Buon ascolto _ Giuseppe Germinario

ERDOGAN, KIM, DUTERTE, I PRIMI SCHIAFFI AL MITO AMERICANO. PERCHE? di Antonio de Martini

 tratto da www.ilcorrieredellacollera.com

ERDOGAN, KIM, DUTERTE, I PRIMI SCHIAFFI AL MITO AMERICANO. PERCHE? di Antonio de Martini

Il lento processo di isolamento cui la politica estera degli USA sta sottoponendo il paese, non è iniziato con Donald Trump, ma la sua elezione è la logica conseguenza e il proseguimento di una scivolata destinata a provocarne lo sfaldamento progressivo.

La dirigenza americana sembra non essersi resa conto della differenza tra l’ isolazionismo del XIX secolo ( voluto e richiamabile) e isolamento del XXI secolo ( subìto e di difficile richiamabilità).

Gli elementi che hanno a mio avviso contribuito a rendere invisi gli Stati Uniti in questa fase di ” pace calda” rispetto al capitale di popolarità che avevano accumulato durante la guerra mondiale e la “guerra fredda” da cui erano usciti vittoriosi, sono, non limitativamente:

a) l’immagine dell’America apportatrice di libertà innovazione e benessere, è svanita.
Il pane bianco è risultato indigesto, la gomma americana si attacca al lavoro del dentista e Rock Hudson non era così macho come dicevano.
La crisi degli investimenti Internet, quella petrolifera, la bolla immobiliare, quella finanziaria, hanno separato per sempre l’idea di America Democratica da quella di Benessere, mentre avremmo tutti giurato che era un binomio inscindibile.
Questo elemento di fortissima attrattività, ha colpito le pubbliche opinioni di tanti paesi in Europa e in Asia e non sarà recuperato per generazioni. I surrogati offerti, l’inclusione,  il clima, la parità agli omosessuali, ci fanno oscillare tra l’incredulità e la pena.

b) l’idea della incontestabile, rassicurante, superiorità militare degli USA è stata sostituita dalla constatazione di un grande divario tecnologico gestito da una violenza cieca e impersonale, non più usata per crociate di libertà.
La guerra asimmetrica provoca, nell’uomo della strada, un effetto psicologico di simpatia istintiva per il protagonista più debole, quali che siano le colpe ascrittegli, che pesa quasi quanto una guerra perduta. Si ricomincia ad ammirare il valore personale e i piccoli vietnamiti che vivevano con un pugno di riso e sparavano col fucile ai bombardieri USA.  Si rievocano le battaglie perdute dagli angloamericani fin quasi a dimenticare gli esiti delle guerre.

c) si è fatta strada l’idea che gli amici degli USA (Ceaucescu, Duvalier, Noriega, Saddam, Gheddafi, Salah, Mubarak, Haile Sellasie, Ben Alì, Musharaf, Pinochet, Pattakos, Gursel, Menghistu, tanto per citarne alcuni) prima o poi finiscono sacrificati a esigenze di politica interna americana.
Questo elemento – finita la funzione di protezione anti URSS – ha tolto fiducia alle classi dirigenti dei paesi alleati verso la capacità USA di proteggere gli amici ( specie nei confronti delle ONG protestanti americane o delle lobbies del cotone o delle armi) , mentre la porta del Medio Oriente (Georgia, India e Pakistan, Kazakistan e paesi limitrofi) si è nuovamente dischiusa ai Russi e ai Cinesi che mostrano di difendere fino in fondo i loro alleati ( Assad, Ahmadinejad, Nazarbaiev, Basaiev, Lukashenko,Kim Jong Un) .

d) i paesi europei si sono rivelati incapaci di vera autonomia politica rispetto agli USA, hanno problemi finanziari e mancano di coesione e anche i più fedeli alleati si sono scoperti spiati, strumentalizzati e privati di posizioni economiche privilegiate, senza troppi scrupoli dall’alleato maggiore. L’Inghilterra stessa si sente abbandonata al suo destino.

L’amor di patria e il Patto Atlantico sono ormai entrati in conflitto. Cessato il pericolo russo non sono stati capaci di trovare un altro soggetto unificante di tutti i contraenti.

Si sono creati blocchi di paesi interni alla NATO intenzionati a operare in disaccordo con altri. Esempi classici: Ucraina, Libia, Siria, Terrorismo.  Tutti in ordine sparso.                                                    Agli USA restano solo amici servili ansiosi di endorsement per il governo interno al proprio paese e capaci di tradimento, perché chi tradisce gli interessi della propria patria, prima o poi sperimenterà altre lealtà.

e) uno degli effetti perversi del tradimento e dello spionaggio  è che la spia prova empatia per lo spiato ( visto il film tedesco  ” le vite degli altri” sulla STASI?) e se l’apparato spionistico dispone di influenza politica all’interno del proprio governo, tende a importare modelli altrui – che è pagato per studiare-  per “innovare”.

Il KGB ha trasformato il timore e l’odio per gli angloamericani in ammirativa imitazione del modello USA: ha guidato lo smantellamento dell’URSS introducendo acriticamente  stili di vita occidentali, sbarazzandosi dei Geronti che blateravano di comunismo, come i nostri blaterano oggi di democrazia.
La CIA ha adottato una serie di scorciatoie etiche e la protervia corporativa che ha visto applicati con successo da GESTAPO e KGB, Mukhabarat, Mossad, diventando un mostro burocratico con Forze Armate proprio e strategie segrete celate anche al proprio Parlamento e Governo. ( es il traffico di Cocaina interno agli USA; furti di opere d’arte – anche i Modigliani di Brera- per finanziare le armi dei  Contras del Nicaragua in barba al divieto del Congresso ).

f) ai ripetuti rovesci militari figli di opzioni economiche disinvolte, si sono aggiunti episodi di rovesci spionistici a catena che dimostrano sciatteria professionale, cinismo e mancanza di humint decente ( ossia informazioni dirette in loco raccolte da persone colte, equilibrate e affidabili) :

1) il Raymond Davies che a Lahore ( Pakistan) fredda nella pubblica via due agenti pakistani che lo pedinavano. Liberato, torna negli USA e massacra un tizio per una questione di parcheggio, beccandosi una condanna a due anni. ( nervi d’acciaio …)

2)Un sistema di comunicazione ” sicura”  scoperto in Libano da modesti impiegati di una compagnia telefonica e provoca 17 arresti di informatori americani. ( sciatteria).

3) Un sottotenente canadese, Jeffrey Delisle, partecipante al sistema di intercettazioni ” Five eyes” vende per cinque anni ( fino al 2012) tutti i segreti del sistema di intercettazione planetaria anglo-canadese-americano-australiano-neozelandese. ( sciatteria)

4)Il capo stazione CIA – travestito da Ambasciatore – Chris Stevens lasciato uccidere a Benghazi, dove stazionavano  ” dozzine” di agenti CIA che non intervennero per non svelare operazioni in corso. ( cinismo)

5) 24 agenti CIA processati e condannati in Italia per il rapimento di un barbuto sedicente Imam in una operazione fatta contro ( a quel che risulta ad oggi) il parere del governo italiano che ha però – di recente – graziato il principale condannato latitante e contumace ( disprezzo).

6) Ryan Christopher Fogle, finto terzo segretario di ambasciata a Mosca che offre – per iscritto e con una parrucca bionda al seguito – un milione di dollari a un impiegato dell’ FSB ( ex KGB) per avere informazioni sul Caucaso e le sue etnie, facendosi incastrare. ( ignoranza)

g) mentre prima ammiravamo Alexander Solgenitzin e Boris Pasternak grandi dissidenti del regime sovietico, oggi ammiriamo il soldato Bradley Manning e l’analista Edward Snowden che mettono a nudo la ragnatela di menzogne che il governo americano propina agli elettori, agli alleati ed ai governanti, i quali mentre prima davano il Nobel per la pace al polacco Lech Walesa, adesso se lo autoattribuiscono e poi dichiarano guerra, mentre si appendono il diploma nel salotto di casa.

h) mentre il paese durante la guerra fredda ha selezionato presidenti dello spessore di Dwigt Eisenhower , John Fritzgerald Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon, Ronald Reagan, George Bush senior, quasi tutti con esperienza internazionale, in questi ultimi venticinque anni l’America,
diciamocelo, ha dedicato meno attenzione alla scelta fatta comunque tra candidati non all’altezza, dediti all’arricchimento personale e incuranti del pensiero del mondo.
Mi ricorda Giugurta, re di Numidia,che guardando Roma esclamò   “Perirai quando troverai un compratore”.

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia, di Luigi Longo

 

 

 

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

 

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

 

 

L’inizio del declino e il bivio storico

 

 

Il declino di una potenza mondiale egemone inizia a presentarsi quando esplodono le contraddizioni interne (conflitti tra agenti strategici delle diverse sfere sociali, fratture sociali e territoriali, degrado totale, eccetera); tale declino è altresì in relazione alle dinamiche di crescita di altre potenze sia regionali sia mondiali che mettono in discussione quella egemonia dominante(1).

Gli strateghi USA, potenza mondiale egemone, sono consapevoli di questo processo, così Zbigniew Brzezinski: << Come la sua epoca di dominio globale finisce, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale […] La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale […] quell’epoca sta ormai per finire […] >> (2). Il declino USA è relativo perché è ancora decisiva la sua egemonia in tutte le istituzioni mondiali. La sua capacità di dominio, attraverso il soft power e l’hard power, è ancora grande in rapporto alle potenze mondiali emergenti, come la Russia e la Cina, in questa fase di multicentrismo (3).

Gli statunitensi si trovano ad un bivio storico dove lo spazio-tempo della decisione si fa sempre più stretto e dovranno scegliere quale strada intraprendere. Questa diramazione prospetta paesaggi mondiali diversi: 1. Una potenza mondiale che rivendica la sua egemonia (G7, FMI, BM, NATO, ONU, WTO) e il suo dominio con la supremazia militare indiscussa (4), ma nel ri-lanciare il suo dominio mondiale monocentrico non si preoccupa delle contraddizioni strutturali interne né, ricerca un nuovo modello di sviluppo o una nuova visione di società; 2. Una potenza mondiale che ri-vede il suo modello sociale, fa i conti con le sue contraddizioni strutturali che rischiano di accelerare il declino e ri-lancia la sua egemonia confrontandosi con le altre potenze.

La prima strada accelera la fase multicentrica e prepara la fase policentrica: il conflitto mondiale; la seconda strada ritarda la fase policentrica e rimane in una fase multicentrica che potrebbe portare ad una condivisione e ad un rilancio di nuove relazionali mondiali nel rispetto delle diversità ( storiche, culturali, sociali, politiche, territoriali, eccetera): parafrasando Karl von Clausewitz si può dire che la guerra cessa di essere la continuazione della politica con altri mezzi.

E’ mia opinione che prevarrà la prima strada, per le seguenti ragioni.

La prima. Gli USA credono di essere la nazione indispensabile e hanno la cultura monocentrica del dominio mondiale. Vale per tutti il seguente pensiero di Henry Kissinger. << La sfida in Iraq non era solo vincere la guerra quanto [mostrare] al resto del mondo che la nostra prima guerra preventiva è stata imposta dalla necessità e che noi perseguiamo l’interesse del mondo [ corsivo mio], non esclusivamente il nostro […] La responsabilità speciale dell’America [ USA, mia specificazione], in quanto nazione più potente del mondo, è di lavorare per arrivare a un sistema internazionale che si basi su qualcosa di più della potenza militare, ovvero che si sforzi di tradurre la potenza in cooperazione […] Un diverso atteggiamento ci porterà gradualmente all’isolamento e finirà per indebolirci. >> (5).

La seconda. La piramide sociale statunitense non reggerà più, la base sta scricchiolando e si arriverà alla implosione della nazione e con essa alla fine dell’idea della grande nazione imperiale. Si stanno indebolendo la struttura e il legame sociale della società, che sono il fondamento della potenza imperiale. Gli agenti strategici dominanti sono incapaci di una nuova visione, di un nuovo modello di sviluppo sociale, di nuovi rapporti sociali che potrebbero emergere dalla cosiddetta società capitalistica. Gli strateghi delle sfere egemoniche ( politica, militare, istituzionale, economica-finanziaria,), portatori della visione classica della logica di funzionamento imperiale, agiscono con la convinzione che il dominio, con la coercizione ( la forza militare imperiale) e il denaro ( il dollaro imperiale), sia l’unica strategia per continuare a mantenersi, come grande nazione imperiale, sulle spalle del resto del mondo (le economie dei diversi capitalismi).

Alcuni strateghi, soprattutto delle sfere militare e politica, con i loro gruppi di pensiero (think tank) e i loro centri e istituti di ricerca strategica, si sono resi conto della strada di non ritorno del declino USA, una strada, per dirla con David Calleo, di egemonia sfruttatrice (6), e hanno cercato di deviare, invano (si vedano le elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca), verso una visione del Paese incentrata sull’economia reale, sul legame sociale da rafforzare, sulla ri-definizione dei rapporti sociali sistemici, sull’apertura di una fase multicentrica; ma realizzare tutto questo significava derogare alle regole della potenza mondiale, cioè ri-collocare gli USA quale potenza mondiale di confronto e condivisione con altre potenze mondiali emergenti: non più come la grande nazione imperiale.

La terza. La lezione della storia, a prescindere dal modo di produzione e riproduzione del legame sociale della società storicamente data, è questa: schiacciando esseri umani sessuati e natura, oltre il limite strutturale sociale e naturale, si rischiano grossi guasti. La forbice tra ricchezza illimitata e povertà assoluta non può divaricarsi all’infinito. Non è un discorso pauperistico del limite superato, ma un ragionamento di modello di sviluppo, di una idea nuova del legame sociale e del rapporto sociale ( sia dentro sia fuori il Capitale, ovviamente inteso come relazione sociale) e di rottura dell’equilibrio dinamico del blocco egemone degli agenti strategici dell’insieme delle sfere sociali del Paese (7).

 

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

 

 

NOTE

 

 

  1. Su questi temi rinvio a Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mandadori, Milano, 2003; Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
  2. Zbigniew Brzezinski, Toward a global realignmente in “ The American Interest” ( www.the-american-interst.com) , n.6/2016. Stralci dell’intervista sono compresi anche nell’articolo di Mike Whitney, La scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano, www.megachip-globalist.it, 28/8/2016.
  3. Joseph S. jr Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016; con una lettura critica si veda anche Etienne Balibar, Populismo e contro-populismo nello specchio americano, www.ariannaeditrice.com, 27/4/2017.
  4. Per un’analisi storica, geopolitica, militare, finanziaria si rimanda alla rivista “Limes”, n.2/2017, “Chi comanda il mondo”, in particolare gli articoli di Dario Fabbri (La sensibilità imperiale degli Stati Uniti è il destino del mondo), di Alberto De Sanctis (Gli Stati Uniti tengono in pugno il tridente di Nettuno), Giorgio Arfaras (Il dollaro resta imperiale). Per un’analisi del consolidamento delle potenze mondiali emergenti e delle transizioni egemoniche si veda Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di, Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010. Per un’analisi sulla supremazia militare si rimanda ai lavori puntuali di Manlio Dinucci pubblicati sul sito www.voltaire.org e sul quotidiano “il Manifesto” e ai Rapporti SIPRI ( e non solo) ( www.sipri.org) . E’ interessante sottolineare quanto detto da Noam Chomsky in una recente intervista concessa a “il Manifesto” del 20/4/2017:<< L’Atomic Bulletin of Scienctists nel marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello di strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia >>.
  5. La citazione del pensiero di Henry Kissinger è tratta da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004, pp. 59-60.

6.Così David Calleo:<< [il] sistema internazionale crolla non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in declino, invece di adattarsi e cercare una conciliazione, tentano di cementare la loro vacillante predominanza trasformandola in una egemonia sfruttatrice >>. La citazione è tratta da Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op. cit., pp.335-336.

  1. Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale ( nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali. La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali. Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre ( politica, economica e culturale), David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio. Cfr il mio, La nazione e lo stato: una grande illusione dei popoli. La rottura teorica del conflitto strategico. Tempo e spazio della ricerca, www.conflittiestrategie.it, 5/7/2016 e www.italiaeilmondo.com, 26/12/2016.

 

NON C’ENTRA, MA C’ENTRA. TRA MACRON E LE PEN, di Roberto Buffagni

Non c’entra ma c’entra, e quindi vi propongo questa letterina pastorale.
Ieri sera ho visto il dibattito Le Pen – Macron, e ho assistito a uno dei suicidi tattici più esemplari della storia moderna, all’altezza dell’attacco frontale deciso da Lee a Gettysburgh nonostante il gen. Longstreet lo avesse implorato in ginocchio di eseguire una manovra di aggiramento sulla destra. L’ho seguito soffrendo come un cane e incazzandomi come una pantera, l’avrei presa a sberle, Marine. Marine ha sbagliato tutto. Ha attaccato frontalmente Macron, con l’intento di destabilizzarlo e farlo sbroccare, e non ci è riuscita perchè l’attacco è stato eseguito, appunto, frontalmente. Marine ha proposto una versione anabolizzata di se stessa: la pasionaria, l’estremista, la provocatrice, la sarcastica. Era la versione prevedibile della Marine figlia di suo padre, leader del Front National rinchiuso nel suo ghetto e interprete (sterile) dei risentiti e degli esclusi. Versione prevedibile, e quindi prevista da Macron e dai suoi consulenti, che senz’altro lo avevano ben preparato (come tutti i narcisisti terminali è un buon attore, sin da quando la moglie/mamma incestuosa gli teneva il corso di tecnica teatrale). Macron non si è destabilizzato per niente, ha ribattuto pan per focaccia, sulle questioni di meccanica istituzionale ed economica ha risposto con più precisione e miglior preparazione di Marine, e ci ha fatto, in confronto, una discreta se non buona figura. Sintesi ha vinto lui, Marine ha fatto il capolavoro di danneggiare seriamente la sua reputazione, di sembrare poco equilibrata mentre invece è psicologicamente ben centrata, e di regalare una patente non dirò presidenziale, ma almeno di serietà, a Macron che è invece uno psicopatico fatto e finito (vedere cercandola su google la diagnosi al volo del prof. A. Segatori, sommaria ma equilibrata).
Insomma, tale e quale a Gettysburgh: invece di fare la manovra aggirante sulla destra come certo la implorava di fare Dupont-D’Aignan/Longstreet (per parlare agli elettori di Fillon, pensionati nazionalisti moderati dei quali doveva cercare i voti) Marine/Lee ha attaccato al centro su terreno in lieve salita contro un nemico solidamente trincerato a difesa e si è ritirata con gravi perdite.
L’errore più grave e gravido di conseguenze non è la sconfitta nel dibattito e i suoi effetti sulle presidenziali. Tanto Marine avrebbe perso comunque, alla peggio questa figuraccia le sarà costata qualche punto percentuale. Il vero problema è questo: Marine non ha capito che oggi, e soprattutto domani,si tratta di rifondare la destra francese, dunque di conquistare elettori e militanti moderati nel vasto bacino del gaullismo, e il punto sarà: chi riesce a spaccare chi? I Républicains spaccheranno il FN o il FN spaccherà i Républicains? Nella decisione finale, il leader federatore della nuova alleanza/partito conterà moltissimo, e oggi Marine si è squalificata ad esserlo. Potrà forse recuperare, ma è una strada in salita quasi verticale.
Preciso: questa cosa, Marine l’avrà senz’altro capita con l’intelligenza, visto che è una donna intelligente e una politica esperta; ma non è riuscita a capirlo con tutta se stessa. Un dibattito come questo è come uno scontro corpo a corpo, dove si impegna la personalità intera, e dove non si può riflettere alle mosse da compiere e ai colpi da portare. Si agisce d’istinto, e l’istinto di Marine è ancora l’istinto di una persona che è nata dentro un partito-ghetto, estremista e rivendicante il proprio estremismo, un po’ come il neofascismo italiano (MARINE NON è FASCISTA, FACCIO SOLO UNA ANALOGIA CHE POTREBBE VALERE ANCHE PER UN PARTITO ESTREMISTA DI SINISTRA).
E qui veniamo alla lezione che chi non gradisce mondialismo, UE, euro, etc, dovrebbe trarre da questa battaglia perduta. E’ ora di darsi una regolata, e smetterla con l’estremismo. Smetterla con l’estremismo verbale, politico, ideologico e soprattutto psicologico. Se si vuole vincere, bisogna presentarsi agli altri, e se possibile anche essere, affidabili e ragionevoli. In caso di dubbi, riferirsi al modello del “buon padre di famiglia” un tempo caro al Codice civile. Il popolo ha tanti difetti, e spesso capisce l’otto per il diciotto, scambia fischi per fiaschi, lucciole per lanterne, etc. In una cosa non sbaglia quasi mai: nell’individuare chi è in grado di risolvere e chi no. Poi magari chi risolve risolve in un modo che al popolo lo frega, ma intanto ha risolto. Gli estremisti NON risolvono, e il popolo lo vede. Grida, piange,protesta e bestemmia con loro, ma quando gli si deve affidare, NON lo fa: e ha ragione.

PODCAST N°3 – A DUE PASSI DALLE ELEZIONI IN SUD-COREA, di Gianfranco Campa

La trama del confronto con la Corea del Nord si svolge secondo un canovaccio sempre più complesso. Il confronto coinvolge certamente alcuni stati (USA, Corea del Nord, Cina e Russia) come attori principali, altri come comprimari. Le dinamiche, in realtà, si svolgono tra centri di potere all’interno degli stati in cooperazione e conflitto tra di essi all’interno e all’esterno. Il focus si sta concentrando su entrambe le Coree. Al Sud  gli Stati Uniti vorrebbero scongiurare l’eventualità di un successo delle forze politiche favorevoli ad un riavvicinamento tra le due Coree nelle prossime elezioni del 9 maggio. Al Nord la possibile destabilizzazione del regime mette in allarme la Cina, timorosa di perdere il controllo politico di quel paese. Una situazione quindi precaria che rischia di trasformare i destabilizzatori in destabilizzati e viceversa. A questo punto, un intervento diretto di una superpotenza, rischia di legittimare la reazione dell’altra. Come dice giustamente Campa, le parole vanno interpretate alla luce dei comportamenti. I comportamenti più discreti, dietro le quinte, si intuiscono sulla base degli eventi e delle loro concatenazioni. In una fase di conflitto multipolare è un’impresa sempre più difficoltosa_Giuseppe Germinario

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi (scritto il 2 dicembre 2013)

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi
“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.” (Carl Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio, e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33). Tutta la costruzione giuridica dell’UE invece di concentrarsi su questo elementare dato di fondo rilevato dal giuspubblicista di Plettenberg, ha preferito muoversi lungo la linea Kelsen di rimozione del problema della sovranità. Si è così ottenuto che il popolo, che è il titolare della sovranità democratica, ha di fatto perso sempre più potere (gli sono state sottratte quote sempre più crescenti di ‘Dominio Repubblicano Diffusivo’ per esprimerci nei termini del Repubblicanesimo Geopolitico), essendo che questo potere era basato su una base giuridica sempre più svuotata (la sovranità, appunto) mentre il potere stesso ha subito una sorta di translatio loci dal popolo alla burocrazia e alla finanza (nazionali e/o transnazionali che siano), la cui azione non è giustificata da una forma defunta di sovranità (quella democratica) ma in base a puri criteri di efficacia. E così, nonostante la sua rimozione dalla dottrina giuspubblicista prevalente, la sovranità si è ricostituita avendo nuovi titolari: la burocrazia e la finanza. Come si è visto nella ultima crisi finanziaria dove a decidere in Europa sullo stato di eccezione (cioè sui provvedimenti da prendere per farvi fronte) non è stata la politica ma questi luoghi in cui era migrata la sovranità. Rispondendo quindi a Stefanini in merito a quale sia l’interesse italiano oggi, si può dire che l’interesse italiano – anche se con maggiore urgenza che nelle altre nazioni europee dove la politica non ha raggiunto l’indecenza del nostro paese – è “ritraslare” il potere e la sovranità verso il popolo. Fra pochi mesi avranno luogo le elezioni per il parlamento europeo. Pur con il dovuto disgusto verso la retorica e la disinformazione “democratica” (di fatto totalmente autoritaria) che da sempre accompagna la costruzione di questa Europa e i suoi appuntamenti elettorali, non sarebbe il caso di pensare di approfittare di questa occasione per uscire dal campo della pura analisi per cominciare ad avventurarci nella prassi? E in Italia non potrebbero essere
protagonisti di questo tentativo coloro che non da ieri ma ancor quando si pensava che questo sistema fosse in grado di dispensare libertà e benessere hanno sempre sostenuto che il potere del nostro paese è meno che altrove in mano al popolo ma di coloro che pretendono di agire in loro nome e loro conto sequestrandone di fatto la sovranità?

2 DICEMBRE 2013

PODCAST nr 2 _ ESCALATION IN COREA, di Gianfranco Campa

Il secondo podcast di Italia e il mondo. Il gioco in Corea. (cliccare sul cursore dell’immagine in basso)

Una partita giocata ormai al rialzo. Se va bene, scopriremo chi tra i due contendenti sta bluffando; uno dei due contendenti, comunque, è destinato ad una rovinosa caduta di immagine e credibilità. Se va male si rischia un conflitto dalle conseguenze imprevedibili nella loro gravità. I motivi contingenti che stanno portando a questo alto livello di tensione sono numerosi, non ultimo la delega in bianco lasciata da Trump ai militari all’interno dello staff presidenziale, senza poter rinunciare alla propria responsabilità politica. Il Presidente, ormai, è destinato a rimanere in ostaggio e il suo destino è in mano ai suoi avversari di appena otto mesi fa. La posta strategica è ancora più decisiva. Si tratta di determinare il livello di autonomia decisionale che, nel bene e nel male, possono avere paesi e potenze regionali, tra questi oltre alla Corea del Nord, Egitto, Turchia ed Iran, i quali aspirano a mantenere un ruolo attivo meno subordinato alle strategie delle grandi potenze, in primis degli Stati Uniti; una autonomia, purtroppo, che dipende sempre più, ormai, anche dalla capacità di deterrenza nucleare. Anche le tensioni regionali spingono di per sé verso questo tipo di riarmo. Ma una grande responsabilità ricade su chi ha chiuso entrambi gli occhi sul riarmo nucleare di paesi alleati, come Israele, osteggiando gli altri; soprattutto ricade sulle potenze che hanno fomentato la destabilizzazione e distruzione di paesi e stati (Iraq, Jugoslavia, Libia, Siria tra questi) sprovvisti di armamento strategico, favorendo e legittimando così i propositi di riarmo di altri. Si vedrà se questa politica in particolare statunitense riuscirà a trovare sponde ed uditori sensibili nelle fila delle altre due potenze di rango, Cina e Russia. Con l’attuale gruppo dirigente russo pare improbabile, perché la Russia ha bisogno di questi paesi per compensare lo scarto di potenza che la separa dagli Stati Uniti e perché con Putin, dal famoso discorso di Monaco nel 2007, ha inaugurato una linea diplomatica di maggior rispetto delle entità statuali. Il gruppo dirigente cinese sembra apparentemente più permeabile alle pressioni americane per tante ragioni, impossibili da enumerare in questo commento. Intanto, però, i cinesi hanno schierato due corpi d’armata (500.000 uomini) alla frontiera nordcoreana e i russi stanno rafforzando a loro volta il loro presidio. Vedremo se questi schieramenti sono rivolti solo contro la coalizione statunitense oppure nascondono qualche gioco più complesso rivolto anche verso i nordcoreani_ Giuseppe Germinario

NATURA MORTA 3a parte, di Giuseppe Germinario

qui la 1a e 2a parte

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

 

“Vogliamo essere da stimolo affinché il Partito democratico riprenda questo cammino arrestando la sua deriva neocentrista”, così recita la parte finale del documento fondativo del Movimento dei Democratici Progressisti (http://www.huffingtonpost.it/2017/02/25/movimento-democratico-pro_n_15005420.html ). Una intenzione che rivela lo spirito gregario di una iniziativa lanciata evidentemente di mala voglia, dallo scarso respiro strategico, la cui inerzia connoterà inesorabilmente la precisa funzione del neonato soggetto politico, così come degli altri in via di formazione nella stessa area: quella di mosca cocchiera.

Ogni movimento degno di questo nome per altro indirizza la propria azione costruendosi il proprio Pantheon di numi ispiratori. Massimo d’Alema, l’incubatore del MDP (articolo I Movimento Democratico e Progressista), ancora una volta ci ha illuminati e sorpresi per il suo spirito di accoglienza, già rivelatosi per nulla schizzinoso, sin troppo generoso ed aperto alle novità di fine secolo; nel suo Olimpo in terra, nel tempio degli “illuminati” è riuscito ad assegnare un posto di prestigio niente meno che al Senatore John Mccain, il a suo dire “conservatore illuminato”, acerrimo nemico dell’apprendista stregone neopresidente Donald Trump. La ragione della inopinata ascesa al tempio sono le sue dichiarazioni sulla natura guerrafondaia delle politiche di “the Donald”. Il pulpito dal quale provengono le filippiche non potrebbe essere di certo più credibile. Si tratta proprio di quel McCain immortalato ultimamente, tra le sue innumerevoli peregrinazioni nei vari focolai di guerra nel mondo, in amabile compagnia dei più sanguinari e settari esponenti qaedisti in servizio attivo in Siria ed Iraq, nonché dei più convinti e truculenti esponenti neonazisti impegnati ad alimentare la guerra civile in Ucraina.

Verrebbe da chiedersi il motivo di cotanto spirito d’accoglienza.

Certamente al nostro Leader Maximo non difetta il realismo politico; ne consegue l’accettazione tra le proprie fila dei nemici, secondo il noto principio di Clausewitz, del suo nemico Trump, il capostipite dei populisti e dei reazionari dell’universo-mondo. Si comprende anche, dopo oltre venti anni di imbarazzi e di contorsioni sempre più inverosimili, il sollievo determinato da una situazione che consente di riproporre finalmente il vecchio schema di una sinistra democratica mondiale fautrice di diritti e di pace contrapposta ad una nuova destra razzista, divisiva e militarista. Un buon viatico per garantirsi la sopravvivenza politica ancora per qualche tempo al prezzo però della disinvolta rimozione dei misfatti bellicisti democratico-progressisti degli ultimi trenta anni. Una rimozione certamente resa più disinvolta dall’attitudine e dallo spessore della scorza acquisita nella prima mutazione del nostro dal passato originario nel Partito Comunista. A queste qualità proattive, “diciamo”, fa probabilmente però da retroterra motivazionale alle scelte politiche, una certa inguaribile provinciale sudditanza psicologica di chi ha costruito la propria ascesa politica sulla partecipazione ad una sola guerra, quella contro la Federazione Jugoslava, condotta per di più dall’alto, costruita anch’essa sulla menzogna, tanto propedeutica alla costruzione del sodalizio tedesco-americano quanto nefasta per la federazione jugoslava e deleteria per gli italici interessi; sudditanza psicologica, quella di d’Alema, al cospetto di un personaggio come McCain, al quale deve essere sfuggito persino il novero dei focolai di guerra sino ad ora fomentati. Più prosaicamente deve spingerlo all’azione politica contingente anche il rischio di rottura dello stretto sodalizio con i democratici di Clinton che tanto ha contribuito, assieme ai benefici politici legati alle privatizzazioni degli anni ’90, al successo della sua fondazione;  una incognita determinata dall’esito delle elezioni presidenziali americane e dal possibile conseguente declino della famiglia sconfitta.

Basterebbe questa sintetica rappresentazione a qualificare un movimento politico destinato a raccogliere ormai consensi residuali nel paese.

Il problema è che questa residualità potrà consentire a queste formazioni comunque di ritagliarsi un proprio peso nel processo di frammentazione politica in atto e ritardare se non pregiudicare definitivamente un qualche sviluppo di positiva maturazione politica di una parte sia pure ridotta dei suoi quadri dirigenziali e della gran parte dei militanti di questa area in via di formazione.

Da qui la necessità di sviluppare una critica più puntuale delle tesi adottate non solo dal MDP (Articolo 1 MDP), ma anche dalla costellazione di formazioni interne al PD (mozione Orlando e marginalmente mozione Emiliano), esterne ad esso ma propedeutiche alla ricostituzione del centro-sinistra (MDP di D’Alema, Bersani e Speranza; Campo Progressista di Pisapia); esterne ma intenzionalmente alternative al PD (SI- Sinistra Italiana di Fratoianni e Fassina).

Ad eccezione della mozione Emiliano, conglomerato più che altro destinato ad alimentare formazioni politiche su base civica e territoriale in particolare del Centro-Sud, il resto delle formazioni politiche citate poggia, come si vedrà dai documenti e dagli interventi prodotti, su fondamenti ed analisi politiche comuni, ma su posizionamenti politici diversi frutto di contingente opportunismo.

Ad offrire gli spunti di discussione è sempre d’Alema.

Le sue linee portanti sono le seguenti:

  • Il processo di globalizzazione non ha portato ad una spontanea condizione di pace e di sviluppo omogeneo e ad una estinzione del ruolo degli stati. Le erronee aspettative alimentate in tal senso hanno penalizzato soprattutto le sinistre
  • La globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze e favorito quindi l’emergere del potere finanziario, l’emarginazione o la sottomissione della funzione politica a questo potere e una reazione di difesa dei ceti emarginati strumentalizzate da forze antiestablishment (antisistema) piuttosto che populiste
  • Il recupero delle prerogative degli stati nazionali e la riproposizione del nazionalismo sono un lusso consentito alle formazioni e ai paesi più grandi. In quelli medi e piccoli, come quelli europei, si risolvono in una caricatura velleitaria ed impotente
  • Il processo di globalizzazione va quindi governato; per i paesi europei rimane fondamentale ed imprescindibile costruire entità sovranazionali per assumere un ruolo politico significativo
  • La sinistra democratica e progressista deve recuperare una certa radicalità e la capacità di difesa degli interessi dei soggetti deboli assumendo come parola d’ordine il principio di uguaglianza

Inutile ricercare nei suoi interventi una qualche autocritica coerente di posizioni sostenute da lui stesso sino a pochi mesi fa.

Rimane, tra le righe, un approccio che impedisce di valutare adeguatamente la permanenza del ruolo degli stati nazionali, la composizione dei centri strategici che determinano le strategie politiche nei vari ambiti, compreso quello economico e finanziario; che nella permanenza dell’equivoco del predominio delle forze economiche consente di riproporre la solita logica di divisione tra destra e sinistra, soprattutto tra democrazia e dittatura, funzionale al mantenimento degli attuali legami di subordinazione politica nell’agone internazionale; che nella proclamata pretesa di difesa a se stante dei ceti deboli non si fa che riproporre una divisione tra destra e sinistra che assegna a quest’ultima al meglio un ruolo subordinato di redistribuzione di risorse e alla prima la funzione determinante delle scelte produttive e di organizzazione economica funzionali alle strategie geopolitiche e di controllo delle formazioni sociali. Al peggio rimane il ruolo assunto nel determinare l’attuale condizione del nostro paese.

L’analisi dei documenti congressuali consentirà un maggior approfondimento di questi spunti.

Quelle espresse da d’Alema non sono solo debolezze e carenze di analisi, delle semplici incongruenze. Sono anche l’espressione consapevole di una strategia politica da sconfiggere senza remore, oggetto di una battaglia politica. La seguente intervista lascia intravedere di cosa si tratta e di come il personaggio sia parte del meccanismo ( http://www.huffingtonpost.it/2017/04/24/massimo-dalema-spiega-ad-huffpost-la-lezione-francese-una-sin_a_22053364/  )

RICAPITOLANDO, di Antonio De Martini (tratto da https://www.facebook.com/antonio.demartini.589?fref=nf&pnref=story)

Se mettiamo assieme i dati degli attentati dell’ultimo anno compiuti in Europa, appare chiaro che gli “estremisti islamici” vengono chiamati in causa, dai soliti commentatori, a sproposito.
Le erinni dei partiti populisti chiedono la chiusura delle frontiere o dicono che noi italiani siamo messi male mentre ci sono stati attentati in tutta Europa tranne che da noi.

Gli attentatori sono cittadini europei nati e cresciuti in Europa.
Quelli francesi si sono rivelati anche criminali comuni che si sono approvvigionati di armi presso la mala.

Nessuno di loro si è rivelato frequentatore di moschee, mentre tutti avevano un precedente contatto – o addirittura frequentazioni pagate- con la polizia.

Di alcuni si è scoperto che avevano poco prima degli attentati spedito alle famiglie o a parenti ingenti cifre di denaro, ma non è esagerato affermare che tutti sono mercenari prezzolati.
Disperati in cerca di sopravvivenza e soggetti psichicamente disturbati.

L’ultimo, dovrei dire il penultimo, spacciato per attentatore a Dortmund, è risultato addirittura che lo ha fatto per cercare di compiere un aggiotaggio in borsa sui titoli della squadra di calcio.

Il fatto che l’ISIS faccia rivendicazioni infondate è dimostrato anche dall’ultima comunicazione in cui il rivendicatore ha sbagliato nome, provenienza e nazionalità del reo, dato che la polizia non ha rivelato subito queste informazioni come di consueto.
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In comune hanno tutti un passato di cattive cure psichiatriche ( anche numerosi attentatori degli USA), e il fatto di essere tutt senza eccezionei stati uccisi, mentre ormai ogni reparto antiterrorismo del mondo ha i suoi tiratori scelti e tra narcotici e proiettili con sonniferi si addormentano anche gli orsi. Finora l’unico sfuggito alla morte ( il francese rifugiatosi in Belgio) è risultato un confidente delle autorità.

Ammazzano gli attentatori per non interrogarli? La domanda è legittima anche se dolorosa.

Altra domanda: chi può disporre di un’anagrafe tanto vasta di soggetti labili dal punto di vista nervoso, patologicamente bisognosi di sovvenire alle famiglie e con un passato burrascoso di ex galeotti? Chi è il basista, insomma? Chi segnala questi sventurati agli istigatori-reclutatori?

I sospetti appartengono a due categorie: le moschee e le autorità di polizia. Ma i soggetti, lo dicono in molti , non frequentavano le moschee….

Chi ha accesso agli schedari dell’antiterrorismo? Nessuno cerca la Talpa. Nessuno previene gli attentati. Molti attentati (l’ultimo di Londra e di Parigi in specie) giungono a proposito per assecondare le svolte della opinione pubblica desiderate da elementi dirigenziali del paese.

Si fanno inchieste parlamentari su tutto ma non sul terrorismo. E’ un buon segno non riescono a mettere assieme una venina di parlamentari disposti alla complicità.

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