PERCHÉ LA CHIESA CATTOLICA VIENE ATTACCATA DALL’ONU Di MASSIMO MORIGI

Prosegue la pubblicazione delle varie riflessioni di Massimo Morigi riguardanti il “repubblicanesimo geopolitico”. Anche questo breve scritto è preceduto da un lungo commento odierno dell’autore

Repubblicanesimo Geopolitico e  Katargēsis Messianica

di Massimo Morigi

«[19] Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. [20] Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. [21] Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; [22] giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: [23] tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, [24] ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. [evidenziazione dal versetto 21 al versetto 24 del redattore] [25] Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, [26] nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. [27] Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede[28] Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. [evidenziazione dal versetto 27 al versetto 28  del redattore] [29] Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! [30] Poiché non c’è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi. [31] Rendiamo allora inoperante [katargoumen: rendiamo inoperante, rendiamo inefficace, annulliamo, aboliamo, distruggiamo, superiamo, ndr] la legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge. [evidenziazione del verseto 31 del redattore]  »: Rm 3, vv. 19-31.

 

In  Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu  pubblicato sul “Corriere della Collera” il 9 febbraio 2014 (all’URL https://corrieredellacollera.com/2014/02/09/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ e ora anche su WebCite agli URL http://www.webcitation.org/6sJ58D0JY e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2014%2F02%2F09%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-28), dopo aver indicati i motivi geopolitici e di politica internazionale (in estrema sintesi: l’opporsi, per difendere la presenza cristiana nell’area, alla polverizzazione politica e statuale mediorientale operata dalla politica del caos statunitense) a causa dei quali la Chiesa cattolica, attraverso l’accusa di ogni nequizia sessuale possibile ed immaginabile stava subendo (e tuttora sta subendo) un possente attacco dei grandi centri strategici internazionali (stranamente, tanto per fare un esempio, l’Arabia Saudita, con la sua “singolare” visione del rapporto fra i sessi non ha dovuto subire mai nulla di simile; altrettanto singolare poi che la punta di lancia di queste accuse provenisse da quella pia organizzazione internazionale, le Nazioni unite, che è il consesso internazionale dove hanno possibilità di veto proprio quegli stati che spingendo un bottone possono distruggere l’umanità e che storicamente e tutt’oggi s’ingegnano a compiere i maggiori massacri in giro per il mondo), chiudevo le mie brevi considerazioni con queste parole: «Ed è altrettanto evidente che nel contrastare questo vuoto culturale e politico la Chiesa cattolica non solo non deve essere lasciata sola ma deve essere affiancata anche da apporti che se, apparentemente, hanno più a che fare con quello che deve essere dato a Cesare piuttosto che a Dio, cionondimeno affondano le loro radici, come il Repubblicanesimo Geopolitico, in una concezione di vita e di cultura che è nata nello stesso terreno sul quale ha prosperato la religione che ha dato forma alla civiltà occidentale.». Lo scopo dell’articoletto, la denuncia delle vere ragioni per le quali si tentava (e si tenta tutt’ora) di far apparire la Chiesa cattolica come la sentina di ogni vizio morale e sessuale non rendevano opportuna l’occasione, tranne il mero ma non ulteriormente precisato passaggio  sulle molte comuni radici fra la Chiesa cattolica ed il Repubblicanesimo Geopolitico, per diffondersi sull’argomento. La rinnovata cortese ospitalità dell’ “Italia e il Mondo” per i primi vagiti del Repubblicanesimo Geopolitico nonché la necessità –  oltre a rinnovare la difesa della Chiesa cattolica sempre e comunque sotto attacco –  di pubblica chiarificazione delle sue fonti teoriche, nella fattispecie delle presenti  considerazioni sotto l’aspetto della sua ‘teologia politica’, ci fornisce allora l’occasione per chiarire il senso delle impegnative considerazioni conclusive di Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu .

Tutti conoscono la frase di Gesù e riportata dai tre vangeli  sinottici laddove il Figlio di Dio afferma “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” e da parte dei zelanti – ma ahimè non proprio molto scaltriti –  sostenitori della tesi  dell’assoluta non ingerenza della Chiesa cattolica nella vita dello stato (più o meno) laico (quasi che la politica attuale effettuale di una antichissima  istituzione possa essere giudicata alla luce delle parole attribuite da più di  duemila anni  al  suo Messia) e dei polemisti contro l’Islam (quasi che la Chiesa non abbia mai storicamente voluto imporre una sua propria particolare sharia), questa frase viene incessantemente citata per indicare il rapporto assolutamente libero ed autonomo della Chiesa stessa rispetto alla legge civile. In effetti, anche se non proprio per le ragioni indicate dalla maggior parte degli zelanti sostenitori della Chiesa cattolica (ragioni, fra l’altro, molto spesso condivise, anche da parte di coloro che si qualificano come laici, i quali pur non riconoscendo alla Chiesa cattolica attuale alcun disinteresse verso la legge civile, molto volentieri concedono al Figlio di Dio una corretta impostazione “laica” del problema, e a questo punto non si sa più se ridere o piangere a vedere come si è ridotto il c.d. “pensiero laico”), la frase e sì importantissima per delineare l’intima disposizione che per più di duemila anni ha animato il cristianesimo – e nello specifico – la Chiesa cattolica verso la legge civile ma il punto è che si tratta di una Stimmung  che non ha proprio nulla a che fare con l’angelico disinteresse verso la legge civile che ci consegnerebbero le parole di Cristo. In breve. Chiunque non voglia piegare (anche in perfetta buonafede, per carità!) il “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ad esigenze “politiche” s’accorge immediatamente della loro inequivocabile ambiguità di fondo. Ora il sopracitato (rozzo) pensiero laico, risolve questa ambiguità con un “semplicismo” di stampo pseudostorico affermando che, qualsiasi fossero le recondite intenzioni per cui Gesù Cristo pronunciò quelle parole e le concrete condizioni che lo indussero ad esprimersi in questo modo,  fino ai nostri giorni tutti i tentativi della Chiesa cattolica sono stati indirizzati a piegare la legge civile ai dettami della religione finalizzandola, quando le condizioni storiche lo rendevano possibile, alla costruzione di uno stato teocratico. Invece un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, non proprio intenzionato ad essere l’ottuso cantore del “Brave New World”, del mondo liberal-liberista, della democrazia di massa e rappresentativa e dei formidabili diritti dell’uomo oltre a notare l’intima contraddittorietà delle parole di Cristo riconosce in questa parole una contraddizione che è anche la propria trattandosi di un “crampo del pensiero” che è proprio di ogni pensiero autenticamente rivoluzionario che pur volendo generare una propria incontestabile legalità ha con la legge positiva (e, conseguentemente,  anche con la futura legge rivoluzionaria) un rapporto non proprio molto sereno (anche se, come vedremo) dialetticamente molto profondo. E che nel cristianesimo delle origini e nella futura Chiesa cattolica il rapporto con la legge civile fosse dialetticamente assai poco risolto, ben lo vediamo dalla lettera di S. Paolo ai Romani –  come da noi mostrato  in Rm 3, vv. 19-31 posto in esergo al presente  commento a Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu   – dove al versetto 31, dopo un irrisolto ragionamento in merito al rispetto della legge civile chiedendosi «Rendiamo allora inoperante  [katargoumen: rendiamo inoperante, rendiamo inefficace,  annulliamo, aboliamo, distruggiamo, superiamo, sospendiamo, ndr] la legge mediante la fede?» scioglie la domanda con un contraddittorio «Nient’affatto, anzi confermiamo la legge.», contraddittorio perche ai vv. 21-24 aveva appena affermato «Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù.». Sul problema della  katargēsis messianica della legge civile  in  Rm 3, vv. 19-31 (ma noi  con non forzata analogia possiamo ben parlare del problema della katargēsis  rivoluzionaria rispetto alla legge, cioè del problema mai risolto della rivoluzione rispetto non solo alla legge che l’ha preceduta ma anche rispetto alla legge “rivoluzionaria” prossima ventura) si è magistralmente espresso Giorgio Agamben in il Tempo che resta e in Homo Sacer , opere entrambe da cui traiamo ora  ampie citazioni e commentando le quali potremmo cominciare a formulare le nostre conclusioni riguardo le comuni radici fra ogni autentico pensiero rivoluzionario, fra i quali deve essere annoverato anche il Repubblicanesimo Geopolitico, e l’irrisolto rapporto che il cristianesimo e la Chiesa cattolica hanno intrattenuto fin dagli inizi con la legge. Scrive quindi Agamben a proposito della katargēsis messianica: «Come dobbiamo pensare lo stato della legge sotto l’effetto della katargēsis messianica? Che cos’è una legge che è, insieme, sospesa e compiuta? Per rispondere a queste domande, non trovo nulla di più istruttivo che far ricorso a un paradigma epistemologico che sta al centro dell’opera di un giurista che ha posto la sua concezione della legge e del potere sovrano sotto una costellazione esplicitamente antimessianica –  ma che, proprio per questo, in quanto «apocalittico della controrivoluzione»  – non può evitare di introdurre in essa dei  theologoumena genuinamente messianici. Secondo Schmitt – avrete capito che è a lui che mi riferisco –  il paradigma che definisce la struttura e il funzionamento proprio della legge non è la norma, ma l’eccezione: “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto … L’eccezione  è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo esso conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. (Schmitt 1921, 41) [nell’ultima edizione italiana : Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it, Bologna, 1972 (ed. 2013), p.41, ndr]”. È importante qui non dimenticare che, nell’eccezione, ciò che è escluso dalla norma non è, per questo, senza rapporto con la legge; al contrario, questa si mantiene in relazione con l’eccezione nella forma della propria autosospensione. La norma si applica, per così dire, all’eccezione, disapplicandosi, ritirandosi da essa. L’eccezione è, cioè, non semplicemente un’esclusione, ma un’esclusione inclusiva, un’ex-ceptio nel senso letterale del termine: una cattura del fuori. Definendo l’eccezione, la legge crea e definisce nello stesso tempo lo spazio in cui l’ordine giuridico-politico può avere valore. Lo stato di eccezione rappresenta, in questo senso, per Schmitt la forma pura e originaria della vigenza della legge, a partire dalla quale soltanto essa può definire   l’ambito normale della sua applicazione. » (Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani,Torino: Bollati Bolinghieri, 2000, pp. 98-99), una   katargēsis  messianica che sembra letteralmente esplodere sotto il peso delle sue contraddizioni: «Di qui l’ambiguità del gesto di Rm. 3, 31, che costituisce la pietra d’inciampo di ogni lettura della critica paolina della legge: “Rendiamo dunque inoperante [katargoumen] la legge attraverso la fede? Non sia! Anzi, teniamo ferma [histdnomen] la legge”. Già i primi commentatori avevano notato che l’apostolo sembra qui contraddirsi (contraria sibi scribere: Origene 1993, 150): dopo aver dichiarato più volte che il messianico rende inoperosa la legge, qui sembra affermare il contrario. In verità è proprio il significato del suo terminus technicus che si tratta qui per l’apostolo di precisare, riportandolo al suo etimo. Ciò che è disattivato, fatto uscire dall’ enérgeia, non è, per questo, annullato, ma conservato e tenuto fermo per il suo compimento.» (Ibidem, p. 94).

Per Agamben, quindi, mettendoci la katargēsis messianica  di fronte ad una legge  sospesa e compiuta  al tempo stesso, per ricostruire la vera genealogia della Gestalt dello stato di eccezione schmittiano, la cui intima natura espressiva è la messa al mondo della legge stessa ma contraddittoriamente facendola precedere in importanza gerarchica ed operativa  proprio dal  suo annullamento e/o negazione, lo stato di eccezione appunto, dobbiamo ricorrere alla lettera di S. Paolo ai  Romani. Riprendiamo più per esteso la citazione schmittiana del Tempo che resta: «Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto. […] Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica della ripetizione. » ( Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it, Bologna, 1972 (ed. 2013), pp. 40-41).

Questo è il luogo di tutta la produzione schmittiana dove meglio comincia a prendere forma quel concetto definito in sede di elaborazione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico  come  ‘stato di eccezione permanente’ , uno ‘stato di eccezione permanente’ che troverà la sua completa forma stilistico-espressiva (anche se non la sua compiuta definizione lessicale, la cui responsabilità risale interamente allo scrivente, sull’argomento cfr. Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola ed anche Idem, La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) ) all’ VIII tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.».

Attraverso questo e altri luoghi benjaminiani è stato del tutto naturale per il Repubblicanesimo Geopolitico una reinterpretazione di Walter Benjamin alla luce del concetto di ‘iperdecisionismo’, un iperdecisionismo benjaminiano che va addirittura oltre  il  decisionismo del giuspubblicista fascista Carl Schmitt risolto in funzione katechontica e non  rivoluzionaria come invece in Benjamin (cfr ancora  Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola e La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) ) e ‘stato di eccezione permanente’ e ‘iperdecisionismo’ benjaminiani assunti in pieno  dal Repubblicanesimo Geopolitico che nella Stimmung del loro contraddittorio e dialettico rapporto con la legge (qualsiasi movimento rivoluzionario sviluppa sempre un contradditorio rapporto con la legge: proprio come nella  katargēsis  paolina vorrebbe, attraverso un diktat originario e ad legibus solutus, cioè assoluto, abolire la vecchia legge ma, al tempo stesso, conservarne i suoi principi ordinatori in una nuova legge, ma da negarsi nel momento stesso che viene resa vigente) ben si riflettono nel tortuoso e tormentato precedere della lettera di S. Paolo ai romani.

«In his interpretation […], Kurt Weinberg has suggested that one must see the figure of a “thwarted Christian Messiah” in the shy but obstinate man from the country (Kafka’s Dichtungen, pp. 130-31). The suggestion can be taken only if it is not forgotten that the Messiah is the figure in which the great monotheistic religions sought to master the problem of law, and that in Judaism, as in Christianity or Shiite Islam, the Messiah’s arrival signifies the fulfillment and the complete consummation of the Law [evidenziazione nostra]. In monotheism, messianism thus constitutes not simply one category of religious experience among others but rather the limit concept of religious experience in general, the point in which religious experience passes beyond itself and calls itself into question insofar as it is law (hence the messianic aporias concerning the Law that are expressed in both Paul’s Epistle to the Romans and the Sabbatian doctrine according to which the fulfillment of the Torah is its transgression)  [evidenziazione nostra]. But if this is true, then what must a messiah do if he finds himself, like the man from the country, before a law that is in force without signifying? He will certainly not be able to fulfill a law that is already in a state of suspension, nor simply substitute another law for it (the fulfillment of law is not a new law) [evidenziazione nostra]. […]  This is precisely the situation that, in the Jewish tradition (and, actually, in every genuine messianic tradition), comes to pass when the Messiah arrives. The first consequence of this arrival is that the Law (according to the Kabbalists, this is the law of the Torah of Beriah, that is, the law in force from the creation of man until the messianic days) is fulfilled and consummated [evidenziazione nostra]. But this fulfillment does not signify that the old law is simply replaced by a new law that is homologous to the old but has different prescriptions and different prohibitions (the Torah of Aziluth, the originary law that the Messiah, according to the Kabbalists, would restore, contains neither prescriptions nor prohibitions and is only a jumble of unordered letters). What is implied instead is that the fulfillment of the Torah now coincides with its transgression. This much is clearly affirmed by the most radical messianic movements, like that of Sabbatai Zevi (whose motto was “the fulfillment of the Torah is its transgression”). From the juridico-political perspective, messianism is therefore a theory of the state of exception – except for the fact that in messianism there is no authority in force to proclaim the state of exception; instead, there is the Messiah to subvert its power [evidenziazione nostra].» (Giorgio Agamben, Homo sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press-Stanford, 1998, pp.37-38). Con  quest’ultima citazione agambeniana veniamo allora a chiudere rapidamente il nostro discorso sulla longue durée delle vere ragioni del perché la Chiesa cattolica oggi come ieri ha un rapporto conflittuale con i grandi agenti strategici che dominano la politica internazionale (oltre naturalmente i già accennati contrasti geopolitici contingenti velocemente riassunti nella presente comunicazione come in Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu ) . Detto brutalmente: oggi come ieri i grandi agenti strategici non potranno mai accettare una grande organizzazione spirituale ma anche secolare in cui una parte così fondamentale del suo essere la principale, se non l’unica,  agenzia di senso etico e comportale presente sullo scenario geopolitico derivi direttamente dalla  paolina  katargēsis messianica col suo dialetticamente rivoluzionario (rivoluzionario anche al di là della consapevolezza che ne ha la Chiesa) rapporto con la legge, proprio quella legge sulla quale i grandi agenti strategici, mentre ne operano lo svuotamento di fatto, vorrebbero operare, a scopo di continuazione dei rapporti di forza a loro favorevoli, una sua deificazione e mummificazione per l’eternità ( e l’esempio più clamoroso e chiaro di questa deificazione e mummificazione sono le retoriche sullo stato di diritto, la democrazia rappresentativa e i diritti umani). E  quelle dottrine che, come il Repubblicanesimo Geopolitico, sono basate  su una loro katargēsis rivoluzionaria che mai accetterà un rapporto morto e reverenziale con la legge sono destinate, proprio come la Chiesa cattolica, ad una eterna lotta contro questi agenti strategici conservatori. Il Repubblicanesimo Geopolitico si propone quindi come il primo grande agente strategico che storicamente opera a favore di una dialetticamente consapevole katargēsis rivoluzionaria. L’irrisolto rapporto con la legge ha connotato i duemila anni di vita del cristianesimo come in ultima istanza, oltre ad essere l’innesco delle rivoluzione stesse,  ha minato alle basi i tentativi rivoluzionari che dal XVIII secolo fino ad oggi sono stati uno dei principali motori (pur se fallimentari nel loro esito) della storia umana (se la rivoluzione non ossifica e deifica la legge, seppur rivoluzionaria, viene subito spazzata via; se invece lo fa forse sopravvive ma nega le sue stesse ragioni e poi, alla fine, sparisce lo stesso sotto il peso delle sue contraddizioni). Chiaramente non possiamo pretendere che il successo possa arridere solo in virtù della consapevolezza della presenza di una ineliminabile contraddizione ma, come la storia della Chiesa e quella dei movimenti rivoluzionari ben dimostra, questa sensibilità sulla presenza del “thwarted Christian Messiah” – conscia o inconscia, chiaramente o confusamente espressa  non importa –  ha impedito che il discorso rivoluzionario, religioso, culturale o sociale che fosse, cadesse per sempre nel ridicolo e in un definitivo oblio. E al Repubblicanesimo Geopolitico questo al momento basta e avanza.

 

Massimo Morigi – 29 agosto 2017

 

PERCHÉ LA CHIESA CATTOLICA VIENE ATTACCATA DALL’ONU 

Di MASSIMO MORIGI del 9 aprile 2014

La Chiesa cattolica è la più antica – e ormai unica – “agenzia di senso” globale ancora in dotazione ed operativa in un mondo in cui tutte le narrazioni politiche della modernità hanno fallito e stanno lasciando un panorama di autentica devastazione. In questo quadro, per quanto riguarda il perimetro delle (post)liberaldemocrazie occidentali, si cerca di riempire lo spazio geopolitico dell’ ideologia con quelle che viene definita “noopolitik” (politica di conquista a livello planetario delle menti e delle intelligenze: la propaganda di vecchia memoria ma enormemente potenziata rispetto al passato dalla nascita di internet e da più scaltrite conoscenze della psicologia delle masse), la cui apparente ragione sociale è la difesa dei diritti umani, una difesa che in realtà non è altro che la copertura per l’aggressione prima mediatica (ed eventualmente, in seguito, anche militare) di quei paesi che non si vogliono piegare al Washington consensus. Papa Francesco ha poi, da parte sua, avuto il coraggio di opporsi con tutte le sue forze – e con successo – all’aggressione alla Siria e alla “strategia del caos” che gli Stati uniti volevano applicare anche su questo paese mediorientale, sempre con la scusa della difesa dei diritti umani. E, a questo punto, fa la sua comparsa la ridicola commissione dell’ONU che non solo accusa la Chiesa di ogni possibile nequizia sessuale ma che anche vorrebbe imporre alla Santa Sede una sua particolare ideologia “politically correct” in materia di morale sessuale. Al di là delle considerazioni che si potrebbero fare in merito ad un tentativo di delegittimazione di stampo mafioso-totalitario contro la Santa Sede, rimanendo su un piano più asettico, c’è solo da notare che anche da questo episodio emerge in tutta evidenza che tutto l’impianto politico, ideologico ed infine anche istituzionale che ha retto a livello interno ed internazionale le cosiddette liberaldemocrazie dopo il secondo conflitto mondiale ha definitivamente cessato non solo diciamo di essere efficace ma anche minimamente credibile. Ed è altrettanto evidente che nel contrastare questo vuoto culturale e politico la Chiesa cattolica non solo non deve essere lasciata sola ma deve essere affiancata anche da apporti che se, apparentemente, hanno più a che fare con quello che deve essere dato a Cesare piuttosto che a Dio, cionondimeno affondano le loro radici, come il repubblicanesimo geopolitico, in una concezione di vita e di cultura che è nata nello stesso terreno sul quale ha prosperato la religione che ha dato forma alla civiltà occidentale.

LA MEDIAZIONE FRANCESE SULLA LIBIA AI LIMITI DELL’UMORISMO di Antonio de Martini

tratto da www.corrieredellacollera.com

Intrigante l’interesse suscitato dalle prime azioni pubbliche  del Presidente francese Emmanuel Macron che ha inizato il suo mandato con una serie di azioni di politica estera incontrando Trump. Putin e chiunque altro  fosse disposto a fare una gita a Parigi.

I francesi, più smaliziati di noi, lo hanno sanzionato togliendogli immediatamente dieci punti percentuali di popolarità nel solo primo mese di governo. Hanno capito di aver preso un granchio e lo hanno classificato come Hollande: un arrivista che li ha giocati grazie a una buona comunicazione.

Gli unici a prenderlo sul serio sono stati ” Il Corriere della Sera” e “il Messaggero” che cercano di darsi arie da esperti di politica estera assieme al giovane ambizioso francese che pare voler frequentare più Versailles che Parigi.

Si grida alla “marginalizzazione” dell’Italia nelle vicende libiche, si invocano interventi riparatori , ci si strappa le vesti.  La materia del contendere è presto detta: Macron, ha invitato i due pretendenti al dominio della Libia a Parigi per un fine settimana perché si parlino e magari facciano miracolosamente pace. Per dare una impronta internazionale si è invitato anche il rappresentante delle Nazioni Unite Ghassan Salamé. L’Ordine del giorno era aperto: vogliatevi bene e mostratelo alle telecamere.

Non era la prima volta che i due si incontrano. Era già accaduto a maggio in quel di Abu Dahbi,  senza risultati apparenti.

Il rappresentante del GUN ( Governo di unità nazionale) Fayez Serraj  – governo che siede a Tripoli  e gode del riconoscimento delle Nzioni Unite-  si è incontrato con il comandante dell’Armata Nazionale Libica  ( ANL Khalifa Haftar .

A solennizzare l’evento, la presenza di Ghassan Salamé, uomo politico franco-libanese che dal 2003 vaga tra le crisi mediorientali  come rappresentante del Segretario Generale dell’ONU, senza risultati apprezzabili.

A Parigi, rappresentava sopratutto “un successo della diplomazia francese” reduce dal fiasco di una mancata candidatura alla guida UNESCO . Insomma, un premio di consolazione vivente all’orgoglio francese.

Cosa chiede la Francia ( a nome dell’Europa , degli USA e del Mondo non escluso Putin?): quisquilie come la tenuta delle elezioni presidenziali ( Haftar vorrebbe  piuttosto una monarchia), le lezioni legislative ( che portino la pace tra Cirenaica e Tripolitania) e la ripresa della guerra contro l’ISIS.

La materia del contendere con l’Italia è che qualcuno voleva che fosse Roma la sede di questa riunione, mentre Yves Le Drian – ministro della Difesa con Hollande , sbarcato agli esteri con Macron, ha battuto sul tempo il nostro Angelino Alfano e ha fatto l’invito per primo.

Nei fatti, entrambi questi ministri ” des affaires etrangeres , etrangers aux affaires” mostrano di non aver chi.ara la situazione in loco.

Ormai la Libia è divisa in quattro parti e non più in due. Nell’interno, verso l’Africa,, le tribu e i clan beduini hanno ripreso la loro libertà di azione e si sono divisi il territorio in die macro areee.

la parte costiera, invece  è divisa tra Cirenaica ( governata da Haftar anche se esiste un parlamento regolarmente eletto e inefficace) e la Tripolitania ( governata da un sistema consociativo incoraggiato dalla ” comunità internazionale” e presieduto da Serraj che ormai non gode del rispetto nemmeno del suo autista).

Questo assetto si è ormai stabilizzato al punto che alcune entità statali del tempo si Gheddafi si sono organizzate e tendono all’autonomia:  A Misurata,” l’ente porto”, chiamiamolo così, ( Misurata fin dal tempo dei romani è sempre stata il porto commerciale più attivo) ha assunto una serie di iniziative semi sovrane compresa la costruzione dell’Ospedale che si affianca all’ospedale da campo italiano operante in loco. L’ospedale è gestito da una società americana e curerà malati e feriti di ambo le parti ( ISIS incluso ovviamente). Gli stipendi dei dipendenti statali ( dell’epoca di Gheddafi) operanti in entrambi i campi…..

In pratica , sulle cose essenziali, il paese si è riunificato per conto nelle questioni essenziali: Sanità e proventi del petrolio. Pensate che il petrolio viene estratto in Cirenaica, i fondi vengono versati in Tripolitania e gli stipendi vengono distribuiti ai dipendenti statali operanti in entrambe le regioni…

Intanto un paio di venduti allo straniero – entrambi ampiamente sputtanati –  giocano alla democrazia a Parigi tra la goduria dei Macron e l’invidia degli Alfano che sospira all’idea che avrebbe potuto ospitarli in Sicilia facendo un favore a un albergatore amico. Tutti voti persi.

Tragicomiche, a cura di Roberto Buffagni

In calce il testo tradotto della lettera che i Presidenti dei paesi del gruppo di Visegrad hanno inviato al Capo del Governo Italiano. Non è escluso che l’iniziativa goda del placet dei paesi capofila dell’Unione Europea. La nostra classe dirigente si è costruita un recinto nel quale è facile entrare, ma dal quale è sempre più difficile uscire. Deve aver smarrito le proprie chiavi dei cancelli e deve aver consegnato troppe copie di esse in giro_Giuseppe Germinario

Gentile Signor Primo Ministro,

seguiamo con attenzione e simpatia gli sforzi eccezionali che l’Italia sta facendo per affrontare l’attuale pressione migratoria.

Ci teniamo ad assicurarLe, signor Primo Ministro, che i nostri Governi sono come sempre pronti a contribuire, nei limiti dei loro mezzi, agli sforzi che Italia ed Europa sostengono allo scopo di fermare  le partenze dalla Libia e da altre località dell’Africa Settentrionale, e per arginare i flussi d’immigrazione irregolare verso l’Europa, e in particolare verso l’Italia.

Il nostro orientamento complessivo è che dovremmo affrontare con incisività le cause di fondo  delle migrazioni, e adottare politiche adeguate al fatto che la larga maggioranza dei compositi flussi migratori è composta da migranti economici.

Siamo persuasi che i richiedenti asilo autentici dovrebbero essere identificati prima di entrare nel territorio dell’Unione Europea. Le nostre frontiere esterne vanno protette. La UE e i suoi Stati membri dovrebbero mobilitare risorse, finanziarie e d’altra natura, per creare condizioni sicure e umane in centri di raccolta (hotspots) o strutture di accoglienza esterne al territorio UE. In spirito di solidarietà, i paesi del Gruppo di Vysegrad sono pronti a dare un significativo contributo, finanziario e d’altra natura, a tutti gli sforzi europei e nazionali volti ad alleviare il peso gravante su Stati Membri che, come l’Italia, si trovano in prima linea,  in conformità al il nostro orientamento complessivo e nei limiti delle nostre capacità nazionali, con l’esclusione di azioni e strumenti che possano creare ulteriori e più forti fattori d’incremento della pressione migratoria, quali, in particolare,  i riallocamenti e il meccanismo obbligatorio e automatico di ridistribuzione. Sulla base delle necessità identificate, i paesi del Gruppo di Vysegrad offrono il loro contributo in particolare nelle seguenti aree:

  1. Contributo, dietro richiesta, alle attività UE alla frontiera meridionale della Libia,
  2. Contributo all’allestimento, protezione, creazione di umane condizioni di vita in centri di raccolta (hotspots) situati all’esterno del territorio UE,
  3. Contributo all’addestramento della Guardia Costiera libica,
  4. Contributo al rafforzamento delle capacità dell’EASO[1],
  5. Contributo al Codice di Condotta delle ONG.

Ci si consenta di reiterare il nostro sostegno al vostro Paese e di proporre un dialogo volto a identificare i contributi più necessari.

Distinti saluti,

Beata Szydlo, Primo Ministro della Repubblica di Polonia

Bohuslav Sobotka, Primo Ministro della Repubblica Ceca

Robert Fico, Primo Ministro della Repubblica Slovacca

Viktor Orbàn, Primo Ministro d’Ungheria.

Copia per conoscenza: Membri del Consiglio d’Europa

[1] https://www.easo.europa.eu/, European Asylum Support Office [N.d.T.]

MARCO TULLIO CICERONE E TAJIP ERDOGAN. DEMOCRAZIE GEMELLE CON SUGGERIMENTI PER NOI. di Antonio de Martini

Tratto dal blog www.corrieredellacollera.com, con la notazione, per altro implicitamente evidenziata anche dall’autore, che tale politica trova adepti convinti tra gli alleati soprattutto europei

Marco Tullio Cicerone, nel pieno della confusione creata dalla congiura di Catilina, prese una decisione “antidemocratica” che oggi farebbe rabbrividire quei campioni di ipocrisia anglosassone di Amnesty International.

Diede ordine, in spregio alla legge romana, di strangolare i senatori Lentulo e Cetego che si sapeva essere la quinta colonna di Catilina in città.

Questo gesto fece capire ai romani che non si trattava più di politica ma di sopravvivenza e  Catilina capì  che la Repubblica gli aveva tagliato le unghie ed era pronta a combattere.

Erdogan ha licenziato tutti gli appartenenti alla numerosa ( 60.000) congrega diFetullah Gulen che operava silenziosamente per sabotare la Repubblica Turca su mandato – o sotto lo sguardo benevolo- del governo USA. Non si capisce perché non avrebbe dovuto, visto che la Germania democratica , riunificandosi, ha licenziato tutti gli impiegati statali della Repubblica Democratica Tedesca, senza che nessuno fiatasse. Un milione e mezzo di individui.

Lo scopo recondito, ma sempre più evidente, è quello di ridurre le dimensioni di ogni protagonista della vita politica mediterranea in maniera da rendere meno pericolose eventuali crisi per la ridotta capacità militare di ciascuno.

La Jugoslavia è spaccata in quattro, il Sudan in tre, la Libia in tre, la Siria in tre ( operazione in corso), lo Yemen in tre. Con l’Algeria ci hanno provato con dieci anni di guerra civile, come pure nella Russia mussulmana ( Cecenia).

Si vuole privare la Turchia del kurdistan ( paese mai esistito come nazione indipendente, proprio come il Kosovo o la Repubblica di Macedonia) , dividere in due l’Irak, minacciare – per ora solo politicamente – la Spagna e l’Italia con la secessione rispettivamente della Catalogna e del Lombardo Veneto.

Gli stessi fremiti disgregatori interni alla Unione Europea, sono alimentati dagli Stati Uniti e la secessione inglese è emblematica di quanto dico.

I paesi più riottosi verso l’Unione. Sono i più amichevoli verso gli USA ( gruppo di Visegrad) e i più aiutati ( Bulgaria e Romania).

Si analizzano con pretesti sociologici le diversità ( religiose, di lingua etc) e si finanziano individui ambiziosi che i media mondiali si incaricano di rendere famosi e intoccabili per minacciare prima e provocare poi spaccature e secessioni vere e proprie con l’aiuto di ONG tutte finanziate da ” fondazioni” nate e cresciute in America. La difesa è non tener conto delle cosidette regole democratiche che  sono loro i primi a violare quando gli conviene ( in patria – con le pantere nere- e all’estero, ormai ovunque)

La reazione, in nome del principio unitario è legittima, doverosa e giusta e deve giungere alle logiche conseguenze.

Come è avvenuto per gli agitatori ” egiziani” e ” siriani” tutti dotati anche di passaporti USA, dei nove cittadini tedeschi detenuti oggi in Turchia per attività pseudo democratiche, quattro hanno la doppia cittadinanza. Chiedono cose che negli USA, ai neri, costano ancor oggi la vita.

La Turchia è stata subappaltata alla Germania come Libia e Siria alla Francia.

La ragione è di fingere l’ amicizia USA vista la superiore necessità strategica di contenere la Russia nel fianco sud della NATO.

La Turchia reagisce, per ora, punzecchiando, come ad esempio facendo rivelare alla Agenzia Anadolu la posizione di due basi segrete USA in territorio siriano.

Diventa sempre più necessaria una nuova politica estera italiana e la creazione di una struttura statuale in grado di resistere a questo nuovo tipo di guerra, rafforzare la solidarietà europea e limitare drasticamente le attività delle fondazioni, ONG , Think Tank e tutti gli altri strumenti di sovversione miranti- nei fatti- a disgregare il nostro stato. La Patria è finita a puttane da un bel pezzo.

Ne riparleremo dopo averli cacciati.

PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, di Massimo Morigi

Proseguono le spigolature a proposito del “repubblicanesimo geopolitico” con un commento attuale DELL’AUTORE al testo 

SEMBRA POCO, MA FORSE È MOLTO, VERAMENTE MOLTO

Di MASSIMO MORIGI

 

«Diventa sempre più necessaria una nuova politica estera italiana e la creazione di una struttura statuale in grado di resistere a questo nuovo tipo di guerra, rafforzare la solidarietà europea e limitare drasticamente le attività delle fondazioni, ONG , Think Tank e tutti gli altri strumenti di sovversione miranti –  nei fatti – a disgregare il nostro stato. La Patria è finita a puttane da un bel pezzo. Ne riparleremo dopo averli cacciati.»: agli URL https://corrieredellacollera.com/2017/07/22/marco-tullio-cicerone-e-tajip-erdogan-democrazie-gemelle-con-suggerimenti-per-noi-di-antonio-de-martini/, http://www.webcitation.org/6s8qrEbxM e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2017%2F07%2F22%2Fmarco-tullio-cicerone-e-tajip-erdogan-democrazie-gemelle-con-suggerimenti-per-noi-di-antonio-de-martini%2F&date=2017-07-22.  In sede di commento di “PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO”  ora sull’ “Italia e il Mondo” avendo evidentemente fiducia sulle potenzialità prassistiche del Repubblicanesimo Geopolitico e a fine gennaio 2015 sul “Corriere della Collera” (agli URL https://corrieredellacollera.com/2015/01/29/italia-lelezione-del-presidente-della-repubblica-affidata-a-cricche-il-grande-baratto-ci-privano-della-sovranita-politica-in-cambio-della-indulgenza-individuale-come-nei-paesi-dellest-degli-an/, http://www.webcitation.org/6s8qXhvlw e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F29%2Fitalia-lelezione-del-presidente-della-repubblica-affidata-a-cricche-il-grande-baratto-ci-privano-della-sovranita-politica-in-cambio-della-indulgenza-individuale-come-nei-paesi-dellest-degli-an%2F&date=2017-07-22),  penso che non vi possa essere miglior incipit della citazione  della chiusa dell’articolo di Antonio de Martini appena pubblicato dallo stesso De Martini sempre sul “Corriere della Collera” e che invito tutti  ad andare a leggere nella sua interezza perché accanto a considerazioni di filosofia politica (che sottoscrivo in pieno e  che sono riassunte nelle ultime parole citate) contiene anche considerazioni di geopolitica mediorientale che fanno da coerente quadro alla visione filosofico-politica che con queste brevi parole intendo sviluppare. In effetti, sulle ragioni teoriche esposte in “PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO” molto poco o molto ci sarebbe da aggiungere. Molto poco sul piano fattuale perche la politica italiana e la politica internazionale hanno mostrato sul piano fattuale, nonostante siano passati pochi mesi dall’articolo,  una ulteriore violentissima e travolgente deriva verso quella politica di inflazione dei diritti messa in atto dalle classi dirigenti liberaldemocratiche per gabbare quei poveri “agenti omega-strategici” ai quali vengono sempre più sottratti diritti sostanziali e spazi reali e concreti di possibilità di azione pubblica e personale (spazi vitali sostanziali e concreti di azione che per il Repubblicanesimo Geopolitico, che può essere definito anche “Lebensraum Repubblicanesimo”, sono l’unico vero indicatore non metafisico ragionando sul quale ha senso parlare di libertà), per non menzionare il “trascurabile” dettaglio che la retorica sui diritti umani è proprio quell’elemento che non permettendo una reale e seria lotta contro il “terrorismo”,  la criminalità organizzate e,  per ultimo ma fondamentale,  la squilibrata distribuzione delle risorse fra la popolazione risulta così essere, de facto, la miglior formula per comprimere questi residui spazi di libertà degli “agenti omega-strategici” perché impedendo questa retorica la possibilità di mettere in atto politiche repressive e/o di proiezione geopolitica veramente violente ed efficaci (oltre, al contrario di quelle che vengono messe oggi in atto dalle moderne democrazie, con obiettivi concreti di azione sociale e non fantasmatici tipo la difesa della democrazia interna ed internazionale), rende possibile, accanto alla diuturna  ripetizione ad nauseam  del mantra su sacri principi scaturiti dalla rivoluzione francese, l’instaurazione di uno stato di eccezione permanente vista l’inefficacia (voluta) di queste farlocche risposte politiche (inefficaci per combattere il “terrorismo” ma, ovviamente, molto efficaci attraverso lo “stato di eccezione permanente” per consolidare il potere delle classi dirigenti liberaldemocratiche). Molto, al contrario, ci sarebbe da dire sul piano teorico, perché un pensiero che si proponga concretamente di tracciare le mappe degli amici e dei nemici della Weltanschauung  liberaldemocratica non dovrebbe assolutamente fare a meno di tutta una serie di autori, segnatamente i pensatori controrivoluzionari, vedi Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés per finire con Charles Maurras, molti dei quali ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo del pensiero realista del giuspubblicista fascista Carl Schmitt e autore al quale il Repubblicanesimo Geopolitico, pur respingendo la sua Katechontica  visione reazionaria e dialetticamente monca – e anzi presentandosi, in veste di “acceleratore” benjaminiano, come la sua polare antitesi –,  deve importantissime suggestioni nella sua inedita visione realista. E per chiudere l’ancora molto non detto teorico sul Repubblicanesimo Geopolitico e sul tracciamento delle sue “amity lines”, mi limiterò ad aggiungere che in “GLOSSE AL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO” di prossima pubblicazione un autore controrivoluzionario viene in verità citato. Si tratta di Edmund Burke. Le ragioni di questa ruolo di primazia riservato a Burke è dato dal semplice dato di fatto che in sede di iniziale costruzione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico (e siamo tuttora in questa fase) e nella elaborazione del suo pensiero rivoluzionario era sì  necessario scegliere autori anche antirivoluzionari ma la cui natura katechontica contro i venti della rivoluzione dell’ ’89 non fosse sostanzialmente toccata da nessuna venatura di tipo mistico che avrebbe inevitabilmente “intorpidito”, almeno a livello di recezione del messaggio,  l’impostazione realistica e dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico (dialettica che, al contrario di quando crede l’ingenuo realismo, essendo basata su un radicale immanentismo, è l’assoluto rifiuto del misticismo). Lasciandoci quindi alle spalle i problemi teorici e le sue apparenti – o reali ? –  contraddizioni (ma come, nelle “GLOSSE” di prossima pubblicazione si è ancora in una fase teoricamente meno avanzata rispetto a queste parole che le precedono e che, in aggiunta, si limitano ad indicare un futuro svolgimento rispetto alle future “Glosse” ma non lo sviluppano ?), torniamo allora alle proposte concrete di De Martini sottoscritte da noi in pieno su come effettualmente combattere i nemici che il Repubblicanesimo Geopolitico – ma, ancor meglio, su come  un elementare buon senso politico animato da un autentico amor di Patria deve intendere la futura azione politica. Ed  è quindi allora venuto il momento di dire a chiare lettere che fra i grandi agenti interni ed internazionali politici ed economici che restringono sempre più i residui spazi di azione degli agenti omega-strategici  basandosi sulla tronfia retorica dei diritti umani e politici (che riducono, insomma, il Lebensraum di azione dei “poveracci” dal punto di vista economico e del potere politico, e per non avere l’impressione di volersi tirar fuori da questa torma di disgraziati, anche della classe intellettuale e per una trattazione più approfondita di questi agenti omega-strategici si rimanda volentieri alla nostra “TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE”) ci sono anche le ONG che solo un deficiente (politico, per carità) non capirebbe che sono strumenti in mano agli agenti alfa-strategici (grande potenza imperiale occidentale con relativi reggicoda emersi più o meno vittoriosi dalla seconda guerra mondiale,  grande finanza, politici asserviti al sistema liberaldemocratico) per distruggere i popoli e quel poco che rimane ancora dei loro  spazi di libertà (la libertà, per intenderci, come pensata dal Repubblicanesimo Geopolitico o Lebensraum Repubblicanesimo e non certo la libertà mitologica liberaldemocratica, capostipite Benjamin Constant). C’è nello scenario politico italiano ed internazionale qualcuno che non in preda a misticismi reazionari o al delirium tremens del “terrorismo” (funzionale alla permanenza dello status quo) che intenda far sua questa consapevolezza di riscrittura ab imis delle categorie (e dell’azione) del politico? Aspettando allora lo scioglimento (o meglio, l’ulteriore sviluppo) di tutti i nodi e le  contraddizioni teoriche segnalate anche in questo articolo, la migliore prospezione di una feconda unione fra pensiero e azione è stata allora indicata anche  dall’autore citato all’inizio inizio di queste parole e che per non eccedere in piaggeria non nomino per l’ennesima volta. Sembra poco ma forse è molto, veramente molto … 

Massimo Morigi – 22 luglio 2017

QUI SOTTO IL TESTO DI RIFERIMENTO

Per precisare ancora meglio, per porre la base per un futuro dibattito e per perimetrare il campo del nemico del Repubblicanesimo Geopolitico: la costituzione materiale dell’Italia si esprime attraverso un regime di libera ed autorizzata conflittualità fra diversi gruppi oligarchici totalmente irresponsabili e in cui questa irresponsabilità viene dissimulata attraverso l’uso ideologico del concetto di ‘democrazia’, un uso ideologico che trova il momento di sua massima espressione nelle contese elettorali formalmente libere ma sostanzialmente del tutto inutili nel mettere in discussione l’irresponsabilità dei gruppi dirigenti.
Sotto questo punto di vista, la “democrazia” italiana ha profonde analogie con la “democrazia” degli ex paesi del socialismo reale, nella quale l’ideologia della dittatura del proletariato e la sua pratica – ed antinomica – traduzione nella cosiddetta democrazia popolare era solo un feticcio per nascondere gli scontri fra i vari gruppi di potere operanti all’interno del partito unico comunista (in certi casi era anche consentito un vero e proprio pluripartitismo ma senza possibilità teorica e pratica di contestare il sistema oligarchico e ciò configura ancor più profonde analogie col sistema italiano e, più in generale con le democrazie elettoralistiche occidentali) e, come nel sistema italiano, rispondenti solo verso il loro interesse di gruppo ed irresponsabili rispetto al soggetto – il proletariato nei sistemi socialisti, il popolo senza aggettivazione di classe sociale nelle democrazie rappresentative – in nome e per conto del quale esercitavano il potere pubblico.
A differenza che nei paesi del socialismo reale, in Italia esiste ancora una certa libertà di espressione politica e, soprattutto, nell’esercizio dei diritti afferenti alla sfera personale (attenzione questa libertà di per sé non significa affatto democrazia, un dispotismo illuminato può ben permettere lo ius murmurandi ed anche una notevole tolleranza rispetto a stili di vita non omologabili a quelli della maggioranza della popolazione).
É peraltro di empirica evidenza che anche questa libertà – e in questo aspetto la situazione italiana segue un trend del tutto analogo alle altre più consolidate e tradizionali democrazie elettoralistico-rappresentative dei paesi maggiormente sviluppati – sta subendo nel nostro paese un singolare fenomeno: una forte contrazione a livello di esercizio dei diritti politici e una apparente espansione per quanto riguarda i diritti afferenti alla sfera personale (un aumento e una sempre più marcata sottolineatura politico-ideologica dei cosiddetti diritti alla “diversità”).
Insomma, disvelando il trucchetto delle oligarchie irresponsabili potremmo sintetizzare: nella democrazia dei postmoderni vi togliamo sempre maggiori quote di potere (democrazia puramente elettoralistica e, in Italia, ancora peggio che altrove, dove non si scelgono i propri rappresentanti e dove la maggiore carica dello stato è fornita attraverso una elezione di secondo grado) e in, cambio, vi riempiamo di chiacchiere in merito a fantomatici diritti alla diversità, che, apparentemente, significano maggiore democrazia ma, in realtà, di per sé sono solo in grado di definire una situazione di dispotismo illuminato, dove i moderni despoti, le oligarchie irresponsabili, sono ben felici di concedere al popolo alcuni infantili divertimenti e trasgressioni fra le lenzuola (e qualche sollievo dagli ingenui sensi di colpa derivanti dalle strutture di dominio che si giustificavano e poggiavano sulla polarizzazione sessuale e non ancora, come oggi, sul totale nascondimento, attraverso l’ideologia democratica, delle oligarchie e degli agenti strategici dominanti).
Massimo Morigi – 29 gennaio 2015

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia, di Luigi Longo (versione integrale)

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

 

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

 

 

L’inizio del declino e il bivio storico

Il declino di una potenza mondiale egemone inizia a presentarsi quando esplodono le contraddizioni interne (conflitti tra agenti strategici delle diverse sfere sociali, fratture sociali e territoriali, degrado totale, eccetera); tale declino è altresì in relazione alle dinamiche di crescita di altre potenze sia regionali sia mondiali che mettono in discussione quella egemonia dominante(1).

Gli strateghi USA, potenza mondiale egemone, sono consapevoli di questo processo, così Zbigniew Brzezinski: << Come la sua epoca di dominio globale finisce, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale […] La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale […] quell’epoca sta ormai per finire […] >> (2). Il declino USA è relativo perché è ancora decisiva la sua egemonia in tutte le istituzioni mondiali. La sua capacità di dominio, attraverso il soft power e l’hard power, è ancora grande in rapporto alle potenze mondiali emergenti, come la Russia e la Cina, in questa fase di multicentrismo (3).

Gli statunitensi si trovano ad un bivio storico dove lo spazio-tempo della decisione si fa sempre più stretto e dovranno scegliere quale strada intraprendere. Questa diramazione prospetta paesaggi mondiali diversi: 1. Una potenza mondiale che rivendica la sua egemonia (G7, FMI, BM, NATO, ONU, WTO) e il suo dominio con la supremazia militare indiscussa (4), ma nel ri-lanciare il suo dominio mondiale monocentrico non si preoccupa delle contraddizioni strutturali interne né, ricerca un nuovo modello di sviluppo o una nuova visione di società; 2. Una potenza mondiale che ri-vede il suo modello sociale, fa i conti con le sue contraddizioni strutturali che rischiano di accelerare il declino e ri-lancia la sua egemonia confrontandosi con le altre potenze.

La prima strada accelera la fase multicentrica e prepara la fase policentrica: il conflitto mondiale; la seconda strada ritarda la fase policentrica e rimane in una fase multicentrica che potrebbe portare ad una condivisione e ad un rilancio di nuove relazionali mondiali nel rispetto delle diversità ( storiche, culturali, sociali, politiche, territoriali, eccetera): parafrasando Karl von Clausewitz si può dire che la guerra cessa di essere la continuazione della politica con altri mezzi.

E’ mia opinione che prevarrà la prima strada, per le seguenti ragioni.

La prima. Gli USA credono di essere la nazione indispensabile e hanno la cultura monocentrica del dominio mondiale. Vale per tutti il seguente pensiero di Henry Kissinger. << La sfida in Iraq non era solo vincere la guerra quanto [mostrare] al resto del mondo che la nostra prima guerra preventiva è stata imposta dalla necessità e che noi perseguiamo l’interesse del mondo [ corsivo mio], non esclusivamente il nostro […] La responsabilità speciale dell’America [ USA, mia specificazione], in quanto nazione più potente del mondo, è di lavorare per arrivare a un sistema internazionale che si basi su qualcosa di più della potenza militare, ovvero che si sforzi di tradurre la potenza in cooperazione […] Un diverso atteggiamento ci porterà gradualmente all’isolamento e finirà per indebolirci. >> (5).

La seconda. La piramide sociale statunitense non reggerà più, la base sta scricchiolando e si arriverà alla implosione della nazione e con essa alla fine dell’idea della grande nazione imperiale. Si stanno indebolendo la struttura e il legame sociale della società, che sono il fondamento della potenza imperiale. Gli agenti strategici dominanti sono incapaci di una nuova visione, di un nuovo modello di sviluppo sociale, di nuovi rapporti sociali che potrebbero emergere dalla cosiddetta società capitalistica. Gli strateghi delle sfere egemoniche ( politica, militare, istituzionale, economica-finanziaria,), portatori della visione classica della logica di funzionamento imperiale, agiscono con la convinzione che il dominio, con la coercizione ( la forza militare imperiale) e il denaro ( il dollaro imperiale), sia l’unica strategia per continuare a mantenersi, come grande nazione imperiale, sulle spalle del resto del mondo (le economie dei diversi capitalismi).

Alcuni strateghi, soprattutto delle sfere militare e politica, con i loro gruppi di pensiero (think tank) e i loro centri e istituti di ricerca strategica, si sono resi conto della strada di non ritorno del declino USA, una strada, per dirla con David Calleo, di egemonia sfruttatrice (6), e hanno cercato di deviare, invano (si vedano le elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca), verso una visione del Paese incentrata sull’economia reale, sul legame sociale da rafforzare, sulla ri-definizione dei rapporti sociali sistemici, sull’apertura di una fase multicentrica; ma realizzare tutto questo significava derogare alle regole della potenza mondiale, cioè ri-collocare gli USA quale potenza mondiale di confronto e condivisione con altre potenze mondiali emergenti: non più come la grande nazione imperiale.

La terza. La lezione della storia, a prescindere dal modo di produzione e riproduzione del legame sociale della società storicamente data, è questa: schiacciando esseri umani sessuati e natura, oltre il limite strutturale sociale e naturale, si rischiano grossi guasti. La forbice tra ricchezza illimitata e povertà assoluta non può divaricarsi all’infinito. Non è un discorso pauperistico del limite superato, ma un ragionamento di modello di sviluppo, di una idea nuova del legame sociale e del rapporto sociale ( sia dentro sia fuori il Capitale, ovviamente inteso come relazione sociale) e di rottura dell’equilibrio dinamico del blocco egemone degli agenti strategici dell’insieme delle sfere sociali del Paese (7).

 

La fase di transizione

Quando dico che la grande nazione imperiale USA è in fase di declino non intendo assolutamente che essa smette di lottare per il mantenimento o per una rinnovata supremazia mondiale ( intesa come centro di coordinamento per un nuovo ordine mondiale), per la semplice ragione che è ancora lunga la fase di transizione di egemonia mondiale verso una nuova potenza o una rinnovata egemonia: << Il nostro confronto delle passate egemonie mostra che il ruolo di nuove potenze aggressive nell’affrettare i crolli sistemici è diminuito di transizione in transizione, mentre è cresciuto il ruolo giocato dalla dominazione sfruttatrice esercitata dalla potenza egemone in declino […] Non ci sono nuove potenze aggressive credibili che possono provocare il crollo del sistema mondiale imperniato sugli Stati Uniti, ma, rispetto alla Gran Bretagna un secolo fa, gli Stati Uniti hanno possibilità anche maggiori di trasformare la loro potenza egemonica in declino in una dominazione sfruttatrice. Se alla fine il sistema crollerà, sarà principalmente per la refrattarietà degli Stati Uniti all’adattamento e alla conciliazione.>> (8).

Affinchè ci siano le condizioni di passaggio di egemonia da una potenza in declino ad un’altra occorrono le seguenti condizioni. << […] i paesi emergenti devono essere rispetto alla potenza in declino:

  1. più larghi e diversificati geograficamente;

  2. più efficienti economicamente e organizzativamente;

  3. più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato mondiale e sistema interstatale;

  4. più inclusivi socialmente all’interno;

  5. più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi [ funzionari del capitale, mia specificazione lagrassiana] a quelli dello forze organizzate del lavoro subalterno.

Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione egemonica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verificatesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. In questo caso, gli Stati Uniti hanno offerto al processo accumulativo:

  1. un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey (9) [ il termine spatial fix è di difficile traduzione e, perciò, si preferisce mantenere la dicitura inglese, anche se potrebbe essere impropriamente tradotto con soluzione spaziale così il traduttore Michele Dal Lago (9), mia precisazione ], più vasto e vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese;

  2. un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole economicamente e più efficiente organizzativamente della manifattura inglese;

  3. un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistema interstatale più complesso e stratificato ( dall’Fmi all’Onu) di quello inglese, basato su gold standard e concerto europeo;

  4. un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese alla soddisfazione degli interessi dei lavoratori;

  5. un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla conservazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capace di elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzioni significative del proletariato mondiale.

Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche succede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per ciascuna transizione egemonica. >> (10).

Le due potenze emergenti mondiali, Russia e Cina, non sono in grado di creare le condizioni per la sostituzione della potenza mondiale egemone, ammesso e non concesso che esse aspirino ad un dominio mondiale e non semplicemente, come lascia pensare la loro storia, ad una fase multicentrica ( che ritardi o annulli la fase policentrica del conflitto mondiale) nella quale confrontarsi su una visione diversa delle relazioni internazionali a partire dalla propria autonomia nazionale, dalla propria cultura, dal proprio legame sociale e dalla propria peculiarità territoriale.

Gli strateghi statunitensi non vogliono perdere il loro ruolo di grande nazione imperiale e temono il formarsi e il consolidarsi di poli, di aree, di regioni aggreganti intorno alle due potenze emergenti, in grado di mettere in discussione il loro dominio mondiale. Per questa ragione avendo scelto la strada di egemonia sfruttatrice, gli Stati Uniti sono la potenza mondiale più spregiudicata e pericolosa per l’intera umanità considerato, il livello di strategia atomica avanzata e radicale raggiunto. Alain Badiou, non molto tempo fa, sosteneva che:<< La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza.>> (11).

Gianfranco La Grassa dichiara che:<< L’eccezionalità del “mondo bipolare”, durato abbastanza a lungo, ha assicurato nella parte “centrale” del mondo (quella più sviluppata) un periodo di pace, legato però alla subordinazione di molti paesi all’uno o all’altro polo. Adesso siamo entrati in una fase molto diversa, che per di più va cambiando a sua volta “pelle” in periodi successivi e con il tentativo del predominante di uno dei due poli (il sopravvissuto) di avere il completo controllo della situazione. Tale tentativo non è per nulla favorevole al mantenimento di un minimo di equilibrio; da qui il disordine crescente attuale. Quindi, quel predominante (evidentemente gli Usa) deve essere contrastato e si deve arrivare al punto che esso si trovi nella situazione di rischiare tantissimo insistendo sulla sua prepotenza e arroganza. Non si ottiene questo risultato se non con l’unione degli sforzi di alcuni altri paesi, in cui si verifichi la presa del potere da parte di forze politiche capaci di decisa autonomia e di collegarsi fra loro in funzione anti-predominante>> (12).

Gli Stati Uniti si preoccupano, nel medio periodo, soprattutto della Russia (13) sia perché è stata la storica nemica del “mondo bipolare”, sia perché è la nazione centrale tra Asia e Europa ( il cuore della terra, l’immenso territorio bicontinentale), sia perché è stata la nazione dove è avvenuto un evento storico di grande importanza: la rivoluzione dei dominati che a partire dall’atroce macelleria della prima guerra mondiale hanno sperato in un mondo migliore. La lezione storica della rivoluzione russa indica che la maggioranza della popolazione se si organizza, pensa e progetta, può cambiare l’ordine costituito e pensare un nuovo legame sociale e nuovi rapporti sociali e questo a prescindere dal giudizio storico sulla rivoluzione russa del 1917.

Lo spettro della Russia

La paura degli agenti strategici statunitensi nei riguardi della Russia (14) scaturisce, oltre che dalla forza militare ( soprattutto nucleare), dal ruolo centrale che la potenza emergente può avere nella formazione di un polo aggregante ( una sorta di polarizzazione di blocchi tra potenze mondiali) che pone dei limiti all’arroganza egemonica sfruttatrice di una superpotenza in declino.

 

La strategia di Kissinger

 

Henry Kissinger, un protagonista delle strategie di dominio statunitensi, aveva capito l’importanza della centralità della Russia, sia come nazione vettore tra i due continenti, Asia e Europa, sia come nazione strategica per l’egemonia mondiale, sin dai tempi del tentativo di apertura delle relazioni sino-americane, alla fine degli anni Sessanta e inizio degli anni Settanta del Novecento. L’apertura della collaborazione tra USA e Cina si inseriva allora nel conflitto acuto tra URSS e Cina ed era indirizzata formalmente alla costruzione di “un ordine internazionale più pacifico”, mentre nella sostanza mirava a contrastare l’URSS, ritenuta, forse, già allora un gigante militare-nucleare con i piedi di argilla. Questa apertura tattica avrebbe potuto accelerare il processo storico di implosione del sistema del socialismo irrealizzato e la fine del mondo bipolare. Il tentativo non riuscì per il conflitto interno agli strateghi statunitensi nel quale prevalse la continuazione della logica del mondo bipolare (15).

Oggi Henry Kissinger ri-lancia, nella logica del tutto torna ma in maniera diversa, per la seconda volta, la politica estera degli Stati Uniti verso una coevoluzione ( una sorta di comunità pacifica sulla scia della comunità atlantica) delle relazioni sino-americane in modo da contrastare la eventuale nascita di un polo Russia-Cina, in questa fase di loro collaborazione soprattutto nella sfera economico- finanziaria ( le nuove vie della seta cinese, gli accordi di area, il sistema bancario alternativo, eccetera), che metterebbe in seria difficoltà gli USA e ne accentuerebbe, nel medio-lungo periodo, il declino (16).

In una recente intervista, apparsa su “La Stampa” del 27/3/2017 a cura di Paolo Mastrolilli, Henry Kissinger ribadisce sia la logica di contenimento della Russia (la Russia non ha diritto a stare in Medio Oriente) sia la logica di apertura verso la Cina ( un negoziato diretto tra Washington e Pechino per raggiungere un accordo di sicurezza dell’intera regione dell’Estremo Oriente a partire dalla questione della Corea del Nord).

 

La strategia di Brzezinski

 

Zbigniew Brzezinski, un altro importante protagonista delle strategie di dominio degli Stati Uniti, ritiene la Russia una nazione centrale, nel breve e medio periodo, per la nascita di poli di potenze mondiali in grado di sfidare l’egemonia USA che riconosce in declino e che rilancia con una architettura del dominio mondiale fondata nella sostanza sul monocentrismo statunitense. Egli è talmente ossessionato dalla Russia che  già nel 1997, anno di pubblicazione del suo libro “La grande scacchiera”, scriveva sulla divisione della Russia:<< Una confederazione composta da una Russia europea, una repubblica siberiana e una dell’Estremo Oriente, potrebbe sviluppare con maggior facilità rapporti economici più stretti con l’Europa, come pure con i nuovi Stati dell’Asia centrale e con l’Oriente.>>, ovviamente all’interno di << una comunità internazionale fondata su una reale cooperazione, che assecondi le antiche aspirazioni e garantisca i fondamentali interessi dell’umanità. Ma, nel frattempo, è assolutamente indispensabile che non emerga alcuna potenza capace d’instaurare il proprio dominio sull’Eurasia e di sfidare per ciò stesso l’America >> (17).

Zbigniew Brzezinski pensa l’Europa e la Nato ( non più solo militarizzazione del territorio europeo ma anche coesione economica, sicurezza dei territori e delle città, eccetera) come teste di ponte contro la Russia, mentre ritiene importante una intesa con la Cina nel rispetto della suddetta coevoluzione delle relazioni sino-americane. Sono importanti la Nato e la UE ( per il dominio statunitense non conta il suo l’asservimento unitario o fondato su relazioni tra stati) per la espansione ad Est ( vedasi la questione Ucraina) e nel Medio Oriente ( vedasi la questione Siria). E’ un attacco alla Russia molto pericoloso perché mira al suo contenimento e alla perdita della sua sovranità inviolabile, sia attraverso il blocco degli accessi al mediterraneo ( in Ucraina c’è la base navale di Sebastopoli, in “affitto” a Mosca fino al 2042, più una serie di caserme, poligoni e porti usati dalla Russia; in Siria c’è la base navale di Tartus, la base aerea di Humaymim e la stazione di ascolto di Lataqia), sia attraverso la riduzione delle risorse energetiche strategiche della Russia con la realizzazione del gasdotto del Qatar verso l’Europa (che taglierebbe la quota russa del mercato europeo), sia con la costruzione da parte della Turchia di un hub energetico ( che ne ridurrebbe la dipendenza dal gas russo) nell’Europa meridionale (18).

Gabriel Galice così analizza:<< […] L’Eurasia è centrale, l’America deve esservi presente per dominare il pianeta, l’Europa è la testa di ponte della democrazia in Eurasia, la Nato e l’Unione europea devono di conseguenza estendere la propria influenza in Eurasia, gli Stati Uniti devono giocarsi simultaneamente la Germania e la Francia ( carte delle rispettive zone di influenza alla mano), alleati fedeli anche se ciascuno a modo suo, irrequieti e capricciosi.>> (19).

Concludendo queste brevi riflessioni si può sostenere ragionevolmente che l’obiettivo della strategia USA è quello di impedire la formazione di un polo di potenza mondiale tra la Russia e la Cina in grado di metterne in discussione l’egemonia. Il giocatore più pericoloso, nel breve-medio periodo, in questa lotta per contrastare l’egemonia mondiale assoluta statunitense e per pensare un mondo multicentrico, è la Russia. E’ la nazione che va combattuta e ridimensionata con ogni mezzo. E’ lo spettro degli agenti strategici dominanti statunitensi.

 

 

En Passant

 

 

I sub-sub-dominanti italiani hanno subito rinnovato con l’amministrazione Trump le catene della servitù volontaria per un mondo monocentrico americano. Hanno le facce da servi di gaberiana memoria.

L’Europa va rifondata a partire dalla demolizione del progetto Europa tanto caro ai suoi padri fondatori, esecutori di un progetto pensato e attuato dagli USA per le loro strategie di dominio mondiale: fatto noto ma non conosciuto.

Ritengo che sia ancora valido quanto scriveva Costanzo Preve:<< Un’Europa delle nazioni, e nello stesso tempo delle nazioni eguali, ed in più delle nazioni amiche della Russia e della Cina, e infine disposte anche ad essere amiche degli Stati Uniti, se questi ultimi rinunceranno saggiamente alla pretesa di impero universale basato su di un dominio militare soverchiante e sull’imposizione di un’unica cultura linguistica anglosassone.>> (20).

Un nuovo progetto Europa: con chi? con quale pensiero? con quale organizzazione? con quale progetto di società? con quale relazione sociale? con quale prassi politica?

Sono domande che scaturiscono dalla grande lezione storica della rivoluzione russa.

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

 

 

NOTE

 

 

  1. Su questi temi rinvio a Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mandadori, Milano, 2003; Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
  2. Zbigniew Brzezinski, Toward a global realignmente in “ The American Interest” ( www.the-american-interst.com) , n.6/2016. Stralci dell’intervista sono compresi anche nell’articolo di Mike Whitney, La scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano, www.megachip-globalist.it, 28/8/2016.
  3. Joseph S. jr Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016; con una lettura critica si veda anche Etienne Balibar, Populismo e contro-populismo nello specchio americano, www.ariannaeditrice.com, 27/4/2017.
  4. Per un’analisi storica, geopolitica, militare, finanziaria si rimanda alla rivista “Limes”, n.2/2017, “Chi comanda il mondo”, in particolare gli articoli di Dario Fabbri (La sensibilità imperiale degli Stati Uniti è il destino del mondo), di Alberto De Sanctis (Gli Stati Uniti tengono in pugno il tridente di Nettuno), Giorgio Arfaras (Il dollaro resta imperiale). Per un’analisi del consolidamento delle potenze mondiali emergenti e delle transizioni egemoniche si veda Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di, Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010. Per un’analisi sulla supremazia militare si rimanda ai lavori puntuali di Manlio Dinucci pubblicati sul sito www.voltaire.org e sul quotidiano “il Manifesto” e ai Rapporti SIPRI ( e non solo) ( www.sipri.org) . E’ interessante sottolineare quanto detto da Noam Chomsky in una recente intervista concessa a “il Manifesto” del 20/4/2017:<< L’Atomic Bulletin of Scienctists nel marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello di strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia >>.
  5. La citazione del pensiero di Henry Kissinger è tratta da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004, pp. 59-60.

6.Così David Calleo:<< [il] sistema internazionale crolla non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in declino, invece di adattarsi e cercare una conciliazione, tentano di cementare la loro vacillante predominanza trasformandola in una egemonia sfruttatrice >>. La citazione è tratta da Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op. cit., pp.335-336.

  1. Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale ( nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali. La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali. Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre ( politica, economica e culturale), David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio. Cfr il mio, La nazione e lo stato: una grande illusione dei popoli. La rottura teorica del conflitto strategico. Tempo e spazio della ricerca, www.conflittiestrategie.it, 5/7/2016 e www.italiaeilmondo.com, 26/12/2016.

  2. Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op.cit., pag. 336.

    9. David Harvey, The geopolitics of capitalism in Social relations and spatial structure, a cura di, D. Gregory e J. Urry, Londra, Mcmillan, 1985, pp.128-163, ora in Giovanna Vertova, a cura di, Lo spazio del capitale. La riscoperta della dimensione geografica nel marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 2009, pp. 97-147.

    10. Giorgio Cesarale, Le lezioni di Giovanni Arrighi in Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, op. cit., pp.19-20; sulla riorganizzazione sistemica statunitense si veda anche Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pp.41-43.

    11. La citazione di Alain Badiou è tratta da Alain de Benoist, L’impero del “bene”. Riflessioni sull’America d’oggi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2004, pag. 107.

    12. Gianfranco La Grassa, Alcune verità che sembrano dimenticate, www.conflittiestrategie.it, 29/4/2017.

    13. La Cina è sostanzialmente una potenza economica mondiale funzionale alla logica imperiale USA: cosa è l’enorme surplus commerciale cinese pari a 347 miliardi di dollari e il consistente debito pubblico statunitense pari a 1058 miliardi di dollari che detiene se non una relazione “economico-finanziaria” asimmetrica a favore degli Stati Uniti: << Esportatori netti, tali paesi [ Giappone, Cina, India, Russia, eccetera, mia precisazione] sono costretti ad acquistare titoli di stato USA per mantenere apprezzato il dollaro e reinvestire il surplus commerciale nel più stabile luogo della terra, l’unico a non aver mai conosciuto cambi di regime. In nuce: per mantenere il benessere del loro principale acquirente, nonché garante delle vie di comunicazioni. Da qui l’accorato appello di Xi Jiuping per il mantenimento dell’attuale schema a guida americana >> ( Dario Fabbri, op. cit., pag.38). Per non parlare degli investimenti diretti e indiretti all’estero “propulsivi” ( investimenti fissi e azioni) per gli USA e “passivi” per Cina e Russia: << Gli Stati Uniti investono nel resto del mondo in maniera diretta- impianti- o in maniera indiretta-azioni- dieci volte più della Cina e della Russia messi insieme. Intanto che avviene questo, la gran parte delle riserve dei paesi che hanno accumulato avanzi commerciali- come la Cina, la Russia e i paesi produttori di petrolio- è trasformata in riserva in dollari ( e minor misura in euro) […] la maggior ricchezza cumulata da questi due paesi da quando è cambiato il sistema ( dagli anni Ottanta in Cina, dagli anni Novanta in Russia) non ha ancora spinto verso la strada della “dinamicità”. Questi due paesi, che per ora comprano- per bilanciare i propri avanzi commerciali – i buoni Tesoro degli Stati Uniti, potrebbero però- col passare del tempo- diventare dinamici nel campo degli investimenti esteri >>. Per non dire, infine, della moneta come riserva di valore (USA):<< […] si noti che per ora la Cina e la Russia investono all’estero, mentre spingono per l’uso delle proprie monete come mezzo di scambio che però è cosa ben diversa dalla moneta come riserva di valore >> ( Giorgio Arfaras, op. cit., pp.52-53).

    14. Sulla paura americana si rimanda a Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti editore, Roma, 2016, pp.272-312.

    15. Per una minuziosa e interessante ricostruzione della prima fase di apertura delle relazioni sino-americane, soprattutto i colloqui Kissinger-Zhou Enlai-Mao, si rimanda a Henry Kissinger, Cina, Arnoldo Mondadori, Milano, 2011, pp.185-216; si veda anche l’intervista rilasciata da Henry Kissinger allo storico Niall Ferguson e pubblicata, a cura di Alfonso Desiderio, in www.limesonline.com, 4/10/2011; Gianfranco La Grassa, Sul mondo bipolare e la sua “pace”, www.conflittiestrategie.it, 7/4/2015.

    16. Sul rilancio delle relazioni sino-americane improntate alla coevoluzione, alla collaborazione e alla competizione economica-sociale si legga Henry Kissinger, Cina, op. cit., pp.401-473. Henry Kissinger specifica che << L’etichetta adatta a definire le relazioni sino-americane è più “coevoluzione” che “partnership”. “Coevoluzione” significa che entrambi i paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile e regolando le loro relazioni in maniera da ridurre al minimo i conflitti. Nessuna delle due parti sottoscrive tutti gli obiettivi dell’altra né presuppone una totale identità di interessi, ma entrambe cercano di individuare e sviluppare interessi complementari.>>, ivi, pag. 470; si veda anche Henry Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2015.

  3. 17. Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pag.268 e pag.8. Zbigniew Brzezinski, come riporta lo storico Guy Mettan, << […] inserendosi nella più pura delle tradizioni geo-imperialiste di Mahan, Mackinder e Spykman, e in totale contraddizione con i discorsi di coloro che predicavano la fine degli imperi territoriali e l’obsolescenza della geopolitica occidentale […] pubblica La grande scacchiera. L’America e il resto del mondo, opera in cui riattualizza i concetti dei suoi predecessori applicandoli alla nuova situazione postsovietica. La stessa tesi verrà riaggiornata nel 2004 ( la vera scelta) per poi lasciar posto a un nuovo modello nel 2012 che teneva conto dell’ascesa della potenza cinese >> in Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag.288.
  4.  
    1. 18. Si veda Robert Kennedy jr., I retroscena della politica Usa in Siria che ha portato alla guerra attuale, www.vietatoparlare.it, 28/4/2017; Redazione l’antidiplomatico, La guerra dei gasdotti che brucia sotto la Siria, www.l’antidiplomatico.it, 26/9/2016.
    2. 19.
    3. La citazione di Gabriel Galice è tratta da Guy Mettan, Russofobia, op. cit., pag. 288.
    4. 20.
    5. Costanzo Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2005, pag.82.

     

I RIMPATRIATI, di Giuseppe Germinario

DELLA MAGNANIMITA’ DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE

 

Doveva arrivare Emma Bonino ( https://www.youtube.com/watch?v=Y4En-tVTH2E&feature=youtu.be ), ex ministro degli esteri, a svelare gli arcani che rendessero intelligibili le ragioni dell’attuale gestione dei flussi migratori provenienti dal sud del Mediterraneo. Un protocollo segreto, tutt’ora in vigore e non smentito, gestito in ambito comunitario e sottoscritto dall’allora Governo Italiano stabilisce che, non si sa se per accordo o magnanima disponibilità unilaterale del nostro Bel Paese, i porti italiani garantiscano l’esclusiva dell’accoglienza non ostante l’obbligo di soccorso preveda lo sbarco presso l’approdo più vicino, nella fattispecie Malta o la Tunisia. Non si comprendono le ragioni del vaticinio della nostra sacerdotessa dei diritti umani; verosimile ricondurle alla guerra di successione e di secessione ascrivibile alle trame piddine e al riemergere di antichi eterni rivali ai danni di Renzi, tra i tanti Enrico Letta. La data di sottoscrizione di quel protocollo contribuirebbe ad illuminare il bersaglio degli strali; vista la prossima scadenza elettorale non si dovrà, presumibilmente, attendere troppo.

A corollario di quel protocollo, si precisa con certosina accuratezza, questa volta evidentemente dagli accoglienti di risulta, che l’eventuale ripartizione tra i paesi europei, per altro disattesa, dovesse riguardare i soli profughi di guerra, in particolare siriani, eritrei e libici; la minoranza di un flusso proveniente ormai soprattutto dall’Africa Subsahariana. A condizione che gli immigrati fossero ovviamente censiti e con la possibilità, quindi, di rimpatrio nel paese europeo di primo approdo.

Colpisce certamente il contrasto evidente tra l’italico slancio emergenziale tanto compassionevole quanto refrattario ad una pianificazione degli inserimenti e la presunta chiusura ostile del resto della civiltà europea. Una rappresentazione di sentimenti degna di una sceneggiata napoletana.

La qualità della vita quotidiana di gran parte degli accolti e di quella degli accoglienti occasionali e fortuiti da adito a qualche perplessità sulla genuinità di tale pulsione specie degli accoliti della nostra classe dirigente; è sufficiente trascorrere qualche ora tra i comuni mortali sui treni regionali e nei giardini urbani, specie in prossimità delle stazioni per constatare che alla compassione non seguono adeguate “opere di bene”.

Tutto fa pensare che questo contrasto evidenzi piuttosto le motivazioni e gli aspetti più oscuri e avventati di tali scelte, se non la meschinità più banale dei loro protagonisti.

Di seguito una rassegna certamente non esaustiva:

  • l’insufficiente levatura dei quadri dirigenziali pubblici

nella gran parte dei centri decisionali, compreso il corpo diplomatico, si assiste ormai da alcuni decenni ad uno scadimento della capacità operativa dovuto ad una formazione sempre più aleatoria, ad un collocamento non corrispondente alle competenze possedute e richieste, ad una presenza poco qualificata e autorevole nei luoghi decisivi di formazione e preparazione delle decisioni politiche. Eppure questi centri costituiscono la nervatura essenziale il cui corretto funzionamento e controllo consentono le scelte consapevoli dei decisori politici di ultima istanza

  • la rappresentazione passiva e contingente dell’interesse nazionale dei nostri decisori politici

la gestione dei flussi migratori mette in luce la particolare visione delle dinamiche internazionali e della difesa dell’interesse nazionale di cui soffrono i nostri centri decisionali.

Sono viste come dinamiche ineluttabili sia nella tendenza che nelle modalità di svolgimento; sono dinamiche gestibili da organismi sovranazionali dotati di forza propria,  guidati da un presunto interesse più generale e ai quali gli stati nazionali devono delegare più o meno volontariamente e consapevolmente competenze e poteri.  Si fatica a vederli piuttosto come campi di azione di stati nazionali e tramite di essi di apparati e centri di potere.

Si tratterebbe quindi tutt’al più di rimediare un successo di immagine immediato e contingente, la rappresentazione quindi di un paese aperto ed accogliente; di raccogliere ed approfittare dei benefici finanziari immediati, nella fattispecie i finanziamenti europei; di confidare nell’afflato universalistico, nel buon cuore e nella cecità altrui per la redistribuzione delle “risorse umane”, magari assecondata da qualche furba inadempienza nei censimenti.

Un approccio ancora una volta reso repentinamente inadeguato e controproducente dall’imponenza dei movimenti, dal carattere strutturale dei flussi migratori e dagli effetti scatenanti di grandi decisioni geopolitiche del tutto estranee alla nostra classe dirigente.

 

I VIZI ATAVICI DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE

 

La gestione paradossale dei flussi migratori non è, purtroppo, un episodio estemporaneo ed isolato, come pure il mercimonio, l’oggetto di scambio citato dalla Bonino.

È solo l’ultimo ma purtroppo non definitivo atto di una serie di scelte effettuate con le stesse identiche caratteristiche e modalità operative.

Concentrandosi solo sugli ultimi due decenni, l’ingresso nell’Euro, la regolazione del mercato unico europeo, le privatizzazioni, il processo di unione bancaria, il controllo europeo dei deficit di bilancio con annesso l’obbligo di pareggio, il coordinamento delle politiche fiscali, l’adesione alle avventure militari in Jugoslavia e in Libia sono gli esempi, solo i più appariscenti, di accordi frettolosi ed emergenziali i cui termini hanno dovuto essere regolarmente e rapidamente rinegoziati con deroghe ed elusioni pagate a carissimo prezzo nel lungo periodo e nel peso strategico del paese.

A ben vedere si tratta di un vizio di origine dell’Italia repubblicana sorta da una disastrosa sconfitta militare che ha pervaso, salvo brevi momenti, e innervato sempre più l’azione politica della nostra classe dirigente, specie paradossalmente quando, con la caduta del muro di Berlino, avrebbe dovuto venir meno la ragione dei vincoli militari e politici di sudditanza.

Già agli albori della Comunità Europea, la maggiore preoccupazione di De Gasperi fu quella di garantirsi l’esodo di milioni di italiani in Europa e Sudamerica anche rispetto ai progetti di sviluppo industriale.

Da lì nasce la propensione ad acquisire pochi incarichi dalla immagine significativa ma dallo scarso  potere fattuale e di controllo. La nomina della Mogherini al Alto Rappresentante degli Affari Esteri dell’UE rappresenta solo l’ultimo colpo di scena ben riuscito ma dalle conseguenze peregrine nel prosieguo dell’azione politica. Sulla scia di questi “successi” prosegue pervicacemente altrimenti la maniacale attenzione, manifestata già negli anni ‘50, nell’occupare posti di basso rango negli organismi internazionali glissando allegramente sui posti più vicini ai centri decisionali.

Si tratta di un approccio dalle conseguenze deleterie che pregiudicano la stessa possibilità di formazione di una classe dirigente alternativa adeguatamente preparata ad affrontare le dinamiche politiche di un mondo multipolare.

Qualche dubbio deve assillare lo stesso establishment; tant’è che, a cose praticamente fatte, in Banca d’Italia, ad esempio, hanno recentemente deciso di organizzare un corso di formazione sulla conduzione di una trattativa

In un mondo nel quale le connessioni tra centri strategici nello scacchiere planetario sono sempre più strette e pervasive, tale condizione spinge interi ambiti degli apparati, in particolare i loro vertici, a sentirsi esponenti e portatori più dei centri dominanti e dei loro apparati  che del proprio Stato e della propria comunità nazionale oppure, nella maggior parte dei casi induce ad identificare gli interessi di questi ultimi con i desiderata dei primi. I fautori di “podestà stranieri” in Italia sono particolarmente numerosi e sfacciati.

Un rapido sguardo alle carriere e al mutamento dei rapporti politici della gran parte di questi funzionari, compresi quelli militari e dei servizi, concede del resto poco spazio alle illusioni.

Dall’altra  spinge la gran parte del nostro ceto politico nella condizione di ostaggio e complice dei settori più conservatori e parassitari, se non collocati nella loro corretta posizione di ambiti essenziali ma complementari di una formazione sociale che ambisce a scelte consapevoli.

Nella fattispecie della gestione dei flussi migratori, comincia ad affiorare, purtroppo con colpevole e ovvio ritardo, il ruolo pesante che il terzo settore, le ONlUS, le associazioni ormai non più collegate solo al Vaticano, ma a centri altrettanto se non più potenti, svolgono nel determinare tali condotte politiche. E quello dell’immigrazione è solo uno degli ambiti operativi di questi ambienti. Per non parlare poi della fronda  presente ad esempio nelle gerarchie militari, in particolare della Marina e dell’Aviazione Militare al sorgere di un minimo sussulto di ripensamento.

 

A PROPOSITO DI INTERESSE NAZIONALE

Ne deriva, di conseguenza, una visione per così dire alquanto ristretta, precaria, volubile di interesse nazionale.

Tacciare di tradimento questa conduzione politica e di traditori i portatori di essa serve a ben poco se non ad esorcizzare il problema nella propria condizione di impotenza e a ridurre il contenzioso  ad una mera liquidazione e sostituzione del ceto politico con qualche fugace bella figura al tribuno di turno. Le recenti esperienze di Syriza in Grecia e del Front National in Francia dovrebbero indurre a qualche riflessione.

Il termine interesse nazionale induce spesso ad una retorica esacerbata di comunanza indistinta di interessi, di punti di vista e di emozioni che tende a nascondere e perpetuare le ineguaglianze più deleterie, la fragilità di un movimento politico, la ristrettezza di un blocco sociale consenziente e la inconfessabile dipendenza dal sostegno esterno. Non è un caso che la retorica più accesa e vuota si sia affermata ad esempio in quei movimenti come quello slavo nella dominazione ottomana e quello polacco nella componente a dominazione zarista privi di esperienza di gestione del potere e largamente dipendenti dal sostegno di potenze rivali.

Lo stesso termine, però, può servire alla formazione di una comunità capace di una sintesi estesa di interessi, punti di vista, e centri di potere diversificati ed ineguali tale da garantire la coesione solida ed estesa di una formazione sociale dinamica, in grado di sostenere un confronto sempre più complesso e acuto. Una formazione capace quindi di esprimere poteri ed apparati forti, élites determinate e comprensive.

 

La prima strada, prima o poi sarà quella che dovrà imboccare l’attuale classe dirigente o i suoi epigoni, ormai privi di una significativa compiacenza esterna. L’esperimento di costruzione del Partito della Nazione è stato il primo tentativo maldestro, consumatosi rapidamente per la qualità dei promotori e per l’incapacità e l’impossibilità di associare alla riorganizzazione istituzionale un progetto di rinascita del paese. Ne seguiranno altri, dopo una fase di decomposizione, resi probabilmente più credibili dalla condizione più precaria del paese piuttosto che dalle qualità intrinseche dei programmi.

 

In mancanza di alternative, l’attuale classe dirigente nazionale appare interessata a dilaniarsi in attesa che si ridefiniscano le linee e le gerarchie esterne di comando ed indirizzo nel mondo. I barlumi di verità che squarciano la nebbia, comprese le affermazioni della Bonino, sono uno strumento estemporaneo di questo regolamento di conti con scarse probabilità di innescare un dibattito serio sull’argomento. Trascinano il paese in una condizione talmente peregrina da far rifulgere nazioni come la Francia e la Germania, anch’essi in realtà in una condizione di netta sudditanza.

Sia la Francia che soprattutto la Germania hanno rivelato doti di chiaroveggenza nell’attestarsi in condizioni più favorevoli nel contesto internazionale e, soprattutto, nella gestione del processo di integrazione comunitaria. Contrariamente all’Italia, sono state capaci, soprattutto la seconda, di riorganizzarsi a tempo prima e durante il processo di integrazione avviato negli anni ‘90.

Anche questo è un modo particolare di definire l’interesse nazionale.

Merito probabilmente della migliore qualità della loro classe dirigente e della maggiore coesione dei loro apparati istituzionali; merito, soprattutto, del riconoscimento del loro ruolo di interlocutori principali della potenza dominante nella gestione delle “quistioni” continentali che ha consentito loro una parziale pianificazione delle tattiche e delle strategie ai danni degli ultimi gironi danteschi.

Non è un caso che la Germania di Angela Merkel, a suo rischio e pericolo, non abbia esitato a decidere a quale gregge appartenere nel contenzioso americano tra una componente speranzosa di perpetuare e conseguire un dominio unipolare troppo costoso in termini economici e di coesione della propria formazione sociale ed una al contrario più pronta a prendere atto della formazione di nuove potenze e di nuove aree di influenza più marcate e diversificate. La Francia di Macron apparentemente sostiene la fedeltà teutonica al vecchio establishment, ma a costi interni più gravosi e con l’obbligo di appoggiarsi all’ombrello americano per salvaguardare parte dei propri legami africani e nel Pacifico.

L’Italia è lì che aspetta con l’evidente probabilità di continuare ad essere il luogo di attenzione e di spoliazione di più contendenti, priva delle scappatoie del servizio a più padroni di goldoniana memoria concesse sino a poco tempo fa.

Le opportunità che nell’attuale contesto internazionale si stanno aprendo, rischiano di chiudersi nel giro di pochi anni se non di mesi. Noi continuiamo a sorbirci i Calenda, i Renzi, i Gozi, i Berlusconi di turno impegnati a predicare le magnifiche sorti e progressive del mercato e del governo mondiale. Gran parte dei cosiddetti oppositori stanno contribuendo generosamente a mantenerli in auge o a sostituirli in copia conforme.

 

COSA SUCCEDERA’ COL NUOVO ASSETTO SAUDITA?DIPENDERA’ DALLA SOLUZIONE DEL PROBLEMA PALESTINESE. di Antonio de Martini

tratto dal blog www.ilcorrieredellacollera.com

una interessante mappa dei meandri della politica saudita utile ad interpretare le prossime decisive vicende della casa dei Saud e le ovvie ripercussioni su quello scacchiere. Una guida tracciata dal più esperto navigatore di questioni mediorientali e nordafricane presente in Italia. Una competenza, purtroppo, che si va dissolvendo parallelamente alla consistenza del nostro paese e alla sua credibilità in quelle terre

Tre teocrazie classiche  si interessano degli avvenimenti del Levante e tra queste, la più debole è la casa reale saudita che dispone di immense ricchezze , è la custode dei luoghi santi della religione mussulmana che esercita influenza  su un miliardo e trecento milioni di mussulmani.

Evidentemente non gode di divino afflato perché da un certo numero di anni a questa parte non ne sta azzeccando una e credo  che le fortune della giovane  ( dal 1927) dinastia siano ormai agli sgoccioli.

L’altra teocrazia è quella concorrente rappresentata dall’Iran Sciita e Persianoche è in sorprendente rimonta da quando pochi mesi fa ha mostrato solidità istituzionale cambiando, senza scosse, regime , dotandosi di un nuovo PresidenteHassan Rouhani appoggiato dall’Ayatollah Ali Khamenei che rappresenta la continuità religiosa e statuale con grande  compostezza ed è il leader morale  di 200 milioni di sciiti nel mondo: il nuovo governo ha aperto all’Occidente e ha intavolato trattative che possono allentare le tensioni internazionali in quasi tutte le aree a rischio del pianeta e sta dimostrando di non essere interessato alle armi nucleari.

Non così l’Arabia Saudita.

Re Salman ben Abdulaziz, sfiora i novanta anni, lo si dice affetto da demenza senile  e suo figlio Mohammed ben Salman ha appena rotto con il resto della famiglia, sostituendo il Crownprince  Mohammed Ben Nayef, ben Abdulaziz, suo cugino e mettendolo in pratica agli arresti domiciliari nel suo palazzo di Gedda. Con questo gesto, ha rotto con la tradizione adelfica della Monarchia, col cugino che ha diretto per anni – come suo padre- il ministero dell’interno. Ignoro la posizione reale degli USA poiché entrambi i cugini avevano buoni rapporti  con gli americani.

Sul piano religioso i sauditi con le aggressioni successive all’Algeria e poi a tutte le altre nazioni islamiche hanno esasperato le divisioni di tipo teologico tra sunniti e sciiti facendone motivo di guerre e lotte interne all’islam. La Fitna  che il profeta Maometto ha sempre considerato l’abominio principale e il peccato da non perdonare. Il rischio è quello di trasformare il mondo islamico in due tronconi e dare corpo ad un emirato sciita guidato dall’Iran e , per forza di cose, alleato con tutte le minoranze religiose asiatiche inclusi i cristiani.

Sul piano politico, stanno andando peggio.

Quella del “Crownprince” è una carica che non consente in realtà un automatico accesso al trono – questo viene assegnato da un Consiglio di famiglia finora egemonizzato dai “saudari seven” i sette figli di Hassa la moglie preferita del fondatore della dinastia Abd el Aziz –  ma fa funzione di primo ministro finché vive chi lo ha nominato.

Quindi le due principali cariche del regno – re e primo ministro – sono in mano a padre e figlio, uno demente e l’altro inesperto e la governance futura non è comunque assicurata da un meccanismo dinastico automatico.

Per un recente conflitto istituzionale tra appartenenti alla nuova generazione reale, si è anche  creato un vulnus alla effettiva autorità del “Consiglio di famiglia” che ha visto il ministro dell’interno – figlio d’arte –  ( Mohammed Bin Nayef bin Abd el Aziz) nominarsi da solo il viceministro dell’interno ( unico – altra novità pericolosa-  non appartenente alla famiglia in tutto il governo) senza passare né dal Consiglio di famiglia ( che non avrebbe gradito un estraneo) e nemmeno dal Consiglio dei  ministri. Non sappiamo se anche il vice ministro dell’interno sia stato sostituito assieme al ministro.

Dunque anche il governo regolarmente insediato non gode ormai del prestigio necessario ad assicurare un’attività di governance fluida, figuriamoci in periodo di passaggio dei poteri e durante cinque crisi internazionali che dovrebbe saper  tenere a bada.

La cessazione contemporanea, non appena avverrà, della influenza dei saudari seven che egemonizzavano il Consiglio, la messa fuori gioco del Crownprince, creeranno un  vuoto di potere che sarà colmato dall’alleanza di due delle tre  forze armate interne al regno, coalizzate contro la terza: la Guardia nazionale, il ministero della Difesa e quello dell’interno. Il vincitore si farà formalmente incoronare dal Consiglio di famiglia in cerca di un altro gruppo forte che lo domini e garantisca agli oltre cinquemila parenti la prosecuzione dell’era di prosperità senza precedenti che stanno vivendo dal 1974 e che dal 1979 vedono insidiato dall’Iran Sciita e Persiano, sia sotto il profilo petrolifero che religioso.

Tra i membri della nuova generazione, i figli di alcuni tra i saudari seven sono in pole position e tra tanti il figlio di re  Salman , che comanda la guardia nazionale e il già nominato Mohammed bin Nayaf, ( Crownprince estromesso), ma la fluidità della situazione consente le più pazze ambizioni anche a  Bandar Bin Sultan – ex  capo dell’intelligence e molto amato negli USA –  benché sia figlio di una inserviente analfabeta  e quindi non abbia i quarti di nobiltà richiesti, anche se tiene a ricordare che era il nipotino preferito di Hassa la moglie -madre dei sette fratelli egemoni  nel Consiglio durante gli ultimi trenta anni.

Un ruolo chiave potrebbe essere svolto da MITAAB, uno dei cugini che inizialmente aveva svolto un ruolo di mediazione tra i due Mohammed ed era stato messo da parte.

Ogni principe che aspiri al trono o alle sue vicinanze , si adopera per acquisire meriti di fronte alla famiglia e usa  la parte di potere a sua disposizione snobbando ove possibile  gli uffici del Crownprince, e le norme scritte e no del codice di buon governo. Un disordine pericoloso per la pace nel mondo e nel mondo arabo in specie. Il nuovo Crownprince, ha al suo passivo l’aver iniziato la guerra in Yemen che sta diventando il Vietnam della dinastia.

Siamo in presenza di una sequela di crisi internazionali ognuna delle quali ha il potenziale per far saltare il sistema. Vediamole iniziando da quelle interne:

a) Situazione sociale  ai limiti della intollerabilità per la politica razzizsta  ( privilegiano cinesi e coreani e filippini per controllare eventuali nascite spurie dal colore), mentre i maschi tollerano con piacere i loro accoppiamenti con donne provenienti dal corno d’Africa nella convinzione che accoppiarsi con una nera fortifichi la virilità.  Incidenti durante il pellegrinaggio alla Mecca con centinaia di morti. Arresti a catena tra i simpatizzanti di Ben Laden in costante crescita.

b)  Gli sciiti della zona est del regno – la più ricca di petrolio. Gli abitanti sono suscettibili di dare ascolto  a sirene persiane e il ministro dell’interno MBN ha insediato un cugino  occupando  la porzione di territorio meno abitata ma più ricca e presidiata. Vedremo se anche il cugino di Mohammed ben Nayef ben Abdulaziz  – d’ora in poi solo MBN- ( Crownprince spodestato) sarà rimosso dall’incarico.

c) Ai limiti del folclore le iniziative “democratiche” inscenate per far credere che prima o poi le donne avranno qualche forma di parità ( diritto alla guida, di voto  alle comunali, una  cicciona alle Olimpiadi in tuta ecc.)

Ben più gravi sono le situazioni alle frontiere:

YEMEN   A seguito del tentativo di primavera araba  per defenestrare il Presidente Salah  – al potere da oltre un trentennio –  la situazione si è così evoluta : Salah ha accettato di andare negli USA  a curare i postumi di un attentato ai suoi danni a condizione che  rimanesse in carica il suo vice e che un suo parente mantenesse il comando di un reparto decisivo ai fini del controllo della capitale. nel frattempo, Al kaida si è inserita nell’area in cui nacque Ben Laden ed ha impegnato l’esercito in vere e proprie battaglie campali. Al Nord – al confine  con L’Arabia saudita – le tribù Houti , tradizionalmente riottose hanno trovato conveniente accordarsi con l’Iran , farsi armare e infiltrarsi nel regno. La confusione è generale ed è incrementata da attentati e rapimenti di “diplomatici” che i vari servizi segreti mettono in scena per pompare fondi ai rispettivi centri. Lo Yemen controlla la porta sud del mar rosso nota come Bab el mandeb ( porta del lamento). Il paese è spaccato in tre tronconi e per l’esaurimento delle falde acquifere il colera ha fatto la sua apparizione.

BAHREIN  dalla parte opposta della penisola, l’isoletta di Bahrein non viene nominata volentieri dai media, perché è l’altro mini Vietnam dei sauditi che portarono un “aiuto fraterno ” di settanta  carri Armati al re  ( l’unico che nel golfo ha questo titolo, gli altri sono Sceicchi o Emiri) e mantengono un ordine precario. La causa del contendere è il fatto che il re è sunnita mentre tutta la popolazione è sciita e – presumo sobillata dall’Iran – cerca di affrancarsi.  Mission impossible  poiché è anche la base della VI flotta USA  e, dopo un breve entusiasmo per la richiesta di democrazia  mostrato dal Dipartimento di stato, vige la regola del silenzio su tutto quanto avviene.

KATAR anche col katar nascono problemi di compatibilità dopo un triennio di cordiali canagliate  a danno di terzi. Il Katar ha cambiato governo in maniera radicale e però ha mantenuto l’appoggio ai fratelli mussulmani – specie egiziani – che adesso i sauditi contrastano.  Il governo saudita ha promosso una coalizione antikatar accusandolo di finanziare il terrorismo, ma in realtà perchè vuole che rompa le relazioni con l’Iran.

Il katar ha risposto picche e la crisi ha fatto saltare il CGG ( Consiglio Generale del Golfo) che è l’alleanza che sta conducendo la guerra in Yemen…..

GIORDANIA  è il paese che assieme al Marocco ( entrambe le famiglie regnanti discendono , annacquatissime, dal profeta, ha scelto di ottenere il maggior numero di fondi e aiuti possibili . La Giordania  scatola di sabbia donata dagli inglesi alla famiglia Hashemita ( la più antica dinastia regnante al mondo) cacciata dalla Mecca a cura dei sauditi, ospita una serie di profughi: palestinesi, Irakeni, Siriani, ciascuno col suo carico di drammi e necessità peculiari.  Gli USA nel 2013 hanno pompato in Giordania un miliardo di dollari e il resto lo mette l’Arabia saudita., che però non può dimenticare  che  il legittimo erede della custodia della Mecca e Medina ( e Gerusalemme) è proprio il re di Giordania. Vicino al portafoglio, ma non al cuore.

IRAK  L’A. Saudita  ha finanziato con 30 miliardi di dollari la prima guerra del Golfo del 1991  ed anche la successiva spedizione del 2003. Adesso la conseguenza è che anche l’Irak si avvicina all’Iran per via della scelta del governatore americano – l’indimenticato Paul  Bremer–  che scelse di mettere al governo gli sciiti estromettendo i sunniti che governavano da sempre il paese, come vedremo appresso.

Gli USA si sono insediati  in quell’occasione ( 1991) in una serie di basi  militari saudite che – come aveva previsto l’attuale re all’epoca contrario alla concessione , ma non regnante allora  –  non hanno più lasciato.                                                                                                                                                                                                                                                       Per dare  credibilità democratica all’attacco all’Irak ” in cerca di armi di distruzioni di massa ”  gli USA pensarono bene di spodestare i sunniti che da sempre  dominavano la Mesopotamia e affidarono il governo alla   la maggioranza scita ( 70%).  Questa scelta  ha dato fiato alla guerriglia preorganizzata del partito Baath   che non accenna a diminuire e che adesso – essendo sunnita – viene finanziata dai sauditi in funzione anti Iran. Un caso inedito di autofinanziamento della guerriglia interna. La distruzione dell’ISIS ( che Obama prevedeva in un decennio…) dimostrerà che la guerriglia irachena è nazionalista e non religiosa e quindi destinata a continuare.

La maggior influenza acquisita dagli sciiti ha rafforzato enormemente l’influenza iraniana tra il Tigri e l’Eufrate benché gli occidentali avessero covato con cura in Inghilterra  l’Ayatollah  Al Sistani  che nei loro calcoli avrebbe dovuto sradicare il partito Baath ( laico  e  socialista) e contrastare l’influenza  del Moussa Sadr  jr. legato alla Persia.

Anche qui l’Iran è  ormai a ridosso della  frontiera saudita mentre prima ( 2003) non c’era, perché l’Irak sunnita faceva da cuscinetto.

SIRIA: è l’ultima iniziativa congiunta americano-saudita in ordine di tempo. E’ costata sei anni e un numero imprecisato di morti ( non gli oltre  centomila sbandierati da un “osservatorio”   basato a Londra)  ed è l’avventura che  ha costretto gli USA a rivedere la loro strategia interventista in tutta l’area. La guerra presumibilmente non cesserà, ma diminuirà di intensità e si troveranno altre occasioni per una tregua d’armi. scambi di prigionieri o evacuazioni di civili dalle aree non sicure dell’uno o dell’altro. Fallisce con questo, il tentativo di far cadere un altro regime Baathista  ( laico e socialista) e la situazione avrà  conseguenze anche sulla situazione libanese dove abbiamo un corpo armato  italiano a disposizione dell’ONU per presidiare il confine israeliano che è il solo silenzioso in tutta l’area.

IL LIBANO Per contrastare la deriva verso la Siria, l’Arabia saudita è stata costretta a stanziare 3 miliardi di dollari affidando alla Francia il compito di riarmare e riorganizzare l’esercito libanese ( 30.000 uomini  già armati dagli americani).  Constatato il fallimento della iniziativa, l’Arabia ha disdetto il credito con grave nocumento della Francia che si era aggiudicata molte forniture. La nomina del Presidente Aoun ha rappresentato un altro passo avanti per l’Iran-Siria che lo sosteneva.

EGITTO  assentatosi dalla scena politica internazionale per inseguire chimere occidentalistiche, l’Egitto si è visto sottrarre la leadership  politica e morale del mondo arabo con la sostituzione nella posizione egemonica tradizionale in seno alla Lega Araba e la rappresentanza del mondo arabo al G20 a vantaggio dell’Arabia Saudita. Tornato alla stabilità secolare e laica assicurata dalla classe militare, L’Egitto  adesso ottiene aiuti illimitati o quasi da coloro che lo hanno prima messo in difficoltà: Americani e Sauditi,  ora interessati a ridurre l’influenza dei Fratelli Mussulmani. La recente crisi tra sauditi e Katar è frutto anche di questa ripresa di influenza egiziana sul mondo arabo.

L’Egitto non dimentica che  un secolo e mezzo fa , sotto la guida del grandeMohammed Ali ha risolto il dilemma wahabita con una spedizione militare e l’impiccagione del re  Saudita dell’epoca. Ora l’Università di Al Ahram tornerà ad assumere la leadership morale dell’Islam che non ha mai perso ma che era attutita dalla crisi politica e istituzionale del paese.

Da nessuna di queste aree di crisi l’Arabia saudita può ragionevolmente pensare  di uscire vincente o almeno con un pareggio, anche se avesse due cose che ha ormai  perduto: la stabilità istituzionale,  e l’appoggio incondizionato americano.

Il flirt con Israele completa il quadro di isolamento in seno al mondo arabo di quelli che Bin Laden definì i principati ereditari. a meno che Israele non si decida a concludere la pace con i Palestinesi il quadro di isolamento politico e  militare di quella che fu la dinastia  per anotnomasia non potrebbe essere più completo.

TURCHIA

Non è un paese arabo, ma la sua influenza è crescente da Gaza a Mossul.   La Turchia, ha appena detto  a muso duro  alla conferenza di Crans Montana in Svizzera per bocca del suo ministro degli Esteri   Mevlut Cavusoglu  al suo omologo greco Nikos Kotsias,   che non sguarnirà le truppe di stanza a Cipro e che potrebbe addirittura ” farne uso”, mentre il rappresentante dell’ONU sulla questione , dopo un ottimismo iniziale a capodanno sta lamentando il trascinarsi dei negoziati di riunificazione. La Turchia, che come membro della NATO aspira anch’essa a un ruolo egemonico nel Levante e a riprenderesi l’impero perso nel primo dopoguerra mondiale, è il nuovo pericolo all’orizzonte per il giovane avventato nuovo Crownprince che piace agli USA, ma non piace nemmeno ai parenti.

PALESTINA

L’avvenire della dinastia – e certamente quello di MBS ( Mohammed ben Salman)  è legato alla soluzione del problema palestinese che tutti fingono di ignorare. L’Arabia Saudita – che ha ufficializzato i buoni rapporti con Israele – non può stipulare un trattato di pace se prima non regola il problema israelo-palestinese.  La soluzione di questo nodo è affidata al genero del Presidente Trump, un immobiliarista trentenne che evidentemente suscita la sua fiducia. Immensi capitali  ( arabi e USA) sono stati approntati per lanciare un piano Marshall per il medio Oriente,  ( pronto da mezzo secolo ormai)  ma tutto è legato alla soluzione  problema che per primo sorse nell’area. E da questo dipende anche la sorte di tutti i paesi citati e della Monarchia che rischia un nuovo regicidio se i due popoli più rissosi della terra non troveranno una intesa che non trovano da troppo tempo.

LA NUOVA POLITICA ESTERA DELLA GERMANIA E LE CRISI NELL’EST EUROPA, di Massimo Morigi_ Testo del 5 febbraio 2014

Proseguono le spigolature di Massimo Morigi sul “Repubblicanesimo Geopolitico” con una breve introduzione dell’autore

«Non appena la terra fu compresa nella forma di un globo reale, non solo miticamente, ma quale dato di fatto scientificamente esperibile e quale spazio praticamente misurabile, si aprì subito un problema del tutto nuovo e sino ad allora inimmaginabile: quello di un ordinamento spaziale di diritto internazionale dell’intero globo terrestre. La nuova immagine globale dello spazio richiedeva un nuovo ordinamento globale dello spazio. Questa la situazione che emerse in seguito alla circumnavigazione della terra  e delle grandi scoperte dei secoli XVI e XVII. Contemporaneamente si iniziava con ciò l’epoca del moderno diritto internazionale europeo, che si sarebbe conclusa solo nel secolo XX. La scoperta del Nuovo Mondo provocò subito anche l’accendersi della lotta per la conquista delle terre e dei mari facenti parti di esso. La divisione e la ripartizione della terra divennero allora in misura crescente una faccenda riguardante tutti gli uomini e le potenze coesistenti sullo stesso pianeta. Vennero ora tracciate linee per dividere e ripartire la terra intera.»: Carl Schmitt, Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Milano, Adelphi, 2006, p. 81.
Nel secondo  capitolo del Nomos della Terra, “La conquista territoriale di un nuovo mondo”, al suo primo paragrafo, “Le prime linee globali (Dalla “raya” attraverso la “amity line”, alla linea dell’emisfero occidentale)”,  Carl Schmitt inizia così a tracciare la logica storico-genetica della nascita delle amity lines. Da una parte la lotta delle grandi potenze cristiane per accaparrarsi la maggior quota possibile delle nuove terre conosciute attraverso le scoperte geografiche cinquecentesche. Dall’altra la necessità di arrivare fra queste potenze ad una sorta di entente cordiale per la spartizione di queste terre. La risultante fra queste due spinte contrastanti (lotta di rapina fra le potenze cristiane per strapparsi le nuove terre e necessità di addivenire ad un accordo di spartizione) fu la nascita delle cosiddette  amity lines, amity lines che nell’argomentare schmittiano rivestono una doppia natura, potevano cioè essere semplici accordi di spartizione territoriale, insomma accordi alla stregua del Trattato di Tordesillas fra Spagna e Portogallo, oppure l’amity line può avere un significato più metapolitico, può essere cioè il riconoscimento dell’alterità fra il mondo cristiano e le nuove terre e genti da conquistare e questa alterità aveva la conseguenza che contro questo mondo ogni forma di aggressività era consentita mentre nella lotta fra le potenze per la conquista dello stesso la guerra doveva seguire delle regole, insomma la guerra fra potenze doveva assumere la forma di iustum bellum e la potenza che si batteva contro un’altra assumeva  così  la natura di  iustus hostis, un nemico che per quanto avverso era riconosciuto nella sua dignità di cristiano e  contro il quale non era così consentito impiegare l’indiscriminata violenza che poteva e doveva essere esercitata contro il nemico dimorante nei territori al di là delle amity lines. Erano cosi state poste le basi per quel ‘Nomos della terra’ che verrà sconvolto dalle due guerre totali del Novecento scatenate per Schmitt per responsabilità delle due potenze talassocratiche Inghilterra e Stati uniti, potenze le quali proprio per la loro natura marina e liquida non potevano riconoscere né una divisione more geometrico del globo terrestre né giusti nemici o giuste guerre caratterizzanti l’ormai sorpassato nomos della terra  perché per Schmitt la mentalità marittima  può solo mettere in atto azioni di sregolata  pirateria ai danni del nemico (ciò che per Schmitt sono state la prima e seconda guerra mondiale ai danni della Germania da parte dell’Inghilterra  e degli Stati uniti) e ripudiare la guerre en forme del Nomos della terra implicante “giusti nemici” e non nemici da annientare nati con le due guerre totali novecentesche e quindi mettere al bando farisaicamente la guerra (e da questo farisaico ripudio della guerra en forme, la nascita del nemico dell’umanità, nel Novecento storicamente rappresentato dalla Germania che aveva perso le due guerre mondiali).  Da questa lunga premessa schmittiana, la grammatica elementare per comprendere gli elementi di continuità fra la situazione descritta nell’articolo “La nuova politica estera della Germania e le crisi nell’est Europa”, scritto nel febbraio del 2014, e l’odierna situazione dell’estate del 2017, dove a differenza che nel 2014 sembra che apparentemente le posizioni della Germania e degli Stati uniti stiano sempre più divaricandosi. Certamente, come magistralmente insegna Gianfranco La Grassa, il quadro internazionale è in via di una progressiva ed incalzante frantumazione e questo processo dal 2014 ad oggi non ha fatto altro che accentuarsi ma il punto è, e qui il pensiero di Schmitt, può veramente venirci in soccorso per comprendere la situazione, che non è affatto detto che la frantumazione all’interno del vecchio perimetro delle alleanze debba necessariamente portare ad una sorta di guerra totale all’interno fra i vecchi soci dello stesso. Insomma, all’interno del vecchio perimetro dell’alleanza occidentale è possibile e verosimile che si costituisca una sorta di amity line che, se apparentemente assume le movenze della guerra politica e/o militare (allo stato la seconda ipotesi è veramente molto remota), si tratta di una guerra en forme tipica del periodo della nascita e sviluppo delle amity lines. Ma purtroppo da questa ipotesi di evoluzione del quadro internazionale non deriva alcunché  di buono per il nostro paese, perché in questo quadro l’Italia rischia veramente di fare la fine di quel mondo extracristiano per il quale non valevano amity lines e guerre più o meno in forma. Questi  paesi fuori dal perimetro della cristianità e all’esterno delle amity lines dovevano subire guerre di depredazione delle risorse e guerre di sterminio e/o genocidiare. E se qualcuno pensa che magari il brave new world della democrazia potrà sì implicare gerarchie certamente dure ma ha definitivamente abbandonato queste pratiche barbare, noi da modesti geopolitici invitiamo a considerare quello che è accaduto negli ultimi anni dal punto di vista economico all’Italia con la distruzione della sua capacità produttiva a vantaggio del capitale straniero e dal punto di vista dello stravolgimento dell’assetto demografico-culturale, quello che si continua a perseguire favorendo sul nostro territorio il flusso e la permanenza di popolazioni allogene, flusso indiscriminato e permanenza culturalmente assimilabile solo in un demente delirio multiculturale alla united colors of Benetton o lucidamente desiderabile solo in un cosciente e criminale disegno di cancellazione dell’identità storico-culturale italiana tali da poter dire che in Italia si rischia di mettere in atto un novello tipo di genocidio, un genocidio che al contrario di quelli novecenteschi non contempla lo sterminio di una popolazione ma il suo annegamento e il suo azzeramento a dosi omeopatiche attraverso l’immane afflusso di nuove popolazioni allogene (quindi genocidio  per diluizione attuato sotto regime “democratico” e degli universalisti diritti umani anziché genocidio per sterminio  e con il mito della razza o dell’uomo nuovo tipico dei totalitarismi novecenteschi). Il tutto con la benedizione interessata delle potenze la cui vicendevole aggressività è regolata e delimitata  dalle nuove amity lines post guerra fredda e che fra  litigi ed accordi tipici della guerre en forme di un mondo sempre più multipolare, grandemente  prediligono  per compiere le loro incontrollate e violente  scorrerie assai poco en forme ma tipiche dell’ hobbessiano homo homini lupus la presenza di territori coloniali dove tutto è consentito ai danni di questi territori. E l’Italia fa purtroppo pienamente parte di questi nuovi tristi e sempre più depredati territori coloniali dell’era post caduta muro di Berlino e di un mondo sempre più frantumato e multipolare.

Massimo Morigi – 30 giugno 2017

Gli interventi sul “Corriere della Collera” di Antonio de Martini sulla crisi Ucraina – e sulla prossima crisi della Moldova che già si intravvede – ci offrono una doppia chiave di lettura in merito al delinearsi e disporsi delle forze che si contendono il dominio dello scenario internazionale.
In primo luogo, come peraltro rilevato da più osservatori, c’è da rilevare che la Germania sta definitivamente abbandonando il ruolo di gigante economico ma nano politico a favore di una politica che al posto della vecchia Ostpolitik, consunto ricordo di una Germania ancora divisa, intende piuttosto sposare l’ancor più vecchio – e carico di lugubri e tragici ricordi – Drang nach Osten che fu uno degli slogan non solo della criminale politica nazionalsocialista ma anche la linea guida della politica guglielmina riguardo l’Europa orientale, che già nei piani di guerra della Germania imperiale doveva essere completamente asservita (vedi il September Programme che fra le altre cose, tipo l’annessione del Belgio, contemplava ad est la creazione di stati satelliti completamente sottomessi alla Germania ed in funzione anti-russa).

Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 8 di 11

Oggi, a differenza che nel September Programme e nel Drang nach Osten, questa spinta verso oriente non viene più effettuata dalla Germania manu militari ma in modo indiretto sobillando tumulti verso quelle aree dell’ex impero sovietico che si mostrano più credulone – ed anche più corrotte nelle loro classi dirigenti – riguardo alle “magnifiche sorti e progressive” assicurate dall’ingresso nell’Unione europea (alla quale non a caso è stato conferito il premio Nobel per la Pace …).
E con ancor maggior differenza che nel passato novecentesco, in quest’opera di tentata disgregazione dell’area di influenza russa in Europa, la Germania viene spalleggiata dagli Stati uniti, ai quali non sembra vero di aver trovato finalmente un attivo proconsole che nell’area del Vecchio continente la possa appoggiare nella sua “strategia del caos”, peraltro praticata in altre aree con alterne fortune.
La seconda considerazione riguarda, more solito, la totale disinformatzia di cui ha goduto l’evento in questione. Come al solito (vedi primavere arabe, vedi caso Siria) nessun mass media e nessun intellettuale – tranne le solite pochissime eccezioni – ha proferito una sillaba su quello che sta realmente accadendo in Ucraina, sulle forze che si stanno scontrando e sugli interessi che realmente sono sul tappeto. E a costo di ripeterci ancora, questo occultamento della verità se è da un lato è spiegabile con l’ “umano, troppo umano” di coloro che operano nei mezzi di informazione (mezzi di informazione che anche all’estero, contrariamente a quanto si crede, sono anch’essi quasi totalmente funzionali al rincretinimento delle masse), dall’altro richiama in campo la necessità di fuoruscita dagli idola fori ereditati dalla seconda guerra mondiale.
Il Repubblicanesimo Geopolitico è il tentativo di operare questa fuoruscita e in nome di un autentico e concreto praticato percorso di libertà vuole far sì che il disvelamento delle menzogne ideologiche che hanno prosperato all’ombra dei nobilissimi concetti della tradizione politica occidentale non porti il ripiombare – de facto – nelle vecchie forme di autoritarismo.
Un’impresa per la quale, come tutte le evidenze stanno a mostrarci, è veramente molto vocata – mutatis mutandis – l’Unione europea e prima di tutti il caposcalo di zona agli ordini degli Stati uniti, che risponde a nome di Repubblica Federale di Germania.
Massimo Morigi – 5 febbraio 2014

L’ARABIA SAUDITA ( leggi Trump) PARLA ALLA NUORA ( Katar) PERCHE’ SUOCERA( Turchia) INTENDA. di Antonio de Martini

Intanto, chiariamo:  nella penisola arabica  i confini non esistono. Sono tutte zone desertiche permeabili a volontà da chiunque – e laggiù sono la totalità- possieda un fuori strada per aggirare,  a duecento metri dalla strada,  il posto di blocco posto sulla via di accesso ufficiale.

 

I paesi che hanno deciso il “blocco economico” sono l’Arabia Saudita, il regno di Bahrein, gli emirati del golfo costituenti il Consiglio Generale del golfo ( con l’eccezione del Katar che ha il ruolo del cattivo e che rende ormai inoperante il Consiglio), l’Egitto e lo Yemen.

Si tratta di un terzo dei 22 paesi aderenti alla LEGA ARABA e questo spiega come mai la proposta non è stata nemmeno presentata alla LEGA nonostante l’Egitto ospiti l’organizzazione e ne sia egemone a parole.

Il paese soggetto a sanzioni economiche è il Katar, 11.000 km quadrati ( poco più del Lazio) con un milione e novecentomila abitanti ( di cui un quarto autoctoni e gli altri lavoratori stranieri  a contratto).Il PIL per abitante è di 192.000 dollari annui; il tasso di analfabetismo è del 18,6%, il tasso di disoccupazione è dello 0,5% e la speranza di vita media di 75 anni e qualcosa. Il paese è proprietario del network AL JAZIRA ( ” il ponte”) degli ex Hotels italiani della CIGA e di una miriade di altri immobili in Europa.

COSA HANNO DECISO:

a) rottura immediata delle relazioni diplomatiche. L’Egitto, Il Baharein e gli emirati avevano ritirato i propri ambasciatori da Doha ( capitale del Katar) già nel 2014 per protestare contro i finanziamenti dati ai Fratelli Mussulmani dal Katar.

b) Chiusura degli spazi aerei di questi tre paesi agli aerei della  Katar airways  e blocco delle linee marittime e aeree di questi paesi ( la Saudia principalmente) verso il Katar.

c) Chiusura della frontiera terrestre tra Katar e Arabia Saudita ( unica frontiera terrestre del paese).

d) Proibizione ai cittadini dei tre paesi di visitare il Katar e concessione ai Katarii di 14 giorni per lasciare il territorio dei tre paesi sanzionanti, in contrasto con l’accordo a livello di Consiglio del Golfo che garantiva la libera circolazione ( altra pietra tombale al CCG dopo la rottura dell’ intesa militare anti Houti in Yemen ).

e)Esclusione delle truppe del Katar dalla coalizione che combatte i ribelli in Yemen. L’autorizzazione al passaggio dei pellegrini verso la Mecca, vanifica ogni proibizione. Basta dire che si è diretto alla città santa per avere via libera…..

LA MOTIVAZIONE:

Riad ( Capitale della A.S.) e i suoi alleati hanno motivato la decisione con ” il sostegno a gruppi terroristi sunniti – inclusa Al Kaida, l’ISIS (EI) e i Fratelli Mussulmani , ma anche gruppi terroristi operanti nella provincia di Quatif “( Arabia Saudita dell’est) che finora erano accreditati all’Iran.

IN REALTÀ:

 Lo Yemen è preso dalla guerra civile interna in uno con l’aggressione Saudita e degli Emirati ( il governo formale ha votato il ritiro del contingente katariota che deve essere composto di contractors stranieri e  in numero esiguo).

Il Bahrein per sopravvivere ha fatto ricorso a truppe saudite ( un battaglione corazzato) presentate come appartenenti al CCG. e non è in grado di minacciare nessuno essendo un’isoletta isolata e popolata di sciiti filo iraniani…

L’unico paese “solido” partecipante alle sanzioni  è l’Egitto che vuole che i fratelli mussulmani siano inseriti nell’elenco dei gruppi terroristi e il katar rifiuta dicendo che quando un gruppo raggiunge una certa dimensione, deve essere piuttosto considerato un problema politico. E ha dato la stessa replica per HAMAS ( inserito in lista per compiacere Israele ) che Netanyahu è il solo a ritenere movimento terrorista.

PERCHÉ ADESSO :

Il viaggio di Trump e le sue roboanti dichiarazioni anti Iran hanno fatto credere al Monarca Saudita che fosse venuto il momento per colpire l’Iran nelle sue amicizie più significative: la Turchia e il Katar.  Hanno colpito il Katar per far capire ai turchi ( coi quali hanno sempre finora  intrattenuto ottimi rapporti) che è giunto il momento di scegliere. Chi è amico di Teheran e Riad contemporaneamente deve scegliere a pena di scontro e sanzioni. ( oltre alla Turchia, anche il Libano…)

Trascinarsi appresso i paesi del golfo  e il governicchio Yemenita è stato uno scherzo e l’Egitto non vedeva l’ora di riuscire a tagliare i viveri al fratelli mussulmani coi quali sta combattendo.

Abituati alla contraddittorietà della politica estera USA , gli emiri non hanno fatto  troppo caso alla visita che Trump aveva fatto   all’Emiro del Katar ( Tamim al Thani) definendolo un amico. Insomma, un equivoco come quando Saddam Hussein credette di aver avuto via libera all’invasione del Koweit….

CONSEGUENZE

Nessuna di rilievo economico: aumenterà il costo di frutta e verdura, ma i katarioti possono permetterselo. Dal vicino Iran hanno cominciato ad affluire – con 12 ore di navigazione attraverso il golfo persico – derrate alimentari a iosa: un’altra prova di buoni rapporti. Per gli iraniani sarà un ottimo affare.              Tutti gli altri paesi limitrofi aderenti alle sanzioni producono gas e petrolio, ma il Katar ne produce di più.

POLITICAMENTE:

  1. All’avvertimento obliquo alla Turchia, Erdogan ha risposto da par suo: il Parlamento turco ha deliberato l’invio di un corpo di spedizione in difesa del Katar anche se non ha definito la data entro la quale agire.                                                                                                    La controreazione USAUDITA – sempre obliqua – è consistita nell’annunzio tedesco di spostare il proprio contingente militare dalla base  aerea turca ( NATO) di Incirclik ( dove non sapevamo si fosse stabilito) verso la Giordania. Segno palese che la zona che oggi interessa  Gli USA è la frontiera Israeliana  che viene definita ” la frontiera tra i tre paesi” ( Siria, Giordania e Israele) ma che contiene due punti strategici vitali: L’incrocio carovaniero di Mafrak , dal quale si controlla l’intera penisola arabica e il Gebel Druso aggirando il quale si apre la via di Damasco.
  2. La seconda conseguenza politica consiste nel fallimento del progetto di NATO ARABA. Le forze sunnite si sono divise e adesso gli amici dell’America sono in minoranza nella LEGA ARABA.
  3. La terza conseguenza è che l’Iran, non coinvolto e risultato incolpevole dell’unrest in Bahrein e a Quatif, rafforza il legame con Doha ( capitale del Katar) avendo agito per primo in suo favore.
  4.  La quarta conseguenza è che si è dimostrata l’importanza geostrategica del plateau turco.iranico , che aspira all’autonomia e che – con la sua logica appendice afgana rappresenta il corridoio attraverso il quale le forze occidentali potrebbero aggirare le truppe russe schierate verso l’Europa e consentire all’impero di occidente di giungere al Kazakistan e alla Siberia che sono la California del prossimo secolo.  Era il southern corridor attraverso il quale gli USA inviarono ben 8 milioni di tonnellate di aiuti ai russi senza i quali Stalin sarebbe saltato.
  5. E’ per questo che stanno in Afganistan da sedici anni. Ma hanno bisogno  anche della Persia e invece di accattivarsi la formidabile piattaforma logistica, la minacciano….
  6. Last but not least: il progetto di scagliare i paesi arabi moderati  contro il jihadismo salafista è in buona parte compromesso e lo è comunque la leadership USA.
  7. Per soprammercato il Katar ha risposto che non farà ritorsioni contro i paesi sanzionatori, dando così al machismo  beota di Putin l’esempio più interessante del decennio. di come si risponde alle accuse.

Come conseguenze di un viaggio di soli  tre giorni nel Levante , Trump non poteva sperare di fare  meglio.   Ha finito di distruggere mezzo secolo di politica estera USA che Obama aveva devastato con l’aiuto di Hillary Clinton. Il fianco sud della NATO è tutto da rifare e l’operazione Afganistan-Iran è compromessa.  Forse è davvero un Agente russo.

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