IL RECINTO IDEOLOGICO FILO-IMMIGRAZIONISTA: LAVORI IN CORSO, di Francesca Donato

Il sistema di costruzione e di controllo dominante della narrazione mediatica ha subito pesanti crepe nella capacità di imporre la propria rappresentazione. Lo stridore sempre più acuto con la realtà delle cose ha posto le basi di questa caduta di credibilità. La nascita di nuovi network ha offerto i luoghi di espressione di nuove possibilità di chiavi interpretative. Internet e la comunicazione telematica sono il veicolo principale e il campo di battaglia eletto per la ripresa del controllo. Il problema è che gli arbitri sono parte in causa del gioco politico. Non sono certo i centri decisionali di paesi come in Italia a poter condizionare tale gioco e tali decisioni. Né, per altro, nessuno dei paesi europei sembrano porsi il problema se non su alcuni aspetti parziali, come il progetto Galileo. Le capacità di condizionamento degli arbitri risiedono nei paesi sedi dei poteri di controllo sui server, guarda caso gli Stati Uniti. Anche a costo dello smascheramento della loro condizione, hanno iniziato in maniera concertata ha oscurare alcuni siti di larga informazione, infowars è l’ultima clamorosa vittima designata; in maniera più sofisticata stanno piegando gli algoritmi che determinano i risultati delle ricerche in base alle necessità politiche dominanti. La persecuzione politica efficace con i metodi più tradizionali avverrà dopo, se avrà pieno successo la prima fase. In Italia dobbiamo accontentarci di emuli, un po’ in ritardo e un po’ artigianali, di tali propositi. Qualche indagine giudiziaria apparentemente estemporanea; qualche gruppo organizzato nel segnalare agli arbitri giocatori, tra la tanta pattumiera, soprattutto le voci scomode. La presa sempre più ferrea sui sistemi tradizionali di comunicazione assecondata dalla persistente infatuazione berlusconiana verso Renzi, culminata con l’estromissione di Belpietro e Mario Giordano da Rete4 e il conseguente affidamento della rete agli accoliti di Matteo Renzi nonché la conduzione sempre più sfacciata de La7 sono per ora il piatto forte su cui si stanno concentrando i tentativi di ripristino, in attesa che sia definito lo scontro in ambito RAI, con la vergognosa vicenda del veto alla Presidenza di Marcello Foa. Segno ulteriore di quanto il penoso e miserabile declino di Berlusconi stia costando al paese. In questo contesto trova spazio l’ambizione e la fregola dei nuovi Savonarola che trovano posti accoglienti e ben remunerati nelle ormai pletoriche autorità di controllo per dare sfogo ai propri propositi moralistici e “politicamente corretti”. Buona lettura. Giuseppe Germinario

IL RECINTO IDEOLOGICO FILO-IMMIGRAZIONISTA: LAVORI IN CORSO.

tratto da http://www.progettoeurexit.it/il-recinto-ideologico-filo-immigrazionista-lavori-in-corso/

Commento alla delibera N. 403/18/CONS dell’AGCOM (Autorità Garante per le Comunicazioni)

Il 25 luglio scorso, con delibera n. 403/18/CONS, l’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM) ha emesso la delibera avente ad oggetto “AVVIO DEL PROCEDIMENTO PER L’ADOZIONE DI UN REGOLAMENTO IN MATERIA DI RISPETTO DELLA DIGNITÀ UMANA E DEL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE E DI CONTRASTO ALL’HATE SPEECH E ALL’ISTIGAZIONE ALL’ODIO”.

Tale provvedimento è passato inosservato sui media mainstream, ma il suo contenuto è di fondamentale importanza per le implicazioni in esso contenute sulla regolamentazione dell’informazione nel nostro Paese. Ritengo dunque importante esporne il significato, analizzando i suoi passaggi più importanti.

Innanzitutto, la delibera concerne tutto il mondo delle telecomunicazioni e radiotelevisivo,  quindi l’intero sistema dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, del quale viene richiamato il Testo Unico (D.Lgs. 177/2005).

Essa richiama, come presupposti del proprio intervento, fonti di diritto internazionale e sovranazionale, fra le quali:

  • l’art. 7 della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948: “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”;
  • l’art. 1 della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale delle Nazioni Unite del 1965, ratificata con legge 13 ottobre 1975, n. 654: “l’espressione «discriminazione razziale» sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”; 
  • l’art. 4 della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione, che prevede che “gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale, e si impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell’articolo 5 della presente Convenzione”. Tra queste misure lo stesso art. 4 prevede esplicitamente quelle finalizzate a “non permettere né alle pubbliche autorità, né alle pubbliche istituzioni, nazionali o locali, l’incitamento o l’incoraggiamento alla discriminazione razziale”; 
  • la Raccomandazione di politica generale n. 15 della ECRI (Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza del Consiglio d’Europa), relativa alla lotta contro il discorso dell’odio adottata l’8 dicembre 2015, che stimola gli Stati ad agire concretamente affinché ogni forma di discriminazione etnica sia contrastata ed eliminata, coerentemente con il diritto internazionale che tutela i diritti umani;
  • l’art. 21 (Non discriminazione) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 e in particolare il comma 1, secondo il quale “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”;
  • la direttiva n. 2000/43/CE del Consiglio dell’Unione Europea, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; l’art. 3-ter della direttiva n. 2007/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, secondo il quale “Gli Stati membri assicurano, con misure adeguate, che i servizi di media audiovisivi forniti dai fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione non contengano alcun incitamento all’odio basato su razza, sesso, religione o nazionalità”.

Inoltre, vengono richiamate norme nazionali come:

  • l’art. 3 della Costituzione Italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”;
  • l’art. 10, comma 1, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, (Testo unico della radiotelevisione), come modificato dal decreto legislativo 28 giugno 2012, n. 120 : “L’Autorità, nell’esercizio dei compiti ad essa affidati dalla legge, assicura il rispetto dei diritti fondamentali della persona nel settore delle comunicazioni, anche mediante servizi di media audiovisivi o radiofonici”;
  • l’art. 32, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico della radiotelevisione), come modificato dal decreto legislativo 28 giugno 2012, n. 120: I servizi di media audiovisivi prestati dai fornitori di servizi di media soggetti alla giurisdizione italiana rispettano la dignità umana e non contengono alcun incitamento all’odio basato su razza, sesso, religione o nazionalità”;
  • la delibera n. 424/16/CONS, del 16 settembre 2016, recante “Atto di indirizzo sul rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione nei programmi di informazione, di approfondimento informativo e di intrattenimento”, avente valore di indirizzo interpretativo delle disposizioni contenute negli artt. 3, 32, comma 5, e dell’art. 34 del Testo unico, secondo il quale i programmi radio-televisivi nella diffusione di notizie devono “uniformarsi a criteri-verità, limitando connotazioni di razza, religione o orientamento sessuale non pertinenti ai fini di cronaca ed evitando espressioni fondate sull’odio o sulla discriminazione, che incitino alla violenza fisica o verbale ovvero offendano la dignità̀ umana e la sensibilità degli utenti contribuendo in tal modo a creare un clima culturale e sociale caratterizzato da pregiudizi oppure interferendo con l’armonico sviluppo psichico e morale dei minori”, nonché devonorivolgere particolare attenzione alla modalità di diffusione di notizie e di immagini sugli argomenti di attualità trattati avendo cura di procedere ad una veritiera e oggettiva rappresentazione dei flussi migratori, mirando a sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno dell’hate speech, contrastando il razzismo e la discriminazione nelle loro espressioni mediatiche;
  • la delibera n. 46/18/CONS, del 6 febbraio 2018, recante “Richiamo al rispetto della dignità umana e alla prevenzione dell’incitamento all’odio” con la quale l‘Autorità stessa ha richiamato “i fornitori di servizi media audiovisivi a garantire nei programmi di informazione e comunicazione il rispetto della dignità umana e a prevenire forme dirette o indirette di incitamento all’odio, basato su etnia, sesso, religione o nazionalità” alla luce dei dati di monitoraggio sul pluralismo politico/istituzionale relativi al periodo 29 gennaio-4 febbraio 2018 dai quali la trattazione di casi di cronaca relativi a reati commessi da immigrati appariva “orientata, in maniera strumentale, ad evidenziare un nesso di causalità tra immigrazione, criminalità e situazioni di disagio sociale e ad alimentare forme di pregiudizio razziale nei confronti dei cittadini stranieri immigrati in Italia, contravvenendo ai principi di non discriminazione e di tutela delle diversità etniche e culturali che i fornitori di servizi media audiovisivi sono tenuti ad osservare nell’esercizio dell’attività di diffusione radiotelevisiva”;
  • il “Testo unico dei doveri del giornalista”, approvato dal Consiglio Nazionale dei giornalisti nella riunione del 27 gennaio 2016 che stabilisce che “il giornalista rispetta i diritti fondamentali delle persone e osserva le norme di legge poste a loro salvaguardia; […] applica i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network”;
  • l’art. 9 del “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”, allegato al “Testo unico dei doveri del giornalista” sopra citato, che stabilisce che “nell’esercitare il diritto-dovere di cronaca, il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali;
  • la delibera n. 410/14/CONS, del 29 luglio 2014, recante “Regolamento di procedura in materia di sanzioni amministrative e impegni e Consultazione pubblica sul documento recante Linee guida sulla quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni”.

Mi scuso per la prolissità del testo, dovuta all’elencazione delle fonti di cui sopra, ma la corretta comprensione della portata della delibera in esame non può prescindere dal quadro normativo richiamato.

Alla luce delle suddette norme e raccomandazioni, l’Autorità Garante esprime le proprie considerazioni, ovvero:

  1. che, alla luce delle disposizioni normative vigenti, “i principi fondamentali del sistema dei servizi di media audiovisivi e della radiofonia rappresentati dalla libertà di espressione, di opinione e di ricevere e comunicare informazioni – comprensivi anche dei diritti di cronaca, di critica e di satira – devono conciliarsi con il rispetto delle libertà e dei diritti, in particolare della dignità della persona, dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del minore, nonché con l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose e con la salvaguardia delle diversità etniche e del patrimonio culturale, artistico e ambientale, a livello nazionale e locale” (e fin qui, nulla di nuovo);
  2. che “la crescente centralità, nel dibattito pubblico nazionale ed internazionale, delle politiche di governo dei flussi migratori provenienti da paesi in stato di guerra o di emergenza economico-sociale, sembra generare posizioni polarizzate e divisive in merito alla figura dello straniero e alla sua rappresentazione mediatica, favorendo generalizzazioni e stereotipi che minano la coesione sociale, nonché offendono la dignità della persona migrante o in ogni caso di categorie di persone oggetto di discorsi d’odio e di discriminazione su base etnica o religiosa” : qui parte il primo “affondo” alle politiche del Governo, evidentemente ritenute responsabili del generarsi delle “posizioni polarizzate e divisive” in merito alla “figura dello straniero” (con l’utilizzo del termine generico di “straniero” per indicare la categoria specifica del “migrante”, in via del tutto impropria), nonché foriere di “generalizzazioni e stereotipi” che (nell’ambito ristretto di cui si tratta, ovvero riguardo agli immigrati) “minano la coesione sociale”, “offendono la dignità della persona migrante (concetto nuovo e del tutto indefinito nelle sue caratteristiche) o comunque di “categorie di persone” (ancora più indefinito!) oggetto di “discorsi d’odio e di discriminazione su base etnica o religiosa”.

Mi fermo a commentare questa seconda considerazione, in quanto determinante e profondamente significativa. Con essa, il Garante espone la propria visione politica del contesto sociale attuale: egli ritiene dunque che il Governo in carica stia adottando politiche migratorie che creano divisioni e alimentano un clima di odio e pregiudizio. Né più né meno, ciò di cui le opposizioni di “sinistra” accusano quotidianamente, tramite tutti i media, il Ministro Matteo Salvini. Va sottolineato dunque, che l’interpretazione in chiave discriminatoria e disegualitaria delle politiche di controllo dell’immigrazione clandestina e lotta al traffico di esseri umani, poste in essere con decisione ed efficacia da questo Governo dopo anni di inerzia da parte dei Governi precedenti (in assoluta linearità rispetto a quelle intraprese dai Governi europei che ci sono stati regolarmente posti come esempi da emulare, ed a fronte della conclamata insostenibilità degli oneri economici, organizzativi e sociali che il fenomeno migratorio da cui il nostro continente è stato investito negli ultimi anni ha comportato e continua a comportare per l’Italia in misura enormemente maggiore rispetto agli altri Paesi europei, a causa della sua posizione geografica di “porta d’ingresso” nel Mediterraneo) è frutto di una visione distorta del fenomeno, dovuta all’orientamento politico di appartenenza e ampiamente veicolata dai media.

Ciò è vero, quantomeno, alla luce del fatto che metà del Paese (almeno) invece ha subito le precedenti politiche di accoglienza illimitata e incontrollata con disappunto e legittima preoccupazione, viste le evidenti (e indiscusse) ricadute negative in termini occupazionali, sociali, assistenziali e salariali sulla cittadinanza.

La coabitazione forzata fra cittadini colpiti dalla più grave crisi economica dal dopoguerra ed immigrati clandestini che vanno ad aumentare l’esercito di disoccupati e sottooccupati o lavoratori in nero (per non parlare degli addetti ad attività illecite) nel nostro già fragile sistema economico, non poteva altre che portare ad una reazione repulsiva da parte della popolazione autoctona. Non aver capito e previsto tale fenomeno, è la prima responsabilità dei governi di sinistra oggi relegati all’opposizione dall’elettorato, stanco di assistere ad un afflusso imponente e fuori controllo di immigrati clandestini.

Il modo per combattere le conseguenze di tale fenomeno, in termini di atteggiamento xenofobo o intollerante da parte della cittadinanza, avrebbe dovuto essere quello di rassicurare gli Italiani tramite maggiori controlli sugli ingressi irregolari, sulla gestione dei soggetti accolti nelle varie strutture di identificazione, con una ferrea applicazione delle norme di legge riguardanti rimpatri per i non aventi diritto all’asilo e alle espulsioni per i delinquenti. Invece, i cittadini hanno avuto di fronte un sistema colabrodo che non ha saputo minimamente garantire il rispetto della legalità e della sicurezza sul territorio, e i casi di cronaca con protagonisti immigrati irregolari si sono moltiplicati, alimentando la paura e il disagio sociale.

Le cause dei riportati fenomeni di discriminazione, odio o semplice insofferenza sono dunque da attribuire alle gestioni fallimentari perpetrate negli ultimi anni ed alle conseguenti ripercussioni sulla vita dei cittadini, anziché sull’informazione mediatica che ha – doverosamente – riportato i casi di cronaca coinvolgenti i “migranti”, come ha fatto per tutti gli altri.

L’assunto di partenza della delibera in esame, dunque, poggia su un’interpretazione delle cause della rilevata “crisi sociale” del tutto discutibile e di parte.

Le successive considerazioni espresse dal garante riguardano la necessaria correttezza ed obiettività, completezza ed imparzialità, nella diffusione di notizie, da parte dei fornitori di servizi dei media, “in ragione della pervasività del mezzo radiotelevisivo e dell’importante contributo che l’informazione radiotelevisiva svolge in ordine alla formazione di un’opinione pubblica sulla corretta rappresentazione dello straniero”, ed il contrasto alle strategie di disinformazione alimentate da notizie inesatte, tendenziose o non veritiere.

Su tale punto non si può non essere d’accordo, ma andrebbe rilevato che la disinformazione, con le modalità ivi censurate, viene molto più spesso effettuata dai mass media in altri ambiti (economia, politica, esteri) o nell’ambito in oggetto, ma in senso inverso a quello qui attenzionato: basta pensare al recentissimo caso dell’atleta di colore colpita da un uovo lanciato da un’autovettura, oggetto di un altisonante tam-tam mediatico con “allarme razzismo”, quando poi si è accertato che l’odio razziale aveva nulla a che fare con quell’episodio.

Il richiamo ai principi fondanti del giornalismo andrebbe pertanto esteso a tutte le tematiche materia di informazione, non solo a quella limitata ai “migranti”. Tale delimitazione appare, di per sè, come un intervento selettivo a beneficio di una categoria che già i cittadini percepiscono come “privilegiata” per il trattamento che riceve da parte dello Stato, sotto diversi aspetti, rispetto a quella dei residenti autoctoni.

Anche nell’accentuazione del dovere del fornitore del servizio di media di “assicurare la diffusione di notizie complete ed imparziali, che non siano idonee ad alimentare pregiudizi o convinzioni basate su discriminazioni derivanti da ragioni etniche, o di appartenenza religiosa o di sesso” si avverte una preoccupazione del Garante di assicurare la correttezza e imparzialità dell’informazione soltanto con riferimento a categorie selezionate di soggetti, come se gli altri fossero meno meritevoli di tutela.

Viene poi spiegato il significato del termine inglese “hate speech”, inspiegabilmente scelto dal Garante per individuare l’oggetto dell’intervento di contrasto, quando poi lo stesso necessita di traduzione e spiegazione nella lingua italiana. Esso viene individuato nell’ “utilizzo strategico di contenuti o espressioni mirati a diffondere, propagandare o fomentare l’odio, la discriminazione e la violenza per motivi etnici, nazionali, religiosi, ovvero fondati sull’identità di genere, sull’orientamento sessuale, sulla disabilità, o sulle condizioni personali e sociali, attraverso la diffusione e la distribuzione di scritti, immagini o altro materiale anche mediante la rete internet, i social network o altre piattaforme telematiche”.

Si denomina così il contenuto del divieto sancito nella prima parte dell’art. 604-bis del nostro Codice penale, secondo il quale “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Va da sè che, essendo previsto da una specifica norma penale, l’”hate speech” configura un reato nel nostro ordinamento, pertanto il contrasto allo stesso, qualsiasi sia il mezzo attraverso cui esso si manifesti, è già previsto da nostro sistema giuridico, con sanzioni penali (le più severe fra tutti i tipi di sanzioni giuridiche).

Ma anche qui, quando la fattispecie interessa i “migranti”, pare che alla stessa sia riconosciuta maggiore attenzione, e difatti il Garante richiama una norma internazionale che attribuisce la qualifica di “materiale razzista e xenofobo” a “qualsiasi materiale scritto, qualsiasi immagine o altra rappresentazione di idee o di teorie che incitino o incoraggino l’odio, la discriminazione o la violenza, contro una persona o un gruppo di persone, in ragione della razza, del colore, dell’ascendenza o dell’origine nazionale o etnica, o della religione, se questi fattori vengono utilizzati come pretesto per tali comportamenti”. 

Tale norma appare evidentemente indefinita nei suoi margini di applicazione, in quanto la dicitura “qualsiasi” e la locuzione “che incitino o incoraggino l’odio” possono ricomprendere anche immagini o comportamenti di per sè neutri ma che, da un punto di vista puramente soggettivo, possono essere percepiti anche in senso psicologicamente favorevole al sentimento dell’odio o di atteggiamenti discriminatori. L’applicazione di tale criterio per individuare materiale “razzista o xenofobo” può portare a considerare tale tutta una serie di dati, immagini o informazioni che i media dovrebbero poter utilizzare nella fornitura dei loro servizi senza per ciò soltanto incorrere in sanzioni.

Poiché invece il Garante pone un collegamento automatico, quasi necessario, fra i suddetti dati o comportamenti e gli “hate crimes”, altro termine inglese per indicare “i crimini generati dall’odio, prevalentemente basati su razzismo e xenofobia”, affermando che “in Italia, secondo gli ultimi dati diffusi nell’anno 2016 dall’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani (ODIHR dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE)”, gli stessi, “prevalentemente basati su razzismo e xenofobia, sono quasi raddoppiati nell’arco di un triennio”, e considerando così confermati “i timori di una possibile correlazione tra la crescente diffusione dei discorsi d’odio (hate speech) sui diversi media e l’incremento di aggressioni concrete e violente (hate harm), ancorché isolate, nei confronti di categorie di persone oggetto di azioni mirate”, egli ritiene che l’intervento regolamentare sia necessario e impellente, giustificandolo vieppiù con la presunta incidenza su tali fenomeni della “ribalta assunta, sui diversi media, dal dibattito pubblico nazionale ed internazionale sul governo delle politiche migratorie di soccorso umanitario, di accoglienza e di integrazione” (marcando ancora una volta la connotazione politica delle proprie argomentazioni).

È importante, a questo punto, ricordare come le Autorità indipendenti, categoria di cui fa parte l’AGCOM autrice delle delibera qui esaminata, secondo la più autorevole dottrina e la costante giurisprudenza, non devono avere, nella loro azione, alcuna connotazione politica (v. ad es. Caianiello V., Le Autorità indipendenti tra potere politico e società civile, in Rass. giur. en. el., 1997, p. 5.): le Autorità amministrative indipendenti, difatti, sono state concepite ed istituite per dare alle domande della società una risposta tecnica e indipendente e, quindi, non politica (per un’analisi più approfondita della figura delle A.A.I., vedi qui).

L’intento dell’Autorità garante, dunque, in continuità con la già invasiva delibera precedente della stessa Autorità n. 424/16/CONS, del 16 settembre 2016, appare chiaramente quello di voler irregimentare l’informazione massmediatica – nella consapevolezza della sua incontrollabile amplificazione tramite i social network – definendo in maniera puntuale e rigorosa i limiti ed i criteri che essa dovrà rispettare per non essere catalogata come “razzista e xenofoba” e per tale ragione, censurata e soggetta a sanzioni. Ciò va ben oltre il lodevole ed indiscutibile intento di garantire il rispetto dei diritti umani contro le discriminazioni di ogni tipo: il risultato di tali interventi consisterà in qualcosa di molto più grave, cioè un vera e propria censura verso ogni tipo di rappresentazione dei fatti e delle opinioni non sufficientemente “protettiva” verso eventuali possibili letture in senso biasimevole o discriminatorio verso i “migranti”.

È paradossale, peraltro, che nel predisporre tali strumenti di fatto distorsivi e mortificanti per la libertà, la completezza e l’obiettività dell’informazione, si richiamino norme tese a tutelare proprio tali valori, come l’art. 21 della Costituzione.

La conclusione è inquietante: il Garante afferma la necessità di fornire una regolamentazione di dettaglio del precetto contenuto nell’articolo 32 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, “Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici”, il quale prescrive unicamente che “I servizi di media audiovisivi prestati dai fornitori di servizi di media soggetti alla giurisdizione italiana rispettano la dignità umana e non contengono alcun incitamento all’odio basato su razza, sesso, religione o nazionalità” (prescrizioni già munite di tutela giuridica penalistica, tramite il disposto del richiamato art. 604-bis del codice penale) e si accinge a farlo attraverso un intervento che inciderà pesantemente (e vedremo se, ed in che misura, entro i limiti consentiti) sulle libertà democratiche fondamentali garantite dalla nostra Costituzione, come la libertà di informazione e di espressione!

Sarà fondamentale, dunque, al momento della pubblicazione di tale atto, una disamina attenta dello stesso da parte dei soggetti legittimati ed interessati (non ultimo, lo stesso Ordine dei Giornalisti), per segnalarne immediatamente eventuali profili ingiustificatamente lesivi delle suddette libertà democratiche costituzionalmente garantite, scongiurando così che, per vie amministrative, sciolte da ogni valutazione politica e giudiziaria, si trasformi la nostra Repubblica democratica in un sistema di governo etero-gestito, tramite un subdolo controllo totalitario dell’informazione e delle comunicazioni, al fine di nascondere alla pubblica opinione ogni fatto o ragionamento che possa orientarne il pensiero ed il libero giudizio in maniera difforme dalla volontà di chi promuove un travaso irreversibile dei popoli africani verso l’Europa.

Francesca Donato

 

CUPIDIGIA DI SERVILISMO O IDIOZIA PURA?, di Antonio de Martini

CUPIDIGIA DI SERVILISMO O IDIOZIA PURA?

Il ” Corriere della sera” continua con le sue bordate equamente distribuite tra Marcello Foa e il fantomatico “nemico del Presidente Mattarella” a caccia del quale si muovono in sintonia l’ex capo della Polizia di Stato ALESSANDRO PANSA ( Ora a capo del DIS ex CESIS) già illustratosi nella inchiesta per il rapimento e deportazione di due cittadine Kazake ( di cui una di otto anni) fatto dalle forze di polizia in spregio alla legge e senza sanzioni per i responsabili) , la magistratura e la ” overinformed” signorina FIORENZA SARZANINI che ha trasformato la professione giornalistica nel riassumere i verbali di pubblici ministeri.

Ormai è chiara la manovra: l’accusa è definita nel Corriere di oggi: “attentato alla libertà del Presidente della Repubblica”.
Se si troverà un magistrato tanto prono da accettare questa scemenza, dovremmo dedurne che il Presidente della Repubblica è stato costretto a nominare QUESTO GOVERNO e che quindi si tratta di un governo illegale.

Illegale è l’inchiesta perché:

a) non esiste il reato di attentato alla libertà del Presidente della Repubblica, visto che – oltretutto – il predetto non ha sporto querela e vive al Quirinale protetto da un reggimento di Corazzieri ( in realtà un gruppo), un commissariato di ” polizia presidenziale” e un reparto – a turno – delle Forze Armate.

Evidentemente esistono magistrati- e procuratori – privi della nozione di “Habeas Corpus”.
In assenza del corpo del reato, il reato non esiste.

Casomai esisterebbe il ” tentato attentato alla libertà del Presidente” ma non è previsto dai codici.

b) Dopo un goffo tentativo di agganciarsi ad analoghe masturbazioni mentali americane dell’F.B.I. con accuse alla Russia, si è più mostamente ripiegati su Israele e l’Estonia. A meno che non si voglia coinvolgere il povero Preatoni, anche questa è una bufala priva di mozzarella.

c) Scontratisi con la smentita USA, i baldi PM si sono affidati “allo snodo di Milano” come origine degli attacchi al Presidente, ma si sono ben guardati dal trasmettere il fascicolo alla competente procura meneghina.
La legge prevede che l’inchiesta dovrebbe incardinarsi dove è stato commesso il reato, non dove risiede la presunta ” parte lesa”.
Grandi allievi di Luciano Violante ( definito dal Presidente Cossiga ” piccolo Vishinsky” per le sue inchieste contro Pacciardi e Sogno gestite da Cuneo) si tengono stretta l’inchiesta anche per non lasciare la Sarzanini a becco asciutto.

Non posso dire di conoscere personalmente Mattarella dato che l’ho incontrato, a inizio anni 90, solo un paio di volte al ristorante ” DA SETTIMIO” mentre cenavo con l’on TATARELLA di cui sono stato grande amico, ma ammetto che ne ebbi una ottima impressione.

Aveva l’occhio vispo, chiaro e il suo eloquio era intelligente e allegro e mostrava una bonomia non finta.

Tatarella mi disse che era propenso a non irrigidirsi ed era disposto a ragionare pacatamente. Avevano un eccellente rapporto. ( erano i tempi del “tatarellum”, infelice legge elettorale che Mattarella, intelligentemente lasciò battezzare col solo nome di Pinuccio).

Per questa mia valutazione personale sono propenso a credere che dietro questa vicenda non ci sia il Presidente, ma qualcuno del seguito e non è certamente il dottor Zampetti ( il segretario Generale) che ho conosciuto quando era alla Camera e che condivide col Presidente una ormai irreperibile educazione che è facile confondere con l’arrendevolezza.

La stessa mano malevola e maldestra, sta manovrando la Commissione di Vigilanza RAI che adesso vuole convocare il Ministro TRIA e “forse Di Maio”, nella speranza di una presa di distanza di almeno uno dei due sulla vicenda di Marcello FOA.

Fanno finta di non capire che il parere – non vincolante – alla nomina del Presidente RAI è un ” atto di cortesia ” del Governo e non una prerogativa della Commissione.

A proposito di Commissioni, si potrebbe evitare anche la pagliacciata delle domande dei membri COPASIR sui servizi segreti e la loro attività: ogni volta un funzionario ( dirigente) dei servizi manda preventivamente un elenco delle domande che i servizi vogliono farsi porre e lo fa a richiesta della Commissione i cui membri ( capisci a me) non sanno cosa chiedere.

Smettiamola una buona volta e cominciamo a lavorare per uscire dalla m..elma.

dialoghi europei, a cura di alessandro visalli

Dialoghi europei

Una conversazione a margine di un post su Facebook a volte può avere interesse se la distanza tra i suoi protagonisti è appropriata e si muove in un quadro di rispetto. In queste circostanze l’interazione produce arricchimento reciproco. In questo caso i protagonisti del dialogo sono tre e l’innesco, rapidamente superato è la questione dell’immigrazione. Il post iniziale aveva acceso un ramo di discussione nel quale, ad un certo punto, un interlocutore ha richiamato lo slogan dominante nell’area culturale della sinistra liberale: “solidarietà, accoglienza, integrazione”, da tradurre nella politica di aprire i confini senza se e senza ma (ovvero senza badare alle conseguenze). Il ‘padrone di casa’ a questa dichiarazione ha opposto che occorre, invece, “frenare i flussi, e combattere lo sfruttamento degli immigrati che sono già in Italia”, ciò “sia per ragioni di giustizia che di difesa degli stessi lavoratori italiani”.

Il movimento del dialogo inizia da qui, e da una mia replica a questa opposizione tra aprire senza limiti e frenare. Precisamente in risposta alla dichiarazione del globalista che combattere lo sfruttamento significa aprire i confini:

Visalli. “E’ l’esatto contrario, l’immigrazione (economica, ovvero il 90 %) è un fenomeno in buona parte autoalimentato. Il flusso dell’immigrazione dipende dal divario di reddito percepito tra il paese ricevente e quello di partenza e in modo decisivo dallo stock di migranti precedente che non si è integrato. In particolare la dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’, che non si distribuisce molecolarmente ma si concentra in specifici luoghi e si densifica per omogeneità a causa di meccanismi sociali di reciproco sostegno) dipende dalla trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi. Se il gruppo è coeso ed impermeabile cultura ed obblighi si rafforzano e restano diversi da quelli della società intorno, man mano che perde coesione gli individui tendono ad assorbire la cultura del paese di destinazione ed i relativi obblighi, allora abbandonano progressivamente la diaspora e spesso si spostano, cioè si ‘integrano’. Chiaramente quindi il perimetro delle diaspore è fluido e continuamente attraversato da persone che arrivano e da persone che, integrandosi, ne escono.

Ci sono tre semplici conclusioni:

  • La migrazione dipende dalle dimensioni della diaspora (che, in sostanza, la attrae),
  • La migrazione alimenta la diaspora, mentre l’integrazione la diminuisce,
  • L’indice di integrazione (percentuale di chi esce dalla diaspora ogni anno) dipende dalla dimensione, quanto più grande è la diaspora quanto più piccolo è l’indice.

Ovvero, l’integrazione è ostacolata dalla dimensione del flusso di immigrazione e a sua volta lo ostacola. Quanto più grande è il flusso di immigrazione (persone per tempo) quanto meno integrazione ci sarà, perché le diaspore si consolidano e diventano impermeabili. Quanto più piccolo e diluito nel tempo è quanto più è facile l’integrazione.

Dobbiamo volere il controllo dei flussi per avere l’integrazione, e dobbiamo volere l’integrazione per avere il controllo dei flussi”.

A questa posizione risponde in prima battuta Roberto Buffagni con la seguente dichiarazione:

Buffagni. “L’analisi mi sembra inoppugnabile. L’integrazione sociale, però, è solo un aspetto del problema, per quanto importante. E’ solo un aspetto del problema perché gli esseri umani non si differenziano solo in base all’ISEE, anche se lo crede il dr. Boeri. Quando si formano comunità permanenti, sottolineo permanenti, di stranieri all’interno di una comunità politica, sorge il problemino: che farne? Che rapporto esse stabiliranno con le altre comunità di stranieri e con la comunità degli autoctoni? Quando sono tanti – e in Italia sono già tanti, 6/7 MLN di immigrati – la soluzione ‘assimilazione’ (che è assimilazione culturale, e che viene dopo, SE VIENE, l’integrazione sociale) non è praticabile per tutti, ma solo per una piccola minoranza. Il problema è molto serio, e non può, ripeto non può essere affrontato con gli strumenti della cultura liberale e all’interno di un regime democratico a suffragio universale.

La cultura liberale prevede la sola esistenza degli individui, e non rileva l’esistenza delle comunità. La comunità, per essa, è un’esternalità. Tutto bene finché la comunità esiste per conto suo ed è omogenea, tutto male quando le comunità sono plurali e omogenee non lo sono affatto. La soluzione ‘multiculturale’ è in realtà la soluzione più funzionale, per la coesistenza più o meno pacifica di comunità anche molto diverse; però la soluzione multiculturale è una soluzione imperiale, e l’impero dove sta? Se si vuole fare una società multiculturale, multietnica, multireligiosa, ci vuole un Impero, cioè a dire una forma di civiltà dove a) le addizioni al nucleo originario vengono fatte, sempre o quasi, per conquista b) il centro imperiale è dominato, di fatto e di diritto, da una etnia e da una religione gerarchicamente superiori alle altre c) il sistema politico NON è una democrazia a suffragio universale d) il centro imperiale coopta progressivamente le classi dirigenti dei paesi conquistati, concede gradualmente alle altre etnie e alle altre religioni, in misura variabile, libertà (nel senso antico di franchigie), mai immediatamente eguaglianza di diritti politici con l’etnia e la religione centrale d) il centro imperiale divide per imperare, cioè gioca l’una contro l’altra le etnie e religioni subalterne per impedire che l’una o l’altra prenda il sopravvento o addirittura scalzi i dominanti. Solo dopo qualche secolo, in caso di effettiva assimilazione dei fondamentali culturali, il centro imperiale concede a tutti indistintamente i sudditi la cittadinanza politica piena (ma comunque NON introduce MAI la democrazia a suffragio universale).

Così sì che funziona, una società multitutto, e in effetti così hanno funzionato l’Impero romano, l’austriaco (poi austro-ungarico), l’ottomano, il cinese, il britannico, lo zarista, etc. Non che sia una cosetta facile farli funzionare, ci vuole una classe dirigente coi controfiocchi. Attualmente, c’è in corso d’opera l’edificazione o riedificazione dell’impero russo, che cerca di ricostruirsi by stealth pur in presenza di un regime di democrazia parlamentare a suffragio universale, ma corretta dalla presenza di fatto dell’impianto base imperiale: etnia dominante (russa) e religione dominante (cristiana ortodossa)+ solida primazia dei ministeri della forza nel governo (le FFAA intervengono con durezza in caso di sollevazioni centrifughe i etnie e/o religioni subalterne, v. le due guerre di Cecenia). Nella celebrazione per l’anniversario 2015 della Grande Guerra Patriottica, il ministro della difesa Shoigu è entrato sulla piazza Rossa del Cremlino per passare in rivista le truppe, e mentre passava, in piedi sull’auto di servizio, sotto la porta sovrastata dalla grande icona del Cristo Salvatore, si è scoperto il capo e si è fatto il segno della croce. N.B.: Shoigu è buddhista, ad attenderlo c’erano anche reparti mussulmani. Il significato del gesto mi pare chiaro.

NON funziona, invece, una società multitutto che sia uno Stato nazionale basato su un regime politico democratico a suffragio universale, 1 testa = 1 voto. NON funziona perché gli Stati nazionali democratici, per funzionare, devono basarsi su quel che gli studiosi chiamano l’ “idem sentire” dei cittadini: “sentire”, non lavorare o andare al cine o pagare le tasse. Cioè a dire, che tutti i cittadini devono condividere sentimenti ed emozioni simili in merito all’oggetto cui va la loro lealtà primaria. Se va alla nazione, allo Stato che la rappresenta e la guida, alla patria che le dà vita storica, tutto ok. Se invece una parte cospicua della cittadinanza dà la sua lealtà primaria alla sua razza, alla sua religione, alla sua tribù, etc., avviene quanto segue: che il conflitto politico ed elettorale si disegnerà anzitutto lungo le linee di frattura più profonde, le differenze incomponibili e non mutabili a piacere in seguito a sola decisione razionale quali razza, religione, tribù, clan, etc. Rimarranno anche gli altri conflitti, ricchi/poveri, città/campagna, centro/periferia, etc.: ma mentre è relativamente facile mediare questi ultimi, se tutti i cittadini condividono un “idem sentire” nazionale, è molto difficile mediare conflitti come il razziale (ognuno porta la sua bandiera sulla pelle, e non può cambiarla) o il religioso (ognuno porta la sua bandiera nei costumi e nella sensibilità, ed è molto difficile fargliela cambiare).

Il multiculturalismo funziona in ambito imperiale. Nell’impero britannico, ha funzionato in modo particolarmente furbo (gli inglesi sono molto furbi) grazie all’Indirect Rule. Ha smesso di funzionare quando le comunità straniere se le sono trovate sul suolo della madrepatria”.

A questa lunga posizione di Buffagni ha replicato Francesco Somaini, il terzo attore del dialogo, entrando direttamente nel tema “Europa”, che da ora interessa la conversazione:

Somaini. “L’affermazione di Roberto Buffagni sul fatto che gli «imperi» (cioé società multietniche e plurali) non siano compatibili con la democrazia ed il suffragio universale mi pare fondata su esempi troppo limitati per poter essere assunta a regola generale. Oltre tutto il suffragio universale é «un’invenzione» talmente recente sul piano storico che mi sembrerebbe del tutto improprio sostenere la sua impraticabilitá ricorrendo ad esempi come quelli dell’Impero romano o di quello ottomano (in cui il problema non fu nemmeno mai posto). Giá il caso austro-ungarico, in cui esisteva un parlamento, seppure con poteri ancora molto limitati, dimostra che la regola non puó essere data per scontata. E non parlo nemmeno degli USA, che, pur avendo conosciuto in passato anche dei veri e propri casi di pulizia etnica (gli indiani o meglio i nativi americani), penso possano oggi essere definiti, a loro modo, come un impero, che, pur con tutta una serie di problemi, é comunque arrivato ad essere un «melting pot» democratico (ricordo ad esempio che prima di questo bulletto attuale c’è stato un presidente nero). Piuttosto, a me pare che fenomeni come quello migratorio (anche accogliendo il persuasivo discorso di Collier e Visalli sulla dicotomia diaspora/integrazione) non possano trovare una vera soluzione nella dimensione troppo angusta dello stato nazionale. Per questo occorre a mio avviso tenere assolutamente ferma l’idea di Europa (sbarazzandosi semmai dei trattati attuali) senza farsi tentare dalle chimere pericolose del sovranismo (e dei nazionalismi che ne potrebbero derivare). L’Europa puó del resto essere vista come una forma politica relativamente simile ad un moderno impero, e non é affatto detto che essa debba essere per forza incompatibile con democrazia e suffragio universale. Certo é una partita tutta da giocare”.

A questa posizione, la mia replica:

Visalli. “Se passi per ‘sbarazzarsi dei trattati attuali’ siamo perfettamente d’accordo. Se avessimo una macchina del tempo potremmo andare a rinegoziare Maastricht. Non avendola il problema è un tantino più difficile.

Dopo di che, certamente non è in linea di principio incompatibile con il suffragio universale, ma bisogna bilanciare i compromessi di potenza che dentro i singoli stati nazionali hanno assetti complessi e derivanti dal percorso storico. Questi non sono uguali nei diversi paesi e soprattutto non tutti gli attori a valenza costituzionale in essi sono egualmente rappresentati nel luogo decisionale. Le commissioni negoziali erano infatti espressione di un sistema di attori molto più limitato e gli effetti si sono visti”.

E quella di Buffagni:

Buffagni. “Le società multiculturali non sono compatibili con la democrazia a suffragio universale per una ragione molto semplice: che con la democrazia rappresentativa a suffragio universale + molte etnie e religioni il conflitto politico principale tende a diventare etnico e religioso. Questa è la tendenza ineludibile, ineludibile perché sono le differenze più profonde e meno componibili di tutte. Poi ci sono dei correttivi possibili, per esempio, in Russia il patriottismo e la supremazia storica dell’etnia grande-russa fondatrice della Russia, negli USA l’espansione imperiale e il ‘sogno americano’, che è appunto la declinazione privata dell’espansione. Fino a poco fa c’era la supremazia storica dell’etnia WASP. Cessata quella, rallentata l’espansione imperiale, i conflitti etnico-politici tornano in primo piano (le ultime elezioni presidenziali lo illustrano con chiarezza, i bianchi hanno votato ‘il bulletto’ e le minoranze razziali la Clinton, perché i Democrats hanno costruito la loro strategia, da parecchi anni, sulla ‘identity politics’: Trump è il backlash, perchè la identity politics possono farla tutti, esattamente come tutti possono essere razzisti. La dinamica pura di ‘società multietnica + democrazia a suffragio universale’ si vede in condizioni di laboratorio in Africa, nelle infinite e sanguinose guerre civili in cui l’etnia che vince le elezioni si impadronisce dello Stato, che è una macchina da guerra, e lo usa per fare fuori un’altra etnia. O nel caso odierno del Sudafrica, dove è appena stata votata una legge che espropria le terre dei bianchi senza indennizzo. Non ho capito l’affermazione che la UE somiglierebbe a un impero, francamente mi sembra la cosa meno somigliante a un impero che sia esistita nella storia.”

Somaini risponde alla mia obiezione chiarendo il suo punto:

Somaini. “esistono secondo me delle vie per far «saltare» di fatto i trattati, aggirandoli con delle scelte politiche che, senza violarne formalmente la lettera, ne smontino in realtà la portata perversa, rendendoli sostanzialmente inefficaci (e quindi innescando anche il processo per il loro superamento). I sostenitori delle cosiddette «monete fiscali» ipotizzano ad esempio proprio questa via. Queste monete (che potrebbero anche configurarsi piú propriamente come dei certificati di credito fiscale) non sono formalmente vietate dai trattati, che semplicemente non le hanno previste. Epperó consentirebbero proprio quelle politiche economiche che i trattati di fatto impediscono. L’Europa di Maastricht potrebbe cosí «saltare», senza dover per questo formalmente ricorrere alle pericolose strategie sovraniste…”

E a Buffagni:

Somaini. “non nego certo che far convivere pacificamente (o addirittura armonicamente) etnie e culture diverse sia facile. Trovo peró troppo dogmatica e asseverativa la tesi secondo cui la cosa sarebbe semplicemente impossibile. Quanto all’Europa penso che potrebbe essere pensata come un Impero nel senso di intendere questa nozione come quella di una forma politica «costituita» – cito banalmente da Wilipedia – «da un esteso insieme di territori e popoli, a volte anche molto diversi e lontani, sottoposti ad un’unica autorità». Certo, sarebbe un impero non imperialista (e anche per questo compatibile con la democrazia e con ordinamenti di tipo democratico). Un traguardo certo non facile da raggiungere. Ma non concettualmente impossibile.”

Al quale questi risponde:

Buffagni. “Poche cose sono veramente impossibili, ne convengo. La definizione di Wikipedia non è affatto male, ma la chiusa ‘sotto un’unica autorità’ mi pare dare ragione a me  Il difetto intrinseco della Unione Europea è la mancanza di legittimità; e se c’è una cosa di cui un impero ha bisogno per esistere è proprio quella. La dimensione sacrale dell’autorità è indispensabile all’esistenza e alla funzionalità di un impero. Non è detto che la sacralità debba essere esplicitamente religiosa, ma certo ci deve essere, per esempio nella forma di una teologia civile come l’americana: appunto perchè si deve ricondurre a unità una molteplicità conflittuale, e per farlo la forza non basta mai, come non bastano il diritto e l’economia.”

e

“Guardi però che non sono gli Stati nazionali a produrre i conflitti, i conflitti si producono con qualsiasi forma di organizzazione politica. L’unica pace possibile è appunto la pace imperiale, cioè l’egemonia incontestata di un impero in un settore di mondo (e la guerra aperta si fa altrove)”.

Quindi Somaini risponde ad un’obiezione che per inciso avevo avanzato (che quella delle monete fiscali sarebbe comunque una strategia sovranista), dicendo che:

Somaini. “quello delle monete fiscali sarebbe tutt’al più un sovranismo moderato e costruttivo. A me poi non disturba affatto la sovranitá democratica. Al contrario! Mi disturba l’enfasi dei sovranisti sul ritorno alla forma dello stato nazionale: forma a mio avviso inadeguata ai problemi che si trovano sul tappeto e di cui abbiamo giá visto a sufficienza gli effetti tremendi cui puó condurre. Come direbbe mia figlia: «Ma anche no»”.

Ed a Buffagni, sulla stessa linea:

Somaini. “i conflitti ci sono certamente comunque, ma diciamo che la storia del Novecento (e non solo) ha mostrato a mio parere a sufficienza che gli stati nazionali tendono ad alimentare facilmente i nazionalismi, i quali sono benzina sul fuoco di tutti i potenziali conflitti. La vicenda jugoslava, pur con tutte le sue specificitá prettamente balcaniche, mostra bene cosa potrebbe succedere con il ritorno forte dei sovranismi nazionali”.

Una obiezione alla quale ho risposto:

Visalli. “Non credo che qualcuno, salvo pochi non consapevoli dei problemi, intenda il ritorno alla forma dello stato nazionale nella forma ottocentesca. Ma come dice Roberto la vecchia retorica (portata dai circoli liberali intorno agli anni dieci e venti in contrasto con l’insorgere del welfare) della nazione= guerra è semplificatoria, ed era connessa con la transizione imperiale ormai definita. La guerra la fanno tutti e non la fa necessariamente nessuno. Ciò che è inadeguato ai problemi che abbiamo sul tappeto è decidere in pochi ed al chiuso delle stanze (o nelle colazioni di lavoro la mattina di decisioni cruciali). Dunque noi abbiamo bisogno di sovranità popolare e democratica, e questa si articola in un complesso insieme di istituzioni, regole, tradizioni e luoghi che non si riproduce in vitro per decisione. Sovranità popolare che, al contrario di quella ‘dei mercati’, richiede anche una relazione affettiva e quindi un certo grado di coesione e capitale sociale. Per ora ciò accade nelle vecchie nazioni. Poi sulla jugoslavia ci sarebbe da parlare….

Non so se hai letto il libbricino di Kayek del 1939, ma il ragionamento che fa è piuttosto illuminante, anche nel suo schematismo.

Tra l’altro in base a questa logica: stato=guerra, non dovresti volere neppure lo stato europeo, dato che è abbastanza evidentemente un’arma rivolta contro la Cina e forse la Russia. Se il nazionalismo incorpora una contrapposizione, e questa può scivolare nella guerra, il nazionalismo europeo (ben rappresentato da alcune esternazioni di Prodi, ad esempio) non farebbe eccezione. Servirebbe per costituire un polo di potenza in chiave del confronto con il potere emergente orientale, al fine di contenerlo ed alla fine sconfiggerlo”.

Somaini replica in questo modo:

Somaini. “Torno brevemente su un’osservazione di ieri di Roberto Buffagni sul fatto che all’Europa manca una legittimazione che si fondi su un elemento di tipo ‘sacrale’ (anche laicamente inteso). E’ vero. Le costruzioni politiche, e a maggior questa sorta di nuovo Impero che potrebbe essere l’Europa, hanno bisogno di questa legittimazione. Hanno necessità di riconoscersi in una visione o un’ideologia che ne giustifichi e ne legittimi l’esistenza. Questa Europa di burocrati e di tecnocrazie è invece diventata arida: non suscita speranze, non scalda i cuori di nessuno. Peggio: accentua diseguaglianze, alimenta risentimenti e rancori. L’Europa non può esistere senza l’Europeismo, cioè senza una visione di pace, di democrazia e di solidarietà, che diventi l’anima ideologica dell’idea europea, e che conferisca forza, vigore, e perfino, in un certo qual modo, sacralità al progetto dell’Unione. L’Europa che si è costruita dopo Maastricht ha finito, a mio vedere, per tradire se stessa, cessando di essere europeista, e perdendo con ciò il suo ‘ubi consistam’ ideale (e il senso della propria missione storica). Ma la soluzione a questa ‘impasse’ non può essere quella del ritorno agli ‘Stati nazionali’ ed alle ideologie sovraniste. Quella infatti è a mio vedere una risposta profondamente sbagliata e pericolosa, che ripropone recinti identitari che potrebbero facilmente diventare dei nuovi inquietanti nazionalismi (e già se ne vedono i segni). La risposta dovrebbe invece essere quella di riproporre il senso e le ragioni di un vero europeismo democratico e socialista, come fondamento del progetto europeo. Certo: c’è la gabbia infernale degli attuali europei: trattati che oggi sono il vero nemico del progetto europeista. E’ chiaro che quella gabbia costituisce un problema. Ma esistono, come cercavo di argomentare ieri, anche delle vie per cercare di farla saltare.”

Al quale Buffagni ha ulteriormente replicato:

Buffagni. “Le guerre balcaniche sono state provocate da una serie di fattori: fine di Yalta + incoraggiamento alla secessione della Jugoslavia da parte di Germania e Vaticano prima, USA poi, che si sono inseriti nella dinamica secessionista per impiantarsi solidamente nei Balcani, creando lo stato del Kosovo e costruendovi la base di Camp Bondsteel. La dinamica delle guerre balcaniche non dimostra affatto la pericolosità dello stato nazione in quanto tale, dimostra semmai un’altra cosa: che è molto difficile tenere insieme uno stato multiculturale. Dopo tre generazioni di convivenza pacifica garantita dall’egemonia della Serbia e dal comando del Maresciallo Tito, popolazioni a cui le istanze autorevoli insegnavano da sempre la fraternità socialista, l’arretratezza oscurantista delle religioni, etc., si sono divise lungo le linee etniche e religiose, massacrandosi in modo atroce. In questo massacro, l’unica colpa che ha lo Stato nazionale jugoslavo è quella di non aver retto all’urto esterno di chi, per interessi suoi, ne ha promosso la frammentazione. Con quanto precede non intendo dire che lo stato nazionale sia carino e coccoloso. Lo Stato, per sua natura e funzione primaria, è una macchina da guerra. Fa eccezione la UE, perchè la UE NON è uno Stato, nè mai, a mio avviso, lo diventerà”.

E Somaini:

Somaini. “l’affermazione per cui gli Stati (tutti gli Stati) sarebbero per loro natura e definizione delle macchine da guerra mi pare apodittica e troppo asseverativa. È un’affermazione di tipo teorico astratto, mentre esistono diversi esempi storicamente concreti che potrebbero dimostrare il contrario. Si possono perfino trovare casi di stati multiculturali, che hanno retto assai bene alla prova del tempo (e anche all’avvento di forme di governo di tipo democratico e a suffragio universale, che secondo lei sarebbero invece incompatibili con il multiculturalismo). Non c’è nemmeno da andare molto lontano per trovare degli esempi: basta pensare alla Svizzera (in cui hanno trovato modo di convivere lingue diverse e religioni diverse). Quanto all’esempio jugoslavo, avevo chiarito anch’io, nel mio post in cui lo evocavo, che esso aveva delle sue peculiaritá balcaniche. Quindi so bene che quella é stata una vicenda molto particolare. Resta il fatto che la scelta sovranista delle repubbliche jugoslave (quali ne fossero le ragioni e le forze interne ed esterne che la determinarono) non mandó semplicemente in fumo un progetto di stato multietnico che pure aveva una sua lunga storia ideale, ma non tardó poi a scatenare anche delle spinte nazionalistiche irrazionali, furibonde ed incontrollabili, con esiti, come sappiamo, devastanti. L’eventuale dissoluzione dell’Unione europea (che potrebbe non dispiacere ad altre grandi potenze) potrebbe conoscere analoghe torsioni degenerative. Il progetto europeo del resto é nato a suo tempo con l’idea di creare uno spazio continentale di pace e di solidarietá (l’Europa socialista di cui parlava Willy Brandt, e di cui si ragionava nel manifesto di Ventotene). Oggi quel progetto é certamente messo in crisi (soprattutto sul versante della solidarietá) dall’Europa dei tecnocrsti uscita dai tratti di Maastricht e Lisbona (e pure di Dublino). Ma nulla ci assicura che il ritorno a stati nazionali pienamente sovrani ci preservi da esiti di tipo jugoslavo, che potrebbero finire per mettere in crisi il progetto europeista anche sul versante della pace. Esistono altre vie, a mio vedere, per cambiare l’Europa”.

Su questo snodo si spende l’ultima parte della conversazione:

Buffagni. “Grazie della replica articolata. La mia affermazione che gli Stati sono macchine da guerra è, più che teorica, principiale, nel senso che la funzione principiale dello Stato è la difesa (e dunque anche l’offesa). Poi si possono verificare situazioni nelle quali, grazie a Dio o di solito grazie alla costellazione storica presente, dello Stato come macchina da guerra non c’è bisogno, se non nel suo aspetto di detentore del monopolio della forza al proprio interno. Uno Stato privo dei mezzi di difesa e offesa sufficienti viene difeso da un altro Stato, vale a dire che gli è subordinato, perchè chi ti protegge ti è sovraordinato; come in effetti è accaduto all’intero continente europeo dopo la IIGM: la pace europea del dopoguerra è stata garantita dall’equilibrio tra USA e URSS, e punto. La creazione di uno spazio continentale di pace e solidarietà è un bel programma al quale tutti aderiremmo volentieri, ma nella realtà effettuale non vedo come realizzarlo, se non recidendo alla radice il conflitto in quanto tale, cosa che non ritengo possibile. Personalmente credo che gli Stati nazionali europei non abbiano le dimensioni sufficienti per diventare ‘uno spazio di pace’, perché non sono in grado di assicurare la propria difesa. La creazione di spazi maggiori è pertanto la benvenuta, a patto che questi spazi maggiori siano vitali. Perchè lo siano ci vogliono tante condizioni, ma la prima condizione necessaria è l’omogeneità culturale; e in Europa ci sono almeno tre Europe. L’integrazione dell’intero continente europeo in uno Stato federale vero e proprio sarebbe astrattamente auspicabile, ma nella realtà non la vedo realizzabile. Mancano, sul piano della legittimità, gli elementi base. Oggi, l’unica forma di legittimità universalmente accettata in Europa è la legittimazione democratica, che implicherebbe la rappresentazione di interessi e culture così diverse, in Europa, da trasformare il processo decisionale in una interminabile e paralizzante riunione di condominio. Sul piano dell’effettualità, non c’è la motivazione essenziale della creazione di una unità politica, che è il nemico comune. Chi è il nemico comune d’Europa?”


Al consenso di Somaini all’ultima affermazione di Buffagni segue questo mio intervento:

Visalli. “Il like di Francesco Somaini alla spiegazione ‘realista’ di Roberto Buffagni (dove all’opposto si sarebbe entro un quadro idealista) sembra prefigurare un qualche piano di intesa sul quale iniziare a capirsi. Il progetto europeo a lungo un nemico lo ha avuto, ed era un nemico insieme esterno ed interno, sia il primo sia il secondo poco dichiarati per ragioni di opportunità (l’Urss e i movimenti comunisti). Parte non trascurabile dell’iniziale opposizione dei movimenti comunista e socialista ai primi passi del progetto europeo erano definiti in questo quadro oppositivo. Ma dal ’89 (con un percorso che avvia qualche anno prima e vede uno snodo nel tentativo del compromesso storico, seguito anche allo choc cileno) il nemico comune diventa meno chiaro mentre, al contempo, il dominio Usa si rafforza. Agli americani, apparentemente senza alcuna alternativa, che annunciano la fine della storia viene demandato il monopolio della forza mentre gli europei, renitenti ad essa (anche economicamente), si concentrano sul nemico interno (mai dimenticato) che si può finalmente liquidare in via definitiva e su quella che Kagan chiama la ‘strategia dei deboli’: dire che la forza è superata e si deve governare il mondo attraverso leggi e regole. Attraverso queste si intravede il nuovo nemico comune esterno, ed è proprio l’egemone. Il progetto europeo post Maastricht, se ha un senso geopolitico, trova chiarezza nella speranza di inibire la forza militare, che non si ha, attraverso un cambio di gioco e per questa via ricostruire la vecchia grandezza. La Unione Europea sarebbe allora (Huntington) una reazione contro l’egemonia americana, paradossalmente facendo a meno della geopolitica e sottraendogli la legittimazione. Se chi possiede un martello vede solo chiodi, chi ha solo cacciaviti vede solo quelle. Questa interpretazione getta anche una luce diversa e meno accidentale sullo scontro per le bilance commerciali, e sulla estroflessione europea che è una forma di guerra con altri mezzi ed effettivamente scava dentro la potenza americana, riducendone la sostenibilità.”

E quindi la formazione di una piccola area di consenso nella discussione, da parte di Somaini:

Somaini. “ci sono molti spunti condivisibili in questo ragionamento. E i problemi sono certamente ben chiari. Ma personalmente non vedo alternative auspicabili all’ipotesi di lavorare per un’Europa democratica e solidale (cioè per quello che potremmo anche chiamare come una sorta di sovranismo di tipo europeo). La prospettiva di un ritorno agli stati nazionali non mi pare infatti convincente: sia perchè il mondo contemporaneo pone problemi la cui soluzione travalica decisamente la piccola dimensione dello stato-nazione, sia perchè un’Europa di stati nazionali potenzialmente rivali (e contesi tra gli interessi di grandi potenze rivali) mi pare potrebbe innescare scenari inquietanti (oltre che suscitare derive nazionalistiche pericolose). In realtà io continuo a pensare che quella degli stati nazionali europei (che per vero dire non hanno dato in passato grande prova di sé) sia una forma politica ormai inadeguata: un po’, sarei tentato di dire, come lo furono la gran parte delle piccole signorie castrensi tra XII e XIII secolo; o gli stati cittadini italiani e fiamminghi del XIV, o molti stati regionali dell’Occidente tra XV e XVI. Per costruire un’Europa credibile servono però dei veri partiti europei; e poi occorre andare al di là della gabbia degli attuali trattati (che stanno spegnendo l’Unione e facendo morire l’Europeismo). La qual cosa può forse avvenire anche con qualche piccolo escamotage (come ad esempio le monete fiscali).”

Al quale a margine rispondo, rischiando temerariamente il confronto con uno specialista (Somaini è uno storico del periodo tra medioevo e rinascimento):

Visalli. “che una forma storica sia ‘inadeguata’ all’assetto di potenza del tempo (di questo parliamo con i tuoi esempi, no?) lo si può dire solo con il senno di poi. Le battaglie devono prima essere combattute e vinte (o perse). Altra ipotesi porta ad un determinismo storico di sapore ottocentesco nel quale non credo oggi possiamo credere.”

E Buffagni, che concorda:

Buffagni. “Come espone Alessandro Visalli, col quale concordo, e come d’altronde sostenevano gli europeisti della ‘Europa-potenza’ più coerenti benchè un po’ pazzoidi, il nemico principale dell’Europa-Potenza è, oggettivamente, gli USA, e su questo fatto proprio non ci piove, perché la IIGM ha segnato la definitiva sconfitta di tutte le potenze europee, pure le vincitrici quali Gran Bretagna e Francia. Questo è il fatto nudo e crudo, un fatto nudo e crudo identico al fatto nudo e crudo che il nemico dell’unificazione italiana fu l’Impero austriaco. Non per caso, infatti, alcuni intelligenti europeisti fautori a tutti i costi dell’Europa-Potenza sono comunque e in ogni caso favorevoli a euro e UE, pur condividendo le critiche ad essi e pur scontandone gli enormi limiti, perché li ritengono un possibile nocciolo di una futura Festung Europa. Tra costoro, ad esempio, il cofondatore di Terza Posizione Gabriele Adinolfi, guardia d’onore Benito Mussolini. Mi intenda bene: con questo non voglio dare del fascista o del nazista a lei o a nessuno, segnalo una interessante coincidenza di posizioni. Se vuole la mia posizione personale, è la seguente. La UE, nonostante i suoi fondatori europei (non quelli americani) la intendessero come lievito per una ripresa di autonomia dell’Europa, ha invece obbedito alla sua logica, divenendo il principale fattore di paralisi e neutralizzazione politica dell’intero continente europeo. Quindi prima sgretolare la UE, con una inevitabile ripresa di autonomia degli Stati nazionali, e sfruttando la finestra di opportunità che ci presentano gli USA di Trump; poi si apre la stagione della grande politica, nella quale, se ci si riesce, nuove alleanze europee possono nascere, anche con la creazione di nuovi Stati confederali e federali.”

Somaini sul mio intervento:

Somaini. “non è solo una questione di assetti di potenza o di rapporti di forza geo-strategici o geo-militari (che pure ovviamente contano). E’ anche questione di adeguatezza delle diverse forme politiche alle sfide poste da un determinato contesto storico. Le piccole signorie di castello erano inadeguate perché implicavano costi di transazione troppo elevati. Lo stesso valeva per gli stati cittadini (che oltre tutto – basta rileggersi Dante – erano spesso incapaci di garantire dei livelli accettabili di pacifica convivenza interna). Gli stati regionali coprivano a loro volta mercati troppo angusti, ed erano a loro incapaci di convivere pacificamente (nonostante tentativi di leghe o politiche dell’equilibrio) … Oggi gli stati nazionali europei non paiono adeguati per fronteggiare in maniera efficace problemi come le sfide climatiche e ambientali, i fenomeni migratori (la cosa mi pare sotto gli occhi di tutti), o anche la necessità di rispondere in modo fattivo ai grandi potentati economico-finanziari … Tutto questo non mi pare determinismo storico. E’ valutare con realismo le situazioni. Del resto non è nemmeno è detto (a dimostrazione che non stiamo proprio ragionando in termini di determinismo) che il progetto europeo sia destinato ad affermarsi. Tutt’altro. Ma il punto è proprio questo: la battaglia politica che merita a mio avviso di essere combattuta è proprio quella di rilanciare l’idea di Europa (oggi messi in crisi dagli stessi trattati). Non quella di mandare tutto quanto a monte.”

Posizione alla quale oppongo:

Visalli. “…Sempre che non sia proprio il progetto europeo, per come si è costruito in risposta alle sfide che aveva davanti ed al clima storico-ideologico nel quale ha trovato forma, ad essere di ostacolo alla soluzione dei problemi con radice esterna ed impatti interni. Premesso che l’argomento verso l’inadeguatezza è tutto senno di poi (se le leghe non tennero era perché non potevano farlo o è solo andata così?), quel che al momento appare sicuramente inadeguato è proprio il superstato europeo, che sta divaricando ed esasperando i conflitti e neutralizzando la capacità di coordinamento.”

Questa lunga discussione, sviluppata su più giorni determina alla fine un punto di addensamento del consenso:

Buffagni:

Buffagni. “Faccio una proposta ecumenica: possiamo accordarci sul fatto che la UE è un errore, e aprire dibattito e dissensi sul come rimediarlo?”

Somaini:

Somaini. “Concordo sulla proposta ecumenica. Del resto io non dico affatto che l’Europa così com’è mi sta bene. Il punto però è poi decidere da che parte vogliamo andare”.

Buffagni:

Buffagni. “Mi fa piacere, l’ecumenismo non è il mio forte ma in questo caso mi sembra molto utile. Perchè invece mi sembra dannoso il discorso sull’ Altra Europa modello Varoufakis & C. Se concordiamo sul minimo comun denominatore UE/errore, si può discutere meglio sul punto davvero importante, che è come uscirne.

E soprattutto la smettiamo di perseverare.

Il passo seguente sarebbe individuare la radice dell’errore. Io nel mio piccolissimo un’idea ce l’ho, questa.

La mia risposta è:

Visalli. “Penso che l’organismo geopolitico Unione Europea, costituito dal Trattato di Maastricht, sia considerato un errore storico da tutti noi. Rimediare ad un simile ‘errore’ è davvero difficile, farlo senza vederlo come tale ancora di più. Temo che la proposta di Francesco sia insufficiente e comunque non potrà passare senza una ridefinizione della mission. Se questa è l’attuale inibizione della democrazia interna e la spinta strategica alla espansione imperiale del capitale europeo (riassumo in questo modo lo sforzo di rendere dominante la finanzia europea -velleitario dopo la brexit- e la grande industria da esportazione) ci sono pochissimi spazi per un’azione orientata nel nostro senso. Se si costruisce un’altra mission (e non si può passare se non da una rimessa in questione del dominio del discorso neoliberale e dei suoi effetti), si può cercare di creare uno schema diverso. Poi il tempo dirà (e le lotte)”.

La chiusa, per ora, a Buffagni:

Buffagni. “No, ma dicono che la UE è ‘un compagno che sbaglia’. Non sono d’accordo. La UE è, a mio avviso, un organismo altamente disfunzionale, e per gli Stati mediterranei un vero e proprio avversario politico, il principale, perché sopravvive succhiando risorse dai deboli per darle non ai forti, ma ai meno deboli. Chiarisco: se gli Stati europei meno deboli fossero forti, se cioè fossero in grado di portare effettivamente a termine l’unificazione politica d’Europa, il gioco potrebbe valere la candela come valse la candela l’unificazione italiana (a lungo termine) anche per gli Stati meridionali”.

Se valse la candela, e quanto questa è costata, sarebbe un altro discorso, ma certamente per valerla è stato necessario, sia in Italia, come in Germania e negli USA che il vincitore (rispettivamente Piemonte, Prussia e Stati del Nord) assumesse la responsabilità di ribilanciare l’estrazione di risorse (economiche ed umane) che l’unificazione provocava. Farlo con politiche automatiche (ad esempio la previdenza pagata in comune, o la stessa macchina federale) sia con politiche discrezionali (infrastrutturazione, opere pubbliche, politiche industriali).

Se oggi il Nord Europa vuole botte piena e moglie ubriaca dovrà accettare la crescita del dissenso, con tutto quel che seguirà.

Manca ormai poco tempo.

SALUS BELLI SUPREMA LEX: (QUARTA RECENSIONE CUMULATIVA) a Teodoro Klitsche de la Grange, di Massimo Morigi

MASSIMO MORIGI

SALUS BELLI SUPREMA LEX: BELLUM, NON VERITAS, FACIT LEGEM, ET FACIT SOCIETATEM, ET FACIT NATURAM, ET FACIT VERITATEM. L’EPIFANIA STRATEGICA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E L’AMLETO O ECUBA NEL RISPECCHIAMENTO DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE (QUARTA RECENSIONE CUMULATIVA)

Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.

 

Walter Benjamin, I Tesi di filosofia della storia

 

Maria ha vissuto una vita molto nascosta, perciò è chiamata dallo Spirito Santo e dalla Chiesa: Alma Mater, Madre nascosta e segreta. La sua umiltà è stata così profonda da non avere sulla terra altro desiderio più forte e più continuo che di nascondersi a se stessa e a tutti, per essere conosciuta unicamente da Dio solo. Dio, per esaudirla nelle richieste che gli fece di nasconderla e di renderla povera e umile, si è compiaciuto di tenerla nascosta agli occhi di quasi tutti: nel concepimento, nella nascita, nei misteri della sua vita, nella risurrezione e assunzione al cielo. I suoi stessi genitori non la conoscevano; gli angeli si domandavano spesso tra loro: Chi è costei? (Ct 3, 6; 8, 5). L’Altissimo la teneva loro nascosta; oppure, se rivelava qualcosa, infinitamente di più era ciò che teneva nascosto. Dio padre ha consentito che non facesse alcun miracolo durante la sua vita, almeno di quelli appariscenti, anche se gliene aveva dato il potere. […] È per mezzo di Maria che la salvezza del mondo ha avuto inizio ed è per mezzo di Maria che deve giungere a compimento. Maria non è quasi apparsa durante la prima venuta di Gesù Cristo, affinché gli uomini, ancora poco istruiti e poco illuminati sulla persona di suo Figlio, non si allontanassero dalla verità, attaccandosi a lei in modo troppo forte e grossolano; ciò che sarebbe potuto accadere se ella fosse stata conosciuta nelle meravigliose attrattive di cui l’Altissimo l’aveva ornata, anche nel suo aspetto esteriore. Questo è così vero che san Dionigi l’Areopagita ci ha lasciato scritto che quando la vide l’avrebbe presa per una divinità, a causa delle sue misteriose attrattive e della sua bellezza senza pari, se la fede, nella quale era ben fermo, non gli avesse insegnato il contrario. Ma nella seconda venuta di Gesù Cristo, Maria deve essere conosciuta e rivelata dallo Spirito Santo, affinché per mezzo suo sia conosciuto, amato e servito Gesù Cristo. Ora infatti non sussistono più le ragioni che avevano determinato lo Spirito Santo a tenere nascosta la sua Sposa durante la Sua vita e a non rivelarla molto durante la prima predicazione del Vangelo. Dio vuole dunque rivelare e far conoscere Maria, il capolavoro delle sue mani, in questi ultimi tempi.

 

San Luigi Maria Grignon de Montfort, La vera devozione (Traité de la vraie dévotion à la Sainte Vierge)

 

 

Io faccio ciò che voglio e trattengo ciò che mi colpisce,/finché ciò che io non voglio mi dà un senso come una scrittura.

 

Konrad Weiss, citazione al termine di Carl Schmitt, Amleto o Ecuba

 

 

 

 

 

«Si parla in questo libro del tabù di una regina, e della figura di un vendicatore; viene quindi a proporsi la questione dell’origine specifica dell’accadimento tragico, e cioè della fonte del tragico, fonte che, a mio parere, è possibile ritrovare solo in una precisa realtà storica. Così ho tentato di ricomprendere Amleto a partire dalla sua situazione concreta. Ai devoti di Shakespeare, così come agli specialisti, sarà utile per un primo orientamento, che io indichi  subito i tre libri ai quali sono particolarmente debitore di preziose informazioni e di essenziali criteri interpretativi: Lilian Winstanley, Hamlet and the Scottish Succession, Cambridge, Cambridge University Press, 1921; John Dover Wilson, What happens in Hamlet, Cambridge, Cambridge University Press, 1935 e1951; Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin, Ernst Rowohlt Verlag, 1928. [Carl Schmitt, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, Bologna, il Mulino, 1983, p. 39; edizione originale: Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, Eugen Diederichs Verlag, Düsseldorf-Köln, 1956] […] Ciò che vi è di strano e di impenetrabile nell’Amleto di Shakespeare è che il protagonista del dramma di vendetta non segue né l’una né l’altra via: non uccide la madre né si allea con essa. Per tutto il corso dell’opera resta oscuro se la madre sia o non sia complice dell’omicidio. Eppure, per comprendere tanto gli sviluppi dell’azione quanto gli impulsi e le riflessioni del vendicatore, sarebbe assai importante, e perfino decisivo, comprendere la questione della colpevolezza della madre. Ma proprio tale questione, che si impone per tutto il dramma, dall’inizio alla fine, e che a lungo andare non può essere certo accantonata, viene accuratamente elusa in tutta l’opera, e resta senza risposta. [Ivi, p. 48] […] Per lo spettatore che segue l’opera e che non ha tempo di  intraprendere ricerche psicologiche, filologiche o storico-giuridiche, questo punto decisivo resta affatto oscuro, e tutte le indagini hanno solo confermato questa oscurità, quando non l’hanno perfino accresciuta. Ogni drammaturgo ed ogni regista, che vogliano rappresentare Amleto, devono in un qualche modo esser preparati a questa circostanza, ed hanno la possibilità di suggerire al pubblico soluzioni diverse, e addirittura contrapposte. Infatti, ciò che Amleto fa nel corso del dramma, appare sotto una luce completamente diversa a seconda che alla madre si attribuisca colpa o innocenza. Nondimeno, in trecento anni non ci si è ancora accordati su questo punto, e si continuerà a non giungere ad un accordo. C’è qui, infatti, un’operazione di occultamento, senza dubbio strana, ma palesemente  deliberata e intenzionale. [Ivi, p. 50] […] Chi, senza concetti precostituiti, lascia che il dramma agisca da sé, nella sua struttura concreta e nel suo testo effettivamente dato, deve ben presto riconoscere che qui – per riguardi oggettivi, per ragioni di tatto e per altri motivi di soggezione –  qualche cosa viene nascosto ed eluso. In altre parole, ci troviamo di fronte ad un tabù che l’autore dell’opera rispetta senz’altro e che lo costringe a porre tra parentesi la questione della colpa o dell’innocenza della madre, anche se tale questione costituisce, moralmente e drammaticamente, il cuore del dramma di vendetta. [Ivi, pp. 51-52] […]  Perché allora proprio nel caso della madre di Amleto viene accuratamente elusa la questione della colpevolezza, che d’altronde è essenziale in relazione sia al delitto sia all’esecuzione della vendetta? Perché, almeno non se ne rende esplicita la piena innocenza? Se l’autore non fosse vincolato a precisi dati oggettivi, se fosse davvero del tutto libero nella sua invenzione poetica, non avrebbe dovuto fare altro che comunicarci come le cose stavano davvero. Proprio questa circostanza, che cioè non vengano chiaramente espresse né la colpa né l’innocenza, dimostra che sussiste un timore concreto e determinato, un riserbo che è un vero e proprio tabù. Ne deriva, alla tragedia, un’impronta tutta particolare, e l’azione di vendetta, che costituisce il contenuto oggettivo dell’opera, perde quella sicura e lineare semplicità che invece presentava sia nella tragedia greca sia nella saga nordica. Sono in grado di indicare questo tabù, nella sua piena concretezza: esso ha a che fare con la regina di Scozia, Maria Stuarda. Suo marito, Henry Lord Darnley, il padre di Giacomo, fu atrocemente assassinato dal conte di Bothwell nel febbraio 1566. Nel maggio dello stesso anno Maria Stuarda sposava proprio questo conte di Bothwell, l’omicida di suo marito: erano appena passati tre mesi dal delitto. In questo caso, si può davvero parlare di una fretta sospetta e indecorosa. La questione, fino a che punto Maria Stuarda fosse compromessa nell’assassinio di suo marito, o se addirittura non ne avesse ella stessa provocato la morte, è a tutt’oggi oscura e controversa. Maria affermava la sua piena innocenza, ed i suoi amici, particolarmente i cattolici, le prestavano fede. I suoi nemici, soprattutto la Scozia protestante,  l’Inghilterra e tutti i partigiani della regina Elisabetta, erano invece convinti che proprio Maria fosse stata l’istigatrice dell’omicidio. L’intera faccenda fu un enorme scandalo, sia in Scozia sia in Inghilterra; ma come fu che si trasformò, allora, in un tabù per l’autore di Amleto? Quel formidabile scandalo non era stato discusso pubblicamente per anni da entrambe le parti con fanatico ardore?  Il tabù trova la sua esatta spiegazione nelle circostanze di tempo e di luogo in cui l’Amleto di Shakespeare fu concepito e rappresentato per la prima volta: si tratta degli anni 1600-1603, a Londra. Era l’epoca in cui tutti si aspettavano la morte dell’anziana regina Elisabetta, di cui non era stato ancora designato il successore. Per tutta l’Inghilterra questi furono anni di incertezza e di gravissima tensione. [Ibidem, pp. 52-54] […] Shakespeare, con la sua compagnia teatrale, faceva parte della cerchia politica del conte di Southampton e del conte di Essex. Questo gruppo sosteneva Giacomo, il figlio di Maria Stuarda, come candidato alla successione regia, e pertanto fu allora politicamente perseguitato e represso da Elisabetta. [Ibidem, p. 54] […] Su Giacomo, dunque, il figlio di Maria Stuarda, si indirizzavano, in quegli anni critici 1600-1603, tutte le speranze del gruppo a cui apparteneva la compagnia teatrale di Shakespeare. Nel 1603 Giacomo fu effettivamente il successore d’Elisabetta sul trono d’Inghilterra, l’immediato successore di quella stessa regina che appena sedici anni prima aveva fatto giustiziare sua madre. Ma nonostante ciò, egli non rinnegò affatto sua madre, Maria Stuarda: onorava la sua memoria, e non permetteva che venisse calunniata o diffamata. Nel suo libro, Basilikon Doron (1599), egli, in modo solenne e commovente, esorta suo figlio a rispettare sempre la memoria di quella regina. Così, all’autore della tragedia Amleto veniva imposto quel tabù di cui parliamo. [Ivi, p. 55]»

 

Quando con facile e corriva astuzia retorica, e non volendo nicodemicamente prendere posizione, si dice che tal situazione o tal personaggio è “lo specchio dei tempi”, in realtà non ci si accorge che la metafora impiegata è molto più impegnativa – e addirittura opposta – rispetto ad un significato di passiva restituzione all’osservatore-giudice di un contesto esterno che si vorrebbe inertemente riflesso dalla  situazione o dal  personaggio valutato “specchio dei tempi”, talché il più delle volte se questa astuzia retorica viene impiegata dall’osservatore-giudice senza criterio e al solo scopo di sottrarsi, quello che sicuramente rimane di tale “sforzo” interpretativo non è un giudizio  sulla situazione o sul personaggio che si vorrebbe specchiato ma, certamente rispecchiato e restituitoci nella sua pochezza è colui che dietro e con la metafora ha inteso sottrarsi al nostro giudizio. E in questo senso e unicamente sotto questo punto di vista, se impiegata con questa intenzione, la metafora dello specchio rimane, per una sorta di maligna ma assolutamente appropriata eterogenesi dei fini, del tutto valida ed euristicamente efficace, solo che anziché lo specchiato, “specchio dei tempi” si ritrova nel ruolo del passivamente riflesso proprio il debole – intellettualmente e/o valorialmente – giudice-osservatore proprio perché
è lui lo “specchio dei tempi”, sì lo specchio dell’ “epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni”(1) (ovviamente, la metafora dello specchio, fosse più o meno dei tempi ma sempre in un ambito di metafora passivante e paralizzante, ha fatto anche vittime che per loro espressa intenzione ed anche per giudizio generale non erano certamente né autoneutralizzate né spoliticizzate né au dessus de la mêlée, vedi un tal Vladimir Il’ič Ul’janov che nel 1909, in polemica con Ernst Mach per il quale la conoscenza scientifica era una pura rappresentazione logico-formale e non sostanziale della realtà, sostenne in Materialismo ed empiriocriticismo, per preservare le possibilità teoriche e pratiche della rivoluzione,  che la verità era l’adeguamento della mente umana alla realtà esterna, in altre parole che per giudicare correttamente  la realtà esterna, e quindi per poi modificarla in senso rivoluzionario, la mente umana doveva rifletterla sì esattamente ma anche passivamente. Ma se la  leniniana “teoria del riflesso” salvava così, almeno formalmente, la possibilità, in contrasto con Mach, di una rappresentazione vera della realtà, ignorava – o fingeva di ignorare – che con un’impostazione così gnoseologicamente passiva del rapporto fra soggetto-oggetto si trascurava il fondamentale aspetto del ruolo della prassi nell’azione rivoluzionaria così come espressa da Marx nelle sue Tesi su Feuerbach: sicuramente, allora, non si può dire che la metafora dello specchio riflette in questo caso un’impostazione psicologica dell’autore che la impiegò improntata alla passività personale e al non volersi schierare ma certamente, dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico e di tutti quei marxismi variamente ispirati alla filosofia della prassi – in primo luogo quello di Antonio Gramsci dei Quaderni del carcere e  di György Lukács di Storia e coscienza di classe  e anche di tutte quelle filosofie della prassi che in vario modo vogliano rifarsi a Giovanni Gentile – una visione delle masse, fatta propria da quella ideologia che poi fu chiamata marxismo-leninismo e dalla sua espressione “filosofica” del DIAMAT staliniano,  del tutto passive e non protagoniste della rivoluzione).

 

Ci siamo concessi questa digressione fra cronaca, histoiré evénementielle del marxismo del Novecento e storia del pensiero filosofico-politico perché riteniamo che la metafora dello specchio e delle sue immagini riflesse possa, nonostante i mali usi nei quali sovente viene impiegata e piegata, mantenere intatta una grande potenzialità nella strategia comunicativa per comprendere il Secolo breve e quello in cui attualmente stiamo vivendo, l’importante, come si è accennato, è non cedere alle sirene passivanti della metafora di cui si è detto ma un suo impiego lungo il tracciato di una filosofia della prassi che ha avuto nell’Ottocento uno dei suoi momenti più alti nelle marxiane  Tesi su Feurbach per poi proseguire negli anzidetti Gramsci e Lukács per infine al momento ritrovarsi – ci sia concessa questa immodestia – nella filosofia della prassi così come espressa dal Repubblicanesimo Geopolitico. Ma oltre alle grandi possibilità teoriche di una corretta visione ed attiva della metafora dello specchio che, aggiungiamo, trova anche se in apparentemente altro ambito rispetto alle scienze storico-sociali improntate ad una marxiana filosofia della prassi una sua grande potenza gnoseologica (intendiamo riferirci alla fisica quantistica ed in particolare al suo observer effect, cioè al fatto che a livello dei fenomeni quantistici l’osservazione non riflette passivamente l’osservato ma lo influenza direttamente nel suo comportamento – vedi l’esperimento della doppia fenditura o double slit experience –, il che sembra quasi una decalcomania a livello di fisica sperimentale della filosofia della prassi per la quale sussiste un’inestricabile ed attivo rapporto dialettico fra soggetto ed oggetto), questa metafora è anche particolarmente adatta per alcuni autori che effettivamente  sono “specchio dei tempi” e lo furono (e lo sono) proprio perché di tutto di loro si può tranne che furono specchi passivi.

 

In questa positiva e attiva categoria di “specchio dei tempi”, ça va sans dire, collochiamo fra i primi in un nostro ideale Pantheon Carl Schmitt e poi tutti coloro, che a vario titolo e con diversi approcci dottrinali, intendono riferirsi alla grande tradizione del pensiero realista a partire da Tucidide, Hobbes e Machiavelli (a sua volta il Repubblicanesimo Geopolitico intende unire a questa iniziale galleria, tanto per citare i maggiori ma non esaurendo per questo la lista limitata solo ai maggiori apporti teorici, Hegel, Marx, Giovanni Gentile, Antonio Gramsci, György Lukács e il Karl Korsch di Marxismo e filosofia). E fra i contemporanei che inserendosi nell’alveo del pensiero realista può essere utilizzata nell’accezione positiva l’immagine dello “specchio dei tempi”, certamente a buon diritto deve essere collocato Teodoro Klitsche de la Grange. In ragione  negli ultimi tempi dei numerosi suoi interventi sulle pagine elettroniche del nostro sito internet di Geopolitica, riflessione teorica  politica e filosofico-politica di questo prezioso ed unico nel panorama italiano giuspubblicista, “L’Italia e i mondo” ha anche ospitato, per opera dello scrivente, tre recensioni su questi interventi, le quali pur nelle ovvie varie titolature, recavano anche la dicitura comune di ‘recensione cumulativa’, e questo in ragione dell’elementare dato di fatto che la grandissima ricchezza – in termini brutalmente quantitativi ma, ancor più, nel senso di profondità di contenuti –  delle suggestioni del La Grange rendeva proibitiva una puntuta e pedante rassegna di tutte queste suggestioni ma rendeva inevitabile una valutazione globale, olistica – ed assolutamente, ovviamente, positiva – del suo pensiero. Come da titolo di questo intervento, siamo allora giunti alla ‘quarta recensione cumulativa’ al La Grange, e con questa intendiamo render conto, sempre in maniera globale ed evitando pesanti e dettagliati resoconti (come già detto per le precedenti recensioni cumulative, anche in questo caso assolutamente impraticabili vista la “grandezza” in ogni senso della dottrina realista del Nostro) dei seguenti suoi interventi sull’ “Italia e il mondo”: Le ragioni di Creonte, “L’Italia e il mondo”, 5 giugno 2018 (URL: https://italiaeilmondo.com/2018/06/05/le-ragioni-di-creonte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange,

http://www.webcitation.org/712tx1GrJ e

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F05%2Fle-ragioni-di-creonte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange&date=2018-07-20); La decadenza italiana, “L’ Italia e il mondo”, 11 giugno 2018 (URL: https://italiaeilmondo.com/2018/06/11/la-decadenza-italiana-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,

 http://www.webcitation.org/712uTltWv e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F11%2Fla-decadenza-italiana-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Machiavelli, “L’Italia e il mondo”, 22 giugno 2018 (URL: https://italiaeilmondo.com/2018/06/22/machiavelli-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/712v9IhKi e

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F22%2Fmachiavelli-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Introduzione alla “Politica come destino”, 1° parte, “L’Italia e il mondo”, 2 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/02/introduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/712vnQpqX e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F02%2Fintroduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Introduzione alla “Politica come destino”, 2° parte,  “L’Italia e il mondo”, 5 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/05/introduzione-alla-politica-come-destino_2a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/712wmE8dn e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F05%2FINTRODUZIONE-ALLA-POLITICA-COME-DESTINO_2A-PARTE-DI-TEODORO-KLITSCHE-DE-LA-GRANGE%2F&date=2018-07-20. L’ Introduzione alla Politica come destino aveva già trovato pubblicazione in un’unica soluzione su “Rivoluzione Liberale. Politica è cultura” il 27 giugno 2018 agli URL https://www.rivoluzione-liberale.it/35985/cultura-e-societa/la-politica-come-destino.html.  “Congelamento” dell’URL su WebCite: http://www.webcitation.org/71AfC3bXp http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.rivoluzione-liberale.it%2F35985%2Fcultura-e-societa%2Fla-politica-come-destino.html&date=2018-07-25); Nemico, ostilità e guerra, “L’Italia e il mondo”, 9 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/09/nemico-ostilita-e-guerra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/713UyfAZb e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F09%2Fnemico-ostilita-e-guerra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Note su Costituzione e interpretazione costituzionale, “L’Italia e il mondo”, 15 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/15/note-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,

http://www.webcitation.org/713W5lRHB e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F15%2Fnote-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Note su Costituzione e interpretazione costituzionale, 2° parte, “L’Italia e il mondo”, 22 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/22/note-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-2a-parte_-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/717Qp4oQI e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F22%2Fnote-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-2a-parte_-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-23).

 

Si è appena detto, utilizzando quindi la metafora nella sua accezione positiva e di attiva compenetrazione dialettica fra soggetto ed oggetto, che Carl Schmitt è “specchio dei tempi” come, abbiamo pure affermato, anche per Teodoro Klitsche de la Grange, che l’immagine di riflesso attivo  della realtà deve essere impiegata nel giudicare la sua impagabile opera di giuspubblicista. Ma in quest’ultima recensione cumulativa, la quarta, l’immagine ispirata alla filosofia della prassi di rispecchiamento attivo della realtà, trova tutta una sua particolare giustificazione, perché per la strategia comunicativa della presente comunicazione (quindi al fine del raggiungimento di una dialettica verità olistica e sul pensiero del La Grange e su questi suoi ultimi interventi) risulta possedere una particolare forza euristica di rispecchiamento non solo del pensiero di Carl Schmitt ed anche dell’intima dinamica intellettuale del La Grange l’Amleto o Ecuba del “Kronjurist del Terzo Reich” (fama questa di giurista del nazismo di Carl Schmitt veramente ingenerosa ed immeritata, ma questo è argomento che la migliore critica  sia  dal punto meramente storico di come andarono i rapporti di Carl Schmitt col nazismo  sia dal punto di vista della sua dottrina ha completamente decostruito, ma questo  è argomento che abbiamo già affrontato – vedi Massimo Morigi, Fiat imperium pereat hostis. Le ipostatiche illusioni delle democrazia rappresentativa, pubblicato sull’ “Italia e il mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/06/08/fiat-imperium-pereat-hostis-le-ipostatiche-illusioni-della-democrazia-rappresentativa-di-massimo-morigi/; WebCite: http://www.webcitation.org/704td57zk e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F08%2Ffiat-imperium-pereat-hostis-le-ipostatiche-illusioni-della-democrazia-rappresentativa-di-massimo-morigi%2F&date=2018-06-10 – e che non risponde in questa sede alla nostra strategia comunicativa). Come si è potuto leggere dalla citazione iniziale, l’Amleto o Ecuba ruota al “tabù della regina”, vale dire si pone la domanda del perché nell’Amleto shakespeariano non venga preso direttamente di petto il problema della correità della regina riguardo all’assassinio del re suo marito e padre di Amleto. Abbiamo anche visto che dopo un primo lungo argomentare sulle ragioni di questa sorta di rimozione nel dramma del problema, Carl Schmitt giunge ad una prima semplice (e semplicistica) spiegazione: semplici ragioni di opportunità politica avrebbero suggerito, o meglio imposto, a Shakespeare di non affrontare direttamente il problema. Spiegazione della rimozione, diciamo subito, del tutto insoddisfacente, perché se proprio l’opportunità politica fosse una delle molle principali nella strutturazione di questo dramma di vendetta, molto più semplice, lineare dal punto di vista drammatico e sicuro dal punto di vista del drammaturgo sarebbe stato non menzionare affatto la regina Gertrude e non includerla fra i personaggi dell’Amleto. Se tutto e solamente qui fosse l’Amleto o Ecuba, non varrebbe, in fondo, neppure la pena di parlarne e lo si potrebbe facilmente rubricare fra la prove meno riuscite di Carl Schmitt. Ma, come l’esperienza ci ha dimostrato, per quanto egli sia assolutamente adamantino ed icastico in alcune sue affermazioni (vedi nella Teologia politica  il suo immortale apoftegma «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», folgorante, icastica ed inequivocabile affermazione che come un colpo di sciabola fa letteralmente a brandelli ogni metafisica giuridica normativista e le complementari volgarizzazioni ideologiche democratiche e liberali basate sull’astorica parareligiosa ipostatizzazione dei diritti umani di derivazione illuminista e divenute poi una sorta di religione di massa in seguito all’annientamento in Europa degli stati di ancien régime travolti dalla rivoluzione francese), è anche autore problematico, che va letto a più livelli e che, in queste stratificazioni, una non piccola parte hanno proprio i tabù e le rimozioni, come del resto sul piano personale dimostra il fatto di non avere mai completamente fatto i conti con la sua (sfortunata) collaborazione col nazismo e sul piano teorico di avere ad un certo punto rinunciato a sviluppare il suo pensiero decisionista per ritirarsi, certamente anche per favorire un suo tentativo di signoreggiare ideologicamente il nazismo, nel cosiddetto konkrete Ordnungsdenken, nel pensiero dell’ordinamento concreto che si riannodava ai temi dell’istituzionalismo giuridico di Santi Romani e Maurice Hauriou –  questa svolta nel pensiero di Schmitt prese per la prima volta forma in Carl Schmitt, Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg, 1934; trad. it., ma parziale, I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 245-275.

 

Accanto quindi a lampanti folgorazioni, in Carl Schmitt anche rimozioni, ritrosie, timidezze e, sotto questo punto di vista, l’Amleto o Ecuba risulta una delle opere che meglio rispecchia questa particolare Gestalt schmittiana di folgoranti lampi di genio politologico inestricabilmente però messi accanto a mediocri e precipitose ritirate sul piano della riflessione teorica. E questo perché se, come abbiamo visto, Schmitt vi denuncia una sorta di “tabù della regina” presente nell’Amleto shakespeariano e dà poi nell’immediato a questo tabù una spiegazione del tutto insoddisfacente e degna di un poco scaltrito e saputello studentello liceale che ritiene che attraverso il grimaldello del cui prodest (ma non articolato dialetticamente) possa trovare risoluzione tutta la storia umana, alla fine Schmitt, come vedremo, mostra di non credere nemmeno lui a questo semplicista (e sempliciona) risposta e, fornendo poi un’ulteriore risposta veramente degna del suo nome,  fa di questo Amleto o Ecuba veramente l’opera che meglio illustra la sua complessa personalità, segnata da un percorso umano ed intellettuale dove accanto ad illuminazioni e alla denuncia delle ipostatiche rimozioni del pensiero democratico e liberale, troviamo anche sue personali rimozioni dovute alla sua  avversione di portare fino alle estreme conseguenze le (rivoluzionarie) conseguenze del suo pensiero decisionista ma,  dove, al tempo stesso,  a fianco o subito dopo questi “minimi”, assistiamo anche ad una ripresa dell’originario vigore teorico. Sul come il “tabù della regina” verrà nuovamente riformulato e risolto nel prosieguo dell’Amleto o Ecuba e con ciò facendo di quest’opera veramente un unicum e al tempo stesso la più rappresentativa della sinusoidale produzione del giuspubblicista tedesco perché in essa mentre si denuncia una rimozione che avrebbe agito su Shakespeare,  vi opera anche una particolare rimozione dell’autore per poi risolvere, almeno parzialmente e con esiti, comunque, interessantissimi, queste rimozioni (la rimozione, cioè, del tabù della regina ma anche quella sua personale che inceppava la sua evoluzione teorica), torneremo a parlare fra breve. È ora giunto il momento di occuparci del La Grange e cercare di giustificare il titolo che non solo afferma che anche il nostro italico valentissimo giuspubblicista può trovare una sua ideale immagine rispecchiata nell’Amleto o Ecuba schmittiano ma anche che – ed è quello che a noi più importa, perché se un senso hanno queste recensioni cumulative non è tanto lodare un autore, il La Grange, il quale non  ne ha alcun bisogno ma è quello di parlare di noi stessi  e sviluppare il nostro pensiero attraverso il confronto con una grande visione teorica – in questo particolare  rispecchiamento fra due grandi autori il Repubblicanesimo Geopolitico ed il suo orizzonte-limite della epifania strategica possono trovare anche loro fondamentali e dialettiche  attive superfici di rinvio e sviluppo della propria immagine. Indubbiamente del sunnominato elenco di questa quarta recensione cumulativa, fra i  contributi più significativi sono Introduzione alla “Politica come destino”, 1° parte e Introduzione alla “Politica come destino”, 2° parte, da adesso poi in questa comunicazione saranno unitamente  richiamati come Introduzione alla “Politica come destino” tout court, scelta nostra di non fare distinzioni fra questi due contributi  apparsi sull’ “Italia e il mondo” non solo per la quasi totale sovrapponibilità dei due titoli ma, soprattutto, per il  fatto che la prima e la seconda parte di questa Introduzione alla “Politica come destino”  altro non è che  la prefazione di Teodoro Klitsche de la Grange alla odierna riedizione della Politica come destino di Salvatore Valitutti (La politica come destino pubblicata originariamente nel 1976 sulla rivista «Nuovi «Studi politici” – Salvatore Valitutti, La politica come destino, in «Nuovi Studi politici», 1976, n. 4, pp. 3-46 –  fu poi ripubblicata nel 1978  in Karl Löwith, Salvatore Valitutti, La Politica come destino, Roma Bulzoni, s. d. (ma 1978),  pp. 41-84. Il saggio di Karl Löwith compreso  in questo volume era stato pubblicato per la prima volta nel 1935 con lo pseudonimo di Hugo Fiala –  Hugo Fiala,   Politische Dezisionismus, in «Internationale Zeitschrift für Theorie des Rechts», 1935, IX, n. 2, pp. 101-123 –,  era stato poi tradotto in italiano da Delio Cantimori con il titolo Il concetto della politica di Carl Schmitt e il problema della decisione, in «Nuovi Studi di diritto, economia e politica», 1935, VIII, pp. 58-83 e tale saggio del Löwith  aveva  costituito anche la falsariga per un profonda critica dello storico romagnolo al pensiero di Carl Schmitt: Delio Cantimori, La politica di Carl Schmitt, in «Studi Germanici», 1, 1935. E come nella critica cantimoriana al pensiero di Carl Schmitt che prendeva le mosse dal saggio del  Löwith, anche nella Politica come destino di Salvatore Valitutti – e che è stata ripubblicata in data odierna con la prefazione di Teodoro Klitsche de la Grange: Salvatore Valitutti, La politica come destino, prefazione di Teodoro Klitsche de la Grange, Liberlibri, 2018 – la critica al pensiero di Schmitt prende le mosse da questo saggio del Löwith).

 

Veniamo quindi a citare dalla prefazione all’odierna edizione della Politica come destino, testo  negativamente influenzato dal sunnominato saggio di Karl Löwith, nel quale Carl Schmitt veniva accusato di “occasionalismo politico”, cioè, secondo l’accezione data a questa locuzione dallo stesso Schmitt in Politische Romantik, di essere un pensatore politico privo di un vero centro ideale e solo propenso alla polemica politica contingente, il giudizio riassuntivo che in Introduzione alla “Politica come destino”  Teodoro Klitsche de la Grange dà del saggio di Salvatore Valitutti. Dal punto di vista liberale si tratta indubbiamente di un giudizio equilibrato che non fa alcuno sconto a Valitutti ma siccome si tratta di un giudizio che parte pur sempre da una premessa ideologica, quella di un convinto liberalismo, si tratta sempre di un argomentare che soffre anch’esso come nel pensiero di Schmitt di una rimozione, della stessa rimozione che ha pervaso tutto il pensiero del giuspubblicista fascista e che nell’ Amleto o Ecuba ha trovato una delle sue più insidiose ma anche, allo stesso tempo, come vedremo, più felicemente euristicamente riuscite (ri)soluzioni.  Dice quindi La Grange del saggio di Valitutti citando dalla Politica come destino:

 

«“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, [è] la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è  amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausewitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”. Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un  pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale). Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista. Il secondo punto è il pessimismo antropologico. Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico, egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”. Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile). E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio). Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”. La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore. Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso.»

 

Da questa citazione vediamo che, effettivamente, Teodoro Klitsche de la Grange ha veramente chiaramente segnalato tutte le critiche che nella Politica come destino Valitutti fa a Carl Schmitt, e si tratta di critiche che, per quanto partano da una sostanziale antipatia ed avversione per il pensiero del “Kronjurist del Terzo Reich”, non possono essere liquidate su due piedi. Ma queste critiche, cioè il fatto che considerare – pur partendo da una giusta visione antropologica negativa accettata ed anzi giudicata positiva anche dal liberalismo – la politica mossa solo dal motore amico/nemico non ci consente di capire la fisiologia della politica stessa e, conseguentemente, che il bersaglio polemico di Schmitt, il liberalismo, in realtà non sia altro che un “fantoccio polemico” che ha le sembianze della tolleranza e dei principi universalistici dei diritti dell’uomo mentre, nella concretezza, il liberalismo è un preciso percorso storico nel quale il conflitto ha una grande parte (componente conflittuale del liberalismo che Schmitt tende a trascurare per sottolineare un oblio di sovranità che caratterizza questa forma politica), non trovano andando a leggere tutto il saggio di Valitutti alcuno sviluppo essendo intese unicamente a decostruire il pensiero di Schmitt e non certo, fissandone le contraddizioni ma anche le dialettiche illuminazioni, a proporne una sua evoluzione. E sotto questo punto di vista, non tanto l’avere rivelato, risottolineiamo per maggiore chiarezza, le incongruenze di Schmitt da parte di Valitutti, ma non avere accennato che queste incongruenze possono contenere il nucleo di un futuro sviluppo di questo pensiero (futuro sviluppo che Valitutti non ha proprio né cercato né voluto tutto propenso a far recitare al liberalismo tutte le parti in commedia; recita che si svolge nei seguenti termini: il liberalismo come regno, ça va sans dire, della libertà ma anche, altrettanto scontato, come il regno del conflitto: il problema che mentre nella vulgata comune del liberalismo questo conflitto viene liberamente combattuto fra soggetti della stessa potenza, nella realtà effettuale altro non si verifica che la libertà del più forte a colpire senza ritegno il più debole, con l’aggiunta che questo colpire non viene giudicato come un’azione strategica di guerra ma come il portato di ineluttabili leggi economiche che trovano la loro giustificazione, cornuto e mazziato il debole che deve subire, negli immortali principi universalistici che hanno come pietra angolare la libertà del singolo ad agire come meglio crede: in altri termini, che hanno come  fondamento il c.d. individualismo metodologico), costituisce una sorta di tabù o rimozione di Teodoro Klitsche de la Grange verso le contraddizioni del liberalismo (a questo affermazione La Grange ci potrebbe ribattere verso le contraddizioni del feticcio del liberalismo), una sorta di rimozione  che però, proprio come nello Schmitt di Amleto o Ecuba troverà alla fine felice sbocchi ed esiti.

 

Conclude quindi la Grange nella sua argomentazione in difesa di Valitutti: «In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt). In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.»

 

Siamo qui nell’ambito, come è di tutta evidenza, di una interpretazione  storicizzante  del pensiero di Valitutti, molto simile a quella compiuta dallo Schmitt nell’Amleto o Ecuba riguardo le ritrosie del bardo di Stratford-upon-Avon a rendere evidente nell’Amleto la colpa della regina Gertrude, interpretazione che se riesce forse a darci la dimensione di un presunto coraggio morale di Valitutti nello “trattare” lo Schmitt  mentre tutti lo evitavano perché fascista, non aiuta molto a comprendere quale sia il nodo di Schmitt che ancora non si è riusciti a sciogliere e che Valitutti, con tutte le molteplici  parti in commedia che ha deciso di far recitare al liberalismo nella Politica come destino, non è proprio riuscito a sciogliere.

 

Ma nonostante questa storicizzazione compiuta  su Valitutti (come abbiamo visto anche in Schmitt, quando un pensiero realista si lascia trascinare da facili spiegazioni contestuali avremo forse osservazioni anche fattualmente ineccepibili – ora critiche ora assolutorie od addirittura elogiative: Shakespeare non voleva inimicarsi i circoli politici facenti capo alla senescente regina Elisabetta; Valitutti ha mostrato grande coraggio morale ad occuparsi  di Schmitt – ma che non spostano di un millimetro il dipanarsi del problema teorico che ineludibile emerge: perché, nonostante il tabù della regina, la tragedia dell’Amleto ed il suo protagonista sono diventati dei miti?, perché nonostante tutti i suoi nodi irrisolti ed i suoi tabù teorici Carl Schmitt rimane imprescindibile per comprendere la politica e la società?), La Grange ha ben presente quale sia il problema che ci pone Schmitt quando nell’ambito dello stesso elogio a Valitutti ci sottolinea l’importanza delle «condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt)».

 

Se Schmitt pensava di aver trovato la più importante regolarità della politica nella coppia antitetica amico/nemico, ma non seppe andare, come abbiamo più volte altrove detto, oltre questa folgorante opposizione, e La Grange ha ben presente che questa regolarità che si fa beffe delle ipostasi ideologiche  democratiche e liberali è la vera struttura nascosta e portante anche delle moderne democrazie rappresentative e delle loro società  ma ben conscio del paradosso di Carl Schmitt, si ritrae non diciamo dall’aderirvi ma dall’indicarne un suo possibile sviluppo, in un certo senso anche Valitutti affronta direttamente il problema, rileva cioè il paradosso Carl Schmitt, è del tutto consapevole degli (apparentemente) inestricabili problemi che questo paradosso si trascina ma, piuttosto  come fa La Grange , tenere ben dritta la barra e mantenere ferma questa imprescindibile regolarità della politica, approfitta del paradosso per mettere addirittura in discussione uno dei capisaldi del pensiero realista (fra poco vedremo come questo caposaldo sia in realtà esso stesso un’ipostasi, o meglio un’approssimazione, ma questo è un passo successivo al paradosso di Carl Schmitt non una sua elusione)  entrando così però in contraddizione con la sua stessa versione “cattiva” del liberalismo, messa in atto dal Valitutti, e questo è il nostro personale processo alle intenzioni di cui ci assumiamo in pieno la responsabilità, messa in scena solo per essere più realisti del re Carl Schmitt e sminuirne, per difendere il liberalismo minacciato dal reazionario Schmitt, il pensiero.

 

Sempre analizzando impeccabilmente  La Grange La politica come destino abbiamo appena letto e riproponiamo sottolineando:

 

«Il secondo punto [di Carl Schmitt, ndr] è il pessimismo antropologico. Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”. Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt».

 

Vediamo quindi di dare a Valitutti quello che è di Valitutti. Valitutti, ci riferisce impeccabilmente La Grange, sa che il pessimismo antropologico è uno dei tratti distintivi (ma come vedremo subito: forse il meno “realista”) del realismo politico e giustamente inserisce Schmitt fra la schiera di questi pessimisti (fra l’altro un pessimismo antropologico quello di Schmitt rafforzato anche dalla sua sentitissima cultura cattolica controriformistica, aggiungiamo noi, un “piccolo” dettaglio questo delle radici cristiane non solo dell’odierno realismo ma anche dell’attuale Weltanschauung occidentale che svilupperemo fra poche battute). Valitutti, però, piuttosto che assumersi tutta la difficile problematicità del pessimismo antropologico schmittiano nel  quale giustamente individua la struttura portante della regolarità politica della polarizzazione amico/nemico così come rappresentata da Schmitt, approfitta delle contraddizioni interpretative che si porta dietro questa polarizzazione non tanto per mettere in dubbio il pessimismo antropologico tout court (il che sarebbe stata un’operazione importante, una rivoluzione, all’interno del realismo, e noi non chiediamo tanto) ma per screditare la coppia oppositiva amico/nemico di Schmitt e non contento di questo, per giustificare la sua sordità al magistero di Schmitt, ricorre ad una Weltanschauung impostata ad una francamente anacronistica crociana dialettica dei distinti: «[Schmitt] giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana».

 

Non è questa la sede per discutere quanto nel Secondo dopoguerra il crocianesimo nella sua componente più caduca e più lontana dal realismo politico (quella, in altre parole, della Storia d’Europa nel secolo decimo nono del 1932) abbia negativamente influenzato quella parte di intellettuali che si opponevano al comunismo da un punto di vista liberale e conservatore (e anche volentieri riconosciamo che la “religione della libertà”, dal titolo del primo capitolo della Storia d’Europa nel secolo decimonono, imperante il regime fascista fu un punto importante di riferimento per molti intellettuali per i quali il regime aveva cessato di essere una forza mitopoietica) ; occorre però, a questo punto, e anche a futura memoria, una presa di posizione dello scrivente sia riguardo ai distinti più o meno crociani che siano sia riguardo al pessimismo antropologico (due problematiche che dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico sono strettissimamente correlate) non solo del liberalismo ma anche del realismo politico.

 

Sul piano della teoresi filosofica, uno dei principali appunti che il Repubblicanesimo Geopolitico muove al liberalismo è la visione pessimistica di fondo sull’uomo (e ovviamente, sotto questo punto di vista anche al realismo politico, solo che nel caso del realismo il pessimismo svolge la nobile funzione di smascheramento dei meccanismi conflittuali della società mentre nel liberalismo non è altro che un grimaldello per inculcare nella cultura e nelle masse una visione della società e dell’uomo improntata all’individualismo metodologico, meccanicistica, non dialettica e che annienta totalmente una qualsiasi mentalità – non diciamo chiara consapevolezza teorica – improntata ad una Weltanschauung animata da una qualsivoglia filosofia della prassi), una visione pessimistica liberale in cui l’origine la possiamo ritrovare nell’etica cristiana che vede nel conflitto il male (un male necessario  per il cristianesimo, da purgarsi attraverso il battesimo e con la partecipazione alla vita della comunità ecclesiale che inducendoci o ad una vita virtuosa ma anche  prolifica per generare nuovi cristiani, e quindi a un comportamento ancora macchiato dal peccato ma a suo modo necessario, o  ad una vita casta e santa, ci distacca dal male della vita secolare caratterizzata dal peccato del conflitto – peccato del conflitto che nel lessico religioso prende il nome di ‘peccato originale’, che trova una suo primo antidoto attraverso il battesimo –  e ci prepara per la vita in paradiso; per il liberalismo molto più semplicemente la natura malvagia dell’uomo è la benzina che consente, facendo leva sugli egoismi privati, di far funzionare, per eterogenesi dei fini, la società: vedi, oltre alla mano invisibile di Adam Smith, Bernard de Mandeville e la sua Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits, La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù), mentre questo male per il Repubblicanesimo Geopolitico non è né un elemento ineluttabilmente legato al mondo ma che lo deturpa (o che lo fa “marciare” secondo l’individualismo metodologico liberale, ma lo fa “marciare” utilizzando i vizi privati, secondo Mandeville) né il rovescio della medaglia  di una supposta natura malvagia dell’uomo ma altro non  è  che la mal interpretata manifestazione dell’azione dialettica conflittuale-strategica, che è la categoria onto-epistemologica che ci permette di unire in un coerente monismo le disiecta membra fra cultura e natura (disiecta membra per  il cristianesimo,  il meccanicismo galileano ed il liberalismo, tutti questi “fratelli diversi”, molto diversi, ma uniti dallo stessa visione del conflitto come male inevitabile anche se necessario e dove la conoscenza ipostatizzata di  questo “male” del conflitto non viene utilizzata nell’ambito dello sviluppo di una visione dialettica della realtà  ma per costruire un mondo diviso in vari settori non comunicanti dove, in ultima analisi, la categoria più importante è la polarizzazione fra un “alto” ed un”basso”, cioè fra virtù e peccato, attraverso la quale, ovviamente, il dominio deve essere della virtù, comunque declinata a seconda della visione assiologia dei vari summenzionati fratelli: in un senso certamente non pensato dal filosofo dei distinti, Croce aveva veramente ragione quando affermava che “non possiamo non dirci “cristiani” ”, perché, anche questa forma del religioso cova in sé i germi dell’azione dialettica conflittuale-strategica, anche se, evidentemente, non dell’ epifania strategica).

La scienza politica, filosofica e filosofica politica deve quindi aprirsi ad una riconsiderazione sulla rivoluzione scientifica galileana, che non ha solo significato una potente  ribellione contro il dogmatismo medievale e contro gli aspetti più superstiziosi della religione ma anche, se non soprattutto,  in ultima analisi  la trasposizione su un piano scientifico-meccanicistico della visione cristiana (immutabili leggi della natura comprensibili solo attraverso la matematica con la stessa morfologia delle leggi morali comprensibili solo attraverso gli indiscutibili ed eterni dettami contro il peccato il cui monopolio interpretativo è detenuto dalla Chiesa) che ha creato il  concetto di peccato  così come è stato vissuto dalla civiltà occidentale e che, in ultima analisi, non è che la separazione fra il mondo umano malvagio ma condotto dalla divinità ad una salvezza eterna ed il mondo della natura, peccaminoso per definizione, destinato ad una sempiterna  corruzione e alla definitiva cataclismatica distruzione con la fine del mondo ad opera della divinità stessa.

Non essendo pessimista ma dialettico, il Repubblicanesimo Geopolitico è intimamente rivoluzionario e non perché creda, come le ingenue dottrine rivoluzionarie del passato nella bontà dell’uomo (curioso sarebbe credervi visto che non crede alla sua cattiveria; e sotto sotto il marxismo, considerato dal punta di vista della sua visione antropologica, crede operando una vera e propria inversione, ma tutt’altro che dialettica, del pessimismo antropologico cristiano,  in una naturale bontà dell’uomo, solo che il diavolo è stato sostituito dal capitalista mentre la comunità dei santi è stata soppiantata dal proletariato) ma per il semplice fatto che la sua impostazione dialettica rifiuta qualsiasi legalità ossificata e considera lo status quo non come la realizzazione ad aeternum del piano di una provvidenza divina o storica ma semplicemente come la manifestazione dialettica di una totalità che solo nel suo sviluppo conflittuale-dialettico del rapporto del soggetto con l’oggetto (e nell’interscambiabilità, a livello di prassi storica e naturalistica, di questi due momenti, interscambiabilità che qualora trovi un suo cosciente autoriconoscimento di massa, viene definita dal Repubblicanesimo Geopolitico ‘epifania strategica’: epifania strategica che, in un certo senso, altro non è la traduzione realistica ed immanentizzazione della figura nascostamente soteriologica e di pretta ispirazione cristiana del proletariato, visto, prima da Marx e poi anche dalla stragrande maggioranza di coloro che da lui presero ispirazione ignorando la genealogia profonda della sua dottrina, come quel protagonista sociale di massa che avrebbe potuto condurre alla fuoruscita dal capitalismo, giudicato da costoro come il male, come il cristiano giudicava – e giudica – come male la concupiscenza) trova la sua stessa possibilità di esistere e manifestarsi.

Quello che abbiamo appena espresso altro non è, sotto il nostro punto di vista, sotto il duplice aspetto del ragionamento storico-genealogico che più prettamente teoretico dal punto di vista filosofico, la risoluzione di quello che noi abbiamo definito il paradosso Carl Schmitt, paradosso che segnala che la categoria amico/nemico se eccezionale per anatomizzare la vita politica e sociale non si dimostra altrettanto valida per comprenderne la fisiologia e la nostra soluzione del paradosso e che la coppia oppositiva amico/nemico altro non è che una declinazione, molto appariscente e molto importante ma solo una delle tante, dell’azione morfogenetica e dialettica, non solo sulla società e sulla politica ma di tutta la realtà, sia quella culturale che quella fisico-naturale, dell’azione-conflitto strategico. Ovviamente, sarebbe del tutto insensato imputare a Valitutti, come a qualsiasi altro, di non avere sviluppato per contro proprio quello che noi riteniamo la soluzione del paradosso Carl Schmitt (insensato oltre che per il semplice fatto che quello che per una mente appare non diciamo di facile soluzione ma, mettiamola così, “naturale” conseguenza di una serie di dati di fatto, per un’altra è cosa assolutamente assurda e oscura ma anche considerando tutti i pensatori realisti del passato che non giunsero mai ad una proposta ontologica e filosofica che superasse il problema del male nel senso da noi indicato) mentre, riteniamo, non è affatto insensato dal nostro punto di vista imputare a Valitutti una certa qual furberia intellettuale e aver approfittato del paradosso Carl Schmitt per screditarne tutto il pensiero. Su questo punto noi e il La Grange dissentiamo (concediamo magari a Valitutti il coraggio personale di aver “trattato” in un periodo storico in cui la sola accusa di essere fascisti o filofascisti poteva costare la carriera, se non qualcosa di molto peggio, ma non gli concediamo alcun coraggio intellettuale, troppa era la sua foga di voler difendere il liberalismo da un pensatore che egli, evidentemente, riteneva autoritario e molto affine come mentalità a coloro che indubbiamente sfidava trattando uno scomodo pensatore di destra), mentre, come più volte ribadito, a lui ci sentiamo del tutto vicini nell’aver compreso – e detto in ogni occasione a chiare lettere – che l’attuale narrazione liberale e democratica basata a livello ideologico sulla metafisica ipostatizzazione dei diritti umani e politici di derivazione illuminista non sta più letteralmente in piedi. E di questa consapevolezza possiamo per rendercene conto anche da quest’ultima recensione cumulativa.

«Nel discorso di Antigone è, di conseguenza, invertito il rapporto tra politica e diritto: per cui quella non domina questo, ma piuttosto vi è sottomessa; onde non vale il ricordato detto salus rei publicae suprema lex, ma piuttosto il fiat justitia, pereat mundus in cui la justitia è ciò che appare tale al cittadino. Anche in ciò la “modernità” di Creonte, rispetto ad Antigone è evidente: mentre la sua scelta ha carattere pubblico, perché, come sostiene Freund, il pubblico è in primo luogo, affermazione dell’unità, la seconda porta ad una scelta e ad un esito dissolutorio, essenzialmente riconducibile al  privato. […] La depolitizzazione, è anche, e in primo luogo, una privatizzazione: mentre gli “espropriati” non rappresentano che se stessi essendo (ridotti a) privati, chi esercita il potere pubblico rappresenta (e garantisce) l’unità politica. La modernità della posizione di Creonte quindi consegue alla capacità di assicurare l’unità e l’ordine politico-sociale. A cui è essenziale l’esercizio del comando: rapporto umano tra uomo ed uomo, l’uno che comanda, l’altro che obbedisce. Tutte considerazioni che sarebbero emerse e formulate, in modo chiaro e distinto, da Thomas Hobbes. […] Nello stesso tempo potere, comando, obbedienza, (coazione) sono rapporti tra uomo ed uomo e non tra uomo e norma, né tra uomo e divinità. Per far punire Creonte infatti Sofocle fa intervenire (anche se non in forma di personaggio teatrale) il potere soprannaturale: a un potere umano assoluto si può opporre solo un potere ancor più forte, che però non può essere umano. Ovviamente essendo l’intervento soprannaturale escluso in una visione moderna e quindi secolarizzata della politica e dello Stato, la sola “visione” proponibile è quella di Creonte.[…] In un certo senso [la posizione di Antigone, ndr] non è neppure assimilabile ad una visione cristiana. Se il cristianesimo riconosce una legge divina, ha tuttavia conferito carattere d’istituzione divina anche all’autorità umana, mentre connotati della posizione di Antigone sono l’istituzione divina della legge, ma il carattere totalmente umano dell’autorità e, accanto, la riserva della decisione alla persona. Nella teologia cristiana, di converso, è considerata istituzione divina anche l’autorità umana, come consegue sia dal notissimo passo dell’ “Epistola ai romani” di S. Paolo (13,1) sia dalle note frasi del Vangelo  per cui giuristi come Hauriou e Carré de Malberg hanno distinto tra dottrina del diritto divino soprannaturale e del diritto divino provvidenziale sostanzialmente riprendendo le tesi principali sul punto della teologia politica cristiana moderna. Ciò ha fatto si che l’appello alla legge divina, in una società cristiana, non sia un fatto di giudizio personale, ma circondato di condizioni e requisiti. La trattazione del tirannicidio e della seditio ne è un esempio: quasi tutti i teologi sia cattolici che protestanti legittimano l’uno e/o l’altro se vi sia una volontà pubblica prevalente orientata a detronizzare il tiranno, perché tota respublica superior est rege, il tutto peraltro a certe condizioni, differenti se il tiranno è tale absque titulo o quo ad regimen; e, ciò che costituisce la differenza essenziale, la “contestazione” dell’autorità è sempre fatta in funzione e in vista di un’autorità diversa, in un contesto cioè istituzionale; e avente carattere pubblico piuttosto che di rivendicazioni/istanze private, come, in larga misura, appaiono quelle di Antigone. Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.»

 

Nelle Ragioni di Creonte di cui abbiamo appena riportato un’ampia citazione è proprio evidente con cristallina chiarezza che il La Grange non ha nessuna intenzione di cedere alla sirene ideologiche universalistiche (e favolistiche) del pensiero liberaldemocratico, talché non solo il brano riportato ma  tutte Le ragioni di Creonte possono essere riassunte dalla citazione ciceroniana molto opportunamente inserita nel testo salus rei publicae suprema lex. E con questa tanti saluti (si fa per dire, ma nemmeno più di tanto) del La Grange non solo dal punto di vista teorico alle suddette fantasticherie tutte incentrate sull’individualismo metodologico ma, assai più concretamente dal punto di vista della professione di La Grange, che ricordiamo è avvocato, giurista e giuspubblicista, anche all’idolatria messa in atto in Italia come all’estero nel perimetro delle c.d. democrazie rappresentative verso le costituzioni scritte, le quali sono tutte, taluna di più talaltra di meno, conformate ai principi politici universalistici di derivazione illuminista e all’individualismo metodologico liberale (a proposito della commiserazione del Nostro per l’ideologia costituzionale, La Grange alla nota 20 di  Machiavelli citando Louis De Bonald scrive:

«Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale scrisse, in polemica con un libro di M.me de Staël che “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione… proprio perché la Francia aveva una costituzione ed una costituzione solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, anche quando questi erano dei deboli, sempre invidiata mai scalfita; spesso turbata mai piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più imprevedibili con i mezzi più insospettati, e non potendo perdersi che per una mancanza di fiducia nella propria fortuna” ed aggiunge “Una costituzione completa e ben congegnata non è quella che si arresta davanti ad ogni difficoltà, che le passioni umane e la varietà degli eventi possono far nascere, ma quella che prevede il mezzo di risolverli quando questi si presentano: come il fisico robusto non è quello che impedisce e previene le malattie, ma quello che da la forza di resistervi, e di ripararne prontamente i danni” v. Louis de Bonald, Observation ur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 35-36.»).

 

Ma rafforzati anche da quest’ultima illuminazione di La Grange che attraverso la spassosa metafora debonaldiana del vecchietto che magari perché ignaro dei sacri principi della medicina e della biologia non dovrebbe essere nemmeno vivo (e quindi l’odierna Inghilterra siccome non possiede una costituzione scritta portando alle estreme conseguenze i deliri ideologici dell’odierna vulgata costituzionalista dovrebbe apparire, tuttalpiù, come  una informe serie di villaggi perennemente in guerra fra loro e dominati al loro interno come nei rapporti fra  loro dalla hobbessiana legge dell’ homo homini lupus), torniamo alla nostra precedente citazione presa dalle Ragioni di Creonte e riproponiamo all’attenzione la chiusura di questa:

 

«Ciò ha fatto si che l’appello alla legge divina, in una società cristiana, non sia un fatto di giudizio personale, ma circondato di condizioni e requisiti. La trattazione del tirannicidio e della seditio ne è un esempio: quasi tutti i teologi sia cattolici che protestanti legittimano l’uno e/o l’altro se vi sia una volontà pubblica prevalente orientata a detronizzare il tiranno, perché tota respublica superior est rege, il tutto peraltro a certe condizioni, differenti se il tiranno è tale absque titulo o quo ad regimen; e, ciò che costituisce la differenza essenziale, la “contestazione” dell’autorità è sempre fatta in funzione e in vista di un’autorità diversa, in un contesto cioè istituzionale; e avente carattere pubblico piuttosto che di rivendicazioni/istanze private, come, in larga misura, appaiono quelle di Antigone. Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.»

 

Interessantissimi (tutti) gli spunti che possiamo cogliere in queste parole ed alcuni veramente rivoluzionari ed iconoclasti (iconoclasti ovviamente rispetto alle idiozie che ci vengono di solito propalate del discorso politico, politologico e/o filosofico politico e non certo verso gli autentici valori della tradizione cristiana-occidentale di cui Teodoro Klitsche de la Grange, come Carl Schmitt del resto, è profondo conoscitore ed ardente estimatore). Analizziamo i principali partitamente. Innanzitutto che la tradizione cristiana ammette la detronizzazione del tiranno (e noi aggiungiamo anche il tirannicidio, ma la Grange proprio per una sua personale avversione alle soluzioni violente  non lo dice e ci permettiamo di dirlo noi) qualora il tiranno non sia stato legittimato da un superiore contesto istituzionale o da una superiore legge morale che, però, a differenza dell’attuale ideologia dirittoumanistica, non deve essere una legge superiore che garantisce gli ipostatici ed individualistici  diritti umani e/o politici (sempre individualisticamente intesi) ma una legge superiore che in un consolidato  contesto dal punto di vista tradizionale ed autoritativo garantisce la vita ordinata della comunità. È chiaro che qui come Stimmung siamo dalle parti di un certo Carl Schmitt e del suo konkrete Ordnungsdenken. Ma il punto veramente potenzialmente rivoluzionario (ed intrinsecamente dialettico per le conseguenze che ne derivano) è dove La Grange afferma: «Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.» Dal nostro punto di vista, il momento rivoluzionario non sta tanto nel fatto che qui l’eroe diventa Creonte piuttosto che Antigone, portatore quest’ultimo, in ultima analisi, di istanze unicamente personalistiche, se fosse solo per questo saremmo qui in presenza solo di un giudizio iconoclasta rispetto alla consolidata vulgata che afferma il contrario, quello che è veramente rivoluzionario, sia rispetto alla tradizione cristiana e contemporaneamente rispetto alla tradizione giusnaturalistica diritto umanistica, è che il Salus rei publicae suprema lex esto (motto, ricordiamo così tangenzialmente, posto anche nello stemma dell’esercito italiano) viene sottratto sia da qualsiasi ipotesi giustificatoria dirittoumanistica ma  anche da una dimensione, almeno così come astrattamente intesa da Antigone, divina, così che il risultato è che, apparentemente, questa salvezza o salute della comunità e/o delle istituzioni che la governano rischia di rimanere appesa nel vuoto ed il concreto Creonte (concreto e positivo per La Grange, come anche per noi) rischia di navigare in un vuoto etico e morale e diventare, nonostante le sue migliori intenzioni, proprio un tiranno (cosa che La Grange proprio non pensa che sia come non lo pensiamo noi). E allora? E allora noi, dal nostro punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, in ossequio all’ideale limite operativo dell’epifania strategica, nonché conseguenti (almeno su questo speriamo di essere giudicati coerenti)  proponiamo in via euristica la (non piccola) modifica del motto ciceroniano  salus rei publicae suprema lex in salus belli suprema lex (sperando, con ciò, ovviamente, di non far credere che  si voglia la guerra civile o che si sia nostalgici dei guerrafondai di cartone o che   ci si senta nietzscheanamente   investiti di qualche superomistico compito storico: molto più semplicemente si spera di essere compresi nel nostro considerarci modesti eredi di una filosofia della prassi i cui eroi abbiamo qui già citato ed anche nei nostri precedenti lavori…).

 

Che la salute (o la salvezza) del conflitto  (detto ancor più chiaramente e con il nostro lessico: dell’azione-conflitto dialettico-strategico,  generatore non solo della società ma anche del mondo fisico naturale e che viene  dal Repubblicanesimo Geopolitico definito ‘epifania strategica’ qualora venga riconosciuto ed apprezzato positivamente attraverso il suo (auto)riconoscimento di massa e giungendo così alla sua piena entelechia     – una epifania strategica così intesa che ha molto a che spartire con la monolitica e primigenia – ma non totalitaria! – concezione schmittiana della sovranità e con l’idea gramsciana di egemonia: per questo raffronto – e profonda analogia –  fra il concetto schmittiano di sovranità e il concetto gramsciano di egemonia cfr.: Andreas Kalivas, Hegemonic sovereignty: Carl Schmitt, Antonio Gramsci and the constituent prince, “Journal of Political Ideologies” (2000), 5(3), pp.343-376; URL https://www.scribd.com/document/36412380/Kalyvas-Andreas-2000-Hegemonic-Sovereignty-Carl-Schmitt-Antonio-Gramsci-and-the-Constituent-Prince ; WebCite: http://www.webcitation.org/71QHstIbT e

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.scribd.com%2Fdocument%2F36412380%2FKalyvas-Andreas-2000-Hegemonic-Sovereignty-Carl-Schmitt-Antonio-Gramsci-and-the-Constituent-Prince&date=2018-08-04. File caricato anche su InternetArchive agli URL:  https://archive.org/details/HegemonicSovereigntyCarlSchmittAntonioGramsciAndTheConstituentPrince e

https://ia601501.us.archive.org/22/items/HegemonicSovereigntyCarlSchmittAntonioGramsciAndTheConstituentPrince/36412380-Kalyvas-Andreas-2000-Hegemonic-Sovereignty-Carl-Schmi.pdf) sia il più o meno riconosciuto orizzonte limite di La Grange c’è fortemente da dubitare,  vista sia la sua salda appartenenza ad una sorta di liberalismo “forte”, indubbiamente quello stesso liberalismo “forte” impregnato di pensiero realista, cui lo stesso Valitutti faceva riferimento in polemica con Schmitt ma che in Valitutti trovava ben misera espressione mentre in La Grange l’innesto è assai più vigoroso e del tutto consapevole ed ammesso (Valitutti non amava Schmitt mentre per La Grange il pensatore di Plettenberg è un faro guida; in Valitutti il respingimento di Carl Schmitt da luogo in La politica come destino a mediocri banalità; in tutta la produzione di La Grange il pensiero di Carl Schmitt da luogo a meravigliose contraddizioni e punti di crisi che sono per noi fondamentali per cercare di spingere oltre il pensiero di Carl Schmitt); ed è da dubitare, anzi siamo del tutto sicuri, visto che la sua vicenda culturale e umana è conclusa da tempo, che l’ ‘epifania strategica’ fosse l’obiettivo limite di Carl Schmitt. Ma come assisteremo nel gioco di rispecchiamento finale con Amleto o Ecuba, vedremo che l’epifania strategica costituisce veramente il “tabù della regina” del pensiero schmittiano. Non tanto quindi per attribuire ad altri pensieri e propensioni che sono solo nostre ma per confermare l’estrema densità del pensiero realista di La Grange, riteniamo che la seguente citazione da Note su Costituzione e interpretazione costituzionale, 2° parte, intervento di La Grange anch’esso incluso in  quest’ultima recensione cumulativa, sia una delle più significative per delineare un pensiero intrinsecamente dialettico connotato da un incipiente manifestarsi di una consapevolezza dissolvente vecchi ed ossificati “distinti”: ragione vs autorità (e implicitamente forza-violenza vs astratta razionalità), e quindi intimamente strategica e così veramente rivoluzionaria nella sua forza di rinnovamento delle “categorie del realismo”:

 

«Avendo sostenuto Baldassarre “che l’antica massima hobbesiana –vero manifesto del positivismo giuridico in tutte le sue forme – auctoritas, non veritas, facit legem sia ormai inattuale. Se ne  deve concludere che nello stato costituzionale di diritto “ratio, non auctoritas, facit legem”. Una tale tesi non è condivisa da Guastini: “La tesi che il diritto nasca non dall’autorità, ma dalla “verità” o dalla “ragione” (così sostiene Baldassarre), significa che le norme giuridiche sono il prodotto non di atti di volontà, bensì di atti di conoscenza: di conoscenza, dobbiamo supporre, non della (eterna) “natura” umana, bensì dei “costumi” e della “coscienza sociale”. E ciò implica che le norme giuridiche – proprio come le proposizioni scientifiche – possono dirsi vere o false. Tesi classica dei giusnaturalisti, d’altronde, i quali disgraziatamente non hanno mai saputo indicare a noi, poveri giuspositivisti, quali mai possono essere i criteri di verità degli enunciati del discorso prescrittivo […]”. Tuttavia sia che si tratti d’interpretare norme, sia di applicare principi (e/o valori) le due posizioni si riferiscono entrambe al diritto statuito (e scritto) tralasciando così tutto ciò che non è scritto né statuito. Quanto all’altra questione – che più interessa ai fini del presente scritto – se il diritto nasca dall’autorità o dalla ragione (verità), occorre appena ricordare che un simile dilemma (se la legge sia atto della volontà e dell’intelletto) era stato largamente dibattuto dai teologi e la soluzione che dava Suarez non era un “aut…aut” ma un “et…et”, nel senso che la legge era atto sia d’intelletto che di volontà. La legge positiva è sia  ratio che voluntas; che sia la seconda è evidente; e che presupponga (e incorpori) anche la ratio (quasi altrettanto) evidente, giacché una legge bizzarra e/o superflua non è suscettibile di esecuzione e coazione, diventando così una bizzarria normativa, non potendo essere un comando eseguibile. Se, come sostiene chi scrive, la costituzione non è (solo) un atto, e spesso neanche scritto, resta da vedere come si possa interpretare/applicare ciò che non è né scritto né statuito.»

 

La Grange mostra di non credere nell’hobbessiano auctoritas non veritas facit legem (Leviatano, 1651, parte 2°, cap. 26°)  ma non crede neppure nella meccanica inversione del detto hobbessiano nel “ratio, non auctoritas, facit legem” – per quanto anche dalla precedente cumulativa abbiamo visto che La Grange propende per il pensiero istituzionalista, il suo istituzionalismo non significa certo un arretramento, come nello Schmitt, verso un’ involuzione dell’impostazione decisionista manifestatasi nel giuspubblicista di Plettenberg nell’ Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens cit. , ma, molto saggiamente, il radicale ed intransigente rifiuto del positivismo giuridico di stampo normativista alla Kelsen e delle sue successive ed inevitabili ulteriori volgarizzazioni ideologiche così come praticate da tutti i ceti semicolti (di sinistra ma anche di destra, nessuno escluso). E allora?

 

E allora forse, forse un “tabù della regina”, forse un nano gobbo nascosto sotto la scacchiera, forse una verità così elementare che nella sua bellezza e dialetticità è sempre stata conosciuta ma mai esplicitamente (auto)riconosciuta, potremmo forse affermare che la profonda verità nascosta nei testi del La Grange e di tutti i grandi realisti, Schmitt in primo luogo, è bellum, non veritas, facit legem, et facit societatem, et facit naturam, et facit veritatem?

 

«Eppure, è necessario distinguere e separare il Trauerspiel dalla tragedia, perché non vada perduta la specifica qualità del tragico e non scompaia, data la nozione di gioco implicita in Trauerspiel, la serietà della vera azione tragica. Esiste oggi un’importante filosofia, e perfino una teologia, del gioco. Ma c’è stata anche un’autentica forma di religiosità, che ha concepito se stessa, e l’esistenza mondana nella sua dipendenza da Dio, come un «gioco di Dio», secondo quanto si afferma nel canto della Chiesa evangelica: «in Lui tutte le cose hanno il loro fondamento ed il loro fine,/ed anche tutto ciò che l’uomo compie è un grande gioco di Dio.» Lutero, seguendo i cabalisti, ha parlato del gioco che tutti i giorni, per alcune ore, Dio gioca con il Leviatano. Un teologo luterano, Karl Kindt, ha spiegato il dramma di Shakespeare come «un’opera wittemberghese» ed ha fatto di Amleto un «attore di Dio». Teologi di entrambe le confessioni citano i versetti 30-31 del capitolo VIII dei Proverbi di Salomone, che nella traduzione di Lutero suonano: «quando gettava le fondamenta di tutte le cose, io ero presso di Lui come architetto, e mi compiacevo giorno per giorno, e giocavo (spielte) di continuo in Sua presenza; e giocavo (spielte) sul globo della terra. Nella Vulgata si dice: «ludens in orbe terrarum». Non è questa la sede per interpretare questo oscuro passo biblico, né per trattare il rapporto della liturgia ecclesiastica e del Suo sacrificio con un concetto tanto profondo di gioco. L’opera di Shakespeare, in ogni caso, non ha nulla a che fare con la liturgia della Chiesa: essa non ha né rapporti con la Chiesa né, al contrario del teatro francese classico, si situa nello spazio delimitato dalla sovranità dello Stato. L’idea che Dio giochi con noi può esaltarci in una teodicea ottimistica tanto quanto sprofondarci nell’abisso di una disperata ironia o di un agnosticismo privo di certezze. Lasciamo quindi da parte questo versante del problema. Del resto, proprio il termine tedesco Spiel presenta un’infinità di aspetti e rivela la possibilità di accezioni anche antitetiche. Un uomo che – seguendo le note di uno spartito, manoscritto o stampato – tocchi col suo archetto il violino, soffi nel flauto o batta sul tamburo, definisce tutto ciò che, seguendo le sue note, viene così facendo, in un modo solo: «suonare» (spielen). Chi colpisce un pallone secondo regole determinate afferma di  «giocare» (e parimenti usa il verbo spielen). Piccoli fanciulli e vivaci gattini «giocano» in modo particolarmente intenso, e lo stimolo a giocare deriva loro dal fatto che non giocano secondo regole rigide, ma in tutta libertà. Così – dalle opere dell’Altissimo, onnisciente e onnipotente, fino agli impulsi delle creature irrazionali – tutto l’ambito del possibile, incluse anche tutte le possibili contraddizioni, viene ricondotto al concetto di Spiel. Rispetto a tale soluzione indeterminata, restiamo dell’opinione che – almeno per quanto riguarda noi miseri mortali – nel gioco c’è la  negazione del caso serio. Il tragico cessa là dove comincia il gioco, anche se questo è un gioco che porta al pianto, anche se è un gioco triste per spettatori tristi, anche se è un Trauerspiel profondamente coinvolgente. Non è assolutamente possibile trascurare, almeno per quanto riguarda il Trauerspiel shakespeariano, che il tragico è per sua essenza non «giocabile»; in Skakespeare, invece, perfino nelle sue cosiddette tragedie, viene alla luce, appunto, un carattere di gioco.» (Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., pp. 79-82).

 

Se già dalle prime parole dell’Amleto o Ecuba Carl Schmitt aveva sciolto in maniera alquanto semplicistica il tabù della regina affermando che nel dramma shakespeariano il problema della colpevolezza o correità della regina nell’assassinio del marito viene, in sostanza, eluso e rimosso in ragione dell’inopportunità politica di rappresentare l’assassinio del marito per via delle allusioni che avrebbero potuto investire la figura di Maria Stuarda e  conferendo quindi all’Amleto, attraverso un inquadramento così poco eroico e da mestierante teatrale all’autore del dramma, una dimensione assai poco poetica e molto prosaica, nel passo appena citato siamo trasportati in tutt’altra dimensione, una dimensione dove è fondamentale Il dramma barocco tedesco di Walter Benjamin (Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin, Ernst Rowohlt Verlag, 1928; trad. it. Il dramma barocco tedesco, Torino, Einuadi, 1971), nel quale Benjamin traccia una netta demarcazione fra tragedia classica, che implicava la credenza nel mito e in un mondo di valori basati su una realtà oltreumana (tanto per fare un esempio attinente a questa rassegna critica, Antigone è il tipico esempio di tragedia classica basata nella credenza di valori eterni la cui tutela  va ben oltre la pur necessaria, ma subordinata, salvezza dello Stato) e il dramma moderno, che è caratterizzato da un’agire dei personaggi  che hanno perso un qualsiasi rapporto con la trascendenza e in cui il gioco, anche se luttuoso (Trauerspiel, traducibile oltre che come ‘dramma’ anche come ‘gioco luttuoso’), cioè lo scontro e gli intrighi dei protagonisti, non ha alcun punto d’appoggio esterno che lo possa giustificare se non il raggiungimento degli obiettivi posti, unico fine e giustificazione vera dell’azione stessa. Da ciò, cioè dalla perdita della dimensione mitica del rapporto col mondo extraumano, deriva, secondo Benjamin, che la tragedia classica trova la sua dimensione espressivo-culturale nel simbolo mentre il dramma moderno, il ‘gioco luttuoso’ del Trauerspiel ( o nella traduzione italiana, il ‘dramma barocco’, traduzione giustificata dal fatto che il Dramma barocco tedesco riguarda espressamente l’estetica del periodo barocco) nell’allegoria. Leggiamo dal prima parte del capitolo “Allegoria e dramma barocco” del Dramma barocco tedesco:

 

«In questo movimento eccentrico e dialettico l’interiorità senza  opposizioni del classicismo non gioca alcun ruolo perché i problemi attuali del Barocco in quanto dimensione politico-religiosa non riguardavano tanto l’individuo e la sua etica, quanto la sua appartenenza alla comunità ecclesiale. Contemporaneamente al concetto profano di simbolo, proprio del classicismo, viene formandosi il suo pendant speculativo, quello dell’allegoria. È vero che una dottrina vera e propria dell’allegoria non vide la luce allora, né mai era esistita in precedenza. Definire  «speculativo» il nuovo concetto di allegoria è nondimeno giustificato, poiché esso si propone in effetti come lo sfondo oscuro sul quale si doveva staccare il mondo luminoso del simbolo. Alla pari di molte altre forme espressive, l’allegoria non perde il suo significato per il semplice di  «invecchiare». Piuttosto, anche qui come in molti altri casi entra in gioco un antagonismo tra il significato più antico e il più recente, un antagonismo tanto più incline a risolversi  nel silenzio in quanto privo di concetti, profondo e radicale. […]  Mentre  nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità, si manifesta fugacemente il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, l’allegoria mostra agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito passaggio originario. La storia in tutto ciò che essa ha  fin dall’inizio di immaturo, di sofferente, di mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto.  E se è vero che ad esso manca ogni libertà  «simbolica» dell’espressione, ogni armonia classica della figura, ogni umanità, in questa figura – che è fra le tutte la più degradata – si esprime significativamente sotto forma di enigma, non solo la natura dell’esistenza umana in generale, ma la storicità biografica di una singola esistenza. È questo il nucleo della visione allegorica, della esposizione barocca, profana della storia come via crucis mondana: essa ha significato solo nelle stazioni del suo decadere. Tanto è il significato quanto è l’abbandono alla morte, perché è proprio la morte a scavare più profondamente la linea di demarcazione tra physis e significato. Ma se la natura è da sempre esposta alla morte, allora essa è allegorica da sempre. Il significato e la morte maturano nello sviluppo della storia, così come sono contenuti in germe, l’uno nell’altro, nello stato peccaminoso e senza grazia della creatura.» (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einuadi, 1999, pp. 135-141).

 

Se andiamo bene a leggere l’ultima citazione dell’Amleto o Ecuba, vediamo che centrale in quest’opera dello Schmitt non è tanto giustificare in maniera banale il “tabù della regina” ma esprimere, anche se in maniera forse non del tutto consapevole e forse proprio ostacolato dal suo peculiare  “tabù della regina”, la natura giocosa (anche se si tratta di un gioco luttuoso) dello spirito dell’Amleto, una riflessione quella di Schmitt quindi di carattere prettamente estetico che sembrerebbe alquanto lontana dagli interessi di un giuspubblicista come Carl Schmitt, mentre di spirito prettamente realista, anche se di un livello molto basso, è la tesi che apparentemente sostiene l’Amleto o Ecuba di un Shakespeare che non ha trovato nulla di meglio per ragioni di opportunità politica di far agire Amleto in maniera incoerente risparmiando la madre del principe di Danimarca dalla sua vendetta. Ma proprio questo è il punto: il punto è cioè che nell’Amleto o Ecuba convivono due tabù, il primo quello denunciato espressamente nel saggio mentre il secondo ci viene proprio rivelato dalle appena citate considerazioni in merito a Shakespeare e al suo dramma luttuoso, che sono anche considerazioni di tipo estetico ma che, in nuce, nascondono il vero interesse, forse nemmeno del tutto chiaro al giuspubblicista di Plettenberg, che Schmitt ha per l’Amleto, cioè che  il  dramma “giocoso” shakespeariano possa essere una sorta di schema speculare – o addirittura forse antecedente – alla fondamentale categoria del politico dell’amico/nemico, uno schema speculare o antecedente che dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico chiamiamo azione dialettica conflittuale-strategica (o azione-conflitto dialettico-strategico)  e una evoluzione teorica della sua categoria dell’amico/nemico che Schmitt non ebbe mai il coraggio di elaborare fino in fondo.

 

Ed è fondamentale sottolineare che nella formulazione nell’Amleto o Ecuba di questa possibile consapevolezza aurorale   della primigenia categoria del politico dell’azione-conflitto dialettico-strategico  – nonché anche della profonda avversione e disgusto verso questo baluginare di nuova consapevolezza teorica –  un ruolo fondamentale abbia giocato il Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin, forse percependo Schmitt  questa  potenziale evoluzione teorica della categoria amico/nemico profondamente influenzato dalla portata non solo luttuosa ma anche necròfora della concezione benjaminiana dell’allegoria legata indissolubilmente al dramma moderno, alla sua dimensione di gioco – noi diciamo: alla sua dimensione di azione strategica – , legata, in definitiva, all’assenza di una qualsiasi possibilità di salvezza, prospettiva che doveva profondamente ripugnare al cattolico controriformista Carl Schmitt?; addirittura, l’ultimo capitolo dell’Amleto o Ecuba, “l’Excursus II”, reca come sottotitolo “Sul carattere barbarico del dramma Shakesperiano. A proposito del “Dramma barocco tedesco” di Walter Benjamin” e nell’Excursus II, accanto alle tematiche geopolitico-filosofiche che hanno caratterizzato l’ultima parte della produzione dello Schmitt – e della quale il Nomos della terra è una sorta di summa – e colleganti la novità del dramma luttuoso shakespeariano  al passaggio dell’Inghilterra da vecchio nomos della terra ad una concezione della spazialità e della sovranità tipica di una potenza marittima –   «Il dramma shakespeariano rientra nella prima fase della rivoluzione inglese, se questa la facciamo cominciare –  come è possibile e sensato – dalla distruzione dell’Armada nel 1588 e terminare con la cacciata degli Stuart  nel 1688. Durante questi cento anni sul continente europeo si sviluppa, dalla neutralizzazione delle guerre civili di religione, un nuovo ordine politico, lo Stato sovrano, un imperium rationis come lo chiama Hobbes, ovvero, come afferma Hegel, un regno – non più teologico – della ragione oggettiva, la cui ratio pone fine all’epoca degli eroi, al diritto eroico, alla tragedia eroica (Hegel, Filosofia del diritto,  §§ 93 e 218).»: Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit, pp. 112-113 (2) –, vediamo anche espressamente riconosciuta l’importanza per Carl Schmitt dal punto di vista filosofico-politico di  Walter Benjanin e del suo  Dramma barocco tedesco:  «Walter Benjamin tratta la differenza fra Trauerspiel e tragedia (Il dramma barocco tedesco, trad. it., Torino, Einuadi, 1971, pp. 42-165) e parla, giusta il titolo del suo libro, soprattutto del dramma barocco tedesco. Ma l’opera è ricca di importanti osservazioni e di acuti giudizi, sia sulla storia dell’arte e sulla storia delle idee in generale, sia anche sul dramma shakespeariano ed in particolare su Amleto. Particolarmente feconda mi sembra la caratterizzazione di Shakespeare nel capitolo Allegoria e dramma barocco, dove si dimostra che l’allegoria in Shakespeare è essenziale quanto l’elementare. «Qualunque espressione elementare della Creatura diventa significativa [in Shakespeare] attraverso la sua esistenza allegorica e tutto quello che è allegorico acquista energia attraverso  l’elementarità del mondo dei sensi» (p. 249) Di Amleto si dice che  «nella chiusura di questo dramma [Trauerspiel] balena, in esso incluso e, certo, anche in esso superato, il dramma del destino» (p. 140)».: Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., pp. 109-110).

 

«Perché a questo attore scorrono/le lacrime dagli occhi?/Per Ecuba!/Che cosa è Ecuba per lui?/E lui per Ecuba?/Che cosa farebbe dunque, se avesse perduto/quel che ho perduto io?/Se avesse avuto il padre assassinato/e gli fosse stata strappata una corona?».

 

Queste battute sono tratte dal monologo di Amleto, atto II, scena 2° dal testo del 1603 della tragedia di Shakespeare e furono messe da Carl Schmitt in esergo del suo Amleto o Ecuba, e rappresentano la strana reazione di Amleto di fronte alla capacità degli attori (da lui convocati per mettere in atto, a loro insaputa, la trappola per topi: gli attori avrebbero dovuto recitare una tragedia la cui trama, del tutto analoga alla vicenda dell’uccisione del padre del principe di Danimarca, avrebbe dovuto far perdere una volta rappresentata di fronte agli assassini del padre il loro autocontrollo e quindi costituire la prova del loro delitto) di provare, o mostrare di provare, maggiore dolore per la morte di Ecuba –  personaggio fittizio e che con loro aveva, evidentemente, solo il rapporto di essere un fantasma evocato dalla finzione teatrale –  che Amleto per la morte reale di suo padre. Nel capitolo dell’Amleto o Ecuba “Il dramma nel dramma: Amleto o Ecuba”, Carl Schmitt svolgendo l’esegesi di questo monologo di Amleto e dello spettacolo nello spettacolo del III atto (la trappola per topi) mostra che finalmente è riuscito a dare un’interpretazione assolutamente meno banale del “tabù della regina” e con essa che forse, ma è solo una nostra interpretazione, a sciogliere anche il suo personale “tabù della regina” che gli impediva una evoluzione della sua “categoria del politico” amico/nemico:

 

«L’attore che declama davanti ad Amleto la morte di Priamo, piange per Ecuba. Ma Amleto non piange per Ecuba; con un po’ di stupore, egli scopre che vi sono uomini i quali, nell’esercizio della loro professione, piangono per cose a cui, nella realtà effettuale della loro esistenza e nella loro vera condizione sono del tutto indifferenti, per cose, cioè, che non li riguardano. Amleto si avvale di questa esperienza per rimproverarsi aspramente, per riflettere sulla propria situazione e per sospingersi ad agire, ad adempiere la propria missione di vendetta. Non è pensabile che Shakespeare, in Amleto, avesse come unica intenzione di fare del suo Amleto un’Ecuba, di farci piangere su Amleto come l’attore piange sulla regina di Troia. Ma noi finiremmo davvero col piangere allo stesso modo per Amleto come per Ecuba, se volessimo separare la realtà della nostra esistenza presente dalla rappresentazione teatrale. [evidenziazione nostra] Le nostre lacrime sarebbero in tal modo lacrime di attori. Non avremmo più nessuna causa e nessuna missione, e le avremmo sacrificate per godere del nostro interesse estetico al gioco del dramma.  Ciò sarebbe grave, poiché dimostrerebbe che a teatro abbiamo altri dèi che al fòro o sul pulpito. Il teatro nel teatro del III atto di Amleto non solo non è uno sguardo dietro le quinte, ma, al contrario, è lo spettacolo stesso, per una volta davanti alle quinte. Ciò presuppone la presenza di un fortissimo nucleo di realtà e di attualità. In caso contrario, infatti, il raddoppiamento renderebbe il gioco del dramma ancora più teatrale, sempre più inverosimile e artificioso: un dramma sempre più falso, fino a diventare, in conclusione, una «parodia di sé stesso». Soltanto un fortissimo nucleo di attualità sopporta la doppia messa in scena di un teatro dentro il teatro. Ci può ben essere dramma nel dramma, ma  non si dà tragedia nella tragedia. Il teatro nel teatro nel III atto di Amleto è pertanto una prova grandiosa ed esemplare del fatto che un nocciolo di attualità e di realtà storica presente – l’assassinio del padre di Amleto/Giacomo ed il matrimonio della madre con l’omicida – ha avuto la forza di esaltare il gioco drammatico in quanto tale, senza distruggere il tragico. Diviene allora tanto più decisivo per noi il sapere che quest’opera, Amleto principe di Danimarca – che suscita sempre nuovo fascino, proprio in quanto gioco drammatico –, non si risolve in  gioco senza residui. Esso contiene altro, oltre agli elementi del gioco drammatico, che è allora, in questo senso, non compiuto. La sua unità di tempo, luogo e azione non è conchiusa, e non dà luogo ad un processo autosufficiente. Presenta anzi due grandi varchi, attraverso i quali irrompe un tempo storico nel tempo ludico: e l’imprevedibile flusso di sempre nuove possibilità interpretative, di sempre nuovi e del tutto insolubili enigmi, penetra in quello che, per il resto, è davvero gioco drammatico. Le due irruzioni – il tabù che vela la colpa della regina e la deviazione della figura del vendicatore, che ha condotto all’amletizzazione dell’eroe – sono due ombre, due punti oscuri. Non sono per nulla semplici implicazioni storico-politiche, né mere allusioni, e neppure veri e propri rispecchiamenti: sono realtà, recepite e rispettate nel gioco del dramma, che proprio intorno ad esse gira timidamente. Esse disturbano il carattere disinteressato del puro gioco, e sono quindi, da questo punta di vista, un minus. Ma hanno fatto sì che il personaggio teatrale di Amleto sia potuto diventare un autentico mito, e pertanto sono un plus, poiché hanno elevato il Trauerspiel a tragedia.»(3) (Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., pp. 84-87)

 

Carl Schmitt nell’Amleto o Ecuba attraverso l’apertura all’allegoria – che, contrariamente a quanto afferma Walter Benjamin nel Dramma barocco tedesco ha percepito che essa può essere anche cosa buona e luminosa come il simbolo o, addirittura, può essere allegoria e simbolo al tempo stesso –  si apre (e apre noi) alla possibilità di una fondamentale evoluzione della “categoria del politico” dell’amico/nemico. Anche la ricerca di Teodoro Klitsche de la Grange è aperta ad interessantissime evoluzioni che, per quanto sia azzardato affermare che siano le nostre evoluzioni, sono fondamentali per le nostre evoluzioni. Un aspetto fondamentale però divide Teodoro Klitsche de la Grange da Carl Schmitt e ciò conferisce al vicendevole rispecchiamento fra questi due autori un carattere particolare, l’aspetto – proprio come nel rapporto  fra osservatore ed osservato della fisica quantistica o, se vogliamo, del rapporto  di interscambio fra soggetto ed oggetto di ogni filosofia della prassi – di un costante e dialettico rapporto attivo di La Grange e con la  fenomenologia culturale, storica, giuridica, politica e sociale oggetto della sua indagine in tutta la sua produzione e all’interno di questa dell’autore stesso con l’interezza di questa, la quale in questo bidirezionale rapporto di rispecchiamento autore/produzione trova proprio il suo profondo fascino. Cosa che proprio non può essere detta per Carl Schmitt che, per quanto autore dialettico, procede a balzi, per sprazzi, ed è soggetto, come dimostra la sua storia personale ed il suo percorso intellettuale, anche a grandi cadute. In altre parole, lo spirito del  monologo di Amleto dell’atto II, scena 2° dell’immortale opera di Shakespeare lo possiamo trovare in tutta la produzione di La Grange e non in un singolo, per quanto fondamentale momento della sua produzione. La Grange, cioè, pur avendo ben presente, proprio per la sue molteplici diramate radici e  profonde e feconde stratificazioni culturali cristiane,   che il simbolo può mostrare (o celare dentro di sé) il volto dell’allegoria che  «mostra agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito passaggio originario. La storia in tutto ciò che essa ha  fin dall’inizio di immaturo, di sofferente, di mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto» (vedi Le ragioni di Creonte, dove la tragedia Antigone perde la sua luminosa carica simbolica assegnatagli dalla tradizione esegetica per assumere su di sé tutto il peso  luttuoso  dell’allegoria del moderno Trauerspiel, del dramma moderno), mantiene costantemente la consapevolezza che al lugubre e mortuario  telos della “trappola per topi” non possa essere opposto, contrariamente a quanto vuole illudersi il controriformistico Carl Schmitt, alcun salvifico Katechon. Ma così facendo, contrariamente a Carl Schmitt che si apre ad altre possibilità simboliche dal Catechon solamente a sprazzi ed in intemittenti occasioni (la maggiore delle quali è l’Amleto o Ecuba), proprio per questa, dicevamo, costante e ferma consapevolezza che il Katéchon non è il simbolo salvifico ma la più mortale delle allegorie, La Grange è anche costantemente aperto anche ad altre possibilità simboliche, fra le quali pensiamo trovino un posto anche quelle del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

E soprattutto per questa costante possibilità di gioco di rispecchiamento dove i nostri simboli, pur rasentando costantemente – lo ammettiamo –, proprio per la loro natura immanentistica, un luttuoso processo di allegorizzazione, possono mantenere – come accade con una fenomenale inversione da allegoria e simbolo e apparente contraddizione nella trappola per topi del teatro nel teatro dell’Amleto e con enigmatica ma mitopoietica espressività nel monologo di Amleto dell’atto II, scena 2° dell’omonima tragedia –  intatto, attraverso il costante dialogo con un altro pensiero, un “principio  speranza”, dobbiamo sempre più grande riconoscenza a Teodoro Klitsche de la Grange.

 

 

 

 

 

NOTE

 

1) L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni fu  una conferenza che Carl Schmitt tenne nel 1922,  ora pubblicata in italiano  anche in Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’ cit.,  pp. 167-183.

 

2 ) E aggiunge: «L’Inghilterra dell’epoca Tudor era per molti aspetti avviata verso la formazione di uno Stato. La parola state compare, col suo significato specifico, in Marlowe e in Shakespeare, e merita una ricerca filologica particolare. Vi ho accennato, in un contesto più ampio, nel mio libro Der Nomos der Erde (Köln, Greven Verlag, 1950, pp. 116-17). Certamente, per una simile ricerca filologica, ci sarebbe bisogno – per quanto riguarda la teoria dello Stato e la storia del concetto del ‘politico’ – di informazioni migliori di quelle di cui dispone il libro (peraltro notevole) di Hans H. Glunz, Shakespeares Staat (Frankfurt, Vittorio Klostermann, 1940). Documenti di rilievo per una storia del termine Stato si possono rinvenire anche negli Essays di Bacone. Ma è proprio in questi cento anni (1588-1688) che l’isola d’Inghilterra si è staccata dal continente europeo ed ha realizzato il passaggio dalla tradizionale esistenza legata alla terra ad una marittima. Divenne così la metropoli di un impero d’oltremare, e perfino il luogo d’origine della rivoluzione industriale, senza passare attraverso la statualità continentale. Non organizzò né forze armate statali, né una polizia, né giustizia o finanza nel senso statuale-continentale; fu per iniziativa prima di pirati e filibustieri, poi di compagnie di commercio, che essa si inserì nell’impresa di conquista delle terre del nuovo mondo, e su queste basi portò a compimento la conquista dei mari di tutto il globo. È questa la secolare rivoluzione inglese, durata dal 1588 al 1688. Nel suo primo stadio si colloca il dramma shakesperiano. Non si deve guardare a questa situazione solo dal punto di vista di quello che era, per quel tempo, il passato o il presente, cioè il medioevo, il rinascimento e il barocco. Misurata col metro del progresso civilizzatore rappresentato dall’ideale della statualità continentale – realizzatosi comunque solo nel XVIII secolo – l’Inghilterra di Shakespeare appare ancora barbarica, vale a dire prestatuale. Misurata, al contrario, col metro del progresso civilizzatore rappresentato dalla rivoluzione industriale – iniziata anch’essa nel XVIII secolo – l’Inghilterra elisabettiana ci appare impegnata in un grandioso sforzo di movimento e di passaggio dalla tradizionale esistenza legata alla terra ad una marittima: questo nuovo orientamento avrà come esito la rivoluzione industriale, e realizzerà così un rivolgimento assai più radicale e fondamentale delle stesse rivoluzioni continentali, lasciandosi di gran lunga alle spalle quel superamento del «medioevo barbarico» che era già stato superato dalla statualità continentale. Il destino degli Stuart volle che essi non avessero alcun sospetto di tutto ciò, che non sapessero staccarsi da un medioevo religioso e feudale. Le argomentazioni di Giacomo I sul diritto divino dei re mascheravano appunto questa disperata mancanza di prospettive della sua posizione spirituale. Gli Stuart non compresero né lo Stato sovrano del continente, né il passaggio all’esistenza marittima che pure l’isola d’Inghilterra compì durante il loro regno. Così, quando venne decisa la conquista in grande stile degli oceani, e il nuovo ordine globale della terra e del mare ebbe trovato il suo riconoscimento formale nella pace di Utrecht (1713), essi scomparvero dalla scena della storia universale.»: Ivi, pp. 115-116.

 

 

3) Il fatto che il teatro nel teatro come vero motore dell’azione drammatica nell’Amleto (e noi diciamo: come  forme aurorale  in Schmitt di una possibile evoluzione della categoria del politico amico/nemico nell’azione dialettica conflittuale-strategica che proprio in una rappresentazione drammatica all’interno di un’altra rappresentazione drammatica trova una sorta di suo ideale paradigma) non fosse da Carl Schmitt inteso solo come fondamentale per comprendere il dramma di Shakespeare ma anche per comprendere un’epoca, il 600, ed un clima culturale, il barocco, evidentemente ritenuti fondamentali dal giuspubblicista di Plettenberg per comprendere l’attuale epoca delle “neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” –  epoca che secondo l’ Amleto o Ecuba, sotto l’influsso, come abbiamo visto, di Walter Benjamin, trova la sua più consona espressione in una cimiteriale allegoria, contrapposta alla simbolica luminosità del mito che accompagna la tragedia classica e le epoche che non hanno ancora perso il rapporto con la trascendenza –. lo troviamo ancor più chiaramente espresso nel capitolo dell’Amleto o Ecuba che reca il molto significativo titolo “Il dramma nel dramma: Amleto o Ecuba” , il quale inizia con queste parole: «Per il senso della vita già fortemente barocco di quest’epoca – intorno al 1600 – il mondo intero divenne palcoscenico, theatrum mundi, theatrum naturae, theatrum europaeum, theatrum belli, theatrum fori. L’uomo attivo di quest’epoca si sentiva  posto su di un podio davanti a degli spettatori, e considerava se stesso e la sua attività nella spettacolarità del suo agire. Anche in altre epoche ci fu un simile senso teatrale, ma nel barocco esso fu particolarmente forte e diffuso. Operare nella dimensione pubblica era operare su di un palcoscenico, e perciò spettacolo.» (Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., p. 82). Come abbiamo appena visto supra, in conclusione dell’Amleto o Ecuba, Carl Schmitt si mostra, via il grande apprezzamento della massima opera di Shakespeare, meno tranchant verso l’ allegoria che, a suo giudizio, nell’Amleto riesce a compiere quasi una fusione dialettica col simbolo proprio in ragione del fatto che la vicenda d’Amleto e la sua difficoltosa vendetta, inestricabilmente intrecciata con una rappresentazione teatrale all’interno del dramma, può essere presa come simbolo dell’azione umana. Una coscienza aurorale che un modello conflittuale dialettico-strategico non reca necessariamente con sé significati funesti e una iniziale consapevolezza che la salvezza non sarebbe mai venuta da un utopistico e mitico Katechon ma piuttosto da un’epifania strategica che pur essendo un obiettivo molto immanentista (e quindi legato ad una dimensione puramente allegorica) reca con sé, proprio come l’Amleto, una potente dimensione simbolica?

 

 

 

 

Massimo Morigi – 5 agosto 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EDOARDO ALBINATI E I SEMICOLTI, di Elio Paoloni

 

 

EDOARDO ALBINATI E I SEMICOLTI

Elio Paoloni

 

Avrei potuto prendere in considerazione altri scrittori, amici che apprezzo e seguo da decenni, tutti dotati di acume, ironia, inesauribile capacità di osservazione del costume. Ma non pensate che abbia scelto Albinati per il cinismo della famigerata frase, registrata e diffusa da tutti i media per l’indignazione di molti: “Io ho pensato, ho desiderato che morisse qualcuno sulla nave Aquarius. Ho detto: adesso, se muore un bambino voglio vedere che cosa succede nel nostro Governo”.

No, il cinismo non mi inquieta. In politica il cinismo è la più apprezzabile delle doti, si tratti dell’ironia bonaria di Andreotti o dei sanguinari auspici del Migliore, che all’appello per il salvataggio dei prigionieri italiani in Russia rispondeva: “Se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi… Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti”.

“Nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro – concludeva Togliatti – non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia.”

 

Cosa volete che sia, dunque, in vista delle magnifiche sorti della Rivoluzione contro il criminale governo gialloverde, la morte di un bambino? No, tuttalpiù mi sorprende che Albinati si abbandoni al cinismo immediatamente dopo aver abbracciato le parole d’ordine buoniste. Mi sorprende ancor più che non abbia sognato neppure un ferito di fronte all’avvento golpista del governo Monti, di fronte alla macelleria Fornero, di fronte al taglio dei contributi per i malati di SLA, di fronte all’appoggio per l’assassinio del freschissimo alleato Gheddafi. E non si sia augurato almeno un contuso di fronte alla cessione di quel po’ di mare nostrum residuo ai cugini francesi senza alcuna contropartita evidente che non fosse il conferimento della Legion d’Onore (medagliette, paccottiglia immancabile, insieme agli specchietti, del corredo di ogni bravo colonizzatore) a quasi tutti gli esponenti PD.

 

Perché, insomma, mi soffermo su Albinati? Lo seguo da decenni, da quando qualche nostro pezzullo si incrociò su Nuovi Argomenti. Nel 2016 ha vinto lo Strega con La scuola cattolica, l’unico Strega meritato da decenni a questa parte, un romanzo come dovrebbero essere tutti i romanzi, ricco di digressioni, di riflessioni, di dissezioni. Di Memoria. Un libro di tale peso e intensità da costargli, tra l’altro, un anno di psicofarmaci. Se l’aggettivo non fosse inflazionato lo definirei proustiano. Il libro vorrebbe essere contro la borghesia, la classe ‘produttrice’ dei macellai del Circeo di cui il libro si occupa, ma non c’è pagina dalla quale non traspaia l’amarezza per il mondo regalatoci dalla rivoluzione antiborghese: “la libertà è come una di quelle immense spiagge atlantiche da cui la marea si è ritirata, lasciando la sabbia piena di residui, e quella distesa te la ritrovi a disposizione senza aver fatto nulla, e nulla potrai fare quando il mare se la riprenderà”. E ancora: “Come in ogni epoca rivoluzionaria, veniva compiuto l’elogio dell’infamia”. Quasi un reazionario! Per dare un’idea della sintonia che ho con quest’uomo, in meno di metà del libro (sono a pag. 400) la mia copia conta già una novantina di orecchie.

 

Ora, non c’è nulla di strano nell’avere opinioni politiche differenti da quelle di un artista che si apprezza. Ma qui non si tratta di semplici divergenze d’opinione: siamo di fronte a una visione del pianeta profondamente distorta, a una narrazione sentimentalista, menzognera, patologica. Per quest’uomo chiunque presti ascolto al popolo, chiunque non si prefigga l’estinzione dello stesso, chiunque avversi la tratta dei bambini a favore di ricchi invertiti, chiunque sostenga che la politica (quello Stato fino all’altro ieri idolatrato) debba opporsi ai disegni dell’alta finanza, del turbocapitalismo, del mondialismo, chiunque intenda, opponendosi alle mafie, regolare e distribuire i flussi migratori, rappresenta il Male. Va fermato. Giacché l’Italia va dissolta, fin dal nome. Naturalmente dovrebbero poi dissolversi tutte le realtà sovrane, ma noi ci portiamo avanti col lavoro. In questo, e solo in questo “prima gli italiani”.

 

Le inversioni di rotta dei politici sinistri, in realtà ultraliberali, la loro acquiescenza criminale allo strangolamento del paese sono perfettamente comprensibili in termini di poltrone e regalie. Ma non dubito dell’onestà di Albinati. Non è in cerca di prebende che lo scrittore si è accodato alle missioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Certo, Otto giorni in Niger saranno stati pochi per comprendere cosa davvero succede in Africa. Sbalzato nel cuore del continente nero dai quartieri bene della Capitale ha fatto appena in tempo a rendersi conto che il Niger è uno stato e la Nigeria un altro; non poteva certo comprendere su due piedi chi sia, per davvero, razzista, neocolonialista, predatore, egoista e vomitevole.

 

Ora, è del tutto naturale che Albinati provi pena di fronte alle persone in difficoltà. Quando abbiamo di fronte un uomo, non stiamo a chiedergli la carta d’identità, non indaghiamo su ciò che lo ha portato davanti a noi. Specie se si tratta di veri profughi, se abbiamo di fronte i deboli, le donne, i bambini, i vecchi. Siamo cristiani, sempre, volenti o nolenti, portiamo in noi gli imperativi della sollecitudine verso chi soffre. Qualcuno si offenderà nel sentirsi definire cristiano e vorrà semplicemente definirsi umano (come se l’aggettivo umano avesse una accezione positiva). Ma non ha importanza. Il primo impulso, mio, di Albinati, di tutti noi, è quello dell’aiuto immediato, personale, incondizionato. Il secondo è quello di appellarsi alla comunità perché nessuno può aiutare da solo un continente. E qui arriva il punto.

 

Una persona ragionevole si chiede innanzi tutto se sia opportuno trapiantare il sofferente in paese straniero. Il buon senso, e il Papa Emerito, non lo trovano opportuno. Ma ammettiamo che lo sia. Viene naturale chiedersi chi debba farsene carico.

 

La prima risposta dovrebbe essere: chi ha provocato lo sfacelo. Ovvero i paesi coloniali, che molti si ostinano a definire “ex”: la Francia, soprattutto, anche se il responsabile principale è sempre lo Zio Sam, senza il quale nulla è permesso. Ma nella mente confusa di Albinati – sempre per il mantra antifascista – l’unico paese che deve scontare il suo colonialismo è l’Italia, ovvero il più tardivo e residuale tra i conquistatori d’Africa. Mentre, sempre secondo Albinati, la Francia è da quelle parti per “pacificare” l’area.

 

In secondo luogo dovrebbero venire i paesi europei ricchi, solidi; la Germania, per prima.

 

In terzo luogo paesi ancora più ricchi e vocati, per affinità religiosa e un certa prossimità dei confini: l’Arabia Saudita, prima di tutto, che non ne ha accolto neppure uno.

L’Italia ne ha accolti più di tutti ma se anche ne accogliesse decine di milioni non sfuggirebbe alle accuse di razzismo dei nostri intellettuali: sempre per il mantra suddetto, l’italiano, avendo ottant’anni fa accettato (all’italiana, cioè disattendendole) le scellerate leggi razziali, è intrinsecamente, irrimediabilmente razzista. Ecco, anch’io, come Albinati, ho un sogno: vorrei che i barconi fossero carichi di bei caucasici biondi e con gli occhi azzurri. Così, finalmente, privati dell’unica arma di discussione (si fa per dire) brandita finora sull’argomento, i paladini dell’accoglienza indiscriminata, senza se e senza ma, sarebbero costretti a discutere di sostenibilità, di quote, di opportunità. Capirebbero finalmente, che gli invasori – come i crumiri – non hanno colore.

 

Cosa c’è di disgustoso in queste banalissime considerazioni? Cosa fa inalberare Albinati? Va tenuto presente che ho accettato fino ad ora la premessa dei fautori dell’accoglienza indiscriminata, ovvero che siamo di fronte a profughi sofferenti, a stuoli di donne, bambini, vecchi. In questo caso sarebbe più comprensibile l’ansia accaparratrice di costoro (non sia mai qualcuno chieda ospitalità altrove! quale offesa! cosa manca in Italia che debbano cercare in altri paesi?).

 

Ovviamente i poveri profughi si contano sulle dita di una mano. Anche tra loro, a ogni modo, considerando che più che paesi in guerra in Africa vi sono aree in guerra, molti potrebbero trovare scampo in aree dello stesso paese, presso conterranei, oppure in paesi limitrofi. Ma gli scrittori odiano questi dettagli, amano le immagini, e gli hanno propinato quelle giuste: mamme e bambini. Praticamente inesistenti sulle navi negriere delle ONG, le mamme e i bambini campeggiano nel giornalume quotidiano del radical-chic, sono l’input infallibile che scatena il riflesso pavloviano. Albinati si è catapultato in Niger ma non ha dato neppure un’occhiata ai filmati sui barconi, veri e propri mezzi da sbarco da D-Day, con plotoni di giovani muscolosi, tutti della stessa taglia e della stessa età, muniti di Smartphone (che non si bagna mai, al contrario dei documenti). Ignora le riprese delle centinaia di giovanotti ben piantati che hanno assalito e scardinato le barriere di Ceuta. Gente che non può essere partita per gravi motivi economici, dato che ha sborsato somme ingenti, e, se scappa dalla guerra, andrebbe impiccata per diserzione. Lui, che intervista tutti, si è guardato bene dall’intervistare i marinai delle nostre navi militari o i militari di guardia ai centri di accoglienza, per lo meno quelli che hanno il coraggio di parlare.

 

Ovviamente, non potendo sostenere a lungo la bufala dei profughi, ci si è aggrappati alla figura del migrante ‘economico’, categoria vaga quanto colossale (in effetti quasi nessuno, da quelle parti, potrebbe essere escluso dalla categoria). Non so se Albinati sia al corrente dell’ultima categoria di stranieri che necessita accogliere ad ogni costo: la ‘picchiata dal marito’, categoria venuta alla ribalta in relazione a una naufraga ormai notissima. E, se ne è al corrente, ha realizzato che, in questo caso occorrerebbe trapiantare nel Bel Paese, oltre a quasi tutta la popolazione dell’Africa, anche tutta quella del Medio Oriente e di buona parte dell’Asia e del Sud America?

 

L’antirazzista in servizio permanente effettivo è, quasi immancabilmente, un autorazzista. Questo sono quasi tutti gli scrittori italiani, autorazzisti: spregiatori di se stessi, del proprio retaggio, della propria patria; dell’Europa stessa. Il loro invocare continuamente l’Europa è in verità un impetrare l’affossamento dei valori fondanti dell’Europa, sostituiti da una religione di presunti nuovi diritti.

Che lottino per l’estinzione dei nostri geni è palese – vedi l’accanito dileggio delle famiglie vere con prole autoprodotta – e forse perfino auspicabile. Ma come possono buttare a mare una intera civiltà, il loro – e sottolineo loro –  patrimonio culturale? Come possono aborrire la Chiesa oscurantista e lisciare il pelo alle donne velate, regalando loro assessorati alla Cultura? E’ gente che insegna, che trae la sua identità dal mondo delle Lettere. Come faranno ad apprezzare – e far apprezzare – Virgilio e Dante e Alfieri e Leopardi e Manzoni e Verdi e Carducci e D’Annunzio? O – dato il coté – il Gramsci che rimproverava agli intellettuali italiani la mancata costruzione di un epos nazionale, cosicché il popolo italiano, lasciato in balia del romanzo storico-popolare francese, “si appassiona per un passato non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore e di riferimenti culturali francesi ecc., è culturalmente più francese che italiano”?

 

Oscuratosi il fascino d’Oltralpe, i nostri scrittori son tutto fumo di Londra. Si sentono cosmopoliti perché accettano ogni moda straniera, ogni parola d’ordine, ogni frase infarcita d’inglesorum, e sono solo dei provinciali abbagliati dal gran mondo. Vogliono distruggere la Nazione, abbatterne i confini, sputando su coloro che per quei confini sono morti – compresi quelli che ai confini non credevano e sono morti ugualmente. Ma idolatrano le Nazioni che presidiano saldamente i loro confini, anzi si affannano ad espanderli. Ritengono superiori i francesi e gli inglesi, per non parlare dei dem statunitensi, che ci esortano ad abbattere i muri e a decrescere felicemente, tenendosi stretti i loro muri, la loro potenza, la loro crescita e la loro determinazione a mettere a ferro fuoco il pianeta. I nostri autori sognano – anzi minacciano – di trasferirsi in questi civilissimi paesi per aiutarli a diffondere la democrazia.

 

Cosa è successo a questa gente? Certo, sono da decenni accaniti lettori di Repubblica e L’Espresso nonché del Manifesto. Se proprio va bene leggono il Corriere. Ma anche in questi giornalacci si possono trovare, tra le pieghe, le notizie necessarie a comprendere chi sia, per esempio, il filantropo Soros. Possibile che, tra un’ode agli eroi delle ONG e una riverenza alla Bonino non siano riusciti a informarsi sui motivi delle condanne che pendono sul loro mandante – a morte in Malesia e all’ergastolo in Indonesia? Davvero non sanno nulla dell’attacco speculativo del 1992? Ma cliccare su qualche sito serio, così, per curiosità, per caso, per sbaglio?

 

Nonostante le sue capacità critiche, dunque, Albinati sembrerebbe rientrare nella categoria che abbiamo imparato a definire ceto medio semicolto (Cmsk), cioè quel ceto di una «certa kual kultura» che prende forma nel ’68 radicandosi nella deriva universalista e pacifista di certo marxismo nonché nell’ideologia dei «diritti umani» risalente alla rivoluzione francese. Il semicolto (con “quattro letture”, mostre a iosa, organizzazione di visite di istruzione per le scuole ad Auschwitz e qualche altro viaggio in ambienti esotici alle spalle) è preda della forma pseudo-culturale “di sinistra” del politicamente corretto, alfiere di un pacifismo semplicistico, sprovvisto di qualsivoglia nozione geopolitica e soprattutto, vittima di una vacua presunzione di “cultura” rispetto agli “incolti”, pretesa del tutto ingiustificata, vista la sua manifesta incapacità di comprendere i problemi del tempo e di imbastire una discussione propriamente politica (il suo approccio alla politica assume infatti quasi unicamente i modi del “disgusto estetico”). Si appella di continuo ai presìdi morali della tradizione umanistica (ridotta spesso alla versione “umanitaria”) ma introietta e diffonde, in realtà, istanze nichilistiche e relativistiche del tutto incompatibili con l’umanesimo vero.

 

Bene, conosco molti individui che corrispondono perfettamente a questa descrizione. Ma non penso che Albinati possa essere arruolato nella categoria; e neppure molti dei suoi colleghi. Queste persone hanno letto ben più che quattro libri, sono colte, non semicolte.   Potremmo definirle ipercolte. E conosco spregiatori di ‘populisti’ che non si sono limitati a un viaggetto esotico alternativo e solidale ma sono stati a lungo nei teatri di guerra e di guerriglia. Allora? Cosa li distingue dai propriamente colti? Si occupano poco di storia, di geopolitica? Non sempre, anzi quasi tutti leggono almeno Internazionale. Sottilmente orientato, certo. Ma per quanto possa essere orientato, non può esimersi dal tratteggiare un mondo in cui esistono guerre, conflitti, interessi nazionali. In cui è già aperta una guerra economica micidiale nell’avanzato e pacifico mondo occidentale. Un mondo in cui le nazioni non solo esistono, ma continuano a nascere – o a sforzarsi di nascere – e sgomitano, si difendono, aggrediscono. Un mondo in cui esisterebbero addirittura nazionalismi ‘giusti’, come quelli kosovari, catalani, ucraini. Infatti, ogni volta che i poveri curdi vengono sobillati dagli esportatori di democrazia per destabilizzare le aree di pertinenza (finendo poi – quasi sempre – abbandonati al loro destino) gli intellettuali cantano emozionati la fierezza dei patrioti curdi (più spesso delle avvenenti patriote). Perché, quando è curda, l’Identità non li fa vomitare? Forse perché le soldatesse titillano in loro il dogma politicamente corretto dell’uguaglianza dei sessi?

 

Perfino dalle pagine del ‘selettivo’ Internazionale, in fondo, si dispiega un mondo in cui l’ammucchiarsi di etnie e di culture non produce alcun melting pot, ma unicamente miseria e massacro. Certo, vi si tratteggia un mondo in cui il fascismo campeggia eterno, nel quale chiunque resista all’Impero è un malvagio dittatore, ma se il mero semicolto si lascia incantare, costoro (che ripeto, colti sono, e manifestamente capaci di esercitare senso critico) dovrebbero essere in grado di ricorrere almeno alle armi dell’analfabeta intelligente, che la fuffa la avverte da lontano, a naso, grazie al cinismo popolare, al retaggio di secoli di soprusi ammantati dal latinorum (oggi englishorum).

 

Cosa gli manca? In quale momento, precisamente, hanno deciso di adagiarsi nelle narrazioni mainstream? Davvero il riflesso pavloviano che li coglie alla semplice menzione del termine fascismo li costringe ad accettare qualsiasi ‘alternativa’? Possibile che la loro intelligenza non si senta insultata dal continuo ricorso a questo spauracchio e ai suoi succedanei, razzismo, populismo, omofobia? Richiamano sempre il volgo all’etica e al rigore, ma qualsiasi atteggiamento fermo, rigoroso, severo, ovvero giusto, fa scattare la fobia (questa sì, fobia vera) dell’“autoritarismo”. Gli hanno inserito un microchip sottopelle che scatta ad ogni manifestazione di buon senso? E quando? Al superamento dell’esame di laurea? Al primo contratto editoriale?

 

Gli scrittori del passato univano alla conoscenza sofferta dell’animo umano la capacità di cogliere l’essenza della storia, degli sconvolgimenti sociali, delle guerre. Cento ponderosi saggi non riuscirebbero mai a rendere l’idea dei caratteri eterni dell’italiano, delle costanti storiche – e delle nuove forme che assumono – così come li rendono I promessi sposi, Il Gattopardo, I viceré. L’immagine del vaso di coccio tra vasi di ferro rappresenta l’Italia nei secoli dei secoli, non c’è trattato che tenga. Pasolini non si lasciava incantare dalle distinzioni dei sociologi: coglieva il filo comune tra il ragazzotto e il pariolino e al contempo distingueva i veri proletari, i poliziotti, dai rivoluzionari figli di papà. E ancor oggi uno Houellebecq mantiene uno sguardo profetico. Mi è rimasta perciò la convinzione che un narratore di vaglia DEBBA avere una visione del mondo autonoma, DEBBA comprendere l’idiozia degli slogan imposti dai poteri mondialisti, dai circoli finanziari, dalle classi dominanti, DEBBA, dopo averci scartavetrato gli attributi per decenni appellandosi a Orwell, avvertire immediatamente il dominio del Grande Fratello, DEBBA, dopo aver citato anche troppo l’Ignazio Buttitta difensore della lingua atavica, rabbrividire di fronte ai vocaboli della neo-lingua, in particolare di fronte al suffisso –fobo appiccicato ovunque per stigmatizzare chi nutra anche soltanto la minima perplessità rispetto ai dogmi del pensiero unico.

E, ogni santa volta, sbatto contro l’evidenza: c’è stata una scissione tra le due capacità di visione, quella affettiva, introspettiva, speculativa, e quella esterna, sociale, storica.

 

Questi intellettuali – ma anche il loro principale demone, Salvini – ci costringono a disperdere le nostre energie sul problema immigrazione. Che è l’ultimo dei nostri problemi. Last but not the least: in effetti è sintomatico di tutto ciò che non va nel nostro paese. Basta inquadrare il fenomeno: le frasi rubate ai francesi sullo scaricarci le vittime dei loro traffici, la potenza di Soros dietro alle navi negriere, la felicità di certi imprenditori nell’accaparrarsi schiavi per l’agricoltura (come può Albinati non completare, da esperto di comunicazione, le frasi apparentemente pragmatiche come “fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare” con la logica chiusa: non vogliono più fare a quelle condizioni, dopo decenni di lotte contro il caporalato che solo ora qualche povero schiavo nero sta tentando invano di riaccendere?); il disegno più volte dettagliatamente esplicitato da diversi circoli sovranazionali, di rimescolare popoli ed etnie con lo scopo dichiarato di favorire il multiculturalismo e quello non poi tanto occulto di fomentare guerre tra poveri e dissolvere, insieme alla famiglia, alle forze sindacali, a ogni genere di istituzione, le comunità che possono opporsi ai poteri finanziari transnazionali.

 

Ebbene, tutto questo fa della questione migrazioni l’emblema della nostra disfatta. Perché ci permette di osservare sotto una lente di ingrandimento l’abdicazione dello stato, la debolezza di fronte a ogni genere di sopruso, di bullismo, di crimine, di razzia. Il reagire al delitto con la soppressione giuridica del delitto (vedi abolizione del reato di clandestinità). O, all’opposto, il rendere delittuosi i più elementari diritti umani: perché il sarcastico Albinati non ha ironizzato sulle intenzioni dei progressisti quando volevano limitare la difesa della vita alle ore antelucane? Perché non si è augurato che un aggredito morisse alle prime luci dell’alba, mentre l’aurora di bianco vestita carezza dei fiori lo stuol?

 

L’ultimo dei nostri problemi, dicevo, dal punto di vista puramente economico. I nostri problemi son ben altri (e non si tratta del famigerato benaltrismo). Anzi è uno solo: il fiscal compact, che – senza alcun obbligo giuridico –  gli alti traditori hanno infilato a forza, col favore delle tenebre mediatiche, nella nostra magnifica e intoccabile Costituzione. Ho pensato più volte di lanciare un sondaggio tra gli scrittori italiani, compresi quelli che ripetono pappagallescamente tutti i mantra economicisti pidioti, per capire quanti di loro siano a conoscenza di questo ritocchino costituzionale e, soprattutto, se siano in grado di rendersi conto dell’impossibilità di riparare il nostro debito con le finanziarie lacrime e sangue, che, deprimendo l’economia, contraggono il PIL e rendono il debito sempre crescente, all’infinito, fino al collasso. Ma anche senza sondaggio, già lo so: non lo sanno, e se lo sanno lo hanno già accettato come si accettano i terremoti, le inondazioni, le locuste. Come se i trattati, mai analizzati, mai seriamente discussi, fossero le tavole della Legge, incise nella pietra. Come se non fossero già stati abbondantemente diffusi i dettagli tragicomici dell’adozione, casuale, estemporanea, farsesca, del muro del 3%.

 

Ma in fondo gli scrittori se ne fottono dell’economia. Tutto quello che hanno diligentemente imparato è che i Mercati (una sorta di divinità cieca, come la Giustizia) non hanno padrone, non sono politica. Accettano qualsiasi panzana e non hanno mai saputo perché lo spread, dopo un’impennata, sia improvvisamente calato mentre si costituiva l’ultimo governo. Bizzarrie del mercato! Lo scrittore orecchia i temi economici e passa avanti disgustato. Non sono temi degni della sua penna, del suo j’accuse. Vuoi mettere i bambini morti? Quelli affogati, s’intende, che’ quelli squartati nell’utero non li riguardano, men che meno quelli venduti alle coppie sodomite.

 

Il punto è che non sono in grado di guardare al quadro complessivo. Le questioni (le ‘problematiche’) vengono sottoposte loro singolarmente. I profughi vanno accolti. Il debito va ripianato. Gli invertiti non vanno discriminati. Il sostegno alle nascite è roba da fascisti, e poi siamo troppi (sull’intero pianeta, ma noi, ricordiamolo, dobbiamo sempre portarci avanti: gli altri possono essere più prolifici dei conigli, noi saremo virtuosi). Le energie fossili inquinano, via gasdotti e trivelle. Il nucleare fa male, zero centrali (Italia prima, anzi unica). I Mercati non vogliono. Il pianeta non regge all’industrializzazione, dobbiamo distruggere le nostre industrie strategiche (anche in questo prima gli italiani). L’INPS ha i conti in rosso (non la parte previdenziale, ma non approfondiamo). La difesa del cittadino è compito dello stato, noi non siamo il far west. I singoli interventi della magistratura sono dovuti (mai che si rendano conto che a reati simili a quelli perseguiti, anzi molto più gravi, non viene dato alcun seguito e che i magistrati sono usi ad archiviare ben altro).

Ogni singolo provvedimento, affrontato dalla parte giusta, sembra logico, naturale, inevitabile. Quello della inevitabilità è il mantra principale. La possibilità di governare gli avvenimenti è stata cassata dal loro pensiero. Non ci si può opporre a questo, non ci si può opporre a quell’altro. Il Mercato, il Progresso, la Globalizzazione, le Migrazioni. Questa ovina rassegnazione viene meno quando occorre opporsi a figure esteticamente svantaggiate, ovvero ai “populisti”. Allora, guai se non ti opponi. Allarmi, siam antifascisti. Pur di scongiurare l’incubo del nazirazzifascioleghismo, atei cinici e promiscui, adusi a squittire contro le “intollerabili ingerenze del Vaticano nella politica italiana” e a rimestare in ogni scandalo sessuale delle tonache, citano ormai a ogni piè sospinto Papa Francisco e la sua compagnia di tango, sventolandosi con Famiglia Cristiana.

 

Costoro volano basso. Rimbalzano come palline di flipper sui funghi disseminati dalla comunicazione mainstream; non riescono a librarsi sopra il cristallo sporco e osservare la mappa. Ci sono studiosi, filosofi, economisti, blogger, che evidenziano gli scenari planetari, i flussi, le connessioni, gli organigrammi. Diranno fesserie anche loro, individueranno forse il nemico sbagliato, ma qualche analisi pragmatica la espongono. Possibile che mai nessuna di queste narrazioni non sentimentali, non farisaiche, non ricattatorie, siano giunte alle orecchie di Albinati? Sì, gli scrittori, i critici, i giornalisti, i docenti hanno i loro siti, i loro circuiti, le loro facoltà, tutti, inevitabilmente orientati. Ma lui mi è sempre sembrato un appartato, con le sue ossessioni e le sue idiosincrasie. L’immagine di una persona libera. Nel suo caso non posso neppure prendermela con la scuola de sinistra, zeppa di semicolti allo stato brado: lui è stato educato alla scuola cattolica (quella vecchia, tra l’altro).

 

Gli scrittori hanno un sesto senso per le coincidenze. Sia quando intendono evitarle come la peste, ritenendole un indegno espediente da romanzo d’appendice, sia quando intendono corteggiarle, come amavano fare Sciascia e Kundera. “Le coincidenze – scriveva Douglas Coupland – sono talmente rare che quando in effetti accadono, allora vengono notate. Anzi, le coincidenze sono talmente rare che è quasi come se l’universo fosse progettato unicamente per impedirle. Così quando nella vita vi capita una coincidenza, vuol dire che qualcuno o qualcosa si è dato parecchio da fare per realizzarla, ed è per questo che dobbiamo sempre farci caso”. Che preferisca appellarsi al Caso piuttosto che al Destino, alla Beffa piuttosto che al Castigo, uno scrittore è allenato a notare le coincidenze. Possibile che non attraversi mai la loro mente un’ombra di sospetto di fronte alle date (anzi agli orari) di consegna di un avviso di garanzia? Nessun soprassalto quando su ogni scena terroristica campeggia, immancabile (e indistruttibile) il passaporto dell’autore? Il gas nervino usato a capocchia contro i propri cittadini da chiunque sia stato schedato di recente come cattivodittatore? E davvero è possibile che ancora non abbiano scoperto la verità su Regeni (quando la sa ogni bambino a cui abbiano messo in mano uno smartphone)?

 

Guareschi regalava tre narici ai progressisti del suo tempo. Gli scrittori d’oggi invece, andrebbero disegnati senza narici. Hanno completamente perduto il naso, quell’istinto che permetteva ai loro antenati di individuare all’istante la retorica e le banalità ideologiche. Sono a-nariciuti.

Manca loro è la capacità di guardare. Si tratta, come diceva Husserl, di guardare, semplicemente di guardare, anche se lo sguardo immediato deve essere accompagnato da una teoria che lo sostenga nella sua esplicitazione. “In questo caso – ricorda il filosofo Renato Cristin – guardare direttamente significa cogliere l’essenza delle cose senza i veli delle opinioni, dei dogmatismi o, peggio ancora, degli strumentalismi con cui una propaganda di tipo immigrazionista, anti-identitario e sostituzionista cerca di sviare l’attenzione e confondere il giudizio degli individui e, quindi, dei popoli”.

 

Questo sguardo limpido, sgombro, non appartiene più ai nostri scrittori. E la loro avversione per l’identità nazionale è solo il riflesso dell’avversione per l’identità individuale. L’uomo deve essere fluido, plasmabile, privo di radicamenti familiari, di avi e di progenie, di identità culturale e sessuale, pronto a dissolversi. Logica conseguenza dell’indifferentismo al potere, della dittatura del relativismo, premessa essenziale all’instaurazione in Europa dell’uomo nuovo teorizzato dal marxismo, vagheggiato dal sessantottismo, auspicato dalla teologia della liberazione (e dai suoi cascami in Santa Marta), ma altrimenti disegnato dai teorici della liquidità e accuratamente programmato dagli ideologizzati burocrati dell’ONU per la finanza speculativa. L’incubo che speravamo dissolto con il crollo del comunismo si ripresenta con forza decuplicata, incistato nel cuore del mondo occidentale.

 

Quest’uomo nuovo, secondo i nostri intellettuali, non può, non deve, essere bianco (gli antirazzisti sono intrisi di un profondo razzismo). Cogliendo qui, finalmente, una verità: l’europeo è finito, imbelle, svirilizzato, sterile; non ha più slancio vitale, non può avanzare. Ma fanno finta di non capire che la causa della nostra decadenza non è soltanto nel benessere (ormai relativo, molto relativo) ma nell’aver accettato ogni disvalore, professando un pacifismo acritico e morboso e abbattendo ogni caposaldo del senso comune. Come si possono difendere fino allo stremo il relativismo, il multicuturalismo, e una serie di presunti – e stranamente non relativizzabili bensì inalienabili – diritti, accogliendo nello stesso tempo, schizofrenicamente, milioni di estranei che non comprendono, non rispettano, non accettano – e mai accetteranno – quei principi? Hanno mai approfondito, i nostri coltissimi scrittori, le pratiche sacrificali e cannibaliche della religione Yoruba, quella professata dai poveri migranti nigeriani? L’abbaglio della integrazione li acceca. L’integrazione può avvenire per piccoli gruppi, in lunghissimo tempo, in società fortemente strutturate e con valori – e pensiero – forti; deve essere auspicata da chi si insedia, cosa avvenuta – a volte – negli Stati Uniti. Da noi non ci sarà. Ci attende l’annichilimento.

“Una società che si decompone interamente è evidentemente meno adatta ad accogliere, senza troppi scontri, una gran quantità di immigrati – notava Guy Debord, che i nostri intellettuali dovrebbero aver letto. Ci si compiace (On se gargarise) – continuava – della ricca espressione “diversità culturali”. Quali culture? Non ce ne sono più. Né cristiana, né socialista, né scientista. Non è sicuro che il melting-pot americano funzioni ancora a lungo (per esempio con gli Chicanos che hanno un’altra lingua). Ma è certo che qui non può funzionare nemmeno per un momento… Gli immigrati hanno tutto il diritto di vivere in Francia. Essi sono i rappresentanti dello spossessamento; e lo spossessamento è a casa sua in Francia, tanto vi è maggioritario, quasi universale. Gli immigrati hanno perso la loro cultura e il loro paese e, com’è noto, senza trovarne altri. E i Francesi sono nella stessa situazione, solo più segretamente”.

 

Si parla qui dei francesi, alfieri dell’illuminismo. Ma nipotini dell’illuminismo siamo ormai tutti, e nella contorta mentalità dei nostri pensatori, l’uomo nero è il buon selvaggio di Rousseau. Buono per definizione. L’Europa decade perché i principi dell’illuminismo hanno obnubilato – grazie anche alla collaborazione dei nostri scrittori – le radici dell’Europa, il nucleo ebraico-cristiano che si è insediato sulle fondamenta greco-romane e che ha accompagnato lo sviluppo del pensiero europeo moderno.

L’Europa fondava la sua identità sulla cacciata dei Mori, sulla battaglia di Lepanto, sulla resistenza di Vienna all’assedio di Solimano. Gli scrittori meridionali hanno passato intere estati all’ombra di torri costiere erette a difesa dalle scorrerie saracene. Mamma, li turchi! era il grido riecheggiante lungo tutte le coste della penisola. Ora l’Islam approda e sciama sotto mentite spoglie. Senza alcuna riflessione, o abbracciando un revisionismo tortuoso e imperioso, i letterati a largo raggio – e corta memoria – vengono a spiegarti perché ‘infedeli’ non voglia dire precisamente infedeli e come Jihad indichi un concetto complesso che troppo semplicisticamente viene tradotto con guerra santa (e dal loro tono sembra che l’abbia tradotto tu). Si lanciano in estesi elogi dell’astuzia, attributo divino insieme a Baran (sotterfugio) Kayd (stratagemma) Khad (inganno) e Makr (insidia). All’immancabile locuzione d’esordio, l’indiscussa tolleranza dell’Islam, vorresti afferrare lo studioso per i capelli e infilargli la testa nell’ossario della Cattedrale di Otranto, tenendocela fino a che non abiura questa sciocca credenza.

Troppo guerreschi e sanguinari, i nostri miti fondanti? Troppo murari? Le mura permettono la formazione e la sopravvivenza di ogni comunità. Non sono invalicabili: le porte sono aperte agli stranieri rispettosi, nelle ore e nei modi opportuni.

 

Concludo: nell’acquiescenza alle parole d’ordine del pensiero unico nulla distingue un ipercolto da un semicolto. Risulta evidente, dunque, che non è l’incompletezza culturale la causa dell’abdicazione dell’intellettuale italico. Lo sprezzante appellativo ‘semicolto’ è fuorviante: porta a immaginare che una “maggior dose” di cultura guarirebbe il soggetto dall’obnubilamento. Ma questa non è altro, in fondo, che l’illusione illuminista: più luce, più enciclopedie, più trattati, e tutto si sistemerà; giunto alla piena cultura l’Uomo comprenderà, finalmente, e la verità splenderà su un mondo felice. Non è così. La lucidità non dipende dal grado di cultura. Da qualsiasi morbo siano affetti i nostri acculturati, non sarà una dose massiccia di letture a guarirli. E neppure la frequentazione delle Università e delle case editrici del Bel Paese.

 

 

L’importanza dell’informazione in una democrazia, di Max Bonelli

 

 

Quanto vale la libertà d’informazione in Italia?

Meno di un uovo di gallina.

 

Il gigantesco gruppo mediatico che fa capo a Repubblica e Corriere per almeno due giorni ha messo in prima pagina il volto tumefatto dall’impatto

di un uovo lanciato da un commando di razzisti contro la cittadina italiana di origine nigeriana ,discobola  di caratura nazionale, Daisy Osakue. Anche il lettore meno arguto riusciva a fare il suo bravo collegamento neanche tanto sub liminare con il capo del “Ku Klux Klan italiano” il ministro dell’interno Salvini.

“Il clima di odio verso gli stranieri, i migranti di cui il paese ha tanto bisogno sta portando i suoi drammatici frutti” era uno dei tanti commenti che si poteva leggere sulle voci della democrazia sopra citate. Ad un attento lettore quasi sfuggiva una riga in quarta, quinta battuta dove si leggeva “i carabinieri escludono per ora il movente razzista”.

Questo atteggiamento inspiegabile delle forze dell’ ordine di fronte a tanto evidente gesto razzista risulta spiegabile al lettore italico con le proverbiali ironie sulla benemerita oppure che il comando dei carabinieri di  Moncalieri ,dove si sono svolti i fatti, sia ossequioso al nuovo corso “razzista” del Viminale.

 

Avendo sviluppato un sesto senso per le polpette avvelenate democratiche

somministrate fin dalle prime rivoluzione arancione o primavere arabe che siano,  vado ad informarmi nei meandri di internet.

A Moncalieri , verosimilmente, la stessa banda di teppisti si è allenata nei giorni precedenti al lancio dell’uovo contro tre ragazze e contro un pensionato tutti con una pigmentazione cutanea in linea con la media nazionale.

Di questi episodi non si trova traccia od informazione su Corriere e Repubblica ma probabilmente vale anche per il resto della stampa e televisione.

I nostri bravi carabinieri, famosi per essere pignoli, questi due episodi li avevano registrati e da qui l’esclusione del movente razzista.

Altrettanto pignoli non si possono dire i media sopra citati che invece bucano inspiegabilmente un fatto di cronaca contemporaneo a quello capitato alla nostra discobola.

Nella stessa regione a Torino un immigrato somalo aggredisce due agenti della polizia ferroviaria che per fermarlo hanno dovuto usare la pistola d’ordinanza ferendolo alle gambe dopo che uno dei due aveva avuto la peggio nella colluttazione seguita ad un controllo dei documenti.

Per i particolari rimando ad uno dei pochi quotidiani on line riportante

i fatti:

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/immigrato-somalo-aggredisce-agenti-polfer-a-torino-90444/

 

Come bucano il giorno dopo una donna rapinata di 300 euro a Roma da tre nordafricani con una siringa come arma

 

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/roma-aggredita-rapinata-siringa-africani-90577/

 

e la maxirissa a Vittoria nata per impedire ai carabinieri l’arresto di uno spacciatore

 

https://www.ilprimatonazionale.it/primo-piano/vittoria-spacciatore-tunisino-aggredisce-carabinieri-e-una-coppia-di-italiani-90552/

 

Mi scuso con i lettori se utilizzo sempre la stessa fonte d’informazione ma sui giornali più quotati di questi gravi fatti di cronaca non si trova traccia.

 

La riflessione sullo stato dell’informazione in Italia sorge spontanea.

Di fatto siamo alla censura dei principali organi d’informazione delle notizie che non si adattano al messaggio mediatico globalista-mondialista propagandato dai finanziatori di queste testate.

Perchè solo andando a  guardare nei bilanci di questi media troveremmo la risposta ad una informazione così a senso unico. Questa superficiale analisi fatta su  due giorni d’informazione può tranquillamente essere un campione statistico da riportare su tutto l’anno. Solo allora capiremmo l’ampiezza di questo pensiero unico mediatico.

La speranza che due nomi quotati del giornalismo italiano indipendente come Marcello Foa o Giampaolo Rossi possano presiedere alla Rai è un alito di democrazia dopo anni di censura od autocensura atlantico-globalista. Per capire la caratura dei due personaggi vi invito ad ascoltare

una splendida intervista fatta da Bio Blu a Foa

https://www.youtube.com/watch?v=px0FaA0K35w

 

 

ed un ottimo articolo di Rossi sulla politica USA in  Ucraina

https://blogdellanarca.wordpress.com/2014/03/19/victoria-e-henry-i-due-volti-della-politica-estera-americana/

 

Il nostro paese ha bisogno di giornalisti “teste pensanti” che non hanno nel loro vocabolario la parola “assertivo” al sistema.

Il gruppo Espresso li chiama sovranisti perchè hanno dimenticato il significato di “giornalisti indipendenti “e non assertivi della vulgata globalista.

Mentre scrivo apprendo che il nome Foa non ha raggiunto il quorum sufficiente in commissione vigilanza. Lo stato profondo dei sudditi atlantisti Forza Italia e PD uniti nella battaglia per difendere gli interessi del loro padrone. Mai potranno permettere una voce democratica che persegue l’intento di una libera ed obbiettiva informazione. Oggi è Foa domani Rossi l’obbiettivo è unico: tappare la voce al dissenso che cresce nel paese.

 

Max Bonelli

 

 

 

 

 

Il gioco del poker geopolitico: dov’è la porta d’uscita? Di Alastair Crooke

un articolo di cinque mesi fa ancora significativo

Il gioco del poker geopolitico: dov’è la porta d’uscita? Di Alastair Crooke

Grazie9

Fonte: Sic Sempre Tyrannis, Alastair Crooke , 29-03-2018

29 marzo 2018

Al centro della presidenza di Trump c’è la nozione di arte della negoziazione . Trump ha detto che poche convinzioni, ma la sua concezione di come negoziare – con un grosso bastone, un effetto leva massimo e “minacce” credibili che induce timore- è al centro della sua presidenza. È alla base del suo programma di dazi statunitensi e protezione dell’occupazione; la sua sregolatezza fiscale, che deve continuare a fornire un offset per i programmi sociali in cambio d’imposta per l’escalation di spesa per la difesa “grosso bastone” [ “grosso bastone”, si riferisce alla politica estera condotta dal presidente Theodore Roosevelt all’inizio del XX esecolo) e mirando a far assumere agli Stati Uniti il ​​ruolo di una vera forza di polizia internazionale; e – ovviamente – è alla base di tutto il suo approccio geopolitico, soprattutto per quanto riguarda l’aumento della posta in gioco con Cina, Corea del Nord e Iran.

Questo concetto alla base della “negoziazione” è essenzialmente transazionale, la migliore pratica è un’operazione one-to-one piuttosto che multilaterale. Ma nel campo della geopolitica, non è così facile. Nei prossimi mesi, ma culminando in maggio (a parità di condizioni), Trump metterà alla prova la sua teoria del trading in un contesto molto diverso rispetto a quello immobiliare di New York. Il summit nordcoreano dovrebbe tenersi in quel momento; il verdetto sull’accordo nucleare con l’Iran dovrebbe essere pronunciato in quel momento; la dichiarazione israelo-palestinese di determinazione degli Stati Uniti è prevista per maggio; il ruolo degli stati sunniti nel contenimento dell’Iran deve essere corretto; e tutte le tariffe punitive contro la Cina saranno decise e promulgate.

E sullo sfondo, ovviamente, ci sarà sempre la determinazione dell’establishment dell’intelligence occidentale per abbattere il presidente Putin e la Russia (l’affare Skripal di Salisbury) e, dando a Putin un pestaggio, fare del male a Trump, naturalmente.

La Russia ha detto che risponderà proporzionalmente alle espulsioni collettive di diplomatici. Chiaramente, alcuni membri della profonda fraternità di stato sperano che la reazione della Russia servirà da pretesto per un nuovo round di denunce del presidente Putin, con l’ulteriore possibilità di estromettere la Russia dal sistema di trasferimento interbancario SWIFT. [Società per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie mondiali]

Quindi questa è la confluenza dei problemi, ma cosa succede se qualcuno indica il bluff? (Possiamo ignorare la Corea del Sud che si arrende allo scambio). Cosa sta succedendo, ancora più importante, se il bluff viene mostrato per quello che è – un bluff, ampiamente e pubblicamente?

Cosa succede se i cinesi, i nordcoreani, gli iraniani e i russi afferrano le nozioni dietro l’ arte della negoziazione e sanno anche che gli Stati Uniti non sono realmente in grado di condurre alle conseguenze il loro bluff – per quanto riguarda le clamorose minacce delle azioni militari e commerciali – almeno? Trump potrebbe essere pronto a “twittare” una dimostrazione di forza come i 57 missili Tomahawk lanciati in Siria. Ma è improbabile che i principali attori del mondo tremino. I tempi cambiano. Il potere militare americano è ora percepito sia attraverso queste capacità sostanziali che per i suoi limiti.

Trump non è probabilmente l’unico a sapere come giocare a poker in giro per grandi temi: non si diventa né il leader indiscusso della Cina, né della Russia, né sanno nulla senza i problemi di dimensione o il rischio.

Ci sono anche altri problemi nella strategia dell’Arte della Negoziazione [il libro di Trump tradotto in francese con il titolo: Trump di Trump]. Il presidente Trump ha formato un gruppo di guerrafondai in termini di politica estera e aggressivo in termini di commercio. È stato descritto da alcuni come “gabinetto di guerra”. Potrebbe essere stato in parte reso per rivestire il presidente di un muscoloso cappotto di nazionalismo americano mentre si sta preparando contro Robert Mueller e le accuse contro di lui di slealtà agli interessi americani. Ma è anche chiaramente inteso a dare peso all’immagine dell’America “che brandisce un grosso bastone”.

Come sostiene la linea dura John Bolton è certamente convincente, tuttavia, è possibile che lo stesso atteggiamento belligerante può minare le credenze di altre parti che l’America è sincero quando si sta negoziando, ma invece di promuovere l’idea che L’America passa solo attraverso le proposte di negoziato principalmente per garantire che un successivo attacco preventivo appare in qualche modo più “legittimo”.

Bolton è una scelta che – correttamente o erroneamente – parla di “cambio di regime” in una luce favorevole (Bolton li augura per la Corea del Nord, l’Iran e la Russia). Non può essere menzionato per la Cina, ma la Cina comprende appieno che è in cima alla “lista dei desideri” di Bolton-Pompeo-Trump, e che la sua “La principale minaccia allo status quo” gode del sostegno bipartisan negli Stati Uniti.

Il rafforzamento dei “falchi” dell’altra parte è il vero pericolo di questo tipo di tattica “big stick”. In effetti, non è facile immaginare il consiglio che il signor Bolton può dare al presidente per il suo vertice con il leader della Corea del Nord (supponendo che tale incontro abbia luogo). Bolton ha ripetutamente affermato di non credere che la Corea del Nord lascerà volontariamente le sue armi nucleari (e potrebbe avere ragione a riguardo) e come risposta alla domanda su quali “carote” Gli Stati Uniti potevano offrire, Bolton non ha certamente affermato alcun trattato di pace, né riduzioni delle pressioni economiche.

Il che ci porta alla domanda della “porta di uscita”. Dopo averlo minacciato con un’azione militare e aver infranto la posta in gioco, cosa succederebbe se Kim Jong Un avesse semplicemente risposto “no”. O, piuttosto, “sì”, ma solo se gli americani sono anche loro denuclearizzati: cioè ritirano il loro scudo nucleare dalla penisola coreana, e se insiste che le forze americane si ritirano completamente dal nord-est Asiatico? Cosa avrebbe fatto allora il presidente Trump? Andrebbe in guerra, uccidendo centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone?

È possibile che Trump bluffi , ma si rivelerà una scommessa molto azzardata se Trump, spinto da Bolton, decollerà qualsiasi evasione. Quale sarà allora la “porta d’uscita” – a parte una dimostrazione di forza, inflitta militarmente su Kim Jong Un? Cina, Iran e tutto il Medio Oriente non lo guarderanno attentamente, per vedere se il signor Trump sta bluffando, o è serio? Se l’America è costretta a fare marcia indietro, il mondo arriverà alle proprie conclusioni.

Questo è il rischio del “poker” geopolitico: quest’ultimo riguarda tanto – se non di più – quello che bluffa di quello che è l’obiettivo (perché qui la posta in gioco non è bancarotta, come nelle precedenti esperienze professionali di Trump, ma il conflitto nucleare): alla fine, tutto il mondo è in bilico.

L’ editoriale di ieri (27 marzo 2018) del Global Times of China , un corpo che rispecchia fedelmente il pensiero ufficiale cinese, testimonia l’indignazione che questo approccio “del pugno di ferro” ha già creato:

“Le espulsioni di diplomatici [seguito al caso Skripal] segnala le intenzioni brutali del West … che le potenze occidentali possono incontrarsi e” condannare “un paese straniero [la Russia] senza seguire le stesse procedure che gli altri paesi rispettano, secondo i principi fondamentali del diritto internazionale, è freddo alle spalle … Queste azioni non sono altro che una forma di intimidazione degli occidentali che minaccia la pace e la giustizia globale … Il modo in cui L’Europa e gli Stati Uniti hanno trattato la Russia è più che oltraggioso. Le loro azioni riflettono la frivolezza e l’avventatezza che sono cresciute fino a caratterizzare l’egemonia occidentale, che può solo contaminare le relazioni internazionali. “

Mentre alcune élite europee accolgono con favore l’espulsione coordinata dei diplomatici russi, l’editorialista del Global Times , parlando a nome dei leader, afferma che la mossa non ha ammorbidito la Cina, ma al contrario, ha rafforzato la sua determinazione a resistere alle minacce occidentali e alle intimidazioni. Ciò ha permesso alla Russia e alla Cina di rafforzare la loro determinazione a lavorare a stretto contatto e “al di là della portata dell’influenza occidentale”. Questo editoriale particolarmente rigido implicherebbe che il “bastone” delle espulsioni – supportato solo da poco più della metà dei paesi dell’UE – abbia paradossalmente reso entrambi gli Stati meno recettivi all’influenza occidentale. (Ha anche approfondito le divisioni in Europa, dal momento che una minoranza significativa sostiene una politica di rilassamento con la Russia).

Nella loro ansia di dimostrare la loro #resistenza a Trump (e il suo cosiddetto “punto debole” per quanto riguarda Putin), i professionisti delle agenzie di sicurezza negli Stati Uniti e in Gran Bretagna hanno lavorato insieme per estrarre dal loro cappello questo sfratto concertato, sotto forma di punizione per il presidente Putin. Ex portavoce del Pentagono (nell’amministrazione Obama), l’ammiraglio John Kirby spiega che gli sfratti sono:

“… accolti a braccia aperte dai nostri alleati europei, perché, a causa di ciò che hanno o non hanno sentito da questo Presidente [cioè il presidente Trump] sul presidente russo Vladimir Putin, essi sono preoccupati che Trump possa essere tenero con Mosca. Ma questo dimostra loro che i professionisti della sicurezza nazionale con cui parlano a porte chiuse hanno tenuto duro e che la politica americana continua secondo le promesse fatte, vale a dire l’indurimento. “

Come disse un diplomatico occidentale a Robin Wright, “un forte messaggio occidentale a Vladimir Putin che non può attaccare un paese occidentale senza creare una reazione ampia da parte di tutti loro “. Indipendentemente, un altro diplomatico americano (ed ex ambasciatore in Russia), William Burns, descrive il messaggio come:

“… in molti modi, la fine di un’illusione, – l’illusione di [Trump] di una specie di grande affare con Putin, sotto il quale Trump sembra aver lavorato per molto tempo. Oggi era un insieme abbastanza completo di misure. Vedremo cosa farà la Russia in risposta “, ha detto. “Noi e i nostri alleati discutiamo costantemente di come stiamo affrontando questa minaccia strategica. Il cestino non è vuoto. “

La fratellanza anglosassone di “professionisti” della sicurezza nazionale che parlano “a porte chiuse” hanno approfittato – sotto lobbying intenso dell’UE, piuttosto che la qualità dell’evidenza – dell’avvelenamento di un ex disertore dell’intelligence russa in una “narrativa” dell’Unione europea che deve ora essere mantenuta, indipendentemente da eventuali indagini o prove successive. La prova è accanto alla domanda: questa è stata l’occasione per chiudere l’illusione di Trump di un possibile rilassamento con la Russia. La storia è tutto ciò che conta. Probabilmente non conosceremo mai l’intera storia.

E il governo britannico portò la “storia” oltre la semplice attribuzione dell’avvelenamento avvelenato di questo disertore alla Russia (e al Presidente Putin personalmente), ma formulò in termini apocalittici un attacco all’arma chimica in e sull’Europa. La Gran Bretagna ha deliberatamente cercato di suggerire un’ulteriore legame con i presunti attacchi di armi chimiche contro i civili in Siria. In breve, la signora May, nel tentativo di raggiungere l’unità nazionale del Regno Unito – di fronte alla polarizzazione e alla frammentazione della politica interna della Brexit – rischia di interrompere tutte le relazioni dell’Occidente con la Russia . L’uso di un’arma chimica, un atto di guerra, in Europa, non consente di riparare le relazioni attraverso la mediazione. L’atto è e dovrebbe essere irrimediabile.

C’è un’aria di disperazione – sia britannica che mondiale – in questa saga. La Russia non può essere trattato in questo modo, come se si trattasse di una mera “potenza regionale” con “PIL inferiore a quello della zona metropolitana di New York” minore, che può respingere, e ancora spingere indietro e spingere ancora e ancora, finché non collassa o si ritira. William Taylor, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, dà un esempio dicendo che l’Occidente possa in qualche modo “costringere la Russia a ripensare la sua strategia. La Russia sta affrontando una crescente crisi economica, subendo le tendenze demografiche, il costo dell’intervento militare straniero in Crimea e una diminuita posizione internazionale. Putin non può letteralmente permettersi un’altra guerra fredda. “

Con un linguaggio aggravato dalla disprezzo e #Resistance viscerale Trump (oltre verso Putin), il rapporto con la Russia peggiorerà, e può andare fuori controllo – soprattutto quando questi sforzi contro la Russia (e contro Cina, Iran e Corea del Nord) praticamente invitare (come esemplificato dal Global Times ), un rivale degli Stati Uniti di prendere in considerazione l’ arte della negoziazione come nient’altro che un bluff elaborato.

“Per ora, è una tattica intimidatoria senza via d’uscita”, ha detto Tom Pickering, un altro ex ambasciatore degli Stati Uniti in Russia. “E dobbiamo cercare l’uscita.”

Fonte: Sic Sempre Tyrannis, Alastair Crooke , 29-03-2018

la fine della storia o l’inizio del liberalismo, di Teodoro Klitsche de la Grange

Questo breve saggio comparve su “Opinione-Mese” di dicembre 1990. Era da poco stato pubblicato il notissimo articolo di F. Fukuyama sulla “Fine della storia”. Lo ripropongo ai lettori di “Italia e il mondo”! perché alcuni spunti, in particolare la “regolarità” (o il presupposto) del politico, tra cui quella dell’amico-nemico, sono connaturali all’uomo, e non possono essere rimossi come pensava Fukuyama. Cosa che i quasi trent’anni decorsi dal crollo del comunismo con le tante guerre (vario tipo) successive hanno confermato. E che il nuovo contenuto della scriminante amico-nemico principale conforta ulteriormente: alla scriminante borghesia/proletariato è succeduta ormai quella popoli/globalizzazione. Oltre a tutte quelle scriminanti meno “universali”, conseguenti al “pluriverso” delle sintesi politiche. Teodoro Klitsche de la Grange

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La fine della storia o l’inizio del liberalismo

 

CONTRO L’ECONOMICISMO, PER UNA ANALISI STRUTTURALE, di Gianfranco La Grassa

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/contro-leconomicismo-per-una-analisi-strutturale

Ho la sensazione che spesso si confonda la polemica (giusta) contro l’economicismo con la critica, a mio avviso ingiustificata, di ogni tipo di analisi che abbia un carattere strutturale, analisi che è invece la forza di teorie del tipo di quella di Marx (ma non solo di questa).
L’economicismo prende spesso la forma che Marx definì feticismo delle merci, con la sostituzione dei rapporti tra cose (nel capitalismo le merci, appunto) ai rapporti tra uomini. In senso lato, si può secondo me parlare di economicismo quando questi ultimi vengono nascosti, in generale, da quantità definite economiche quali prezzi, profitti, quote di mercato, transazioni finanziarie, saggi di interesse e via dicendo. Un ragionamento che mi sembra francamente uno dei più banali in tal senso è, ad esempio, il seguente (assai usato dal vecchio marxismo): “Nell’anno 0 l’x % della popolazione possedeva l’y % del reddito nazionale (o invece del patrimonio nazionale, ecc.); nell’anno 0+t lo stesso x % ne possiede l’y+z %”. Se ne trae allora la conclusione di una evidente iniquità del tipo di società che permette tale crescente maldistribuzione della ricchezza, quindi un evidente sfruttamento dei miseri da parte dei più ricchi, con il corollario che si avvicinerebbe l’ora della ribellione dei primi. E’ meglio poi non diffondersi sull’attuale mito delle quotazioni di Borsa, vista come “Dio” benefico (tutti avrebbero l’opportunità di arricchirsi) o come dominio del “Maligno” (si approssima una crisi spaventosa con sofferenze inenarrabili per le più grandi masse). Credo francamente che Marx sia ben poco responsabile di simili rozzezze e grossolanità. Considerazioni del genere hanno la stessa valenza e profondità delle considerazioni di un individuo, che viva sempre chiuso in una stanza e pensi che l’intero mondo sia piatto come il pavimento della stessa (è quanto è accaduto all’umanità per migliaia e migliaia d’anni, ma ce ne siamo affrancati salvo che nelle analisi degli economisti degli ultimi decenni).
Ben diverso è il caso quando lo studioso dei rapporti tra uomini non si limita a trattarli alla stregua di una cena tra amici, di una riunione di condominio, di un raduno di alpini, di un incontro d’amore, di un incidente d’auto (con testimoni annessi), del ripararsi nel medesimo androne durante un nubifragio; o anche di una conferenza, di un seminario, di una serata di discussione nella sede del partito, dell’organizzazione di una manifestazione o di un attentato, ecc. Ad esempio, il concetto marxiano di modo di produzione definisce una intelaiatura, una mappa, di rapporti sociali a grana grossa che tende a mettere in luce alcune determinazioni decisive di date società (o, in linguaggio marxista, formazioni sociali o forme di società). Va innanzitutto ricordato che, almeno per quanto riguarda la mia interpretazione, detta intelaiatura non è la riproduzione (una sorta di fotografia) dei rapporti sociali secondo la loro presunta struttura reale in dati periodi storici (in realtà, a rigor di logica, tutto dovrebbe modificarsi in continuazione), bensì una costruzione teorica che tende a mettere ordine nel “caos” degli innumerevoli rapporti che gli individui intrattengono tra loro, cercando in definitiva di decifrare quali sembrano essere più decisivi, più influenti ai fini delle dinamiche di quella data società; si formulano così delle ipotesi circa la direzione di movimento e trasformazione di quest’ultima. Si tenga sempre ben presente che si tratta solo di ipotesi, la scienza non può dare certezze; se lo fa con presunzione e arroganza, non è scienza, solo imbroglio e desiderio di dominare altri uomini ignoranti con un finto sapere (questo è oggi l’atteggiamento riprovevole, oltre che ridicolo, di troppi presunti studiosi, soprattutto in campo economico e medico).
Nessuna ipotesi che metta “ordine” può tuttavia essere indicata se non si parte dal riconoscimento che, nella interazione reciproca tra i molti individui componenti la società, si sono andati formando quelli che vengono definiti ruoli (le “caselline” della struttura ipotizzata come la più idonea al “mettere ordine” in questione), e se non si trascelgono le funzioni ritenute principali che tali ruoli sono in grado di svolgere. Da questo punto di vista, il concetto (costrutto) di “modo di produzione” intendeva trasmettere le seguenti informazioni: a) l’esistenza, appunto, di una struttura di ruoli e di relazioni tra ruoli, occupando i quali gli agenti avrebbero formato delle classi (grossi raggruppamenti) sociali; b) l’esistenza di funzioni cui sarebbero adibiti tali agenti delle varie classi, di alcune delle quali si può predicare il dominio e di altre l’essere dominate (anche, eventualmente, con la costruzione di una serie di gradini intermedi) in relazione alle decisioni riguardanti sia gli assetti (economici, politici, ideologici) di quella data formazione sociale che le dinamiche di riproduzione degli stessi.
In mancanza di uno “schema d’ordine” – e il concetto marxiano di “modo di produzione” sperava di ottenerne uno di particolare successo – tutti i discorsi si fanno generici, confusi, rinviano a erratici flussi di potere o ad una sorta di psicologia sociale degli agenti o ad una loro formazione ideologico-culturale di incerta derivazione senza “base” alcuna; il tutto preparato, non a caso, da una presunta “critica dei fondamenti”, che apre la strada ad una serie di considerazioni di tipo sociologistico e/o politicistico, per nulla affatto ininteressanti o superflue, ma che certamente risentono in modo troppo forte delle preferenze e predisposizioni degli autori delle stesse. Per questi motivi, sono contrario a ritenere ogni discorso (eminentemente teorico) intorno alle strutture (di ruoli e funzioni) come puramente affetto da un appesantimento d’ordine economicistico o, in altri casi, definito spregiativamente scientista. L’essere scientificamente rigorosi è un pregio, non un orpello fastidioso da buttare dietro le spalle; a patto, come già rilevato, di non presumere certezze definitive poiché tutto è sempre ridiscutibile. E credo non ci sia niente di male ad invitare almeno alcuni fra i giovani, con cui si dibattono i temi della (miserabile) situazione odierna della nostra società, a dedicarsi alla fatica della scienza. So che è molto impegnativo e difficile, e bisogna perderci tanto tempo, ma è l’unico modo di arrivare “più a fondo” nella critica – l’arma della critica e non la critica delle armi, ben consapevoli che talvolta quest’ultima è inevitabile – ai gruppi sociali, di vario ordine e grado, che si ergono a difesa dell’attuale struttura di rapporti tra dominanti e dominati; anche la lotta CULTURALE contro tali gruppi verrebbe rafforzata da una rigorosa analisi delle loro funzioni. E d’altronde la stessa critica delle armi va adeguatamente preparata e valutata con tale tipo di analisi, mai in modo solo irruento e “viscerale”, che può essere soltanto la facciata per infiammare e condurre allo scontro masse d’uomini, ben sapendo che, sotto l’apparente disordine, deve sempre esserci una STRATEGIA (basata sul calcolo dei probabili rapporti di forza) molto lucida e fredda, pena il disastro e la sconfitta assicurati.
Quando, scrivendo e parlando, manifesto idiosincrasia per la “sinistra”, si fraintende spesso il mio discorso, prendendolo per umorale; se si leggesse attentamente quanto scrivo in tema di ipotesi relative alle diverse frazioni di dominanti e alle loro funzioni riproduttive dell’odierno ordine sociale, ci si renderebbe conto di quanto questa idiosincrasia – manifestata con assai maggior virulenza a parole – sia tributaria di una analisi del tutto “realistica” del “servizio” che detta “sinistra” rende alle frazioni peggiori dei dominanti in questione. Alla fine degli anni ’60 – nel mio periodo prealthusseriano e prebettelheimiano – scrissi un articolo (pubblicato solo nel ’73 nel Che fare?, rivista diretta da Francesco Leonetti) in cui delineavo la progressione futura della politica del PCI in quanto organizzazione che si sarebbe infine messa alle dipendenze di date frazioni di quella che designavo allora ancora come “borghesia monopolistica” (termine invecchiato). Al di là di un’argomentazione ancorata alla tradizione (si tratta di quasi mezzo secolo fa), mi si concederà che feci una previsione molto in anticipo sui tempi; ma potei farla solo in base ad un’analisi, pur ancora rudimentale, che non esito a definire come fondamentalmente scientifica, pur se certo con i termini e l’intelaiatura teorica (marxista) di quei tempi. Qualsiasi analisi “di superficie”, culturalistica e quasi psicologistica, conduceva la stragrande maggioranza dei critici (sessantottini) di allora a parlare, al massimo, di ideologia piccolo-borghese del PCI e cose del genere, rivelatesi del tutto errate.
Non intendo tediare oltre il lettore. Ma invito tutti – naturalmente quelli che leggeranno queste poche righe; molte solo per i lettori di questo luogo un po’ “insano” che è FB – a meditare attentamente sull’uso a volte pretestuoso che si fa di polemiche contro l’economicismo, lo scientismo, ecc. Se qualcuno non si assume la fatica e il tedio della “fredda” scienza, non faremo molti passi in avanti. E quando dico qualcuno, intendo riferirmi non al sottoscritto, che ha ormai fatto la sua parte (o almeno il 95% di essa), bensì ai giovani (pochi invero) che mantengono, quasi miracolosamente, un atteggiamento critico ma non soltanto viscerale e “istintivo”. Si abbia il coraggio di mettere il culo sulla sedia per qualche ora al giorno, e si legga e rifletta, imparando a formulare delle ipotesi teoriche da sottoporre poi ad ulteriori letture e riflessioni, dato che nel campo delle scienze sociali non vi sono laboratori con provette e reagenti o acceleratori di particelle o telescopi giganti, ecc.; e lo scienziato sociale nemmeno può fare la verifica delle sue teorie mediante impegno diretto e immediato in tutte le situazioni (nei vari periodi storici e nei vari luoghi geografico-sociali) di cui ipotizza le strutture e dinamiche. Per difendere una certa causa, non c’è sempre bisogno di mettere bombe e nemmeno di affrettarsi a immaginare ribellioni “popolari” abbellite (e ingigantite) dalla nostra capacità di fantasticare; si può anche far funzionare il cervello che ha questa specifica capacità di “costruire” strutture architettoniche in grado di mappare, di ordinare semplificando, il territorio (sociale non meno di quello naturale) in cui ci si deve muovere, cercando di accrescere l’efficacia delle nostre analisi e interpretazioni. Sempre ipotetiche e soggette alla prova, sia chiaro!

Del Manifesto politico di Carlo Calenda, di Alessandro Visalli

Del Manifesto politico di Carlo Calenda.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2018/07/del-manifesto-politico-di-carlo-calenda.html

pubblichiamo queste interessanti considerazioni di Alessandro Visalli con lo scopo di alimentare il dibattito sulle profonde trasformazioni in corso del panorama politico italiano_Giuseppe Germinario

A fine giugno 2018 l’ex Ministro Carlo Calenda ha proposto apparentemente di sua iniziativa la formazione di un’alleanza repubblicana contro i populismi. L’ex Ministro (governi Renzi e Gentiloni), fresco di tessera del Partito Democratico (6 marzo 2018) viene da una carriera di manager (in società finanziarie, nella Ferrari sotto Cordero di Montezemolo e poi come responsabile marketing di Sky) e di funzionario di Confindustria (assistente del presidente con Cordero da Montezemolo dal 2004 al 2008), successivamente entra in politica, ovviamente ancora con Cordero, quando fonda Italia Futura e nel 2013 quando viene candidato in Scelta Civica. Malgrado la sua mancata elezione Letta lo nomina viceministro allo Sviluppo Economico e viene confermato da Renzi inizialmente come viceministro, poi è promosso ministro.

Con un simile curriculum il figlio di un giornalista e di una regista è naturalmente più che titolato a indicare la strada della sinistra liberale che da lungo tempo ha perso le sue radici novecentesche, per ricercarle più indietro. Con il suo “Manifesto politico”, dunque Carlo Calenda lancia il suo guanto di sfida e dopo indimenticabili tentativi come quello di Pisapia si candida a federare le disperse forze della sinistra contro l’orda dei barbari che avanza.

Detto in questo modo è un progetto del tutto velleitario, ma non è l’unico a ragionare sulla rotazione dell’asse politico dal destra/sinistra del novecento al centro/periferia (o all’alto/basso) dell’era populista che si avvia ancora una volta. Lo ha fatto, aiutato in modo decisivo dal sistema elettorale a due turni, il francese Macron (che è il modello di successo dell’area governista), lo vorrebbe fare lo sconfitto Matteo Renzi, dopo la slavina che lo ha travolto insieme a tutta la sinistra italiana (ma anche la destra berlusconiana gli è andata dietro, per non parlare delle microformazioni di centro confindustriale di cui Calenda è espressione). Si tratta dell’ultimo episodio del disgelo che, dopo molti avvertimenti inascoltati, ha mosso la parte inferiore della stratificazione sociale, portandola ad esprimere nelle urne tutta la sua rabbia e il suo risentimento. Nel 2016 abbiamo avuto la Brexit, poi la sconvolgente elezione di Trump, il referendum italiano, le elezioni francesi con la crescita elettorale di Mélenchon e la scomparsa del Partito Socialista, di recente le elezioni tedesche e l’emergere di canditati francamente socialisti in USA nelle importantissime primarie di New York (sulla traccia di Sanders).

In questo quadro a dir poco confuso leggiamo il Manifesto; l’avvio ha respiro e parte con una franca ammissione:

Caro direttore. Dall’89 in poi i partiti progressisti hanno sposato una visione semplificata e ideologica della storia. L’idea che l’avvento di un mondo piatto, specchio dell’Occidente, fondato su: mercati aperti, multiculturalismo, secolarizzazione, multilateralismo, abbandono dello stato nazionale, generale aumento della prosperità e mobilità sociale, fosse una naturale conseguenza della caduta del comunismo si è rivelata sbagliata.

Dall’ammissione di un errore di prospettiva storica, ovvero di aver creduto alla narrazione della destra americana, che voleva nella sconfitta del suo co-egemone ed avversario storico derivarne la conseguenza del totale controllo, ideologico e pratico-materiale, del mondo, consegue un esito che interessa l’oggi.

Oggi l’Occidente è a pezzi, le nostre società sono divise in modo netto tra vincitori e vinti, la classe media si è impoverita, la distribuzione della ricchezza ha raggiunto il livello degli anni Venti, l’analfabetismo funzionale aumenta insieme a fenomeni di esclusione sociale sempre più radicali.

Questa è la base sociale che determina una netta conseguenza politica che si è manifestata in modo evidente in Italia nelle elezioni politiche di marzo.

La democrazia liberale è entrata in crisi in tutto il mondo e forme di democrazia limitata o populista si vanno affermando anche in Occidente. La Storia è prepotentemente tornata sulla scena del mondo occidentale.

Ma Calenda, mentre sembra prendere atto di una discontinuità radicale, non rinuncia egualmente ad una parte essenziale della narrazione di questi anni: anche se bisogna ammettere a denti stretti che l’occidente popolare si è impoverito, però l’altra metà del mondo si è arricchita. Insomma la globalizzazione ha un segno complessivamente positivo, va in direzione del sol dell’avvenire.

Viceversa la globalizzazione ha portato benessere in Asia e in molti paesi emergenti, dove aumentano i divari sociali e culturali, ma in un contesto di crescita generale. Anche all’interno delle società Occidentali la competizione e i mercati aperti hanno portato allo sviluppo di eccellenze produttive e tecnologiche che sono però ancora troppo poche per generare benessere diffuso.

Chi ha letto qualche libro di Branko Milanovic (ad esempio “Mondi divisi”) sa che neppure questo è così semplice: l’ineguaglianza complessiva è in realtà aumentata dagli anni settanta, colpendo molte economie deboli (gli effetti li vediamo nelle migrazioni), mentre è diminuita in alcune aree nelle quali alla manodopera a buon mercato, disponibile a farsi sfruttare dai capitali occidentali in favore dei consumatori occidentali, si è unita a Stati forti in grado di difendersi dal “Washington Consensus” e dai suoi guardiani (FMI e BM). In sostanza in questi anni i paesi già ricchi sono cresciuti poco (ca. 2% all’anno), quelli di mezzo sono calati, quelli deboli sono precipitati e pochi paesi molto grandi (dunque con Stati molto forti) sono cresciuti moltissimo. Ma di questi (in sostanza Cina e India, insieme ad alcune “tigri asiatiche”) soprattutto alcune aree costiere o comunque fortemente interconnesse. Si è avuto, d’altro canto, un vero e proprio crollo dei paesi ex-ricchi non occidentali, in sostanza sono cresciuti sette paesi (Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Malaysia, Botswana, Egitto) quindi, ovviamente India e Cina, e sono invece declinati molti paesi (Nicaragua, Iran, Angola, Croazia e Serbia, Algeria, Colombia, Argentina, Costa Rica, Messico, Venezuela, Uruguay) per i più vari motivi. Dal punto di vista individuale, invece, sono cresciuti i redditi medio-bassi (in India e Cina soprattutto) e sono calati vistosamente quelli delle classi medie inferiori occidentali, mentre nel decile più ricco i redditi hanno avuto un’impennata. Il mondo, dice Milanovic, ha complessivamente il 77% di poveri, il 7% di classe media e il 16% di “ricchi”.

Insomma, non si tratta di un trionfo neppure sotto questo profilo. Quel che è accaduto è l’effetto di una “grande partita”, un effetto della quale è citato di passaggio nella parte finale del manifesto, che ha visto indebolirsi in modo cruciale le “logiche territorialiste” (Arrighi) di organizzazione del potere, in favore di “logiche capitaliste” che sono rivolte solo all’autoaccrescimento a qualsiasi costo. Questa dinamica si è prodotta per effetto del raggiunto stato di sviluppo delle forze produttive (al termine del cosiddetto “trentennio glorioso” e sulla spinta della decolonizzazione e di altri fattori anche tecnologici) in competizione le une contro le altre e mal contenute dagli involucri statuali che hanno portato a partire dagli ultimi anni sessanta ad una tendenziale riduzione del saggio di profitto per gli investimenti “territoriali”, e quindi al “disimpegno” (Streeck). A questo punto gli agenti economici utilizzando le infrastrutture messe a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, progressivamente hanno spostato gli investimenti sul terreno finanziario e questo si è espanso in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.). La fase finanziaria è quindi da considerare una sorta di cura a breve termine per il “ristagno dei capitali” (secondo la dizione di Hicks) e quindi effetto dell’esistenza di una sovrabbondanza di capitali “liberi”. Ma una sovraccumulazione è intrinsecamente instabile e porta a continue tendenze al crollo, fino a che, secondo la ricostruzione storico-economica di Arrighi, nel “sistema-mondo” non interviene nuovamente la “logica territorialista” ad assorbirli (spesso nelle spese del sistema militare-industriale). Ma perché questo accada è necessario che si riformi un “ordine mondiale”, e al momento questa è la posta del gioco. Secondo questo schema idealtipico Trump sarebbe il primo segnale di una inversione di logica (in questo senso un accenno anche nella recente intervista a Kissinger).

Fino a che non ci sarà un accumulo di forze preminente la fase resterà instabile: da una parte un declinante network globalista (ad occhio costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri.

Il nostro fa parte sicuramente, per formazione, frequentazioni ed inclinazione, del primo, ma vorrebbe anche raccogliere parte della forza che si sta addensando nel secondo polo. Il Manifesto è espressione di questo tentativo.

Ma torniamo a noi; stringendo lo sguardo, per Calenda:

L’Unione Europea è figlia di una fase “dell’Occidente trionfante” da cui ha assunto un modello di governance politica debole, lenta e intergovernativa. L’Eurozona al contrario ha definito una governance finanziaria rigida ispirata da una profonda mancanza di fiducia tra “Sud e Nord”, incapace di favorire la convergenza, gestire gli shock senza scaricarli sui ceti deboli e promuovere la crescita e l’inclusione. Tutte queste pecche sono frutto di scelte degli Stati membri e non della Commissione Europea o dell’Europa in quanto tale.

Non è chiaro cosa sia “l’Europa in quanto tale”, ma la descrizione è sostanzialmente corretta, salvo che la descrizione della scelta è senza soggetto, non sono certo “gli Stati” che hanno scelto, ma una specifica coalizione sociale ed economica che ha governato le scelte dell’Unione e dei suoi principali stati membri ed era rappresentata in Italia dai partiti della seconda Repubblica che hanno perso il 4 marzo. Senza compiere questa analisi, che avrebbe fornito il necessario punto di vista, per condurre una proposta realmente discontinua Calenda passa a guardare direttamente il quadro politico che vorrebbe federare:

La crisi dell’Occidente ha portato alla crisi delle classi dirigenti progressiste che hanno presentato fenomeni complessi, globalizzazione e innovazione tecnologica prima di tutto, come univocamente positivi, inevitabili e ingovernabili allontanando così i cittadini dalla partecipazione politica.

Sembrerebbe che con questa sottolineatura si iscriva nella lunga schiera di chi accusa l’involuzione tecnocratica, espressamente teorizzata negli anni novanta (ad esempio da La Spina e Majone in “Lo stato regolatore”) o temuta (ad esempio da Robert Dahl in uno dei suoi ultimi interventi, o da Peter Mair nel suo ultimo libro postumo). In realtà non lo fa, perché non spiega perché le classi dirigenti, trovandosi bene in esse, hanno presentato come inevitabili e positivi fenomeni nei quali alcuni (loro) vincevano e altri (la maggioranza) perdeva. E perché per farlo hanno cercato per anni di ridurre la democrazia con dispositivi tecnici maggioritari la cui funzione principale non era l’efficienza, ma la possibilità di ricevere una delega da minoranze fattesi maggioranze per opera della legge, da ultimo il 4 dicembre. Ma da qui va ancora più in fondo:

Allo stesso modo l’idealizzazione del futuro come luogo in cui grazie alla meccanica del mercato e dell’innovazione il mondo risolverà ogni contraddizione, ha ridotto la narrazione progressista a pura politica motivazionale. Il risultato è stato l’esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni rappresentanza di chi quella paura la prova. I progressisti sono inevitabilmente diventati i rappresentanti di chi vive il presente con soddisfazione e vede il futuro come un’opportunità.

Come sostengono in molti (ad esempio Luca Ricolfi) quelli che chiama “i progressisti” (non nominandoli come “sinistra”) hanno ristretto la propria base ai soli vincenti della globalizzazione, chi vive bene nelle grandi città, è interconnesso e soddisfatto, e quindi vede il mondo con ottimismo. Ma questi sono una piccola minoranza e diminuiscono sempre di più (per una semplice analisi sociologica si veda Bagnasco “La questione del ceto medio”).

Ed allora?

I prossimi 15 anni saranno probabilmente tra i più difficili che ci troveremo ad affrontare da un secolo a questa parte, in particolare per i paesi occidentali.

La sfida si giocherà da oggi al 2030. In questa decade le forze del mercato, della demografia e dell’innovazione porteranno a una drammatica collisione a meno di non correggerne e governarne la traiettoria. L’invecchiamento della popolazione porterà il tasso di dipendenza tra popolazione in età lavorativa e popolazione in età pensionistica vicino al rapporto di 1 a 1. Ciò avrà due conseguenze rilevanti: l’insostenibilità dei sistemi pensionistici e la diminuzione strutturale del tasso di crescita delle economie. Negli ultimi 65 anni infatti un terzo della crescita è derivata dall’aumento della forza lavoro. L’effetto potenzialmente positivo su stipendi e occupazione della riduzione di forza lavoro (meno persone dunque più domanda e meno offerta) sarà controbilanciata, dall’automazione. Ad un aumento della produttività derivante dall’innovazione tecnologica vicino al 30 per cento entro il 2030, corrisponderà la scomparsa del 20-25 per cento dei lavori che esistono oggi. L’aumento della produttività e la diminuzione dei posti di lavoro non si distribuiranno in modo omogeneo nei diversi settori. Le nuove professioni che si svilupperanno con l’innovazione saranno in grado di coprire i posti di lavoro perduti solo se politiche pubbliche adeguate verranno messe immediatamente in campo.

Se ciò non accadrà aumenteranno le diseguaglianze tra categorie di lavoratori e lo squilibrio tra salari e profitti.

Questa analisi in molte forme diverse sta diventando mainstream (naturalmente nei dettagli e nelle soluzioni si nascondono le differenze, oltre che nella diagnosi delle cause), l’abbiamo appena letta da The Guardian (che è un poco come dire da La Repubblica inglese).

Anche per Calenda la situazione è dunque ad un turning point: la velocità e la magnitudo del cambiamento sarà tale da assomigliare alla crisi che descrive Carl Polanyi nel suo capolavoro (“La grande trasformazione”).

Il cambio di paradigma economico avverrà ad una velocità mai sperimentata nella Storia. Le nostre democrazie, colpite da una gestione superficiale della globalizzazione, non possono sopravvivere a un secondo shock di dimensione molto superiori. Lo scenario che abbiamo sopra descritto richiederà un impegno diretto dello Stato in una dimensione mai sino ad ora sperimentata.

Come accadde allora, anche per Calenda, il desiderio di protezione delle masse sconvolte e minacciate dalla paura richiederà l’intervento dello Stato (nell’intervallo tra le due guerre lo abbiamo avuto in forme diverse in USA e UK, in Germania e Italia, in Russia).

Da qui si passa alla cronaca:

L’Italia anello fragile, finanziariamente e come collocazione geografica, di un occidente fragilissimo, è la prima grande democrazia occidentale a cadere sotto un Governo che è un incrocio tra sovranismo e fuga dalla realtà.

E quindi si passa alla parola d’ordine. Si passa alla missione di federare le forze:

Occorre riorganizzare il campo dei progressisti per far fronte a questa minaccia mortale. Per farlo è necessario definire un manifesto di valori e di proposte e rafforzare la rappresentanza di parti della società che non possono essere riassunti in una singola base di classe.

Un’alleanza repubblicana che vada oltre gli attuali partiti e aggreghi i mondi della rappresentanza economica, sociale, della cultura, del terzo settore, delle professioni, dell’impegno civile. Abbiamo bisogno di offrire uno strumento di mobilitazione ai cittadini che non sia solo una somma di partiti malandati e che abbia un programma che non si esaurisca, nel pur fondamentale obiettivo di salvare la Repubblica dal “sovranismo anarcoide” di Lega e M5s.

Dunque quel che Calenda propone è una alleanza interclassista che superi il partito classista (dall’alto) al quale si è da poco iscritto e che abbia l’ambizione di sottrarre lo spazio di difensori del popolo interpretata dalle forze emerse come vincitrici dal voto. Quelle forze contro le quali si è alzata, forte, la reazione della difesa di classe sotto vesti europeiste ed interpretata dal Presidente (lo abbiamo commentato qui), ma che poi hanno dato comunque forma ad un governo con profonde differenze. In estrema sintesi la mia opinione è, diversamente da Calenda, che il paese il 4 marzo si sia spaccato su una linea che attraversa le sue borghesie e, insieme, che lo attraversa geograficamente. Si è manifestata la defezione che covava da tempo di parte della borghesia nazionale verso quella componente della borghesia coinvolta più profondamente con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Peraltro la precisa coincidenza di un attacco a fondo alla logica mercantilista, condotto da Trump, e della defezione della borghesia nazionale da questa in ultima analisi danneggiata è davvero singolare. Quella che al momento governa il paese con un consenso che sfiora il 60% è una strana coalizione che va: dalle Piccole e Medie Imprese, impegnate nel mercato interno e poco interconnesse con i mercati globali; ai professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati; agli operai e impiegati di detti settori; ai precari e, infine, alla parte più attenta dei disoccupati. Resta fuori da questa coalizione: la parte meno attenta e più disperata, che va sull’astensione; la media borghesia tutelata e parte del mondo dei pensionati più abbientil’alta borghesia e la grande industria internazionalizzata con parte dei suoi lavoratori che rappresentano l’aristocrazia del lavoro. Gli ultimi strati continuano a garantire il loro sostegno ai partiti tradizionali, impegnati nel progetto mondialista ed europeo, ma ormai si dividono più o meno un 40-45% del Parlamento e almeno una decina di punti in meno nel paese.

Certo, questa coalizione “populista” (che in realtà unisce due populismi molto diversi) è come l’acqua e l’olio, instabile e contraddittoria: gli interessi degli uni, PMI e professionisti, in quanto datori di lavoro debole, potenzialmente sono in aperto conflitto con quegli degli altri, operai e precari, bisognosi di sostegno per recuperare forza negoziale.

In questa potenziale frattura tra la protezione sociale e la protezione individualista Calenda pensa probabilmente di potersi inserire, recuperando spazi di consenso, anche oltre la “coalizione della rendita” evocata abbastanza chiaramente dal Presidente Mattarella nel suo discorso (vedi “Post-democrazia e crisi italiana”). Pensa in sostanza di ripetere in forma diversa l’operazione, fatta da Salvini, di saldare un più largo consenso a partire dall’egemonia di alcuni interessi e di una cultura ben radicata nella piccola borghesia con inclinazioni nazionaliste. Quindi di riaggregare i ceti popolari che sono sfuggiti ai Partiti di centro europeisti intorno ad una operazione egemonizzata questa volta da quella “coalizione della rendita” che Mattarella vuole mobilitare dall’alto. Una operazione politica, quindi, che parli sì di protezione e che recuperi l’interesse nazionale solo nei limiti compatibili con i processi di accumulazione resi possibili dai mercati aperti e dal processo di integrazione europeo.

Si tratta di un compito realisticamente impossibile: l’apertura implica messa in competizione e questa determina necessariamente la retrocessione dei diritti e delle garanzie accumulate a partire dal primo “momento Polanyi” nella prima parte del novecento. Ciò almeno per qualche decennio e fino a che la maggior parte degli abitanti del mondo non si sia incontrata a mezza strada con il primo miliardo (come arriva onestamente ad ammettere Branko Milanovic nel suo ultimo libro “Ingiustizia globale”). È chiaro che la prospettiva di Milanovic pone insormontabili problemi sia di tenuta democratica, dato che la rivolta continuerà, sia di tenuta ecologica, ma la soluzione di Calenda è di gran lunga al di qua del necessario.

Calenda non sembra voler prendere atto che non si può avere insieme la conservazione delle élite estrattive, alle quali è legato, e la protezione dei perdenti che queste naturalmente producono. Per dare gambe a questo inane tentativo delinea quindi un programma fin troppo dettagliato per un “Manifesto”:

Le priorità di questo programma sono:

Tenere in sicurezza l’Italia. Sotto il profilo economico e finanziario: occorre chiarire una volta per tutte che ogni riferimento all’uscita dell’Italia dall’euro ci avvicina al default. Deficit e debito vanno tenuti sotto controllo, non perché ce lo chiede l’Europa ma perché è indispensabile per trovare compratori per il nostro debito pubblico.

Sotto il profilo della gestione dei flussi migratori proseguire il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi. Accelerare il lavoro sugli accordi di riammissione e gestione dei migranti nei paesi di transito e origine secondo lo schema del “Migration Compact” proposto dall’Italia alla UE. Creare canali di ingresso regolari e selettivi.

Occorre infine ribadire con forza la nostra appartenenza all’Occidente, all’alleanza atlantica e al gruppo dei paesi fondatori dell’Ue, come garanzia di stabilità, sicurezza e progresso.

L’architrave è posto all’inizio, senza mettere in questione la finanziarizzazione dell’economia e dunque le sue “formazioni predatorie” (definizione di Saskia Sassen), e restando ben allineati con l’egemone sfidato, la gestione dell’immigrazione appare solo una concessione allo spirito populista. In un altro quadro potrebbe essere un elemento di una strategia di riequilibrio tra lavoro e capitale indispensabile per riattrarre valore nella società.

Proteggere gli sconfitti. Rafforzando gli strumenti come il reddito di inclusione, nuovi ammortizzatori sociali, le politiche attive e l’apparato di gestione delle crisi aziendali in particolare quando causate dalla concorrenza sleale di paesi che usano fondi europei e i vantaggi derivanti da un diverso grado di sviluppo per sottrarci posti di lavoro.

Approvare il salario minimo per chi non è protetto da contratti nazionali o aziendali.

Allargare ad altri settori fragili il modello del protocollo sui call-center per responsabilizzare le aziende e impegnarle su salari e il no a delocalizzazioni.

Alcune misure sono opportune, ma non a caso nella scelta tra reddito paternalisticamente concesso nei limiti della “inclusione” e gli schemi di lavoro garantito che sono portati avanti nelle componenti più consapevoli della sinistra socialista, sceglie decisamente la soluzione compatibile con l’impostazione liberista (proposta anche dallo stesso Milton Friedman).

Investire nelle trasformazioni, per allargare la base dei vincenti, su infrastrutture materiali e immateriali (università, scuola e ricerca). Finanziare un piano di formazione continua per accompagnare la rivoluzione digitale. Proseguire il piano impresa 4.0 e portare a 100.000 i diplomati degli Istituti Tecnici Superiori. Implementare la Strategia Energetica Nazionale e velocizzare i 150 miliardi di euro previsti per raggiungere i target ambientali di CoP21. Aumentare la dotazione dei contratti di sviluppo e del fondo centrale di Garanzia per ricostituire al Sud la base industriale che serve per rilanciarlo. Rivedere il codice degli appalti per velocizzare le procedure di gara. Mantenere l’impegno sulla legge annuale per la concorrenza. Prevedere un meccanismo automatico di destinazione dei proventi della lotta all’evasione fiscale alla diminuzione delle tasse, partendo da quelle sul lavoro.

Da questo punto il quadro dell’ispirazione ideologica si chiarisce: non si esce dallo schema della “terza via”, si tratta di superare una crisi determinata dall’indebolimento dei rapporti di forza sociali e dalla debolezza della domanda che ne consegue, intervenendo solo a livello individuale, in continuità con le politiche liberiste, con riduzioni delle tasse e politiche dell’offerta.

Promuovere l’interesse nazionale in UE e nel mondo. Riconoscendo che non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea di nazione. Al contrario abbiamo bisogno di un forte senso della patria per stare nel mondo e in UE. Partecipando al processo di costruzione di una Unione sempre più forte, in particolare nella dimensione esterna (migrazioni, difesa, commercio), tra il nucleo dei membri storici ma ribadendo la contrarietà all’inserimento del fiscal compact nei trattati europei e all’irrigidimento delle regole sulle banche. Promuovere la rimozione dei limiti temporali sulla flessibilità legata a riforme e investimenti approvata sotto la Presidenza italiana della UE. Sostenere la conclusione di accordi di libero scambio per aprire nuovi mercati al nostro export, ma mantenere una posizione intransigente sul dumping rafforzando clausole sociali e ambientali nei trattati.

La contraddizione che deriva dal voler tenere insieme, sotto egemonia dall’alto, interessi contrapposti si manifesta in sommo grado in questo passaggio, nel quale l’astuto richiamo del concetto di nazione e financo di patria è reso incongruamente funzionale alla “costruzione di una unione sempre più forte”, con determinazione di elementi essenziali di politica estera (e dunque di posizionamento nella distribuzione delle risorse e nella tutela differenziale dei diversi settori e attori) in comune. Calenda non sembra assolutamente comprendere che la capacità di perseguire i propri interessi implica la tutela di uno spazio di indipendenza proprio nella politica estera e di difesa; non esistono politiche neutre.

Ancora più contraddittoria la pretesa di aprire gli accordi di “libero scambio” e contemporaneamente non farlo, per “mantenere una posizione intransigente sul dumping”. Il mondo è un luogo nel quale le regolazioni e le condizioni materiali sono enormemente diverse. Metterlo in contatto senza filtri significa fare scambio “libero”, non farlo significa “proteggersi”. Calenda sceglie il primo, ma se ne vergogna e cerca di coprirlo con qualche retorica a poco prezzo.

Conoscere. Piano shock contro analfabetismo funzionale. Partendo dalla definizione di aree di crisi sociale complessa dove un’intera generazione rischia l’esclusione sociale. Estensione del tempo pieno a tutte le scuole. Programmi di avvio alla lettura, lingue, educazione civica, sport per bambini e ragazzi. Utilizzo del patrimonio culturale per introdurre i bambini e i ragazzi all’idea, non solo estetica, di bellezza e cultura. E’ nostra ferma convinzione che una liberal democrazia non può convivere con l’attuale livello di cultura e conoscenza. L’idea di libertà come progetto collettivo deve essere posta nuovamente al centro del progetto di rifondazione dei progressisti.

Qui siamo esattamente al “istruzione, istruzione, istruzione” di Tony Blair.

Il crocevia della Storia che stiamo vivendo alimenta paure che non sono irrazionali o sintomo di ignoranza. Abbiamo davanti domande epocali a cui nessuno può pensare di dare risposte semplicistiche.

  • La tecnologia rimarrà uno strumento dell’uomo o farà dell’uomo un suo strumento?
  • lo spostamento di potere verso oriente, conseguente alla globalizzazione innescherà una guerra o avverrà, per la prima volta nella Storia, pacificamente?
  • Le nostre società sono destinate a una stagnazione secolare?

Occorre affermare con forza che la paura ha diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei cittadini.

La competenza non può sostituire la rappresentanza come l’inesperienza non può essere confusa con la purezza. Questo vuol dire prendersi cura del presente e gestire le transizioni piuttosto che idealizzare il futuro, esorcizzare le paure e affidarsi alla teoria economica e alla meccanica del mercato e dell’innovazione tecnologica, come processi naturali che rendono ogni azione di Governo inutile e ogni processo dirompente inevitabile.

Per fare tutto ciò occorre tornare ad avere uno Stato forte, ma non invasivo che garantisca in primo luogo ai cittadini gli strumenti per comprendere i processi di cambiamento e per trovare la propria strada NEI processi di cambiamento, ma che non butti i soldi pubblici per nazionalizzare Alitalia o Ilva. Stato forte vuol dire burocrazia efficiente e dunque una rivoluzione nel modo di concepire, regolare e retribuire la pubblica amministrazione. L’Italia ha bisogno poi di un’architettura istituzionale che coniughi maggiore autonomia alle regioni con una clausola di supremazia dell’interesse nazionale che consenta di superare i veti locali.

In questo ultimo passaggio dello Stato Forte, ma debole (ovvero non invasivo) e orientato solo a consentire ai cittadini di farsi strada da soli, di trovare ognuno la “propria” strada, è contenuta ancora una volta l’essenza del pensiero liberal che Clinton, Schroder e Blair (appena preceduti da Mitterrand) promossero negli anni novanta. In questi passaggi è manifesta la direzione egemonica che si cerca di rimettere in piedi, un progetto guidato dalla solita borghesia che ce l’ha fatta, che sempre ce la fa, ma con uno sguardo “compassionevole”.

Esiste un altro nemico da battere ed è il cinismo e l’apatia che di una larga parte della classe dirigente italiana. Dai media alla politica, dalle associazioni di rappresentanza agli intellettuali l’idea che ogni passione civile sia spenta e che si possa contemplare “Roma che brucia” con la “lira in mano” godendosi lo spettacolo, è diventata una posa tanto diffusa quanto insopportabile. La battaglia che abbiamo di fronte si vince anche sconfiggendo il cinismo dei sostenitori di un “paese fai da te”.

Si può fare: L’Italia è più forte di chi la vuole debole!

In definitiva ad una prima impressione quella di Calenda può sembrare un’analisi coraggiosa ed un programma riformista forte, ma si tratta solo di una minestra riscaldata. Una minestra senza sapore con un vago colorito anni novanta, nella quale la parola “sinistra” non appare neppure una volta e con buona ragione.

Cosa c’è di credibile in un programma che si vorrebbe a difesa dei meno protetti dalla globalizzazione e contro il governo impolitico dei tecnici e che poi elenca minuziose micropolitiche di cui non lascia intravedere la direzione? Nel quale l’obiettivo appare meramente riattivare lo sviluppo senza andare ad incidere nell’assetto del mondo che questo sviluppo impedisce per i più?

Del resto se l’analisi si svolge, a ben vedere, tutta entro le coordinate culturali del liberismo imperante, al più filtrato dalla fallimentare ipotesi della “terza via”, la soluzione non può distanziarsi in modo sostanziale dallo schema: accettazione della competizione e sostegno a chi ce la può fare, contenimento con piccolissime concessioni per gli altri.

Ma per evitare che si arrivi a ripetere le tragedie del novecento serve molto più della minestra riscaldata e del liberalismo compassionevole.

Occorre ben altro: bisogna svolgere politiche coordinate sia contro il mercantilismo di Bruxelles e per il recupero di quote di sovranità fiscale (che implica quella monetaria), sia per ripristinare la forza del lavoro nei confronti del capitale (grande e piccolo). È indispensabile riposizionare l’economia del paese verso il mercato interno anche con opportune forme di protezione e riequilibrando la distribuzione tra salari e profitti. Bisogna farla finita con il “libero commercio”, nel senso che il commercio deve compiersi su piani di effettiva parità, e per questo occorre definire accordi e stabilire regole e condizioni. Bisogna immediatamente riassorbire parte dell’esercito di riserva (continuamente alimentato dall’immigrazione, che va modulata in funzione delle capacità di civile assorbimento ed integrazione, e accuratamente coltivato dalle politiche di austerità) e garantire a tutti i diritti sociali, dove per tutti si deve intendere anche gli immigrati presenti sul territorio nazionale. I diritti sociali si devono rendere possibili in primo luogo attraverso un piano straordinario di opere pubbliche (edilizia popolare, infrastrutture, scuole e servizi alle famiglie), di protezione del territorio dalle vulnerabilità, di conversione energetico-ambientale dell’economia, e quindi di potenziamento del pubblico impiego con almeno due milioni di nuove assunzioni a tempo pieno (a partire proprio dalle strutture di accoglienza e sostegno che devono essere pubbliche, per sottrarle alle logiche del profitto altamente finanziarizzato contemporaneo).

Ma ciò non può certo essere compiuto da questa coalizione, né dalla “alleanza repubblicana” proposta da un davvero poco credibile Carlo Calenda.

Dovremo aspettare che qualcuno prenda da terra la bandiera e trovi il coraggio di alzarla, come altrove sta avvenendo.

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