Il 1989 Visto da Mosca: declino o rinascita?, traduzione di Giuseppe Germinario

L’Europa tre decenni dopo l’apertura della cortina di ferro

Il 1989 Visto da Mosca: declino o rinascita?

Di  Cyrille BRET , 22 settembre 2019  Stampa l'articolo  lettura ottimizzata  Scarica l'articolo in formato PDF

Cyrille Bret è un alto funzionario e geopolitico. Ispettore dell’amministrazione, ha lavorato nelle industrie aeronautiche, digitali e ora è di stanza in un gruppo di difesa pubblica. Dopo la formazione all’Ecole Normale Supérieure, alla Sciences Po e all’Ecole Nationale d’Administration, è stato revisore contabile presso l’Istituto di studi di difesa nazionale superiore (IHEDN).

C. Bret ci offre una magistrale dimostrazione delle rotture e inversioni degli ultimi tre decenni in Russia. Diamo un’occhiata a Mosca per capire meglio l’Europa geografica – cioè la Russia inclusa, almeno fino agli Urali – da non confondere con l’Unione Europea, che è comunque vicina ad essa.

1989, un evento per la Russia?

Visto da Mosca l’anno 1989 è molto diverso da quello celebrato a Berlino e Parigi. Considerato dalla capitale dell’URSS e poi dalla Russia, il 1989 è una delle tappe che guidano lo stato sovietico dall’apice del suo potere alla sua dissoluzione, nell’arco di un decennio. Dal 1979, anno dell’intervento sovietico in Afghanistan nel 1991, che consacrò lo scioglimento dell’Unione, fino al 1985, data dell’adesione di Mikhail Gorbachev alla carica di segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche si stava avviando da potenza mondiale a perdente geostrategico e al disastro economico. Tuttavia, visto da Mosca, l’anno 1989 segna anche un nuovo inizio: è l’anno delle prime elezioni libere dalla rivoluzione del 1917.

È da molto tempo che dobbiamo cogliere la giusta posizione di quest’anno nel passato della Russia– e nel suo immediato futuro. A livello regionale, il 1989 segna il fallimento della strategia europea che l’URSS ha messo in atto dopo la seconda guerra mondiale: il 1989 è la replica inversa della vittoria del 1945 (I) anno in cui l’URSS è presente ovunque nell’Europa orientale e in Germania. Sul fronte interno, questo è il punto in cui le riforme di Mikhail Gorbachev segnano il tempo e annunciano la fine del regime comunista: il 1989 sta preparando il 1991 (II). Infine, nelle rappresentazioni collettive, è l’anno che inaugura l’indebolimento degli anni ’90 e prepara la rinascita del potere russo: il 1989 annuncia il 1999, data di ascesa al potere di Vladimir Putin. Se il 1989 è un momento chiave nella storia dell’Europa, è anche una data importante per la Russia (III).

Vista di Mosca del 1989: declino o rinascita?
Cyrille Bret
Cyrille Bret è un alto funzionario e geopolitico

I. Dal 1945 al 1989: la fine dell’egemonia sovietica nell’Europa orientale

Il 1989 è un evento europeo prima di essere un evento intrinsecamente russo. È a Berlino, Bucarest, Budapest, Vienna o Vilnius che si svolgono i principali eventi dell’anno. Per la Russia , questo è il momento in cui l’Europa centrale e orientale esce dalla sua alleanza militare, politica, economica e culturale. Inizia quindi un movimento di “de-radicalizzazione del fianco orientale dell’Europa” che porterà all’estensione della NATO e all’ampliamento dell’UE in questa zona di influenza russa.

La rapida democratizzazione dell’Europa orientale

Numerosi eventi nel 1989 segnano la fine del potere mondiale per l’Unione Sovietica. Prima in Asia centrale: il 15 febbraio 1989, le autorità sovietiche annunciarono il ritiro definitivo delle loro truppe dall’Afghanistan. È la fine di un’operazione militare lunga un decennio e un’ammissione di fallimento. Questa campagna sovietica in Afghanistan (1979-1989) è soprannominata “Vietnam dell’URSS”. In effetti, una superpotenza militare e nucleare non è riuscita a sostenere un regime comunista in questo paese al confine con l’URSS. Questa confessione di impotenza geopolitica porta a una serie di eventi che portano alla disintegrazione, in un anno, dell’egemonia sovietica su quello che fu chiamato il blocco orientale. La caduta – o apertura – del muro di Berlino , 9 novembre 1989, è il punto più alto di questo vasto riflusso. Già in primavera, il 2 maggio 1989, l’Ungheria comunista ha aperto i suoi confini all’Austria, avamposto dell’Occidente, ha riabilitato Imre Nagy, una figura di resistenza all’URSS nel 1956, e ha posto fine al regime comunista il 23 Ottobre 1989 proclamando la Repubblica. Nell’agosto 1989 la Polonia non ha più un primo ministro comunista: Tadeusz Mazowiecki, membro di Solidarnosc, accede alla premierato. E l’effetto “palla di neve” è impressionante: i cittadini della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) stanno fuggendo dal regime comunista da Ungheria e Austria. In questo contesto di rapido ritiro sovietico, Mikhail Gorbachev, che è venuto a Berlino Est per celebrare il 40 ° anniversario della DDR, annuncia che nessun intervento armato frenerà il movimento al di fuori del comunismo. Ciò ha provocato la caduta del muro di Berlino, la fine della DDR e, successivamente, la riunificazione tedesca. Di fronte a questa passività esplicita e volontaria, le domande sono molte: è un trucco per riprendere in seguito il controllo dell’area? O un’ammissione di debolezza? o una strategia per superare la temporanea debolezza dell’URSS?

La guerra fredda è stata esplicitamente chiusa dal presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e dal leader sovietico Mikhail Gorbachev il 2 dicembre 1989 al vertice di Malta. Con la “rivoluzione rumena”, si conclude – tra il 16 e il 25 dicembre – l’anno 1989 smantellando un regime comunista alleato dell’URSS sul versante sud-orientale dell’Europa. Il suo sviluppo è sintomatico della fuga storica del 1989: di fronte ai movimenti di protesta a Timisoara nell’ovest del paese, la dittatura Ceausescu cerca di resistere organizzando, il 21 dicembre 1989, una manifestazione a sostegno del regime. Si ribella ai suoi organizzatori, costringendo il dittatore a fuggire, per essere perseguito e poi giustiziato, con sua moglie, Elena Petrescu, il 25 dicembre 1989.

Per l’URSS, il 1989 è un anno di inversione: quando inizia l’anno, il blocco orientale viene sfidato ma rimane al suo posto. Alla fine dell’anno, questo blocco è in declino.

Il fallimento della strategia stalinista della protezione occidentale

Per Mosca, gli eventi del 1989 hanno posto fine alla strategia europea ideata e messa in atto da J. Stalin sulla scia della seconda guerra mondiale. Il suo scopo era in effetti quello di costituire una fortezza comunista avanzata nell’Europa centrale e orientale. Con la presenza delle sue truppe sul suolo di questi stati, l’URSS aveva organizzato l’istituzione di “democrazie popolari”, ovvero regimi comunisti non democratici in Polonia (1944-1947), Romania (1947) Cecoslovacchia (Coup de Praga nel febbraio 1948), Ungheria (1949), ecc. La “liberazione” di questi paesi da parte delle truppe sovietiche contro la Germania nazista aveva permesso all’URSS di esercitare una vera amministrazione fiduciaria su quegli stati ridotti al ruolo di satelliti. Questa è la strategia della “cortina europea” per l’URSS,

Sul fronte economico, l’URSS aveva imposto la creazione del Comecon o Council for Mutual Economic Assistance (CMEA) per contrastare il Piano Marshall del 1947. Questa organizzazione internazionale stabilì una divisione del lavoro e una divisione dei ruoli tra i diversi Stati comunisti della regione. La sua missione era soprattutto quella di diffondere gli strumenti dell’economia pianificata sovietica, di organizzare il commercio tra questi Stati e l’URSS. A causa del ruolo centrale della valuta sovietica, del rublo e della dipendenza tecnologica dall’URSS, il Comecon permise all’URSS di assumere il ruolo di leader economico nell’Europa orientale. Se il CMEA non scompare ufficialmente fino al 1991, il 1989 segna la sua vera fine a causa della scomparsa dei regimi comunisti nelle principali economie della regione.

Sul versante militare, il Patto di Varsavia era lo strumento dell’egemonia sovietica nell’Europa centrale e orientale. Basato su un trattato multilaterale di amicizia e assistenza tra gli alleati dell’URSS, il Patto riunì, sotto la guida dell’Armata Rossa, le varie forze armate delle democrazie popolari. Nel 1989, è ancora in vigore ed è stato rinnovato per vent’anni nel 1985. Sebbene il Patto sia stato ufficialmente sciolto il 1 ° luglio 1991, è gradualmente scomparso nel 1989. In effetti, queste trasformazioni politiche hanno segnato il fine della cosiddetta dottrina della “sovranità limitata”, la cui paternità spetta a L. Breznev. L’evoluzione di un regime comunista verso un regime liberale è considerata a Mosca come una questione di interesse comune per tutti i regimi comunisti.

In breve, nel 1989 la rapida democratizzazione dell’Europa centrale e orientale segnò la fine di un progetto geopolitico di istituzione di un blocco e una zona cuscinetto tra la Russia e il resto dell’Europa. Si apre la strada a una “occidentalizzazione” di questa parte del continente. Si svolgerà già negli anni ’90.

II. Dal 1985 al 1991 fino al 1989: tentativi di riforme interne allo scioglimento dell’URSS

Per la politica interna sovietica e russa, il 1989 si avvicina secondo una sequenza più ampia che inizia con l’avvento di Mikhail Gorbachev al potere l’11 marzo 1985 e termina alla fine di dicembre 1991 con lo scioglimento ufficiale da parte di quest’ultima dell’URSS . Il 1989 replica quindi alla Rivoluzione del 1917.

Il regime comunista può riformarsi?

Consapevole delle debolezze economiche dell’URSS e della sua incapacità finanziaria di sostenere il costo della corsa agli armamenti con gli Stati Uniti, Mikhail Gorbachev è diventato Segretario Generale del Partito Comunista nel 1985. Ha lanciato un’ondata di riforme interne in URSS con l’obiettivo di consolidare il regime comunista e promuoverlo in Occidente. Sulla scena internazionale, dà priorità al disarmo simmetrico con gli Stati Uniti al fine di alleviare la pressione di bilancio che i programmi di armamento esercitano sulle finanze pubbliche sovietiche. Ma a livello nazionale, il 1986 segna l’inizio dei programmi di liberalizzazione politica ed economica. Il programma di “Trasparenza” (”  glasnost”)porta a misure ad alto contenuto simbolico: revoca dei divieti su molte produzioni culturali tra cui ”  Doctor Jivago  ” di Boris Pasternak; fine dell’esilio interno del fisico dissidente Andrei Sakharov a Gorkij.

Nel campo strettamente politico, la composizione del Partito Comunista viene rinnovata per portare i “riformatori” nei ruoli principali. In termini economici, la “ristrutturazione” o “ricostruzione” (”  perestrojka  “) impegna un nuovo NEP: i prezzi sono parzialmente liberalizzati, le società private sono autorizzate e emerge un intero settore informale. Questo movimento accelera nel 1989: per eleggere i due terzi dei deputati al Congresso dei deputati dell’Unione Sovietica, i cittadini dell’URSS possono scegliere tra diverse liste e vedere garantita la segretezza del voto. Questo è uno sviluppo decisivo per il Paese.

Il primo periodo delle riforme di Gorbachev assume un tono euforico … soprattutto all’estero: la ”  Gorbymania  ” in effetti ammalia gli Stati Uniti e in particolare l’Europa occidentale nel 1987. Tuttavia, la popolarità interna del leader sovietico è ben minore, a causa dei limiti delle sue riforme  [ 1 ] .

I limiti delle riforme e la fine dell’impero sovietico

Tuttavia, a partire dal 1989, iniziano a comparire i limiti delle riforme avviate. Sul fronte economico, le disuguaglianze si stanno allargando e l’inflazione sta aumentando, mettendo in discussione il patto sociale sovietico con i quali sono stati garantiti l’occupazione per tutta la vita, l’accesso a servizi pubblici a basso costo e l’uguaglianza sociale (relativa) in cambio di obbedienza politica. A livello rigorosamente politico i movimenti di scissione e secessione si moltiplicano. Sebbene Mikhail Gorbachev sia stato eletto presidente dell’URSS nel 1990, in parlamento i suoi sostenitori sono stati sopraffatti dai nazionalisti e dai liberali che preferivano la terapia d’urto. Così, già nel 1990, la Repubblica socialista federale russa della Russia è guidata da Boris Eltsin, la cui autorità è in aperta competizione con quella del leader sovietico. La tensione tra i riformatori liberali guidati da Eltsin e i conservatori sovietici sostenuti dall’esercito viene gradualmente esacerbata sulla scena politica. Culmina a terra e con le armi in mano nel tentativo di colpo di stato militare del 20 agosto 1991. Sostenuto dal presidente degli Stati Uniti, il presidente russo Eltsin si impone, eclissando il riformatore comunista e sospendendo il Partito comunista nel novembre 1991. La scacchiera politica russa, il movimento di decomunistizzazione iniziato timidamente nel 1989 termina, pochi mesi dopo, alla fine dell’URSS.

Nelle Repubbliche Federate, il 1989 vede le forze centrifughe risvegliate dal  glasnost  . Le aspirazioni all’indipendenza si manifestano in una forma che segna l’Europa. Negli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), le manifestazioni iniziate nel 1987 hanno avviato il processo di decomunistizzazione e di indipendenza nazionale. Questi movimenti pacifisti culminarono il 23 agosto 1989 formando una vasta catena umana, la Via Baltica, che univa le tre capitali (Tallin, Riga, Vilnius)oltre 500 chilometri. Questo è l’atto fondante di un processo di indipendenza per la Lituania (11 marzo 1990), l’Estonia (30 marzo 1990) e la Lettonia (4 maggio 1990). Durante il periodo dal 1989 al 1991, in questa parte dell’URSS, gli scontri armati sono strettamente evitati, ma le tensioni economiche e politiche sono più alte, specialmente in Lituania dove il blocco economico sovietico è rigoroso.

Il movimento di secessione degli Stati baltici lancia una spirale centrifuga che culmina con lo scioglimento dell’Unione Sovietica l’8 dicembre 1991. Nel Caucaso, l’Armenia diventa indipendente (23 agosto 1990), come la Georgia (9 aprile 1991) e Azerbaigian (18 ottobre 1991). L’Ucraina e le repubbliche dell’Asia centrale lasciano l’Unione tra il 1990 e il 1991. Che si tratti della strategia risoluta della Russia contro i costi dell’eccessiva estensione imperiale o dell’abbandono forzato, la Russia si sta liberando da queste periferie imperiali e sta permettendo a questi stati di allontanarsi dalla sua sovranità secolare. La fine dell’URSS, avviata dai movimenti del Baltico nel 1989, fu consacrata dalle dimissioni di Mikhail Gorbachev dalla sua posizione di Presidente dell’Unione Sovietica il 25 dicembre 1991 … che non esiste da due settimane (8 Dicembre 1991). È il Commonwealth of Independent States (CIS) che sostituisce l’Unione con una confederazione con legami istituzionali piuttosto ampi. La Repubblica, poi Federazione Russa, perde il posto centrale che occupava nel sistema istituzionale dell’URSS.

In sintesi, come visto da Mosca, in termini di politica interna, il 1989 è l’anno cardine di una rivoluzione al tempo stesso politica, territoriale ed economica. Lungi dal salvare il regime comunista adattandolo, il ”  glasnost” e l’introduzione di una dose di democrazia nelle istituzioni sovietiche hanno accelerato la caduta del PCUS. Allo stesso modo, la rinuncia alla violenza armata contro i movimenti centrifughi nel 1989 ha accelerato il processo di decomposizione.

III. Dal 1989 al 1999: dal declino al revanchismo russo

Se si considera l’immediato futuro della Russia, il 1989 apre un doloroso decennio che termina nel 1999 con l’ascesa di Vladimir Putin alla carica di presidente ad interim, eletto poi l’anno successivo.

Sul fronte economico, il fallimento delle “riforme” del periodo 1987-1989 porta a un’era di brutale liberalizzazione chiamata “terapia d’urto” in cui l’inflazione arriva fino al 1000% all’anno, dove esplode la disoccupazione e dove molte industrie statali scompaiono. Le disuguaglianze esplodono e lo stato sociale viene smantellato privando gran parte della popolazione russa dell’accesso all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alle pensioni o all’energia. D’altra parte, alcune considerevoli fortune private sono costituite in pochi mesi dagli oligarchi che acquistano a prezzi economici i fiori all’occhiello dell’economia diretta nella metallurgia, negli idrocarburi e persino negli armamenti. Il crollo economico e il saccheggio delle risorse culminarono nel 1998 quando la Russia fu colpita da una violenta crisi economica.

Nella sfera domestica, la contrazione del PIL e il crollo delle finanze pubbliche russe stanno danneggiando le forze armate: le basi militari sono chiuse a decine e gli ordini industriali cessano. Unito all’ondata di indipendenza nazionale, l’indebolimento delle forze armate apre la strada a movimenti separatisti all’interno della stessa Federazione Russa. Pertanto, la prima guerra cecena, dal 1993 al 1996, ha visto la Nuova Russia reprimere in un bagno di sangue i movimenti di indipendenza spesso supportati da reti islamiste. Ciò che è in gioco allora è, per la Russia, la capacità di fermare il suo decadimento territoriale. La Russia degli anni ’90, nata dagli shock del 1998, coltiva la scomparsa politica.

In termini di geopolitica regionale, il 1989 si sta preparando per la perdita del vicino straniero. L’estensione della NATO alle porte della Federazione Russa è possibile solo perché la rete di alleanze sovietiche è stata rovinata nel 1989. In effetti, per la più giovane Federazione Russa nata nel 1991, il decennio 1989-1999 è il declino. Il 1999 ha segnato un grave rovesciamento militare nel continente: la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria hanno aderito all’Alleanza atlantica, seguite nel 2004 da molti altri stati precedentemente parte del Patto di Varsavia, tra cui tre ex Repubbliche socialiste sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania). Visto da Mosca, questo movimento è una battuta d’arresto strategica di significato storico. In effetti, l’Occidente è ai confini dello spazio russo. È in questo decennio e grazie alle rivoluzioni colorate in Georgia (rivoluzione delle rose nel 2003) in Ucraina (rivoluzione arancione nel 2004), che la Russia riattiva la diffidenza verso i propri interlocutori.

Ma il 1989 finì davvero nel 1999, quando Vladimir Putin mise gradualmente in atto sia il suo regime che gli elementi di un relativo rinascimento per la Russia. Il decennio 1989-1999 è il periodo fondativo per comprendere la Russia di oggi. Per concedere agibilità agli oligarchi, li subordina come clienti o li fa condannare, come nel caso di Khodorkovsky. Per porre rimedio all’espansione della NATO, sta lottando contro l’adesione di Ucraina e Georgia e contro lo spiegamento di batterie antimissile sul suolo europeo. Ultimo ma non meno importante, per alleviare la debolezza militare della Russia, nel 2009 ha lanciato un vasto piano di modernizzazione, crescita e riforma delle forze armate. La forza politica e geopolitica della Russia nel 2019 è direttamente radicata nel lungo trauma del decennio 1989-1999. In breve, Vladimir Putin si pone come uno che rimedia agli anni fatali 1989-1991.

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1989, anno fondamentale per la Russia (anche)

Per la comunità europea, il 1989 è un anno altamente simbolico con una connotazione positiva. Questa data è sinonimo di margini di rilascio a Budapest, Varsavia o Bucarest . Le sovranità nazionali, indebolite dal XIX e XX secolo, sono state recuperate. A Parigi e Bonn, poi a Berlino, nel 1989 inizia l’incontro dell’Europa attorno al progetto portato avanti dalla Comunità e poi dall’Unione Europea . Dopo i conflitti dell’inizio del secolo e la divisione della guerra fredda, il 1989 annuncia la speranza di un periodo di convergenza e pace.

Vista di Mosca, 1989 ha uno status più ambiguo. L’anno ha una chiara carica negativa, soprattutto nelle attuali rappresentazioni collettive: all’esterno, segna il fallimento della strategia sovietica di barriere difensive in ​​Europa; all’interno, fa precipitare la fine del regime comunista e prepara il caos politico ed economico degli anni 1990. Ecco perché il 1989, associato al 1991, è, nel discorso del presidente Putin, un annus horibilis per la Russia. Tuttavia, il 1989 apre un decennio decisivo per la Russia contemporanea. Fu dal 1989 che la Russia di Putin iniziò a mettere radici: la creazione di un’oligarchia mafiosa, i fallimenti contro gli Stati Uniti, ecc. tutti questi fattori contribuiscono all’avvento di un regime centralizzato, forte e seduto su una potenza militare. Così, la Russia di oggi ha le sue origini nel 1989 e nel 1991 quanto nel 1999, l’anno del l’ascesa al potere dell’attuale presidente russo .

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Superiorità miserevoli, di Fabio Falchi

Molte persone hanno notevole difficoltà a comprendere che i frutti velenosi sono appunto solo dei frutti , ossia che una certa pianta non può che produrre dei frutti velenosi. Il caso di Bibbiano non fa eccezione. Benché sia più che comprensibile che si voglia fare chiarezza su questa vicenda, impegnarsi in questo senso servirà a ben poco se non si capisce che il “sistema Bibbiano” (definiamolo così) e altri simili – come il “sistema Forteto” – non nascono per caso. Non si tratta cioè di semplici “aberrazioni” di un organismo sociale sostanzialmente sano, bensì di manifestazioni di un organismo sociale malato.
In particolare, sotto questo aspetto, è illuminante il “caso Epstein” (e molti altri esempi si potrebbero fare).
Eppure anche il “caso Epstein” non dovrebbe sorprendere. Certo, difficilmente può meravigliare chi, ad esempio, ha letto “Men di Zero” o “American Psycho” di Bret Easton Ellis.
Difatti, anche se ormai il romanzo raramente può essere in grado di farci comprendere il nostro essere-nel-mondo (dacché la forma romanzo nel mondo moderno è legata a doppio filo con l’ascesa e il declino della borghesia, e oggi quella che si definisce borghesia in realtà è postborghesia, ossia la classe sociale dominante – a sua volta divisa in varie sottoclassi – della postmodernità), non si deve generalizzare.
In questo senso, i due romanzi sopraccitati di Ellis sono davvero significativi.
Certo, Ellis non disdegna nemmeno di criticare duramente e apertamente l’industria culturale e in specie il mondo dei media ovverosia il mondo liberal/neoliberal (in pratica, la “sinistra”), che egli accusa di diffondere una ideologia totalitaria che include chiunque tranne chi “fa domande”, chi non “si adegua” ossia chi non è liberal/neoliberale. Si tratta di un ottuso e pernicioso conformismo culturale, politico e morale che si presenta con la veste di una assoluta superiorità morale e che uccide l’arte, l’intelligenza critica e creatrice. Così chi non è liberal/neoliberale è subito accusato di essere un “hater” o un “barbaro” che tutt’al più si può cercare di “salvare” ma a cui si deve togliere “diritto di parola”, ovviamente per il bene dell’umanità (peraltro, Ellis, che pure è omosessuale, non esita nemmeno a parlare di fascismo gay, soprattutto a causa dei cosiddetti “movimenti Lgbtq”).
Più che la sua critica del mondo liberal/neoliberale sono però i personaggi dei suoi romanzi che rivelano alcuni tratti distintivi della attuale società postborghese (che da un lato è figlia di quella borghese, dall’altro ne è, per così dire, l’“immagine speculare”). Difatti, anche Epstein poteva benissimo essere un personaggio di un romanzo di Ellis. Epstein cioè non è un “mostro”, ma il “frutto naturale” della società postborghese. La sua vera colpa è stata quella di esseri spinto “troppo avanti” e di essersi fatto “scoprire”. Non tutto si può rivelare, almeno per ora.
Ma al di là di quel che può pensare Ellis e dei suoi stessi romanzi, si dovrebbe tener presente che se il borghese era sessuofobo, morigerato, tutto lavoro e famiglia, per il postborghese sono proprio i vizi privati del borghese che devono diventare “pubbliche virtù” (benché questa trasformazione – come prova lo stesso “caso Epstein” – richieda del tempo per realizzarsi compiutamente).
L’ arroganza, l’intolleranza, la prepotenza, la miseria esistenziale e in definitiva anche culturale e intellettuale del postborghese, sono allora “mascherate” da una ideologia che rappresenta il postborghese come antropologicamente superiore sotto tutti punti vista, di modo che la stessa illimitata bramosia di possesso e potere che caratterizza la classe sociale cui egli appartiene sia “percepita” dalle masse come ciò che favorisce il progresso dell’umanità ovverosia un imprescindibile fattore di civilizzazione cui solo un “barbaro” può opporsi.
Il nuovo Tribunale dell’Inquisizione può e deve dunque operare per punire i “peccatori” e far trionfare il “bene” nel mondo.

https://www.ilfoglio.it/cultura/2019/09/16/news/il-totalitarismo-dei-buoni-274224/?fbclid=IwAR2Oi69crbVQPC9foRCxQbP5LOcrq6ukxogkUj2lo0Zxl9fqsjNxyY67HAE

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE, di Antonio de Martini

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE

Tra ieri e oggi mi sono divertito a leggere qua e là i commenti dei « geopolitici » che spuntano come funghi dopo la pioggia.

Cercano di scrutare nella breve dichiarazione di Mike Pompeo come gli auruspici nelle viscere degli animali sacrificati.

E, conseguentemente, segnalano merda.

1) prima cacca:lasciano intendere che gli Houti siano poco più che una milizia filo iraniana e sciita.

FALSO: sono una tribù che vive da almeno un secolo alla frontiera Saudita. Hanno un credo religioso a metà strada tra i sunniti e gli sciiti.

Si sono ribellati periodicamente fino a che furono sottomessi da Salah, il Presidente che gli USA vollero cacciare dopo un trentennio di regno, in nome della democrazia.

Accettò, gravemente ferito, di farsi curare negli USA lasciando però la presidenza al suo vice e le FFAA al cognato.

Tornato, trovo il vice che non voleva tornare nell’ombra e il cognato defenestrato e in rivolta.

Si rivolse agli Houti che aveva sottomesso e li aiutò a debellare il regime. È morto un paio di anni fa in combattimento. Aveva un grande carisma ed era un guerriero nato.

Il suo vice il pallido HADI è oggi rifugiato in Arabia Saudita in regime di semilibertà dorata.

Mohammed ben Salman – il principe assassino saudita- da neo ministro della Difesa dichiarò guerra allo Yemen ( senza interpellare il Crownprince o gli Esteri) credendo di liquidare gli Houti in una blitz krieg e conquistare lo Yemen.

Fu ripetutamente e sonoramente battuto, ma raggiunse l’obbiettivo di fare amicizia con i lobbisti americani degli armamenti cui assegnò cospicue quanto inutili commesse. Si avvicinò al potere scalzando il cugino ministro dell’interno, ma la guerra non si concluse.

Ora ha il potere saudita ma non riesce a vincere la guerra benché abbia coinvolto gli Emirati della UAE ( specie Abu Dahbi) che volevano partecipare al bottino, per non lasciare Aden ai sauditi, ma non a una guerriglia logorante.

Il capo degli Houti , mi spiace non ricordarne il nome, si è rivelato un vero guerriero della tempra di Salah: affronta gli avversari compensando gli svantaggi tecnologici con la sorpresa e la motivazione dei suoi.

Ha trasformato la deportazione ( subita da Salah) dei suoi in nuove basi di attacco, ha trovato i mezzi per le armi e sembra che abbia imparato a miniaturizzare i congegni di guida dei vettori inserendo il GPS russo che non ha zone illeggibili.

Dopo due attacchi di prova ( a Maggio e a Agosto) ha colpito la provincia orientale governata da un fratello del Crownprince col duplice scopo di fargli fare una figura barbina e avvertire la famiglia reale che se vuole continuare a vendere la loro mercanzia devono lasciare lo Yemen, paese di guerrieri.

2) seconda cacca: gli USA, non hanno ancora interiorizzato la lezione dell’attacco alle due torri. Gli arabi , come noi italiani del resto, sono cattivi organizzatori militari e combattenti temerari e audacissimi.
Gli USA cercano di spiegarsi l’evento attribuendolo ( con cautela) agli iraniani e i “ geopolitici” de noantri assecondano gli israeliani con la storiella della base di lancio vicina a Bagdad.

La realtà, molto più semplice, è che se gli Houti possono trasferirsi nel cuore dell’Irak, a maggior ragione possono farlo nel cuore dell’Arabia Saudita. C’è anche meno strada.

Certo, bisognerebbe ammettere che oltre a non avere il controllo dei cieli e del mare, il grande principe saudita ( e il suo potente alleato) non ha nemmeno il controllo del territorio, specie da quando ha fatto ammazzate due suoi fratelli-cugini pretendenti al trono. La vendetta è un obbligo d’onore.

Terza cacca. Per non offendere l’alleato nessun occidentale fa notare l’estrema cautela dei vertici americani.

I militari tacciono non sanno come spiegare il fatto che non hanno controllato le coste yemenite bloccando il contrabbando; non hanno controllato i cieli sauditi ( solcati da dieci droni o missili , fa lo stesso ) e non hanno controllato le vie di terra giudicandole impossibili per via del clima da attraversare. Trilioni al vento.

Non sanno ( gli analisti)che mio padre nel ‘35 andò proprio lì a reclutare 400 guerrieri per attraversare il deserto dancalo ( il più caldo al mondo + 65 all’ombra) per prendere alle spalle l’esercito del Negus schierato col fianco sul lago Ashanghi.

Per essere arruolati a piena paga dovevano fare cinque centri consecutivi a 200 metri col 91 su un fiaschetta di Chianti da mezzo litro, col collo interrato.

I politici , anche Trump, hanno lasciato parlare solo Pompeo e lui non ha detto praticamente nulla.

Ben Salman, cui Trump ha demandato un “ assessment”, si sta chiedendo di quanto si è avvicinato alla fine.

Putin, ha imparato il marketing: ha detto che con il sistema antiaereo S400 non sarebbe successo.

La borsa petrolifera invece ha detto che è un buon affare (+20% in un giorno per il greggio USA e il Brent che non c’entrano affatto).

Ricordate l’aeroplano che atterrò sulla piazza Rossa a Mosca quasi preannunziando la fine dell’URSS?
Il parallelo giusto è questo. Il re è nudo e il principe assassino è in mutande.

TORNA LA COMPAGNIA DELLE INDIE?

È bastato che Donald Trump lasciasse intravvedere la possibilità di incontrare il premier iraniano Rouhani la prossima settimana all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, perché “entità sconosciute” promuovessero un attacco distruttivo alla più grande zona petrolifera del mondo.

Per attutirne gli effetti, persino il Pentagono sta suggerendo “risposte caute” e “ soluzioni pacifiche”.

Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale è stato scelto tra i “ negoziatori” e non tra i geopolitici o i militari.
Rouhani non ha aperto bocca. I sauditi tacciono.
Gli Stati nazionali sono stati colti alla sprovvista.

Una ultima disperata resistenza di chi non ama l’idea di un incontro-dialogo è stata organizzata attorno alla concessione o meno del visto di ingresso negli USA al premier Rouhani e dall’annunzio che la Marina Saudita si unisce agli USA nel pattugliamento a protezione delle rotte del petrolio. Non ha protetto casa sua, ma vuole pattugliare il quartiere…

Mano a mano che il tempo passa, si delineano schieramenti non tanto nazionali ma tra entità interessate all’apertura di negoziati distensivi e altre interessate a mantenere lo stato di tensione, le sanzioni escludenti e il prezzo del greggio elevati.

Queste entità trascendono i confini nazionali e li attraversano longitudinalmente, continuano l’opera di criminalizzazione di ogni altro tipo di combustibile: carbone, legno ( amazzonia), nucleare.

Costoro, coperti anche da ruoli pubblici, creano intralci politici, logistici ed etici ad alcuni paesi produttori con grandi riserve petrolifere ( Venezuela, Iran, Russia) per tenerli fuori dai mercati e mantenere livelli di prezzi di mercato remunerativi per l’estrazione del petrolio di scisti.

Altri paesi potenzialmente ricchi in petrolio ( Egitto, Sudan) vengono ricattati con la minaccia di assetarli bloccando a monte il Nilo per riempire faraonici bacini di dighe e centrali idroelettriche in paesi ( Etiopia) dove non esiste alcunarete di distribuzione energetica e per crearla serviranno decenni e decenni.

Senza nuove urgenti e cogenti leggi di diritto internazionale che escludano eserciti privati, milizie paramilitari e proxy wars ci troveremo a fare guerre provocate e/o dichiarate ufficialmente da consigli di amministrazione e stati acquistati o conquistati da società per azioni.

WRESTLING, di Pierluigi Fagan

WRESTLING. “Forma di spettacolo nel quale si combina l’esibizione atletica, con quella teatrale, la cui origine risiede nelle esibizioni di compagnie itineranti in fiere di paese” così Wikipedia. Il wrestling venne creato in quanto cosa a sé da un americano dell’Iowa. Esso è quindi una forma tipicamente americana in cui convergono: 1) “spettacolo” che fa pubblico ed audience quindi occasione commerciale di profitto; 2) “violenza” quindi sfogo dell’istinto alla competizione; 3) “simulazione” quindi trasferimento della violenza ad un piano in cui la forma (violenta) si dissocia dalla sostanza (effetti del subire vera violenza); 4) “convenzione” in quanto i wrestler condividono una codice teatrale conosciuto solo a loro che li fa attori di una compagnia di giro che fa spettacolo rivolto al pubblico in cui si simula la violenza depurandola dagli effetti materiali, spettacolo che per loro significa lavoro, soldi, prestigio e fan.

L’americanizzazione della cultura occidentale ha ormai decenni di penetrazione e sebbene da alcuni criticata con le affilate armi dell’intelligenza vigile, viene il dubbio abbia colonizzato anche la stessa intelligenza vigile. Un po’ come in quei film dei morti viventi in cui il protagonista che è ancora vivo-naturale e col quale ci identifichiamo, scappa di qui e di lì finendo a volte in trappole di relazioni con personaggi che “sembrano vivi” ma poi si rivelano anche loro ormai passati dall’altra parte.

Il trasferimento della politica a wrestling è la cifra più pericolosa dell’americanizzazione culturale che subiamo da decenni. Nessuno ormai pensa alla politica avendo come obiettivo i componenti della polis (città-Stato) cioè i polites (cittadini), chi “fa” politica pensa di default a come diventare rappresentante dei cittadini. Tutto il discorso pubblico è orientato ai politici che critichiamo o appoggiamo, ai loro partiti, chi non trova soddisfazione nell’”offerta politica”, ne crea una nuova, cioè fonda un partito. Ognuno è posseduto dal richiamo del dover dare “voce al popolo”, il suo popolo, la sua porzione di popolo, la sua interpretazione personale della parte di un popolo, da cui fondare “partiti”, cioè istituzionalizzazione di forme particolari di rappresentanza. Il popolo è “dato”, un dato immodificabile, rimane solo da dargli “voce”. Ma il vero richiamo del wrestler politico è esser “eletto”, diventare un eletto, il partito è solo il mezzo.

E’ un po’ come nell’economia di mercato, si fa una indagine di mercato, si scopre che c’è un buco nella domanda ovvero gente che domanda confusamente cose del tipo “Ambrogio … avverto un certo languorino … la mia non è proprio fame, è più voglia di qualcosa … di buono” con misto di speranze contraddittorie tipo “goloso ma che non fa ingrassare”. Si fa allora un Rocher con carta stagnola luccicante che promette di tappare il buco. Per questa soluzione tappabuchi, in politica, non si chiedono soldi ma voti. I voti poi fanno eleggere il rappresentante del popolo che va a fare il wrestler in nome e per conto del suo pubblico-cliente.

La pubblicità dei Rocher politici spazia dalla promessa di più sicurezza, più lavoro, più ricchezza, più modernità, più sovranità, più libertà e molto altro, oppure la promessa di contro, contro il liberismo, contro l‘unione europea, contro i migranti, contro i pedofili, contro i populisti o altro. Si noti l’asimmetria logica: “più” nel positivo, “contro” nel negativo, non “meno” che non scalda gli animi, “contro!”. Se poi ‘oggetto dopo il contro è macroscopico come “il capitalismo” meglio ancora, in fondo mica si tratta di fare i conti con la realtà, è una sorta di sondaggio d’opinione quello che si fa alle elezioni.

I temi su cui si offrono i più o i contro , sono quelli del discorso pubblico, una agenda di solito istituita dal potere in atto, il quale decide e nomina non solo i “suoi” temi ma anche quelli avversari. Chi sceglie il fronte contro il potere prende il termine negativo imposto dal potere e lo rivernicia di positivo, fatica immane e qualche volta anche energia mal riposta poiché nominare è creare enti e se l’ente è creato in un certo modo lo spazio politico che tenta di ribaltarne il giudizio (da negativo a positivo) è pre-determinato proprio da coloro contro i quali si vorrebbe fare lotta politica. Grande parte di quei più o contro sono irrealistici, forme dicotomiche del pensiero semplificato che sussume cose complicate in un termine-concetto in cui le porzioni di popolo si identificano come le contrade fanno col loro totem odiando il totem avversario.

Si tifa il proprio wrestler che fa finta di prender a cazzotti il wrestler del proprio odiato vicino invece che prender direttamente a cazzotti il proprio vicino. L’importante è che i “cittadini” non facciano direttamente politica tra loro, facciano gli spettatori, senza spettatori paganti viene giù tutto. Vale per i giovani filosofi non meno che per gli imbroglioni seriali.

L’estrema ambiguità del tutto crea questo spettacolo che nulla a che fare con la politica, dove il mercato è fatto di “valori”, i totem sono tanto squillanti quanto irrealistici, i wrestler gareggiano urlando ma mai facendosi davvero male, sperando di finire in qualche assemblea pubblica in forma stabile che gli procurerà fama, successo, soldi e porzioni di potere. Quando poi falliranno, e falliscono tutti -sistematicamente poiché i presupposti tra promessa e realtà sono in genere infondati- avanti una nuova linea di aspiranti “diamo voce al popolo!”.

Il post non conclude, era solo per sfogare amarezza personale. Non ne posso più di veder fondare partiti oltretutto soprastanti un dibattito politico pubblico che sta raggiungendo vette di confusione, indeterminazione, falsa coscienza, irrealismo, presa per il culo sistematica, ormai su una tangente che punta all’infinto ed oltre. E non vale solo per i wrestler, vale anche per coloro che fanno da pubblico perché sono loro, siamo noi a tener in piedi lo spettacolo.

tratto da facebook

LA MATASSA, di Antonio de Martini

LA MATASSA

L’Arabia Saudita si trova tra due fuochi da lei provocati: a sud la guerra con lo Yemen e a nord il conflitto siriano.

Gli Stati Uniti si trovano anch’essi tra due fuochi possibili: da una parte il conflitto in Irak con l’ISIS ( per combattere il quale hanno equipaggiato e autorizzato le milizie sciite) e dall’altra dovrebbero combattere e disarmare le stesse milizie sciite che secondo le accuse israeliane sono la base dell’attacco agli impianti petroliferi.

Entrambi i paesi stanno concertandosi oggi a Gedda circa il da farsi che consisterebbe nel decidere atti di guerra contro l’Iran, il quale nega tutto.

Gli Stati Uniti promettono di esibire alle Nazioni Unite le “ prove” che l’intelligence sta approntando, sempre che si trovi un Presidente USA disponibile a ripetere la scena di Colin Powell sulle armi di distruzione di massa irachene per avere il sostegno degli alleati.

Ne dubito.

Al massimo lo farà il fido Pompeo e tornerà con le pive nel sacco.

Il senato USA, anche repubblicani, dice che bisogna accertarsi che l’alleato saudita “ abbia tutte le armi necessarie” alla sua difesa . Escludono attacchi diretti di qualsiasi genere.
Alla peggio vorranno fare una Proxy war, ma ne stanno già facendo due….

La proxy war è una forma di lotta affidata nascostamente a terzi mirante a guerreggiare contro un paese terzo senza che appaia il mandante per non violare in forma sfacciata il principio di non ingerenza negli affari interni altrui fissato da Metternich nel Congresso di Vienna( 1815) .

Di fatto è impossibile trovare prove di una proxy war.

I dati di fatto sono che l’AS ha speso quest’anno 82,6 miliardi di dollari in armamenti e l’Iran 13,2.
Gli abitanti dichiarato dai sauditi sono 20 milioni e dagli iraniani 70.

L’Iran è stato oggetto di sanzioni da parte americana e gli europei stanno lavorando per farle togliere o attenuarne gli effetti.

Non credo vi siano dubbi su chi sia l’attaccante strategico, ne sulla fine che farebbero Riad e Tel Aviv in caso di scontro aperto.

Le conclusioni del vertice tra Mohammed ben Salman e Mike Pompeo dunque sono scontate.

La risposta di aumento delle sanzioni, inasprirebbe la situazione a danno degli interessi degli Stati Uniti, ma sarebbe ben vista dai sauditi.

Una decisione di intensificare qualche forma di proxy war sarebbe ben vista dagli americani ma danneggerebbe i sauditi destinati inevitabilmente a sostenere la reazione.

Una reazione nei confronti delle milizie sciite irachene ( incolpevoli) provocherebbe una nuova guerra in Irak e smentirebbe tre decenni di scelte politiche USA, dato che furono loro a dare il potere agli sciiti ed armarne le milizie.
Si passerebbe dalla tragedia alla farsa.

Parimenti impensabile è una rappresaglia contro gli Houti, dato che lo Yemen è stato da mesi dichiarato “ emergenza umanitaria” dalle Nazioni Unite e una serie di ben tre delibere senatoriali che proibivano di fornire armi e assistenza ai sauditi in guerra sono state fermate da un veto presidenziale.
Il quarto sarebbe di troppo.

Un’azione contro Hezbollah in Libano verrebbe vista come un diversivo e scatenerebbe una reazione contro Israele in un momento politico delicatissimo e alla vigilia della comunicazione del piano di pace coi palestinesi.

Le sole soluzioni sono un “ coup de teatre” di Trump alle Nazioni Unite con Rouhani ( che però agli occhi di molti potrebbe sembrare una sconfitta) o far fuori ( sei mesi) Mohammed ben Salman e dare tutte le colpe a lui.
Voi cosa scegliereste ?

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE, di Emilio Ricciardi

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE.

A seguito del suo intervento del 6 settembre 2019 (d’ora innanzi “Intervento”) intitolato “Colpo di extrastato”, in cui Massimo Morigi attribuisce a questo sintagma dignità di categoria teorica atta a cogliere la presunta epocale novità rappresentata dal voto elettronico espresso mediante la Piattaforma Rousseau dagli iscritti (a ciò legittimati) del Movimento 5 Stelle in relazione alla recente formazione dell’attuale governo, lo stesso autore è tornato sulla questione una prima volta il 9 settembre 2019 per approntare una replica (d’ora in poi “Replica”) ad un mio commento (in appresso “Commento”) al suo Intervento e, ancora, il 14 settembre 2019, per operare ulteriori annotazioni, che tuttavia non aggiungono alcunché di sostanziale alla completa esposizione della propria tesi, difatti già compiuta nei suoi primi due testi.

Quindi, seppure non vada trascurato di soffermarsi sui passaggi pertinenti dell’ultimo dei tre testi citati, è prevalentemente sui primi due, ma con attenzione ancor maggiore sulla Replica (di cui ringrazio Morigi per il tempo e la cura ad essa dedicati), che conviene incentrare le presenti mie considerazioni. Anticipo comunque sin d’ora che la Replica (ed a maggior ragione anche l’ultimo scritto) non è stata in grado di convincermi sull’asserita utilità e consistenza concettuale della categoria di “colpo di extrastato”. E ciò per i seguenti motivi.

0. Occorre prendere le mosse dalla constatazione secondo cui Morigi finisce per darmi ragione quando nella Replica afferma che “Il vero punto è […] non tanto la più o meno esibita trasparenza dei partiti” giacché, aggiunge, “se i partiti fossero trasparenti svanirebbero come la neve al sole dalla notte al mattino”.

Difatti, il nucleo fondamentale della critica all’Intervento espressa nel mio Commento era così compendiato: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore. Anche perché, se si continua a rimarcare la scarsa trasparenza di questa operazione, dolendosene, si corre il rischio di accreditare implicitamente l’idea secondo cui finora i processi decisionali interni ai partiti politici (che, è bene ricordarlo, sono semplici associazioni private non riconosciute) si siano svolti all’insegna delle più luminose democrazia ed, appunto, trasparenza. Il che sarebbe, com’è ovvio, balla colossale oltreché offensiva dell’intelligenza quanto meno del lettore abituale di queste pagine”.

Sulla mancanza di “trasparenza” quale fattore ampiamente noto e preesistente nelle teoria e prassi politiche (italiane e straniere, passate ed attuali), dunque, nulla quaestio[1].

  1. La dimensione fortemente problematica della concezione di Morigi, piuttosto, comincia a far esplicitamente capolino nella Replica allorché in questa si soggiunge: “Il vero punto è, come rileva anche Ricciardi ma come stranamente Ricciardi sembra non attribuirmi una piena consapevolezza in merito, […] che questi partiti, un tempo tanto importanti e la cui esistenza veniva espressamente citata anche in Costituzione, oggi non sono più lo snodo principale del conflitto strategico che si svolge all’interno delle élite politiche nazionali impegnate nella lotta per la conquista del potere”.

Senonché, basta leggere il mio Commento per avvedersi che nemmeno mi pongo il quesito in merito alla piena consapevolezza o meno di Morigi circa la pretesa novità rappresentata dalla sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti politici.

E non me lo pongo perché già Morigi nel suo Intervento aveva in buona sostanza negato che questa fosse una novità, sostenendo ciò che ha poi confermato nella Replica (come segnalato sopra al paragrafo 0), ossia che “il punto importante per dare corpo alla categoria ‘colpo di extrastato’ non è tanto il fatto che la piattaforma Rousseau è tutto tranne che trasparente (in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata, quando questa etero direzione non era addirittura teorizzata, vedi centralismo democratico del vecchio PCI; e le lobby che da sempre manovrano le decisioni dei parlamenti delle moderne democrazie sono forse il fenomeno più studiato dall’attuale scienza politica, fino ad arrivare alla <postdemocrazia> teorizzata da Colin Crouch)”.

È indubbio, difatti, che sostenere che “in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata” e dunque assoggettata ad una “etero direzione”, equivalga a sostenere che i partiti non sono mai stati, non solo oggi ma anche in passato, “lo snodo principale del conflitto strategico”.

Di conseguenza, perché nel mio Commento avrei dovuto anche solo evocare o lambire la questione del se Morigi fosse pienamente consapevole o meno della sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti, quando egli stesso nel suo Intervento ha mostrato di ritenere che pure nel passato i partiti erano etero diretti e che, quindi, nulla, sul punto, è davvero sopraggiunto?[2]

  1. Semmai, rilevo in Morigi una contraddizione (non la prima, per vero, e comunque generatrice di un’impasse che egli ha tentato di eludere in un modo che esaminerò nel successivo intero paragrafo 4) tra, da un lato, il riconoscimento della etero direzione e nulla trasparenza caratterizzanti da sempre i partiti politici e, dall’altro lato, l’asserzione circa la novità costituita dalla totale intrinseca mancanza di trasparenza nel Movimento 5 Stelle.

Peraltro, mentre tale asserzione è contenuta, per lo meno esplicitamente (spiegherò i motivi di questa puntualizzazione nel successivo sottoparagrafo 3.1.), nella sola Replica, quel riconoscimento è stato operato sin da subito nell’Intervento (e di poi ribadito nella Replica).

Il fulcro dell’Intervento, in effetti, voleva essere esplicitamente altro rispetto all’opinione inerente la mancanza di trasparenza della piattaforma Rousseau: “il punto fondamentale è un altro, ed è cioè che tutti, dalla pubblica opinione, alle massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo hanno aspettato senza fiatare una esplicita e chiara decisione di un corpo, ma un corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”.

Quest’ultima proposizione è poi ripresa, onde ribadirne la correttezza, nel testo del 14 settembre 2019, laddove si ripete essere la Piattaforma Rousseau un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”.

Senonché, una volta riconosciute, come si è visto aver fatto Morigi, la mancanza di trasparenza ed anzi la totale etero direzione caratterizzanti l’azione (anche) dei vecchi partiti politici, deriva necessariamente che anche tale azione si ponga contro ed al di fuori della Costituzione, atteso che l’art. 49 di questa esige il “metodo democratico” di essa azione (laddove mancanza di trasparenza ed etero direzione risultano invece evidentemente incompatibili con detto metodo).

E deriva altresì’ necessariamente che è contraddittorio affermare che un’azione politica di tal fatta si sia sviluppata “sotto il mantello costituzionale”, perché una prassi politica priva di trasparenza ed etero diretta e quindi lesiva del “metodo democratico” dettato dalla Costituzione non può, per definizione, trovare legittimazione (ossia “copertura”, quale ”mantello giuridico”) in questa stessa Costituzione.

Pertanto, se si sostiene che la Piattaforma Rousseau (recte: l’insieme degli iscritti al Movimento 5 Stelle legittimati al voto elettronico mediante utilizzo di questo dispositivo telematico) è “corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”, ed insomma “del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”, allora si deve pure logicamente concludere che anche i vecchi partiti politici partecipano delle medesime caratteristiche che dunque non potrebbero non definirsi eversive.

Ciononostante, in costanza dell’esistenza dei vecchi partiti sia la “pubblica opinione, [sia] le massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo” aspettavano normalmente “senza fiatare una esplicita e chiara decisione” di organi decisionali di partiti che pure, per quanto rilevato, agivano in sostanziale spregio di quel “metodo democratico” prescritto dall’art. 49 della Costituzione.

Di conseguenza, la disamina svolta sino a questo punto delle considerazioni di Morigi sembra consentire di affermare che con la Piattaforma Rousseau non si è attuato alcun “colpo di extrastato”, in quanto asserita nuova forma della prassi politica rispetto a quella invalsa nella precedente fase storica.

Occorre ora, giunti a questo tratto del discorso che si sta conducendo, soffermarsi sull’ultimo argomento addotto da Morigi a favore della propria tesi.

  1. Prima devo tuttavia rendere una spiegazione, che mi consente anche di affrontare alcune affermazioni svolte da Morigi nel già menzionato suo testo del 14 settembre 2019.

In particolare, più sopra ho accennato alla circostanza per cui soltanto nella Replica viene sottolineata e stigmatizzata espressamente la mancanza di trasparenza del processo decisionale elettronico del Movimento 5 Stelle. Mi riferisco, precisamente, al seguente passaggio: “è la prima volta che si riconosce […] come fondamentale e fondante per la decisione politica […] una sorta di accrocchio tecnologico informatico dove la <trasparenza> non è che venga conculcata come nei vecchi partiti classici (ma ricordiamoci l’adagio <l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù>) ma è un concetto totalmente alieno proprio per il processo tecnologico e verificabile solo da esperti informatici nell’emissione dei suoi responsi”.

Ebbene, a parte il fatto che, sul piano degli effetti, sfugge la reale e sostanziale differenza tra conculcamento della trasparenza nei vecchi partiti politici ed eliminazione di essa già sul piano concettuale a causa dell’applicazione delle tecnologie informatiche al procedimento elettorale interno al partito de quo.

Ma soprattutto, ciò che preme rimarcare è che anche il procedimento elettorale incentrato sulla segretezza del voto cartolare risulta intrinsecamente privo di trasparenza, se per questa si intenda, come devesi e pur semplificando, l’insieme degli accorgimenti che garantiscono la certezza, per i votanti, dell’autenticità del voto espresso e del suo conteggio fino alla pubblicazione dei risultati. Difatti, è difficile negare che, se è vero che l’elettore che esprime un voto segreto conosce il dato (il suo voto) che così è immesso nel meccanismo ed il dato (aggregato) che ne è emesso, ossia il risultato elettorale, non ha invece modo di verificare l’iter che ha compiuto quel dato dal momento della sua immissione fino alla sua confluenza nel dato complessivo, o quantomeno non può avere la certezza di quale sia stato tale iter. Proprio perché nessuno potrà mai dargli la garanzia assoluta, nemmeno assistendo allo scrutinio, che nella fase di quest’ultimo il documento su cui ha apposto il suo voto sia davvero oggetto di conteggio, e di un conteggio corretto.

A ciò si aggiunga la difficile se non impossibile verificabilità della correttezza delle operazioni di conteggio del voto cartolare, e ciò a causa dell’effetto combinato dell’elevato numero di votanti (come sovente accade nelle elezioni politiche nazionali della stragrande maggioranza dei paesi a democrazia rappresentativa) e dell’esistenza di particolari regole costituzionali che devolvono la giurisdizione esclusiva inerente la contestazioni elettorali ai medesimi organi elettivi, con la conseguente assai ridotta capacità operativa di procedere ad un controllo di decine di milioni di schede elettorali in tempi fisiologici e ragionevoli, ossia tali da scongiurare un’eccessivamente prolungata incertezza riguardo la reale legittimazione popolare degli eletti[3].

Insomma, se trasparenza non c’è nel voto elettronico, con la connessa difficoltosa verificabilità della genuinità della relativa procedura, lo stesso deve dirsi per il voto cartaceo.

3.1.   Quest’ultima sottolineatura ben introduce la disamina della seguente affermazione contenuta nel testo di Morigi del 14 settembre 2019, in quanto anch’essa incentrata, come mostrerò più oltre, e sebbene Morigi non lo dichiari in modo esplicito, sul concetto di trasparenza (e con ciò giustifico l’individuazione, dianzi operata, di un legame fra essa affermazione e la critica, già analizzata, alla mancanza di trasparenza della Piattaforma Rousseau svolta nella Replica): una “procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario)”.

Qui Morigi non motiva espressamente l’implicito favore che sembra accordare al voto cartaceo rispetto a quello elettronico. Ed insomma non si perita di precisare in che modo e perché la procedura elettorale elettronica determinerebbe addirittura uno stravolgimento radicale della costituzione materiale dello Stato rispetto a quella vigente in costanza dell’omologa cartacea. Nondimeno, sembra di poter capire che, secondo Morigi, la presenza di schede elettorali cartacee, pur non eliminando il rischio di brogli elettorali, consentirebbe comunque di verificarne la perpetrazione, ciò che, invece, il voto elettronico non permetterebbe di fare. In altri e più concisi termini: per Morigi sarebbe la trasparenza, sub specie verificabilità di eventuali brogli elettorali, il tratto che differenzia il voto cartaceo da quello elettronico (dunque non trasparente, come quello della Piattaforma Rousseau, secondo quanto asserito, esplicitamente, nella Replica).

Tuttavia, così in thesi argomentando, Morigi trascura che, come illustrato più sopra, anche la procedura elettorale cartacea con voto segreto, soprattutto nella fase dello scrutinio (ma anche in quella della trasmissione centralizzata) dei voti, e quando si attua in paesi con decine di milioni di votanti, non può mai né garantire al votante certezza circa la correttezza delle operazioni né rendere possibile un controllo completo dell’intera procedura medesima, tanto meno in tempi tali da essere compatibili con l’esigenza dell’opinione pubblica di avere risposte celeri in merito all’esistenza o meno di una legittimazione democratica degli eletti.

Certo, nel voto elettronico la verificabilità dei brogli è più difficoltosa di quanto lo sia con il voto cartaceo, ma si tratta di una differenza di ordine quantitativo, ossia attinente al maggior rischio di brogli (perché minore è la possibilità di verificarli) che il primo esibisce, non già di una differenza di ordine qualitativo, idonea cioè, come invece sostiene Morigi, ad incidere addirittura, sfigurandola irreversibilmente, sulla “costituzione materiale dello Stato”.

3.2.   Eppure anche in altro passaggio del suo testo del 14 settembre 2019, Morigi esprime il convincimento che “è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet”, e lo fa in base all’assunto, introdotto immediatamente prima, “che nelle vicende sociali e politiche i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente”.

Senonché, il nesso causale che con tale assunto viene delineato su un piano generale risulta da una petizione di principio, enunciato e non dimostrato, ed allo stesso modo anche il nesso causale specifico, quello in virtù del quale la scoperta ed uso di internet non può non avere determinato un cambiamento della “costituzione materiale e forma di Stato”, risulta meccanico e proclamato in modo apodittico. Al punto da giungersi financo ad una concezione feticistica dell’innovazione tecnologica, quale potenza che plasma e trasforma la struttura e l’essenza dei rapporti poltico e sociali, a loro volta puri elementi passivi, inerti e direi neutri, che subiscono l’azione demonica ed incandescente della prima.

Per contro, non è affatto scontato che un elemento nuovo, nato in un ambito diverso dalle dimensioni politica e sociale in senso stretto, una volta trasmigrato in quest’ultime in virtù dell’uso che di esso elemento è fatto, debba divenire il fattore che trasforma la conformazione essenziale delle predette dimensioni qual era stata sino a quel momento. Insomma, può ammettersi perfettamente l’ipotesi che l’elemento sia immesso nel sistema esterno (a quello della sua genesi) e da esso assorbito senza subire, il sistema recettore, alcuna trasformazione o comunque modificazione rilevante.

  1. Terminata così la digressione resasi però necessaria per discutere le due soprariferite affermazioni contenute nel testo di Morigi del 14 settembre 2019. è possibile finalmente affrontare, come già avevo anticipato, l’ultimo argomento, stavolta svolto nella Replica del 9 settembre 2019.

In particolare, in quest’ultima viene introdotto ex novo un tema che non era stato oggetto del benché minimo accenno, nemmeno implicito, nell’Intervento: l’importanza dell’illusione.

Così al riguardo si afferma: “Ma il vero snodo, lo ripeto, della categoria di <colpo di extrastato>, non è tanto la trasparenza o l’opacità dei processi decisionali è che nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata”.

Ebbene, qui si ha l’impressione che Morigi sia stato costretto a ricorrere all’ulteriore argomento basato sull’assunto circa la passata esistenza dell’illusione della trasparenza dell’azione dei partiti politici, al fine di aggirare la difficoltà logica di continuare a sostenere il carattere di novità epocale della Piattaforma Rousseau in quanto enigmatica ed impersonale entità telematica non controllabile se non “da esperti informatici[4], ed allo stesso tempo nondimeno riconoscere che anche nei vecchi partiti politici la trasparenza era completamente assente.

Nella Replica si sostiene, difatti, che non già la mancanza di trasparenza dei e nei partiti politici segna la novità della presente epoca del presunto “colpo di extrastato” rispetto all’epoca precedente, bensì la caduta dell’illusione della trasparenza, in passato invece esistente.

È necessario, quindi, indagare motivi e legittimità dell’asserzione che attribuisce decisiva rilevanza a questa illusione.

4.1.   Al riguardo, nella Replica si indicano due esempi per tentare di dimostrare l’importanza delle illusioni nutrite circa l’esistenza della trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici.

Il primo esempio attinge al rapporto tra la Chiesa cattolica e la Democrazia Cristiana, affermandosi che “la Chiesa esplicitamente non ha mai fatto trapelare una esplicita e pubblica decisione a favore di questo o quel governo ma si limitava, in ottemperanza del suo alto magistero religioso e morale, a vietare ai cattolici, pena l’inferno, di votare per quei partiti che erano a suo giudizio l’espressione politica del cancro dell’ateismo e dell’irreligiosità”.

Vero; ma in questo caso non vedo dove e come avrebbe agito l’illusione sull’esistenza della trasparenza nelle decisioni della Democrazia Cristiana, atteso che all’epoca per qualsiasi osservatore ed elettore minimamente attrezzati era chiaro e palese il penetrante condizionamento vero e reale esercitato costantemente dalla Chiesa cattolica sulla prima.

Il secondo esempio riguarda più nello specifico la trasparenza dei partiti ed anche su questo punto il ragionamento fa leva sull’importanza delle false rappresentazioni, o meglio la concreta modalità di come queste possono essere rappresentate. Nei vecchi partiti per arrivare ad un decisione e/o prevalere nello scontro politico venivano messe in atto le più ignobili manovre ma se queste manovre non avevano in concreto nulla di democratico e trasparente avevano un grande pregio. Queste manovre erano condotte da uomini in carne ed ossa e chi avesse voluto vedere un po’ più a fondo avendone la formazione e l’intelligenza riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”.

Ma è proprio il contenuto del testé riportato secondo esempio a dirci in maniera inequivocabile come anche in questo caso non siano all’opera “false rappresentazioni” in ordine alla trasparenza. Difatti, posto che era nelle manovre oscure interne ai partiti che si sostanziava la mancanza di democrazia e trasparenza; e posto che, nonostante il carattere nascosto e letteralmente osceno di tali manovre, si “riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”; allora ne consegue che era possibile vedere chiaramente la vera realtà delle lotta politica interna ai partiti, senza farsi irretire, appunto, da alcuna illusione.

Peraltro, l’affermazione secondo cui sarebbero state sufficienti volontà e capacità intellettuali per lacerare il velo dell’apparenza ed identificare addirittura gli oscuri “manovratori” delle decisioni dei partiti politici, mi pare pecchi di ottimismo se non di una sorta di onnipotenza del pensiero. Si considerino, difatti, a confutazione e comunque forte ridimensionamento della portata della soprarichiamata affermazione, tutti quegl’importanti e gravi accadimenti della nostra vita politica nazionale i quali, seppure ascritti (in tutto o in parte) alle decisioni manifeste dei partiti politici, non è stato possibile ricondurre ai responsabili ultimi “con tanto di nomi e cognomi”. Laddove, in quei pochi casi in cui ciò si è verificato, lo è stato comunque a distanza di decenni, ed il più delle volte a seguito dell’emersione di circostanze e documenti, avvenuta di rado casualmente, più spesso deliberatamente, in vista del perseguimento, in quest’ultima evenienza, di scopi ulteriori poiché funzionali a nuove strategie, naturalmente ignote alla generalità della popolazione nel momento del loro dipanarsi in atto.

In definitiva, i due esempi riportati nella Replica non mi paiono così calzanti e persuasivi.

4.2.   Però nel contesto dell’esposizione del primo esempio è operato un fugace accenno al ruolo delle illusioni in generale, il quale sembra poter fornire qualche indizio utile per capire la funzione che gioca questo elemento nell’impianto argomentativo di Morigi.

Precisamente, si afferma che “in politica, come nel resto di tutte le altre faccende della vita, le illusioni contano e quando queste cadono non si può far finta di nulla pensando che siccome si trattava di illusioni la loro scomparsa conta meno di nulla e non vale nemmeno la pena di segnalarle e di cercare di elaborare un pensiero non banale a proposito”.

Ora, affermare che “le illusioni contano”, in questo contesto discorsivo, sembra voler significare che le illusioni non sono nulla, e che producono effetti reali. Se questa mia interpretazione è corretta, allora deve dirsi che tali effetti saranno pure reali, ma i pensieri e le azioni inclusi nella cerchia di tali effetti saranno irrimediabilmente inficiati dall’esser derivati da una percezione errata (qual è appunto l’illusione) della realtà vera, e dunque, in definitiva, da erroneità e falsità.

Se poi si traslano queste considerazioni generali nell’ambito del discorso che si stava conducendo, ne viene che l’asserito diffuso convincimento, presente nella precedente epoca storico-politica, circa la trasparenza delle decisioni dei partiti politici era un’illusione e, in quanto tale, un falso convincimento.

Libero, quindi, Morigi, naturalmente, di elaborare “un pensiero non banale” sulla suddetta illusione (e sulla sua presunta caduta). Ma mi permetto di osservare che se il pensiero vuole conoscere la realtà e le determinazioni vere di una presunta nuova era politica e le sue differenze rispetto alla precedente (e non v’è dubbio che Morigi voglia applicarsi alla produzione di un pensiero di tal fatta), non può accontentarsi fermandosi alla considerazione delle false rappresentazioni che sulle corrispondenti epoche storiche si sono formate, assumendole quali dati di realtà di ultima istanza. E non può perché in questo modo non sarebbe in grado di nemmeno tentare di conseguire quello scopo prefissosi (ossia l’acquisizione della conoscenza delle vere determinazioni di una nuova epoca politica).

Di conseguenza, e per tornare specificamente al discorso centrale di questo scritto, può affermarsi ciò: posto che la totale mancanza di trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici e dunque la loro etero direzione sono dati caratterizzanti sia la precedente sia l’attuale fase storica, ne discende che l’utilizzo della piattaforma Rousseau non integra alcuna novità inerente i predetti processi, con il corollario per cui il ricorso alla nozione di “colpo di extrastato”, per qualificare tale utilizzo ed evidenziare così tale presunta novità, non pare rivestire utilità teorica. Anzi, ribadisco che, a mio avviso, il convogliamento delle energie intellettuali individuali e collettive nell’elaborazione di tale nozione può essere financo dannoso poiché rischia di distogliere l’attenzione dal tentativo di cogliere le vere configurazioni dei processi politici reali.

  1. Vergo, infine, due ordine di notazioni inerenti il seguente, in parte già riportato, passaggio: “nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata e non segnalando la caduta di quest’illusione non si riesce a vedere un fatto di primaria importanza: e cioè che si riconosce piena titolarità politica e decisionale a corpi del tutto inediti ed extracostituzionali”.

Il primo ordine di notazioni si risolve in un unico rilievo di natura logica. In particolare, se si assume essere intervenuta “la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali”, vuol dire che questi “tutti”, ossia i soggetti portatori di tale illusione, sono consapevoli della caduta di questa, del suo venir meno. Difatti, una volta svanita una determinata illusione, i soggetti di essa si avvedono di ciò che era stata, proprio perché, essa svanendo, non ne sono più irretiti e la possono riconoscere in quanto tale. Di conseguenza, non può porsi un problema di mancata evidenziazione da parte delle “pubblica opinione”, “pubblicistica politica” e “scienza politica” della caduta, del dileguarsi di questa illusione, proprio perché il suo svanire ha segnalato ciò che essa stessa era ai soggetti che ne risultavano avvolti.

Il secondo ordine di notazioni è di natura fattuale. Contrariamente a quanto si sostiene nella Replica, esponenti di quelle istanze e discipline dianzi menzionate, ossia la pubblica opinione nonché la pubblicistica e la scienza politiche, hanno, in occasione della nota recente consultazione telematica, levato dolenti e pensosi ammonimenti di fronte al presunto nuovo ed esiziale pericolo generato dall’asserita inaudita anomalia extracostituzionale della piattaforma Rousseau[5].

D’altronde, questi ammaestramenti vanno ad alimentare una serqua di allarmi rivolti ormai da tempo sullo stesso tema da molte voci della stampa[6]. Cosicché la Piattaforma Rousseau finisce per essere ormai largamente additata, segnalata e riconosciuta all’opinione pubblica come la scatola nera che inghiotte le velleità di democrazia diretta sbandierate dai suoi fautori. È dunque la mancanza di trasparenza che si rivela in modo trasparente. O, riprendendo il titolo di questo scritto, l’innocuo paravento che tenta senza esito di mascherare l’ampiamente consolidata realtà di forze che agiscono dietro le formazioni politiche operanti sulla scena.

Peraltro, gli argomenti adoperati dai menzionati critici della recente votazione elettronica in questione esibiscono tutti quale sfondo comune la salda fede nella democrazia rappresentativa, architrave della legalità costituzionale ed anzi eterna garanzia di trasparenza messa a repentaglio da quell’inedita procedura decisionale telematica.

Ecco, il tenore di tali argomenti, ma anche la biografia pubblica dei personaggi che se ne sono resi fautori, mi pare comprovino ampiamente la fondatezza di quanto da me paventato nel Commento riguardo al rischio (che investe anzitutto il piano culturale e della consapevolezza) generato dalla concentrazione dell’analisi politica sulla ritenuta novità rappresentata dal carattere malefico ed oscuramente extracostituzionale della piattaforma Rousseau: si finisce per accreditare l’idea che questo dispositivo abbia infranto il preesistente paradiso terrestre della trasparente democrazia rappresentativa incentrata armonicamente sui partiti politici in quanto operanti con “metodo democratico”.

Idea falsa e risibile, naturalmente[7].

Ma su ciò Morigi suppongo convenga senza riserve.

 

 

[1]   Semmai sollevo un rilievo, anche se non essenziale e quindi da collocarsi non nel testo ma appunto in questa nota, il quale mira ad evidenziare una perplessità riguardo il “consiglio” di Morigi di non “avventurarsi a cuor leggero in merito alla natura più o meno privata dei partiti, i quali nella nostra Costituzione vengono citati anche se poi riguardo al loro <dover essere> ci si limita ad una vacua retorica democratica che dice tutto e il contrario di tutto”. Difatti, quale che possa essere stato lo spirito con cui nel Commento mi sono accostato (non già avventurato) a siffatto tema, e dunque se con colpevole spensieratezza (come pare ritenere Morigi) oppure con animo gravido di timore e tremore, il dato certo ed incontestabile è che la natura giuridica dei partiti politici nell’ordinamento italiano è, come segnalavo, quella di “semplici associazioni private non riconosciute”. Ed è dato la cui solidità non viene scalfita di un ette dall’accenno ai partiti che opera la Costituzione, rientrando, tale accenno, nel novero delle tanto belle quanto vacue dichiarazioni di principio o programmatiche di cui è infarcita la Carta, secondo quanto, del resto, riconosce lo stesso Morigi. Ma allora poco si comprende la congruenza di uno schema argomentativo che contempla, in un primo momento, a ritenuto sostegno della propria tesi, il richiamo alla rilevanza di un elemento che io avrei omesso di considerare (e cioè il riferimento costituzionale ai partiti politici) e, subito dopo, la radicale squalificazione dell’elemento medesimo. Non è la prima volta, peraltro, che Morigi indulge ad una simile modalità argomentativa di stampo palinodico.

[2]   Tant’è che di questo, del fatto cioè che nell’Intervento la c.d. assenza di trasparenza nei partiti non è presentata in realtà come una novità e quindi non fa problema, ho dato puntualmente atto nel mio Commento: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore.

[3]   A questo proposito, la vicenda delle elezioni politiche nazionali italiane del 2006 è paradigmatica. Esse videro la vittoria della coalizione di centrosinistra, ma con un esiguo scarto di voti alla Camera dei Deputati. La coalizione avversaria chiese allora inizialmente di procedere al riconteggio di tutte le schede elettorali, per poi accettare, a seguito di un accordo politico, di contare solo le schede del 10% dei seggi (https://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/politica/polemica-schede/riconteggio-totale/riconteggio-totale.html). La Giunta per le elezioni, tuttavia  unico organo munito di giurisdizione al riguardo ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, riuscì a ricontare soltanto le schede relative a 180 seggi, di contro ai programmati 6000 seggi, ossia l’equivalente del suddetto 10%, e calcolò che per ricontare il totale ci sarebbero voluti due mandati addizionali di 5 anni (traggo questi dati da http://paduaresearch.cab.unipd.it/6293/1/carlotto_paolo_tesi.pdf).

[4]   D’altronde, va pure di molto stemperata l’enfasi sulla presunta natura “malefica” di questa “sorta di accrocchio tecnologico informatico” dispensatore di “responsi” ordalici. Difatti, in base allo statuto del Movimento 5 Stelle, la devoluzione alla “consultazione in Rete degli iscritti” dell’assunzione della generalità delle decisioni politiche del Movimento stesso, tra cui è rientrata infatti anche quella riguardante la costituzione del nuovo attuale governo, non è affatto obbligatoria, ma è rimessa alla scelta totalmente discrezionale del suo “Capo Politico ovvero, in sua assenza od inerzia, d[e]l Garante” [v. art. 4, lettere a), comma 2°, ultimo alinea e b), comma 1°, dello Statuto, visionabile qui: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/associazionerousseau/documenti/statuto_MoVimento_2017.pdf]. Pertanto, se pure si volesse dare rilevanza all’apparenza (o illusione) della trasparenza, e dunque in definitiva sapere – per riprendere le parole usate nella Replica – “con chi dobbiamo prendercela”, la responsabilità della decisione di costituire il nuovo governo, ove per responsabilità si intende la causa prima che ha consentito agli iscritti di esprimersi, sarebbe ascrivibile formalmente e sostanzialmente a Luigi Di Maio quale “Capo Politico” ed a Giuseppe Piero Grillo quale Garante del Movimento 5 Stelle (come del resto rilevato dalla stampa: https://www.ilpost.it/2019/09/03/piattaforma-rousseau-voto-oggi).

[5]   Di seguito, riporto una breve silloge di alcune delle opinioni espresse al riguardo, tutte da me tratte dall’articolo https://www.ilfoglio.it/politica/2019/09/09/news/la-soffitta-dei-simboli-inutili-272931/. Ferruccio de Bortoli: “<#Rousseau, uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa>”; Francesco Storace: “<La democrazia italiana nelle mani della piattaforma #Rousseau. Decide #Casaleggio senza alcuna trasparenza se il governo deve partire o no. Ora #Mattarella potrà nominare i ministri>”; Mara Carfagna:<Ah, quindi il Conte-bis non sarà legittimato dalle Camere, ma dalla piattaforma #Rousseau? Eppure non mi pare che i Padri Costituenti, nella loro saggezza e nel ruolo di rappresentanti del popolo italiano, avessero previsto di inserire la Casaleggio Associati in Costituzione>”; il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick: “<non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità>”, Cesare Mirabelli: “<Il presidente incaricato, sulla base del voto di un numero ristretto di persone, sia pure iscritte al partito M5s, si ritira e restituisce il mandato nelle mani del presidente della Repubblica? Non è quanto stabilisce la Costituzione>”.

[6]   Tra gli innumerevoli interventi giornalistici, cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/il-lato-oscuro-rousseau-hacker-bilanci-e-votazioni-non-certificate-ACDjgeg.

[7]   È significativo, al riguardo, che già nel 1966 un intellettuale come Lelio Basso, convinto assertore dell’imprescindibile funzione storica dei partiti e certamente distante da un estremismo antiparlamentare, dopo aver negato “che il parlamento sia veramente o possa essere la sede effettiva del potere e che tutti i problemi possano risolversi con la semplice azione parlamentare”, evidenziava il compimento di un “processo di progressivo svuotamento di un’autonoma funzione del parlamento a beneficio dell’esecutivo e dei partiti”, che riconosceva contestualmente essersi “rivelati strumenti politici più adeguati, anche se largamente insufficienti, alla democrazia di massa”, avendo cura però di soggiungere immediatamente che i reali beneficiari di tale processo di progressivo svuotamento erano “dietro di essi [ossia “dell’esecutivo e dei partiti”], [la] burocrazia, [i] gruppi di pressione e [le] forze economico-sociali” (http://leliobasso.it/documento.aspx?id=5b7a6827d18ca804ef8249e24302aaed).

A PROPOSITO DELLA SERVITU’ VOLONTARIA EUROPEA E ITALIANA DELLA RICERCA SCIENTIFICA VERSO GLI USA a cura di Luigi Longo

A PROPOSITO DELLA SERVITU’ VOLONTARIA EUROPEA E ITALIANA DELLA RICERCA SCIENTIFICA VERSO GLI USA

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco la lettura dello scritto di Antonio Mazzeo* su Ecco come il Pentagono condiziona e finanzia la ricerca scientifica in Italia ,apparso ne http://antoniomazzeoblog.blogspot.com il 13/9/2019, che riguarda i finanziamenti USA (via Pentagono, US Army, US Air Force, US Navy), con l’immancabile ruolo della NATO, per la ricerca scientifica indirizzata allo sviluppo di armi e tecnologie belliche sia a livello internazionale, sia a livello italiano (su cui lo scritto si sofferma).

La ricerca, il suo indirizzo, il suo pensare e agire strategico, la sua produzione, le sue innovazioni con sistemi (Federico Buttera) sono elementi fondanti dello sviluppo di un Paese. Pertanto si pongono due domande: incastrare la cosiddetta ricerca libera nelle strategie di ricerca USA è un elemento di sovranità? E quando si parla di relazioni (in tutte le loro sfere sociali) e di rapporti di forza tra Paesi perché si tende a mettere sullo stesso piano gli USA e l’Europa (che, è opportuno ricordarlo sempre, non esiste come entità politica), o,  gli USA, la Germania e la Francia, mettendo cioè  sullo stesso livello pre-dominanti e sub-dominanti (sic)?

Ripropongo, perché ahinoi sarà ancora di triste attualità per un lungo periodo, quanto scritto da un grande storico americanista, Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza): ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento americani penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia.

 

 

*peace-researcher e giornalista, ha realizzato numerose inchieste sui processi di riarmo e militarizzazione in Italia e nel Mediterraneo. Ha pubblicato recentemente Un Eco Muostro a Niscemi. L’arma perfetta del XXI secolo (Edizioni Punto L, Ragusa) e nel 2010 il volume I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo Stretto di Messina (Alegre Edizioni, Roma). Ha conseguito il Primo premio “Giorgio Bassani” di Italia Nostra per il giornalismo. È membro della Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella e della Rete No Ponte.

 

ECCO COME IL PENTAGONO CONDIZIONA E FINANZIA LA RICERCA SCIENTIFICA IN ITALIA

di Antonio Mazzeo

La ricerca scientifica nelle università e nei laboratori di istituti pubblici e privati italiani? Sempre più finalizzata allo sviluppo di armi e tecnologie belliche e con il generoso contributo delle forze armate degli Stati Uniti d’America. E’ quanto emerge dall’analisi del data base relativo alle spese effettuate dal governo di Washington, consultabile liberamente in rete (vedi https://gov.data2www.com). La sistematizzazione dei dati, non certo facile per l’enorme mole degli indicatori e delle informazioni contenute, ha permesso di documentare come a partire dal 2010 ad oggi il Dipartimento della Difesa USA, congiuntamente a US Army, US Air Force e US Navy abbia sovvenzionato con oltre 15 milioni di dollari programmi, sperimentazioni, conferenze, workshop e scambi internazionali delle università e dei più noti centri di ricerca nazionali.

Principali beneficiarie delle sovvenzioni dell’apparato militare a stelle e strisce sono, in ordine, l’Università degli Studi di Padova (22 i progetti per un ammontare complessivo di 1.427.549 dollari, di cui erogati 1.125.267); il Politecnico di Milano (1.183.353 dollari, di cui utilizzati in parte per un controverso studio sui mammiferi marini d’interesse della Marina militare statunitense); l’Università di Trieste (1.061.080); la Sapienza di Roma (957.194). A seguire ci sono poi l’Università di Bologna (602.620 dollari); Genova (454.388); la Cattolica del Sacro Cuore di Milano (432.000 per un programma di ricerca scientifica applicata sulla “modulazione delle funzioni cerebrali”, appena conclusosi); Catania (372.500 dollari, prima tra le università meridionali grazie ai programmi elaborati dal Dipartimento di Ingegneria Elettronica ed Informatica); Parma (363.500 dollari, in buona parte destinati alla ricerca e allo sviluppo del “Low Cost 3rd Vision”, presumibilmente visori di ultima generazione per militari e robot); il Politecnico di Bari (346.000); l’Università di Siena (316.000); Pisa (317.000, tutti al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione); Brescia (300.500), L’Aquila (264.000); Firenze (260.346); Milano (224.050); la Federico II di Napoli (230.940 dollari, in buona parte per un progetto triennale di ricerca sulla “sopravvivenza dei materiali compositi in ambiente marino”, che si concluderà a fine settembre 2019); l’Università di Trieste (211.345 dollari, quasi tutti al Dipartimento di Fisica e un modestissimo contributo al Dipartimento di Scienze Politiche per coprire parzialmente le spese di viaggio per una conferenza sugli Stati Uniti); l’Università Politecnica delle Marche (207.000); Bari (200.000); Perugia (192.500, tutti al Dipartimento di Fisica); l’Università degli Studi della Calabria (169.000); dell’Insubria di Varese (153.500); del Sannio di Benevento (128.229 dollari su un capitolo-fondi dell’Istituto per le tecnologie USA per “misurare il sistema di calibramento” delle famigerate electroshock-weapon, le armi elettro-schock entrate di moda tra le forze armate e di polizia di mezzo mondo); Udine (125.850); Torino (100.000). Sovvenzioni minori e/o simboliche sono state erogate dal Dipartimento della Difesa e dalle forze armate USA all’Università degli Studi di Roma 3 (76.000 dollari); all’Ateneo di Bergamo (70.000); al Politecnico di Torino (59.353 dollari per una ricerca sui sistemi operativi satellitari dell’US Air Force); all’Università di Camerino (27.000); Pavia (25.000); alla Fondazione degli Studi Universitari di Vicenza (20.000); Roma Tor Vergata (10.000).

Inquietante l’ammontare dei contributi del Pentagono a favore di diversi istituti del CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il maggiore ente pubblico scientifico italiano. Si tratta complessivamente di 1.538.920 dollari (1.053.800 già erogati); beneficiari, in ordine di valore, l’Istituto di Ingegneria del Mare (CNR-INM) di Roma (894.000 dollari in buona parte per ricerche di idrodinamica e sul funzionamento dei mezzi navali ad alta velocità); l’Istituto di Scienza e Tecnologia dei Materiali Ceramici (CNR-ISTEC) di Faenza (195.000 dollari); l’Istituto per i Polimeri Composti e Biomateriali (CNR-IPCB) di Napoli (150.000 dollari per il programma Shedding Light on Brain Microdomains, avviato nel febbraio 2017 e che si concluderà a fine gennaio 2020); l’Istituto Nanoscienze (CNR-NANO) di Pisa (93.419); l’Istituto Superconduttori Materiali Innovativi (CNR-SPIN) di Genova (55.000); l’Istituto dei Materiali per l’Elettronica ed il Magnetismo (CNR-IMEM) di Parma (100.000); l’Istituto di Scienze Marine (CNR-ISMAR) di Venezia (26.000); l’Istituto di Fotonica e Nanotecnologie (CNR-IFN) di Padova (10.000); l’Istituto delle Metodologie Inorganiche e dei Plasmi (CNR-IMIP) di Bari (10.000); l’Istituto per la Microelettronica e Microsistemi (CNR-IMM) di Catania (5.000).

A riprova dell’interesse strategico rivestito dal Pentagono per le aree marittime, va segnalato l’imponente contributo (861.621 dollari) a favore delle ricerche dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste, noto anche come OGS – Osservatorio Geofisico di Trieste, denominazione in vigore fino al 1999, anno di trasformazione in ente pubblico nazionale. In particolare il Dipartimento della Difesa USA ha contribuito agli studi dell’osservatorio triestino sulle correnti marine nell’area orientale del Mar Mediterraneo, del Mar di Marmara (tra l’Egeo e il Mar Nero), nell’Oceano Atlantico a ridosso delle coste del Senegal. Sorprendenti per alcuni versi, invece, i contributi delle forze armate USA alle ricerche di due dei più prestigiosi centri medico-sanitari privati italiani, l’Istituto Europeo di Oncologia e l’Istituto Ortopedico “Galeazzi”, entrambi con sede centrale a Milano. Nello specifico, al primo sono stati erogati 519.311 dollari per analizzare i potenziali rischi dell’esposizione ai raggi X con la tomografia computerizzata. Al “Galeazzi” sono andati invece 349.689 dollari per “ricerche medico-militari” sulla diffusione delle metastasi. Il Pentagono ha inoltre sovvenzionato con 16.000 dollari il Centro Internazionale di Fisica Teorica (ICTP) “Abdus Salam” di Trieste e pure l’ENEA, l’ente pubblico di ricerca nazionale che opera nei settori dell’energia e delle nuove tecnologie (5.000 dollari). Sovvenzioni sono state effettuate pure a favore di società private (50.000 dollari alle Industrie Bitossi S.p.A. di Vinci, Firenze per una ricerca sulle leghe di alluminio “per applicazioni balistiche” e 10.000 dollari alla EAAT Design e Prototyping di Napoli per la “ricerca applicata Eurocorror 2014”) e ad alcuni ricercatori italiani: 150.020 dollari all’ingegnere aeronautico Sara Cerri di Gattinara, Vercelli (collaborazione al programma co-finanziato dall’Unione europea di sviluppo delle fonti energetiche alle isole Hawaii) e 90.000 dollari all’ingegnere elettronico pugliese Vito Roppo, per uno studio sui semiconduttori negli anni 2010-2016 (nel curriculum vitae del dottor Roppo si fa anche riferimento al coordinamento di “5 progetti per un valore complessivo di 120mila euro” presso il Centro di ricerca d’ingegneria missilistica dell’aviazione di US Army di Huntsville, Alabama, novembre 2007-settembre 2012).

Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America ha infine contribuito economicamente ad alcuni progetti di sviluppo di sistemi da guerra sottomarini realizzati dal NATO Centre for Maritime Research & Experimentation, il Centro per la ricerca e la sperimentazione marittima con sede a La Spezia, sotto il controllo dell’agenzia della NATO che si occupa di scienza e nuovi sistemi tecnologici [corsivo mio]. Complessivamente al centro ligure sono stati erogati 816.840 dollari. Anche in questo caso è presumibile che una parte del denaro sia stato utilizzato per programmi a cui hanno collaborato gli istituti universitari e i centri di ricerca pubblici e privati italiani partner. Presso il Centro Interuniversitario di Ricerca sui Sistemi Integrati per l’Ambiente Marino (ISME), attivato nell’ateneo di Genova, sono operativi infatti i laboratori di Oceanic engineering per la “progettazione e lo sviluppo di robot, veicoli autonomi e droni navali e sottomarini”, in collaborazione con la struttura NATO di La Spezia, [corsivo mio] le industrie belliche e la Marina militare italiana. Nel marzo 2015, il Polo “Guglielmo Marconi” di La Spezia dell’Università degli Studi di Genova, ha inoltre sottoscritto un accordo di collaborazione con il NATO Centre for Maritime Research & Experimentation per lo “sviluppo di sistemi robotici e ingegneristici e tecnologie di comunicazione sottomarini”. Un master di II livello sull’elettroacustica subacquea è stato attivato invece dal Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, sempre in collaborazione con il Centro NATO di La Spezia [corsivo mio] e alcune importanti aziende del complesso militare industriale nazionale.

 

IL FILOSOFO E IL SARCHIAPONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL FILOSOFO E IL SARCHIAPONE

Non c’è giorno in cui i media simpatizzanti per il governo Conte-bis, e i loro beniamini a Palazzo non ripetano slogan, idola, topoi ben noti perché – per lo più – ripetuti perfino da oltre quarant’anni. È stato riciclato anche quello famigerato sulle tasse “paghiamole tutti, paghiamone meno” ossia il ritornello che ha accompagnato tutti gli aumenti fiscali dagli anni ’70 in poi, quanto mai sgradito ai contribuenti che le pagano, perché volto ad ammorbidire la resistenza a pagarne di più: ma non a farle pagare agli evasori/elusori dato la ben nota scarsa efficienza del fisco italiano a perseguirli. I quali tranquillamente preferiscono pagarne poche in Olanda o Lussemburgo se vogliono restare in Europa, altrove se vogliono uscirne.

Non ne manca nessuno: dalla “Green Economy” (con la quale si volge in propaganda un problema serio) al lamento sull’accoglienza e così via. Tutti al fine di “riempire” di contenuti un patto di governo la cui ragion d’essere è: a) tirare a campare; b) evitare il probabile successo di Salvini.

Tuttavia, più per il PD e connessi che per il M5S c’è un problema di credibilità: come si fa a dare credito ad un partito, “polo” sinistro della “Seconda Repubblica”, regime la cui classe dirigente ha registrato i peggiori risultati nel tempo o nello spazio dall’unità d’Italia ad oggi? Più di un anno fa scrivevo su questo sito (“La peggiore di tutte”) che la classe dirigente della seconda repubblica – usando come riferimento l’incremento dal prodotto individuale lordo (indice estremamente importante) anche se non esaustivo – aveva fatto i peggiori risultati (1994-2018) della zona euro e della UE; lo stesso a paragonarla con le altre classi dirigenti dall’Unità d’Italia in poi. Pretendere, di fronte a tale disastro che gli italiani prendano per buone le solite ricette ma anche le nuove propinate dagli stessi medici, è un desiderio di difficile attuazione.

Il perché ce lo spiegava Croce in un passo tanto spesso citato, su morale e politica, dove il filosofo, tra l’altro, criticava “nessuno, quando si tratta di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purchè abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e abilità operatoria, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura” ma  laddove, aderendo al richiamo dell’onestà e/o della competenza l’elettorato “ha messo a capo degli Stati uomini da tutti amati e venerati per la loro probità e candidezza e ingegno scientifico e dottrina; ma subito poi li ha rovesciati, aggiungendo alle loro alte qualifiche quella, non so se del pari alta, d’inettitudine”. Croce così rilevava come il popolo giudicasse i governanti in base ai risultati più che alle intenzioni e alla (di essi) dottrina; con riguardo all’onestà politica la definiva “non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze”.

Il guaio o meglio la tara (ma non solo del PD) è di essere lo stesso partito, e in buona parte lo stesso personale dirigente che ha co-gestito la fallimentare “Seconda Repubblica”: per cui la credibilità a risolvere problemi – col loro armamentario            ideale e materiale – è radicalmente compromessa. Aggravato il tutto poi se le soluzioni proposte somigliano in gran parte a quelle già praticate. Buone forse a confortare qualche militante, ma poco idonee a incrementare il numero (insufficiente) di quelli che non credono né votano PD. Agli altri ha lo stesso effetto di chi volesse ripetere lo stesso sketch, come quello sul Sarchiapone di Walter Chiari o barzellette risapute: un dejà vu, per lo più accompagnato da indifferenza e (spesso) tanti sbadigli.

Teodoro Klitsche de la Grange

COLPO DI EXSTRASTATO III, Di Massimo Morigi

COLPO DI EXSTRASTATO III (CON FRANCHISE DI ISAAC ASIMOV PIÙ UN RITORNO AL PASSATO CON UN RITORNO AL FUTURO DALL’ITALIA E IL MONDO)

Di Massimo Morigi

 

«The door opened, snapping him to open-eyed attention. For a moment, his stomach constricted. Not more questions! But Paulson was smiling. “That will be all, Mr. Muller.” “No more questions, sir?” “None needed. Everything was quite clearcut. You will be escorted back to your home and then you will be a private citizen once more. Or as much so as the public will allow.” “Thank you. Thank you.” Norman flushed and said, “I wonder  – Who was elected?” Paulson shook his head. “That will have to wait for the official announcement. The rules are quite strict. We can’t even tell you. You understand.”  “Of course. Yes.” Norman felt embarrassed. “Secret Service will have the necessary papers for you to sign.”  “Yes.” Suddenly, Norman Muller felt proud. It was on him now in full strength. He was proud. In this imperfect world, the sovereign citizens of the first and greatest Electronic Democracy had, through Norman Muller (through him!) exercised once again its free, untrammeled franchise.»: Isaac Asimov, “Francise”,  in “if. Worlds of Science Fiction”, agosto 1955, p. 15 (consultabile su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/1955-08_IFhttps://ia801300.us.archive.org/25/items/1955-08_IF/1955-08_IF.pdf ed anche all’URL http://www.astro.sunysb.edu/fwalter/HON301/franchise.pdf; congelamento URL e documento  presso WayBack Machine: https://web.archive.org/web/20190911153029/http://www.astro.sunysb.edu/fwalter/HON301/franchise.pdf). Il testo appena citato è la chiusa del racconto breve di Isaac Asimov “Francise”, pubblicato in Italia col titolo Diritto di voto, che io ebbi modo di leggere in una lontana estate di metà anni Settanta in una raccolta di racconti, La terra è abbastanza grande, dedicata  al più grande maestro mai esistito della fantascienza (Isaac Asimov, “Diritto di voto”, in  “La terra è abbastanza grande”, Milano, Editrice Nord, 1975, pp. 91-112). Ma non è per indugiare con la memoria alle mie estive letture giovanili che nel presente finale di estate ho tirato in ballo il “Diritto di voto” di Asimov, ma, come forse qualcuno avrà già intuito,  è  per tornare sulla questione del voto elettronico sulla piattaforma Rousseau associando alla critica su questo racconto del più grande maestro della fantascienza le osservazioni che sono state mosse riguardo a “Colpo di extrastato” e a “Colpo di extrastato II”. La fantascienza, quando è fantascienza di qualità, si dice. e io condivido in pieno questa opinione, riesce a fornirci spunti letterari, filosofici  e politici che vanno ben al di là della banale descrizione di un meraviglioso (o pauroso) mondo tecnologico (o, nel peggiore dei casi, della rappresentazione delle terribili e truculente invasioni aliene). A questo punto chi abbia avuto la pazienza di seguirmi si aspetterà che io affermi: «Ecco, gente di poca fede quello che io sostengo nei due colpi extrastato era già stato intravvisto dal maestro della fantascienza in “Diritto di voto” e per arrivare a questa elementare verità sarebbe bastato annoiarsi come lo scrivente in lunghe letture estive.» (Magari con  “Azzurro” di sottofondo alla lettura, cantato da una volta tanto sublime Celentano  e musica scritta dal sempre ineffabile Paolo Conte: ogni allusione all’attuale primo inquilino di Palazzo Chigi è veramente puramente casuale.). Invece, quello che io sostengo è esattamente il contrario ed è cioè che quello che  la chiusa di  “Diritto di voto” ci restituisce non è una premonizione sulla nostra società attuale ma, in un certo senso, un suo profondo fraintendimento. Certo Norman Muller, l’antiroe del racconto scelto da un’ imperscrutabile tecnocrazia perché le sue pulsioni e manchevolezze di mediocre uomo della strada possano essere vagliate da un formidabile calcolatore elettronico per designare, attraverso l’ analisi di queste caratteristiche rappresentative di tutta la popolazione, il vincitore alla corsa alla presidenza degli Stati uniti, passa da un comprensibile stato di depressione per la responsabilità che la sua debole persona e personalità rappresenti mediamente quella di tutta la popolazione degli Stati uniti (e possa quindi, attraverso il processo algoritmico del calcolatore, essere la sola in grado di partorire una così grande scelta) ad una sorta di euforia : «”Yes.” Suddenly, Norman Muller felt proud. It was on him now in full strength. He was proud. In this imperfect world, the sovereign citizens of the first and greatest Electronic Democracy had, through Norman Muller (through him!) exercised once again its free, untrammeled franchise.»,  e questo a significare un profondo pessimismo verso un uomo-massa dominato dalle macchine e dai loro sacerdoti tecnocrati ma quello che la chiusa del racconto non ci dice è 1) la possibilità che tutta la faccenda della scelta mediata attraverso il calcolatore Multivac (e riguardo a questo punto,  poco importa se questo calcolatore emetta il vaticinio processando un solo soggetto passivo o una più vasta comunità composta da simili uomini-massa) sia una truffa e 2)   – e ancor più importante – non accenna minimente al fatto che questa veramente singolare procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario). Ma non è stato per ridimensionare  la capacità della buona fantascienza di offrirci euristicamente interessanti e premonitori scenari politici e filosofici utili anche per le nostre attuali condizioni né tantomeno per indicare che in questo caso il buon Asimov dormicchiava che ho deciso di segnalare queste intime debolezze del racconto “Diritto di voto” in relazione alla votazione sulla piattaforma Rousseau. Al contrario, lo scopo è stato quello di segnalare che nelle vicende sociali e politiche (come anche in quelle che continuiamo  a definire fisiche e/o biologiche, così distinguendole da quelle storico-culturali e per la cancellazione di queste ridicole suddivisioni si rinvia, per brevità senza bibliografia, a tutto quanto in questi anni è stato scritto in merito al modello dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico) i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente, talché è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet. E purtroppo (cioè in senso profondamente negativo) questo vale a maggior ragione per la presente situazione italiana, dove accanto ad una costituzione materiale sempre più palcoscenico di una politica privata ormai di qualsiasi valenza di scontro strategico (Parlamento e partiti animati dai lugubri fantocci burkiani le cui interióra non sono altro che segatura e stracci e le cui gesta, quando non sprofondano nella più abissale assurdità, ci richiamano ad un surreale spettacolo di burattini con tanto di pupari dietro le quinte) ed uno Stato in cui le sue varie articolazioni sono sempre più in preda ad una sindrome di disturbo dissociativo dell’identità (in quale altro modo inquadrare la persistente ignoranza da parte di questi corpi che il loro telos  primario dovrebbe essere il mantenimento dello Stato stesso e della popolazione che ne costituisce le fondamenta materiale e spirituale e non la tutela di ipostatici diritti universali?), anche il paperinesco voto sulla piattaforma Rousseau costituisce una novità (negativa) di grandissima portata. Concludo, come da titolo, con un recente ritorno al passato dall’ “Italia e il mondo” che prefigurava un ritorno al futuro che penso abbia mantenuto ancora oggi un qualche valore. Si tratta del “Per un recupero delle prerogative dello stato nazionale italiano, per la salvaguardia della integrità del Paese, verso una posizione di neutralità vigile” di Giuseppe Germinario (pubblicato sull’ “Italia e il mondo” il 2 febbraio 2018 ma il documento è di quattro anni più vecchio) e della mia risposta allo stesso. Vista l’importanza del testo di Germinario (col quale lo scrivente concordava allora pienamente, come concorda, se possibile, ancor più pienamente oggi, tempi  di apoptopici rousseauiani colpi di extrastato) e, modestamente, della mia risposta sempre sul blog allo stesso, ho pensato di congelare questi due testi in un’unica pagina copiaincollata caricata su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/perunrecuperodelleprerogative.dellostatonazionaleitalianoarticologerminariorispostamorigipdf e https://ia601501.us.archive.org/10/items/perunrecuperodelleprerogative.dellostatonazionaleitalianoarticologerminariorispostamorigipdf/PER%20UN%20RECUPERO%20DELLE%20PREROGATIVE.%20%20DELLO%20STATO%20NAZIONALE%20ITALIANO%20ARTICOLO%20GERMINARIO%20RISPOSTA%20MORIGIpdf.pdf (ovviamente, è anche possibile avere diretta visione di questi testi attraverso l’URL originario del blog http://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile/#disqus_thread ma chi ha avuto modo di seguirmi in questo blog non ha difficoltà a comprendere le ragioni di questa procedura archivistica dei tempi di Internet). Nella mia concorde replica all’intervento di Germinario, che prendendo le mosse da uno schema schmittiano («Allora sotto questo punto di vista deve costituire un fondamentale contributo il ragionamento sviluppato da Carl Schmitt nelle “Categorie del politico” e ripreso nell’incipit di questo commento: vale a dire che la forza politica che vorrà farsi carico del programma di Germinario dovrà, prima di tutto, prendere una decisa e cristallina posizione contro la retoriche democraticistiche, dei diritti umani e di una politica internazionale “pro umanità” lungo la direttiva espressa da Schmitt nelle “Categorie del politico”», lo sviluppava, però, lungo una prospettiva non classicamente “realpoliticistica” ma “culturalistica” (sotto qualche aspetto simile al costruttivismo wendtiano ma di ben altra consapevolezza e profondità storico-filosofica), che è l’apporto dialettico e del tutto innovativo che il Repubblicanesimo Geopolitico dà alla tradizione del realismo politico moderno, riallacciandosi in questo modo in via diretta all’antica tradizione umanistica della filosofia dell’azione e/o della prassi (che si dipana lungo un filo rosso che lega Aristotele, Machiavelli, Hegel, Marx per finire col più grande esponente novecentesco della filosofia della prassi, cioè Antonio Gramsci): «Ma non ci si dovrà fermare a questa “pars destruens”. La “pars construens” cui questa formazione politica dovrà ispirare la sua parte propositiva, dovrà porre sul piedistallo degli idoli infranti democraticistici e dirittoumanistici (che da sempre sono la principale arma di dominio agli agenti alfa-strategici) il concetto di Kultur, il che significa che il primo (se non l’unico) obiettivo di una nuova consapevole politica per la rinascita dell’Italia è l’ adamantina consapevolezza che l’Italia ha una cultura (intendendo per cultura quell’inestricabile intreccio dialettico fra cultura, arte, storia, economia, religione) che va ben oltre gli ultimi disgraziati settant’anni della sua storia “democratica”. In altre parole, questa forza politica deve essere consapevole che questa Kultur deve ritrovare un suo rinnovato Lebensraum che gli dia spazio e che la faccia rinascere.». Il più fatale errore che si può compiere ragionando (ed anche agendo) di e nella politica è pensare che cultura e politica siano due cose distinte mentre come ci insegna (anche se rozzamente) Marx ed in maniera invece impareggiabile Antonio Gramsci (e, immodestamente in una definitiva sistemazione dialettico-espressivo-strategica il Repubblicanesimo Geopolitico) non si tratta altro che di due facce della stessa medaglia. Il concetto di colpo di extrastato, pur con tutte le criticità segnalate dai gentili lettori dell’ “Italia e il mondo” ha a mio giudizio un innegabile pregio, e cioè che unisce in un solida sintesi dialettica la critica alla profondissima crisi istituzionale e politica italiana che in questa fase riesce a produrre anche un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali (la piattaforma Rousseau) alla critica ad un’altrettanto degradante crisi culturale: cosa c’è di più idiota nel ritenere che una consultazione perché mediata da un apparato tecnologico-informatico sia migliore e più democratica di una tenuta attraverso un tradizionale sistema cartaceo? (questa credenza ha davvero  molte cupe analogie  con la pratica – diciamolo chiaramente: disperata e disperante – degli amoreggiamenti virtuali e davanti ad una Webcam: e, almeno da questo punto di vista, il racconto asimoviano con la sua realistica descrizione del timido e recalcitrante uomo-massa Norman Muller ci fornisce assai interessanti spunti). Concludevo il mio intervento in appoggio all’articolo di Germinario: «Quello che, tuttavia, dovremmo essere ben fermi nei nostri propositi, deve essere la consapevolezza (e quindi la decisione) che è giunto il momento di porre pubblicamente a chi dovrebbe esserne interessato questa problematica teorica. Dalle risposte (e anche dalla nostra decisione nel porre le domande), potrebbe nascere evoluzioni molto interessanti (molto interessanti perché rivoluzionarie) del ad oggi “stagnante” e maleodorante “caso italiano”». Ecco, allora come oggi, si è invocato «sia a livello di prassi che di teoria politica [di] un colpo altrettanto extra» ( chiusa di  “Colpo di extrastato”). E questo con buona pace delle vestali della retorica democraticistica diritto-universalistica, degli amoreggiatori politico-virtuali della piattaforma Rousseau ed anche di tutti i più o meno padani Tecoppa che non hanno capito che per rovesciare  il quadro dei rapporti di forza geopolitici sviluppatisi in seguito alla sconfitta nel secondo conflitto mondiale non basta proprio fare accordi con la misera controfigura di Segretario politico del partito triste ed indegno erede del grande (e a suo modo tragico) partito del gigante realista politico Palmiro Togliatti né essere politico più navigato – ci vuole ben poco! – del vispo ma politicamente stracciato scugnizzo capopentastellato. Ci vuole, appunto, un colpo “estra” (magari sapendo anche far tesoro e sviluppandole insieme dialetticamente la pur timida, anche se interessantissima, distopia asimoviana di “Francise” e gli ammaestramenti di Giuseppe Maranini, per i quali un buon punto di partenza può anche essere costituito dalla voce ‘Colpo di Stato’ da lui scritta per l’Enciclopedia Italiana e da noi citata all’inizio di questo trittico sul ‘Colpo di extrastato’…)…

 

Massimo Morigi – 14 settembre 2019

 

 

 

Strategie e capisaldi, di Fabio Falchi

Condivido molto ma non ritengo che la Lega dando vita ad un governo giallo-verde abbia commesso un errore strategico. L’errore della Lega, a mio giudizio, è stato un altro, ossia ritenere che l’alleanza giallo-verde fosse una alleanza strategica anziché tattica.

Mi spiego meglio: La Lega doveva necessariamente risolvere due problemi prima di sfidare l’UE (sfida peraltro difficilissima e che non si può vincere con un “sovranismo” e un anti-europeismo da fiera paesana): strutturarsi come autentico partito nazionale (ossia non più “(macro)regionale”) e conquistare il maggior numero possibile delle casematte dell’apparato dello Stato italiano, quasi tutte controllate dal PD. Quindi era necessario fare una alleanza con “il nemico del suo nemico”, sapendo però che la natura “impolitica” del M5S (che pure , almeno in teoria , l’esperienza di governo poteva trasformare in una forza politica non più “impolitica”) poteva giocare dei brutti scherzi, e che il nemico da sconfiggere non era in primo luogo il più pericoloso (ossia il partito del PdR legato a doppio filo con l’UE) ma il più debole anche se ancora assai pericoloso per la Lega, ossia il PD (che la stessa UE non considerava più come il proprio “agente italiano”, per la sua debolezza e le sue divisioni interne, ).

Per la Lega quindi il conflitto , più che probabile, all’interno del governo giallo-verde (composto da tre attori politici: partito del PdR – che potendo contare pure su Conte si andava sempre più rafforzando, attirando di conseguenza pericolosamente dalla propria parte pure il M5S proprio per la sua “natura impolitica” -, M5S e Lega) andava combattuto cercando di non arrivare alla “rottura” prima di avere almeno nominato il Commissario europeo, i vertici delle aziende strategiche italiane nonché delle forze armate, di quelle dell’ordine e via dicendo, e al tempo stesso adoperandosi seriamente per trasformare la vecchia struttura della Lega Nord in una struttura adeguata ad un partito nazionale di massa.

Di fatto la Lega non solo non è riuscita a risolvere né l’uno né l’altro di questi problemi, ma volendo prima combattere il “padrone” anziché il suo “malconcio” maggiordomo le ha prese dall’uno e dall’altro e ora si trova a dover ricominciare tutto da capo, da una posizione che non si può certo definire una posizione vantaggiosa. In pratica, la Lega ha messo il carro (l’economia) davanti ai buoi (la strategia politica).

In questo contesto, per i leghisti è assai più facile regredire che progredire, pensando che con un grande successo elettorale (peraltro non affatto scontato) possa risolvere qualsiasi problema.

Comunque sia, l’analisi di Roberto merita davvero di essere letta perché impiega categorie strategico-politiche anziché categorie ideologiche e/o retoriche fuorvianti e incapacitanti.

 

Sinistri, destri, pentastellati e il declino del nostro Paese

Fabio Falchi

Che la sinistra sia parte costitutiva dei gruppi dominanti globalisti è un dato acquisito, così come ormai è un dato acquisito che pure il M5S sia finito nella cloaca globalista. Tuttavia, la questione politica del nostro Paese non è solo questa, che riguarda, sia pure in forma e misura diverse, tutti i Paesi occidentali.

Invero, anche la crisi del governo giallo-verde ha confermato che il problema dei destri è altrettanto grave di quello dei sinistri.

Ammettiamo pure che la premessa da cui partono i destri sia corretta, giacché è innegabile che la Lega, ostacolata com’era dalla UE e dal partito del PdR (in particolare da Conte e Tria che ormai potevano contare sull’appoggio del M5S), avesse scarsi margini riguardo alla manovra in deficit che voleva fare.

Basta però questo per affermare che il “Capitano” sarebbe stato vittima di un complotto o comunque sarebbe stato obbligato (da chi? e qui i complottisti si scatenano) ad aprire la crisi? Ovvero basta per affermare che il “Capitano” non avrebbe alcuna responsabilità riguardo alla caduta del governo giallo-verde o sostenerlo sarebbe come affermare che dato che l’Italia confina anche con la Francia, l’Austria e la Slovenia, non confina con la Svizzera?

Per i destri comunque il “Capitano” avrebbe fatto bene a chiedere elezioni anticipate (costringendo il M5S a scegliere tra una disfatta certa o ad allearsi con il PD per cercare di sopravvivere) e, non essendo riuscito ad ottenerle, avrebbe fatto bene ad andare all’opposizione (ma se davvero il M5S voleva mettere fine al governo giallo-verde entro quest’anno, vi era forse occasione migliore del voto sul decreto sicurezza bis o sul TAV per farlo?).

Comunque sia, anche se il “Capitano” avesse fatto bene a mollare tutto (dando così la possibilità al PD di condurre di nuovo la politica italiana e di nominare i vertici delle partecipate, vera locomotiva strategica della economia italiana – altro che PMI e flat tax!) e ad aspettare di prendersi una netta rivincita nelle urne (ma la pelle dell’orso non si vende prima di averlo ucciso) la questione da porsi è un’altra.

Difatti, non si deve ignorare che la manovra espansiva difesa dalla Lega in pratica consiste nel tagliare le tasse, in specie ai ricchi e alle PMI, senza considerare che i ceti più abbienti in questi anni hanno accumulato un enorme risparmio (e con “affari” peraltro in buona parte tutt’altro che “puliti” oltre che grazie ad un lavoro sottopagato) che alimenta i flussi finanziari e la rendita, non certo i settori produttivi, ma che i destri vogliono difendere a qualunque costo.

Del resto, è noto che le PMI non sono in grado di investire i miliardi di euro necessari per competere con i colossi internazionali (e senza la locomotiva strategica le PMI possono rivelarsi perfino una palla al piede!). Ciononostante, i destri ritengono che l’Italia da sola possa cavarsela nell’epoca dei grandi spazi e della sfida tra potenze continentali con un “sovranismo d’accatto” (che non si deve confondere con una equilibrata e necessaria difesa della sovranità nazionale) , come se il nostro Paese non fosse caratterizzato da un apparato statale obsoleto, da una burocrazia tra le più inefficienti del mondo, dallo sfascio del settore educativo, dal degrado del territorio, da disservizi di varia natura, da gravi ritardi tecnologici e via dicendo.

Punti deboli che i potentati stranieri com’è ovvio sfruttano a loro vantaggio, ma di cui chiaramente non sono i maggiori responsabili. Le “colpe” però per i destri sarebbero sempre solo degli “altri” e bisognerebbe quindi lasciare che il “genio italico” potesse esprimersi per risolverli (di conseguenza per la maggior parte dei destri preparazione, ordine mentale e studio sarebbero solo una perdita di tempo!).

Come se non bastasse, i destri oscillano tra un americanismo grottesco e un antiamericanismo da baraccone, l’uno e l’altro resi ancor più dannosi da una mancanza di un’autentica cultura (geo)politica che induce i destri a leggere la realtà geopolitica con lenti deformanti e ad accusare i sinistri di essere “comunisti” e “statalisti” e il governo Conte bis di essere giallo-rosso! (Non a caso, non pochi destri attribuiscono ai badogliani – oggi identificati soprattutto con i pentastellati – la responsabilità di tutti i disastri dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, dimenticandosi che era stato il regime fascista a portare il nostro Paese allo sfacelo e che l’8 settembre 1943 fu solo il frutto amaro, anzi amarissimo di quello sfacelo. E fu tale non perché i badogliani tradirono i tedeschi, ma perché tradirono il loro Paese, vale a dire perché, anziché difendere Roma com’era loro preciso dovere, preferirono svignarsela lasciando il Paese e l’esercito senza ordini).

In definitiva, è inutile prendersela solo con i pentastellati e i sinistri (che sono criminali in giacca e cravatta ma coerenti e capaci di guadagnarsi il concreto sostegno di potentati stranieri e ora pure di incassare qualche sì dalla UE preoccupata per la crisi della Germania e disposta a dare una mano al “Conte bis” pur di indebolire i populisti), perché la destra italiana è in buona misura una destra di buffoni, ciarlatani e complottisti come anche questa vicenda tragicomica di fine estate ha dimostrato.

Si obietterà che i sinistri e i pentastellati sono peggiori. Sì lo sono, ma né loro né i potentati stranieri, europei o americani, sono gli unici responsabili del declino del nostro Paese.

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