Libia: negoziazione o divisione?_ di Bernard Lugan

Libia: negoziazione o divisione? In Libia, dove l’esercito turco ha respinto le forze del maresciallo Haftar e dove il Cairo ha ordinato ad Ankara di non avanzare verso Sirte, il conflitto è inevitabile? Tutto dipenderà dagli obiettivi dei principali giocatori stranieri coinvolti nel campo. Il 7 novembre 2019 (vedi la mia analisi del 5 gennaio 2020), la Turchia ha agito come uno “stato pirata” firmando con la GUN, il governo dell’Unione nazionale installato a Tripoli, un accordo che ridefinisce le zone economiche esclusive (ZEE ) di entrambi i paesi. Concluso in violazione del diritto marittimo internazionale ea spese della Grecia e di Cipro, questo accordo afferma di tracciare un confine marittimo turco-libico nel mezzo del Mediterraneo in modo artificiale e illegale. La realizzazione di questo accordo passando per la sopravvivenza della GUN, il 2 gennaio 2020, il parlamento turco ha votato l’invio di forze di combattimento in Libia. Basandosi sia sulla solita codardia degli europei che sulle contraddizioni della NATO, il presidente Erdogan fa avanzare le sue pedine sul filo del rasoio, sapendo di beneficiare della benevola neutralità degli Stati Uniti la cui priorità è ” evitare di fondare una base russa in Cirenaica. Nel fare ciò, l’erratica amministrazione americana corre il rischio di provocare sia l’intervento militare dell’Egitto, una rottura all’interno della NATO e tensioni con i suoi alleati sauditi, emirati e israeliani. La Russia sta guardando in silenzio. La Libia non è un grande obiettivo per lei, il suo interesse non è quello di manifestarsi con la Turchia in un momento in cui quest’ultima si sta allontanando ulteriormente dalla NATO e dall’UE. Tuttavia, sorgono due domande:

1) La Grecia, un membro della NATO e dell’UE, e Cipro, un membro dell’UE, possono accettare il ricatto turco e hanno i mezzi per opporvisi?

2) L’UE rinuncerà alla Turchia, lasciando alla Turchia il controllo di due dei principali rubinetti della sua fornitura di gas, vale a dire EastMed e Turkstream?

Nonostante le dichiarazioni marziali, prima o poi la negoziazione riprenderà. Alla conferenza di Berlino dello scorso gennaio, la condivisione del potere su basi molto federali era stata quasi stabilita, ma i negoziati si erano finalmente bloccati sul posto da consegnare al maresciallo Haftar. Tuttavia, ora è fuori gioco … Qualsiasi piano di pace porterà quindi alle elezioni e, dato che tutti i protagonisti vengono screditati, l’unico in grado di essere supportato sia da un elettorato in Tripolitania che in Cirenaica sembra essere Seif-al-Islam, il figlio del colonnello Gheddafi a cui è stato spiccato un mandato di arresto internazionale … Il presidente Déby, i cui oppositori sono installati a Fezzan, sta seguendo con interesse l’evoluzione della situazione in Libia perché le forze di MisrataGUN-Turchia godono attualmente di un vantaggio; le tribù di Fezzan quindi si raduneranno ad esse. L’acquisizione del Fezzan da parte della GUN avrebbe conseguenze per Barkane perché la Turchia potrebbe quindi aiutare direttamente i gruppi terroristici saheliani … La NATO è sicuramente una grande famiglia … Bernard Lugan

https://bernardlugan.blogspot.com/

LIBANO AL CENTRO DI UN INTRIGO MORTALE PER LA SECONDA VOLTA IN MEZZO SECOLO, di Antonio de Martini

Qui sotto una serie di considerazioni di Antonio de Martini sulla situazione del Libano. Lo scritto, aggiornato, in parte già riportato su questo sito, è di circa otto anni fa, ma torna di grande attualità alla luce dei movimenti in corso in quella regione al netto dei grandi limiti e azzardi che anche la classe dirigente iraniana, in buona compagnia dei tanti suoi avversari, ha compiuto_Giuseppe Germinario

LIBANO AL CENTRO DI UN INTRIGO MORTALE PER LA SECONDA VOLTA IN MEZZO SECOLO

di antoniochedice

Il mio amico Nachik Navot, del cui patriottismo non è lecito dubitare, ha lasciato il servizio come vice capo del Mossad e che ormai temo non sia più tra noi perché non risponde più alle mie  mail,( ora dovrebbe sfiorare il secolo..)mi regalò due articoli che pubblicai sul mio blog. www.corrieredellacollera.com  il 6 luglio 2012 egli scrisse parole lucide sulla situazione mediorientale che conosceva bene essendo stato in servizio anche in Iran e in India.

Ecco il link al suo articolo che consiglio di leggere

https://corrieredellacollera.com/2012/07/06/fortress-israel-la-sindrome-dell-olocausto-e-il-senso-della-vera-sicurezza-senza-cui-non-ce-pace-di-nachik-navot/

Una delle considerazioni, a mio avviso più più importanti che ci ha lasciato, è che se Israele vorrà ottenere una pace duratura, dovrà liberarsi della “ sindrome della Fortezza Israele” e crearsi nuove motivazioni e azioni per vivere in armonia coi suoi vicini.

Questa sindrome è frutto di una imposizione altrui dato il trattamento inumano europeo inflitto agli ebrei con l’Olocausto. Gli Israeliani si sentono assediati, da tutti e per sempre, e si comportano di conseguenza. Peccando spesso di “overeaction” aggiungo io.

E’ comprensibile, che  questa situazione abbia avuto implicazioni culturali negative sullo sviluppo iniziale  dello Stato di Israele ma,  il numero di israeliani e membri delle Diaspore consapevoli che vada superata, cresce ogni giorno di più.

Ho deciso di fare riferimento a Nachik ( diminutivo di Menachem) per introdurre la pedina “ Israele” nel tragico gioco della crisi libanese, dove a tutta prima – e in questa fase- sembrerebbe assente perché il proscenio  è occupato dall’ambasciatrice statunitense Dorothy Shea cui piace molto il ruolo di Proconsole e ha l’empatia di un celenterato.

I libanesi hanno dovuto più volte ricordarle l’esistenza della Convenzione di Vienna del 1969 con cui si conveniva il principio di non ingerenza negli affari interni dei paesi ospitanti.

Oggi il Libano, unico paese del vicino e medio oriente a guida cristiana ed economia liberista, vive una profonda crisi morale, politica ed economica causata in parte dalla diluizione della identità culturale di cui tutti si dicono fieri a parole, e in parte dalle pressioni di una violenza inusitata esercitata dalla amministrazione americana che ha il duplice scopo di promuovere la firma  di

un trattato di pace con Israele ( dai tempi di Sadat nessuno vuole firmare senza che sia prima conclusa la pace coi palestinesi, a pena la morte) e di rassicurare l’alleato circa il  concreto pericolo incombente rappresentato dal partito Hezbollah che conta su un elettorato del 50% della popolazione, dispone di  un esercito ben addestrato di ventimila uomini e trentamila riservisti  e di un arsenale missilistico inizialmente composto da missili obsoleti ( Zelzal 2 e 3) che grazie ad un ammodernamento artigianale, alla possibilità di lancio da mezzi mobili e al loro numero,  si ritiene possano distruggere il grosso delle infrastrutture israeliane concentrate su un territorio circoscritto e mescolate con la popolazione.

Si tratta di un dilemma che nessun governo può accettare. Israele, nato per difendere gli ebrei, sarebbe il solo paese in cui la loro vita sarebbe a continuo repentaglio.

L’ANTEFATTO

Rubricare come “organizzazione terroristica” un partito politico che prende il 50% dei voti alle elezioni politiche, non è stata la scelta più intelligente dell’amministrazione USA in un’area in cui scelte intelligenti non ne fa da almeno un trentennio.

Ma andiamo per ordine lasciando da parte il contenzioso palestinese che ci porterebbe ad allargare troppo questa esposizione e che è il convitato di pietra di ogni situazione in quest’area.

1Nel 1975 scoppiò a Beirut , per ragioni che non interessano in questa sede, una guerra tra i palestinesi rifugiati in Libano e una fazione politica locale che si allargò a tutte le componenti politiche  e tribali dell’area.

La guerra , durò fino al 1990 circa, fece centomila vittime e scosse dalla fondamenta quella che era la società più progredita e cosmopolita del mondo arabo. Ogni fazione si trovò degli sponsor politici e militari, ottenne sovvenzioni al punto che- in piena guerra- la lira libanese si apprezzò sul dollaro. L’esercito mantenne la neutralità ( che risultò preziosa per la ricostruzione della concordia nazionale)  e si assisté al paradosso che combatterono tutti tranne i soldati.

2 Presi dalla sindrome “ Fortress Israel” i militari di Tsahal immaginarono una operazione suscettibile di allargare i confini nord del paese spingendo via le popolazioni di confine  che non ostacolavano i guerriglieri palestinesi e le loro incursioni.

Obbiettivi strategici:  bonificare l’area, impadronirsi delle sorgenti del fiume Litani, liberare il fianco del Giabal Druso ( una setta eterodossa dell’Islam che collabora da sempre con gli israeliani al punto di fornire una brigata all’Esercito), mostrare di voler annettere il territorio del sud Libano ed eventualmente rilasciarlo in cambio di un formale trattato di pace.

L’operazione  lanciata nel 1982 chiamata “ Pace in Galilea” mirava anche  a dare sicurezza ai kibbutz della alta Galilea esposti ai blitz palestinesi, ebbe successo militare ma si risolse in un fallimento politico completo. Nessuno degli obbiettivi fu raggiunto, nemmeno parzialmente, anche per gli eccessi di violenza commessi come la strage di Sabra e Châtila.

https://corrieredellacollera.com/2012/09/18/obama-punisce-israele-sharon-ha-ordinato-e-voluto-la-strage-di-sabra-e-chatila-ingannando-gli-u-s-a-se-netanyau-non-lascia-obama-potrebbe-rincarare-la-dose-con-unaltra-accusa-terribile-l/

Israele si trattenne però una fascia frontaliera di dieci km facendo così nascere un movimento di resistenza non significativo da parte di una organizzazione caritativa già esistente chiamata Hezbollah e creata per scopi assistenziali da due religiosi, l’Imam Moussa Sadr e Monsignor Grégoire Haddad, cristiano di rito greco ortodosso.

Israele evacuò la zona a seguito di pressioni USA, ma Hezbollah si vantò – con mentalità tipicamente orientale- di essere all’origine della ritirata con le sue imprese.

Fu l’inizio della gestazione dell’Hezbollah che oggi conosciamo.

Negli anni, la  placida assistenza ai partigiani palestinesi, divenne azione  sistematica  fino al punto da indurre l’Esercito israeliano a progettare un’altra, più circoscritta, sortita  fuori della

“ Fortress Israel” per dare una lezione ai “contadini”. E questo fu il secondo errore di cui tratteremo più tardi.

La principale conseguenza della fine della guerra in Libano fu la cessazione degli aiuti finanziari da parte di tutti i partecipanti indiretti che avevano – con gli stipendi ai combattenti – sostenuto il corso della lira libanese.

Deflazione lampo e disoccupazione generale.

IL DOPOGUERRA

Unici a mantenere attivi, riconvertendoli,  i finanziamenti furono gli iraniani ( avevano piegato i francesi con un ennesimo attentato e questi si decisero a restituire 700 milioni del miliardo di dollari anticipato dallo scià per dotarsi di tecnologia nucleare che L’Ayatollah Khomeini aveva bollato come empia in una fatwa, e chiesto la restituzione dell’anticipo).

Isolati dagli USA a seguito dei noti eventi rivoluzionari, gli iraniani ruppero l’accerchiamento cercando di far leva sul proletariato sciita ed allargando il giro anche visivamente: cento euro al mese se Ali si fa crescere la barba ( segno di pietas), altri cento se tua moglie si mette il velo; duecento se obblighi  anche tua figlia a fare altrettanto….

Un padre di famiglia sbarcava il lunario e il partito di Allah ( Hezbollah) fungeva da ufficiale pagatore e beneficiario di una palpabile crescita di immagine che contrastava la narrativa dell’isolamento.

L’intesa politica, il controllo del partito da parte degli elementi sciiti, e la fornitura di armi furono le logiche conseguenze della intesa anti crisi.

Gli occidentali curavano l’élite e l’Iran il sottoproletariato.

L’élite viaggiava per il mondo e il sottoproletariato scavava bunker.

Quando gli israeliani, a seguito di un ennesimo sconfinamento con sparatoria, attaccarono credendo di fare una passeggiata militare di rappresaglia, dovettero ritirarsi con perdite e il generale di brigata israeliano comandante della spedizione, fu rimosso. Rimediarono con un bombardamento.

Fu cosi che Hezbollah passò dalla millanteria levantina al rango di unica potenza militare che aveva battuto gli israeliani in campo aperto.  Divenne, con un estorto consenso governativo, una sorta di Stato nello stato con l’incarico di gestire eventuali proxy war contro Israele senza coinvolgere il governo legale.

L’inizio della guerra in Siria – un altra guerra di aggressione esterna presa per guerra civile-  ha offerto a Hezbollah l’opportunità di rodare i suoi soldati e di agire di concerto ad altri volontari cristiani che sono intervenuti a sostegno dei cristiani di Siria minacciati fin nella decapoli dove risiedono dai tempi di Cristo di cui parlano ancora la lingua aramaica.

Furono i diecimila volontari di Hezbollah a liberare le colline del Kalamoun che riaprirono le comunicazioni tra Damasco e il Libano e determinarono l’esito delle battaglie in corso.

LA SITUAZIONE POLITICA ATTUALE

Sono in corso pressioni politiche, giornalistiche e finanziarie sul presidente della Repubblica, il generale Michel  AOUN  e su suo genero Gebran BASSIL ( fino a poco fa ministro degli Esteri) .

Le pressioni USA sul Libano mirano a costringere l’Esercito Libanese a confrontarsi con l’Hezbollah, che è più numeroso, più esperto, collaudato in combattimento e meglio armato ad onta delle dichiarazioni del generale Frank Mckenzie che da Washington incoraggia moderatamente allo scontro,  in supporto all’ambasciatrice che attribuisce la crisi monetaria sul cambio del dollaro  all’Hezbollah, dicendo però che gli USA sono pronti ad aiutare qualora Hezbollah venga “ allontanato dal governo”, il che è già stato fatto, istallando un governo tecnico giudicato però insoddisfacente.

La diplomatica da la colpa della crisi  “ alla corruzione praticata da decenni”. Questa dichiarazione è contraddittoria con la consapevolezza che il Libano, appunto per decenni,  è stato prospero al punto di essere definito “ la Svizzera del Medio Oriente” e con il fatto – noto a chiunque abbia letto un libro – che la corruzione impera nell’area – e non solo- da almeno due millenni, al punto di essere contemplata dal codice di Hammurabi.

LA SITUAZIONE MILITARE OGGI

LA MINACCIA A ISRAELE

Sembra che le modifiche artigianali ai vecchi missili iraniani ZELZAL 2 del costo di poche migliaia di dollari, consistano nell’inserimento di un sistema di guida cinese, l’adozione del navigatore  GLONASS , il GPS russo, in aggiunta a quello occidentale e un arsenale già pronto di circa 200 missili ribattezzati Fateh 100 siano all’origine dell’allarme rosso Israeliano.

Circa un anno e mezzo fa, una pioggia di missiletti lanciata in Galilea su località disabitate di Israele, ha permesso di capire che il sistema originale antiaereo “ Iron Dome” possa al massimo acquisire ed abbattere da 150  a 200 intrusi volanti su 250 lanciati contemporaneamente.

Valutazioni di Stato Maggiore attribuiscono a Hezbollah una capacità massima di lancio di poco più di mille missili in un giorno.

Inviarne 400 assieme metterebbe in crisi lo Stato maggiore  israeliano che sarebbe costretto a scegliere se difendere prioritariamente le infrastrutture strategiche ( la raffineria di Haïfa, gli aeroporti, l’impianto nucleare di Dimona, Il quartiere generale dell’Esercito, o le basi principali di Tsahal a Kyria o Tel Nof ,  Nevatim e Hatzor.) oppure la popolazione finora rimasta sostanzialmente indenne da urti militari importanti.

Gli israeliani valutano che la portata di 250 km , il carico esplosivo oscillante tra i 500 e i 900 kg, produrrebbero danni non riparabili anche quanto a sicurezza della popolazione esposta in gran parte alla tentazione di far uso della seconda nazionalità che molti hanno conservato. Israele mancherebbe alla sua missione di protezione degli ebrei sul suo territorio e la bilancia demografica, già sospettata di essere, deficitaria diverrebbe palesemente fallimentare.

Hezbollah ha insomma messo a punto un “ Game Changer” del quadro geopolitico.

Di qui l’esigenza di eliminare il pericolo per Israele e ristabilire l’equilibrio per gli USA.

LA TRAPPOLA DI TUCIDIDE

ISRAELE

La partita di scacchi in corso é così configurabile: Israele può scegliere di ricorrere alla sindrome “ Fortress Israel” – anche per distrarre dalla crisi economica interna, facendo passare in seconda fila l’annessione della valle del Giordano e  potenziando così la sua leadership- e organizzare una sortita nucleare contro l’Iran e/o contro Hezbollah, approfittando della fase pre elettorale americana (tutti i blitz iniziati dagli israeliani sono stati fatti in questa fase pre elettorale), ma pagherebbe un prezzo valutabile in 300/400 missili sui suoi obbiettivi vitali concentrati in un fazzoletto di territorio, col pericolo che i piloti al ritorno dalla loro missione rischierebbero di non ritrovare né la base di partenza e forse neppure la famiglia.

L’Iran si troverebbe, dopo uno scontro mortale, ad aver cavato le castagne dal fuoco all’Arabia Saudita, il suo rivale storico.

Lo scontro, non conviene a nessuno. Si ripeterebbe la certezza della MAD (Mutual Assured Destruction ) che animò la guerra fredda.

La soluzione del dilemma sembra essere stata stata individuata con la stessa logica del 1982 che ha portato al fallimento della operazione “ pace in Galilea”: costringere Il governo libanese a scontrarsi con Hezbollah chiedendo al governo di disarmarlo e cacciarlo dalla maggioranza di coalizione che governa il paese. ( Nasrallah,  il loro capo, non è un chierichetto e sa che la cacciata dalla maggioranza sarebbe solo l’inizio, quindi resisterebbe fin dal primo cenno).

IL LIBANO

Gli esiti grotteschi delle primavere arabe, l’indefinito protrarsi della guerra in Yemen,la “sirizzazione” della Libia, la penetrazione incruenta della Russia nel fianco destro della NATO, il ripudio delle organizzazioni internazionali promosse dall’America che tutti amavamo,  la perdita della leadership mondiale per gli innumeri errori in Medio Oriente  – e negli States col COVID e la questione razziale – hanno ridotto la credibilità e il prestigio di mediatori dei diplomatici e politici USA a livelli impensabili solo dieci anni fa.

Non potendo accettare tutte le “ istruzioni” ricevute, il Libano  ha trovato una soluzione di compromesso: fuori tutti dal governo che viene affidato a un tecnico assistito da tecnici.  Piiché i tecnici sono neutrali a favore o contro qualcuno, il problema si è riproposto e lo zio Sam ha applicato ala cura russa ( – 50% del rublo in due settimane)  e quella turca ( – 50 % del valore della lira turca in due settimane). Oggi  con la lira libanese si ottengono dollari a 10.000 contro uno; le banche concedono accesso limitato ai conti per 30 dollari al giorno e la popolazione ha il 50% di disoccupati, erogazione limitata di acqua e elettricità e scontri di piazza.

Le pressioni sul Presidente sono diventate attacchi personali e metà della popolazione attribuisce ogni colpa a Hezbollah, l’altra metà all’America.

L’ARABIA SAUDITA

Il regno sta affrontando – e perdendo- una guerra calda in Yemen e una fredda col Katar e l’Oman. Ha già perso la guerra di Siria ed è in preda a convulsioni interne a livello della élite e di famiglia reale, mentre l’”unrest” di Al Kaida e della provincia est sciita a influenza iraniana.

Far tornare al potere Saïd Hariri  – il premier libanes che ha scatenato lo show-down con le sue dimissioni che avrebbero dovuto essere brevi e vittoriose – è per il Crownprince un affare di vita o di morte. Nella sua ottica malata, Mohammed ben Salman ha bisogno che il LIbano firmi la pace con Israele per poi poterla firmare anche lui è dare il via al piano Marshall per la penisola araba che dovrebbe portare alla pace generale  per tutti e lui al trono di Riad.

Ha un sistema di sicurezza impeccabile, ma la perfezione non è di questo mondo.

GLI USA

Anche Trump e Pompeo devono affrontare un difficile dilemma :

1: continuare a bulleggiare  selvaggiamente con sistemi di macelleria sociale – il Libano, forti dell’ottenuto, complice, inspiegabile, silenzio Vaticano- un piccolo paese che ha creato l’alfabeto e il commercio internazionale, da sempre amico dell’Occidente che ospita pacificamente un numero di profughi pari alla propria popolazione e sul quale si scaricano tutte le tensioni del Levante.

2: aiutare Israele a capire che è il momento di uscire dalla “Fortress Israel” con tutte le garanzie di una mediazione internazionale decisa e con le idee chiare di cui gli USA siano primi tra pari.

3: Affrontare l’aléa di una ennesima guerra in cui potranno annientare l’Iran e il Libano, ma il loro alleato israeliano subirà tutti i colpi e regnerà su un cimitero.

LA SIRIA

Esausta e vittoriosa  deve fare i conti con l determinazione USA che insiste nelle sanzioni e nell’aiuto a curdi e turchi per tenerla occupata e ha rincarato la dose inserendo la moglie di Assad- ASMA- nella lista dei criminali d punire con le sanzioni. Lei che pochi mesi fa è uscita da una feroce lotta contro il cancro ed è sempre stata lontana dalla politica e vicina al marito.

La viltà di questo atteggiamento mostra quanto gli USA siano disperati e a corto di idee: peggio di una battaglia perduta contro una fragile donna che aveva rifiutato le migliori cure russe pur di non lasciare il suo popolo e suo marito. La Siria distrutta nelle infrastrutture e nel commercio, ha ancora carte da giocare: dai rifornimenti a Hezbollah, ai tunnel segreti per entrare in Israele e al finanziamento di una intifada ben più cruenta in caso di annessione della valle del Giordano.

HEZBOLLAH

E forte nel suo territorio; rispettato da tutti perché “ fa quel che dice e dice quel che fa”,

In caso di attacco potrà contare sull’appoggio diretto di Iran e Siria e quello indiretto di Cina, Indonesia e Russia, ma anche dei palestinesi della striscia di Gaza e in una Intifada palestinese .

Ma sopratutto nei missile FATEH 100 e nel coltello che ogni arabo sa manovrare con maestria specie nelle notti senz luna.

Intanto il Libano, preda di stupidi privi di scrupoli, Domanica 5 luglio si farà sentire : tutti i libanesi alle sette ora Italia e nove ora di Beirut, in contemporanea su Facebook, you tube e in tutte le TV locali faranno sentire a tutto volume la loro voce di resistenza. Sintonizzatevi su

https://www.facebook.com/BaalbeckInternationalFestival/live/

Oppure

https://www.youtube.com/watctch?v=KQ0K8UE651E&feature=YouTube.be 

L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?_ di Teodoro Klitsche de la Grange

L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?

L’autunno scorso un ex Presidente del Consiglio – e un mese fa l’attuale – si sono rallegrati per l’apertura dei Romani ai “provinciali”; onde già Claudio era stato fatto imperatore, malgrado nato a Lione. Da tale esempio ne hanno ricavato conforto per le politiche d’accoglienza, d’integrazione e, verosimilmente, forse anche per lo jus soli (?), maccheronicamente inteso.

A chi conosce la storia e i costumi di Roma la vicenda non sta così: Claudio era romano, anzi di una delle più antiche gentes. Svetonio riporta che i Claudii immigrarono in Roma ai tempi di Romolo, ad avviso di alcuni; secondo altri, subito dopo la caduta della monarchia. Alla Repubblica la gens Claudia dette centinaia di magistrati, tra cui ben ventotto consoli. Il fatto che Claudio fosse nato a Lione non vuol dire che fosse gallo. Era nato in Gallia perché il padre guidava le legioni romane nelle guerre contro le tribù germaniche. La circostanza della nascita lontano da Roma non significa per nulla che non fosse romano: lo era per jus sanguinis. Ancor più il rilevante ruolo della gens Claudia nella storia romana rende un po’ comica la tesi del Claudio gallico o non-romano.

È interessante chiedersi perché sia stato diffuso da persone di buona cultura. Sembra di escludere che i due credano che Claudio non era civis romanus perché nato in Gallia.

Piuttosto, nella propaganda diretta ad elettori i quali neppure sanno chi era Claudio (e forse cos’era l’impero romano) devono propinarsi argomenti semplici e comprensibili da parte dei meno acculturati. E quale argomento migliore del luogo di nascita, accompagnato dalla completa de-contestualizzazione, onde la Gallia provincia romana appare “uguale” alla attuale Francia, stato sovrano?

In altre parole dire che Claudio è nato a Lione (che allora i romani chiamavano Lugdunum) significa quindi che era gallo, quasi francese. Il fatto che la Gallia fosse una provincia di Roma, che erano – specie nel primo secolo dell’Impero – i magistrati romani a governarla, questo è probabilmente ignorato da tanti onde cede di fronte all’argomento tele-anagrafico, alla portata di tutti.

Certo sarebbe stato sicuramente più in linea con la tesi cara ai due leaders politici, ricordare, di Claudio, lo splendido discorso fatto per l’ammissione al Senato delle grandi famiglie galliche, riportato da Tacito, che è, a un tempo, spiegazione della capacità di Roma di integrazione di popoli diversi, e della stessa integrazione quale mezzo della politica. Disse Claudio che i romani, da Romolo in poi, non avevano mai considerato gli altri popoli, anche se un tempo nemici (e vinti) come alienigeni (cioè diversi da loro); per cui con chi si era fatta la guerra era possibile costruire insieme e vivere in pace.

L’inconveniente di quel discorso è che non è immediatamente comprensibile (soprattutto) e che comunque l’integrazione richiede tempo (i Galli ammessi l’avevano aspettata circa un secolo) e non verificata da un esame d’italiano (o giù di lì).

A proposito di altri esami (e d’istruzione): non vorremmo che, anche complice l’emergenza da Coronavirus, il distanziamento scolastico e così via, non si desse un ulteriore “taglio” allo studio della storia, che, a quanto si legge, ne ha già subiti. In particolare di quella antica giudicata – a torto – di scarsa utilità.

Il che non è vero: a leggere il libro italiano che sarebbe il più conosciuto al mondo, cioè il Principe, Machiavelli lo scrive prendendo gran parte del materiale dalla storia antica.

Perché, dopo certe lezioni, c’è da aspettarsi che gli studenti, disabituati a conoscenza e valutazione storica, rispondano agli esaminatori che l’imperatore Claudio era il nonno di Macron.

Teodoro Klitsche de la Grange

GLI STATI GENERALI, LO STATO DELLA POCHETTE, di Giuseppe Germinario

Capita raramente di assistere ad un assoluto “non sense” delle dimensioni degli Stati Generali convocati a giugno scorso da Giuseppe Conte. Il nostro Presidente del Consiglio è riuscito in questa impresa del nulla costruendo la parodia grottesca di un consesso che ha assunto ubiquamente la veste di un convegno declamato da interventi dal contenuto letteralmente inaccessibile e di un seminario dagli interventi dovuti e scontati. Ha finito ovviamente per non essere né l’uno, né l’altro, non avendo lanciato nessuna incisiva indicazione necessaria a motivare, né avendo tracciato almeno le linee base che consentissero di canalizzare analisi e proposte; ha finito quindi per spegnersi quindi nelle sue conclusioni senza avere brillato di una qualche fiammella. Più che un buco nero inquietante per la sua potenza attrattiva, una nebulosa impercettibile. L’unico ad apparire con certosina costanza è solo Lui, Giuseppe Conte, ma nelle esclusive vesti di dimesso cerimoniere di una seduta spiritica tutta particolare. La riuscita anodina dell’iniziativa sarà stata pure la conseguenza delle pressioni del PD tese a smorzare gli ardori del premier per una iniziativa propagandistica raffazzonata che rischiava di rivelare il vuoto pneumatico più che “le magnifiche sorti e progressive”. Un barlume di superstite buon senso piddino, frutto di antiche reminiscenze non del tutto sopite. Il vuoto in politica però non esiste; la sua apparenza assume comunque il significato e il peso di movimenti carsici per quanto inconsapevole possa essere. Non sarà certo un caso che gli unici ad essere evocati e ad apparire legittimamente, sia pure nella forma di ologrammi, in quella seduta per proferire il verbo siano stati Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, Paolo Gentiloni, commissario europeo, Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo. Il messaggio è chiaro: gli indirizzi e i vincoli proverranno da quella sede e in quella sede si dovrà trattare, in realtà attendere a regime di cottura lenta. http://www.governo.it/it/progettiamoilrilancio

Qualcun altro si è visto riconoscere tutt’al più un posto in seconda fila: il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il Segretario Generale dell’OCSE, Ángel Gurría, la Direttrice Operativa del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva ma solo per il tramite, in gentile concessione, della pubblicazione della rispettiva trascrizione degli interventi. Un chiaro indice delle graduatorie di credito ed autorevolezza riconosciute dal nostro Giuseppi. Per il resto un asfittico elenco degli invitati, privo di ogni merito dei vari contenuti. Lo stesso Colao, pur a capo della nutrita e roboante squadra di esperti di quistioni socio-economiche messa in piedi dallo stesso Conte, ha paradossalmente vissuto l’onta censoria dell’anonimato senza alcun apparente motivo; una sorta di silenzioso ripudio. Alcuni visibilmente non hanno gradito il trattamento e hanno reagito sgomitando, sfruttando però i propri spazi in mancanza di quelli pubblici del Governo. Lo hanno fatto i leader di alcuni sindacati autonomi e di base; lo ha fatto soprattutto e con veemenza il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi , di fresca nomina.

https://www.confindustria.it/notizie/dettaglio-notizie/confindustria-agli-stati-generali-economia-intervento-presidente-bonomi . Tutti gli altri, a cominciare dai Segretari dei tre Sindacati Confederali per passare alle varie associazioni professionali e umanitarie, hanno accettato senza colpo ferire e senza il minimo amor proprio il bavaglio imposto.

Si direbbe una pesante e inopinata caduta di stile dell’apprezzato maestro di buone maniere insediato a Palazzo Chigi.

L’affettata e curiale furbizia del nostro lascia sospettare che non si tratti di una semplice distrazione da parvenu.

Sarà per il suo irrefrenabile narcisismo, sarà per la sua propensione a rifulgere spegnendo la luce di possibili pericolosi comprimari, sarà che la sua caratura non gli consente un ruolo più significativo di quello del cerimoniere, sta di fatto che il nostro è riuscito pienamente nell’impresa.

Quello che sorprende è la pressoché generale accondiscendenza di gran parte dei convitati al proprio ruolo di muti etcoplasmi. Un po’ perché i più avveduti hanno compreso la vacuità dell’evento e l’opportunità di non contrariare il possibile elargitore delle future prebende e di non compromettere la partecipazione ad un futuro banchetto pur privo al momento del necessario menu; un po’ per la cautela di dover dissimulare, come nel caso dei tre segretari confederali, il proprio vergognoso e imbarazzante sostegno politico ad un Governo in gran parte responsabile del pesante fardello autunnale e del tutto incapace di offrire una qualche prospettiva realistica e politicamente autonoma, sta di fatto che la quasi totalità dei convitati ha accettato l’invito dalla porta di servizio in cambio di qualche convenevole. Come già sottolineato solo gli esponenti di alcuni sindacati di base hanno ardito contestare, ma solo da un punto di vista rivendicativo e senza alcuna prospettiva di difesa dell’interesse nazionale. Qualche sorpresa l’ha destata invece la veemenza delle critiche del Presidente di Confindustria. Le ragioni contingenti di tanta animosità ci sono tutte: dalle anticipazioni di cassa integrazione ancora lungi dall’essere compensate da INPS e Governo alla esiguità di agevolazioni e contributi rispetto alla miriade di bonus e biscottini che Presidente e Ministri, colti da indomito furore, stanno elargendo a piene mani, quasi fosse il presagio dell’Ultima Cena. Qualche perplessità e sorpresa suscita il fervore della critica alle strategie di politica economica del povero Conte. Non dovrebbe rientrare alcun caso di risentimento personale. L’imprenditore Carlo Bonomi appare già molto ben inserito in cariche ed incarichi pubblici di gestione. A ben vedere le sue critiche hanno il sapore e la bonomia dei realisti più realisti del re. La sua massima preoccupazione è che la pubblica amministrazione acquisisca gli standard di qualità operativa e di progettazione richiesti dall’utilizzo dei fondi strutturali europei. Dal punto di vista funzionale una sacrosanta rivendicazione viste la di gran lunga migliore efficienza e trasparenza di quei criteri rispetto alla farraginosa amministrazione italica. Il nostro ovviamente non si pone, o finge di non conoscere il motivo di tanta degenerazione della macchina amministrativa, non a caso proceduta paradossalmente a passi più spediti a partire dagli anni ‘90. Quel che gli preme, a nome della categoria, è di poter attingere all’integralità dei futuri fondi europei, sia quelli a fondo perduto (perduto a beneficio dei fruitori privati, non delle casse statali e della collettività) che quelli a credito. Bonomi, a nome di Confindustria, confessa con la compulsione di questo atteggiamento due orientamenti chiarissimi: la bontà e l’utilità dei prossimi finanziamenti europei nonché la loro scontata deliberazione nella loro modalità a fondo perduto; l’adesione acritica e fideistica, oltranzista al disegno corrente di integrazione europea. Sulla loro bontà e utilità tutto dipende dal punto di vista e di partenza da cui si parte (tra i tanti testi http://italiaeilmondo.com/2020/06/02/attenti-a-quei-due-di-giuseppe-germinario/ ); sull’esito scontato della trattativa in corso, Carlo Bonomi, pur in buona compagnia, sembra dotato di capacità predittive sconosciute a gran parte degli osservatori ma tali da consentirgli di vendere la pelle dell’orso prima dell’abbattimento. Quanto alla adesione fideistica, sino alla declamazione della propria totale assonanza con le associazioni europee sorelle, al disegno europeista non c’è da meravigliarsi più di tanto. Confindustria costitutivamente non può assolvere, proprio per i suoi assetti di potere e per la composizione prevalente degli associati, ad un ruolo di difesa dell’interesse nazionale, ad una funzione di trasformazione dell’economia industriale verso la produzione di prodotti finiti piuttosto che di componentistica e verso attività più strategiche. Costitutivamente deve trattare di criteri, di condizioni e di regole generali di conduzione delle aziende. Non è in grado quindi di partecipare fattivamente alle trattative, ai maneggi e alle azioni lobbistiche tese alla fusione in grandi gruppi e all’avvio di attività strategiche. Tutt’al più può servire da trampolino surrettizio e per vie traverse di singoli gruppi e personaggi. La storia stessa di Confindustria è tutta lì a recitare della sua ostilità al processo di costruzione dell’industria pesante di base nel dopoguerra, a personaggi della statura di Mattei e Olivetti e della sua connivenza ai processi di trasformazione di buona parte degli imprenditori e dei manager italiani in appendici e portavoce di gruppi esteri e in percettori di rendite da concessioni anche a costo di sacrificare e cedere le proprie attività originarie ben avviate. Del resto è lo stesso Colao a confermare indirettamente questa prevalente tendenza conservatrice e a volte liquidatoria. Tra il centinaio di schede elaborate buone a tanti usi ve ne sono alcune particolarmente significative. In una propone di superare le difficoltà di accesso a finanziamenti e crediti delle aziende italiane mediamente troppo piccole assegnando alle aziende leader della catena di valore il ruolo di garanti ed eventualmente di redistributori del credito. Con una struttura produttiva sempre più vocata alla componentistica piuttosto che al prodotto finito e con aziende leader sempre più situate all’estero non si farebbe che accentuare ulteriormente la dipendenza della nostra economia dalle scelte di prodotto e dagli indirizzi politico-economici di altri paesi. Lo stesso dicasi riguardo allo snellimento delle procedure di fallimento e liquidazione delle aziende proposto dall’ex manager di Vodafone. Tutto sembra congiurare quindi perché la terribile mistura di attendismo fideistico di un intervento europeo risolutivo, di fiducia cieca nelle virtù e nella prospettiva europeista, nel mantenimento conservativo di un apparato industriale magari appena ammodernato, di galleggiamento ed immobilismo governativo aggrappato alle momentanee prebende assistenzialistiche trascini ormai irreversibilmente il paese verso il declino e la polverizzazione, sempre più alla mercè non solo della grande potenza ma anche delle insolenze di forze minori. Giusto per completare la disposizione dei tasselli che hanno composto la kermesse giuseppina non si riesce a comprendere il motivo della fredda e sorda ostilità intercorsa tra Colao e Conte. Nelle schede prodotte dal manager c’è un perfetto equilibrio, in sintonia con il sentimento europeista e politicamente corretto prevalente nel Governo. L’emancipazione femminile, il peso della Cultura e del turismo, la svolta ecologica e la digitalizzazione; un pot pourri informe buono per tutti i palati e adatto alle varie circostanze. A ciascuno degli spettatori è riservato un coniglio; l’impegno di spesa corrisponde, guarda caso, al contributo europeo evidentemente dato per certo. Gli stessi imprenditori vengono lasciati nel loro cortile allettati al massimo da incentivi fiscali. Per il resto devono essere loro a districarsi e decidere la collocazione geoeconomica del paese. A dire il vero ci sarebbero un paio di cosette che potrebbero aver turbato gli animi nella compagine governativa: la proposta di accentrare e riorganizzare le centrali di acquisto dei beni necessari alle amministrazioni e il cambiamento dei criteri di selezione dei quadri dirigenziali intermedi. Due ambiti nevralgici che hanno contribuito alla ripartizione dei centri di potere, alla creazione di sistemi di consenso e di drenaggio di risorse, alla definizione del rapporto delicato e cruciale tra ceto politico-amministrativo e macchina operativa dello Stato centrale e periferico. Due nervi scoperti, sufficienti a mettere in discussione le dinamiche profonde di potere e la potenziale armonia tra i due.

Tutta l’operazione in realtà affoga in questa sommatoria di pie intenzioni e di attese ingiustificate i nodi essenziali da sciogliere: la necessità in tempi rapidi di un piano B nel caso più che probabile di fallimento o di condizioni sfavorevoli di accordo in sede europea; le modalità con le quali l’imprenditoria nostrana, al di là della retorica del libero mercato, deve trovare una diversa collocazione e partecipare ai processi di concentrazione, di fusione e di sviluppo di nuovi settori, la capacità di leadership dell’imprenditoria privata nazionale, tenuto conto che nei momenti cruciali di svolta questa si è rivelata un fattore frenante piuttosto che propulsivo. Per non parlare degli appuntamenti mancati nelle dinamiche e nei conflitti geopolitici, così determinanti ormai nel favorire ed indirizzare le scelte economiche. Le velleità geopolitiche di autonomia della Germania, poste alla sua maniera, rientrano a pieno titolo nella gamma di interrogativi fondamentali a cui rispondere. Ma è veramente chiedere troppo a questo ceto politico.

Una cosa è certa. Una svolta positiva nel paese non può passare attraverso il rapporto istituzionale con le associazioni e i rituali stantii che ne conseguono. Un ceto politico ambizioso e capace deve riuscire ad individuare singole figure e precisi settori suscettibili di aggregarsi e di fungere da traino. Altre vie per formare una classe dirigente all’altezza della situazione non se ne vedono. Persino Conte deve averlo subodorato, se durante la kermesse aveva previsto una giornata di incontri con singole personalità rappresentative della loro attività. È riuscito malauguratamente a trasformare anche questa fugace occasione in una innocua e frivola passerella. Una leggerezza dell’essere ormai insostenibile per il paese. Intanto aspettiamo di conoscere il   frutto documentale degli stati generali. Che siano resi pubblici almeno questi.

AMERICA FIRST o AMERICA END?_ con Gianfranco Campa

Dove va l’America? La domanda viene posta continuamente da quasi un secolo. Sino a qualche anno fa il quesito sottintendeva un senso ben preciso: quale futuro, quale direzione, quale progresso traccerà l’America al mondo intero. Oggi quella stessa domanda sottende tutt’altro significato: quale sarà il suo posto nel mondo, la sua coesione sociale troverà nuovi accomodamenti o gli Stati Uniti rischiano addirittura di scomparire nella sua attuale conformazione geografica. Gianfranco Campa ci offre una ricostruzione ed una panoramica del tutto inaccessibile a chi attinge ai nostri media e al nostro sistema di informazione, ma anche all’arcipelago alternativo ben presente nei social media. La conversazione è lunga e impegnativa, ma offre un quadro chiaro e leggibile. A voi ascoltarla tutta d’un fiato o a piccole dosi. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Siria, Libia e non solo. Come Erdogan espande la rete della Turchia di Giuseppe Gagliano

Non senza una certa ironia, soprattutto alla luce del recente incontro tra Di Maio e il suo omologo turco, occorre domandarsi quale natura abbia sia a livello di politico interna che estera il regime di Erdogan.

Dalla nomina di Erdogan alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (2003), e ancor più dalla sua assunzione alla presidenza (2014), la Turchia è stata caratterizzata da un costante declino democratico, osservabile attraverso un autoritarismo e islamizzazione sempre più marcati.

Contrariamente alle apparenze e ai discorsi dei suoi leader, la Turchia non è più una democrazia ma un regime autoritario. Nell’ultimo decennio, le elezioni sono state più un plebiscito che un voto democratico a causa della manipolazione del voto e della pressione esercitata sull’opposizione dal regime. L’AKP, il partito presidenziale, usa i metodi sviluppati dai Fratelli Musulmani: le classi popolari sono particolarmente coccolate e inquadrate da un sistema politico-religioso molto efficace che li accompagna alle urne indicando il “buon” voto. Allo stesso tempo, tutto viene fatto per mettere a tacere l’opposizione. È oggetto di persecuzioni reali: arresti e detenzioni arbitrari, divieto di alcuni partiti e associazioni politiche, controllo dei media, ecc. Lo stato di diritto non è più in vigore in Turchia e la giustizia è completamente sotto gli ordini del potere.

Erdogan ha posto in essere soprattutto una politica repressiva — con il pretesto del fallito tentativo di colpo di stato militare contro di lui (luglio 2016) — e ha incarcerato migliaia di persone che criticano o si oppongono alla sua politica: soldati, funzionari pubblici — in particolare giudici e polizia — insegnanti, intellettuali, giornalisti, politici, rappresentanti curdi e funzionari eletti, ecc.

Inoltre, da luglio 2015, il presidente turco ha mostrato una totale intransigenza sulla questione curda e ha posto fine al processo di pace avviato con il PKK, che ha portato a una ripresa del conflitto armato con Movimento separatista curdo, che provoca una situazione di guerra civile nel sud-est dell’Anatolia.

Il pronunciato autoritarismo del regime è chiaramente visibile alla luce della forza delle forze di sicurezza e delle milizie create dal governo, che oggi conta oltre 530.000 membri (polizia, gendarmi, bekçi, polizia municipale, agenti di sicurezza privati e guardie di villaggio) per una popolazione di 82 milioni.

Parallelamente alla sua deriva autoritaria, la Turchia ha vissuto una marcata re-islamizzazione per vent’anni. Va ricordato che Recep Tayyip Erdogan è un fratello musulmano convinto e militante e che era membro dell’Ufficio internazionale della Fratellanza, uno dei suoi organi di governo. Da quando ha assunto l’incarico di Primo Ministro, Erdogan e il suo partito, l’AKP, hanno lavorato instancabilmente per ri-islamizzare la Turchia e cancellare tutte le tracce dell’eredità della Turchia secolare istituita da Mustapha Kemal. Al fine di ripristinare il potere religioso nel paese, Erdogan attaccò per primo l’esercito, il guardiano del secolarismo. Riuscì a rompere la sua influenza con l’aiuto del movimento Gülen, attraverso accuse inventate.

In altri termini per Erdogan, seguace della Fratellanza dei Fratelli musulmani, l’eredità secolare di Mustapha Kemal deve essere distrutta e cancellata a tutti i costi. A seguito della reislamizzazione della Turchia che è riuscito a imporre per due decenni, osserviamo nel paese l’imposizione di nuove regole di vita e una politica discriminatoria contro cristiani e curdi.

Più in generale, Erdogan desidera rivitalizzare il mondo islamico di cui si presenta come difensore. In effetti, per più di un decennio, ha costantemente lavorato per diffondere la versione arcaica e settaria dell’Islam sunnita a cui aderisce, in tutto il mondo arabo.

Dalla “primavera araba” del 2011, Istanbul ha ospitato grandi comunità musulmane che sono fuggite dal loro paese. Diverse centinaia di migliaia di siriani, iracheni, yemeniti, libici, egiziani, libanesi e nordafricani sono oggi presenti in città. La Turchia offre loro la possibilità di impegnarsi in attivismo politico “fraterno” nei confronti del loro paese di origine. Il paese è divenuto così un focolaio di proselitismo e sovversione al servizio della Fratellanza e Istanbul si è trasformata in un rifugio per i Fratelli musulmani. Dozzine di canali televisivi — molti dei quali affiliati alla Fratellanza — attestano questo sostegno statale. È nella città turca che vengono prese le importanti decisioni del movimento e che il ramo yemenita dei Fratelli musulmani ha recentemente eletto il suo nuovo leader.

Sul piano della politica estera, Erdogan ha anche ripreso il nazionalismo turco per ripristinare l’influenza del suo paese nel Nord Africa e nel Medio Oriente, su terre che un tempo dipendevano dall’Impero ottomano. È questa combinazione di proselitismo islamico, nazionalismo e interventismo militare che sta determinando la rinascita del “neo-ottomanismo”. In effetti, il presidente turco è ossessionato dal suo sogno di restaurare l’impero ottomano e il califfato islamico.

Pertanto, Erdogan ha approfittato dell’eliminazione della presenza sovietica in Medio Oriente dalla seconda metà degli anni ’90, poi delle “rivoluzioni arabe” e delle guerre in Siria e in Libia per estendere la sua influenza regionale, approfittando anche della sua appartenenza alla Nato.

Nel contesto del conflitto siriano, la Turchia ha fornito sostegno ufficiale e non ufficiale ai gruppi jihadisti collegati a Daesh e Al Qaeda contro il regime di Damasco. È vero che questa strategia faceva parte di una politica sostenuta dalla Nato, anche se Ankara è andata ben oltre.

Quindi, al fine di “proteggere” il suo confine — ma soprattutto per combattere i curdi siriani — l’esercito turco è entrato illegalmente in Siria nell’agosto 2016. Ebbene, a metà del 2020, la Turchia occupa ancora parte del territorio siriano, illegalmente. All’inizio del 2020, durante l’offensiva dell’esercito siriano contro i jihadisti nella regione di Idlib, il presidente turco ha escluso di fare “il minimo passo indietro” contro il regime di Bashar al-Assad in Siria nordoccidentale. Nel febbraio 2020, ha ordinato al regime di ritirarsi da alcune aree di Idlib, dove i posti di osservazione turchi erano circondati dalle forze di Damasco. Le proteste della Turchia contro l’offensiva dell’esercito siriano rivelano la sua connivenza con gruppi terroristici. In questa occasione, l’esercito turco venne in loro aiuto, fornendo loro armi pesanti e supporto antincendio, prima di invadere l’area Idlib e partecipare ai combattimenti, in violazione del diritto internazionale e degli accordi internazionali di Sochi.

La Turchia aveva assunto infatti tre impegni: dissociare i ribelli “moderati” dai terroristi di Al Qaeda e Daesh; rimuovere le armi pesanti dalla zona; e riaprire le autostrade M4 e M5 al traffico in modo da consentire alla popolazione civile siriana di tornare a una vita più normale. Nessuno di questi tre impegni è stato mantenuto da Ankara.

Inoltre, nell’ambito di questo conflitto siriano, la Turchia minaccia di aprire i suoi confini e consentire a centinaia di migliaia di migranti di riversarsi in Europa. Ankara chiede che l’Ue contribuisca maggiormente ai costi generati dalla presenza di queste popolazioni sul suo territorio e, soprattutto, che la sostenga o si astenga dal criticare la sua politica estera aggressiva in Medio Oriente e Africa. Ad esempio, in diverse occasioni dal 2013, migliaia di migranti illegali — molti dei quali provenienti dal Maghreb, dall’Africa subsahariana o dall’Afghanistan — sono stati spinti verso il confine greco con l’intenzione di provocare una ondata migratoria in Europa.

L’interventismo turco si estende anche al Nord Africa. Dopo aver sostenuto i Fratelli Musulmani e Mohamed Morsi in Egitto (2012-2013) — in particolare attraverso le consegne di armi effettuate dal suo servizio di intelligence, il MiT — Ankara si sta ora impegnando per rafforzare la sua presenza in Libia dove sta sostenendo il partito del governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez el-Sarraj. È riconosciuto ufficialmente dalle Nazioni Unite e supportato dalla Nato, che cerca di contrastare l’impegno di Mosca a beneficio del maresciallo Khalifa Haftar. La Turchia sta fornendo un significativo supporto militare al GNA — droni, aeroplani, missili, veicoli blindati — nonostante l’embargo delle Nazioni Unite che viola, contribuendo direttamente all’attuale escalation militare.

Peggio ancora, Ankara recluta jihadisti che operano in Siria per spedirli sul fronte libico, ulteriore prova della sua connivenza con il terrorismo islamista. La situazione locale si è quindi evoluta da una guerra della milizia a una guerra di semi-intensità in cui ognuno porta il suo supporto dotato di mezzi pesanti: difesa terra-aria, veicoli corazzati, droni, aerei in grado di condurre azioni mirate.
Il peggioramento della crisi libica — per la quale la Nato è in gran parte responsabile a causa del suo intervento sconsiderato nel 2011 — è di particolare preoccupazione e costituisce una minaccia per la sicurezza europea, ma potrebbe anche portare a un confronto russo-turco. Tuttavia, pur di contrastare la Russia, la Nato ha deciso di sostenere un regime che legittima gli islamisti ed è legato ai Fratelli musulmani.

Vale la pena ricordare gli stretti legami che uniscono la Turchia e il Qatar, il principale emirato islamista dei Fratelli musulmani. Al fine di proteggere il piccolo Stato del Golfo, vittima della vendetta dei suoi vicini sauditi ed emiratini per il suo sostegno alla fratellanza islamista, Ankara ha installato una base militare e collabora con i servizi del Qatar nelle loro operazioni esterne. Ovunque la Turchia sia presente all’estero, il Qatar non è lontano, fornendo spesso il finanziamento che manca ad Ankara. Inoltre, Doha sta investendo molto nell’economia turca, in particolare nell’industria della difesa, aiutandola a crescere.

La politica espansionistica di Ankara si manifesta anche nel Mediterraneo orientale, attraverso i suoi tentativi di espandere il suo dominio marittimo. Va ricordato che la Turchia occupa una parte dell’isola di Cipro a seguito della sua invasione nell’estate del 1974. Inoltre, Ankara non ha mai firmato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1982).

Nel 2018 il governo turco ha deciso di lanciare nuove esplorazioni marittime nelle acque greche e, soprattutto, cipriote. Il 9 febbraio 2018, una nave turca ha impedito a una nave perforatrice della società italiana Eni di esplorare uno dei depositi ad essa assegnati da Nicosia, poiché questa zona appartiene alla parte turca di Cipro. All’inizio del 2019, i governi cipriota, egiziano, greco, israeliano, italiano, giordano e palestinese hanno istituito un “Forum del gas nel Mediterraneo orientale” per cooperare allo sfruttamento del gas nella regione. Ankara si rifiutò di aderirvi e di attenersi alla sua carta basata sul diritto internazionale.

Nel luglio 2019, di fronte a questa situazione, l’Unione europea ha sostenuto la Grecia e Cipro contro la Turchia e ha condannato le azioni turche nel Mediterraneo orientale. Tuttavia, nel gennaio 2020, Ankara ha lanciato le sue prime esplorazioni nelle acque territoriali della Repubblica di Cipro.

Di conseguenza, le tensioni tra la Grecia e la Turchia nel Mar Egeo rimangono particolarmente acute; gli incidenti sono abbastanza frequenti: tentativi di scagliare la guardia costiera turca contro i pescherecci greci; spari; occupazione illegale di isolotti, ecc. Ankara aumenta deliberatamente le tensioni con la Grecia, il suo nemico storico.

Nel gennaio 2020, la Turchia ha richiesto che Atene smilitarizzasse sedici isole del Mar Egeo. Quindi, nel maggio 2020, le forze di Ankara occuparono militarmente una piccola striscia di terra nella Grecia nord-orientale, senza alcuna reazione da parte dell’Unione Europea. Attraverso questa nuova provocazione, Ankara intende mettere in discussione tutti i confini con il suo vicino, fissato dal Trattato di Losanna del 1923.

Nonostante la Turchia non sia stata accettata nell’Unione europea, è ancora un membro della Nato, cosa questa che illustra le contraddizioni interne dell’Alleanza atlantica nel mondo post guerra fredda. Collaborando a volte con Washington, a volte con Mosca, l’unica politica che Ankara segue è quella del neo-ottomanismo di Erdogan.

La Turchia islamista e neo-ottomana, a causa della politica di proiezione di potenza nel Mediterraneo e in Libia, non può costituire un alleato del nostro paese né della Francia.

Tratto da https://www.startmag.it/mondo/siria-libia-e-non-solo-come-erdogan-espande-la-rete-della-turchia/?fbclid=IwAR3CDD49uamOTeUM_jyzpNY0a7hWqUVYW7uT982wyKmEHh9sKgS_hzTqLeE

Il vero colore dei verdi, di Valerie Toranian

All’indomani dell’onda verde alle elezioni comunali , Emmanuel Macron ha promesso due referendum ambientali nel 2021. Un primo a modificare la Costituzione introducendo i concetti di “biodiversità, ambiente, lotta al riscaldamento globale” nell’articolo 1. La seconda riguarda le misure prese dalle 149 proposte elaborate dalla Convenzione sul clima dei cittadini , un’iniziativa promossa dal Presidente della Repubblica dopo la crisi dei “giubbotti gialli”. Vengono prese in considerazione tre misure: i 110 km / h sulle autostrade, l’imposta del 4% sui dividendi delle società che producono oltre dieci milioni di euro di dividendi annuali e la revisione del preambolo della Costituzione.

Una vittoria per i 150 cittadini, “panel rappresentativo” dei francesi, che hanno lavorato su queste misure, aiutati dalle ONG ecologiche. Il presidente vuole moltiplicare le convenzioni dei cittadini su altri argomenti. Segnale divertente per la rappresentanza nazionale. I deputati eletti dal popolo sono ancora utili per qualcosa? …

“L’onda verde (mescolata con rosa e rosso) ha beneficiato di un allineamento di pianeti. “

Questa vittoria civica per l’ecologia si sovrappone alla vittoria nei sondaggi vinti domenica 28 giugno alla fine delle elezioni comunali. Lione, Bordeaux, Strasburgo, Besançon, Annecy, Poitiers, Tours … Città ora gestite da sindaci d’Europa Écologie Les Verts (EELV). La strategia di unire le sinistre sotto la bandiera ambientale ha dato i suoi frutti. Uomini e donne a volte “sconosciuti” furono acclamati di fronte ai pesi massimi delle feste tradizionali, in una continua ondata di sollievo. Certamente, l’ astensionismo rimane il primo partito in Francia . Il disincanto francese per la vita politica è ormai una costante. Votiamo poco. Votiamo per ciò che non abbiamo ancora provato.

L’onda verde (mescolata con rosa e rosso) ha beneficiato di un allineamento di pianeti:

  • L’innegabile consapevolezza globale delle problematiche ambientali e climatiche. Sia che siamo d’accordo o meno sul grado di responsabilità degli esseri umani nel riscaldamento globale, nessuno contesta più di quanto l’umanità abbia il dovere di conservare, proteggere, preservare il pianeta, la biodiversità. E sarebbe sbagliato caricare l’ecologia in un’ideologia radicale totalitaria. Almeno per fare che . Dobbiamo ripensare la crescita produttiva e inquinante per trasformarla in crescita che rispetti l’ambiente.
  • L’uscita dalla religione e la necessità di ricreare un nuovo senso del sacro. Questo secolo verde, questo cambiamento di civiltà, ricorda Régis Debray , sfocia nella familiare forma del cattolicesimo i cui codici assume nella forma del plagio, con i suoi sinodi, le sue professioni di fede, la sua Giovanna d’Arco (Greta Thunberg) , i suoi eretici (clima-scettici), i suoi profeti di sventura (collapsologi), le sue pratiche ortodosse e i suoi rituali vegani … Un vero credo di sostituzione al marxismo.
  • Il rifiuto dei partiti politici tradizionali.
  • La violenta disaffezione, per non dire l’odio, che troppo spesso suscita il Presidente della Repubblica e, per estensione, la sua formazione LREM. Il crollo dei suoi candidati è spettacolare e il suo tentativo di ancoraggio fallì. Ma il voto municipale rimane specifico e non prefigura in alcun modo il prossimo voto presidenziale …
  • La crisi sanitaria che ha riportato, giustamente o erroneamente, la nostra colpa verso la natura. La moltiplicazione delle zoonosi sarebbe dovuta alla deforestazione, alla distruzione dell’habitat di alcune specie, ecc. Questa crisi sanitaria ha rafforzato la sensazione di vulnerabilità e fragilità, ma ha anche generato nuovi comportamenti meno consumistici che risuonano con il discorso dei movimenti a favore dell’ambiente. La grande paura dei sani, questo è anche ciò che caratterizza il periodo di confinamento che abbiamo appena attraversato.

Salutando la vittoria del suo campo, l’eurodeputato Yannick Jadot è stato felice di una “aspirazione popolare” per cambiare la vita . Aspirazione sì, popolare, che resta da vedere. Sono state le piaghe urbane, le classi medie e alte istruite di città grandi e medie che hanno votato per il voto verde. Francia non periferica. Non la Francia dei quartieri della classe operaia o solo marginalmente.

“In una società postmoderna che si sta allontanando sempre di più dalla politica, divisa in un arcipelago di appartenenza, dove la rivendicazione di identità prevale sul progetto politico che le trascende, l’ecologia ha la fluidità necessaria per soddisfare i più grandi numeri. “

È un riporto delle voci provenienti dal partito socialista, da LREM, a volte persino dal centro destra, di cui nessuna delle tre brilla per la sua rappresentazione popolare. I giovani sono tentati dall’ecologia, sì. Ma molto irregolarmente sul territorio. Il voto ambientalista, anche se lo difende, riprende in parte una mappa territoriale delle élite urbane della Francia dall’alto. Non c’è da stupirsi che il Presidente della Repubblica prometta loro uno e persino due referendum per sedurli. Questo flusso verde costituirà probabilmente la riserva di voti di cui avrà bisogno nel secondo turno per battere il Rally Nazionale.

La domenica sera Marine Le Pen potrebbe affermare che la vittoria di Louis Aliot a Perpignano è stata la prova che il fronte repubblicano contro il rally antinazionale non funzionava più, niente di meno ovvio. È difficile vedere i Verdi rifiutare di chiamare per votare contro Marine Le Pen in caso di un secondo turno che si opporrà a Emmanuel Macron.

Cosa faranno gli ambientalisti nei municipi? Ecologia. E per il resto? Sicurezza? Questioni sociali? Comunitarismo? La domanda dei migranti? In alcuni di essi, come a Marsiglia, la riapertura delle frontiere ai migranti è all’ordine del giorno. Speriamo che la primavera di Marsiglia, se finalmente vincerà il municipio, sarà in grado di conciliare abilmente la sua generosità con il pragmatismo e la buona gestione della città. Altrimenti il ​​punteggio del Raduno Nazionale alle prossime elezioni regionali e presidenziali rischia di essere spettacolare.

In una società postmoderna che si sta sempre più allontanando dalla politica, in cui la società è divisa in un arcipelago di appartenenza, dove la pretesa di identità prevale sul progetto politico che le trascende, l’ecologia ha la fluidità necessaria per compiacere al maggior numero. La sua concreta applicazione nella vita quotidiana rassicura. Gesti sanitari, gesti di barriera, gesti ecologici, BA anti-inquinamento, cambiamenti di comportamento.

“Su molti argomenti, i valori sono vaghi, contraddittori o piuttosto alternativi. Ci sono ecologisti repubblicani, ecologi di sinistra, verde-rosso, clienti, comunitaristi, indigenisti, opportunisti. “

Su molti argomenti, i valori sono vaghi, contraddittori o piuttosto alternativi. Ci sono ecologisti repubblicani, ecologi di sinistra, verde-rosso, clienti, comunitaristi, indigenisti, opportunisti. L’episodio di confusione durante la manifestazione contro l’islamofobia che si è svolta a Parigi a novembre 2019 è un perfetto esempio dell’estrema flessibilità dei valori dei Verdi. I principali funzionari eletti dell’EELV avevano firmato la chiamata CCIF per manifestare(Collettivo contro l’islamofobia in Francia) il cui contenuto ideologico mirava a trasformare qualsiasi critica dell’Islam in un crimine razzista. Esther Benbassa, senatore di Parigi, aveva sfilato. Altri firmatari dell’EELV come Yannick Jadot, David Belliard o David Cormand, avevano improvvisamente pretesto l’obbligo di sfilare. A chi credere? In quale momento?

Soprattutto all’interno dei comuni, gli ambientalisti sono spesso alleati della Francia la cui ribelle linea repubblicana, precedentemente interpretata da Jean-Luc Mélenchon e Alexis Corbiere, si è trasformata in allineamento con l’ ortodossia nativista, neo-femminista comunitario di Danièle Obono e Éric Coquerel. Non proprio un modello.

La verticalità dei principi era il mondo prima. Ora ci concentriamo sull’essenziale: selezionare i rifiuti, monitorare la purezza dell’aria, eliminare l’auto. Su questo, almeno, siamo d’accordo. In ogni caso, nelle grandi città. Perché altrove, la sensazione di declassamento e risentimento continua a prosperare. E non sono sicuro che il referendum su ecocidio, biodiversità e riscaldamento globale ridurrà il divario tra le città sopra e le periferie sotto. E che questa onda verde ha appena sottolineato.

Sovranisti e globalisti: la battaglia tra due ideologie perdenti, di Andrea Muratore e Marco Giaconi

Una interessante intervista a Marco Giaconi tratta dal sito Osservatorio Globalizzazione su un tema più che mai attuale

Sovranisti e globalisti: la battaglia tra due ideologie perdenti

Oggi col professor Marco Giaconi, che torna ospite delle nostre colonne e che ringraziamo per la grande disponibilità, dialoghiamo delle culture politiche dell’era contemporanea. Quanto è reale la polarizzazione tra “sovranisti” e “globalisti”?

Professor Giaconi, una forte narrazione mediatica e politica, soprattutto in Europa, immagina l’attuale dialettica politica come uno scontro tra sovranisti, fautori della sovranità nazionale, e “globalisti”, aperti alle ricadute ideologiche, politiche ed economiche dei trasferimenti di sovranità. Parliamo di una contrapposizione reale o strumentale?

Le contrapposizioni semplici, adatte al basso livello attuale dei mass-media, sono sempre strumentali e spesso inesatte. L’Italia è sempre stata divisa tra una pressione strategica dal Nord Europa, che data almeno dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, alla quale l’Italia partecipa repentinamente e un anno dopo, ma alla fine in funzione anti-tedesca, e una pressione strategica mediterranea, che riguarda anche i detentori attuali dell’egemonia nel Mare Nostrum, Usa e Gran Bretagna, ancora loro.

  Certo, con qualche new entry e con la Francia che non demorde affatto. Fino a che l’Italia, quindi, non si doterà di una Strategia Globale all’altezza dei tempi e della “realtà effettuale della cosa”, come diceva Machiavelli, questa polarizzazione rimarrà e produrrà la morte cerebrale e strategica dell’Italia, forse ormai anche quella economica, e la polarizzazione para-politica a cui Lei, nella Sua domanda, accenna. Mi ricordo che in Banca d’Italia, negli anni di Antonio Fazio governatore, c’era chi diceva che bisognava deindustrializzare “di brutto” l’Italia, fare cassa, come si era fatto con la svendita determinata dall’operazione “mani pulite” e successivamente ridurla a grande area turistica. La destrutturazione del nostro Paese è uno sport al quale, da molto tempo, si sono addestrati in molti, alcuni dei quali a livello professionistico e olimpionico. Ecco, i due quasi-schieramenti che Lei cita sono entrambi portatori di formule molto abborracciate e spesso contraddittorie.

 Sia il centro-destra “sovranista” (al quale non si può più  aggregare Forza Italia, partito molto legato al PPE, che lo finanzia visto che Silvio Berlusconi lo usa poco per i suoi affari, che tratta direttamente con i Capi di Stato EU) fa anche riferimento all’ultra-liberismo di matrice thatcheriana, con proposte come la flat tax o anche con la simpatia per le idee di Steve Bannon, già consigliere della comunicazione di Trump, quindi questo destra dovrebbe essere per conseguenza, chi ti paga comanda, filo-britannico e quindi inevitabilmente antitedesco; ma poi il medesimo schieramento si rifà allo statalismo di marca post-bellica e, detto senza polemica, fascista. Ricordo poi qui che la Thatcher fu disarcionata dal suo stesso partito proprio per aver proposto la poll tax, nel 1990,comunale a un solo scaglione. Il vecchio testatico medievale. Ci fu anche un affaruccio del suo oppositore, Heseltine, con degli elicotteri, ma questo è un altro discorso. Delle due l’una: o si è liberisti, o si è filo-fascisti. Sempre detto senza polemica alcuna. Poi, la simpatia della Lega per i siloviki (“uomini della forza”) di Vladimir Putin, allora, non dovrebbe mai trovare posto in una forza confusamente liberista e filo-americana, gli Usa hanno da sempre una memoria di ferro e una vendetta inevitabile, che gustano sempre freddissima.

O stai con l’amico o con il nemico. Con la tua faccia. Allora sei sempre rispettato, e da entrambi, come accade quando la X MAS di Junio Valerio Borghese si arrese alle forze Usa con l’onore delle armi. Poi Borghese, con la divisa da colonnello della US Army Forces, arrivò a casa sua, a Roma, accompagnato dal futuro Capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Delle vendette Usa, ne sa qualcosa anche Silvio Berlusconi. Un ingenuo quanti mai ce ne furono a Palazzo Chigi. Vedremo questo attuale, ma siamo sulla stessa linea dell’infanzia. Chi non sa scegliere non sa governare. Ma lo stesso discorso vale anche per la vasta area “globalista” tra il Centro e la Sinistra. C’è lo statalismo pasticcione, da Totò onorevole, dei Cinque Stelle, che tornano alla sinistra dalla quale sono in gran parte nati, e sembrano, nella loro propaganda, equiparare gli imprenditori a dei distributori di mazzette, con gli effetti che è facile immaginare. C’è poi il Partito Democratico, che si è attaccato all’Europa in modo irriflessivo, come i vecchi comunisti che, quando c’era la partita Italia-Urss, facevano il tifo per Mosca. Aspettano unicamente un aiuto, propagandistico e magari anche finanziario, ma al loro Partito, dall’Europa, come peraltro le altre forze politiche della destra, che aspettano di essere sostenute dai russi, dagli americani, o da qualche altro, magari gratis. Perché sono belli? Ma lo sanno come si ragiona, da sempre, nelle cancellerie UE o non UE? Si può facilmente immaginare cosa accadrà.Le altre forze del centro-sinistra sono partiti personali (Italia Viva di Matteo Renzi, le aree alla sinistra del PD, il gruppo di Carlo Calenda) ma comunque tutto l’arco parlamentare italiano si sta frazionando in gruppi personali e “cordate”, come accade anche nella fin troppo famosa, e comunque hegeliana, società civile. Nella somma impotenza e incompetenza di quasi tutta la nostra classe dirigente, oggi la politica è quasi ovunque, come diceva Frank Zappa, “il dipartimento spettacoli del complesso militare-industriale”. La politica, ma questo vale anche per gli altri Paesi occidentali, è ormai regolata secondo i canoni della pubblicità e deve fare poco o nulla, salvo che dividersi le tifoserie e portarle, talvolta, al calor bianco.

Entrambi i modelli sembrano avere una chiara connotazione anglo-sassone e americana. I sovranisti riprendono diversi temi tipici del neoconservatorismo americano e dell’ideologia trumpiana “America First”, mentre il cosiddetto “globalismo” appare funzionale all’interesse delle èlite liberal di Oltre Atlantico. Parliamo di un successo ideologico statunitense?

Come Le dicevo per rispondere alla Sua prima domanda, i due modelli hanno certo, entrambi, tratti dell’ideologia attuale e recente Usa, e probabilmente la diplomazia coperta, che è gran parte della politica estera dei due schieramenti nordamericani, opera molto in questo campo. Certi viaggi di politici italiani della “Prima Repubblica” erano sostenuti dalla diplomazia talvolta dei Repubblicani (Piccoli, per esempio) o dagli apparati centrali (Napolitano, che poi ne farà buon uso) o dai democratici (i socialisti, soprattutto).

L’Italia è il Paese, ancor oggi, più filoamericano della UE, malgrado certi rigurgiti di nazionalismo che, senza militari autonomi e finanze ugualmente autonome, fanno solo ridere. O fai la tua Force de Frappe autonoma, e ti levi dai santissimi del Comitato Politico Ristretto della NATO, al quale, comunque, Parigi si è sempre seduta, in via privata. Oppure fai gli interessi degli altri, e allora sono cavoli tuoi.  Gli Usa, comunque, non abbandoneranno mai l’Italia, sia per la loro profondità strategica nel Mediterraneo, che si rafforzerà ulteriormente, sia perché vogliono un contrappeso all’area tedesca e la marginalizzazione strategica della Francia. Certo, cambiando solo un poco il discordo, la cultura anglosassone è penetrata, ma è spesso la peggiore, comunque in gran forza in Italia, anche nelle accademie e nella ormai residua università. E’ semplice, è piena di slogan che passano come risultati scientifici, è oggi perfetta per la massificazione ulteriore delle università e della mass culture. C’è oggi, al Sant’Anna di Pisa, scuola molto prestigiosa, chi insegna che la filosofia è “maschilista” e bisogna “femminilizarla”. Roba da ridere, certo, ma si tratta pur sempre di una vittoria del paradigma culturale americano, dove ci sono docenti ad Harvard che affermano che “bisogna farla finita con la cultura dell’uomo bianco”. Un impero che sta cadendo, gli Usa, si riafferma all’estremo con le sue cazzate etniciste. Sperando di sedurre l’Africa, dove ormai laCina la fa da padrona da oltre 14 anni, e la Russia sta entrando in forze. Auguri. Parafrasando Freud, dove prima c’era Marx oggi c’è la cultura liberal-radical Usa. Anche il ’68 fu sostanzialmente una operazione Usa-Cina per destabilizzare i partiti comunisti, ma l’operazione è riuscita e comunque il paziente è morto.  Per il collante del sovranismo, c’è oggi il cattolicesimo popolare dei Family Day, ma per il centro-sinistra c’è l’immigrazionismo, anch’esso irriflessivo, che però lo rimette in collegamento con la Chiesa di Papa Francesco. Staremo freschi, tra questi due fessi matricolati, ovvero destra e sinistra.

A proposito di letture “religiose”, figure come Steve Bannon tentano di ammantare di spirito apocalittico la battaglia sovranista, presentata come quesitone di vita o morte per la civiltà “giudaico-cristiana” contro il nemico di turno. Che può essere, di volta in volta, l’Islam, la Cina, il Vaticano. Quanto influiscono in questa lettura le fondamenta calviniste ed evangeliche degli Stati Uniti?

Steve Bannon, comunque, viene dai ceti popolari di origine irlandese e cattolica, ma questo, in una America in cui la cultura, anche quella non di massa (e lo fa ormai anche qui in Italia) è solo uno strumento primario di segmentazione per gruppi della popolazione, quindi sempre una forma di controllo sociale, vuole pure dire qualcosa. La sua biografia politica lo definisce, senza dubbio alcuno, ma per un tecnico, un vero e proprio “agente di influenza”. Con la sua struttura in Europa, finanzia oggi tutti i movimenti di destra o di centro-destra, anche quelli più distanti tra di loro. Teorizza una rivolta mondiale dei popoli contro le élite, rivolta che sarebbe già in corso. Facile capire quindi cosa vuole davvero: adeguare alla politica estera Usa, anche a quella che verrà dopo Trump, tutta l’area filo-tedesca della UE, e poi sovvenzionare, ma sempre fuori dal controllo russo, i movimenti come il Rassemblement National della Le Pen e la Lega di Matteo Salvini. Giocare due parti in commedia, per permettere a Washington ampia libertà di manovra. L’Europa crede, Dio la perdoni, di essere sfuggita alle regole, scritte e non, che sono state definite dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma la caduta del Muro di Berlino è stata appunto solo un episodio di quegli accordi, non la loro scenografica rottura. Il “partito americano”, in Italia, lo ricordo qui, andava da una parte del PCI fino al MSI tutto intero, passando per i cattolici, riferimento primario di Washington fin dai tempi dello special envoy Myron Taylor con Papa Pacelli. Pio XII fu un costante riferimento degli Usa durante il fascismo e la guerra, ma poi Mons. Montini fu successivamente un vero “amico” per gli americani.

Il modello politico e culturale di Bannon, tornando all’oggi, ovvero il popolo contro le èlite, è divenuto un refrain di tutti i populisti, ma è tecnicamente sbagliato. Un paretiano come me risponderebbe che ogni settore della società secerne naturalmente delle élite, anche i rapinatori di banche, i gelatai o i geometri. Sempre che non si confondano tra di loro. Non è mai esistita una società senza classi dirigenti, debitamente separate, et pour cause, dal resto della popolazione. Tulle le società sono gerarchiche, ma si tratta solo di vedere quanto c’è di merito personale, nell’ascesa, e quanto di eredità (non ereditarietà) tra i figli di papà. Lo dico sempre ai mei amici comunisti, le rivoluzioni non servono, aspettate una o due generazioni che il famoso “capitalista” si distrugge da solo. Studi drogatissimi in America, vita spericolata, e poi l’ovvio fallimento. I venditori di utopie sono comunque come i venditori di almanacchi, e io sono un fan, come direbbero proprio gli americani, di Giacomo Leopardi. Soltanto che la destra italiana crede di essere “popolo”, o il suo megafono, cosa che peraltro Mussolini non fece mai, aggregando i nazionalisti prima, nel 1923, e qui c’erano Giovanni Verga, D’Annunzio, Alfredo Rocco e molti altri. Dopo, Mussolini farà perfino la coda ai grandi “commessi di Stato”, tra cui Raffaele Mattioli della Banca Commerciale e poi Alberto Beneduce, 33° della massoneria scozzese antica e accettata, Primo Sorvegliante del GOi, amico e “fratello” di Ernesto Nathan, primo sindaco ebreo e massone di Roma e, inoltre, parlo di Beneduce, militante socialista riformista. Sua figlia, Idea Nuova Socialista Beneduce, si sposerà con Enrico Cuccia. La classe politica è quindi una parte irrinunciabile della élite, come tutte le classi politiche, e questo vale per i populisti della destra, mentre invece il centro-sinistra crede di essere quasi automaticamente èlite, ma è spesso proprio “popolo”, perché non conta niente, proprio come molti dei suoi dirimpettai del centro-destra. Nella irrilevanza, le due tifoserie si assomigliano, ma è tutto politica-spettacolo.

Il sovranismo pare la retorica ideale per coprire posizioni politiche che non riescono a gestire appieno la sovranità, stato di fatto che è problematico ridurre a un’ideologia: molto spesso, anzi, esso si risolve in uno sciovinismo pseudo-nazionalista. Quali sono i vulnus principali dei cosiddetti sovranisti?

Certo, il ritorno alle sovranità nazionali è oggi impervio e, talvolta, ridicolo, viste le dipendenze della nostra economia del Nord, e non solo, dalle Catene del Valore che arrivano in Germania e poi vanno oltre. Quando, lo ricordo, perfino un caro amico di Cossiga, Helmut Kohl, era convinto di far entrare l’Italia solo al secondo turno dell’Euro, ci fu una telefonata notturna, piuttosto dura, del capo della Confindustria tedesca, che fece fischiare le orecchie al Presidente tedesco. Credo che una simile telefonata sia arrivata, di recente, anche ad Angela Merkel, e con gli stessi toni, proprio quella allieva di Kohl che però, quando la vedova di Helmut si è avvicinata per salutarla, alle esequie del marito, nel 2017, si è ritratta e le ha detto: “manteniamo le distanze”. Gli aneddoti, di cui era ghiottissimo Churchill, erano invece odiati da Hitler, vegetariano, analcoolico, ma pieno di droghe e di farmaci omeopatici, la famosa “medicina tedesca”. Chi ha vinto? Certo, c’è da ricostruire una dignità nazionale italiana, e questo è il vero problema, in politica estera e di difesa, ma questo è un altro e ben più complesso discorso. È questo, il concetto strategico ben declinato, il vero biglietto da visita che viene valutato nei veri consessi internazionali. È come nel Fight Club: prima regola,non parlate mai del Fight Club, quarta regola, quando qualcuno dice basta, fine del combattimento. La civiltà giudaico-cristiana da difendere? Mah! È un modo per unificare le politiche estere di EU e Israele, che però ha la sua e non sente certo altre ragioni. Anzi, l’Ue è, per i dirigenti di Israele, compresi i Servizi, una sentina di antisemiti e filo-arabi, per i loro grassi investimenti in UE e per il loro petrolio. Israele ha, della politica estera UE, una opinione perfino peggiore della mia.  È per questo che c’è ancora. L’Europa è ormai, comunque, antisemita.

A quanto ammontano, Professore, i numeri dell’antisemitismo in Italia?

In Italia, secondo l’Osservatorio Solomon, e sono dati del gennaio 2020, il 14% pensa che Israele sia l’autore del “genocidio palestinese”, l’11,6% pensa che gli Ebrei abbiano un potere economico eccessivo, che, per il 10,7% gli Ebrei non si occupino della società in cui vivono, ma solo della loro comunità, per l’8,4% l’italiano medio crede che si sentano superiori agli altri e, in ogni caso, il 6,3% si è dichiarato apertamente antisemita. La vedo male, quindi, con la questione della civiltà giudeo-cristiana. I negazionisti della Shoah sono, sempre in Italia, ancora pochi, l’1,3% ma certamente non diminuiranno in futuro.

E sul fronte del rapporto tra Europa e Islam, molto spesso visto come fumo negli occhi dai sovranisti, qual è la sua posizione?

L’Islam è in Europa da moltissimo tempo. Al Andalus, l’Andalusia, fu rivendicata come territorio dell’Islam nel 2002 da Osama Bin Laden. Anzi, l’Europa identitaria nasce dalle sconfitte dell’Islam sui Pirenei e nel Sud dell’Italia, dopo, peraltro, lunghe convivenze pacifiche. Il Sultano di Istanbul, dopo la cacciata dei Mori dalla Spagna, ma anche e soprattutto degli Ebrei, dal 1609 al 1614, pochissimi anni dopo la scoperta dell’America da parte di un esploratore genovese ingaggiato da Isabella di Castiglia, affermò pubblicamente che ringraziava il Re di Spagna Filippo III per la gran quantità di studiosi, mercanti, medici, sapienti, artigiani, banchieri che erano arrivati nel suo Regno grazie alla cacciata dei “mori”. Insomma, la questione è più complessa, come al solito. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che, tra pressione demografica interna e esterna, la radicalizzazione del jihad della spada, che sta all’Islam tradizionale come il post-moderno plastificato sta a Kant, oltre all’espansione del mondo arabo, è sempre e scientemente un atto di guerra contro gli infedeli, come ha anche detto l’Emiro del Qatar, Tamim, nel 2007, tramite la rete Al Jazeera in mano alla Fratellanza Musulmana, e operante dal Qatar, ed ecco il testo dell’Amir, il “comandante dei credenti” nel Qatar:  “la Conquista di Roma si farà con la guerra? Non, non è necessario. La conquista dell’Italia e dell’Europa significa che l’Islam tornerà in Europa ancora una volta, ma c’è oggi una conquista pacifica e prevedo che l’Islam tornerà in Europa senza la spada, la conquista si farà attraverso la predicazione e le idee”. E gli affari, aggiungo. E proprio in un albergo di proprietà dell’Emiro di Doha, ma non a Roma, si riunisce sempre con i suoi referenti internazionali un ex-primo ministro italiano, che proprio niente sa, lo dico per esperienza, di queste questioni. Quindi, l’UE avrebbe certo bisogno di un Israele che le desse una mano in Medio Oriente, dove si decidono molti dei suoi destini, e parlo solo della UE, per evitare la seduzione affaristica e ideologica islamista. Gerusalemme farà comunque da sola, ovviamente, credo che ritengano l’UE un caso di malattia mentale e strategica senza medicine possibili. I Paesi europei, soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, saranno per lungo tempo alla canna del gas. Qui non c’è da parlare di  una teoria un po’ farlocca del rapporto tra ebraismo e cristianesimo, c’è invece l’urgenza della strategia.

Ironia della sorte che i nemici dichiarati dei sovranisti siano, molto spesso, leader e Paesi che dell’indipendenza e dell’autonomia di scelta fanno, nel bene o nel male, la loro stella polare. Pensiamo all’Iran, alla Cina di Xi Jinping, ma anche allo stesso Papa Francesco, tra i più severi critici dell’ideologia neoliberista mai messa veramente in discussione dai sovranisti. Segno di una necessaria biforcazione tra retorica sovranista e sovranità?

Noi, in Italia, abbiamo realmente abdicato a una vasta quota di sovranità che era comunque necessaria. Non perché è arrivata la sola UE, ma perché abbiamo seduto, nei consessi della UE, parteggiando ingenuamente per quello o quell’altro, senza una chiara e applicabile visione dell’interesse nazionale che è, come diceva Benedetto Croce del liberalismo, “né statalista né liberista, ma sceglie tra le varie medicine quella che serve al momento”. Rileggere la “Storia d’Italia dal 1871 al 1915” di Don Benedetto, al più presto. E a Casa Spaventa, dove Croce crebbe dopo aver perso i genitori e la sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883, egli si avvicinò al marxismo di Labriola, che conosceva molto bene i sacri testi. Magari li rileggessero con lo stesso criterio, oggi. Strano a dirsi, ma un discendente diretto degli Spaventa fu anche il capo di Gladio-Stay Behind a Milano e in Lombardia, era il mio amico e maestro Francesco Gironda. La Cina ha un rapporto debito/Pil è del 25%, oggi dopo o durante il coronavirus, mentre il debito non estero delle imprese cinesi non finanziarie è sul 155%. Il debito pubblico russo è oggi al 15% circa del Pil. Il sesto più basso al mondo. Ecco la soluzione, chiaramente affermata da Vladimir Putin al Summit di Monaco del 2017. “Se non ho molti debiti, sono libero dai condizionamenti esteri”. Semplice, ma è proprio così che funziona, da sempre.

Veniamo al mondo liberal/globalista ora. Esso ha pensato, molto spesso, che accettare ogni fattispecie della globalizzazione fosse una scelta inevitabile in un contesto di crescente interconnessione politica, economica e sociale del mondo. Quanto ha influito l’ascesa di leader liberal di sinistra nell’accelerazione, forse impropriamente cavalcata, della globalizzazione e dei suoi problemi negli Anni Novanta?

Devo essere, almeno inizialmente, brutale. Con la globalizzazione inizia la applicazione dei modelli della pubblicità dei prodotti di largo consumo alla politica e, soprattutto, ai processi elettorali, che già prima la loffia Political Theory anglosassone, la Rational Choice, aveva santificato, dicendo che l’elettore fa quasi sempre una scelta ottima tra i programmi contrastanti. Bravi! Bischerata somma, come tutti possono osservare, ma che è servita come tappeto rosso per la globalizzazione. I russi ridotti alla fame dalla folle scelta di Yeltsin, la Voucher Privatization del 1992-1994, fu una distribuzione dei sistemi produttivi post-sovietici alla mafia, già all’opera con Stalin, peraltro, e anche alla nomenklatura del Partito, che era ormai quasi la stessa cosa.

In un suo vecchio libro, Kissinger racconta che un ministro dell’URSS gli raccontò, con dovizia di particolari, che la grande raffineria di petrolio che era sulla carta del CC del PCUS non esisteva, ma i finanziamenti da Mosca venivano divisi tra tutti coloro che l’avevano “creata” dal nulla. 15.000 aziende furono privatizzate con i voucher, la mafia e il “partito” comprarono i voucher dei poveri per il classico e spesso realistico tozzo di pane, mentre la Federazione Russa stata passando la maggior crisi economica del dopoguerra, comparabile solo al disastro agricolo del 1930-’31 in Crimea e Ucraina. Putin, uomo pratico come tutti quelli che escono dai Servizi, ma dal KGB si usciva davvero solo con i piedi davanti, seleziona la parte dei nuovi ricchi che si accorda con lui e il suo gruppo degli “oligarchi”, poi manda al macero tutti gli altri. Quando viene assassinato Litvinenko a Londra, che è in rapporto con un oligarca che non si è messo d’accordo con Putin, Boris Berezkovsky, il FSB faceva addestrare al tiro i suoi operativi con sagome che erano ricalcate sull’immagine di Litvinenko. I liberal di sinistra sono quelli che giocano su questa nuova e immaginaria cornucopia, che farà arrivare al Welfare europeo quei soldi che nascono dalla espansione globalizzatrice. Staremo ben freschi.  I soldi della spoliazione russa, ed era per questo che i dirigenti cinesi del PCC ridevano quando arrivò, nelle more della rivolta di Piazza Tien An Mien, nel 1989, Gorbaciov a Pechino. “Bravo-immagino dissero i dirigenti di Deng Xiaoping-vuoi tenere in mano il tuo Paese immaginando che arrivino i capitalisti “buoni” e che non ci saranno rivolte sociali come quella che stiamo fronteggiando?”.

Insomma, il mondo globalista, come lo ha chiamato giustamente Lei, è una accolita di ingenui che hanno operato con tecniche economiche e finanziarie sbagliate, e spesso dannosissime, pagando quasi unicamente i loro politicanti di riferimento, scelti sempre con criteri da testimonial pubblicitario, e poi facendo operazioni economiche e finanziarie semplici e sempre più a breve. “Mordi e fuggi” finanziario, giocando sulle valute, sui futures artificiali per i prezzi delle materie prime, sulla ingenuità delle popolazioni che avrebbero seguito il loro pifferaio magico o leader politico fino in fondo. Sbagliato. Il cosiddetto Terzo Mondo è molto più evoluto, politicamente, del contadino dello Iowa, che comunque piace molto a Xi Jinping. Una riedizione, quindi, dello spaccio di carta commerciale spesso di serie B o C, come fecero gli Usa in Francia poco prima che De Gaulle si rompesse le palle e ordinasse il pagamento delle partite bilaterali con franchi svizzeri, oro o sterline-oro, nel 1966.

De Gaulle, l’unico statista europeo degno di questo nome, altro che i “sovranisti” tutti chiacchiere e distintivo, credeva che il progetto di alleanza franco-tedesca non fosse solo contro l’URSS, ma potesse toglierci dai santissimi anche gli Usa. Peccato di ingenuità? Non credo. Comunque, il primato della politica è inevitabile, l’economia e, soprattutto, la finanza, fanno tutto con operazioni organizzate, in frazioni di secondo, con i loro computer quantici e ben dotati di algoritmi aggiornati. Poi, il gioco degli asset contro altri Paesi, se ne vanno a far danni altrove. E sul momento. L’unica politica che può adattarsi a questa economia, quasi del tutto finanziarizzata, è l’”olio lenitivo” che Nietzsche, già “pazzoide”, ma non troppo, che egli vede scendere sui futuri “cinesini” addetti alla produzione. Ora, i veri cinesini sono nella gig economy, nella “economia dei lavoretti”, nel terziario straccione (non voglio certo offendere questi lavoratori, ovviamente) e nelle classi politiche, come per esempio in Italia, che non favoriscono l’emigrazione delle imprese, salvo che per un fisco demente, ma vogliono “buscar el levante per l’occidente”, come diceva Cristoforo Colombo. Ovvero vogliono adattare l’industria che è rimasta in Patria alla concorrenza sul costo del lavoro e tutto il resto messa in atto dal Terzo Mondo, che incamera ancora aziende come se piovesse.

Una scelta, a dir poco, autolesionista…

Non faremo mai concorrenza a questi Paesi, è impossibile. Ma, certo, possiamo ridurre la nostra classe operaia al nulla salariale, e gli imprenditori non ritorneranno lo stesso, anche se c’è, per l’alto di gamma, una quota di ritorni. Le imprese italiane delocalizzate, tra il 2009 e il 2015, sono aumentate del 12,7%, fonte Teleborsa, con un totale, ma qui le statistiche sono molto difficili, di 36.000 imprese almeno che se ne vanno stabilmente. E qui si tratta di PMI di successo, mica di patacche piemontesi con la erre moscia, salvate almeno quattro volte (e sulla quinta ci sarebbe molto da discutere) dal contribuente italiano. La concorrenza globale sui costi del lavoro e sulla sua precarizzazione è andata oltre ogni limite, in Italia. Per fare cassa nel pagamento, quando occorra, dei titoli di Stato e per sostenere la spesa pubblica, ormai incomprimibile. Dobbiamo quindi inventare una formula produttiva del tutto nuova, fatta di nuovi prodotti, di adattamento rapido ai mercati, di prodotti globalizzati bene, come fecero, a loro modo, i manager di Stato che, dal Codice di Camaldoli del 1943, poco prima che il Gran Consiglio del Fascismo sciogliesse il fascismo, si costruirono una loro autonomia strategica di area cattolica, spesso garantita bene dai Servizi, altro che “deviazioni” dei miei stivali, nel nostro mercato naturale. Ovvero, il Mediterraneo. Moro, Fanfani, Piccoli, poi Craxi, capirono, in modo diverso ma parallelo a De Gaulle, che nella lotta tra i Due Imperi c’era molto spazio anche per noi. E, allora, lo sfruttammo molto bene.

Insomma, Professore, oltre la retorica sovranismo/globalismo la via è ben segnata: serve tornare a coltivare e pensare l’interesse nazionale, mettendo l’azione davanti a ogni retorica.

Ecco, una politica nazionale attenta ai suoi interessi strategici ed economici, un governo che è un po’ liberale, nel senso che non rompe troppo i santissimi alle imprese, ma che le indirizza in modo sensato e talvolta protetto verso i loro “mercati naturali”. Che sarebbero tantissimi, se solo li si volesse studiare bene. Oggi, la SACE-SIMEST è ancora una buona struttura, ma avrebbe bisogno di una bella rinnovata. Gli strumenti quindi li abbiamo, la dottrina del nostro interesse nazionale ancora no. Che non è sempre opposto agli altri, anzi, talvolta, accade il contrario. È  qui il luogo naturale, per dirla con Aristotele, dove dovrebbe cadere la nostra politica estera, fuori dalla chiacchiere neo-nazionaliste o anche globaliste da Inno alla Gioia di Schiller-Beethoven. Come se i nostri concorrenti UE ci dovessero togliere tutte le castagne dal fuoco. Sarà da ridere. E, comunque, il musicista lo modificò non poco, l’Inno. Penso a un ritorno delle strategie nazionali o anche di area, ma senza stupidi nazionalismi, dopo che le tensioni dell’Islam e del jihad della spada saranno regionalizzate o sedate. Si ritornerà a pensare in grande, finalmente.

http://osservatorioglobalizzazione.it/interviste/sovranisti-globalisti-giaconi/?fbclid=IwAR14b9IIQdE8uSfC0fb93TM6pjHnuewW84ll_ULM0VBobCmW9RDdWj78oHc

La nuova storia europea di Putin e la riabilitazione di Stalin Di: George Friedman

Continua il dibattito aperto dal saggio di Putin apparso sulla rivista americana National Interest. http://italiaeilmondo.com/2020/06/19/vladimir-putin-le-vere-lezioni-del-75-anniversario-della-seconda-guerra-mondiale/Ogni ricostruzione storica, specie se avallata e e sostenuta da un politico, per altro di una tale levatura, sottende un punto di vista particolare, una visione e diverse finalità politiche. Uno sguardo al passato, insomma, che serve a posizionarsi nel presente e nel futuro. Non solo. Ogni leader di levatura, ogni classe dirigente deve fondare la propria legittimazione ed autorevolezza nel passato del proprio paese. Su questo Friedman, al netto delle sue tesi, discutibili proprio perché ignorano e glissano senza alcun accenno critico, sulle strategie, sugli interessi e sulle nefandezze delle classi dirigenti europee ed americane di quel periodo, coglie pienamente nel segno. La stessa furia iconoclasta che sta muovendo l’attuale contestazione nelle città americane, con le loro stupide parodie in Europa, apertamente foraggiata ed alimentata dai settori del vecchio establishment non sono altro che il negativo di una stessa fotografia. Grandi sconvolgimenti si profilano all’orizzonte e gli Stati Uniti si avviano ad esserne l’epicentro con la grande sorpresa del cieco e conformista ceto intellettuale europeo. Che abbiano i nostri quantomeno la correttezza di unirsi a Putin nel sollecitare l’apertura degli archivi. Si eviterebbe almeno qualche strumentalizzazione dozzinale di troppo. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La nuova storia europea di Putin e la riabilitazione di Stalin

Di: George Friedman

Al presidente russo Vladimir Putin piace sostenere la tesi secondo la quale la seconda guerra mondiale, e gran parte delle sofferenze da essa causate, sia stata responsabilità non solo della Germania nazista, ma dei governi che vi si opponevano. Ha già discusso questo argomento, ma la versione più recente pubblicata durante la celebrazione annuale del Giorno della Vittoria in Russia è stata la più completa di sempre. Ha spostato la responsabilità delle invasioni e delle atrocità della Germania verso altri paesi e la ha usata per minimizzare la responsabilità dell’Unione Sovietica per la guerra.

In precedenza, Putin aveva messo sotto accusa l’accordo franco-britannico di Monaco di Baviera per l’occupazione tedesca di parte della Cecoslovacchia, ponendo le basi per la seconda guerra mondiale, che il commercio degli Stati Uniti con la Germania prima della guerra rafforzò la Germania e che il governo polacco causò il massacro di massa in Polonia fuggendo dopo la sua occupazione. Tutto ciò è impiantato per minimizzare l’importanza del patto Hitler-Stalin e dell’invasione sovietica della Polonia. È nel suo racconto non più consequenziale di molti altri eventi.

Ad essere polemico per un momento, lasciatemi prendere in carico una cosa alla volta. Il governo fuggì dalla Polonia così come i governi di altri paesi dopo l’occupazione tedesca. Cercare di creare un governo in esilio era ciò che molti hanno fatto. L’idea che lasciando il Paese fossero responsabili di ciò che è accaduto è assurda. La Polonia fu occupata dalle truppe tedesche e sovietiche. I tedeschi iniziarono rapidamente a radunare e ad annichilire ogni possibile resistenza e i sovietici posero in atto l’omicidio di migliaia di ufficiali dell’esercito polacco catturati. L’idea che la presenza di funzionari del governo polacco nel paese avrebbe fermato Hitler e Stalin sui loro propositi è evidentemente sbagliata.

L’accusa contro inglesi e francesi ha un certo peso. Nessuno dei due era pronto per la guerra, militarmente o politicamente. Speravano di evitarlo o almeno di ritardarlo. Fallirono e l’Europa ne pagò il prezzo. Ma c’è una differenza fondamentale con il patto Hitler-Stalin. Stalin raggiunse un trattato con Hitler sulla Polonia. Ma a differenza degli inglesi e dei francesi, i sovietici conquistarono (e tuttora occupano) gran parte della Polonia. L’accordo di Monaco non includeva una clausola per l’invasione cooperativa e l’occupazione della Cecoslovacchia. L’accordo tedesco-russo lo ha fatto.

Gli Stati Uniti hanno ovviamente commerciato con la Germania. La sua politica era di evitare la guerra. Col senno di poi questo è un peccato, ma al momento non c’erano segni dell’intenzione dell’occupazione tedesca dell’Europa né indicazioni di omicidi di massa. Se gli Stati Uniti avessero intrapreso una guerra convenzionale contro l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, Washington avrebbe potuto essere accusata di vendere precedentemente grano ai sovietici, limitando il pericolo della carestia. Il commercio americano fu condannato da alcuni in quel momento, ma la quantità di commercio fece poca differenza nel corso della guerra.

Ciò che contava erano le massicce spedizioni da parte dei sovietici di minerali vitali dopo l’invasione congiunta della Polonia e al momento in cui i tedeschi invasero la Russia, quando si dice che un treno sovietico di contenuti vitali si spostò a ovest attraverso il confine, proprio come si muovevano le truppe tedesche est attraverso di esso. Il trattato tra sovietici e tedeschi prevedeva un massiccio accordo commerciale, al quale Stalin obbedì meticolosamente, sperando di pacificare i tedeschi.

Per andare oltre la polemica, dobbiamo capire la strategia tedesca e sovietica. Durante entrambe le guerre mondiali, la Germania era piena di appetito e apprensione. Temeva un attacco simultaneo da Francia e Russia, sapendo che non poteva sopravvivere a una guerra su due fronti. Durante la prima guerra mondiale, attaccò la Francia mentre stava organizzando un’azione di detenzione a est. La Germania non riuscì a sconfiggere la Francia e la guerra lì crollò in una guerra statica che dissanguò la Germania.

I tedeschi stavano progettando di utilizzare la stessa strategia nella seconda guerra mondiale, questa volta sconfiggendo rapidamente la Francia. La loro offerta di un trattato ai sovietici per sacrificare la Polonia aveva lo scopo di garantire che il fronte orientale rimanesse pacifico mentre la Francia veniva sconfitta, anche se la sconfitta impiegava più tempo del previsto.

Dal punto di vista di Stalin, l’aspettativa tedesca di una forza franco-britannica era un’illusione. Il pensiero militare di Stalin derivava dalla prima guerra mondiale e dalla guerra civile russa, nessuna delle quali era meccanizzata. Non capiva la potenziale velocità della guerra corazzata e il grado in cui rendeva impraticabile la guerra di trincea. Quindi si aspettava che i tedeschi si immergessero nella guerra da attrito protratta per anni. Si aspettava non solo una parte della Polonia dall’accordo, ma il dono del tempo per ricostruire le sue forze militari, nonché una reale opportunità per cacciare la Polonia a ovest e prendere la Germania, mentre i tedeschi venivano impantanati in Francia.

Il piano di Stalin andò male perché la guerra di carri armati fiancheggiava la linea Maginot mal pensata, e perché la Francia era sfinita da una guerra condotta appena 20 anni prima e che aveva profondamente demoralizzato la nazione e i suoi alti gradi militari. Si aspettavano di perdere e hanno perso. E la brillante mossa di Stalin divenne un incubo mentre la Germania spostava le sue forze ad est a una velocità incredibile e, un anno dopo la sconfitta della Francia, scese su una Russia impreparata.

Per comprendere la seconda guerra mondiale in Europa, è necessario comprendere l’incompetenza di Stalin. Non riuscì a cogliere la rivoluzione militare e come si spostò il rischio. Non riuscì a capire che la Francia non era in grado di resistere. E non riuscì a capire che Hitler voleva il trattato per attaccare l’Unione Sovietica prima che avesse il tempo di prepararsi alla guerra. Ma poi Hitler non capì che la Russia, nonostante Stalin, e nonostante il prezzo che avrebbe pagato, avrebbe schiacciato i tedeschi. Indipendentemente dai fallimenti di Stalin, la storia si è giocata da sola.

In tutte le sue affermazioni, sembra che Putin stia cercando di condividere la responsabilità morale. Quello che sta davvero cercando di fare, penso, è riabilitare Stalin. Stalin gettò le basi per il piano di guerra di Hitler. Era ignaro della realtà militare. Quando guardiamo Stalin e se pensiamo che un uomo sia responsabile della storia, allora Stalin si mostrò incompetente oltre ogni immaginazione. Ma se spostiamo la discussione dai calcoli sbagliati di Stalin alle fantasie sulla Polonia, equivalenze morali con Monaco o il commercio prebellico degli Stati Uniti con la Germania, allora Stalin non è peggiore di nessun altro e i suoi fallimenti possono essere nascosti.

A mio avviso, la Russia è nei guai. La sua economia si muove con il prezzo del petrolio e le sue politiche interne ed estere vanno di pari passo. La Russia non è riuscita a modernizzare la sua economia dopo 30 anni di quasi liberalismo legati a uno pseudo libero mercato. Nel 1980, Yuri Andropov, allora capo del KGB, riconobbe che l’esperimento sovietico stava fallendo. Sotto Mikhail Gorbachev, alla fine lo ha fatto. All’epoca Putin era un ufficiale del KGB. Ha imparato che il liberalismo non era la cura per la Russia ma una pillola di veleno. Ha preso il controllo della Russia, costantemente consapevole dell’esperienza del KGB che l’ha plasmato. Mentre osserva i fallimenti dell’economia russa, la perdita dei suoi stati tampone occidentali e la vulnerabilità della Russia, deve essere preoccupato quanto Andropov.

Ma non ha fiducia nella liberalizzazione, quindi pone l’attenzione all’altra estremità dello spettro: lo stalinismo. Visto in questo modo, Putin vuole fare una scommessa senza copertura, e sa che la scommessa deve essere fatta mentre è ancora vivo, dal momento che non è chiaro chi o cosa lo segua. Ci sono molti russi che vedono Stalin come un eroe e altri che lo vedono come un imbecille imbranato e un assassino di massa. I commenti del presidente sono probabilmente rivolti a una generazione più giovane di russi le cui opinioni non sono ancora del tutto formate. Putin potrebbe convivere con il ricordo di un assassino, ma con il ricordo di un incompetente è contrario a tutto.

I più grandi errori di Stalin vennero prima della battaglia di Mosca. Quindi ciò che è accaduto prima deve essere rifuso. Nel riscrivere la storia di Stalin, Putin pone le basi per una trasformazione russa. Non è necessario che il racconto sia coerente, poiché l’argomentazione centrale che esporrà non dipende da questo. Deve dire tre cose. L’Occidente ha causato la seconda guerra mondiale. La Polonia è responsabile del massacro di Katyn e la Russia ha trionfato di fronte all’incompetenza, alla brutalità e alla mendacia degli altri. E Stalin si alzò e salvò l’Unione Sovietica, non a dispetto della sua incompetenza, ma della duplicità del resto del mondo.

Il gioco delle maschere, di Giuseppe Masala e Andrea Zhok

GIUSEPPE MASALA

Intanto un Palamara totalmente impazzito su #La7 definisce i processi a Berlusconi “un tema da sviluppare”. Lasciando intendere che l’abbiano perseguitato, non che ci voglia molto a capirlo. Chiaro che Palamara sta mandando messaggi del tipo:<<O mi tirate fuori o vuoto il sacco e crolla tutto>>, una sorta di Opzione Sansone la sua.
Ho sempre avversato Berlusconi non condividendo nulla delle sue idee politiche, ma un altro conto è sapere che parti della Magistratura lo perseguitavano giudiziariamente per farlo fuori dalla politica con accuse false e pretestuose così da consegnare il paese all’altra parte politica. Questo è un’attentato alla democrazia e alla Costituzione.

Noi abbiamo vissuto per trenta anni in una fiction. Un teatrino preordinato dove ci hanno fatto apparire un innocente come un criminale e una banda di criminali come dei galantuomini. E tutto parte da quelle maledette bombe del 1992 quando uccisero Falcone e Borsellino. Lì è iniziata la tirannide conosciuta come Seconda Repubblica. E anche lì tentarono – lo dico da anni – di buttare le colpe a Berlusconi come “mandante occulto” anche grazie all’incessante campagna di stampa del Gruppo L’Espresso-Repubblica (che il qui scrivente, all’epoca ragazzetto, prendeva come oro colato). No, cari, simili attentati li fa chi controlla i gangli vitali dello Stato (a partire dai Servizi) e per controllarli devi essere dentro lo Stato e dentro il Governo. Berlusconi entrò in politica nel 1994, dunque dopo che avvennero i fatti che deviarono la traiettoria della Storia nazionale.

Tutto parte in quell’anno maledetto e bisogna ragionare su chi allora stava al Governo (idem per le bombe stragiste dell’anno successivo).

ANDREA ZHOK

Il tema dei rapporti politica-magistratura, scoppiato col caso Palamara, è complicato, intricato, coinvolge personalità potenti e influenti, implica poteri fondamentali dello Stato, capaci di distruggere qualunque eventuale avversario, e menziona situazioni, incontri informali, accordi privati che per loro natura non verranno mai completamente alla luce.

In questo senso, la speranza, che “un’inchiesta faccia completa luce sulle responsabilità” fa la sua bella figura accanto alla speranza che Babbo Natale scenda dal camino o che gli asini spicchino il volo.
Semplicemente non avverrà mai.
Verranno cambiati alcuni suonatori nella stessa orchestra, con lo stesso spartito.

Esiste un’unica posizione che è possibile tenere su questo tema, se si vuole salvare una qualche credibilità istituzionale.

Il potere giudiziario è uno dei tre poteri fondamentali dello Stato (accanto a legislativo ed esecutivo).

L’indipendenza dei poteri fondamentali è la garanzia per un minimo funzionamento democratico, e nello specifico l’indipendenza tra potere giudiziario e i due poteri politici (legislativo ed esecutivo) è il livello di separazione di gran lunga più importante e decisivo.

Ergo, il potere giudiziario deve essere totalmente, integralmente ed irrevocabilmente estraneo al posizionamento politico.

E’ semplicemente folle che soggetti chiamati a decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, soggetti che hanno potenzialmente un potere di ricatto infinito rispetto a qualunque cittadino, si organizzino apertamente secondo linee di appartenenza politica (come le correnti dell’ANM).
E’ uno scandalo, che dura da troppo tempo.

Si dice: “Ma i magistrati, dopo tutto, non sono cittadini come gli altri? E non devono avere come tutti i cittadini il diritto ad organizzarsi politicamente?”

E la risposta è: “No, i magistrati non sono cittadini come tutti gli altri. Sono quei cittadini particolari chiamati a giudicare secondo equanimità e giustizia ogni altro cittadino. Sono i rappresentanti di un potere fondamentale dello Stato, capace di mettere in scacco ogni altro rappresentante di altri poteri fondamentali, e a maggior ragione ogni altro cittadino qualunque. Nessun altro singolo soggetto in una democrazia ha un potere simile.”

L’organizzazione dei magistrati secondo linee politiche, e la stessa esplicitazione pubblica di posizioni politiche, deve essere semplicemente vietata ad un magistrato, fino a che indossa quelle vesti.

Si vuol dire che poi comunque, privatamente, ciascun magistrato le proprie opinioni politiche le avrà comunque? Certo, ma almeno – e non è poco – non potrà utilizzare la sfera delle opinioni politiche come fattore utile a pervenire ad accordi intersoggettivi con altri suoi pari. Un’opinione coltivata meramente nel proprio foro interiore è infinitamente meno potente di un’opinione intorno a cui si possono esplicitare accordi.

Se un magistrato decide di entrare esplicitamente in politica, cosa che costituzionalmente non gli può essere negato, deve uscire definitivamente dal suo ruolo come magistrato.

Ogni altra mediazione è democraticamente inaccettabile.

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