Afghanistan, ultim’ora e aggiornamenti

Con le ultime informazioni delle ore 20:00 del 28 agosto chiudiamo per il momento la rubrica

Con il precipitare della situazione legata agli attentati all’aereoporto di Kabul avviamo questa rubrica di aggiornamento. Partiamo da alcune constatazioni: i talebani sono lontani dall’aver assunto un controllo stabile del paese; il governo afghano è composto da un numero un po’ troppo elevato di componenti reclusi da anni in carceri pachistane e statunitensi e rilasciati a pochi mesi dalla conquista di Kabul; la linea di condotta statunitense in apparenza prevalente prevede una collaborazione di fatto con i talebani, ma non prosegue senza contrasti interni e strategie nascoste; gli attentati, eseguiti alla scadenza della fase di evacuazione, hanno tutta l’aria di una provocazione tesa a sconvolgere l’assetto che si sta prefigurando. Vedremo le reazioni di Cina, Russia e Turchia e soprattutto l’atteggiamento delle forze di opposizione che si stanno coagulando intorno a Massud in Pansjshir_ Giuseppe Germinario

 

26/08/2021  Ore:18:55

Mappa Aeroporto di Kabul, per comprendere il contesto in cui si svolgono i correnti avvenimenti. 

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26/08/2021  Ore:19:04

L’Emirato Islamico condanna fermamente l’attentato che ha colpito i civili all’aeroporto di Kabul, avvenuto in una zona dove la sicurezza è nelle mani delle forze americane. L’Emirato Islamico attribuisce grande importanza alla sicurezza e alla protezione della sua gente e respingerà severamente i crimini dei circoli malvagi.

Dr. M.Naeem; portavoce dell’Ufficio Politico dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.

 

26/08/2021  Ore:19:11

Secondo fonti del Dipartimento di Stato Americano; sarebbero almeno 40 i morti e oltre 120 i feriti, la maggioranza in condizioni critiche, a seguito degli attentati terroristici a Kabul.

 

26/08/2021  Ore:21:24

L’ISIS rivendica gli attacchi mortali vicino all’aeroporto di Kabul:

– 2 attentati suicidi vicino all’aeroporto

– Almeno 60 morti, incluso bambini

– 12 militari degli Stati Uniti uccisi

– Più di 150 feriti

 

26/08/2021  Ore:21:39

Secondo l’agenzia di stampa Afghana; https://asvakanews.com/en/ , qualche minuto fa ci sarebbe stata la settima esplosione a Kabul. La citta e` in questo momento, letteralmente parlando, sotto un massiccio attacco. La notte si preannuncia tragica…

 

26/08/2021  Ore: 22:00

Il presidente Biden parlerà della situazione in Afghanistan dalla Casa Bianca alle 17:00 ora di Washington.

 

26/08/2021  Ore: 22:06

Dichiarazione di Donald J. Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America:

“Melania ed io inviamo le nostre più sentite condoglianze alle famiglie dei nostri brillanti e coraggiosi membri del servizio il cui dovere nei confronti degli Stati Uniti ha significato così tanto per loro.”

“I nostri pensieri sono anche con le famiglie dei civili innocenti morti oggi nel selvaggio attacco di Kabul.

“Questa tragedia non avrebbe mai dovuto accadere, il che rende il nostro dolore ancora più profondo e più difficile da capire.

“Che Dio benedica gli Stati Uniti.”

 

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26/08/2021  Ore: 22:16

Oggi è stato il giorno più funesto, per le truppe statunitensi, dall’attacco ad un elicottero avvenuto il 5 agosto 2011. In altre parole; l’attacco più mortale in più di un decennio sostenuto contro le truppe americane. Trump sarebbe stato colui che non sapeva quello che faceva…

 

26/08/2021  Ore: 23:10

Le facce del fallimento militare americano in Afghanistan:

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26/08/2021  Ore: 23:22

Mentre Kabul e nel caos, lo strano silenzio sulle vicende in Afghanistan della Kamala Harris continua, qui pone i fiori alla lapide di ricordo di John McCain ad Hanoi, in Vietnam, dove prosegue il suo diplomatico viaggio oltre oceano.

Oggi, nel terzo anniversario della sua scomparsa, ho reso omaggio a un eroe americano, il senatore John McCain. In questo sito nel 1967, l’allora tenente comandante McCain fu abbattuto con il suo aereo. Onoriamo il suo sacrificio in Vietnam e il sacrificio di tutti i nostri uomini e donne in uniforme.

Intanto su Twitter imperversa la frase: ”Presidente Harris” Nei prossimi giorni ne vedremo delle belle…

27/08/2021  Ore: 01:17

Mentre osserviamo gli avvenimenti in Kabul, frutto dell’incompetenza della amministrazione Biden, vogliamo ricordare l’establishement politico, incluso i Repubblicani, che pur di sbarazzarsi di Trump, si sono allineati con un uomo che soffre di demenza senile e che per oltre 4 decenni è stato l’emblema del potere burocratico di Washington. I repubblicani sono colpevoli quanto i democratici di questa catastrofe Afghana.

Per non dimenticare: “Sarà un comandante in capo sul quale la migliore forza combattente nella storia del mondo potrà fare affidamento, perché Biden sa cosa vuol dire mandare un figlio a combattere.

Tweet di Cindy McCain moglie del guerrafondaio John Mccain del 22 Settembre 2020…

 

27/08/2021  Ore: 02:00

Massiccio spostamento ieri di aerei dell’aviazione americana dall’Islanda alla base USAF Fairford in Inghilterra. Si sono visti tra l’altro i B-52 Stealth Bomber e gli U2-Spy Plane. Destinazione finale? Obbiettivi? I Telebani? ISIS? Probabilmente Biden avrà un obiettivo da colpire per salvare la faccia…

 

 

27/08/2021  Ore: 03:34

Terminata la conferenza stampa di zio Joe. Una conferenza stampa surreale, dove Biden, nonostante le domande soft della stampa amica  è sembrato a volte quasi smarrito. Una conferenza stampa senza sussulti che lascia più dilemmi che risposte. Un punto chiave è stato quando, dopo il discorso, Biden ha aperto il giro di domande con la frase “Signore e signori, mi hanno dato una lista qui. La prima persona che mi è stato chiesto di chiamare è Kelly O’Donnell della NBC…

 

27/08/2021  Ore: 03:49

Durante la conferenza stampa di Joe Biden, in diretta sul canale youtube della CNBC, i “non mi piace” erano tre volte più dei “mi piace”. Vogliono farci credere che Biden è stato il presidente più votato della storia politica americana, 82 milioni di votanti…

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27/08/2021  Ore: 04:01

Il generale Dean Milner (in pensione), che è stato l’ultimo comandante canadese in Afghanistan racconta al The Toronto Sun che le forze talebane e dell’ISIS stanno ora pilotando elicotteri Blackhawk e hanno il controllo di centinaia di veicoli da battaglia terrestri. “La comunità internazionale (Joe Biden?) ha fatto un casino…”

 

27/08/2021  Ore: 04:07

Il generale Scott Miller non credeva che chiudere la base aerea di Bagram fosse la strategia giusta…E iniziata la corsa allo scarica barile…

 

27/08/2021  Ore: 05:19

Secondo un sondaggio condotto da Rasmussen; solo il 34% degli americani ritiene di potersi “fidare” di Joe Biden e dei suoi funzionari sulle informazioni riguardo la situazione in Afghanistan. Sono numeri da morto che cammina…

 

27/08/2021  Ore:15:56

La Kamala Harris e` rientrata dal suo viaggio in Vietnam, si attendono sviluppi nei prossimi giorni. Si alzano sempre di più insistenti le voci che vogliono Biden dimettersi per elevare la Harris a presidente.

 

27/08/2021  Ore:16:12

Nonostante gli attentati, le evacuazioni sono proseguite senza sosta, nelle ultime 24 ore ci sono state:

– 12.500 persone state evacuate da Kabul.

– 35 voli militari statunitensi (29 C-17 e 6 C-130) hanno trasportato 8.500 sfollati e 54 voli della coalizione che hanno trasportato più di 4.000 persone.

– 105.000 evacuati dal 14 Agosto.

 

27/08/2021  Ore:16:20

Il bilancio delle vittime dell’attacco all’aeroporto di Kabul è salito a 170 persone, tra cui 32 uomini, 3 donne e 3 bambini. Quasi 200 i feriti.

 

27/08/2021  Ore:16:51

Le forze della NATO hanno iniziato a ritirarsi dall’Afghanistan. Ma esperti civili turchi potrebbero rimanere nel paese per aiutare i talebani a gestire l’aeroporto di Kabul, possibilmente tenendo aperta una via d’uscita.

 

27/08/2021  Ore:17:00

L’Afghan Taekwondo Federation conferma che Mohammad Jan Soltani, membro della squadra nazionale di taekwondo, è stato ucciso ieri in un attacco suicida a Kabul.

 

27/08/2021  Ore:17:08

Secondo l’Agenzia di stampa Afghana AsvakaNews, i video che oggi mostrano caos intorno all’aeroporto di Kabul non sono veri. La reale situazione e che i Talebani hanno bloccato le strade che portano all’aeroporto di Kabul, di conseguenza la situazione intorno all’aeroporto stesso e relativamente tranquilla.

 

27/08/2021  Ore:18:02

C’è sempre molta confusione per quanto riguarda le notizie che descrivono i responsabili degli attacchi suicidi a Kabul. ISIS-K avrebbe  rivendicato gli attacchi. Chi sono gli ISIS-K?

La provincia dello Stato islamico del Khorasan, nota anche con gli acronimi ISIS-K, ISKP e ISK, è l’affiliata ufficiale del movimento dello Stato islamico che opera in Afghanistan, come riconosciuto dalla leadership principale dello Stato islamico in Iraq e Siria.

ISIS-K è stata fondata ufficialmente nel gennaio 2015. In un breve periodo di tempo, è riuscita a consolidare il controllo territoriale in diversi distretti rurali nel nord e nord-est dell’Afghanistan e ha lanciato una campagna letale in Afghanistan e Pakistan. Nei suoi primi tre anni, ISIS-K ha lanciato attacchi contro gruppi minoritari, aree pubbliche, istituzioni e obiettivi governativi nelle principali città dell’Afghanistan e del Pakistan.

Secondo il Global Terrorism Index della Institute for Economics and Peace, nel 2018 era diventata una delle quattro organizzazioni terroristiche più letali al mondo.

Ma dopo aver subito gravi perdite territoriali, di leadership e di base come risultato delle operazioni militari della coalizione guidata dagli Stati Uniti e i suoi partner afghani che sono culminate nella resa di oltre 1.400 dei suoi combattenti e delle loro famiglie al governo afghano tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, l’organizzazione fu dichiarata, da alcuni, sconfitta. (Amministrazione Trump-Come dimenticarsi del famoso Moab lanciato constro ISIS-K da Trump nell’Aprile 2017?  https://www.nbcnews.com/news/world/why-america-dropped-mother-all-bombs-isis-afghanistan-n746481)

SIS-K è stata fondata da ex membri dei talebani pakistani, dei talebani afgani e del Movimento islamico dell’Uzbekistan. Nel corso del tempo, però, il gruppo ha pescato da militanti di vari altri gruppi.

Uno dei maggiori punti di forza del gruppo è la sua capacità di sfruttare l’esperienza locale di questi combattenti e comandanti. 

La strategia generale di ISIS-K è stabilire una testa di ponte per il movimento dello Stato Islamico per espandere il suo cosiddetto califfato nell’Asia centrale e meridionale.

ISIS-K mira a consolidarsi come la principale organizzazione jihadista nella regione, in parte cogliendo l’eredità dei gruppi jihadisti che l’hanno preceduta. Ciò è evidente nel messaggio del gruppo, che fa appello ai combattenti jihadisti veterani e alle popolazioni più giovani nelle aree urbane.

ISIS-K vede i talebani afghani come suoi rivali strategici. Marchia i talebani afghani come “sporchi nazionalisti” con l’ambizione di formare un governo confinato ai confini dell’Afghanistan. Ciò contraddice l’obiettivo del movimento dello Stato Islamico di stabilire un califfato globale. 

Fin dal suo inizio, l’ISIS-K ha cercato di reclutare membri talebani afgani, prendendo di mira anche le posizioni talebane in tutto il paese.

Gli sforzi di ISIS-K hanno avuto un certo successo, ma i talebani sono riusciti ad arginare le sfide del gruppo perseguendo attacchi e operazioni contro il personale e le posizioni dell’ISIS-K.

Questi scontri si sono spesso verificati in tandem con la forza aerea statunitense e afgana e le operazioni di terra contro l’ISIS-K, sebbene non sia ancora chiaro fino a che punto queste operazioni siano state coordinate.

Ciò che è chiaro è che la maggior parte delle perdite di personale e leadership dell’ISIS-K sono state il risultato di operazioni guidate dagli Stati Uniti e dell’Afghanistan, e in particolare dagli attacchi aerei americani…

https://theconversation.com/what-is-isis-k-two-terrorism-experts-on-the-group-behind-the-deadly-kabul-airport-attack-and-its-rivalry-with-the-taliban-166873

 

27/08/2021  Ore:18:09

Durante la conferenza stampa di questa sera, il funzionario stampa del pentagono ha affermato che MIGLIAIA di prigionieri dell’ISIS-K sono stati rilasciati dai talebani.

 

27/08/2021  Ore:18:56

Pentagono: ad oggi più di 5.000 soldati americani rimangono operativi in Afghanistan.

 

27/08/2021  Ore:19:01

Il segretario di stampa John Kirby afferma che il Pentagono è “preparato e si aspetta” futuri attacchi terroristici in Afghanistan.

 

27/08/2021  Ore:19:53

Secondo fonti locali le forze talebane sono entrate nella sezione militare dell’aeroporto di Kabul. Gli Stati Uniti potrebbero cedere il controllo dell’aeroporto già da stasera.

 

27/08/2021  Ore:20:02

Dalla regione di PANJSHIR: Ogni villaggio nella valle del PANJSHIR ha il proprio gruppo armato locale pronto ad unirsi alla Resistenza nazionale.

Sempre dalla regione del PANJSHIR: Forti scontri sono in corso tra le Forze della Resistenza ei Talebani nella provincia di Kapisa confinante con il PANJSHIR.

 

27/08/2021  Ore:20:11

Sono inziate le cronache della resitenza afghana: un ritorno al passato, come era la situazione nel paese prima dell’11 di settembre 2001: Il Pansjshir ritorna ad essere il centro della resitenza antitalebana. Il Fronte della Resistenza guidato da Amir Javan (Ahmad Massoud) chiede, tramite uno dei suoi comandati, a tutti i mujaheddin e i combattenti di riunirsi allo stesso fronte per continuare la lotta.

Sia lodato Dio, finora la situazione nel Panjshir, centro della resistenza, è abbastanza buona, non c’è motivo di preoccuparsi. Siamo pronti al sacrificio e al martirio”

 

27/08/2021  Ore: 20:25

I deputati repubblicani alla camera introducono gli articoli di impeachment contro il Segretario di Stato Blinken. Una vittima(e) sacrificale dovrà per forza esserci…

Blinken Urges Taliban To Make Sure 'protected Passage' Out Of Afghanistan | NewsRobin

 

27/08/2021  Ore: 20:47

Una di queste teste non vedrà l’arrivo dell’inverno, garantito…

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27/08/2021  Ore: 22:30

Le facce dei soldati americani morti negli attacchi terroristici di ieri, il numero ufficiale è ora salito a 13:

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28/08/2021  Ore: 01:41

I talebani ispezionano alcuni dei 75.000 veicoli militari donati loro da Biden in Afghanistan. Hanno anche ereditato 200 aerei e oltre mezzo milione di armi!

 

28/08/2021  Ore: 02:24

Un gruppo privato di veterani statunitensi chiamato “The Pineapple Express” è andato da solo in Afghanistan, senza il supporto di enti governativi e ha portato in salvo oltre 500 persone.

https://abcnews.go.com/Politics/us-special-operations-vets-carry-daring-mission-save/story?id=79670236

 

28/08/2021  Ore: 02:30

L’evacuazione dei civili e ora ufficialmente terminata, l’estrazione dei militari (circa 5000) e iniziata, il tutto dovrebbe concludersi entro le prossime 48 ore, dopo di che cala il sipario sulle guerra più lunga mai combatuta dagli americani.

 

28/08/2021  Ore: 03:00

Il famoso giornalista Chris Wallace ha affermato che la presidenza di Biden non sopravviverà al prossimo attacco terroristico perpetrato in terra americana…

 

28/08/2021 Ore: 05:00

Dopo l’ordine di Biden di pianificare una reazione all’attentato di Kabul, questa notte è partito un primo attacco con droni che avrebbe colpito un dirigente dell’ISIS-K nella provincia di Nangharar

 

28/08/2021 Ore 07:00

In una sala conferenze  del lussuoso  hotel The Willard, nel centro di Washington, DC , un gruppo di volontari sta cercando disperatamente di far entrare le persone nell’aeroporto di Kabul e farle salire su aerei appositamente noleggiati.

Tra coloro che lavorano venerdì sera ci sono veterani militari, il vice ambasciatore dell’ambasciata afgana, ex appaltatori militari e altro ancora. I volontari sono guidati da Zach Van Meter, presidente della società di private equity New Standard Holdings. Van Meter ha detto di essere stato contattato per chiedere aiuto a 3.500 orfani fuori da Kabul.

 

28/08/2021 Ore 09:00

Gente che va, gente che viene.

da Globaltimes

Riapre China Town in Afghanistan, non sconvolta dalle esplosioni mortali all’aeroporto di Kabul: fonti

La China Town nella capitale dell’Afghanistan, Kabul, è stata riaperta nei giorni scorsi, senza grandi disagi a causa delle esplosioni all’aeroporto di Kabul che hanno ucciso almeno 100 persone, tra cui 13 membri delle forze armate statunitensi. Ma gli imprenditori cinesi hanno dichiarato al Global Times che stanno intensificando gli sforzi di sicurezza per affrontare i conflitti armati persistenti.

 

28/08/2021 Ore 09:00

Dall’Iran nel 2019: https://www.tehrantimes.com/news/432382/U-S-Caught-Helping-ISIS-Commanders-Escape-from-Taliban-Prison

politica dell’usa e getta. Da verificare, ma verosimile

Gli Stati Uniti hanno aiutato i comandanti dell’ISIS a fuggire dalla prigione dei talebani in Afghanista_gennaio 2019

 

28/08/2021 Ore 10:12

TEHERAN – Un gran numero di prigionieri, tutti membri anziani del gruppo terroristico Daesh (anche ISIS o ISIL), è evaso da una prigione talebana nel nord-ovest dell’Afghanistan dopo che le truppe statunitensi li hanno aiutati a fuggire attraverso un’operazione segreta. 

Secondo i dispacci di Tasnim, le forze americane operanti in Afghanistan due settimane fa hanno effettuato un’operazione militare segreta nella provincia nordoccidentale di Badghis e hanno aiutato i detenuti Daesh a fuggire dalla prigione.

Il rapporto aggiunge che 40 capi daesh, tutti stranieri, sono stati trasferiti con elicotteri dopo che le truppe americane hanno fatto irruzione nella prigione e ucciso tutte le sue guardie di sicurezza.

Abdullah Afzali, vice capo del consiglio provinciale di Badghis, ha confermato la notizia. 

Fonti informate hanno fornito un resoconto dettagliato dell’operazione statunitense per il salvataggio delle forze Daesh e degli sviluppi che hanno aiutato gli americani a individuare l’ubicazione della prigione nelle zone montuose.

Aminullah, un uomo dell’Uzbekistan, era uno dei comandanti Daesh tenuti prigionieri nella prigione dei talebani. Il suo successo nella fuga dal carcere ha portato al licenziamento della guardia carceraria talebana e alla sua punizione.

Aminullah è stato uno dei leader di spicco Daesh nelle parti settentrionali dell’Afghanistan.

Fonti informate suggeriscono che il cittadino uzbeko avesse stabilito stretti contatti con le forze militari americane sin dai primi giorni del suo trasferimento in Afghanistan.

Gli americani usavano Aminullah come infiltrato tra i talebani per acquisire informazioni per condurre operazioni contro i talebani nel nord dell’Afghanistan.

 

“L’Iran ha informazioni precise che gli Stati Uniti stanno trasferendo Daesh in Afghanistan”_gennaio 2019

28/08/2021 Ore 11:45

TEHERAN – Yahya Rahim Safavi, uno dei massimi consiglieri militari del Leader, ha detto martedì che l’Iran ha “informazioni precise” che gli Stati Uniti stanno trasferendo militanti Daesh in Afghanistan.

In una cerimonia tenuta per celebrare il 40esimo anniversario della vittoria della Rivoluzione Islamica, Safavi ha anche affermato che il potere degli Stati Uniti e del regime sionista è in declino “ma il potere dell’Iran sta aumentando e ora siamo una potenza regionale”. 

Il leader della Rivoluzione Islamica, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato nel gennaio 2018 che gli Stati Uniti stanno cercando di giustificare la propria presenza nella regione trasferendo Daesh dall’Iraq e dalla Siria in Afghanistan.

“Sono stati sconfitti, in precedenza, in Iraq e in Siria. Ora, cercano di riaccendere il terrore in Afghanistan”, ha detto il leader, secondo khamenei.ir.

 

28/08/2021 Ore 16:47

I neocons rialzano la testa: John Bolton: ” …questo ritiro è stato pasticciato ed è uno dei motivi per cui siamo ora in grave pericolo, ma esprime anche l’aspetto fondamentale dell’errore del ritiro stesso.

 

28/08/2021 Ore 17:00

Messaggio di Tulsi Gabbard: “Dopo l’attacco terroristico di al-Qaeda, l’11 settembre 2001, i nostri coraggiosi militari e forze speciali si erano prontamente schierati per sconfiggere al-Qaeda in Afghanistan, completando la loro missione in modo rapido ed efficace. In quel momento saremmo dovuti tornare a casa” (non 20 anni dopo…)

 

28/08/2021 Ore 17:03

Joe Biden ha dato al Pentagono il “via libera” per colpire qualsiasi obiettivo affiliato all’ISIS-K, il gruppo responsabile dell’attacco mortale di questa settimana a Kabul, senza chiedere l’approvazione della Casa Bianca.

 

28/08/2021 Ore 17:10

Il generale Kenneth McKenzie, comandante del Comando Centrale degli Stati Uniti, ha rivelato l’esistenza di un’operazione di condivisione di intelligence tra Stati Uniti e Talebani. Secondo McKenzie, i Talebani e gli Stati Uniti condividono lo “scopo comune” di portare a termine la missione di evacuazione in corso entro il 31 agosto.

McKenzie ha detto di non credere che i talebani abbiano intenzionalmente permesso che si verificassero gli attacchi di giovedì, ma ha ammesso di non saperlo con certezza.

https://www.nationalreview.com/news/centcom-commander-reveals-u-s-intelligence-sharing-operation-with-taliban/

 

28/08/2021 Ore 17:14

Pentagono: Due obiettivi ISIS “di alto profilo” sono stati uccisi nell’attacco con droni nell’Afghanistan orientale, un altro terrorista ferito, le forze statunitensi “continueranno” la caccia ad altri obiettivi.

 

28/08/2021 Ore 18:02

Il portavoce del Pentagono John Kirby afferma che gli Stati Uniti non rilasceranno i nomi dei due membri dell’ISIS “di alto profilo” uccisi in un attacco di droni in Afghanistan…(Perche`?)

 

28/08/2021 Ore 19:13

Foto dell’attacco americano che ha colpito una casa nel 7° distretto di Qala-e-Naghrak, provincia orientale di Nangarhar. L’esercito americano afferma che un membro chiave del gruppo dello Stato Islamico è stato ucciso in un attacco aereo che era la mente dell’attacco all’aeroporto di Kabul.

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28/08/2021 Ore 19:29

I talebani condannano l’attacco dei droni statunitensi contro i militanti dello Stato islamico. “E’ stato un chiaro attacco al territorio afghano“, ha detto il  portavoce del gruppo Zabihullah Mujahid.

E SE GUARDANDO AL FUTURO IL RISCHIO REALE FOSSE IL CAOS?_di Pierluigi Fagan

E SE GUARDANDO AL FUTURO IL RISCHIO REALE FOSSE IL CAOS? Così termina un breve articolo di A. Giustozzi, Visiting Professor e ricercatore del King’s College che sembra esser uno dei pochi che sa qualcosa di concreto sull’Afghanistan. In questi giorni molti sono stati sollecitati a farsi un’idea dell’A., ma poche sono le fonti davvero utili, pochissimi gli esperti, scarsa la disponibilità mentale ad approcciare cose complesse. In più, da una parte molti arrivano a tentar di conoscere il fenomeno con schemi preconcetti validi nella loro immagine di mondo generale, dall’altra c’è il solito bombardamento emozionale del media che strappano lacrime, indignazioni, paure, che non aiutano il pensiero, ma richiedono con urgenza solo il giudizio. E’ bene ciò che sta succedendo o è male? E bene o male per chi, quando, perché? Quello che sta succedendo oggi eccitando la nostra attenzione da pesci rossi o quello che succederà dopo? Dopo quando?
Il Giustozzi, ci rende -in parte- edotti della complessa situazione sul campo. Attenzione, ammonisce il ricercatore, perché se i talebani sono espressione dell’etnia pashtun (circa 42% del totale), uzbechi, tagiki ed hazara (nel totale 45% del totale) potrebbero non esser propensi a sottostare al loro dominio. Ma non è vero neanche il contrario ovvero che poiché di altra etnia di per sé questo implicherà l’esser contro. Nei fatti, molti “gangster” (il termine è del Giustozzi) ovvero capi clanici armati, hanno partecipato al movimento di ripresa del potere. Si tratterà quindi di vedere quanto equilibrio ci sarà nelle spartizioni del potere; chi sarà felice rimarrà lealista, chi si sentirà frustrato nelle aspettative raggiungerà la resistenza anti-talebana. Resistenza che potrà contare anche su altre etnie, varie tribù o vari clan, oltre all’ISIS-K branca locale del network wahhabita. Poi comunque il “potere” dovrà far i conti con la situazione economica e sociale, è lì il vero tribunale dei fatti che promette di esser giudice severo, date le premesse.
Si tenga conto come alcuni avranno letto, che l’A. nel 1980 quindi quaranta anni fa, era di 15 milioni, oggi è di 38 milioni (ONU), nel 2050 è aspettato con questi indici di riproduzione, ad arrivare a 82 milioni, un bel problemino. Molti affiliati al movimento di ripresa del potere di oggi che poco o nulla hanno a che fare con i talebani del 2000, sono appunto giovani disoccupati delle campagne (e non solo), delusi dal governo corrotto che ha dominato negli ultimi due decenni. Cosa faranno se non avranno le soluzioni di vita promesse dal movimento talebano?
Quanto all’etnia pashtun, quella da cui proveniva l’originario movimento degli studenti coranici detti appunto “talebani”, va ricordato che solo un suo quarto si trova in Afghanistan, gli altri tre quarti si trovano in Pakistan. L’organizzazione terroristica Tehrik-e-Taliban Pakistan (TPP) è la principale spina nel fianco del governo di Islamabad, avendo questi come loro obiettivo specifico il rovesciamento del governo pakistano da sostituire con uno stato islamico basato sulla sharia. Hanno fatto circa 35.000 morti in vari attentati dal 2007, procurando danni per stimati 67 mld US$ (IMF-WB). Da notare, come la zona pashtun pakistana sia contigua al passaggio della Belt and Road Initiative cinese, cinesi ritenuti nemici mortali al pari degli americani e del governo pakistano dagli islamisti pashtun.
Intorno all’A. sappiamo esservi coacervo di interessi. Turchia e Qatar, i vari “stan” coi russi in backside, cinesi, pakistani divisi tra il supporto alla causa talebana fino a che era rivolta all’Afghanistan ma ora che i talebani pashtun hanno uno “Stato” da vedere nel riflessi di quali saranno i rapporti tra Kabul e TPP, iraniani, beluci (che stanno in Iran-Afghanistan-Pakistan e sono terreno di cultura per l’ISIS), sauditi una volta molto amici dei pakistani ora molto meno (ma da quelle parti è tutto molto ambiguo e cangiante secondo convenienza), financo indiani.
Tutto ciò, secondo voi, era ignoto alla potente macchina geopolitica americana? Non è pensabile. E vien quasi da supporre che i due-tre anni di trattative USA-Taliban svoltesi nei colloqui di Doha, gli USA abbiamo fatto sapere ai talebani cosa accetteranno e cosa no da parte del nuovo governo, rispetto a questo intricato quadro geopolitico d’area. Ovviamente i talebani, arrapati dalla promessa di poter prender pacificamente l’agognato potere, avranno promesso mari e monti stante che i mari non ce li hanno. Ma chissà se controllano anche tutti i monti e non solo quelli a ridosso della famigerata line Durand. Il governo di Kabul, date le premesse, sarà molto debole e dis-equilibrabile in pochi secondi muovendo qualche pedina sul complicato terreno. Mossa da Washington o da qualche suo alleato del Golfo Persico che da quelle parti ha più dimestichezza o anche lasciando fare alle complesse dinamiche dell’area.
Non è un caso che da Obama a Trump, fino a Biden, i vari presidenti abbiano intuito subito che agli americani, in Afghanistan, conveniva più non esserci che esserci. L’Afghanistan era e promette di essere l’ennesimo stato fallito, un caotico buco nero che ben gestito “from behind”, può regalare molte soddisfazioni alle mire di destabilizzazione della regione. Tra l’altro, leggo che l’A. è leader mondiale tra i produttori di rifugiati da 32 anni, quindi può far ancora molto per la causa dell’Impero, in molti modi.
Quanto a Biden, notava un mio contatto e giustamente, quanta eccitazione critica agiti le redazioni del WP e NYT al traino degli interessi del famigerato complesso militare-industriale-ONG che vive di guerra attiva e conflitto sul campo. Emerge ora quanto fossero proprio i generali, per semplificare un’area di interessi molto vasta e composita, a render impraticabile il ritiro immaginato dai vari presidenti. Cosa per altro nota già a chi ha seguito gli anni scorsi la faccenda siriana. O a sabotare e render scandaloso quello in corso. E’ sempre una lurida questione di soldi, dati al complesso “facciamo guerre ed alimentiamo conflitti che chiamino le nostre forze sul campo” o presi dei Presidenti per politiche economiche interne che rendano la gente meno insoddisfatta che poi son coloro che li votano.
E’ agosto e tra qualche mese nessuno parlerà più di Afghanistan, comunque c’è quasi un 80% di favorevoli in USA al ritiro, gli americani non votano sulla politica estera, manca un anno e mezzo alle elezioni di rinnovo Congresso (coi DEM messi male nei sondaggi), mancano tre anni e passa alla rielezione presidenziale, la situazione Covid in USA è sotto alta tensione (con molti ospedali sempre pericolosamente sull’orlo del collasso) e la “ripresa” autunno-inverno è -nelle previsioni anche di IMF-WB- frenata da questi impiccio virale che nessuno sembra aver ancora capito davvero come gestire e dove prospera l’altro complesso farmaceutico-industriale-sanità privata.
Ci sono due tipi di film da proiettare sullo schermo afgano. Quello “ah ma l’oppio?” o le “Terre rare” o l’immaginifico “corridoio BRI Cina-Kabul” o “Davide alla fine batte Golia perché ha la “fede”” ed altre sceneggiature da b-movie scritte dai tanti opinionisti improvvisati e geopolitici di giornata. Poi c’è il tipo “niente di nuovo sotto il sole” -meno divertente mi rendo conto- ovvero “meglio un buco nero gratis che inghiotte nel caos tutto quanto passa nei paraggi che “l’Impero colpisce ancora” che costa un sacco di soldi e tanto non vince mai perché le guerre non sono più quelle di una volta”. In fondo, era la stessa verità intuita dal rozzo palazzinaro fallito: il mondo è troppo complesso per esser gestito, lasciamolo sviluppare nel suo caos naturale, quando saranno stanchi di casino e disordine ci imploreranno di tornare a fare i poliziotti del mondo.
E’ un calcolo ben fatto? Io non lo so. Chissà, è questa una vera e propria sfida alle capacità di auto-organizzazione di un vero mondo multipolare. Aspetterei gli eventi, la verità -come diceva Deng Xiaoping- va cercata nei fatti. Ora è il momento delle interpretazioni, ma i fatti poi accadono e vincono, sempre.

Afghanistan, un groviglio che si dipana?_con Gianandrea Gaiani

Da circa quarant’anni l’Afghanistan contemporaneo sta confermando la fama di un groviglio talmente complesso da impedire a qualsiasi potenza, per quanto poderosa, di uscire indenne dalle proprie scorribande. Gli Stati Uniti non fanno eccezione; hanno addirittura raggiunto una tale grossolanità nella loro azione da trasformare in farsa una evidente sconfitta politica. Hanno comunque ancora parecchie carte da giocare o da rispolverare.  Ha evidenziato in contrasto la sagacia e la maturità politica del movimento talebano il quale sembra aver imparato parecchio da questi venti anni di occupazione. Dalla sua la possibilità di giocare con numerosi interlocutori geopolitici, praticamente ininfluenti appena vent’anni fa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vlnt8z-il-groviglio-afgano-visto-da-gianandrea-gaiani.html

 

 

“L’Occidente e la storia universale: per una critica dell’universalismo astratto”, VINCENZO COSTA

Ottima riflessione di Vincenzo Costa.
Mi permetto, comunque, di fare due brevi osservazioni.
1) Forse oggi sarebbe meglio parlare di “occidentalizzazione” piuttosto che di europeizzazione, anche sotto l’aspetto geopolitico.
2) Il mito (quello “genuino” intendo, non quello “tecnicizzato” criticato pure da Thomas Mann e da Károly Kerényi) era anche “altro”, ossia originaria apertura al mondo, e in questo senso “esperienza” ancora significativa per “noi” – che pure siamo consapevoli della “differenza tra il nostro mondo e la verità” – e che quindi non necessariamente si deve considerare “incompatibile” con il logos._FF
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L’Occidente e la storia universale: per una critica dell’universalismo astratto”, VINCENZO COSTA
“Il liberalismo non è un possibile terreno d’incontro per tutte le culture, è l’espressione politica di un certo insieme di culture e appare del tutto incompatibile con altri insieme”. Così scriveva Charles Taylor, offrendo una lezione già dimenticata, e sulla quale vale la pena riflettere per capire che cosa sta accadendo.
1. Valori e potere: l’ipocrisia e la complicità
La conquista e lo sterminio degli indigeni americani dopo la scoperta dell’America fu giustificata dagli spagnoli sulla base dei valori, dei valori veri, come un atto di umanità, per eliminare quelle culture disumane, quei costumi aberranti. Un compito di civilizzazione.
Lo sterminio dei pellerossa in America del Nord fu giustificato con gli stessi motivi: selvaggi, tagliagole, incapaci di rispetto per le donne e per i bambini.
L’imperialismo e il colonialismo furono giustificati sempre sulla base dei valori, di una presunta missione civilizzatrice, per portare aiuto e conforto ai deboli e agli oppressi.
Poi, venne una critica demistrificatrice del colonialismo, che mostrò come dietro ai valori si nascondessero interessi feroci, ci fosse una lotta tra potenze imperialiste, una lotta geopolitica. Di questa consapevolezza non rimane oggi traccia nella cultura progressista: tutto cancellato con un colpo di spugna. Il colpo di spugna è sempre il solito: i valori universali, che ovviamente sono così poco universali che variano: i valori universali e assoluti che giustificavano lo sterminio degli indios non sono quelli che giustificarono il colonialismo e quelli che giustificano la propaganda di guerra oggi verso l’Afghanistan e, in realtà, verso la Cina e verso altri 5 miliardi di persone che non sono del tutto disposti a considerare universali i valori dell’Occidente.
Del resto, i valori vengono tirati fuori sempre e solo quando conviene: contro l’Afganistan, contro la Cina, contro la Russia. In Arabia saudita, invece, vi è un nuovo Rinascimento. I valori mostrano il dente d’oro, sono al traino dei dollari. Diventano non negoziabili a seconda del mercato e degli interessi. I valori sono un business per essere arruolati nella grande compagnia liberal-progressista, che promette ricompense a tutti i suoi propagatori.
2. Contro i talebani o contro il popolo afghano?
In questa nuova campagna da propaganda di guerra, che prelude a una campagna globale che finirà per coinvolgere Cina e Russia e ci porterà a romperci i denti, si sta enfatizzando una cosa: bisogna stare dalla parte del popolo afghano. E questo mi piace, mi piace molto, fa parte della mia cultura, che non è universale e non pretendo lo sia ma è la mia cultura: stare dalla parte dei popoli.
Ma che cosa voglia il popolo afghano è proprio ciò che non è chiaro, e molti analisti, quelli seri (non la Botteri o Saviano) indicano che i talebani godono del sostegno di una parte enorme del popolo afghano. Io non lo so, non so come effettivamente stiano le cose, ma almeno qualche domanda sarebbe necessario porsela:
a) La maggioranza del popolo afgano si sente oppressa da talebani o dagli occidentali?
b) Avverte come forza di occupazione i talebani o gli occidentali?
c) Considera la democrazia occidentale una forza di organizzazione del consenso o hanno altri modi di organizzare il consenso?
d) Avverte i valori occidentali come emancipazione o come oppressivi ed estranei?
e) Le donne afgane, o la maggiorana di esse, quelle che vivono fuori dalle grandi città, desiderano i diritti occidentali? Qualcuno ha chiesto loro che cosa desiderano, che cosa ritengono essere una vita dignitosa e desiderabile per loro?
f) Non è che, dando voce ad alcune donne, la si sta togliendo a tante, troppe altre donne? Certo, vi sono molte donne, moltissime, che avvertono quella dei talebani come oppressione e mutilazione dei loro diritti. Ma allora il conflitto non diviene tra queste donne e le altre donne? E perché queste ultime non hanno voce nei nostri giornali?
g) A queste donne, se vi fossero, si tratta di imporre i valori occidentali? Di “rieducarle”? La Botteri è il modello universale di donna?
Ma soprattutto: un regime potrebbe reggersi se avesse l’ostilità della stragrande maggioranza della popolazione?
3. L’Occidente è la Ragione che si dispiega nel mondo?
Vi fu un tempo in cui l’Occidente interpretò se stesso come una punta avanzata, un capo, un modello per l’umanità tutta. Interpretò se stesso come l’incarnazione della Ragione universale. Pretesa esorbitante: questa aveva scelto un luogo particolare in cui manifestarsi: l’Occidente. La Ragione Assoluta, con un rombo assordante, avrebbe scelto un particolare angolo della terra per prendere dimora. Di qui la sua legittima funzione guida, la sua responsabilità per “redimere” gli altri popoli dai loro errori, dalle loro superstizioni. I popoli non occidentali diventano di volta in volta omuncoli, selvaggi, degenerati, in ogni caso posti a un livello intermedio tra l’animale e l’uomo, che ovviamente era l’uomo razionale dell’Occidente.
Questo modello (massicciamente presente in Hegel, nel positivismo, nella teoria dei valori, nel neokantismo) fu nel corso del Novecento demolito dal punto di vista teorico. Levì-Strauss, tra molti altri, mostrò che non vi è LA storia, ma le storie, non vi è una direzione unitaria, un telos a cui tutte le culture devono mettere capo, ma un insieme di storie, ognuna con un proprio dinamismo, con un proprio schema evolutivo. Le altre culture non sono culture attardate, non sono “il medioevo” (come si è tornato a dire, con un poco di ignoranza massiccia), non sono un arresto dello sviluppo: sono un diverso processo di sviluppo, con un dinamismo proprio, che si tratta di comprendere se si vuole dialogare con essi.
E per farlo bisogna abbandonare l’idea che tutte le altre culture debbano solo assumere i nostri valori, abbandonare i loro e divenire europei.
Quello che adesso sta accadendo è il riproporsi, ingenuo e senza consistenza teorica, del vecchio modello teleologico: noi abbiamo i valori veri, universali, e generosamente li offriamo agli altri (e qualcuno sostiene ancora anche con i bombardamenti), i quali devono accoglierli con gratitudine. Questi valori sono i valori liberali, tutti devono diventare liberali, e chi non ama i valori liberali è arretrato, lontano dallo scopo ultimo.
E’ il ritorno di un armamentario teorico che molti di noi credevano oramai archiviato, e già altri pensieri si affacciavano, la necessità di guardare, per dirla con Patocka, la post-Europa. Invece no, bisogna fare i conti con quella gigantesca regressione culturale che è la cultura liberal-progressista, con la riproposizione della sua mitologia, della sua incomprensione per la storia. La nuova mitologia è quella dei valori universali: ogni cultura ha i suoi miti, i suoi altari, e la nostra epoca ha questa mitologia, i suoi altari e i suoi sacerdoti.
Ma è una mitologia che non ci mette in condizione di comprendere ciò che sta avvenendo. Una mera coltre ideologica che oscura il dinamismo del reale e produce azioni folli, inutili, destinate a produrre solo inutile sangue e morti.
4. Vi è un nucleo filosofico, che oggi torna potentemente alla ribalta: i valori occidentali sono i valori universali. È legittima questa pretesa? Da dove può trarre la propria legittimità?
Di fatto, i valori universali dell’Occidente sono non solo relativamente ma estremamente recenti. Sino a qualche anno fa non erano valori neanche in Occidente. Valori universali sono dunque quelli che ORA, proprio in questi anni, per noi da noi, si sono affermati come valori. Che, vorrei precisarlo, sono anche i miei valori, valori che difendo, in cui mi riconosco. Ma dovrei essere abbandonato da tutti gli dei per pensare che sono universali. Non lo sono per un fatto semplice: che non lo sono per circa 5 miliardi di persone.
5. Dobbiamo puntare su una europeizzazione del mondo?
L’unica via per salvare l’Universalità dei valori occidentali, dato che sono così recenti, è presuppore una teleologia della storia. E di fatto è questa impostazione che, in maniera oscuramente operante, sta alla base del modo di interpretare i fatti contemporanei e anche delle azioni che si sono concluse in manera così disastrosa: questi valori sono così belli che non possono che essere accolti con calore dagli altri popoli, possono essere esportati, basta distruggere i tagliagole e gli oscurantisti.
Un’idea che stava già alla base del tentativo di occidentalizzazione in Iran, che sappiamo come si concluse, e ora in Afganistan, e vedremo presto in Libia, Iraq etc.
Una pretesa enorme: L’OCCIDENTE PENSA LA STORIA UNIVERSALE COME UNA SORTA DI EUROPEIZZAZIONE DI TUTTA L’UMANITÀ. Gli altri popoli tendono ad europeizzarsi, mentre noi, se siamo consci di noi stessi, non desideriamo divenire indiani. Storia universale significa che gli altri popoli assumono la cultura e i valori occidentali, entrano nella storia universale. Un punto caratterizzava questa idea: l’Occidente è il depositario dei valori universali. L’Occidente, questa cultura particolare, è l’universalità.
Questo modello non può che produrre una serie generalizzata di conflitti, armati, violenti: non è un pensiero all’altezza della realtà storica.
Questo pensiero è il pensiero talebano dell’occidente. Esso ci porterà a entrare in conflitto con la Cina (sempre per i diritti universali) con la Russia, con L’india.
6. La storia universale inizia oggi
Quello che sta accadendo, con il declino economico e militare dell’Occidente, è una progressiva marginalizzazione dell’Occidente, che cessa di essere la punta avanzata per divenire una cultura tra le altre. Ciò che finisce è l’idea che la storia universale consista nell’europeizzazione dell’intera umanità, che il progresso sia lo sterminio delle differenze e delle culture non occidentali: queste resistono. A volte lo fanno in maniera pacifica, con sacrificio, come in nuova Zelanda, Australia, a volte cercando la propria strada, come in Cina, a volte reagendo in maniera violenta come nel mondo islamico. Ma il messaggio è chiaro:
I popoli entrano nella storia universale con la loro identità, senza accettare la cancellazione della loro differenza.
La storia universale che sta iniziando solo ora è un gioco di contaminazione, di rapporti tra differenze, non la riconduzione delle differenze all’unità e al modello occidentale.
Per iniziare a pensare tutto ciò bisogna sbarazzarsi di quel crampo intellettuale che è l’idea di universalità dei valori, quell follia che ci porta a considerare i nostri valori come se fossero i valori universali che tutti devono assumere. Ogni cultura e ogni epoca storica considera i propri particolari valori come se fossero quelli universali, perché entro un certo orizzonte storico certi valori appaiono ovvi, evidenti.
Ma l’evidenza acceca, nasconde i processi del divenire evidente: qualcosa diviene evidente rimuovendo i processi che lo fanno divenire evidenti. I talebani sono vittime di questo accecamento, come lo sono da noi i liberali.
L’idea dei valori universali è una ricaduta nel mito, perché il mito è l’incapacità di prendere distanza dal proprio punto di vista, di cogliere la differenza tra la nostra rappresentazione del mondo e la verità.
L’Occidente da riscoprire è – per dirla con Husserl – l’Occidente come coscienza della differenza tra il proprio mondo e la verità, la coscienza che la verità si sottrae, e che proprio perché si sottrae c’è storia. Dove questa coscienza della differenza si perde c’è solo la ricaduta nel mito: l’idea di Europa si perde. VINCENZO COSTA

Illusioni pericolose, di Dimitri K. Simes

Confrontiamo i termini del dibattito in corso negli Stati Uniti e in Italia. Chi sono i protagonisti, chi le comparse?_Giuseppe Germinario

Illusioni pericolose

I responsabili politici negli Stati Uniti e in Europa hanno adottato la posizione che la loro missione è promuovere la democrazia in tutto il mondo, sostenendo regolarmente che se falliscono, i governi autoritari sfrutteranno la moderazione americana e uniranno le forze.

DOPO più di sei mesi in carica, l’amministrazione Biden sembra incline ad adottare la visione utopica della promozione della democrazia come principio guida della strategia globale degli Stati Uniti. Questa dottrina, o, se preferite, persuasione, sostiene che l’America dovrebbe, per quanto possibile, piegare il mondo secondo le preferenze degli Stati Uniti e dei suoi alleati in gran parte europei. Fortunatamente, il presidente Joe Biden è un uomo di esperienza e di istinto pragmatico. Qualunque siano i suoi impulsi, finora è stato attento a non bruciare i ponti dell’America e, al contrario, ha preso provvedimenti per migliorare i legami con i principali alleati europei, per riavviare il dialogo con la Russia e per ridurre un po’ l’intensità del confronto con la Cina. Tale flessibilità tattica, tuttavia, non cambia la direzione fondamentale della politica estera statunitense, che a volte è quasi orwelliano nella sua tendenza a emulare concetti dell’ex Unione Sovietica. Era una convinzione fondamentale di Vladimir Lenin e Leon Trotsky che l’URSS, per la propria sicurezza, non potesse tollerare l’esistenza del cosiddetto “ambiente capitalista”. Presumono che i capitalisti non avrebbero mai accettato la coesistenza con il nuovo stato comunista e quindi hanno rifiutato lo status quo come un’opzione irrealistica. Oggi, accanto all’Unione europea, gli Stati Uniti hanno adottato la posizione che la loro missione è promuovere la democrazia in tutto il mondo. I leader di Washington sostengono regolarmente che se non riescono a svolgere questa missione, i governi autoritari sfrutteranno la moderazione americana e uniranno le forze, non solo per minare il potere americano, ma per distruggere la stessa democrazia, privando gli Stati Uniti delle loro amate libertà.

Queste mappe ti lasceranno a bocca aperta

È notevole che questo concetto sia diventato un principio chiave della politica estera americana senza alcun serio dibattito al Congresso, nei media o all’interno della comunità di politica estera. Al centro di questo approccio c’è il presupposto che la democrazia sia intrinsecamente superiore ad altre forme di governo, sia moralmente che in termini di capacità di fornire prosperità e sicurezza. Si presume che la promozione della democrazia sia una parte di vecchia data della tradizione della politica estera statunitense piuttosto che un radicale allontanamento da essa. L’amministrazione Biden parla come se il mondo in generale, a parte i malvagi tiranni, accogliesse con favore la sua spinta per la democrazia e accettasse l’evidente giustizia dell’America e dell’Unione Europea, piuttosto che opporre una potente resistenza che potrebbe danneggiare gli interessi di sicurezza americani, libertà e lo stile di vita americano.

ANCORA DEMOCRAZIA non ha un record stellare nel corso della storia. Il meglio che si può dire di esso, come ha osservato una volta Winston Churchill, è che nella maggior parte delle circostanze rimane superiore a tutte le altre forme di governo testate. Ma perché ciò sia vero, la democrazia deve essere veramente liberale, basata sulla legge e includere protezioni credibili per i diritti delle minoranze. Tali garanzie spesso non vengono prese. Fin dalla sua concezione, la democrazia è stata segnata dal peccato originale della schiavitù. L’antica Atene, la prima democrazia conosciuta, non solo tollerava la schiavitù, ma era di fatto fondata su di essa. Cittadini e schiavi formavano i due lati del sistema politico ateniese. Come scrive lo storico Paulin Ismard, “la schiavitù era il prezzo da pagare per la democrazia diretta”. Gli schiavi consentivano ai cittadini di allontanarsi dal lavoro e di partecipare direttamente al governo,

Negli Stati Uniti, i Padri Fondatori tollerarono similmente la schiavitù, rendendo la sua incorporazione implicita nella Costituzione degli Stati Uniti. Il concetto costituzionale delle relazioni tra gli Stati presupponeva l’esistenza della schiavitù, e fu necessaria una guerra civile per portare all’emancipazione degli schiavi da parte di Abraham Lincoln nel 1863. L’Impero russo in modo notevole – e senza spargimenti di sangue – abolì del tutto la servitù nel 1861, a differenza del Stati Uniti, dove la schiavitù era, per convenienza politica, consentita in alcuni stati dell’Unione fino alla fine della guerra civile. Anche in seguito, la democrazia americana ha continuato a privare le donne e gli afroamericani del diritto di voto per molti altri decenni. Non è ovvio che una democrazia che limita i diritti politici a una minoranza di uomini bianchi sia intrinsecamente così superiore a uno stato autoritario “benevolo” che possiede uno stato di diritto elementare e abbraccia il concetto di uguale protezione per i suoi sudditi. Esempi contemporanei includono la Russia sotto Alessandro II, le cui riforme legali introdussero per la prima volta in Russia il concetto di uguaglianza davanti alla legge, o la Germania sotto Otto von Bismarck, che istituì il primo stato sociale moderno offrendo assicurazione sanitaria e sicurezza sociale ai lavoratori classe. Più vicino al nostro tempo, l’autoritarismo illuminato di Lee Kuan Yew di Singapore ha sollevato milioni di persone dalla povertà e ha mantenuto l’armonia in un paese multietnico. Esempi contemporanei includono la Russia sotto Alessandro II, le cui riforme legali introdussero per la prima volta in Russia il concetto di uguaglianza davanti alla legge, o la Germania sotto Otto von Bismarck, che istituì il primo stato sociale moderno offrendo assicurazione sanitaria e sicurezza sociale ai lavoratori classe. Più vicino al nostro tempo, l’autoritarismo illuminato di Lee Kuan Yew di Singapore ha sollevato milioni di persone dalla povertà e ha mantenuto l’armonia in un paese multietnico. Esempi contemporanei includono la Russia sotto Alessandro II, le cui riforme legali introdussero per la prima volta in Russia il concetto di uguaglianza davanti alla legge, o la Germania sotto Otto von Bismarck, che istituì il primo stato sociale moderno offrendo assicurazione sanitaria e sicurezza sociale ai lavoratori classe. Più vicino al nostro tempo, l’autoritarismo illuminato di Lee Kuan Yew di Singapore ha sollevato milioni di persone dalla povertà e ha mantenuto l’armonia in un paese multietnico.

FINO ALLA fine della Guerra Fredda, la promozione della democrazia non era un elemento costitutivo della tradizione di politica estera degli Stati Uniti: il termine “democrazia” non compare nemmeno nella Costituzione degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non hanno fatto la guerra per diffondere la democrazia, nemmeno nella propria sfera di influenza nelle Americhe. L’alleanza della NATO, al suo inizio nel 1949, era diretta direttamente contro la minaccia geopolitica sovietica e abbracciò volentieri membri autoritari come il Portogallo sotto António de Oliveira Salazar, che molti consideravano fascisti. Altri alleati americani del primo periodo della Guerra Fredda includevano la Corea del Sud e Taiwan, nessuna delle due era una democrazia a quel tempo. Perché gli Stati Uniti hanno assicurato la protezione di queste non democrazie? Era per proteggerli dall’acquisizione da parte degli avversari degli Stati Uniti. Nel processo, questa politica ha permesso agli alleati americani di avere la libertà di scelta, democratica o meno. Dopo la seconda guerra mondiale, l’America si è posizionata come il vero leader del mondo libero, consentendo alle nazioni con interessi, sistemi di governo e tradizioni diversi di determinare il proprio destino.

Il credo della promozione della democrazia è, al contrario, molto diverso. Va ben oltre la protezione dello status quo internazionale e sostiene una politica apertamente revisionista, progettata non semplicemente per contenere altre grandi nazioni non democratiche, ma per cambiare i loro sistemi di governo. Quando si tratta di grandi potenze, profonde trasformazioni di questa natura di solito derivano da cambiamenti interni o da una vera e propria sconfitta militare; le pressioni economiche e diplomatiche da sole in genere non ottengono molto, a meno che, naturalmente, come nel caso del Giappone prima di Pearl Harbor, non inneschino una guerra con chiari vincitori e vinti. L’amministrazione Biden non parla di cambio di regime, ma le sue parole e azioni contribuiscono a far sospettare sia a Pechino che a Mosca che il cambio di regime sarebbe proprio il risultato del cedimento alle pressioni americane.

Ancora più importante, la promozione della democrazia non è necessaria (almeno per motivi geopolitici) perché ci sono poche prove che Cina e Russia, se lasciate a se stesse, sarebbero desiderose di formare un’alleanza autoritaria globale. Nessuna delle due potenze mostra molta inclinazione a vedere la geopolitica o la geoeconomia principalmente attraverso il prisma di una presunta grande divisione tra democrazia e autocrazia. La Cina sembra perfettamente disposta a stabilire stretti legami economici con l’Unione Europea e, del resto, anche con gli Stati Uniti. Gli obiettivi cinesi sembrano piuttosto tradizionali: acquisire influenza, sviluppare amici e clienti, senza essere particolarmente preoccupati in un modo o nell’altro del loro standard di libertà. A differenza dell’Unione Sovietica negli anni ’20 e ’30, la Cina non sta difendendo una rete internazionale di movimenti comunisti. Quando si tratta di prevaricare i vicini, in particolare nel Mar Cinese Meridionale e oltre, Pechino fa poca distinzione tra paesi relativamente democratici come le Filippine e quelli autocratici come il Vietnam. Nonostante la sfida comune che devono affrontare dagli Stati Uniti, Pechino e Mosca rimangono riluttanti a concludere un’alleanza politica o militare formale. La loro effettiva cooperazione militare va poco al di là di manovre militari in gran parte simboliche e scambi limitati di informazioni militari. Entrambi i paesi sottolineano di essere allineati contro gli Stati Uniti e, in una certa misura, l’Unione europea, ma non hanno formato alcuna alleanza significativa. La Cina, ad esempio, non ha riconosciuto l’annessione russa della Crimea ed è persino diventata il partner commerciale numero uno dell’avversario russo, l’Ucraina. Anche la Russia è raramente riluttante a vendere hardware militare avanzato al rivale della Cina, l’India. Resta quindi un interesse fondamentale americano non creare una profezia che si autoavvera che avvicini Cina e Russia.

ANCHE NEL relativamente stabile sistema politico statunitense, dove le tutele istituzionali hanno solitamente funzionato nelle circostanze più difficili, dal Watergate alla transizione Trump-Biden, è ampiamente riconosciuto che l’ingerenza straniera è inaccettabile. Perché allora i funzionari e i politici statunitensi si aspettano che Cina e Russia, senza una simile legittimità democratica e senza garanzie legali per proteggere le loro élite in caso di sconfitta, siano pronti ad accettare l’interferenza straniera nei loro fondamentali accordi interni? Cina e Russia non sono alleati naturali, ma questo fatto non significa che la creazione di un’assertiva “alleanza delle democrazie” non spingerebbe insieme un riluttante Xi e Putin. La percezione di un’imminente minaccia comune potrebbe costringere entrambi i leader a concludere che, qualunque siano le loro differenze di tattica, cultura politica, e gli interessi a lungo termine, almeno nel breve periodo, devono collaborare per contrastare il pericolo dell’egemonia democratica. Se Xi Jinping e Vladimir Putin raggiungeranno questa conclusione, sarà sempre più difficile per loro parlare agli Stati Uniti con voci diverse, anche su questioni in cui sarebbe perfettamente logico in termini di interessi sostanziali farlo.

In modo abbastanza appropriato, oggi gli Stati Uniti vedono Cina e Russia come avversari, ma c’è poco appetito per esaminare le radici dei disaccordi americani con loro. Mettendo da parte il disgusto degli Stati Uniti per le pratiche autoritarie cinesi e russe, nel campo della politica estera, la democrazia non è certo la questione chiave. Infatti, dal crollo sovietico, Mosca non ha mai usato la forza militare contro nessuna nazione per sopprimere la democrazia. Nel 2008, la Russia ha invaso la Georgia, ma solo dopo che le forze georgiane avevano attaccato l’Ossezia del Sud, che era protetta dalle forze di pace russe. Nel 2014, la Russia ha usato la forza per annettere la Crimea e per sostenere i separatisti nel Donbass, ma solo dopo una ribellione filo-occidentale a Kiev che ha rimosso dal potere il presidente corrotto, ma legittimamente eletto, Viktor Yanukovich. In ogni caso, con il presidente Mikheil Saakashvili in Georgia e il nuovo governo ucraino, la Russia si è trovata di fronte a forze ostili desiderose di aderire alla NATO, intente a sfruttare la loro appartenenza come scudo protettivo contro Mosca. La lotta ebbe origine da dispute territoriali e rimostranze sull’eredità sovietica. La stessa democrazia ha svolto, nel migliore dei casi, un ruolo marginale, tranne che per un aspetto molto importante. Come avvertì George F. Kennan nel 1997, l’espansione della NATO nelle ex repubbliche sovietiche minacciava di “infiammare le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste dell’opinione pubblica russa” e di “avere un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa”. La Russia stessa deve assumersi la responsabilità primaria della sua deriva dalla democrazia e del suo movimento in una direzione autocratica. Ma il modo in cui la NATO e l’Unione Europea hanno gestito la Russia negli anni ’90 ha contribuito fortemente alla sua successiva disillusione nei confronti della democrazia. Non è stato difficile discernere che l’approfondimento del confronto con la Russia non l’avrebbe resa più tollerante o pluralista ma, al contrario, avrebbe screditato gli elementi filo-occidentali e fornito più autorità alle forze di sicurezza. La politica occidentale di ampie sanzioni ha fornito a Putin una giustificazione patriottica per consolidare il controllo politico e portare molte persone istruite e di successo – persone che altrimenti sarebbero state desiderose di una maggiore libertà politica ed economica – nel suo campo. screditare gli elementi filo-occidentali e fornire più autorità alle forze di sicurezza. La politica occidentale di ampie sanzioni ha fornito a Putin una giustificazione patriottica per consolidare il controllo politico e portare molte persone istruite e di successo – persone che altrimenti sarebbero state desiderose di una maggiore libertà politica ed economica – nel suo campo. screditare gli elementi filo-occidentali e fornire più autorità alle forze di sicurezza. La politica occidentale di ampie sanzioni ha fornito a Putin una giustificazione patriottica per consolidare il controllo politico e portare molte persone istruite e di successo – persone che altrimenti sarebbero state desiderose di una maggiore libertà politica ed economica – nel suo campo.

Nel caso della Cina, è altrettanto difficile dimostrare un caso in cui Pechino ha attaccato un vicino per rovesciare la democrazia. Hong Kong, che la Gran Bretagna ha restituito al dominio cinese nel 1997, è la notevole eccezione. Anche qui il giro di vite maggiore è arrivato solo dopo lunghi disordini. Certamente, la Cina è stata piuttosto pesante con molti dei suoi vicini, ma tali azioni non hanno mai riguardato la democrazia. Sono nati da controversie sul territorio, risorse minerarie ed energetiche e il più ampio desiderio di arginare il dominio americano nella regione. Come nel caso della Russia, nel periodo post-Mao gli interventi militari sono stati rari, solo una volta nel 1979, quando il Vietnam comunista invase la Cambogia comunista.

Questa storia mina l’idea che una sfida autoritaria globale ora provenga da Cina e Russia. Sono piuttosto gli Stati Uniti e l’Unione Europea che mirano a rendere il mondo “sicuro per la democrazia”, nella misura in cui anche grandi potenze come Cina e Russia dovrebbero abbandonare i loro sistemi politici prescelti.

LA RESTRIZIONE SENSIBILE non equivale alla pacificazione o alla resa; al contrario, deve diventare un elemento centrale della strategia globale degli Stati Uniti se l’America spera di continuare a svolgere un ruolo di primo piano nel mondo negli anni a venire. Un ruolo di primo piano non richiede egemonia o un atteggiamento del “nostro modo o dell’autostrada”, che offende la dignità di innumerevoli altre nazioni, anche perfettamente democratiche. Invece, richiede che gli Stati Uniti mantengano la loro superiorità militare, rafforzino le loro alleanze ed evitino inutili dispute con gli alleati, il tutto pur essendo sempre consapevoli del fatto che le alleanze sono strumenti della politica estera statunitense piuttosto che fini a se stesse. Il rafforzamento delle alleanze, in altre parole, non deve diventare un obiettivo fondamentale di politica estera che va a scapito dei maggiori interessi strategici statunitensi, come la preclusione di un condominio sino-russo. Nessun aiuto dall’Ucraina o dalla Georgia può compensare il fatto che l’America si trovi di fronte a una nuova e più pericolosa alleanza che domina l’Eurasia. Sia la Cina che la Russia dovrebbero inoltre essere fortemente ricordate agli impegni dell’America nei confronti dei suoi alleati, in particolare nei confronti dei membri della NATO protetti dall’articolo 5 e di Taiwan. Sulla questione del commercio, è perfettamente legittimo difendere con assertività gli interessi americani e respingere quando necessario. I cinesi, per inciso, capiscono che questo tipo di respingimento è una parte normale della conduzione degli affari globali. A differenza dell’area della promozione della democrazia, qui sono disposti a fare accordi. Pechino e Mosca preferirebbero sicuramente qualcosa di meglio di una fredda pace con Washington, ma dato il sistema democratico americano, è giusto ricordare loro chiaramente che la brutalità in casa non è compatibile con l’amicizia con gli Stati Uniti. Nella maggior parte dei casi, questa leva positiva può essere più efficace delle sanzioni.

Allo stesso tempo, la ricerca americana per l’egemonia democratica tende a dimenticare che molti governi in tutto il mondo hanno le proprie lamentele con Washington e non necessariamente si schiereranno dalla parte degli Stati Uniti in uno scontro con la Cina o la Russia. Facendo il punto sul fallimento della promozione della democrazia in Medio Oriente, Brent Scowcroft una volta ha giustamente osservato: “l’idea che all’interno di ogni essere umano batte questo istinto primordiale per la democrazia non mi è mai stata dimostrata”. Contrariamente al trionfalismo democratico americano, non esiste una legge ferrea nella storia che imponga che le democrazie prevarranno sempre sui loro avversari autocratici. L’Atene di Pericle lo ha imparato a proprie spese quando ha intrapreso la guerra contro Sparta e i suoi alleati e, nel processo, ha perso il suo dominio regionale e il suo governo democratico. La ricerca di un trionfo inutile, anche se attraente, a scapito degli interessi fondamentali di una nazione è controproducente.

https://nationalinterest.org/feature/dangerous-illusions-192078?page=0%2C1

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (3 di 4), di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (3 di 4)
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Dunque…..nei precedenti due capitoli abbiamo affrontato una serie di vicende e punti di svolta nella storia dell’Asia centrale che in comune hanno il contesto di fondo ossia quello del XVIII° secolo nell’area : un lasso di tempo lungo il quale ancora non si avverte una presenza estranea rispetto ai “giocatori autoctoni” (il colonialismo europeo non si è ancora fatto sentire, in sostanza).
Il 700 ci restituisce uno spaccato dal quale risalta lo stato tormentato dell’impero persiano in età moderna, il suo sostanziale declino rischiarato da un fulmineo ed effimero apogeo per poi tornare gradualmente al limbo precedente : da questo magma prende vita propria una nuova entità più ad oriente risultato dell’affermazione politica del ceppo etnico pashtun, ora elevato a nazione. Questo periferico “spin off” dello stato imperiale persiano (come si direbbe nel linguaggio delle serie televisive) sa affermarsi e sfrutta efficacemente la propria posizione a cavallo tra due mondi……quello IRANICO e quello INDIANO, al punto di dare vita ad un impero proprio (in gran parte a danno dell’areale indiano). Questa è l’essenza di un secolo di evoluzione geopolitica (…).
Il XIX° secolo che ora affrontiamo, ci conduce invece verso una differente dimensione il cui piano di comprensione si fa più complesso : qui si situano le chiavi d’accesso alle dinamiche dell’Afganistan contemporaneo. Sostanzialmente potremmo dire che compare LO STRANIERO (o occidentale per dire) nel campo da gioco : in realtà l’espressione stessa difetta di un’ambiguità semantica dal momento che più che “comparire” sul campo da gioco altrui, egli PLASMA il campo da gioco altrui (!)……contribuisce a crearlo a fissarne le regole, ne è il dominatore assoluto anche quando non si espone in prima persona. Per esprimersi un tantino cervelloticamente, l’uomo occidentale nelle sue diverse incarnazioni (inglese, russo) si proietta nel determinato contesto (in questo caso irano/afgano/indiano) affiancando i giocatori tradizionali – che già interagiscono da tempo immemore – subentrando loro in modi sottili (cioè MAI del tutto e mai in primissima persona ossia rimanendo dietro le quinte), interfacciandosi, assumendone il parziale controllo………onde dar vita alle prime “proxies war” o conflitti per interposta persona che sono la regola fino ad oggi (…). Ù
Gli eroici confronti di cavalleria cha caratterizzano tutta un’epica militare afgana o persiana – per la cattura poi di un distretto di confine – diventano improvvisamente ben poca cosa rispetto alle dimensioni della posta in gioco supera la limitata immaginazione di questi guerrieri d’altri tempi : se i diretti interessati (afgani e indiani nello specifico) sono convinti in buona fede di battersi per una supremazia locale……..senza poter realizzare dalla propria prospettiva degli eventi, il fatto che la supremazia locale/regionale di uno o dell’altro può innescare un effetto domino capace di intaccare un equilibrio planetario. Coloro che detengono il primato di quest’ultimo (russi e inglesi nello specifico) sono coloro che dirigono l’azione da dietro le quinte, trasformando così la natura del quadro in uno schema a due livelli : LOCALE (1) e GLOBALE (2). Come oggi.
Va bene……..cerchiamo di andare più al concreto. Avevamo lasciato l’impero DURRANI a cavallo tra il XVII° e il XIX° secolo : dopo la morte del suo fondatore, l’esistenza di questo primo progenitore dello stato afgano si trascina ancora per mezzo secolo, arenandosi in un confronto di lungo termine contro la nazione SIKH (un “impero” indiano nel nord dell’India attuale, verso il Kashmere, all’epoca di inizio del conflitto ancora relativamente scevro di influenze europee). L’esito inconcludente e talvolta fallimentare – sostanzialmente le forze afgane, complice la natura difficile del contesto geografico, NON riusciranno mai a oltrepassare i SIKH, i quali de facto diventano lo “scudo” dell’Hindustan oltre il quale ogni espansione Durrani è impedita. Nei decenni iniziali dell’800 le sorti volgono anche negativamente per la parte afgana, che oltre a non fare un passo finisce anche per perdere pezzi preziosi : il principale è la perdita di Peshawar nel 1819, cui presto seguirà anche il Kashmere stesso a favore dei Sikh.
A questo andamento fallimentare della strategia contro il mondo indiano si aggiunge un conflitto dinastico che deflagra poco dopo, lasciando per un breve lasso di tempo il paese senza nemmeno una guida : in questo momento di confusione che vede sprofondare l’ormai esautorata dinastia fondatrice Durrani, si fa strada la dinastia BARAKZAI (بارک‌زایی‎ )……..che caratterizzerà il nuovo secolo in corso e anche quello successivo, contando alla fine 150 anni di regno complessivi (siamo nel 1823 al momento dell’ascesa e durerà sino al colpo di stato militare del 1973). Da ricordare quindi almeno il nome di questa nuova dinastia. Da questo momento cambia anche il nome dello stato : considerata defunta la vecchia forma imperiale Durrani, viene scelto l’appellativo ufficiale di EMIRATO DELL’AFGANISTAN (امارت افغانستان‎ Amārat-i Afghānistān ).
Il suo nuovo sovrano – Dost Mohammad Khan Barakzai – ha davanti a sé da subito, grandi sfide da sostenere : gestire i rapporti col rivale storico sikh, ma soprattutto gestire i rapporti diplomatici con i due nuovi attori d’eccezione che irrompono sulla scena……impero RUSSO e impero BRITANNICO. Il calcio di inizio arriva da parte russa : si sfrutta il desiderio mai sopito dell’impero persiano (ora sotto la dinastia QAJAR) di riprendere qualche brandello di quanto era loro fino a un centinaio di anni prima (la strategica città di HERAT). Se i piani militari sono in corso sin dal 1816, ci vorranno una ventina di anni prima che la macchina si metta in moto, con il supporto russo : in breve, nel 1837 La Persia Qajar (affiancata dalla Russia zarista) si dirige verso Herat dove inizia un lungo assedio. I britannici dal canto loro interpretano la mossa chiaramente : un tentativo di riconquista persiano ai danni dell’emirato può presagire ad invasione ulteriori su più larga scala finalizzate al crollo di questo stato……ritrovandosi così la Persia padrona del campo fino alla frontiera con l’India britannica (e prefigurandosi così rischi non calcolabili, considerato il supporto russo alla Persia ed potenziali fronti capaci di destabilizzare l’India intera, al tempo la più ricca colonia della corona). Non si perde tempo e si organizza subito una controffensiva strategica (si occupano via mare postazione sul golfo Persico ai danni dello Scià) fino a che l’assedio non viene tolto e i russi non ritirano i propri “inviati speciali” : è il 1838.
Questo successo tuttavia NON basta alla Gran Bretagna : si è trattato di un evento militare del tutto minore ed il successo è in effetti temporaneo. Più che altro è il prodromo di futuri e più gravi tentativi……il nemico (la Russia) ha oramai compreso che l’emirato dell’Afganistan è il ventre molle a nord del continente indiano, la lancia da utilizzare contro i ricchi possedimenti britannici oltre l’HinduKush. Il governatore britannico del tempo si decide quindi a muovere guerra DIRETTAMENTE all’emirato. Il concetto è semplice e brutale : occupare via terra l’Afganistan e portarlo forzatamente nella propria sfera di influenza PRIMA che qualcun altro (la Russia) lo faccia. Non fa una piega.
Da questa decisione prende inizio quello che è il PRIMO CONFLITTO ANGLO-AFGANO (1839-1842). La prima vera campagna militare sul territorio afgano nel corso di quel “grande gioco” che attraversa il XIX° secolo : nella sostanza si rivelerà un inconcludente disastro per la parte britannica. Dopo un iniziale, prevedibile, successo (sono mobilitate le più potenti armate indiane del tempo inquadrate sotto ufficiali inglesi) viene posto sul trono un sostituto del deposto regnante della dinastia Barzakai con un superstite della screditata dinastia Durrani, non sostenuta da nessuno nel paese : un equilibrio quindi del tutto artificiale che non può sostenersi da solo, ma solo con la presenza militare britannica il cui costo è proibitivo………nel giro di un paio di anni inizia una ritirata che si rivela catastrofica (un’intera armata viene perduta complici le condizioni atmosferiche invernali). In altre parole il corpo di invasione britannico è costretto a ritirarsi dopo 3 anni senza essere riuscita ad instaurare una monarchia a sé fedele (il legittimo sovrano Barzakai rientra immediatamente dall’esilio) : anche grazie ad un momento di distensione dei rapporti tra Russia e Gran Bretagna nel corso del loro grande gioco (…), la questione viene temporaneamente messa da parte, con la rinuncia da parte britannica di intromettersi negli affari interni afgani, almeno nell’immediato.
E’ in effetti un primo punto di svolta di tutto il “grande gioco” : al di là dell’esito di questa prima spedizione (“disastro afgano” secondo alcuni autori) i grandi giocatori russi e inglesi si confrontano diplomaticamente a carte scoperte. Il rappresentante russo propone in questo frangente (1840) di fissare pacificamente i limiti delle rispettive sfere di influenza sullo scacchiere mettendo fine al grande gioco…….da parte britannica tuttavia (Lord Palmerston) si respinge l’apertura per ragioni di alta strategia globale : l’apertura della Russia zarista fu interpretata come segnale di debolezza, inoltre uno sconfinato fronte asiatico sempre in movimento, poteva essere utile per distogliere attenzione e risorse da parte russa (impedendogli pertanto di essere più presente sullo scacchiere europeo che interessava maggiormente alla Gran Bretagna : questa la visione strategica di parte inglese in una stringa di parole).
La “visione di gioco”, per quanto sottile, in realtà era meno perfetta di quanto sembrasse : la debolezza russa in particolare era sopravvalutata e l’assenza di chiare linee di demarcazione diede la possibilità all’impero zarista di espandersi forse più di quanto avrebbe potuto fare altrimenti. Nel lasso di tempo che va dal 1840 al 1870 l’avanzata della imperiale russa fu lenta ma costante : nello spazio di una generazione i colonnelli di cavalleria (l’espansione si deve in sostanza a loro che presero terreno poco alla volta senza troppe direttive dall’alto se non poi vedersi riconosciuto il risultato a fatto compiuto) arrivarono ad occupare tutto lo spazio strategico dell’Asia centrale (poi ereditato dall’Unione Sovietica) : Samarkand e Bukhara sono occupate tra il 1865-68 (vengono liberate decine di migliaia di schiavi tra l’altro) permettendo ai confini imperiali di arrivare COMUNQUE a ridosso dell’emirato afgano.
In parole poverissime….le decisioni prese nel 1840 non fanno che rimandare la resa dei conti di una generazione : i giochi si riaprono puntualmente negli anni 70 dell’800 allorchè una delegazione russa è inviata a Kabul per trattare direttamente con l’emiro (1878 : è l’anno della mancata pace di S.Stefano dopo la guerra contro l’impero ottomano. La Russia imperiale trova molti oppositori in Europa, tra cui la GB in prima linea e i diversivi ad oriente potevano anche fungere da avvertimento).
La missione diplomatica russa a Kabul del 1878 (in realtà non invitata) e la conseguente missione britannica (che pretenderà di essere ricevuta allo stesso modo), sono i prodromi della SECONDA GUERRA ANGLO AFGANA (l’ultima).
CONTINUA
[bandiera in basso dell’Emirato , ufficialmente dal 1919-26]

Come la demografia sta sconvolgendo il mondo, di Yves Montenay

Che cos’è la demografia? Cominciamo con un piccolo richiamo etimologico: se la democrazia è il potere del popolo, demografia è scrivere (ortografare) il popolo, cioè descriverlo. Contali prima, a livello globale poi per fascia d’età. E, in linea di principio, vai oltre: studia lingue, razze ecc. ma su questo punto spesso incontriamo ostacoli politici.

Alfred Sauvy, padre della demografia

Riprendiamo l’illustrazione di Alfred Sauvy (1898-1990):  “la demografia è molto semplice: è da notare che un bambino di 9 anni ne avrà 10 l’anno successivo. Ma è così semplice che non ci prestiamo attenzione”.

Alfred Sauvy  è il padre della demografia operativa in Francia e probabilmente in tutto il mondo, sebbene la seconda guerra mondiale abbia portato alla ribalta i demografi americani. Ho lavorato con Sauvy alla fine della sua vita quando era al Collège de France, un istituto che accoglie personalità non universitarie. Con Gérard François Dumont, abbiamo aiutato a gestire la sua sedia quando la sua salute è peggiorata.

Alfred Sauvy era infatti un politecnico, quindi un matematico non universitario. È all’origine della creazione dell’INSEE e dell’INED (Istituto Nazionale di Studi Demografici), in seguito alla constatazione che i governanti, all’epoca del Fronte Popolare, non avevano a disposizione figure sia economiche che demografiche.

Evoluzioni lente

I dati demografici dovrebbero essere usati per prevedere.

Una popolazione che cresce del 2% all’anno non significa molto per il pubblico in generale? Eppure questo sviluppo apparentemente debole sconvolge completamente una nazione: la popolazione si moltiplica per 8 in un secolo, per 40 in 2 secoli.

È ad esempio il caso  dell’Egitto  che contava 2,5 milioni di abitanti secondo il censimento lanciato da Napoleone nel 1800 e che oggi conta  100 milioni di abitanti .

 

Piramide delle età dell’Egitto.

 

 

Se la Francia avesse seguito contemporaneamente la stessa evoluzione, saremmo ben oltre 800 milioni…

Tuttavia, in generale,  il potere economico e militare di un paese è legato alla sua popolazione,  se il governo è serio. “Potere” può essere inteso nel senso positivo attuale, ma anche quello di “capacità di disturbo” o “problema ingestibile”.

6,3 figli per donna: la popolazione triplica ad ogni generazione

Si noti che a 6,3 figli per donna , cioè il triplo necessario al semplice rinnovamento  (2,1 figli per donna),  ogni generazione è  tre volte  la precedente, con mortalità costante… ma la mortalità diminuisce e ci saranno tre volte più genitori, quindi tanti figli, anche se la fertilità è in calo. Dovrebbe essere diviso per tre affinché il numero dei figli rimanga costante e la popolazione continuerebbe comunque ad aumentare con l’età dei genitori.

Questo triplicare con ogni generazione era il caso generale in Africa non molto tempo fa, e rimane ancora vero in alcuni paesi.

1,4 figli per donna: la popolazione si dimezza in 2 generazioni

Vediamo ora cosa succede in caso di bassa fecondità, ad esempio  a 1,4 figli per donna  invece di 2,1, ovvero quale è il caso frequente oggi in Europa e in Asia.

Le generazioni vengono poi sostituite solo per due terzi e quindi diminuiscono di più della metà (2/3 × 2/3) in due generazioni… e questo problema demografico è aggravato dal fatto che queste scarse generazioni devono sostenere un numero spropositato di” Vecchio”, nato quando le generazioni erano più numerose.

Cambiamenti irreversibili

Tuttavia, queste evoluzioni sono praticamente irreversibili: nel “Nord”, dove la fertilità è bassa, ci saranno meno genitori una generazione dopo, producendo così matematicamente ancora meno figli, e la fertilità dovrebbe aumentare drasticamente per tornare allo stato precedente. E questo solo per i bambini di età inferiore a un anno. Perché la popolazione attiva si ricostruisca un po’, questa maggiore fertilità dovrebbe durare 20 anni, e anche 65 anni per ricostituire completamente questa popolazione attiva.

La bassa fertilità, e la corrispondente diminuzione della popolazione attiva ha importanti conseguenze… non è solo una questione di economia, ma di potenza militare e di capacità di sfamare i vecchi… o di assimilare gli immigrati che avremo bene doveva portare!

Questo è più o meno il caso della Germania e di molti altri paesi in cui questo problema si sta aggravando.

Infatti la situazione è ancora peggiore perché non solo i “vecchi” sono matematicamente più numerosi con mortalità costante, ma di fatto lo sono ancora di più a causa dell’aumento della durata della vita. E, qualunque sia il sistema pensionistico,  pay-as-you-go o finanziato,  sono i giovani che nutrono i vecchi.

Il caso della Germania

È quindi comprensibile perché una parte della popolazione tedesca sia favorevole a una forte immigrazione, a cominciare dai dirigenti d’impresa, che per primi vedono  ridursi e invecchiare la propria  forza lavoro .

Naturalmente questa idea si scontra con il fatto che un’altra parte della popolazione è scioccata dalla differenza di cultura con i nuovi arrivati.

In ogni caso, anche mettendo da parte l’immigrazione musulmana a cui ho appena accennato, la Germania resiste  solo grazie ad un afflusso di immigrati , in primis russi di origine tedesca dopo la caduta del muro, poi italiani e cittadini dell’Est Europa e i Balcani. Questo non fa che peggiorare la già catastrofica situazione in questi paesi.

L’Europa è generalmente nella stessa situazione , anche se alcuni paesi come Francia e Gran Bretagna se la passano meno male.

La “transizione demografica”, un modello americano superato

Mentre i demografi francesi, pionieri mondiali, lasciarono la scena internazionale a causa della seconda guerra mondiale, gli americani inventarono “  la transizione demografica  ” (grafico?).

Quest’ultimo è definito dall’INED come  “il passaggio da un regime tradizionale in cui la natalità e la mortalità sono alte e più o meno pareggiate, ad un regime in cui la natalità e la mortalità sono basse e si equilibrano a vicenda”.

Diagramma della transizione demografica.

 

Secondo questo diagramma, la mortalità diminuisce rapidamente con la modernizzazione, mentre la fertilità diminuisce solo gradualmente. La popolazione quindi cresce rapidamente in un primo momento e, in secondo luogo, smette di aumentare quando la fertilità raggiunge 2,1, il livello al quale dovrebbe rimanere. Le proiezioni delle Nazioni Unite sono state fatte a lungo su questo modello.

I demografi francesi del periodo prebellico non vedevano alcun motivo per cui la fertilità non sarebbe scesa da 2,1 e parlavano di un ” regime demografico moderno  ” in cui le popolazioni finirebbero per diminuire continuamente.

La fine del 20 °  secolo e l’inizio del 21 °  li hanno dato ragione, e le Nazioni Unite ha finito per prendere questo in considerazione.

I grandi sconvolgimenti demografici della storia

La caduta dell’Impero Romano

Questo grande impero, uno dei fondatori “dell’Occidente”, insieme all’antica Grecia che ha assorbito e tramandato, era allarmato dal suo  declino demografico  dal 300 d.C. per mancanza di reclute “interne”. , l’esercito romano fu costretto a prendere un gran numero di ausiliari “barbari”, poi le loro famiglie, poi per offrire loro la terra. Così si stabilirono i Franchi e molti altri.

Le “grandi invasioni” sono una sintesi un po’ sommaria di una lunga evoluzione, conclusasi con la costituzione, all’interno dell’impero, di regni “barbari” in linea di principio alleati, ma presto più potenti di quello rimasto di Roma. La vera invasione sarebbe stata piuttosto quella degli Unni di Attila che fu fermata nel 451 dal generale romano Ezio sostenuto dai suoi alleati visigoti (parola per parola: germanico occidentale) e da diversi popoli germanici tra cui i Franchi.

In cambio, Ezio dovette riconoscere pienamente i regni germanici, che si sostituirono quindi all’impero romano. I Visigoti si stabilirono infine in Spagna mentre i Vandali fecero lo stesso nel Maghreb ei Franchi consolidarono il loro insediamento nella futura Francia.

Da 17 secoli ci si chiede quale sia stata la causa di questo crollo demografico dell’Impero Romano che ha cambiato completamente l’Europa. Questo crollo è parallelo allo sviluppo del cristianesimo, ma perché? Alcuni accusano il piombo molto presente nei piatti romani di aver sterilizzato la popolazione…

La Francia domina l’Europa e poi vi annega

A partire dalla seconda metà del Medioevo, la Francia fu demograficamente “l’uomo forte” d’Europa, probabilmente a causa di un’agricoltura favorita da un clima mite e da un ordine pubblico meno catastrofico che altrove. Parlo geografia e tralascio i cambiamenti di confine legati alle avventure feudali.

L’apogeo  di questo periodo è probabilmente  sotto Luigi XIV . Anche Napoleone beneficiò di questa situazione demografica, allora meno chiara, e dovette fare affidamento intorno al 1810 su contingenti stranieri, in particolare stati alleati della futura Germania… che proprio disertò durante la “battaglia delle nazioni” del 1813.

Allo stesso tempo, il nostro primo impero coloniale – compresi i due terzi del Nord America! – andò persa per motivi demografici: questo impero era scarsamente popolato perché i francesi, relativamente prosperi, avevano meno motivi per emigrare degli inglesi, meno favoriti dalla natura.

Questo impero coloniale francese fu quindi divorato dagli inglesi in meno di un secolo e Napoleone decise di vendere ciò che ne restava, la Louisiana, agli Stati Uniti, in mancanza di una popolazione francese abbastanza numerosa.

La fertilità francese continuò a deteriorarsi a differenza di quella dei nostri vicini, e nel 1870 la Francia si trovò in inferiorità numerica dall’esercito prussiano. Nel 1914 andò peggio e per questo fu fatto il “cordiale accordo” con l’Inghilterra. Situazione simile nel 1940.

Nel frattempo l’America e l’URSS avevano acquisito un peso demografico significativo che spiega il loro potere sull’Europa …

Il periodo coloniale è prima di tutto demografico

Le colonizzazioni nel senso moderno del termine risalgono al XIX secolo.

In Egitto, abbiamo visto che Napoleone trovò circa 2,5 milioni di abitanti, mentre la Francia ne aveva 29.

La Francia sbarcò in Algeria nel 1830, e inghiottì una ad una delle tribù la cui popolazione totale era stimata in un range di 2,5-3,5 milioni di abitanti, ovvero circa 10 volte meno della Francia. L’attuale Africa nera francofona era praticamente vuota. Se la colonizzazione aveva molteplici ragioni, la demografia europea lo spiega ampiamente!

Oggi la Francia ha certamente 67 milioni di abitanti, grazie alla sua ripresa demografica, ma l’Egitto ne ha circa 100, l’Algeria 45 e l’Africa francofona 200! Non sorprende che la colonizzazione sia scomparsa.

Nel frattempo, questa Europa ancora fertile nel XIX secolo e l’inizio del 20 °  (dovrebbe essere altamente qualificato a seconda del paese) fuggito in America del Nord, in gran parte dell’America Latina, Australia, Nuova Zelanda … e il centro di gravità del mondo si è spostato in quella direzione … almeno per ora.

Perché le notizie cambiano continuamente.

Notizie demografiche mondiali

E oggi ? Mi limiterò alle grandi linee, il caso dei principali paesi è dettagliato negli altri miei articoli che puoi  esplorare su questo sito. 

Declino generale della fertilità, soprattutto in Asia orientale

In tutto il mondo la fertilità è in declino, ma i risultati non si notano fino a decenni dopo, quando le coorti deboli raggiungono l’età lavorativa.

Nei paesi ad altissima fertilità (da sette a otto figli per donna qualche decennio fa) è piuttosto un sollievo. Relativo sollievo perché la mortalità è diminuita notevolmente, il fatto di essere “caduti” a quattro o sei figli per donna mantiene un aumento molto rapido della popolazione.

È il caso dell’Africa subsahariana e di pochi altri popoli: palestinesi, afgani, haitiani…

D’altra parte, il calo della fertilità negli altri paesi del mondo è un disastro, che colpisce soprattutto l’Asia della civiltà cinese (Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Singapore… e Cina), ma anche l’Europa dell’Est e tutta la Cina. sponda settentrionale del Mediterraneo.

Si comincia con la diminuzione del numero dei bambini, che non è un problema per i politici, da qui la loro mancanza di reazione.

Ho persino ascoltato la sbalorditiva testimonianza di un ministro belga: ”  Spendere meno per meno bambini permette di spendere di più per gli anziani  “.

Ma cosa accadrà in seguito quando non ci saranno abbastanza giovani adulti per sostenere i vecchi? Insomma, è un po’ “  dopo di me il diluvio  ” o, più concretamente: tra 30 anni non avrò più bisogno di essere rieletto.

E quando le generazioni più piccole raggiungono l’età adulta mentre il numero degli anziani si è moltiplicato, abbiamo visto sopra che è già troppo tardi!

Africano “recupero”

Abbiamo discusso brevemente della situazione demografica in Africa.

Illustriamo questo con  il caso della Nigeria, la  cui popolazione supererà quella degli Stati Uniti per raggiungere i  400 milioni di abitanti nel 2050 .

Poiché il resto del mondo è in declino, la popolazione nera rappresenterà una percentuale in rapida crescita della popolazione mondiale. Questo non dispiace a diversi governi africani che pensano al “potere” e non allo “sviluppo”.

A ciò si aggiungono le idee popolazioniste delle varianti locali dell’Islam e delle chiese cristiane.

Alcuni africani dicono addirittura: ”  L’aumento della nostra popolazione è un recupero giustificato, dopo lo spopolamento dovuto alla schiavitù e alla colonizzazione  “.

Se è vero che la schiavitù ha pesato molto sulla popolazione africana, va ricordato che è  principalmente dovuta alla tratta degli schiavi arabi .

Per quanto riguarda la colonizzazione, invece, ha rilanciato la crescita demografica abolendo la schiavitù, fermando la tratta degli schiavi arabi, le guerre tribali e avviando la diffusione dell’igiene e della medicina.

Invecchiamento generalizzato

La conseguenza del calo generale della fertilità è l’invecchiamento della popolazione, ulteriormente accentuato dal miglioramento della salute che ha allungato l’aspettativa di vita.

Quindi questo invecchiamento si manifesta in tutto il mondo, anche nei paesi dove la fertilità rimane alta:  nel 2050 il 24% della popolazione mondiale avrà più di 65 anni! 

È in  Giappone  che il processo di invecchiamento è più avanzato. Le pensioni sono quindi molto basse, e costringono i residenti a cercare un nuovo lavoro per integrare il proprio reddito, spesso fino agli 80 anni. L’alternativa è emigrare e vivere in paesi poveri e quindi economici come le Filippine.

Il caso più importante di invecchiamento della popolazione su scala planetaria è quello della  Cina . La stabilità della sua popolazione a 1,4 miliardi di abitanti è ingannevole: la piramide delle età si svuota dal basso, ma si gonfia dall’alto.

La piramide delle età della Cina.

 

La percentuale di “anziani” raddoppierà, dal 15% nel 2015 al 30% nel 2050.

Sempre più famiglie cinesi, drasticamente ridotte dalla  politica del figlio unico , devono ospitare e sfamare genitori e nonni, spesso direttamente, pensioni non generalizzate e gli istituti medici specializzati possono accogliere solo il 3% degli interessati.

Inoltre, la diminuzione della popolazione attiva finirà per rallentare lo sviluppo, mentre l’  India supererà demograficamente la Cina,  con una popolazione molto più giovane.

In Europa, se la Francia è più o meno stabile per la sua fertilità e immigrazione, il resto del continente non solo sta invecchiando rapidamente, ma sta vedendo la sua popolazione attiva spostarsi massicciamente verso la Germania.

Vedo arrivare il momento in cui all’Europa verrà chiesto di sostenere i pensionati italiani, dell’Est Europa e dei Balcani, che non avranno più contribuenti per nutrirli.

L’Europa chiederà quindi di versare a questi paesi parte delle  risorse dei fondi pensione dei  paesi dove ci sono più contribuenti, vale a dire principalmente i fondi  francesi e tedeschi , che sono già in difficoltà.

Hai notato che  non sto parlando di migrazione , che è un fenomeno limitato su scala globale.

Ad esempio, la stragrande maggioranza dei migranti africani si accontenta di andare nel paese della porta accanto.

Secondo l’ultimo rapporto dell’OCSE, solo 300.000 africani sono arrivati ​​nei  paesi dell’organizzazione  nel 2018, costringendo a correggere le false immagini di un’Europa invasa ( Le Monde, 18 settembre 2019 ).

Ma i pochi migranti  (rispetto all’intera popolazione mondiale)  che finiscono per arrivare nei paesi sviluppati interrompono la loro  politica interna , mentre nei paesi poveri la politica interna è stata per lungo tempo sconvolta dalla forte crescita demografica.

La demografia pesa anche sulle politiche interne

Il peso della demografia sulla politica americana

Negli Stati Uniti,  la popolazione bianca di origine europea non si rinnova, e la sua proporzione viene quindi un po’ divorata dalla  popolazione nera  (infatti sempre più multirazziale, come illustra il nuovo vicepresidente del paese) , e soprattutto dagli  asiatici  e dai ”  latini  ” queste ultime due categorie che beneficiano di una  forte immigrazione.

Si noti che i “latinos” sono una categoria culturale e non razziale, composta principalmente da bianchi e euro-indiani di razza mista.

Gli Stati Uniti sono quindi in procinto di passare da una popolazione al 90% bianca con una piccola minoranza nera e mulatta ad un gruppo molto variegato.

Di conseguenza il Partito Democratico diventerà strutturalmente la maggioranza?

Questo non è certo, poiché neri, asiatici e latini diventano gradualmente repubblicani man mano che si imborghesiscono.

La demografia ha cambiato anche la politica interna dei paesi arabi

Ho citato sopra la sua esplosione demografica con l’esempio della moltiplicazione per 40 in 200 anni della popolazione egiziana.

La fertilità araba è ora notevolmente diminuita , ma, come abbiamo visto, ciò non impedisce il rapido aumento della popolazione ancora per qualche decennio.

Questo rapidissimo aumento della popolazione, diffusosi nell’ultimo secolo, ha messo a dura prova le campagne dove si trova la maggioranza della popolazione. L’ esodo rurale è  stato quindi massiccio, e il  Cairo , ad esempio, conta almeno  15 milioni di abitanti . Gli edifici haussmanniani della borghesia cosmopolita che se ne andò nel 1956 sono sovraffollati, e anche i cimiteri sono invasi.

Il vecchio modello era rurale: ogni giovane era un contadino, costruiva una casa e trovava vicino un coniuge. Spesso non era istruito e aveva una pratica religiosa ridotta a principi morali universali.

Il nuovo modello è urbano e totalmente diverso.

Disoccupazione, misero lavoro informale, celibato a lungo termine, alloggi minuscoli, bambini spesso a scuola secondo un modello islamista, adulti alla portata di tutte le richieste dei media, la stragrande maggioranza dei quali islamisti, in secondo luogo governativi e minoranze occidentali. Questi ultimi innescano  le “molle” democratiche , ma non coinvolgono la maggioranza della popolazione, se non altro per ragioni linguistiche.

Da dove  governi populisti,  spesso predatori e ignoranti, indifferenti alle condizioni dello sviluppo… E  il petrolio , dopo aver corrotto i dirigenti con la sua ascesa, rovinerà il popolo con la sua caduta.

Si noti che  Tunisia e Marocco , dove la fertilità è diminuita prima e più profondamente che nel resto del gruppo arabo, sono andati molto meglio. Certo, hanno i loro problemi di povertà rurale e urbana, per non parlare della rovina del loro turismo a causa della pandemia, ma l’atmosfera politica e sociale è “meno peggiore”.

Si noti anche che hanno mantenuto buona parte dei loro legami con la Francia e l’Occidente. Questo spiega in gran parte questo, non solo intellettualmente ed economicamente, ma anche demograficamente  secondo il mio stesso lavoro  : la diffusione del francese e l’influenza dei cugini che vivono in Francia è una delle cause del primo declino della loro fertilità.

In conclusione, cosa diranno i dati demografici ai nostri discendenti?

Non abbiate paura della  Cina,  osservate e studiate l’  India e l’Africa nera.  Cerca di limitare l’affondamento del  mondo arabo  rompendo il suo isolamento intellettuale, ad esempio moltiplicando i media audiovisivi nelle lingue ITS che non sono solo l’arabo standard, ma anche le lingue darija (magrebiane) e berbere, senza dimenticare i suoi confini turco e curdo.

Dobbiamo dare il cambio della loro moneta a coloro che inondano i nostri cittadini di sermoni veementi.

La demografia porta alla politica. Inoltre, il mio cappello accademico è “demografia politica”, che incuriosisce i miei colleghi demografi “molto semplicemente”.

Articolo pubblicato sul sito web di Yves Montenay.

https://www.revueconflits.com/demographie-chine-afrique-egypte-population/

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 e 2 di 4)_di Daniele Lanza

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (1 di 4)
Come di regola – ma nelle presenti circostanze è anche comprensibile – le bacheche di tutti i social esibiscono una variopinta carovana di considerazioni e commenti per ogni gusto e livello di comprensione. Non so esattamente quanti abbiano la visione d’insieme della storia di questo areale geostrategico : quanti hanno a mente le sequenza di eventi politici e militari che plasmano lo stato che vediamo oggi sulle carte (assieme a tutti i suoi nodi irrisolti ?)
Non si può certo rimediare da un’ennesima bacheca (!), ma tenterò di offrire una cronologia illustrata e ragionata almeno…
Prestare attenzione dunque : la sagoma politico-amministrativa che prende il nome di AFGHANISTAN sugli atlanti è una creatura relativamente recente (per il metro storico). Per esprimerla in modo molto grezzo e oltremodo sintetico, altro non è che una derivazione della decadenza e disfacimento delle potenze regionali circostanti (Persia in primissimo luogo) in età moderna – ultimi 200 anni circa – : da tale evento di lungo termine affiora l’aggregato territoriale fondamentale i cui contorni interni ed esterni sono ulteriormente temprati e rifiniti dalla pressione oceanica di due grandi forze contrapposte ovvero quella zarista da nord, in discesa dall’Asia centrale e quella britannica da sud, in avanzata dal sub-continente indiano……..tra le quali il neonato Afganistan ha la sfortuna di ritrovarsi.
Andiamo in ordine tuttavia, partiamo dal principio.
La scintilla di tutto deflagra tanto, tanto tempo fa (300 anni)…..giusto agli inizi del XVIII° secolo, quando la Persia Safavide incontra una delle sue più gravi crisi sin dalla rinascita imperiale di due secoli e mezzo prima : all’estrema periferia orientale dell’impero – nella zona che oggi sarebbe la fascia più meridionale dell’Afganistan – vi è un variegato complesso tribale autoctono, in generale appartenente all’indoeuropeo (ed iranico) ceppo PASHTUN, tra cui primeggia la tribù dei Ghilzay (غلزی)…..combattenti intrepidi dei deserti di roccia da cui emergono, lontani dallo sfarzo della corte persiana di cui non condividono nemmeno l’islam sciita/duodecimano, rimanendo ancorati alla più tradizionale Sunna (…). Tra quella gente spicca il nobile clan HOTAK (da ricordare) – che si distingue per influenza e ricchezza, tanto che il capo del casato è il rappresentante della città di Kandahar (eccoci) ed interagisce direttamente col governatore inviato dalla capitale : quest’ultimo, un georgiano convertito all’islam (ve ne erano molti nell’amministrazione imperiale) perpetua la tradizione di brutalità dei suoi predecessori fino a provocare una grande rivolta – guidata dal capo della famiglia Hotak – che si innesca nell’anno 1709 del calendario occidentale.
La rivolta inizia a KANDAHAR per l’appunto – dove il governatore viene presto ucciso -, ma anziché rimanere limitata al suo ambito regionale come ci si aspetterebbe, dilaga invece a buona parte dell’areale iranico sotto il controllo safavide, sino a minacciarne le sue più nevralgiche città tra cui la capitale, complice la debolezza del potere centrale : non c’è dubbio che siamo di fronte ad una manifestazione di grandi proporzioni della decadenza imperiale persiana, del capolinea naturale della sua dinastia dopo 250 anni di regno. Una dopo l’altra le varie roccaforti cadono fino al punto da creare una situazione surreale : l’impero safavide è letteralmente divorato dal suo interno da questa improvvisa insurrezione tribale Pashtun che arriva ad occupare buona parte del suo territorio….si parla sui manuali di storia dell’Asia centrale di un “impero HOTAK” di brevissima durata e che prende il nome del condottiero che la orchestra.
Questo stato di disordine interno – analogo forse ai barbari germani già da tempo entro i confini dell’impero romano d’occidente, ma che colgono l’occasione per ribellarvisi invaderlo dal suo interno – durerà lo spazio di una generazione : per una trentina di anni la Persia cerca di ripristinare l’ordine precedente impegnandosi in una lunga e difficile guerra contro questi audaci insorti che già si pongono come difensori di una nuova monarchia. La situazione è ancor più drammatica se si tiene conto che altre potenze – RUSSIA in primis – realizzando lo stato di estrema debolezza in cui versa lo stato safavide si fanno avanti ai 4 punti cardinali conquistando e reclamando regioni di confine (una per tutte la “campagna caspica” di Pietro il grande nel 1721-22 che rischia di strappare allo Scià tutta la costa iranica sul mare Caspio)
L’impero di questo passo potrebbe anche cessare di esistere, si intravede uno smembramento territoriale sempre più inarrestabile……tutto sembra perduto.
Eppure avviene il miracolo : questo miracolo porta il nome di Nader Shah Afshar. Costui è un condottiero militare di immenso genio strategico (pare esista una legge arcana dell’equilibrio nella storia degli stati che fa comparire un salvatore quando si è prossimi al baratro) che rimette in piedi l’impero, invertendo il processo di decadenza in corso (…). Non è persiano (ed anzi è di certo più simile agli insorti Pashtun come cultura guerriera, benchè in realtà lui sia di origine turcomanna, OGHUZ per essere precisi : quei popoli seminomadi di confine da tempo immemore incorporati nelle gerarchie militari persiane. Ammira Tamerlano e lo stesso Gengis che sono suoi modelli) Con lui inizia un lungo ciclo di guerre che tuttavia avranno esito positivo non soltanto salvando la Persia, ma anzi riportandola all’attacco su tutti i fronti prefigurando una versione allargata dell’impero come non esisteva da ere : nel giro di 20 anni di fatto neutralizza tutte le minacce interne ed esterne al paese, respingendo russi, ottomani, indiani da occidente ad oriente (si spinge fino a Bukhara e arriva persino a passare all’offensiva contro l’altrettanto decadente India Mughal, dal canto suo prossima alla colonizzazione anglo-francese)……..ma soprattutto annientando la minaccia HOTAK all’interno che imperversa da decenni.
Per ridurre all’osso una lunga vicenda militare, Nader SCONFIGGE ripetutamente gli insorti pashtun fino a ricacciarli là da dove erano partiti : nel 1738, dopo molti anni di battaglie, arriva alle mura di Kandahar che verrà assediata e presa. Con la caduta della sua capitale, la dinastia Hotak si dissolve e molti dei suoi antichi sostenitori (molti l’avevano già fatto) passano dalla parte di Nader : uno di essi – tra i più fedeli e valorosi – è un generale e capoclan pashtu di nome DURRANI (questo è il nome chiave, ci ritorniamo dieci righe più in basso) . Quest’ultimo ha rimesso insieme l’impero persiano e l’ha reso più forte di prima (di quanto fosse mai stato nella sua fase moderna. Ha letteralmente capovolto la traiettoria storica che pareva instaurata irreversibilmente, portando una nazione dall’orlo della scomparsa sulla mappe alla prospettiva di un nuovo impero continentale) : il paese gli è talmente debitore (e i regnanti precedenti talmente screditati) che è acclamato lui stesso come nuovo Scià e iniziatore di una nuova dinastia che prende il suo nome (Afshar ovvero. Sarà dunque il tempi di “Nader Shah Afshar”).
Non pensiate che vada troppo fuori del seminato : questo interessante excursus di storia persiana è indispensabile per ricostruire la nascita dei potentati che prenderanno poi il nome di Afganistan. Sorvoliamo alcune vicende andando al punto cruciale di svolta : Nader Shah Afshar, nuovo e potente monarca di Persia, cade prematuramente, assassinato in un complotto militare durante una campagna contro i curdi (siamo nell’anno 1747). Con la fine di questo astro della storia militare persiana si esaurisce ipso facto anche lo zenit di espansione territoriale raggiunto per poco tempo : molte regioni da poco conquistate si riprendono l’indipendenza perduta, un po come i regni ellenistico orientali che fanno capolino dopo la morte di Alessandro il macedone, sebbene su scala minore. In realtà l’impero persiano NON si dissolve (l’ascesa di una dinastia Zand stabilizza relativamente le cose), ma ritorna semplicemente ad essere quanto era prima di Nader Shah…..una discreta potenza regionale che non va oltre il suo limite e portata comunque verso la decadenza in un clima di arretratezza rispetto alle grandi potenze dell’occidente che giocano sul piano planetario oramai (…).
In questo clima generale di ridimensionamento persiano dopo un brevissimo zenit di gloria, si forma una nuova entità, anch’essa che porta il nome del proprio fondatore : è in questo momento che ci focalizziamo nuovamente sull’areale specificamente afgano, tornando a quel DURRANI di cui ho accennato (il generale pashtun fedele a Nader)
Ancor prima di proseguire premettiamo che questo Durrani – Ahmad Shāh Durrānī – è oggi considerato il PADRE DELL’AFGANISTAN (inteso come nazione afgana nel senso storico più ampio del termine e non dello stato contemporaneo che abbiamo davanti agli occhi)
Se a qualcuno interessa, mi faccia un cenno che proseguo coi capitoli (con questo caldo procedo solo se ne vale la pena, perdonatemi…)
CONTINUA (?)
FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (2 di 4)
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Allora, ricapitolando il paragrafo precedente : un impero persiano che versa in gravissima crisi (inizio XVIII° sec.) si vede eroso dall’interno da una rivolta tribale PASHTUN che parte da Kandahar nel cuore dell’odierno Afganistan meridionale, e dilaga fino alla stessa capitale imperiale, incapace di domarla o anche solo arginarla. L’emergenza interna rende la Persia safavide vulnerabile anche dall’esterno, facendosi avanti praticamente tutte le potenze confinanti per approfittare del momento – dallo tsar di Russia ai rajah Mughal dell’India – e avvantaggiarsi territorialmente. Sull’orlo del tracollo totale…………le sorti di Persi provvidenzialmente si invertono con l’affermarsi di un leader politico-militare di grande spessore (NADER SHAH, generale di origine turca oghuz in servizio all’impero) : quest’ultimo , praticamente il Napoleone Bonaparte nel contesto persiano della prima metà del 700, modifica il corso della storia ripristinando l’unità del paese sconfiggendo TUTTI gli avversari interni ed esteri in tutti i teatri di guerra. L’azione di Nader è talmente efficace che non soltanto viene riportata la sicurezza (assente sotto la debole dinastia safavide), ma addirittura si ritorna all’attacco e all’espansione ai 4 punti cardinali che fa presagire una nuova età d’oro da Samarkand alla Mesopotamia all’Hindustan (…). Pare sia nato il nuovo Tamerlano dopo secoli. Non a caso manda in pensione la vecchia dinasti a safavide dando inizio alla propria. L’incredibile capovolgimento di situazione non dura oltre la vita di Nader stesso che cade vittima di un complotto di ufficiali persiani, dopo una stagione storica di successi sfolgoranti. Tutto tornerà (quasi) come prima.
Questa serie di eventi ci porta al 1747.
A questo punto facciamo un piccolo passo indietro sottolineando un fatto : NADER (il grande !) nel corso della sua straordinaria ascesa e affermazione porta molti che pure si erano ribellati al decadente impero safavide ad unirsi a lui sotto il suo vessillo vincente. Una tra queste forze erano le tribù ABDALI : trattasi di una parte (la più grande) dei Pashtun ovvero la sua frazione demograficamente più consistente e combattiva. Malgrado la rivolta antipersiana di una generazione prima fosse partita proprio da una tribù pashtun, gli abdali invece si uniranno a Nader Shah una volta compreso la sua forza e il suo genio (a differenza dei suoi predecessori)……arrivando a diventare i suoi più stretti ALLEATI. Tra di essi vi è un giovane di notevoli capacità di nome Ahmad Shāh Durrānī (احمد شاه دراني) .
Lui e il fratello verranno reintegrati come gli altri abdali tra le forze imperiali di Nader, facendo una rapida carriera : al tempo della caduta di Kandahar (che pone fine alla trentennale ribellione pashtun, 1738) ha oramai guadagnato un prestigio tale che da quel momento in poi sarà aiutante di campo dello Scià e successivamente comandante di un corpo d’elite composto di abdali che segue il monarca nella sua campagna contro l’India Mughal (…). Ahmad Durrani è un brillante ufficiale, estremamente apprezzato da Nader. Quando, nel 1747, Nader Shah viene assassinato durante una campagna militare la situazione si fa di nuovo caotica : il breve “super-impero” di Nader si ridimensione rapidamente e svariate sue regioni e provincie conquistate tornano ai possessori oppure cercano l’indipendenza. Quest’ultimo è il caso delle provincie più orientali che occupano l’odierno Afganistan del sud : DURRANI (presente al momento dell’assassinio di Nader) si trova improvvisamente in una situazione di incertezza che tuttavia si chiarisce subito……….considerato estinto con Nader il suo giuramente di fedeltà alla Persia, si allontana dal campo con tutto il suo reggimento di cavalleria portando con sé il sigillo reale del defunto sovrano. Quella stessa estate viene scelto da un grande consiglio (“Ioya Jirga”) di capitribù pashtun come condottiero di tutta la nazione pashtu/afgana.
Questo è letteralmente l’INIZIO. Come leader unico acclamato dalla sua gente, Ahmad Durrani inizia subito la sua opera di conquista, approfittando tra l’altro degli anni di relativa instabilità e debolezza del potere centrale immediatamente successivi alla morte di Nader.
Durrani con una rapida serie di campagne rende definitivamente indipendenti le provincie più orientali dell’impero persiano – corrispondenti all’Afganistan del sud, il cui epicentro era Kandahar – ma questa volta in maniera più stabile rispetto alla ribellione di 40 anni prima ossia con una visione politica assai più definita e concreta : in parole povere cessa l’era dei potentati tribali tributari dell’impero persiano (a volte in rivolta) e inizia l’era di una realtà geopolitica INDIPENDENTE dalla Persia , tanto quanto dall’India Mughal adiacente. Si forma una NAZIONE AFGANA a cavallo tra la Persia imperiale ad ovest e il sub-continente indiano a sud-est : Ahmad Durrani è ritenuto nella storiografia generale come il “pater patriae”.
Durrani si conferma il brillante stratega che già lo Scià persiano aveva notato : nel giro di una manciata di anni non soltanto rende indipendente l’Afganistan propriamente detto all’epoca, ma ne estende i confini, soprattutto ad oriente andando ad intaccare l’areale geopolitico indiano allora ancora sotto lo scettro Mughal (questi già in decadenza in realtà, duramente provati dal confronto con i nativi potentati Maharata nonché con le avanguardie della colonizzazione occidentale sia inglese che francese). Tra il 1747 e il 1755 – ossia alla vigilia della guerra dei 7 anni in Europa e nord America – Durrani penetra in profondità a sud, attacca 4 volte di seguito l’India e arriva a saccheggiare DELHI, staccando fisicamente una larga porzione dell’India Mughal ai suoi legittimi regnanti : una fascia territoriale equivalente all’odierno PAKISTAN (!) più il Kashmir entra a far parte di quello che prende ufficialmente il nome di “IMPERO DURRANI”.
In breve è venuta ad affermarsi in un brevissimo lasso di tempo un’entità politica distinta da Persia e India e temuta da entrambi : in particolare dall’INDIA ora, verso le cui ampie risorse (scarsamente difese) i condottieri afgani paiono attratti. Attorno alla metà del XVIII° sec. i monarchi indiani (Maharati o Mughal che siano) paiono impotenti contro i raid di questi predoni del nord, comparativamente tanto quanto i regni indiani dell’antichità più remota lo furono di fronte alle ondate d’invasione indo-aria (…). Persino la CINA della dinastia Quing è nel mirino dei Durrani che sperano di far insorgere i sudditi musulmani e turchi del celeste impero (le campagne contro l’India tuttavia prosciugano già tutte le risorse a disposizione e non si potrà continuare, dando preminenza a quest’ultima). L’Hindu Kush è a portata di mano per qualsiasi invasione, così come la stessa Delhi sembra essere bersaglio facile di un blitz di questi cavalieri degli altipiani iranici : orbene FARE ATTENZIONE ! E’ da questo momento che si inizia a percepire l’Afganistan (o impero Durrani o comunque lo si voglia appellare) come minaccia per il sub-continente indiano o chiunque lo controlli. Dal punto di vista indiano (e quindi BRITANNICO, dato che nel secolo a venire il “protettore” dell’areale sarà la corona d’Inghilterra) l’entità afgana è equiparabile ad un falco minaccioso….sparuto in termini numerici, ma capace di penetrare all’improvviso sino ai punti più nevralgici del grande HINDUSTAN : non una forza militare sufficiente ad annettere certo………ma sufficiente eventualmente ad innescare pericolose rivolte tra la popolazione autoctona indiana contro i suoi governanti inglesi (ed in questa opera di destabilizzazione eventualmente “aiutato” da un’ulteriore potenza europea o euroasiatica come la Russia zarista : ecco, dal punto di vista di quest’ultima invece, l’entità afgana assume, viceversa, le sembianze di un’utile lancia puntata contro il cuore dell’impero indiano di proprietà del rivale britannico. Una “lancia” che può essere aiutata….). La dinastia Durrani dura per generazioni : il suo successore stabilirà per la prima volta KABUL come capitale del regno (e Peshawar come capitale d’inverno).
A questo periodo risalgono anche i più pesanti attriti con entità non islamiche : fondamentale il confronto armato tra afgani e SIKH nel nord dell’India. Allora iniziano sistematiche distruzioni a danno della cultura induista Sikh cui seguirà una fase di conflitti regolari che terminano solo con la perdita del Kashmir nel 1819 (verso la fine dell’impero Durrani). Si tratta forse dei prodromi di un’animosità che ancora oggi si nota nella popolazione musulmana afgana contro i simboli del buddismo (?) Durrani medesimo scompare nel 1772 lasciando la sua importante eredità e generazioni di successori per i 50 anni a venire, prima che nuovi contesti storici mettano al trono una nuova dinastia : siamo alle porte di un nuovo secolo……….che vede l’uomo occidentale inserirsi nella pugna monopolizzandola al punto di farla divenire un proprio riflesso (ma nel far questo, sfruttando e servendosi di conflitti secolari sempre esistiti tra popolazioni confinanti e rivali come quelli che abbiamo intravisto)

L’Afghanistan, è un territorio fondamentale dell’Asia centrale per la costruzione dei grandi spazi delle potenze mondiali, a cura di Luigi Longo

L’Afghanistan, è un territorio fondamentale dell’Asia centrale per la costruzione dei grandi spazi delle potenze mondiali

a cura di Luigi Longo

Una piccola premessa con Manlio Dinucci “[…] WASHINGTON considerava la nascente alleanza tra Cina e Russia una minaccia agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercavano di occupare, prima di altri, il vuoto che la disgregazione dell’Unione Sovietica aveva lasciato in Asia Centrale. «Esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse», avvertiva allora il Pentagono in un rapporto del 30 settembre 2001.

Quale fosse la reale posta in gioco lo dimostrava il fatto che, nell’agosto 2003, la Nato sotto comando Usa assumeva con un colpo di mano «il ruolo di leadership dell’Isaf», la «Forza internazionale di assistenza alla sicurezza» creata dalle Nazioni Unite nel dicembre 2001, senza che in quel momento avesse alcuna autorizzazione a farlo. Da quel momento oltre 50 paesi, membri e partner della Nato, partecipavano sotto comando Usa alla guerra in Afghanistan. […]” (Manlio Dinucci, Nessuna lezione dalla catastrofe afghana, www.ilmanifesto.it, del 20/8/2021).

In relazione a questa premessa propongo tre letture per una riflessione sulla situazione esplosa in Afghanistan da leggere all’interno del conflitto strategico tra le potenze mondiali: la prima di carattere storico, è uno scritto di Friedrich Engels del 1857, a cura di Eros Barone, pubblicato sul sito www.sinistrainrete.info del 17/8/2021; la seconda di carattere economico, è uno scritto di Marco Lupis apparso su www.huffingtonpost.it del 12/8/2021; la terza di carattere geopolitico, è una intervista ad Alberto Negri a cura di Ventuno news uscita su www.ariannaeditrice.it del 18/8/2021.

 

La prima lettura

LA TRAPPOLA DELL’AFGHANISTAN, 180 ANNI FA

Uno scritto di Friedrich Engels

a cura di Eros Barone

 «Non è affatto una bizzarria pubblicare questo testo di Friedrich Engels sull’Afghanistan, scritto nell’estate del 1857 per la New American Cyclopœdia.» Così Valentino Parlato presentava tale testo in un suo articolo di dieci anni fa. E proseguiva dichiarando di essere convinto che sull’Afghanistan dominasse ancora una clamorosa ignoranza della sua storia e della sua geografia. Giova allora ricordare che dopo il disastroso intervento militare sovietico nel paese, un prestigioso generale dell’Urss ebbe a dire: «Se avessimo letto Engels, mai e poi mai ci saremmo imbarcati in questa avventura».

Sarebbe stato opportuno consigliare la lettura di questo scritto del “Generale” a tutti quelli che, nel corso di questi ultimi 180 anni, hanno voluto intervenire in Afghanistan, ma è noto che la storia è una maestra severa quanto inascoltata. Del resto, in Afghanistan dai tempi di Engels a oggi assai poco è cambiato: l’unico cambiamento rilevante è la diffusione della coltura del papavero da oppio, di cui oggi l’Afghanistan è il maggior produttore mondiale, mentre i maggiori importatori sono i paesi dell’Occidente capitalistico, ‘in primis’ gli Stati Uniti. Sennonché la lettura dello scritto engelsiano sarebbe stata utile ed istruttiva, al netto del livello culturale ed intellettuale dell’attuale responsabile della Farnesina, anche per gli altri responsabili del governo italiano.

* * * *

Afghanistan: vasto paese dell’Asia, a nord-ovest dell’India. In una direzione si estende tra la Persia e le Indie, nell’altra tra l’Hindukush e l’Oceano Indiano. In passato comprendeva le province persiane del Khorasan e del Kohistan, oltre che le regioni di Herat, Belucistan, Kashmir, Sind e una considerevole porzione del Punjab.

All’interno dei suoi attuali confini probabilmente non vi sono più di 4 milioni di abitanti. La superficie dell’Afghanistan è molto irregolare – elevati altipiani, grandi montagne, profonde vallate e gole. Come tutti i paesi tropicali montagnosi, presenta ogni varietà di clima. Nell’Hindukush la neve copre le alte cime per tutto l’anno, mentre nelle vallate il termometro arriva fino a 130°F (54°C, ndt)… Sebbene la differenza tra temperature estive e invernali, e tra temperature diurne e notturne, sia alquanto pronunciata, il paese è generalmente salubre. Le principali malattie che si contraggono sono febbri, catarro e oftalmia. Occasionalmente si diffondono devastanti epidemie di vaiolo.

Il suolo manifesta una fertilità esuberante. Le palme da dattero crescono rigogliosamente nelle oasi dei deserti sabbiosi; la canna da zucchero e il cotone nelle calde vallate; le frutta e gli ortaggi europei prosperano lussureggianti sulle terrazze dei fianchi montani fino a un’altitudine di 6.000 o 7.000 piedi. Le montagne sono coperte di splendide foreste abitate da orsi, lupi e volpi, mentre il leone, il leopardo e la tigre si trovano nelle regioni più adatte alle loro caratteristiche. Né mancano gli animali utili per l’uomo. Si alleva una bella varietà di pecora di razza persiana, o con la coda lunga. I cavalli sono di buone dimensioni e razza. Come bestie da soma si usano il cammello e l’asino, e si trovano capre, cani e gatti in notevole quantità. Oltre all’Hindukush, che costituisce una prosecuzione dell’Himalaya, nella parte sud-occidentale si erge la catena dei Monti Sulaiman e, tra l’Afghanistan e Balkh, quella del Paropamiso (…). I fiumi scarseggiano: i più importanti sono l’Helmand e il Kabul, i quali nascono entrambi dall’Hindukush. Il Kabul scorre verso oriente e si immette nell’Indo nelle vicinanze di Attock; l’Helmand scorre verso occidente e, dopo aver attraversato il distretto di Sistan, sfocia nel lago di Zirrah. (…)

Le città principali dell’Afghanistan sono: Kabul, la capitale, Ghazni, Peshawar e Qandahar. Kabul è una bella città, situata a 340° di latitudine N e 60° 43° di longitudine E, sull’omonimo fiume. Gli edifici sono costruiti in legno, sono puliti e spaziosi, e la città, essendo circondata da bei parchi, ha un aspetto molto gradevole. Nei suoi dintorni sorgono diversi villaggi, nel mezzo di un’ampia pianura attorniata da basse colline. Il monumento principale è la tomba dell’imperatore Babur. Peshawar è una grande città, con una popolazione stimata intorno ai 100.000 abitanti. Ghazni, centro di antica fama, un tempo capitale del gran sultano Mahmud, ha subito un notevole declino ed è attualmente un povero villaggio. Nelle sue vicinanze è sepolto Mahmud. La fondazione di Qandahar è relativamente recente e risale al 1754. La città sorge sulle rovine di un antico insediamento e per qualche anno fu capitale; nel 1774 la sede del governo fu trasferita a Kabul. (…) Nei pressi si trova la tomba dello Shah Ahmed, fondatore della città, un luogo talmente sacro che neanche il re può ordinare la cattura di un criminale che si sia rifugiato tra le sue mura.

Rilevanza politica

La posizione geografica dell’Afghanistan e la particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell’ambito degli affari dell’Asia centrale, non sarà mai troppo sottolineata. La forma di governo è la monarchia, ma l’autorità di cui il sovrano gode sui suoi turbolenti e focosi sudditi è di tipo personale e molto indefinito. Il regno è diviso in province, ciascuna controllata da un rappresentante del sovrano, il quale raccoglie le tasse e le invia alla capitale. Gli afghani sono coraggiosi, intrepidi e indipendenti; si occupano esclusivamente di pastorizia e agricoltura, rifuggendo il commercio e gli scambi che sdegnosamente lasciano agli indù e ad altri abitanti delle città. Per loro la guerra è un’impresa eccitante e una distrazione dalla monotonia delle abituali attività. Gli afghani sono divisi in clan, sui quali i vari capi esercitano una sorta di supremazia feudale. Soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono loro di diventare una nazione potente; ma questa stessa irregolarità e incertezza nell’azione li rende dei pericolosi vicini, capaci di essere sballottati dai venti più mutevoli o istigati da politici intriganti che eccitano astutamente le loro passioni.

Le due tribù principali sono i durrani e i ghilzai, sempre in lotta l’una con l’altra (entrambe di etnia pashtun). I durrani sono i più potenti e, in virtù di tale supremazia, il loro amir o khan si è proclamato re dell’Afghanistan. Il suo reddito è di circa 10 milioni di dollari. Gode di autorità suprema solo all’interno della sua tribù. I contingenti militari sono forniti principalmente dai durrani; il resto dell’esercito è composto da membri degli altri clan o da soldati di ventura che si uniscono alle truppe sperando nella paga o nel bottino. Nelle città la giustizia è amministrata dai cadì, ma gli afghani raramente ricorrono alla legge. Le sanzioni decretate dai khan si estendono fino al diritto di vita e di morte. La vendetta di sangue è un dovere familiare; tuttavia, si dice che gli afghani siano un popolo liberale e generoso quando non vengono provocati, e che i diritti di ospitalità siano a tal punto sacri che se un nemico mortale riesce, anche con uno stratagemma, a mangiare pane e sale del suo ospite, egli diventa inviolabile, e può perfino pretendere la protezione di quest’ultimo contro ogni altro pericolo. Di religione sono maomettani sunniti, ma non intolleranti, e le alleanze tra sciiti e sunniti non sono affatto infrequenti.

L’Afghanistan è stato soggetto alternativamente al dominio dei moghul e dei persiani. Prima che gli inglesi si insediassero sulle coste indiane tutte le invasioni straniere che spazzarono le pianure dell’Indostan provenivano immancabilmente dall’Afghanistan. Seguirono quella via il sultano Mahmud il Grande, Gengis Khan, Tamerlano e Nadir Shah. Nel 1747, dopo la morte di Nadir, Ahmed Shah, che aveva appreso l’arte della guerra al comando di quell’avventuriero, decise di liberarsi dal giogo persiano. Sotto il regno di Ahmed l’Afghanistan raggiunse l’apice della grandezza e della prosperità in tempi moderni. Ahmed apparteneva alla famiglia dei suddosi, e la sua prima azione fu quella di impadronirsi del bottino che il suo defunto capo aveva raccolto in India. Nel 1748 riuscì a cacciare il governatore moghul da Kabul e Peshawar e, dopo aver attraversato l’Indo, conquistò il Punjab. Il suo regno si estendeva dal Khorasan a Delhi, ed egli incrociò le armi anche con i potenti marathi. Tutte queste grandi imprese non gli impedirono tuttavia di coltivare alcune arti parifiche ed egli fu anche apprezzato poeta e storico. Morì nel 1772 e lasciò la corona al figlio Timur, che però non si dimostrò all’altezza del gravoso compito.

Questi abbandonò la città di Qandahar, che era stata fondata dal padre ed era diventata in pochi anni una città ricca e popolosa, e trasferì la sede del governo a Kabul. Durante il suo regno ripresero vigore i dissensi tra le tribù, in passato repressi dalla mano ferma di Ahmed Shah. Timur morì nel 1793 e gli successe Siman. Questo principe accarezzava l’idea di consolidare il potere maomettano in India e il suo progetto, che avrebbe potuto mettere in serio pericolo i possedimenti britannici, fu considerato così rilevante che Sir John Malcolm raggiunse la frontiera con il compito di tenere gli afghani sotto controllo nel caso in cui avessero effettuato qualche movimento; al tempo stesso vennero avviate trattative con la Persia in modo da stringere gli afghani tra due fuochi.

Queste precauzioni non furono comunque necessarie; Siman Shah era più che occupato dalle cospirazioni e dai disordini in patria, e i suoi grandi progetti furono stroncati sul nascere. Il fratello del re, Mohammed, si gettò su Herat con l’intenzione di costituire un principato indipendente, ma, fallendo nel suo tentativo, fuggì in Persia.

Siman Shah era salito al trono con l’aiuto della famiglia dei Barakzay, il cui capo era Sheir Afras Khan. La nomina di un visir impopolare da parte di Siman accese l’odio dei suoi vecchi sostenitori, i quali ordirono una congiura che fu scoperta e portò alla condanna a morte di Sheir Afras. I cospiratori richiamarono allora Mohammed, Siman fu fatto prigioniero e accecato. In opposizione a Mohammed, che era sostenuto dai durrani, i ghilzai avanzarono la candidatura di Sujah Shah, che fu re per qualche tempo ma fu infine sconfitto, principalmente a causa del tradimento dei suoi stessi fautori, e costretto a cercare rifugio presso i sikh.

Nel 1809 Napoleone aveva inviato in Persia il generale Gardanne, nella speranza di indurre lo scià a invadere l’India; il governo indiano da parte sua aveva inviato un rappresentante alla corte di Sujah Shah per creare un fronte di opposizione contro la Persia. Fu in quest’epoca che Ranjit Singh acquistò potere e fama. Era un capotribù sikh e, grazie al suo genio, guadagnò al suo paese l’indipendenza dagli afghani e fondò un regno nel Punjab, assumendo il titolo di maharaja e conquistandosi il rispetto del governo anglo-indiano. L’usurpatore Mohammed, tuttavia, non era destinato a godere a lungo della sua vittoria. Il vizir Futteh Khan, che, spinto dall’ambizione o da interessi contingenti, aveva oscillato continuamente tra Mohammed e Sujah Shah, fu catturato da Kamran, figlio del re, accecato e quindi crudelmente assassinato. La potente famiglia del vizir ucciso giurò di vendicare la sua morte.

Di nuovo fu avanzata la candidatura del fantoccio Sujah Shah e decretato l’esilio di Mohammed. Ma poiché Sujah Shah si rese responsabile di un’offesa, fu immediatamente deposto e al suo posto fu incoronato un fratello. Mohammed fuggì a Herat, di cui mantenne il possesso, e alla sua morte nel 1829 il figlio Kamran gli successe al governo di quel distretto. La famiglia dei Barakzay, conquistato il potere supremo, divise il territorio tra i propri membri i quali, secondo l’abitudine nazionale, continuarono a litigare tra di loro riunendosi soltanto di fronte a un nemico comune. Uno dei fratelli, Mohammed Khan, ricevette la città di Peshawar, per la quale pagava un tributo a Ranjit Singh; un altro ebbe Ghazni e un terzo Qandahar, mentre a Kabul dominava Dost Muhammad, il più potente della famiglia.

Come gli inglesi persero Kabul

Nel 1835 – in un periodo nel quale Russia e Inghilterra ordivano intrighi reciproci in Persia e in Asia centrale – presso Dost Muhammad, dominatore di Kabul, fu inviato come ambasciatore il capitano Alexander Burnes. Burnes presentò l’offerta di un’alleanza che Dost sarebbe stato lieto di accogliere, ma il governo angloindiano pretendeva tutto e non era disposto a dare niente in cambio.

Nel frattempo, sostenuti e consigliati dai russi, i persiani posero l’assedio a Herat, città chiave per l’Afghanistan e per l’India; giunsero a Kabul un agente persiano e uno russo, e Dost, constatato il continuo rifiuto da parte dei britannici di prendere impegni concreti, fu infine praticamente costretto ad accettare le proposte dell’altra parte. Burnes lasciò Kabul e Lord Auckland, allora governatore generale dell’India, influenzato dal proprio segretario W. Macnaghten, decise di punire Dost Muhammad per ciò che egli stesso lo aveva obbligato a fare. Stabilì di detronizzarlo e di sostituirlo con Sujah Shah, che ormai si trovava sul libro paga del governo indiano. Fu così concluso un trattato con Sujah Shah; questi cominciò a radunare un esercito, pagato e comandato dai britannici, e una forza anglo-indiana fu concentrata sul Sutlej. Macnaghten, con Burnes come suo vice, doveva accompagnare la spedizione in qualità di delegato per l’Afghanistan. Nel frattempo, però, i persiani avevano tolto l’assedio a Herat e così venne a mancare l’unica valida ragione per intervenire in Afghanistan; nel dicembre del 1838, l’esercito marciò quindi sul Sind, regione che fu costretta all’obbedienza e al pagamento di un tributo in favore dei sikh e di Sujah Shah.

L’esercito passa l’Indo

Il 20 febbraio 1839, l’esercito britannico passò l’Indo. Era composto di circa 12.000 soldati, con un seguito di oltre 40.000 persone, oltre alle nuove truppe di Sujah Shah. In marzo fu attraversato il passo di Bolan; iniziò ad avvertirsi la mancanza di provviste e foraggio: i cammelli cadevano a centinaia e gran parte del bagaglio andò perduta. Il 7 aprile l’esercito arrivò al passo di Kojuk, lo attraversò senza incontrare resistenza e il 25 aprile entrò a Qandahar, che i principi afghani fratelli di Dost Muhammad avevano abbandonato. Dopo una sosta di due mesi, il comandante Sir John Keane avanzò verso nord con il corpo principale dell’esercito, lasciando a Qandahar una brigata al comando di Nott. Ghazni, la roccaforte inespugnabile dell’Afghanistan, fu conquistata il 22 luglio, dopo che un disertore ebbe informato i britannici che la porta di Kabul era l’unica a non essere stata murata; di conseguenza la città fu presa d’assalto in quel punto. Dopo questa disfatta l’esercito raccolto da Dost Muhammad sbandò immediatamente, e il 6 agosto si aprirono anche le porte di Kabul. Sujah Shah fu insediato nella sua carica, ma la vera direzione del governo rimase nelle mani di Macnaghten, il quale pagava anche tutte le spese di Sujah Shah attingendo alle casse indiane.

La conquista dell’Afghanistan sembrava compiuta, e così gran parte delle truppe fu rispedita indietro. Ma gli afghani non erano affatto contenti di essere governati dai Feringhee Kaffirs (infedeli europei) e nel corso di tutto il 1840 e del 1841 le insurrezioni si susseguirono in ogni parte del paese. Le truppe anglo-indiane erano sempre all’erta. Tuttavia, Macnaghten dichiarò che per la società afghana si trattava di una situazione normale e inviò dispacci affermando che tutto procedeva bene e che il potere di Sujah Shah si stava consolidando. Fu vano ogni ammonimento dei militari e dei rappresentanti politici. Dost Muhammad, che si era arreso ai britannici nell’ottobre del 1840, fu tradotto in India; tutte le insurrezioni dell’estate del 1841 furono represse con successo e verso il mese di ottobre Macnaghten, nominato governatore di Bombay, si preparò a partire per l’India con un altro contingente militare. Fu allora che scoppiò la tempesta.

L’occupazione dell’Afghanistan costava alle casse indiane 1.250.000 sterline all’anno: si dovevano pagare 16.000 soldati, tra anglo-indiani e truppe di Sujah Shah, di stanza nel paese; poi c’erano altri 3.000 uomini nel Sind e al passo di Bolan; gli sfarzi regali di Sujah Shah, i salari dei suoi funzionari e tutte le spese della corte e del governo, erano coperti dal denaro indiano e, inoltre, da questa stessa fonte si sovvenzionavano, o meglio si corrompevano i capi afghani affinché si tenessero fuori dalla mischia. Essendo stato informato dell’impossibilità di proseguire su questi livelli di spesa, Macnaghten tentò di arginare le uscite, ma l’unico modo praticabile sarebbe stato quello di tagliare gli appannaggi dei capi locali. Il giorno stesso in cui il tentativo fu messo in atto i capi ordirono una congiura diretta allo sterminio dei britannici e, di conseguenza, fu proprio Macnaghten a causare la concentrazione delle forze insurrezionali che fino ad allora avevano lottato isolatamente, senza unità né accordo, contro gli invasori. Tuttavia, è anche certo che, a quel punto, tra gli afghani l’odio per la dominazione britannica aveva raggiunto il suo apice. A Kabul gli inglesi erano comandati da Elphinstone, un anziano generale gottoso, irresoluto e molto confuso, i cui ordini erano perennemente in contraddizione l’uno con l’altro. Le sue truppe occupavano una sorta di accampamento fortificato, talmente esteso che i soldati della guarnigione riuscivano a malapena a coprirne il perimetro, e men che meno avrebbero potuto distaccare qualche unità per il combattimento sul campo.

Assurdità militari

Come se non bastasse, l’accampamento si trovava praticamente a tiro di schioppo dalle alture circostanti e, per coronare l’assurdità di una simile disposizione, tutto il materiale di approvvigionamento e quello sanitario erano depositati in due forti distaccati, a una certa distanza dall’accampamento, al di là di giardini cinti di mura e di un altro fortino non occupato dagli inglesi. Baia Hissar, la cittadella di Kabul, avrebbe potuto offrire all’intero esercito un acquartieramento invernale splendido e sicuro, ma per compiacere Sujah Shah, gli inglesi non ne presero possesso. Il 2 novembre 1841 ebbe inizio l’insurrezione. L’abitazione di Alexander Burnes, nel centro della città, fu assaltata e lui stesso assassinato. Il generale britannico non si mosse e la rivolta crebbe vigorosa grazie all’impunità. Elphinstone, assolutamente incapace di reagire, e in balia dei consigli più contrastanti, fece ben presto precipitare la situazione in quello stato confusionale che Napoleone descriveva con tre parole: ordre, contreordre, désordre. Si continuò a non occupare Baia Hissar. Contro le migliaia di insorti furono mandate alcune compagnie che, naturalmente, furono battute; ciò rese gli afghani ancora più intraprendenti. Il 3 novembre essi occuparono i fortini nei pressi dell’accampamento. Il giorno 9 conquistarono il forte del commissariato, riducendo gli inglesi alla fame. Il 5 Elphinstone aveva già parlato di negoziare un pagamento per lasciare il paese. Verso la metà di novembre la sua indecisione e la sua incapacità avevano talmente demoralizzato le truppe che né i soldati europei né i sepoy (truppe mercenarie indiane comandate da inglesi, ndt) erano ormai in grado di affrontare gli afghani in campo aperto. Quindi iniziarono le trattative, durante le quali, nel corso di una riunione con i capi afghani, Macnaghten fu assassinato. La neve cominciò a cadere, le provviste scarseggiavano. Il 1° gennaio si giunse alla capitolazione. Tutto il denaro, 190.000 sterline, doveva essere consegnato agli afghani, oltre a 140.000 sterline in promesse sottoscritte di pagamento. L’artiglieria e le munizioni, a parte 6 pezzi da sei libbre e 3 cannoni da montagna, dovevano essere lasciate in loco. Tutto l’Afghanistan doveva essere evacuato. I capitribù, da parte loro, promisero un salvacondotto, rifornimenti e bestiame per il trasporto. Il 5 gennaio gli inglesi si misero in marcia con 4.500 soldati e un seguito di 12.000 persone; una marcia durante la quale sparirono anche gli ultimi residui di ordine, con militari e civili che si confondevano in maniera irreparabile rendendo impossibile qualsiasi tipo di resistenza. Il freddo e la neve, e la mancanza di cibo, agirono come durante la ritirata di Napoleone da Mosca. Ma invece che dai cosacchi che si mantenevano a debita distanza, gli inglesi furono incalzati dai furibondi tiratori scelti afghani piazzati su ogni altura e armati con fucili a miccia a lunga gittata. I capi che avevano firmato la capitolazione non potevano né volevano tenere sotto controllo le tribù montane. Il passo di Kurd-Kabul divenne così la tomba di quasi tutto l’esercito, e i pochi superstiti (tra cui meno di 200 europei) caddero all’ingresso del passo di Jugduluk. Un solo uomo, il dottor Brydon, riuscì a raggiungere Jalalabad e a raccontare ciò che era accaduto. Molti ufficiali, tuttavia, erano stati catturati dagli afghani e fatti prigionieri. Jalalabad era presidiata dalla brigata di Sale. Gli fu intimata la resa, ma egli rifiutò di abbandonare la città; lo stesso fece Nott a Qandahar. Ghazni era caduta; in città non c’era nessuno che s’intendesse di artiglieria, e i sepoy della guarnigione avevano ceduto a causa delle condizioni climatiche.

Nel frattempo, appena venute a conoscenza della disfatta di Kabul, le autorità britanniche di stanza lungo la frontiera avevano concentrato a Peshawar alcune truppe destinate a portare soccorso ai reggimenti in Afghanistan. Ma mancavano i mezzi di trasporto e i sepoy caddero ammalati in gran numero. In febbraio il comando fu assunto dal generale Pollock, il quale ricevette nuovi rinforzi alla fine di marzo del 1842. Egli quindi si aprì la strada attraverso il passo di Khaybar e puntò su Jalalabad per andare a soccorrere Sale.

Riguadagnare l’onore nazionale

Lord Ellenborough, nuovo governatore generale dell’India, ordinò l’immediato ritiro delle truppe, ma sia Nott sia Pollock addussero come scusa la mancanza di mezzi di trasporto. Infine, ai primi di luglio l’opinione pubblica in India costrinse Lord Ellenborough a prendere provvedimenti per riguadagnare l’onore nazionale e il prestigio dell’esercito britannico; egli quindi autorizzò l’avanzata su Kabul da Qandahar e da Jalalabad. Verso la metà di agosto Pollock e Nott si accordarono sui rispettivi movimenti e il giorno 20 Pollock mosse verso Kabul; raggiunse Gundamuk, sbaragliò un corpo di afghani il 23, superò il passo di Jugduluk l’8 settembre, sconfisse le truppe nemiche riunite a Tezin il 13 e si accampò il 15 sotto le mura di Kabul. Nott nel frattempo aveva lasciato Qandahar il 7 agosto, dirigendosi a Ghazni con tutti gli uomini a sua disposizione. Dopo alcuni scontri di minore entità, sgominò un notevole contingente di afghani il 30 agosto, prese possesso il 6 settembre di Ghazni, che era stata abbandonata dal nemico, distrusse le fortificazioni della città, sconfisse nuovamente gli afghani nella loro roccaforte di Alydan e il 17 settembre giunse nei pressi di Kabul, dove si mise in contatto con Pollock.

Sujah Shah era stato assassinato già da tempo da un capotribù e, da quel momento in poi, l’Afghanistan non aveva avuto alcun governo regolare, anche se nominalmente il re era Futteh Jung, il figlio di Sujah Shah. La distruzione del bazar di Kabul fu decisa come atto di ritorsione e in tale circostanza i soldati saccheggiarono parte della città e massacrarono numerosi civili. Il 12 ottobre i britannici lasciarono Kabul e marciarono, attraverso Jalalabad e Peshawar, in direzione dell’India. Futteh Jung, disperando per la sua sorte, si unì a loro. Dost Muhammad fu liberato e fece ritorno nel suo regno. Così si concluse il tentativo dei britannici di creare con le loro mani un sovrano per l’Afghanistan.

(Scritto nel mese di luglio e nella prima decade di agosto del 1857. Pubblicato in The New American Cyclopœdia, vol. I, 1858)

La seconda lettura

AUTOSTRADE ED ENERGIA: COSÌ LA CINA SI COMPRA I TALEBANI

Il progetto di Pechino: allungare all’Afghanistan il corridoio Cina-Pakistan. Con tanti saluti agli Usa

di Marco Lupis

Nel novembre del 1982, l’allora presidente cinese Deng Xiaoping disse: “I problemi in Afghanistan sono di importanza strategica globale. Cina e Afghanistan hanno un confine comune. Pertanto, l’Afghanistan rappresenta una minaccia che potrebbe circondare, anche geograficamente, la Cina”.

Certamente, la situazione di entrambi i paesi – e soprattutto quella della nuova superpotenza cinese – è radicalmente cambiata dai tempi del grande riformista Deng, ma non l’interesse e l’estrema attenzione verso l’area afgana, e nei confronti di ciò che accade in quello che oggi è conosciuto come “Il Paese dei barbuti”: i Talebani. La massiccia offensiva delle ultime ore, che ha visto il gruppo estremista islamico riconquistare pezzo dopo pezzo, territorio dopo territorio, città dopo città, larghe parti dell’Afghanistan, ha riportato di estrema attualità il ruolo di Pechino negli equilibri geopolitici dell’Asia centrale, una parte di Mondo sulla quale la Cina ha sempre cercato di estendere il proprio controllo. E non ha mai nascosto le proprie ambizioni in tal senso.

In realtà, Il confine che la Cina divide con l’Afghanistan è il più breve tra i confini che il paese – ormai nuovamente in mano ai Talebani – spartisce con altri 5 suoi vicini: Iran, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan. Tuttavia, questo breve confine di soli 90 chilometri (Wakhan Corridor), difficile da attraversare a causa delle condizioni del terreno, potrebbe essere la prima regione in cui si concretizzerà la nuova ondata di radicalizzazione. I talebani, che dopo il ritiro degli Usa controllavano circa due terzi del Paese, ormai hanno raggiunto il confine montuoso con la Cina, dominando la provincia di Badakhshan.

I colloqui tra il governo afghano e le squadre negoziali talebane, iniziati lo scorso settembre, hanno fatto scarsi progressi oltre a quello che i media hanno annunciato come una ” svolta ” nel dicembre 2020, che stabilisce regole e procedure. Da allora, mentre le parti si sono incontrate più volte, non è stata concordata un’agenda reciproca e i talebani hanno continuato ad accumulare successi militari. A fine luglio, i rappresentanti del governo afghano e dei talebani si sono incontrati di nuovo a Doha ma ancora una volta non sono riusciti a compiere progressi.

Ma il fallimento dei colloqui di Doha è passato in secondo piano rispetto alla frenetica attività del capo negoziatore dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, che di recente ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi a Tianjin. L’incontro di Baradar con Wang è arrivato solo due giorni dopo la visita nella stessa città del vicesegretario di Stato americano Wendy Sherman, per quelli che si sono rivelati ennesimi colloqui inconcludenti. E il ministero degli Esteri cinese ha subito dichiarato che “Il ritiro precipitoso delle truppe statunitensi e della NATO dall’Afghanistan segna in realtà il fallimento della politica statunitense nei confronti di quel Paese”. Il capo della diplomazia di Pechino, Wang, ha sottolineato che “i talebani afghani sono un’importante forza militare e politica in Afghanistan e si prevede che svolgano un ruolo importante nel processo di pace, riconciliazione e ricostruzione del Paese”. Mentre da parte sua, il mullah Baradar avrebbe assicurato alla Cina che i talebani afghani “non avrebbero mai permesso a nessuna forza di utilizzare il territorio afghano per compiere atti dannosi per la Cina”. Sembrerebbero tutti elementi per un nuovo “idillio” tra Pechino e i feroci estremisti Barbuti, ma è effettivamente così?

Di fatto la Cina sta cercando di trovare un modo per prevenire l’instabilità ambientale e la minaccia terroristica che potrebbe diffondersi nel suo territorio attraverso l’Afghanistan: un’aspirazione che hanno coltivato in molti, ma che sicuramente Pechino non vorrebbe attuare attraverso un’azione militare, ben consapevole che tutti gli attori che sono intervenuti militarmente fino ad oggi in Afghanistan hanno fallito, consentendo al Paese di guadagnarsi la reputazione di “cimitero degli imperi”.

L’amministrazione di Pechino desidera migliorare l’economia e la prosperità della regione sviluppando relazioni commerciali con il Paese dei Barbuti e avviando progetti infrastrutturali. In questo modo, pur aumentando la sua influenza, la Cina eviterà i rischi di un’operazione militare. L’interesse del Dragone infatti – come accadde ormai da tempo in qualsiasi contesto e scenario internazionale – è prettamente economico. Pechino vuole realizzare in Afghanistan qualcosa di simile al Corridoio Economico Cina-Pakistan, o quantomeno estendere questo corridoio fino a Kabul, così da garantire i propri rilevanti interessi nel Paese – in costante aumento attraverso lo sviluppo di importanti progetti – e garantire la sicurezza di una sperata “tappa afgana” dell’attraversamento est-ovest utile allo sviluppo del grande progetto della Nuova Via della Seta. Di conseguenza, la stabilità dell’Afghanistan agli occhi della Cina è la chiave principale per il successo dei progetti di infrastrutture energetiche e di trasporto nelle regioni economiche dell’Asia meridionale e centrale. Per questo motivo, di recente, i funzionari cinesi hanno rilasciato importanti dichiarazioni, che mostrano la loro volontà di estendere il corridoio economico Cina-Pakistan all’Afghanistan nell’ambito appunto della Belt and Road Initiative.

Pechino prevede di investire in Afghanistan in molti settori, soprattutto nelle risorse sotterranee e nel potenziale idroelettrico, e nelle sue dichiarazioni, il portavoce dei talebani Süheyl Şahin ha affermato senza mezzi termini che i talebani accoglierebbero con favore gli investimenti della Cina in Afghanistan, suggerendo così la concreta possibilità di un significativo riavvicinamento tra Cina e Talebani in quest’area.

Con la sua Belt and Road Initiative (BRI), quindi, la Cina è pronta a entrare in esclusiva nell’Afghanistan post-americano. Secondo i rapporti di intelligence più credibiili, le autorità di Kabul stanno intensificando il loro impegno con la Cina per l’estensione del Corridoio economico Cina-Pakistan da 62 miliardi di dollari (CPEC), il progetto di punta della BRI. Il progetto prevede la costruzione di autostrade, ferrovie e condutture energetiche tra il Pakistan e la Cina, fino all’Afghanistan. In particolare, sul tavolo ci sarebbe la costruzione di una strada principale sostenuta dalla Cina tra l’Afghanistan e la città nordoccidentale del Pakistan, Peshawar, che è già collegata alla rotta CPEC: Collegare Kabul a Peshawar su strada significherebbe infatti l’adesione formale dell’Afghanistan al CPEC.

La Cina intende collegare l’Asia con l’Africa e l’Europa tramite reti terrestri e marittime che coprono 60 paesi come parte della sua strategia BRI. La strategia non solo promuoverebbe la connettività interregionale, ma aumenterebbe anche l’influenza globale della Cina al costo stratosferico – ma perfettamente gestibile dalla gigantesca economia cinese – di 4 trilioni di dollari. Grazie alla sua posizione, l’Afghanistan può fornire alla Cina una base strategica per diffondere la sua influenza in tutto il mondo, situato com’è in una posizione ideale per fungere da hub commerciale che collega il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’Europa.

Appare chiaro che, per realizzare i suoi ambiziosi piani economici, Pechino ha bisogno di pace e stabilità nella Regione, e in particolare proprio in Afghanistan.

Con ogni evidenza, però, nella partita afgana Pechino ha anche un’altra ambizione, meno “materialistica”: vuole dimostrare che la sua ideologia e le sue politiche possono portare stabilità anche nelle geografie più impegnative del mondo, sviluppando economicamente e rendendo stabile l’Afghanistan, proprio laddove gli stati occidentali, in particolare gli Usa, hanno completamente fallito. Quello afgano, insomma, sarebbe un tassello di primaria importanza nella vasta strategia di Soft-power del Dragone.

Xi Jinping ha dichiarato questa strategia fin dal 2014 quando, partecipando alla “Conference on Cooperation and Confidence-Building Measures in Asia”, disse: “I problemi dell’Asia dovrebbero essere risolti dagli asiatici in ultima istanza e la sicurezza dell’Asia dovrebbe essere garantita da asiatici”.

E gli americani [gli Stati Uniti d’America, mia precisazione LL], staranno a guardare?

 

 

La terza lettura

AFGHANISTAN. FALLIMENTO POLITICO-MILITARE MA ANCHE IDEOLOGICO

di Alberto Negri

Il fallimento in Afghanistan? Politico-militare ma anche ideologico. Dopo i sovietici, i talebani hanno sconfitto anche gli occidentali, pur con importanti differenze. E ora costruiranno l’Emirato II, con nuovi partner e una nuova struttura statale. Per capirne qualcosa di più, Ventuno ne ha parlato con Alberto Negri, giornalista tra i massimi esperti di esteri, che conosce l’Afghanistan – dove è stato una dozzina di volte a partire dagli anni ’80 – come le sue tasche. Editorialista de Il Manifesto, quotidiano che ha compiuto 50 anni, Negri è stato a lungo inviato di guerra per Il Sole 24 Ore, seguendo in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, in Somalia, in Afghanistan e in Iraq.

Cosa sta succedendo in Afghanistan?

«Per dirlo in maniera dettagliata bisognerebbe essere sul posto. Abbiamo sempre un taglio della realtà afghana che proviene soprattutto da Kabul, la capitale. Sappiamo poco, però, di quello che accade nelle province. Questo è un limite dell’informazione attuale che ci dovrebbe far riflettere, perché la storia dell’Afghanistan non è solo quella di una guerra sbagliata, ma anche di una narrativa sbagliata. Per esempio si ignora che i talebani controllavano già il 40-50% del territorio quattro-cinque anni fa. Soprattutto nelle province. Questo spiega perché c’è stata una loro rapida avanzata, dovuta ovviamente alla dissoluzione dell’esercito nazionale afghano, ma anche al fatto che in questi anni i talebani hanno consolidato la loro presenza, stando molto più attenti che in passato ai rapporti con la popolazione civile».

Come?

«Il Mullah Baradar, che ha rappresentato i talebani nel negoziato di Doha e che gli americani conoscono benissimo – fu arrestato nel 2010, tenuto in prigione in Pakistan fino al 2018 e liberato su richiesta degli stessi americani – è autore di un codice di comportamento in cui si chiedeva ai combattenti di non fare attentati o azioni militari che mettessero troppo a rischio la popolazione civile innocente. Questo ha aiutato a consolidare il movimento talebano, che poi ha allargato le sue alleanze, anche superando in alcuni casi alcune barriere etniche settarie che hanno sempre contraddistinto l’Afghanistan. La sconfitta del 2001 è stata la sconfitta non solo dell’Emirato, ma anche dei pashtun, cioè dell’etnia maggioritaria (con il 40%) dell’intero Paese. Questa è un po’ la rivincita anche da quella disfatta di 20 anni fa».

Qual è la narrativa sbagliata?

«Avere scambiato Kabul, Herat o Mazar-i-Sharif per tutto l’Afghanistan. Molte donne afghane in questi vent’anni avevano potuto tornare a scuola o entrare in politica, ma molto spesso nelle province le donne afghane hanno continuato a vivere secondo regole tradizionali oscurantistiche che hanno dominato la vita dell’Afghanistan nei secoli. E non solo con i talebani. Inoltre, si è pensato alla modernizzazione del Paese ma rivolgendosi soprattutto a un’élite politico-economica che poi ha dato vita a governi altamente corrotti. Questo, uno degli aspetti più superficiali della politica americana e occidentale in Afghanistan, ha determinato il fatto che la stragrande maggioranza degli afghani rimanesse fuori dal circuito economico e dalle aspirazioni a una vita migliore di un popolo che vive con un dollaro e mezzo al giorno. Ecco perché non solo si è disgregato l’esercito nazionale, ma addirittura le nuove generazioni afghane – su cui gli occidentali pensavano di puntare – alla fine hanno invece appoggiato i talebani. E non hanno fatto alcuna resistenza alla loro avanzata. Quindi la sconfitta americana e occidentale in Afghanistan non è solo militare ma anche ideologica, perché il processo di modernizzazione è completamente fallito. E oggi i jihadisti possono vantare due vittorie in 40 anni contro due superpotenze: una contro i sovietici, cioè contro il comunismo con l’appoggio degli americani, l’altra contro il sistema liberal-capitalistico».

Questa è stata una guerra sbagliata, quindi?

«Sono sempre sbagliate tutte le guerre che non si possono vincere. E soprattutto sono sbagliate le guerre che nella propaganda occidentale mirano a esportare la democrazia, ma dove nella realtà dei fatti c’è ben altro».

Ecco. Cos’altro c’è, nella realtà dei fatti?

«La missione del 2001 avrebbe dovuto “vendicare” l’11 settembre. Se si fosse limitata a quello, puntando soprattutto su Al Qaeda, si sarebbero risparmiati molto tempo e molti morti. Invece si è pensato, abbattendo il regime dei talebani, di imporre un modello occidentale a un Paese che ha rifiutato questi modelli e li aveva già rifiutati nella storia. In realtà, gli americani avevano pensato di mettere una postazione strategica nel cuore dell’Asia, ai confini con l’Iran e con la Cina, nell’area di influenza della Russia e vicino al Pakistan, paese che ha creato i talebani – con il governo di Benazir Bhutto – come strumento di penetrazione in Asia centrale. Erano in Pakistan, non a caso, i generali che avevano i contatti con i talebani e con Osama Bin Laden: io ho intervistato capi talebani e jihadisti in clandestinità, nella lista nera degli Usa, alla periferia di Islamabad, non di Kabul. Quindi è stata un’operazione sbagliata anche da quel punto di vista!»

Che Afghanistan vedremo con questo Emirato II?

«Mentre il primo Emirato – che aveva la sua capitale a Kandahar – lo conoscevamo poco e male, questo secondo lo conosciamo perfettamente. Gli americani ci hanno combattuto per anni contro e poi ci hanno trattato a Doha. Oltretutto questo secondo Emirato ha una rete di relazioni internazionali molto più estesa del precedente. A trattare con i talebani in Qatar andavano turchi, iraniani, russi, cinesi… Non stupisce infatti che questi paesi abbiano ancora le ambasciate perfettamente funzionanti. Questo Emirato probabilmente sarà radicale nei metodi e nell’ideologia, come il precedente, ma più pragmatico nei rapporti internazionali».

Perché?

«Perché dovrà governare il Paese. Dovrà assicurare la stabilità e il controllo sul territorio, ma dovrà anche far funzionare la macchina statale. E per questo servono i soldi. Finora i soldi arrivavano da statunitensi ed europei».

E ora quali saranno i partner dei talebani?

«La Cina è uno dei partner più probabili dal punto di vista economico. Con la Via della Seta sta investendo dozzine di miliardi di dollari in Pakistan (il maggior alleato dei talebani) e in Iran, ha già investito nelle miniere in Afghanistan ed è politicamente interessata acché gli afghani non destabilizzino la popolazione musulmana degli uiguri nel confinante Xinjiang».

Quali altri?

«La Russia vorrà avere la sua influenza. Poi l’Iran, che ha incontrato e forse appoggiato più volte i talebani e che ora si aspetta un comportamento più corretto nei confronti della popolazione afghana sciita. Poi ci sono i paesi arabi del Golfo: prima di tutto gli Emirati Arabi Uniti (già oggi il maggior partner commerciale dell’Afghanistan), il Qatar e l’Arabia Saudita. Su di loro i talebani puntano per fare cassa».

Come potrà essere strutturato questo Emirato II?

«Il primo ruotava intorno alla figura carismatica del Mullah Omar. Questo è un po’ diverso, perché non c’è un leader carismatico. C’è un leader, l’emiro Akhundzada, che è capo politico-militare ma anche religioso. Poi c’è una parte più pragmatica, costituita da suoi vice: Baradar, la rete Haqqani, Yaqoob (il figlio del Mullah Omar) … Quindi si può delineare una struttura in due modi: un capo supremo e una struttura di governo che si occupa delle questioni politiche e di gestione del Paese, un po’ all’iraniana».

In questi giorni si parla molto della condizione delle donne e si vedono immagini dell’esperienza socialista afghana di alcuni decenni fa, con donne a viso completamente scoperto per esempio, che stridono con la situazione attuale…

«La presenza sovietica in Afghanistan è stata molto forte ed è durata a lungo, anche negli anni ’60-’70. Il partito comunista afghano (il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan) nel 1979 chiese aiuto all’Urss, che invase l’Afghanistan il 24 dicembre 1979 per sostenere la guerra contro i mujaheddin allora sostenuti dagli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita e dal Pakistan. C’erano già dei forti piani di modernizzazione all’epoca, prima dell’intervento dell’Urss: la riforma agraria e dell’istruzione per esempio. L’attuale università di Kabul è a forma di stella rossa! In quell’università era da vent’anni che andavano a studiare non solo gli uomini ma anche le donne, che giravano a capo scoperto e persino con la minigonna. Nel 1975 a Kabul ci fu il primo concerto rock dell’Asia centrale! Se è vero che i russi furono costretti a ritirarsi nel 1989, il governo afghano resistette per tre anni prima di cadere, fino al 1992. Poi le truppe dei mujaheddin entrarono a Kabul e impiccarono l’ex presidente Najibullah a un lampione».

Questo cosa ci dice di oggi?

«Allora, come in questi ultimi 20 anni, anche i russi puntarono a creare un’élite per tenere in piedi lo stato afghano. Ma quell’élite era molto più convinta, coesa e larga di quella creata dagli americani, altrimenti quel governo non sarebbe resistito da solo, senza l’aiuto di Mosca, per tre anni. Invece la modernizzazione applicata negli ultimi 20 anni si è sciolta come neve al sole, perché questa élite è subito scappata e non ha difeso le istituzioni impiantate dagli occidentali».

Ci sono coincidenze tra la fuga da Saigon, in Vietnam, nel 1975 e quella di questi giorni da Kabul?

«No. L’apparenza delle immagini ci fa sfuggire tantissime differenze. Innanzitutto quella guerra fu combattuta dagli Usa con un esercito di leva e ci morirono decine di migliaia di soldati americani. La guerra in Afghanistan invece non ha coinvolto gli americani emotivamente. Contro la guerra in Vietnam, poi, c’era un grande coinvolgimento nelle proteste, anche qui in Italia. Per l’Afghanistan quante manifestazioni si sono viste?»

Le colture di oppio erano state quasi azzerate prima dell’intervento degli Usa del 2001. Poi è andata diversamente…

«Oggi la produzione è 10-12 volte superiore a quella del primo Emirato talebano, con un’estensione quasi pari a quella della Lombardia. La produzione di oppio è una delle basi “economiche” del Paese, oltre all’estrazione mineraria. In Afghanistan ci sono diversi minerali che fanno gola alla Cina».

Si può dire, in definitiva, che la guerra in Afghanistan è il più grosso fallimento della Nato?

«L’Alleanza atlantica, a dispetto del nome, è andata a fare guerre ben lontane, ma gli errori non finiscono. Ora la missione Usa in Iraq sarà sostituita da una missione Nato, il cui prossimo comando sarà preso dall’Italia. Il fallimento Usa e Nato in Afghanistan dovrebbe far riflettere su come noi accettiamo supinamente missioni militari e guerre senza mai opporci».

Chi si opponeva era Gino Strada, morto pochi giorni fa.

«Gli ipocriti che hanno incensato Gino Strada in questi giorni sono gli stessi che sostennero gli interventi militari americani nel 2001 e soprattutto nel 2003, oltretutto sulla base della fake news più colossale della storia: le armi di distruzione di massa che non vennero mai trovate. Cosa andiamo a fare in queste guerre? A esportare la democrazia? I diritti umani? Questi argomenti sono ridicoli, servono a giustificare le cannonate su interi paesi che potremmo aiutare senza sparare un colpo».

Come?

«Per esempio con aiuti alla cooperazione, con aiuti sanitari o con aiuti nel campo dell’istruzione. In Afghanistan è difficile andare a scuola non solo per le ragazze ma anche per i ragazzi, perché il sistema scolastico statale è completamente crollato in questi 20 anni. E dove andavano a studiare i ragazzi? Nelle madrasse, le scuole islamiche. Ecco un altro motivo che ci spiega perché i talebani hanno fatto larga propaganda. L’Afghanistan è il motore concreto dei fallimenti successivi: in Iraq, in Libia, in Siria etc. Queste guerre mascherate da interventi umanitari hanno ridotto intere regioni nel caos. La “strategia del caos” l’ha teorizzata Hillary Clinton da Segretario di Stato Usa. E gli effetti di questi disastri li vediamo qui nel Mediterraneo».

 

L’Afghanistan irrompe all’interno della Casa Bianca; un resoconto_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto un resoconto dettagliato dei momenti frenetici che hanno colto, per meglio dire travolto il Presidente Biden e lo staff della Casa Bianca al precipitare della crisi in Afghanistan. Si possono mettere certamente in conto le carenze delle modalità operative dei servizi di intelligence, ormai sempre più incentrate sugli strumenti digitali ed informatici e meno sull’uso degli strumenti classici di presenza, influenza e infiltrazione; si potrà parlare del distacco crescente dei più alti livelli decisionali dalla realtà concreta e delle modalità di selezione di questi; si potrà indugiare sullo spirito messianico che impregna l’azione politica americana, atteggiamento che collide spesso con il realismo nei comportamenti. Elementi però insufficienti a spiegare esaustivamente l’enormità di quanto successo a Kabul. La disfatta in Afghanistan sul terreno non è probabilmente così disastrosa ed irreversibile come potrebbe sembrare; rimane disastrosa per l’immagine e l’autorevolezza offerti con una buona dose di sprezzo del ridicolo dagli Stati Uniti agli avversari ed agli alleati, spingendo i primi probabilmente ad un maggiore dinamismo e i secondi ad una minore sicumera. Il rischi di passi più lunghi delle proprie gambe da parte dei vari attori si accentuano e con esso l’eventualità di un risveglio dal torpore del vecchio leone. E’ poco verosimile che settori e centri decisionali determinanti all’interno degli USA non fossero al corrente della reale situazione in Afghanistan, vista la presenza per altro di decine di migliaia di operatori ancora sul terreno. Forse la chiave di lettura principale va però ancora una volta individuata nella natura e nelle modalità dello scontro politico interno alla classe dirigente americana; conflitto che sta dividendo ed anche frammentando quella compagine sociale. E’ noto che lo scontro politico interno ad un paese egemone ha una grande influenza e condiziona pesantemente le dinamiche geopolitiche rispetto alle fibrillazioni fine a se stesse che travolgono la superficie politica di paesi ininfluenti come l’Italia.

Questa vicenda rappresenta visivamente qualcosa di molto più importante che già trapela da tempo nelle dinamiche politiche statunitensi e che questo sito sta costantemente rilevando ormai da anni. Lo scontro politico interno ha assunto livelli così distruttivi da arrivare a strumentalizzare e manipolare eventi rilevanti come quelli in Afghanistan, anche nelle sue pieghe negative, in funzione dell’ascesa e della caduta di uomini e settori politici. Quello odierno rappresenta probabilmente il punto di non ritorno del presidente americano in carica. Lo spirito umanitario, buonista e le feroci critiche sull’inettitudine operativa e previsionale che stanno pervadendo la campagna mediatica ai danni di Biden, promossa dai principali organi di informazione americani, in prima linea NYT, WP e CNN e portata avanti per riflesso condizionato dai corifei europei non deve ingannare. Contribuirà a far emergere definitivamente figure politiche, quali Kamala Harris, di fazioni opposte all’interno dello stesso gruppo dominante, ma talmente scialbe da essere del tutto inadeguate nella definizione ed attuazione delle scelte strategiche. Talmente insipide, appunto, che l’eventualità di un ritorno di vecchie, ma ancora potenti cariatidi è un’ipotesi niente affatto peregrina. Pare infatti che il Primo Ministro Canadese Justin Trudeau, in assenza di interlocutori affidabili, abbia avuto una lunga telefonata con Hillary Clinton, una ex con insopprimibili ambizioni di ritorno, ma ancora fuori dal giro degli incarichi ufficiali; il disastro della ritirata dall’Afghanistan metterà sicuramente in secondo piano il disastro dell’uccisione del console americano di Bengasi, la macchia che ha segnato le ambizioni politiche della Clinton. Occorreranno probabilmente eventi ancora più catastrofici per arrivare ad una condizione politica interna risolutiva e ad una definizione più coerente delle linee strategiche. Una situazione, quindi, al momento di probabile ulteriore progressiva decomposizione della quale continueremo a parlare appena possibile soprattutto con Gianfranco Campa. Nelle more più gli europei attenderanno, più precari saranno i relitti ai quali aggrapparsi al momento del naufragio_Buona lettura, Giuseppe Germinario

“Questo sta realmente accadendo”

Nei cinque giorni di affanno all’interno della squadra di Biden durante il crollo dell’Afghanistan.

President Joe Biden speaks at the White House. From left, Secretary of Defense Lloyd Austin, Vice President Kamala Harris, Biden, Secretary of State Antony Blinken and White House national security adviser Jake Sullivan.

Il presidente Joe Biden parla dell’evacuazione dei cittadini americani, dei richiedenti SIV e degli afghani vulnerabili nella Sala Est della Casa Bianca, venerdì 20 agosto 2021. Da sinistra, il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il vicepresidente Kamala Harris, Biden, segretario dello Stato Antony Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan. | Manuel Balce Ceneta/AP Photo
Con l’aiuto di Oriana Pawlyk, Daniel Lippman e Lara Seligman

Benvenuti al National Security Daily , la newsletter di POLITICO sugli eventi globali che agitano Washington e tengono sveglia l’amministrazione di notte. Sono Alex Ward, la tua guida su ciò che sta accadendo all’interno del Pentagono, dell’NSC e della macchina della politica estera di Washington.

Il presidente Joe Biden e la sua cerchia ristretta erano di ottimo umore.

Era mercoledì mattina, 11 agosto, e si stavano crogiolando nel bagliore delle vittorie legislative consecutive. Il giorno prima, il Senato aveva approvato un disegno di legge bipartisan per le infrastrutture da 1,2 trilioni di dollari. E nelle prime ore di mercoledì mattina, hanno assistito all’avanzamento di un quadro da 3,5 trilioni di dollari per finanziare l’agenda sociale dei Democratici.

Guardando il conteggio dei voti del Senato davanti a uno schermo televisivo nella sala da pranzo privata del presidente , Biden e il vicepresidente Kamala Harris hanno alzato i pugni in segno di trionfo. Il fulcro della loro agenda interna aveva cominciato a prendere posto.

Biden non vedeva l’ora che le sue vacanze estive iniziassero tra pochi giorni, compresi alcuni periodi di inattività a Camp David e nella sua casa vicino alla spiaggia nel Delaware. Nel frattempo, anche molti membri dello staff senior e di medio livello dell’ala ovest si stavano preparando per un po’ di tempo libero, impostando le loro risposte via e-mail “fuori sede”. “È una città fantasma”, ha detto un funzionario della Casa Bianca, descrivendo la scena nell’ala ovest.

Ma mentre la Casa Bianca stava compiendo un gigantesco giro di vittoria sui suoi successi interni, un disastro incombeva dall’altra parte del mondo in Afghanistan.

Questo resoconto di cinque giorni caotici a metà agosto si basa su interviste con 33 funzionari e legislatori statunitensi, molti dei quali hanno parlato a condizione di anonimato per descrivere discussioni interne delicate.

Mercoledì mattina – crepuscolo in Asia centrale – il già fragile controllo del governo afghano sul paese devastato dalla guerra si stava rapidamente disfacendo di fronte a una rapida offensiva talebana in coincidenza con il ritiro quasi completo delle truppe statunitensi ordinato da Biden ad aprile.

Pochi giorni prima, il gruppo militante aveva occupato il capoluogo di provincia di Zaranj, il primo di molti a cadere in una guerra lampo che ha sbalordito i funzionari americani con la sua velocità e ferocia.

Molti dei migliori diplomatici e generali americani stavano ancora operando con il presupposto di avere tutto il tempo per prepararsi a un’acquisizione del paese da parte dei talebani: potrebbero passare anche un paio d’anni prima che il gruppo sia in grado di riconquistare il potere, molti pensavano. Sebbene alcuni funzionari militari e agenzie di intelligence avessero intensificato i loro avvertimenti sulla possibilità di un crollo del governo, i funzionari si sentivano fiduciosi nella strategia delle forze di sicurezza afghane di consolidarsi nelle città per difendere i centri abitati urbani.

E poche ore prima, Biden aveva espresso pubblicamente la speranza che i talebani sarebbero stati tenuti a bada dall’esercito afghano. “Penso che ci sia ancora una possibilità”, ha detto ai giornalisti alla Casa Bianca martedì. (Un mese prima, Biden aveva affermato che un’acquisizione completa dei talebani era “altamente improbabile”.)

Poi, mercoledì, le forze di sicurezza afghane hanno in gran parte abbandonato le province di Badakhshan, Baghlan e Farah all’esercito guerrigliero dei talebani. Mentre altre aree del paese erano già cadute, era chiaro che il ritmo stava accelerando.

Il presidente e i suoi migliori collaboratori avevano ancora un’altra riunione in programma per mercoledì sera, una sessione pre-programmata su una questione di sicurezza nazionale classificata. Quando la notizia del deterioramento della situazione è giunta allo Studio Ovale quella mattina, Biden ha ordinato che l’incontro in prima serata si concentrasse sull’Afghanistan.

La squadra di sicurezza nazionale di Biden aveva già tenuto dozzine di incontri sull’Afghanistan. Ma questo incontro segreto, tenuto nella Situation Room della Casa Bianca, il centro operativo sicuro nel seminterrato dell’ala ovest, stava arrivando in un momento cruciale.

Seduti intorno al grande tavolo da conferenza c’erano Harris; il segretario alla Difesa Lloyd Austin; il presidente dei capi congiunti, il generale Mark Milley; Vicepresidente dei capi congiunti Gen. John Hyten; il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e il suo vice Jon Finer; Direttore dell’Intelligence Nazionale Avril Haines; capo del personale Ron Klain; il vicedirettore della CIA David Cohen; Liz Sherwood Randall, consigliere per la sicurezza interna del presidente; e altro personale della Casa Bianca e della sicurezza nazionale. Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato per telefono.

L’atmosfera era drammaticamente diversa dallo spirito celebrativo mostrato poche ore prima nella sala da pranzo. “È stato un momento serio”, ha ricordato un alto funzionario.

Gli eventi stavano diventando così disastrosi che il presidente ordinò ad Austin e Milley di preparare un piano per schierare truppe aggiuntive nella regione, dove avrebbero rinforzato quelle messe in attesa mesi prima per evacuare il personale americano.

Austin era diventato così allarmato che aveva già convocato il primo di quelli che sarebbero diventati incontri due volte al giorno sull’Afghanistan nella sala di videoconferenza sicura al terzo piano del Pentagono, nota come “cavi” del segretario. Erano presenti i massimi dirigenti civili e militari del dipartimento; altri pezzi grossi, come il generale Frank McKenzie, il capo del comando centrale degli Stati Uniti, e il contrammiraglio Pete Vasely, il comandante delle forze sul campo in Afghanistan, hanno chiamato tramite video protetto.

Nella Situation Room, Biden ha anche ordinato al Dipartimento di Stato di espandere l’evacuazione degli alleati afgani – quelli che avevano lavorato con gli americani e ora erano in pericolo di morte – per includere l’uso di aerei militari, non solo aerei civili noleggiati. Il presidente era già stato oggetto di pesanti controlli al Congresso per la lentezza delle evacuazioni per gli afgani che hanno prestato servizio come interpreti e traduttori per le forze armate statunitensi durante i 20 anni di conflitto.

Biden ha anche chiesto ai suoi funzionari dell’intelligence di preparare una valutazione aggiornata sulla situazione in Afghanistan entro la mattina seguente.

Dopo lo scioglimento della riunione, è stata inviata un’e-mail riservata ai membri dello staff competenti per la convocazione alle 7:30 del giorno successivo. L’e-mail è stata inviata così tardi che anche il personale della Situation Room ha iniziato a chiamare quegli assistenti per assicurarsi che fossero puntuali giovedì mattina.

“Ricordo come sembravano tutti intontiti”, ha ricordato un funzionario mentre il gabinetto di sicurezza nazionale di Biden si è riunito giovedì mattina presto. Il sole era sorto solo un’ora prima, ma la Situation Room, il centro operativo senza finestre situato nelle profondità dell’ala ovest, era già brulicante di attività.

Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale, era lì con altro personale della Casa Bianca, mentre i membri del governo hanno partecipato tramite collegamenti sicuri.

La riunione dei dirigenti è iniziata con un briefing dell’intelligence concludendo che la situazione era così “fluida” che la sede del potere del governo afghano a Kabul potrebbe cadere “entro settimane o giorni”, ha osservato il funzionario.

Questo era molto diverso dalle valutazioni su cui si basavano i funzionari pochi giorni prima che stimavano che un’acquisizione talebana avrebbe richiesto mesi, o anche fino a due anni, dopo il ritiro delle truppe americane e della NATO. Di recente, l’8 agosto, McKenzie ha inviato ad Austin una nuova stima più pessimistica: che Kabul potrebbe essere isolata entro 30 giorni.

“È stato un incontro piuttosto deludente”, ha detto il funzionario. “Pensavamo di avere mesi davanti a noi per abbattere l’ambasciata e fare l’elaborazione e il trasferimento”.

Ma giovedì mattina a Washington, più centri abitati stavano cadendo in mano ai talebani di ora in ora, compresi i capoluoghi di provincia di Ghazni e Badghis.

Nella Situation Room, Austin stava ora raccomandando a Biden di inviare truppe per evacuare l’ambasciata e proteggere il principale aeroporto internazionale di Kabul. Sullivan ha chiesto a ciascun membro del gabinetto durante la riunione di intervenire. Hanno concordato all’unanimità.

Quello era il momento “oh, merda”, ha detto il funzionario americano. Ormai era ufficialmente una crisi.

Sullivan è entrato nello Studio Ovale poco prima delle 10 per fare rapporto al presidente. Biden prese il telefono e disse ad Austin di inviare le truppe preposizionate.

Anche in tutta Washington, il Congresso stava diventando sempre più allarmato dal deterioramento della situazione. In alcuni casi, i legislatori si sono presi la responsabilità di saperne di più su ciò che stava accadendo, in assenza di una guida da parte dell’amministrazione Biden.

Il giorno prima, mentre il Senato passava a una serie di voti della durata di un’ora e durante la notte su uno dei principali punti dell’agenda interna di Biden, i senatori che guidavano lo sforzo sono stati ritirati dalle riunioni e dall’aula del Senato dove sono stati informati sui rapporti inquietanti in arrivo fuori dall’Afghanistan. Alcune di quelle storie e immagini terrificanti hanno cominciato a emergere nelle prime ore di mercoledì mattina, quando i senatori sono rimasti a terra dopo le 4 del mattino.

Uno dei pochi legislatori che parlavano attivamente degli sviluppi in Afghanistan all’epoca era il senatore democratico Chris Murphy del Connecticut, un sostenitore di lunga data del ritiro delle truppe statunitensi. Martedì era andato in Senato per difendere preventivamente Biden e affermare che l’ondata dei talebani era in effetti un motivo per mantenere la rotta con il ritiro.

“Il completo, totale fallimento dell’esercito nazionale afghano, in assenza della nostra mano nella mano, per difendere il loro paese è un’accusa feroce di una strategia ventennale fallita basata sulla convinzione che miliardi di dollari dei contribuenti statunitensi potrebbero creare una centrale efficace e democratica governo in una nazione che non ne ha mai avuto uno”, ha detto Murphy.

I legislatori hanno iniziato a discutere tra di loro delle conquiste dei talebani al Senato fino a mercoledì, ma nessuna delle parti ha permesso di mettere in ombra i loro sforzi di politica economica.

Il rappresentante Michael Waltz (R-Fla.), il primo berretto verde a servire al Congresso e una delle prime e più forti voci che spingono per l’evacuazione degli alleati afghani, era in costante comunicazione con i funzionari legati al presidente afghano Ashraf Ghani. Anche se mercoledì i talebani stavano conquistando vaste aree di territorio, Waltz ha affermato che le forze afgane credevano di “poter capovolgere la situazione” finché gli Stati Uniti avessero continuato a fornire supporto aereo.

Quel sostegno non è stato sufficiente quando l’esercito afghano ha deposto le armi in massa. In un’intervista, Waltz ha descritto il supporto aereo tiepido come “mettere un cerotto su una ferita al petto risucchiante”.

Più tardi giovedì, verso l’ora di pranzo, un funzionario della Casa Bianca ha chiamato il rappresentante Jason Crow (D-Colo.), un membro dei comitati dei servizi armati e dell’intelligence, per fornire un aggiornamento sul deterioramento della situazione.

Crow, un ex ranger dell’esercito che ha prestato servizio in Afghanistan, faceva parte di un gruppo bipartisan di legislatori che da mesi sollecitavano l’amministrazione Biden a muoversi più velocemente per evacuare gli afgani che hanno aiutato lo sforzo bellico degli Stati Uniti.

Sia Crow che Waltz credevano ormai che, in assenza di una drammatica accelerazione delle evacuazioni, era improbabile che gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di portare in sicurezza tutti gli alleati americani e afghani fuori dal paese prima della scadenza del 31 agosto di Biden.

Giovedì sera, il Pentagono ha annunciato che altre 3.000 truppe sarebbero state portate d’urgenza per mettere in sicurezza l’aeroporto internazionale Hamid Karzai di Kabul e aiutare a far uscire in sicurezza dal paese i restanti americani, così come gli alleati afghani e della NATO.

“Kabul non è in questo momento in un ambiente di minaccia imminente, ma chiaramente … se guardi solo a ciò che i talebani hanno fatto, puoi vedere che stanno cercando di isolare”, ha detto ai giornalisti il ​​portavoce del Pentagono John Kirby.

Biden settimane prima aveva approvato tutte le raccomandazioni di Austin per posizionare risorse navali e migliaia di truppe nella regione in caso di evacuazione, inclusa la portaerei USS Ronald Reagan e tre battaglioni di fanteria.

Ma quasi subito, è diventato chiaro che non sarebbe bastato.

Brad Israel, un ex berretto verde che ha servito più tour in Afghanistan, giovedì sera ha ricevuto un’e-mail frenetica dal suo ex interprete afghano.

Il giorno prima, l’uomo è stato costretto a fuggire da Kandahar dopo che i talebani hanno bruciato la sua casa – inclusa la distruzione delle prove documentali della sua domanda di asilo negli Stati Uniti – e hanno giustiziato suo fratello.

Israele ha inviato un’e-mail all’indirizzo elencato sul sito Web del Dipartimento di Stato per scoprire come il suo amico potrebbe inviare nuovamente la sua domanda di visto, solo per il messaggio di rimbalzo: “La casella di posta del destinatario è piena e non può accettare messaggi ora”. Un portavoce del Dipartimento di Stato non ha risposto alla richiesta di spiegare il motivo.

Anche lo sforzo diplomatico degli Stati Uniti per gestire un ritiro ordinato dall’Afghanistan stava andando in pezzi.

I funzionari dell’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul avevano concluso venerdì che non avevano altra scelta che chiudere l’avamposto diplomatico americano. Hanno ordinato al personale di iniziare immediatamente la “distruzione di emergenza” di tutti i documenti e materiali sensibili.

Ciò includeva l’incenerimento di bandiere americane e altri loghi del governo degli Stati Uniti “che potrebbero essere utilizzati in modo improprio negli sforzi di propaganda”, secondo un promemoria rilasciato al personale dell’ambasciata. E, secondo il rappresentante Andy Kim (DN.J.), tra i documenti bruciati c’erano i passaporti dei cittadini afgani che avevano richiesto i visti americani, rendendo quasi impossibile identificarli mentre cercano di lasciare il paese nei prossimi giorni.

Tornato a Washington, Tracy Jacobson, capo della Task Force Afghanistan del Dipartimento di Stato, ha informato Crow per telefono sulla risposta pianificata dell’amministrazione.

Crow si diresse verso una struttura di informazioni compartimentata sensibile situata nel seminterrato del Campidoglio, dove rivedeva gli ultimi rapporti dell’intelligence segreta da Kabul.

Anche i leader del Congresso stavano tenendo sotto stretto controllo la situazione. Il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell (R-Ky.) ha detto al conduttore radiofonico Hugh Hewitt questa settimana che era in contatto con i leader militari che erano “accecati”.

Settimane prima, l’esercito americano aveva abbandonato la base aerea di Bagram, a lungo il cuore pulsante delle operazioni americane in Afghanistan. Con solo poche migliaia di soldati rimasti indietro, i funzionari del Pentagono hanno deciso che non potevano tenere al sicuro la struttura tentacolare mentre difendevano l’ambasciata e l’aeroporto di Kabul.

I piani prevedevano invece l’uso di elicotteri per trasportare gli americani dal complesso dell’ambasciata nel centro di Kabul all’aeroporto internazionale di Hamid Karzai, a poche miglia di distanza, piuttosto che rischiare di rimanere impantanati o tendere un’imboscata nel traffico intasato della capitale afgana. Significherebbe rischiare esattamente il tipo di scene caotiche che Biden aveva promesso che non sarebbe accaduto: immagini indelebili, in stile Saigon, dell’America in ritirata.

“Venerdì pomeriggio mi era chiaro che stavamo rapidamente perdendo il controllo della situazione nella capitale, nell’aeroporto, e che l’operazione di evacuazione era a rischio”, ha detto Crow.

Gli è stato anche detto che il Pentagono “avrebbe accelerato rapidamente l’evacuazione in termini di quantità di persone, ma anche di chi stavano cercando di evacuare”.

Ma questo significava decidere quali americani e alleati afgani rimasti bloccati a Kabul dovessero essere evacuati per primi.

Il Pentagono non aveva un elenco completo degli afgani che hanno lavorato a fianco degli Stati Uniti durante la guerra. I funzionari stavano ancora compilando una “lista di priorità” di interpreti da evacuare.

Ciò è avvenuto nonostante i ripetuti avvertimenti, incluso un appello bipartisan a Biden all’inizio di giugno che esprimeva crescente preoccupazione “che non hai ancora ordinato che il Dipartimento della Difesa sia mobilitato come parte di un piano di governo completo e attuabile per proteggere i nostri partner afghani. “

Nel frattempo, sul campo in Afghanistan, Vasely era in contatto diretto con Ghani o il suo staff quasi ogni giorno. Anche Austin e Blinken hanno parlato con Ghani, ma non ha dato alcuna indicazione che avrebbe lasciato bruscamente il paese.

“Si è presentato come disposto a rimanere e combattere”, ha detto un funzionario della difesa.

Quella promessa si è rivelata di breve durata.

Sabato, il National Military Command Center, il centro operativo globale altamente sicuro sotto il Pentagono, è stato bloccato dal traffico di messaggi.

L’ultimo domino caduto nelle mani dei talebani è stato il centro commerciale settentrionale di Mazar-e-Sharif. Stava diventando chiaro che Kabul sarebbe stata la prossima. Ufficiali militari esperti hanno espresso incredulità sul fatto che le forze afghane sembravano pronte a rinunciare alla loro capitale senza combattere.

“L’e-mail stava esplodendo a destra e a manca [con la gente che diceva] ‘Wow, sta succedendo proprio ora’”, ha detto un funzionario della difesa. “Questa cosa è appena andata in pezzi durante il fine settimana.”

I funzionari del Pentagono si sono resi conto troppo tardi che i talebani avevano condotto un’efficace campagna di influenza oltre a quella fisica, sfruttando le dinamiche tribali per costruire legami con gli anziani del villaggio e altri che hanno svolto ruoli chiave nella marcia per lo più incruenta del gruppo attraverso il paese.

Allo stesso tempo, l’esercito americano aveva meno di 2.500 soldati rimasti – non abbastanza per capire quanto velocemente il morale e la coesione dell’esercito nazionale afghano si stessero sgretolando.

“Nessuno è rimasto sorpreso dal fatto che si siano piegati come un mazzo di carte, ma solo per la velocità: è semplicemente evaporato”, ha detto il funzionario.

Un altro funzionario della difesa ha scritto in cima al suo taccuino per la giornata: “Caduta di Kabul”.

Alla luce del deterioramento della situazione, quella mattina Biden aveva approvato la raccomandazione di Austin di inviare altri 1.000 soldati dell’82a divisione aviotrasportata per aiutare a evacuare il personale da Kabul. Altri due battaglioni erano in viaggio verso la regione per schierarsi in Kuwait come riserva pronta.

Biden era ancora a Camp David, vestito con pantaloni color cachi e una polo e accompagnato solo da alcuni aiutanti più giovani. In una lunga dichiarazione, ha annunciato i movimenti delle truppe e altri passi che l’amministrazione si stava affrettando a compiere, quindi ha fatto perno su una strenua difesa della sua decisione di ritiro.

“Sono stato il quarto presidente a presiedere una presenza di truppe americane in Afghanistan: due repubblicani, due democratici”, ha detto. “Non vorrei, e non lo farò, passare questa guerra a un quinto.”

Entro domenica 15 agosto, Austin, Milley e il loro staff hanno tenuto telefonate frettolosamente organizzate con i legislatori per discutere della situazione.

Durante una di queste telefonate, i funzionari militari hanno riferito che un alleato chiave di Ghani, il vicepresidente del parlamento afghano, aveva disertato per diventare capo della polizia dei talebani a Kabul.

“È stato allora che abbiamo capito che era davvero FUBAR”, ha detto un anziano aiutante democratico , usando l’acronimo militare per “incasinato oltre ogni riconoscimento”.

Milley ha anche avvertito i legislatori che con l’ascesa dei talebani, c’era anche la minaccia che al Qaeda, lo Stato Islamico e altri gruppi terroristici che cercavano di attaccare gli Stati Uniti potessero essere ancora una volta in grado di complottare dal territorio afghano.

Nel frattempo, Austin aveva autorizzato altri due battaglioni dell’82a divisione aviotrasportata a dirigersi direttamente a Kabul invece di fare scalo in Kuwait, portando il totale ordinato di confluire nella capitale a circa 6.000 soldati.

Ma per molti versi era troppo tardi. I combattenti talebani avevano già preso la città orientale di Jalalabad senza combattere, circondando efficacemente Kabul, e stavano iniziando ad entrare nella capitale con poca resistenza.

In rapida successione domenica, Ghani è fuggito dal Paese, i talebani sono entrati nel palazzo presidenziale e hanno posato per dei selfie nel suo ufficio. L’aeroporto si stava rapidamente trasformando in un campo profughi, invaso da migliaia di frenetici afgani che chiedevano a gran voce di fuggire, alcuni addirittura disposti ad aggrapparsi agli aerei in rullaggio sulla pista. Le immagini satellitari hanno mostrato minuscoli punti raggruppati attorno all’asfalto, simboli viventi di disperazione e disperazione.

Alla fine della giornata, la bandiera americana non sventolava più sull’ambasciata degli Stati Uniti. Diplomatici stranieri hanno pubblicato selfie online dall’interno degli elicotteri Chinook, mentre i fotografi hanno catturato lo spettacolo da lontano. E le truppe americane fresche in viaggio verso Kabul avrebbero protetto un aeroporto nel caos.

I membri del gabinetto di Biden e i loro vice avevano tenuto circa tre dozzine di riunioni di “pianificazione dello scenario” dopo l’annuncio del presidente di aprile che le truppe statunitensi sarebbero state fuori dall’Afghanistan entro l’11 settembre.

Hanno trattato di tutto, da come proteggere l’ambasciata degli Stati Uniti e gestire i rifugiati afgani a come posizionare al meglio l’esercito americano nella regione nel caso in cui le cose andassero fuori controllo Molte altre sessioni si sono tenute presso il Pentagono, il Comando Centrale degli Stati Uniti a Tampa, il Dipartimento di Stato e altre agenzie.

Ma non era ancora abbastanza per prepararsi al crollo totale, nel giro di pochi giorni, dello sforzo americano di due decenni, da 2 trilioni di dollari, progettato per sostenere il governo afghano. Biden aveva insistito che l’esercito afghano avrebbe combattuto; in gran parte no. Blinken aveva deriso l’idea che Kabul sarebbe caduta durante un fine settimana; eppure lo ha fatto. Il “momento Saigon” che Biden temeva fosse arrivato.

Anche se migliaia di truppe americane si affrettano a salvare il personale statunitense e gli afghani frenetici che temono per la propria vita, le domande su come il governo degli Stati Uniti sia stato colto così alla sprovvista stanno crescendo. Per anni, i rapporti delle autorità di vigilanza avevano avvertito che l’esercito afghano era pieno di corruzione, morale basso e cattiva leadership. Ma pochi hanno apprezzato quanto fosse grave.

Il Dipartimento della Difesa ha dichiarato di aver condotto un’esercitazione al Pentagono diverse settimane fa che includeva scenari di evacuazione dall’aeroporto di Kabul. Ancor prima, il 28 aprile, Austin convocò un’esercitazione nel centro di comando del Pentagono per provare le varie fasi del ritiro, inclusa la possibilità di evacuare i non combattenti. Ma i militari sono rimasti sorpresi dalla velocità con cui i talebani si sono impossessati della capitale.

“Non c’era niente che io o chiunque altro abbiamo visto che indicasse un crollo di questo esercito e di questo governo in 11 giorni”, ha detto Milley ai giornalisti mercoledì.

Il caos all’aeroporto di Kabul durante il fine settimana e all’inizio di questa settimana, con le operazioni di volo temporaneamente sospese dopo che i disperati afgani si sono precipitati sulla pista, ha sollevato dubbi sulla pianificazione dell’amministrazione Biden per il ritiro, incluso se sia stato un errore chiudere la base aerea di Bagram.

Milley ha difeso la decisione dell’esercito di chiudere Bagram, che ha due piste per l’aeroporto di Kabul, ma dista quasi 40 miglia dall’ambasciata. Con meno di 2.500 soldati rimasti a terra in quel momento, ha detto Milley, i funzionari hanno dovuto scegliere tra mettere in sicurezza Bagram e l’aeroporto commerciale.

“Abbiamo dovuto far crollare l’uno o l’altro, ed è stata presa una decisione”, ha detto Milley. Biden, in un suo discorso questa settimana, ha espresso una difesa a tutto tondo delle sue azioni, dicendo: “Sono fermamente dietro la mia decisione”.

“Dopo 20 anni”, ha aggiunto, “ho imparato a mie spese che non c’era mai un buon momento per ritirare le forze statunitensi”.

È in arrivo un resoconto completo di ciò che molti altri a Washington vedono come una debacle. Repubblicani e Democratici arrabbiati al Congresso hanno promesso di condurre una serie di udienze di supervisione, esaminando potenziali fallimenti dell’intelligence e precedenti valutazioni delle capacità dell’esercito afghano.

“Sembra che tutti [il Pentagono] e la comunità dell’intelligence siano stati colti alla sprovvista dalla velocità dell’avanzata dei talebani su Kabul”, ha detto il rappresentante Seth Moulton (D-Mass.), membro del Comitato dei servizi armati e un Veterano della guerra in Iraq. “Come è possibile? È stata una mancanza di risorse focalizzate sul problema? Fallimento della pianificazione di emergenza? Altro?”

“Avremmo dovuto essere preparati per questa contingenza e chiaramente non lo eravamo”, ha aggiunto Moulton. “Se facessi i semplici calcoli non potresti eseguire questa operazione nell’arco di pochi giorni, nemmeno di qualche settimana. E non ci sono scuse per questo”.

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