Poroshenko fuori, Zelensky dentro. Cambieranno le cose in Ucraina? Di Tom Luongo

Dopo Israele ci avviciniamo alle porte di casa. E’ la volta dell’Ucraina. Si vedrà se l’avvicendamento in Ucraina si risolverà in un mero regolamento di conti interno alla oligarchia imperante dovuto ai veri e propri espropri operati da Poroshenko ai danni di altri personaggi della sua stessa risma oppure si rivelerà il prodromo di una svolta politica essenziale per la sopravvivenza di quel paese_Giuseppe Germinario

 

Poroshenko fuori, Zelensky dentro. Cambieranno le cose in Ucraina?

Di Tom Luongo

 

Il danno incalcolabile che è stato procurato alla area geografica dell’Europa Orientale per cinici obiettivi geopolitici non potrà mai essere azzerato, ma può essere fermato.

Come quell’arte che imita la vita, le elezioni presidenziali in Ucraina si sono concluse con Volodymyr Zelenski, un personaggio televisivo, che ha raccolto una maggioranza straripante rispetto a Petro Poroshenko. Quindi, arrivo subito al punto: Queste elezioni cambieranno qualcosa?

L’Occidente ha investito una marea di risorse di tempo e denaro puntando decisamente su Poroshenko. Ma era già ovvio da molti mesi che non avrebbe conseguito un secondo mandato, indipendentemente da quello che Poroshenko si sarebbe inventato. Con Poroshenko uscito di scena, ora spetta a Zelensky mettere insieme un piano che va ben oltre il voto di protesta contro l’evidente corruzione del Presidente uscente. Il problema è che non abbiamo idea se sia; 1) capace di attuare questo piano;  2) se sia abbastanza forte da implementare una qualsiasi cosa ritenga necessaria.

Con il suo partito al disotto della soglia del 30%, è chiaro che questo responso non era un mandato a favore di Zelenski, quanto piuttosto un voto di protesta contro Poroshenko. È alta la probabilità che Zelensky non sarà in grado di formare un governo con maggioranza stabile e duraturain grado di sopravvivere almeno una anno, se la sua elezione si rivelerà, non una rivoluzione politica, quanto piuttosto un capriccio anti-Poroshenko da parte dell’elettorato Ucraino. Speriamo nel primo caso; dato però il profondo legame degli Stati Uniti con Poroshenko e Yulia Tymoshenko, scommetterei, sfortunatamente, su l’ultima opzione.

Quindi, i prossimi passi saranno importanti. E i problemi che dovrà affrontare sono seri: Dal Donbass, con il quale ha sempre auspicato una riconciliazione in contrasto con la bellicosità di Poroshenko, per finire con la Crimea. Zelensky dovrà affrontare un’enorme pressione politica nel risolvere questi problemi in modo realistico e pragmatico. Ciò significa riallacciare con la Russia legami distrutti da Poroshenko; legami che Zelensky afferma di voler ripristinare. La domanda da porsi è se Zelensky sia consapevole che gran parte del voto anti-Poroshenko è legato al rapporto Russia-Ucraina e quindi di conseguenza si renda cnto di quanto debole sia la sua posizione da presidente. Tutto ciò significa che avrà bisogno di guardare verso sud-est, in Pakistan, dove un uomo fuori dagli schemi tradizionali e presunto neofita politico, Imran Khan, sta affrontando problematiche equivalenti ad quelle di un campo minato in politica e geopolitica. Khan sta cercando di unire le armate civili e quelle militari pakistane sotto la guida di una unica entità; di conseguenza tutti sotto lo stesso ombrello amministrativo. Non è un compito da poco. Finora Khan si è comportato bene. Ha siglato accordi sia con l’Arabia Saudita per l’energia che con l’Iran sulla sicurezza delle frontiere / terrorismo. È sopravvissuto fino ad ora a provocazioni incendiarie con l’India e con l’Iran; operazioni cronometrate di depistaggio mirate a creare il massimo caos e a paralizzare il suo governo comprese le eventuali riforme che sta cercando di attuare.

In breve, Zelensky dovrà elevarsi a vero leader. Questo significherà parlare con Putin. Significherà rinunciare a qualcosa per mettere sotto scacco gli avvoltoi occidentali, sia negli Stati Uniti che in Europa. E ha bisogno di farlo in un modo che sia antitetico a quello di Poroshenko. Se Zelensky desidera sopravvivere politicamente e portare l’Ucraina fuori dal caos in cui si trova, dovrà rendersi conto che il riavvicinamento con la Russia è la strada da seguire.

Significa avere il coraggio di non fare richieste irragionevoli a Putin. Poroshenko ha trascorso l’ultimo anno della sua presidenza seminando trappole dietro di sé , trappole poste per chiunque gli sarebbe succeduto. Due di queste, le più evidenti sono: rompere il trattato di amicizia e attaccare il ponte sullo stretto di Kerch. Zelensky deve fermare le  operazioni militari nel Mare di Azov e accettare la responsabilità dell’incidente in cambio della liberazione dei marinai che la Russia detiene.

È inoltre necessario porre fine al bombardamento del Donbass, disimpegnarsi dalle linee di contatto e ritirarsi in linea con il trattato Minsk; smettere di mentire sulla reale situazione bellica. Questo farebbe già molto per stabilire una base di partenza per ridare un senso di fiducia a un rapporto seriamente compromesso. Ed è un passo facile da fare: Gli Ucraini, al di fuori della folle diaspora americana, lo desiderano fortemente. Non è rimasto neanche molto tempo perché il 2019 sta scivolando via e molti problemi rimangono irrisolti. Putin, la scorsa settimana, ha inasprito il blocco delle esportazioni di carbone e petrolio in Ucraina, collocando il paese in una posizione molto vulnerabile nel prossimo inverno. In aggiunta dalla fine di quest’anno scade l’accordo sul trasporto di gas.

Zelensky non manca di qualche asso nella manica da usare contro l’UE. Una UE che ha trascinato i piedi sulle approvazioni finali del gasdotto Nordstream 2. Questo è un momento cruciale: Gazprom e la Russia sono impegnate a fondo per il progetto, ormai quasi completo, ma l’UE sta cercando di lasciarlo incompiuto per infliggere il massimo danno alla Russia.

L’economia ucraina sta collassando. La produzione di carbone è in calo dell’8% su base annua. Putin lo sa e può stringere Zelensky in una morsa mortale.

Angela Merkel non ha fatto mistero di quanto sia importante il transito del gas attraverso l’Ucraina per convincere l’UE a cambiare le sue politiche nei confronti della Russia. E Vladimir Putin non parteciperà a negoziati su nuovi accordi finché l’Ucraina non cambierà linea.

Quindi, tutti questi eventi concomitanti stanno arrivando al culmine nei prossimi due mesi. Nel frattempo, tra un mese, ci saranno le elezioni parlamentari europee che potrebbero facilmente cambiare l’intera dinamica politica dell’Unione europea.

Gli euroscettici come Matteo Salvini potrebbero finalmente spingere per la fine delle sanzioni contro la Russia se Putin e Zelensky seppellissero l’ascia di guerra su alcune delle problematiche lasciate in eredità da Poroshenko. Il ritorno dei marinai Ucraini potrebbe far venir meno la ragione delle ultime sanzioni. Ritirare l’esercito ucraino dalla linea di contatto in conformità con l’ormai simbolico accordo di Minsk II potrebbe sciogliere la resistenza dell’UE alla revoca delle sanzioni.

Infine, il compimento di queste cose, aprirebbe la strada a un contratto di transito del gas tra Gazprom e Naftogaz che finirebbe per aggirare l’opposizione a Nordstream 2, in tanto che la Merkel spinge la Germania e la Danimarca a convalidare i permessi finali.

Ci sono ancora tanti punti interrogativi, lo so, ma questa è la strada che si apre di fronte a Zelensky se è seriamente intenzionato ad apportare sostanziali cambiamenti alla dinamica politica in Europa orientale. Il danno incalcolabile che è stato fatto alla regione per cinici obiettivi geopolitici non potrà essere annullato, ma può essere bloccato

 

https://www.strategic-culture.org/news/2019/04/25/poroshenko-out-zelensky-in-will-things-change-in-ukraine/

 

Poroshenko Out, Zelensky In. Will Things Change in Ukraine?

 

 

I PUNTI CHIAVE DELLE  ELEZIONI ISRAELIANE 2019, di A.J. Nolte

I PUNTI CHIAVE DELLE  ELEZIONI ISRAELIANE 2019

Democrazia | Israele | Medio Oriente e Nord Africa

Di primo impatto, i risultati delle elezioni israeliane del 2019 si allineano allo status quo che li ha preceduti. Al momento, Benjamin Netanyahu sembra probabile che riuscirà a costituire una coalizione molto simile a quella che attualmente governa Israele. Dietro la facciata, tuttavia, diversi cambiamenti sia nella sinistra che nella destra israeliana, potrebbero rivelare una mutazione radicale nel panorama politico di Israele. Più precisamente, come avevo accennato alla vigilia, vincere le elezioni potrebbe essere solo l’inizio del periodo più impegnativo di Netanyahu nella sua lunga carriera politica. All’interno di uno schema darò alcuni suggerimenti chiave sulle elezioni e analizzerò le sfide che il Primo Ministro Netanyahu potrebbe affrontare nelle settimane e nei mesi a venire.

Il crollo della sinistra

Le elezioni del 2019 rappresentano quello che possiamo definire un crollo storico della sinistra israeliana. Al momento, il venerabile partito laburista israeliano è sulla buona strada per ottenere solo un misero bottino di sei seggi nella Knesset. Meretz, il partito israeliano più a sinistra, che non si oppone apertamente al progetto sionista, riceverà quattro seggi. Per contrasto, il blocco identificato con la sinistra israeliana ha ora tanti seggi quanti quelli del ​​frammentato blocco arabo ed è probabile che possa esercitare un’influenza quasi nulla. Parte di questo collasso potrebbe essere un risultato temporaneo del voto tattico degli elettori di centro-sinistra i quali speravano di dare alla coalizione di centro-destra Bianco-Blu un numero sufficiente di seggi per renderli il naturale partito di governo. I sostenitori della sinistra israeliana possono quindi consolarsi con il pensiero di uno ricompattamento di schieramenti da parte degli elettori di sinistra nelle prossime elezioni con la speranza che i problemi di Netanyahu porteranno a nuove elezioni anticipate. Ma questa è una scommessa pericolosa, e maschera un problema più ampio per la sinistra israeliana: sono un movimento senza un messaggio e sembrano aver perso la fiducia dell’elettorato di centro israeliano.

Cosa fanno ora gli elettori arabi?

L’affluenza araba è stata dichiarata piuttosto bassa, il che ha, in una rappresentazione che potrebbe essere familiare al pubblico americano, spinto molti dei partiti arabi a dichiarare una presunta soppressione del voto arabo. Comunque sia, per i leader dei partiti politici arabo-israeliani, il calo della partecipazione è un segnale preoccupante. La lista di Hadash-Ta’al e la più radicale lista di Balad-Ra’am, si dividevano su piccolezze tecniche, con Hadash-Ta’al che accennava a una sua disponibilità a fornire un sostegno a Benny Gantz, mentre Balad-Ra’am tracciava un posizione politica alternativa, indipendente,  più militante e rigida. Il risultato? Hadash-Ta’al ha mancato di catturare seggi parlamentari e Balad-Ra’am ha superato appena la soglia per ottenere un seggio. Date queste realtà, forse vale la pena chiedersi se i partiti esclusivamente arabi siano davvero il veicolo più efficace per le aspirazioni politiche degli arabi israeliani. Questo esito segna la seconda elezione consecutiva nella quale elementi della destra israeliana hanno mobilitato i propri elettori basandosi sulla paura dei partiti arabi al governo. Dato che la realtà e il collasso della sinistra israeliana sono constatati sopra, la convergenza degli interessi di questi due gruppi sembra inevitabile, a scapito sia di Hadash-Ta’al che di Balad-Ra’am.

Che ora per Gantz?

La saggezza convenzionale è che questa elezione probabilmente segna il punto più alto della carriera politica di Benny Gantz. Quella bianco-blu, dopo tutto, è una coalizione problematica di partiti e personalità di centro-centrodestra, tenuti insieme dalla loro opposizione a Netanyahu e a molte delle sue politiche. La coalizione è un caleidoscopio di personalità incompatibili; Gantz crediamo che non avrà né la pazienza né l’interesse a interporsi con successo. Il sospetto è che per di più il partner della coalizione di Gantz, Ye’or Lapid, difficilmente rimarrà parte integrante a lungo termine della coalizione di opposizione. Eppure ci sono ragioni per essere scettici su questa analisi. In primo luogo, come verrà discusso in seguito, la vittoria elettorale di Netanyahu non significa che sia fuori dal pantano del pericolo giudiziario. Secondo, tutte queste problematiche avrebbero in ogni caso minato, a lungo termine, la coalizione di Gantz nel caso avesse vinto. In realtà, il futuro politico di Gantz rimane nelle sue mani. Sì, mantenere la sua faziosa coalizione insieme all’opposizione e dimostrarsi una presenza credibile sulla scena politica israeliana sarà una sfida difficile. Eppure, se ci riesce, Gantz potrebbe potenzialmente posizionarsi come il principale successore di Bibi. Ciò richiede pazienza, sapienza e abilità politiche; qualità che il neofita Gantz dovrà sviluppare al volo. Tuttavia, difficilmente sarebbe il primo generale israeliano a passare con successo e diventare un leader politico, o il primo politico israeliano a riprendersi da una sconfitta politica solo per tornare come primo ministro in seguito.

Giù con i movimenti secolari. Su con le parti religiose

Oltre a Netanyahu, i vincitori più chiari delle elezioni sono i partiti religiosi di destra, sia ultra-ortodossi che sionisti religiosi. Per coloro che non conoscono la nomenclatura, i partiti ultra-ortodossi hanno dato il via agli scettici del progetto sionista che si unirono alla politica negli anni ’80 e generalmente impegnati in una politica transnazionale volta a preservare lo status speciale del giudaismo ortodosso nello stato israeliano. Le parti si dividono lungo linee etniche, con Shas che rappresenta il Sephardi e l’UTJ che rappresentano le varie comunità ashkenazite. Al contrario, i partiti sionisti religiosi accettano pienamente ed entusiasticamente il progetto sionista fino al punto di partecipare attivamente all’organizzazione degli insediamenti. Sia i partiti sionisti ultra-ortodossi che quelli religiosi hanno ottenuto buoni risultati elettorali, con il blocco combinato ultra-ortodosso che ha ottenuto 16 seggi. Il blocco religioso sionista è più piccolo, con cinque seggi al momento (questo esito potrebbe cambiare in base ai voti dei militari ancora da contare).

D’altra parte, se si può affermare che qualsiasi forza a destra abbia perso le elezioni, è grazie alla nuova destra di Naftali Bennett e Aylet Shaked. Bennett e Shaked si separarono da Jewish Home, il fiore all’occhiello dei sionisti religiosi, nella speranza che mantenere le posizioni di sicurezza della Casa Ebraica con un orientamento più laico sarebbe stata una mossa elettoralmente vincente. Molti osservatori della politica israeliana sospettano che Bennett e Shaked alla fine sperassero di cementare il loro partito nel Likud e succedere a Netanyahu nei prossimi cinque o dieci anni. Al momento, tuttavia, il nuovo partito di destra di Bennett e Shaked è in bilico appena al di sotto della soglia elettorale necessaria per entrare in parlamento; una realtà che, se confermata, potrebbe avere implicazioni negative per il loro futuro politico. Anche se riescono ad elevarsi al di sopra della soglia necessaria, è comunque un drammatico scarso risultato visto anche come i sondaggi li posizionavano a  febbraio e marzo. La morale della storia è che, anche all’interno della destra, il populismo conservatore ed esplicitamente religioso è in netta ripresa in Israele, mentre quello laico e in fase tramontante.

In una certa misura, fattori prettamente legati alla realta israeliana hanno guidato questa realtà, come la situazione della sicurezza di Israele e l’elevato tasso di natalità degli ebrei ortodossi. Tuttavia può anche essere visto come parte di una tendenza più ampia di populismo religioso conservatore in tutto il mondo, dall’Ungheria alla Turchia, dall’Indonesia all’India. Chiaramente, l’assunzione generale della rilevanza decrescente della religione nel ventunesimo secolo è, nella migliore delle ipotesi, limitata a una manciata di ricchi paesi occidentali postindustriali. Nel caso di Israele, una conoscenza pratica dell’ebraismo ortodosso e del suo pensiero politico associato è probabilmente un passo avanti.

Cosa c’è di nuovo in Netanyahu?

Innegabilmente, l’elezione è un trionfo per Bibi Netanyahu. Eppure non è la conclusione delle sue sfide politiche. Per lui rimangono due compiti difficili: superare accuse e indagini e infilare l’ago da cucito tra i suoi partner della coalizione e gli Stati Uniti. Per quanto riguarda il primo, Netanyahu è quasi sicuro di far passare un disegno di legge che gli garantisca l’immunità dai procedimenti giudiziari, una pietra miliare delle sue trattative di coalizione. Tuttavia, c’è il rischio che un continuo rigurgito di scandali possa costare a Bibi una morte dai mille tagli. Per evitare ciò, dovrà gestire attentamente le aspettative e garantire la lealtà dei suoi partner di coalizione. I più critici al riguardo sono due piccoli partiti laici: Yisrael Beiteinu, il partito nazionalista laico di Avigdor Lieberman, la cui base elettorale è tra gli israeliani di origine dell’Europa orientale, e Kulanu, un partito fondato da Moshe Cahlon che si erge per ragioni economiche, sicurezza, ed è popolare tra le comunità ebraiche israeliane di Sephardic e Mizrahi. La perdita di Kulanu lascerebbe Bibi con una maggioranza molto ristretta di un solo membro nella Knesset; perdere Yisrael Beiteinu lo metterebbe sotto la soglia dei 60 posti, probabilmente facendo scattare un altro giro di elezioni.

La seconda sfida di Bibi sarà la mediazione tra i suoi partner della coalizione e gli Stati Uniti. Come accennato nella mia anteprima delle elezioni, la questione dell’annessione della West Bank rappresenta un potenziale spinoso per Bibi, nelle modalità che i suoi alleati sionisti religiosi sono intenti a perseguire. La sua espressione di sostegno alla politica poco prima delle elezioni ha quasi certamente contribuito a garantire la lealtà dei partner della coalizione alla sua destra. Ora, tuttavia, Bibi affronta il guanto del ciclo elettorale degli Stati Uniti. Senza mezzi termini, lo scenario migliore per Netanyahu sarebbe la rinuncia del Presidente Trump a rilasciare un piano di pace prima delle elezioni del 2020, lasciando il suo vago impegno a un “incredibile affare che tutti ameranno” per un ipotetico secondo mandato. Per Bibi, la vittoria di Trump nel 2020 potrebbe essere quasi altrettanto importante della sua nel 2019, dal momento che il Partito Democratico appare, dal punto di vista israeliano, preoccupantemente traballante nel suo sostegno allo stato ebraico. Quindi Bibi vorrà fare tutto il possibile per rafforzare la posizione di Trump. D’altra parte, qualsiasi accordo di pace dovesse presentare Trump, l’offerta avrà probabilmente anche l’input dell’altro alleato chiave del presidente, il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed Bin-Salman. E qualsiasi piano proposto da MBS è molto improbabile che incontri il sostegno dei nuovi membri della coalizione Knesset sul fianco destro di Bibi. Per Bibi, quindi, la sfida consisterà nel convincere Trump che ora non è il momento di un nuovo piano di pace; con la promessa però che, una volta stabilizzata la posizione di Netanyahu, potrebbe avere più spazio per negoziare. Ironia della sorte, se non fosse stato per il bisogno di Bibi di un accordo di immunità e per la loro implacabile campagna basata sugli errori e peccheati di Bibi, Blue e White avrebbero probabilmente fornito a Bibi una coalizione stabile, dalla quale avrebbe potuto negoziare efficacemente con Trump e, probabilmente, con i sauditi. Ma Bibi ha bisogno di una legge sull’immunità; Blue e White non gliene daranno una; la coalizione di cui ha bisogno per la sopravvivenza politica non è una compagine quindi che possa accogliere qualsiasi iniziativa di pace di Trump.

L’anno che verra`, quindi, sarà probabilmente impegnativo per il primo ministro Netanyahu. Ma se l’elezione di martedì ci hanno insegnato qualcosa: Bibi non bisogna mai  considerarlo politicamente finito, finché non e` lui stesso a ritirarsi dalla politica, e forse nemmeno in quel caso. Bibi deve essere riconosciuto come un impareggiabile operatore politico all’interno del mondo, a volte sconcertante e sempre affascinante, della politica israeliana. Quindi, anche se il prossimo anno sarà difficile, è una scommessa vincente puntare, in qualche modo, su un Bibi trionfante su tutte le sfide che lo attendono.

A.J. Nolte è un assistente professore di politica presso la Robertson School of Government della Regent University. Nel 2017 ha conseguito un dottorato di ricerca presso la Catholic University of America. Precedentemente, ha lavorato per il Religious Freedom Project presso la Georgetown University e il Center for Complex Operations presso la National Defence University, è stato professore aggiunto di politica al Messiah College e ha insegnato alla George Washington University, alla Catholic University e alla National Defence University. Gli interessi di ricerca di Nolte includono religione e politica, pensiero politico cristiano e islamico, minoranze cristiane, politica comparata, tribalismo e globalizzazione. Vive a Virginia Beach con sua moglie Tisa e la figlia Reagan.

 

https://providencemag.com/2019/04/aftermath-takeaways-2019-israeli-elections/

 

 

 

Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo, di Alessandro Visalli

Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2019/04/appunti-sulla-questione-del-partito.html?fbclid=IwAR07TrpeP3k750yCZHyy_fZ52yTThBfEFBR-xJRM8PsWK-bglH1YmhzKDc4

In questo testo, forse troppo lungo (6.700 parole, 25 minuti di lettura), si compie un esercizio non facile, decisamente inattuale: quello di provare a ripensare le condizioni nelle quali si può tentare di oltrepassare l’impolitico neoliberale a partire dalla ricostruzione di un collettivo ed insieme di un umano. Questo tema è limitato alla ‘questione del partito’, ovvero dell’agente del politico concepito come trasformazione dell’esistente e levatore del nuovo, e non come mimesi e aspirazione al mero successo. Il discorso connette sistematicamente i mutamenti nel modo di produzione e della ‘piattaforma tecnologica’ del capitalismo, e quindi dell’antropologia dominante e delle forme di socializzazioni corrispondenti, con le forme-partito di volta in volta funzionali.

Dopo alcuni indispensabili cenni storici, per lo più in nota per non appesantire il testo, e l’esplicitazione delle condizioni abilitanti i ‘partiti leggeri’ che hanno molte applicazioni e travestimenti, viene sviluppata una critica del primo populismo, strutturalmente connesso alla ‘contro-democrazia’, a sua volta figlia della ‘accumulazione flessibile’. Anche qui le forme ed i travestimenti sono numerosi.

Viene quindi avanzata l’ipotesi che la crisi del primo populismo, in tutte le sue versioni, non sia episodica ma venga mossa nella profondità da una estremizzazione-mutamento della ‘piattaforma tecnologica’ post-moderna e resti quindi non più allineata con l’estrema polarizzazione, da un lato, e con l’interconnessione molecolare determinata dall’ambiente tecnologico, dall’altra. La tesi è che il nuovo ambiente non si presti più alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano (per quanto questo sia largamente fondato su una socialità popolare vitale) e/o di prima generazione europeo (ben meno vitale), ma renda nuovamente necessaria la presenza di attivisti, influencer, reti di comunicazione diffuse, mobilitazioni politiche e quindi cultura comune e condivisa, ‘simpatia’, coesione, responsabilità e mutuo sostegno.

Del resto nello spazio aperto dallo Shock del 4 marzo, nel quale la lunga sostituzione della “base sociale” tra sinistra e destra, si è allineata con la corrispondente sostituzione della “base di massa” (facendo della sinistra tradizionale minoranza sociale e politica), tutte le sinistre sono spiazzate inesorabilmente. Lo sono quelle ‘di governo’, ma anche quelle ‘radicali’ e per certi versi sembra esserlo anche parte del populismo (anche se questo giudizio, nel caso italiano è soggetto a molte distinzioni).

Questo snodo lo leggeremo alla luce di quello che chiamo “il dilemma Kuzmanovic-Autain”, tra l’aspirazione alla riconquista e la difesa delle aree residue di consenso in un insediamento che si restringe.

Lo scopo del testo è di provare a dissodare un poco il terreno, e indicare cosa occorre ad una prospettiva neo-socialista per liberarsi della lunga ipnosi e riprendere una certa dimenticata durezza. Lavorare per rendere di nuovo leggibile il mondo, e la parte subalterna a politicizzarsi e rappresentarsi, a simbolizzare il potere collettivo, individuando una diversa costituente sociale capace di riorientare una nova politica di ‘classe’.

Pensiamo che per riuscirsi bisogna oltrepassare il populismo di sinistra di prima generazione ed avviare un movimento che la faccia finita con cosmopolitismo, retorica dei diritti solo civili e suprematismo morale. Ma anche rifuggire la passione per l’agilità, la semplificazione, il governismo. Attraversare quindi, con pazienza e determinazione, il faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di interpretazione del mondo, per produrre rottura ed indicare le questioni dirimenti.

Stiamo, infatti, passando oltre quell’assetto post-moderno che rendeva efficaci i vari tipi e travestimenti di partiti che saltano il sociale, e disintermediano. Che cercano di produrre una ‘base di massa’ senza più avere una ‘base sociale’ realmente tale, ma, al più, una network funzionale di poteri e domande.

In altre parole, la tesi è che serve ora un “partito-comunità”, che trova nelle discussioni molecolari sulle piattaforme e nelle pratiche di mobilitazione anche plurali e federali la calda pesantezza di una nuova ‘base sociale’ quanto più larga possibile. Facendo leva e mobilitando la capacità meno esercitata dall’ambiente neoliberale: la capacità di essere-per-l’altro entro comunità di discorso e di condivisione di obiettivi. La radice stessa del socialismo.

Perché il socialismo è principalmente una nuova antropologia più umana.

Resta il problema principale: come farlo. Ma questo va oltre le parole, per saperlo bisogna farlo.

Il partito, cenni storici

Si tratta di un tema obiettivamente difficilissimo per la vastità e la dispersione dei temi che evoca. Il principale organo della democrazia è sempre stato soggetto a cambiamenti[1] in concomitanza ai mutamenti della società e della forma che ha preso di volta in volta il modo di produzione e la piattaforma tecnologica[2] ad esso connessa.

A grandi linee il “partito” (da “parte”), dopo secoli nei quali è stato visto come una degenerazione che distruggeva l’armonia e l’ordine, trova uno spazio sistematico a partire dall’emergere, con il suffragio universale, della democrazia di massa al principio del novecento. Quindi si consolida quella ‘democrazia dei partiti’ (in primis i partiti cattolici e socialisti di massa), ancorati ad organizzazioni sociali intermedie fidelizzate, che hanno costituito il nerbo della dinamica politica del secondo dopoguerra. Questo sistema è alla fine entrato in crisi al passaggio dal modo di produzione ‘fordista’ a quello ‘flessibile’, con l’indebolimento delle predette organizzazioni e la mutazione antropologica in senso individualista ed edonista nota come “consumismo”. Nella lunga fase di degenerazione, che è quella che per lo più abbiamo vissuto biograficamente, questi partiti hanno occupato lo Stato, “incistandosi” in esso, e sono diventati sempre più chiusi ed autoreferenti, fino ad essere dissolti in Italia dalla vicenda di “Mani pulite” a cui fa seguito l’avventura del “Partito Piattaforma” populista di Berlusconi e che segue alla firma del Trattato di Maastricht, da molteplici punti di vista vero punto di svolta continentale.

Ma questo processo non è solo italiano, bensì almeno occidentale, in quanto ancorato al mutamento di fase del capitalismo e del suo modo di produzione, ma anche dei nuovi media che lo accompagnano. Ad esempio Manin[3], con riferimento prevalente alla situazione americana, parla di “democrazia del pubblico”, quando gli elettori, per una varietà di motivi, prendono a votare le persone candidate più che i partiti o i loro programmi, che quindi perdono importanza. Nelle elezioni locali, ad esempio, questa tendenza induce il fenomeno delle “liste civiche”, con le deviazioni, il familismo, e le distorsioni che ne seguono. Quel che accade è in sintesi che si rovescia il rapporto: i partiti tendono a mettersi a servizio dei leader e ne vengono svuotati. Il Partito, con la sua inerzia culturale, le sue regole non scritte, la densità delle norme sociali che ne individuano i confini, comincia ad essere visto come un ostacolo alla necessaria flessibilità e nascono i “partiti personali”.

Ci sono almeno due potenti cause:

  • i media generalisti (televisione in primis) che consentono di saltare l’intermediazione della struttura ed in qualche modo di farne a meno, per cui appare che, come scrive appunto Manin, “l’epoca degli attivisti e degli uomini di partito è finita”.
  • La maggiore complessità delle scelte, ed i maggiori vincoli cui sono sottoposte (basti pensare alla situazione europea) che induce a privilegiare programmi più vaghi e a rendere necessario il frequente tradimento di questi nella fase di implementazione. Sembra tornare il potere “prerogativo” teorizzato da Locke.

Ma c’è anche altro, ed è una parte del punto di Laclau[4]: l’elevata frammentazione della struttura sociale, e la sua perdita di coesione, fa sì che a priori non sia più possibile individuare una divisione socioeconomica dominante. Il corpo sociale è attraversato da linee di divisione che sono numerose, trasversali e in continuo mutamento a secondo di quale sia attivata come principale. Allora bisogna decidere quale divisione si propone come centrale, e l’elettorato assomiglia ad un “pubblico” del quale catturare l’attenzione.

In Italia è abbastanza ovvio a quale modello questa descrizione faccia riferimento: si tratta dell’irruzione nel 1994 del “Partito Piattaforma” per eccellenza, Forza Italia di Silvio Berlusconi, costruita in pochi mesi a partire da un piccolo, ma molto professionale, nucleo di venditori di “Pubblitalia” uniti ad alcuni esperti professionisti cooptati tra i partiti storicamente avversari al Partito Comunista e suoi successori (nel caso di specie PdS).

La “controdemocrazia”: il primo populismo

Ma tutto è sempre in movimento, e già negli anni precedenti la rottura del 2008 emerge una potente controcorrente, che Rosanvallon chiama[5]Controdemocrazia” (mentre Colin Crouch chiama “Post-democrazia[6]), ovvero il prendere il centro della scena di una serie di pratiche di sorveglianza, interdizione e giudizio del politico che un sociale che si sente ormai compiutamente decentrato esercita verso il potere formalizzato in organi rappresentativi e di governo. Questa è quindi la fase di una “contro-rappresentanza”, imperniata fortemente in gruppi autorganizzati che Crouch chiama di “self-help”, che non vogliono sostituirsi alle decisioni, ma contrastarle da fuori in una sorta di “rivoluzione permanente” senza presa del Palazzo di Inverno. Questo mutamento è in qualche modo l’effetto di una dissociazione tra “legittimità” e “fiducia” determinata dalla perdita di speranza, ed è strettamente connesso ad una nuova centralità tecnologica nel campo della comunicazione: quella di internet.

Ci troviamo davanti una “democrazia della sorveglianza”, insomma, in cui le figure essenziali diventano “vegliare”, “denunciare”, “verificare”; gli attori centrali diventano le “organizzazioni reattive”, ma anche dal lato istituzionale (neoliberale) le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro tecnostrutture”; le legittimità riconosciute sono quella “sociale procedurale”, “sostanziale”, e da “imparzialità”.

Come scrive Rosanvallon, la “perdita di fiducia” attiva in questo contesto una ricerca di forme di contropotere, che si manifestano tramite tre modalità principali:

  • la vigilanza, il cui scopo è “mettere alla prova la reputazione del potere”; una “reputazione” che in effetti ormai è la vera istituzione invisibile del nostro tempo.
  • l’interdizione, il cui scopo è bloccare il potere, non lasciarlo esprimere, revocarne i singoli atti ed azioni. Si formano a questo scopo mobili “coalizioni negative” che sono estremamente più facili e sono capaci di adattarsi molto bene alle loro contraddizioni. Sono tenute insieme, infatti da ciò che rifiutano, non da ciò che vogliono. Tramite la prevalenza di queste “coalizioni negative” la nuova democrazia del rifiuto si sovrappone e prevale alla democrazia del programma. Senza il quadro generale, ci si concentra sulle figure.
  • Il giudizio, emerge una figura accigliata e censoria, il “popolo giudice”, il cui scopo è additare ed accusare i fallimenti del potere, esporli al pubblico disprezzo.

Al popolo-elettore del contratto sociale si sono così sostituite in modo sempre più attivo le figure del popolo-controllore, del popolo-veto e del popolo-giudice (R, p. 24).

Questa evoluzione è spiegata da Rosanvallon come effetto del terminale logoramento dell’idea della politica come scelta tra modelli diversi (in ultimo “venuta giù” insieme al muro per molti). In conseguenza ora i cittadini si organizzano in modo reattivo, cosa che –in termini di modulo organizzativo- ha anche un vantaggio strutturale. Non si tratta, però, di una passività: è più che altro una democrazia diretta regressiva, una sorta di “consenso per difetto”, un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente anche una teatralizzazione, una centralità del momento dell’accusa, dell’invettiva, dell’imputazione.

Cambia anche l’atteggiamento individuale, “è la percezione stessa della radicalità ad avere cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti” (R., p. 239). Non si può dire ci manchino gli esempi di questo abbandono di obiettivi politici in favore di scopi morali o pratici, ed abbondano nella sinistra “radicale” e nella postura del “politicamente corretto” che spesso prende.

Tutto ciò provoca indirettamente una certa atrofia, una paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di paura, che non è naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo rapido ed efficiente. Del resto l’obiettivo di questi contro movimenti non è conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed inibirlo”. In qualche modo paralizzarlo.

Esempi di questa impostazione e cultura sono il primo Movimento 5 Stelle e ora gran parte delle formazioni della sinistra radicale.

Ma ne è esempio in qualche modo anche la prima insorgenza del “populismo di sinistra”, ovvero le esperienze di Podemos in Spagna, di France Insoumise in Francia, mentre è abbastanza diversa la costruzione federale di Skyriza in Grecia (anche se ha elementi in comune).

La crisi: mutamenti intorno alla piattaforma tecnologica

Ma da più indizi si intravede la crisi di questa prima generazione di populismo di nuovo conio, essenzialmente oppositivo, all’urto con la necessità di stabilizzare l’attività (caso francese) o del governo (spagnolo ed italiano). Del resto era molto ben espresso già nel 2016 in un piccolo libro di Calise[7]: chi cavalca la tigre della politica della sorveglianza fatica a mantenere coerenza e aspettative. La stessa logica “contro-democratica” della sorveglianza, veto e giudizio, si rivolta contro le sue proprie strutture, e, le cattura con sospetto di inautenticità, condannandole incessantemente “a spiegarsi e a giustificare la sua azione, mettendolo alla prova, giocando il ruolo di testimone attento e scrupoloso, arrivando ad avvallare o a contestare le decisioni prese” (Rosanvallon “La legittimità democratica”, p.274). Il ruolo decisivo, allora, nei confronti di un brulicante mondo di associazioni, individui, new media, piccoli gruppi di discussione e condivisione, lo riveste la giustificazione. Anzi la “battaglia quotidiana per la giustificazione”.

La “direttezza” di cui parla Nadia Urbinati in un bellissimo libro[8] mostra qui il suo rovescio.

Del resto rispetto al modello del “populismo” alla Laclau, imperniato sulla narrativa e la costruzione di messaggi operanti sulle linee di faglia plurime, unificandole, intorno al carisma di un leader e facendo uso del minimo possibile di struttura di trasmissione, la cui più espressiva applicazione italiana, come abbiamo detto, è Forza Italia di Berlusconi, negli ultimi anni è intervenuta un’ulteriore variazione tecnologica.

Da dove si orienta l’elettore

Le elezioni del 2018 si sono tenute in un ambiente in cui ormai il 65% degli italiani accede alla rete e tramite questa sempre più anche (spesso via smartphone) ai media generalisti sui quali era concettualmente imperniato il populismo di primo tipo. Nelle elezioni in oggetto risulta[9] che il 60% degli elettori si sia informato prevalentemente su internet, con una prevalenza per i siti di informazione e un 20% circa dai social, meno della metà ha indicato invece la televisione come prima fonte di informazione. Tra i contenuti incontrati un terzo ha indicato post di contatti e il 44% notizie di stampa. Più in dettaglio si informano prevalentemente in rete gli elettori del Movimento 5 stelle e quelli della sinistra non PD, ovvero gli elettori di forze sottorappresentate nei media generalisti. Solo un terzo degli elettori orientati al M5* ed alla Sinistra non PD si è informato su media generalisti.

Insomma, è cambiato e sta cambiando il modo in cui si formano le opinioni politiche. Il flusso non arriva più dall’alto al basso, veicolato con le tecniche gestite per anni in modo efficace e raffinato da Berlusconi e poi in modo assai meno competente ed efficace (ed effimero) da Renzi[10], e da uno-a-tutti, ma peer-to-peer, tra pari, e quindi dal basso, o orizzontalmente. Ed inoltre internet, oltre a produrre autonomamente informazione, grazie ad una rete decentrata di ‘influencer’, definisce i frame nei quali viene anche interpretata l’informazione ‘mainstream’ veicolata dai media generalisti. L’effetto si dà nella discussione, nel commento, la rilettura e la reintepretazione.

 

Fonte dell’influenza sulle opinioni politiche

Non sembra neppure confermata la diffusa impressione che sui social si tendano a creare in particolar modo delle ‘bolle ideologiche’, dalle interviste: risulta che quasi quattro quinti degli utenti è solita incontrare sui social idee diverse dalle proprie con cui confrontarsi.

 

Il punto è che questo diverso ambiente, che ha la potenzialità di attrarre/interessare anche una parte di coloro i quali non si interessano di politica (60%) e quindi non seguono le relative trasmissioni e/o giornali (in quanto le discussioni via social tendono a scivolare tra i temi), è ormai la principale arena da contendere. Quella nella quale si definisce la vittoria o sconfitta delle forze politiche.

Ma questa arena non si presta molto alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano e/o di prima generazione.

In un certo senso rende invece di nuovo necessaria l’attivazione di “influencer”, mobilitazioni politiche, reti di comunicazione diffuse, quel che potrebbe somigliare nuovamente alla rete delle “sezioni” dei vecchi partiti, ma immaterializzata (o distribuita).

Rispetto alle tipologie di partito che, a grandissimi linee si sono sin qui viste, dal “Partito dei notabili” di fine ottocento e primo novecento, spazzato via dal “Partito – massa” (o ‘reclutatore’) del dopoguerra, e poi degenerato nel corso del mutamento dal fordismo all’accumulazione flessibile in Partito “stratarchico” (o dei cacicchi) e, contemporaneamente, in Partito del leader, o “piattaforma” (o Partito populista prima maniera) che esasperano la verticalità la nuova orizzontalità determinata dall’iperframmentazione contemporanea, unita alle ubique tecnologie di messa in contatto farebbe ipotizzare l’insorgenza di una possibile alternativa.

Ma prima di parlarne due parole sulla situazione, a partire dallo shock del 4 marzo:

  • Ha preso il centro della scena l’insostenibilità tendenziale di un fenomeno migratorio (sia in ingresso, sia in uscita) che ridefinisce la struttura del lavoro e preme sulle risorse scarse disponibili;
  • Quindi la rabbia, molto ben giustificata, di una parte assolutamente maggioritaria della società italiana che si sente ignorata, marginalizzata e posta a rischio dalla trasformazione del sistema economico e dalla più che evidente disgregazione in essere (una radicalizzazione della “piattaforma tecnologica” post-moderna[11]);
  • l’impossibilità, stante l’attuale divisione del lavoro istituzionale imposta dalla meccanica del progetto europeo realmente esistente, e progettato in anni ormai lontani ed in una fase di accecamento del quale oggi paghiamo tutto il prezzo, di mobilitare le risorse del paese che, anzi, continuano a defluire tramite plurimi meccanismi non solo finanziari;
  • questo è il contesto nel quale l’impatto delle trasformazioni del modo di produzione, sulla spinta di una crescente meccanizzazione, interconnessione e dematerializzazione, che come è sempre avvenuto in passato spiazza parte importante delle persone biograficamente fondate nel vecchio modello in via obsolescenza crescente e quindi richiederebbe un maggiore impegno di risorse collettive, e di adattamento alle specifiche esigenze nazionali, inibite dalla struttura di governance multilivello nel frattempo creata;
  • infine aggrava l’obsolescenza di sistema anche la fragilità ecologica, che è a sua volta spia della frattura tra produzione e riproduzione e che richiede un’analisi strutturale che non si attardi in spiegazioni neo-malthusiane, romantiche o in illusioni di gestione tecnocratica[12], quando invece si tratta di un effetto della natura di classe del modello di sviluppo e della tendenza del capitalismo a consumare senza alcun senso del limite lo spazio nel quale cresce, determinando la sua crisi.

Di fronte a questi temi, ormai non aggirabili, la cultura di tutte le sinistre, da quelle che hanno fatto del ‘riformismo’ ormai un altro nome per l’adattamento ad un assetto del mondo pensato erroneamente come inevitabile e moderno ad un tempo, a quelle che, definendosi come ‘antagoniste’ purtuttavia hanno incorporato profondamente il rifiuto dell’azione collettiva (ovvero la politica della sorveglianza che abbiamo precedentemente descritto) che è l’arma principale dell’eterno presente nel quale prosperano sempre e solo i più forti, ha abbandonato di fatto il campo. Si è dunque rifugiata nella critica morale e nella coltivazione della propria pretesa, ed autoattribuita, superiorità.

Il campo è dunque interamente occupato da altri e dobbiamo tornarci.

 

Il “Dilemma Kuzmanovic-Autain[13]

Ma per tornarci è necessario assumere qualche decisione e confrontarsi con un profondo dilemma: quello tra l’aspirazione alla riconquista storico-politica dei ceti popolari, contendendo l’egemonia consolidata alla destra sul campo largo, ed ormai maggioritario[14], delle classi marginali, e la difesa delle aree di consenso residue che alla fine possono essere conservate solo su temi morali, data la divergenza degli interessi. Di fatto uno scontro tra ‘nuvole verbali[15] e scelte difficili.

Il populismo di sinistra di prima generazione, fortemente connesso con il narrativismo post-moderno, e fondato su una logica “intersezionale” e di aggregazione di minoranze sembra alla fine trovarsi senza terreno sociale sotto i suoi piedi. La sua genetica vaghezza sui temi dirimenti, e la incapacità di scegliere un livello strutturale di scontro, lo rende poco adatto alla durezza estrema della polarizzazione in atto.

Gli esempi sono diversi: Podemos, naturalmente, giunto al governo ma, secondo alcuni suoi rilevanti esponenti[16], anche al termine della sua spinta propulsiva; quindi France Insoumise, dimostratasi incerta tra la linea rivolta alle periferie ed alle masse popolari e quella tradizionale delle alleanze con le espressioni della base sociale in via di restrizione, ma ancora forte, dei ceti riflessivi metropolitani. Difficoltà ne incontra anche, nel determinare una linea politica coerente, di fronte alla turbolenza indotta dal lacerante dibattito della Brexit, il Labour di Jeremy Corbyn, che pure si trova in una situazione diversa.

Tuttavia negli ultimi mesi di questo anno sono emersi nel cuore dell’Europa nuove ipotesi di lavoro per una sinistra che vorrebbe riprendere la strada abbandonata nel ’89 e non rassegnarsi all’ineluttabilità della ritirata ed alla gestione della liquidazione. Sono ancora variamente deboli, sfocate, incerte, ma credo abbiano il seme di una speranza: Ausfehen[17] di Sahra Wagenknecht, capace da settembre ad oggi di radunare quasi 200.000 adesioni (oltre dieci volte i vari partitini della sinistra radicale italiana); molto lontani Republique-Souveraine[18] di Djiordie Kuzmanovic, appena uscito da France Insoumise perché in disaccordo con la linea di sinistra tradizionale e “intersezionale”.

È, ovviamente, presto per comprendere se questi nuovi spunti potranno agire per liberare dalla sua lunga ipnosi una prospettiva socialista rinnovata, ma è abbastanza chiaro che per riuscirvi occorre riprendere una certa dimenticata durezza, ed escludere:

  • la “sorveglianza”, il restare fuori (Rosanvallon) a fare l’eterno assedio (morale) al castello;
  • il partito identitario che si separa dalla società, verso la quale assume il tono da maestro;
  • gli svariati movimenti a ‘mezzaluna’[19], lo stare fuori e dentro[20];
  • di ‘restare nel vuoto’[21], il partito-élite, aristocratico.

Invece si deve cercare di compiere un lavoro rivolto:

  • a produrre un mondo leggibile, operando una dimensione fondamentalmente cognitiva del politico, aiutando la parte subalterna della società a rappresentarsi, costituendosi. Ma anche, con lo stesso gesto, a mettere la parte dominante di fronte alle proprie responsabilità.
  • A simbolizzare il potere collettivo, trasformando un “popolo introvabile” in una comunità viva.

Bisogna in sostanza individuare con nettezza una diversa costituente sociale, ben distinta da quella della sinistra contemporanea che ha abbandonato quella della sinistra storica, e capace di riorientare una nuova politica di classe (come noto un costrutto).

Questo lavoro, avendo in mente il “dilemma Kuzmanovic-Autain”, si può tentare in alcuni luoghi strategici:

  1. il lavoro, la centralità della cultura, della civiltà e della prassi del lavoro,
  2. la Protezione Sociale come primo, ed essenziale, prodotto delle Istituzioni e della Democrazia che le deve fondare,
  3. la riqualificazione dello Stato come luogo della democrazia e la Programmazione come pratica necessaria per orientare le risorse al bene comune,
  4. l’Economia Mista come orizzonte,
  5. la declinazione del concetto di Sovranità nazionale in senso Socialista e Costituzionale,
  6. Una nuova idea di Europa come confederazione di Stati sovrani e realmente democratici,
  7. La regolazione della immigrazione, come ineludibile conseguenza della regolazione del lavoro e dell’espansione universalista dello Stato Sociale e della protezione, sul quale dovrà necessariamente emergere una nostra posizione realmente autonoma e non reattiva, ovvero antagonista sia ai nazionalisti della destra italiana ed europea, sia ai “no border” inconsapevolmente borghesi.

Considerando la completa inversione della “base sociale”[22] tra destra e sinistra, poi seguita il 4 marzo dalla “base di massa”[23], è necessario che sia oltrepassato anche il “populismo di sinistra di prima generazione”, incapace di proporre autentica discontinuità nelle condizioni europee, e sia avviato un movimento politico che non guardi più principalmente a sinistra (ovviamente intendendo con ciò i totem identitari che nel tempo hanno svolto l’essenziale funzione di nascondere agli stessi occhi dei militanti ed elettori gli interessi perseguiti, e quindi il rovesciamento avvenuto: il cosmopolitismo, la liberazione individuale del desiderio e quindi la retorica dei diritti avulsa dalle condizioni della loro effettività, il suprematismo morale e quindi il “politicamente corretto”, autentico marcatore di classe, anche se inconsapevole).

Occorre anche premiare il faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di interpretazione del mondo, e rifuggire alla passione per l’agilità, la rapidità, la semplificazione, che è un ulteriore e chiaro segno dell’egemonia neoliberale “governista”. Il punto cruciale è produrre una rottura, leggere il tempo, le sue fratture e indicare le questioni dirimenti, quelle che hanno una loro resistente permanenza.

 

La forma-partito adatta ad essere lievito e strumento di una ricomposizione che è processo molto più largo non può chiaramente più essere il partito-massa novecentesco, per il quale non ci sono le condizioni sociali (e non ci saranno a lungo), non ultimo per il drastico cambiamento della “piattaforma tecnologica” contemporanea. Ma non può essere neppure il “partito piattaforma” e/o “populista di prima generazione” (leaderistico e disattivante, incapace di produrre una coerente visione di futuro, tendente al nominalismo e all’adattamento mimetico), che rispondeva alla “piattaforma tecnologica” Post-moderna, in via di tramonto.

Bisogna superare quindi le varie forme di “partito snello”, incluso quelle populiste, che cercano fondamentalmente di saltare il sociale dandolo per perso nella trasformazione neoliberale delle soggettività, in particolare borghesi, e si sforzano di disintermediarlo. In altri termini, forme che cercano di aggregare nei momenti elettorali una “base di massa” (necessaria per vincere) senza avere realmente una “base sociale”, ma al più disponendo di un suo sostituto funzionale in network di poteri e domande.

E’ stata a lungo la formula vincente, ma stiamo ormai passando oltre.

Ciò che serve è ben altro: un “partito-comunità”, capace di larghe discussioni molecolari (e qui la “piattaforma tecnologica” in via di affermazione aiuta), condotte facendo largo uso della capacità reticolare dei social -nei quali si forma buona parte dell’opinione politica- e di mobilitazione anche plurale e federale (qui alcuni difetti[24] di France Insoumise devono avvertire).

Il punto cruciale è ritornare ad avere una “base sociale”, con tutta la sua calda pesantezza, e cercare di mobilitare la capacità dell’uomo di essere-per-l’altro entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.

Come scrive Axel Honneth, in un bel libro sul socialismo[25], è infatti solo nello scontro tra gruppi sociali che portano interamente se stessi in campo, dunque impegnano le proprie visioni, esigenze e storie diverse, la propria situatività e intera personalità, ovvero si potrebbe dire la propria concreta materialità, che si può dare una forma di “progresso normativo” fatto concretamente nella storia e non metafisicamente presupposto in essa dall’alto di una teoria.

Del resto il socialismo, scrive Honneth, “rimanda fin dalle sue origini a un movimento di critica immanente del moderno ordinamento sociale di tipo capitalistico. Di quest’ultimo vengono sì accettati i fondamenti normativi ancorati ai principi di libertà, eguaglianza e fraternità che lo legittimano, ma viene messo in dubbio che essi possano essere realizzati in modo non contraddittorio se la libertà non viene ripensata in senso meno individualistico, e dunque insistendo con maggior decisione in direzione di una sua applicazione di taglio intersoggettivo” (H. p.27). questo è il fulcro e caposaldo dell’intero movimento. Nell’unico punto in cui, nel lavoro di questi autori seminali, la cosa è enunciata da Proudhon (1849) viene affermato che la “libertà di ciascuno” non deve essere intesa come “limite”, ma come “ausilio” di quella degli altri.

Il passo decisivo per la messa a fuoco di questo concetto (che Honneth chiama hegelianamente “libertà sociale”) lo compie il giovane Marx, come noto vicino sia a Proudhon, che conobbe in Francia, sia alle letture di Hegel. Data la sua posizione esterna all’ambiente francese, impregnato dello sforzo di fare i conti con la sua tradizione, il giovane filosofo lascia sullo sfondo i concetti di “libertà” e “fraternità” e, già negli anni quaranta ragiona principalmente su cosa possa essere una “comunità integra”. In essa principalmente gli attori non si riferiscono gli uni agli altri come “commercianti” (in ironica polemica con la formula di Adam Smith), ma sono uniti dal riconoscimento reciproco non del rispettivo privato egoismo, ma dei rispettivi bisogni. In un’associazione di liberi produttori quindi si agisce, attraverso una certa divisione del lavoro non coatta, l’uno-per-l’altro (H. p.32). Dunque in essa i rispettivi piani di vita non si intrecciano solo per mezzo di un’anonima intersezione di scopi, ma per un’effettiva condivisione della preoccupazione che tutti possano giungere all’autorealizzazione.

La “libertà” non è quindi più realizzabile dai singoli, “ma solo da una formazione collettiva adeguata”. Il medium della libertà è il gruppo sociale in quanto totalità che, però, si costituisce a partire dall’orientamento comportamentale dei suoi membri. La questione è rilevante, la libertà sociale non cade dall’alto, ma sorge per impulso degli stessi membri; si tratta di sviluppare una capacità di orientarsi spontaneamente gli uni verso gli altri, realizzando contemporaneamente i tre ideali di “libertà”, “eguaglianza” e “fraternità”. Un sistema distributivo più giusto è quindi da concepire insieme e per effetto di una nuova forma di vita comunitaria[26].

Dunque, dopo questa piccola divagazione, torniamo all’ipotesi proposta:

  • è necessaria una nuova capacità di costituire “parte”, ma questa volta “parte-comunità”, ancorandosi:
    • sia alla capacità reticolare dei social (e quindi investendo nuovamente sulla militanza, l’adesione), per vivere in larghe discussioni molecolari ed orizzontali (pensandosi a partire dalla “piattaforma tecnologica” in via di affermazione e non sulla base di una che tramonta),
    • sia, e contemporaneamente, alla mobilitazione anche plurale e federale faccia-a-faccia e nei luoghi.
  • Le due vie convergono nello sforzo di ricostruire la socialità, oltrepassando l’individualismo liberale e il suo non-umano, ritrovando la capacità di essere umano nell’essere-per-l’altro entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.

Bisogna ricordare che il socialismo è principalmente una nuova antropologia, più umana.

Come farlo è domanda completamente aperta e certamente non facile.

 

[1]Ma quale è la legittimità che i Partiti Politici stanno perdendo? Quale era la sua origine e dinamica? Il Partito Politico non ha mai avuto buona fama, molti degli argomenti che risuonano nella nostra sfera pubblica sono stati formulati nel corso della lunga storia politica del continente. La caratteristica preminente del Partito è stata spesso vista come l’azione di separare, parzializzare, e dunque come fonte di scontri, divisione e odio distruttivo. Il clima cambia solo dopo la fine delle guerre di religione, e cominciano ad essere sdoganati nel pensiero politico continentale con David Hume e Edmund Burke, che ammettono la possibilità che i Partiti possano fondarsi anche su “principi” e non solo su interessi divisivi. Ma, appunto, per loro solo il Partito orientato al “bene comune” è accettabile, solo se va oltre gli interessi particolari “connessi allo spirito di fazione”. Dunque in qualche modo i Partiti non sono ammessi e saranno legittimati pienamente solo dalle rivoluzione (francese ed americana), come corollario dell’impulso di libertà. Nella voce dell’Enciclopedie di Rousseau sono citati senza critiche e anche in Voltaire. Ma quando la rivoluzione prende piede ricompaiono le esitazioni. I rivoluzionari temono “i corpi intermedi”, scriverà l’abate Seyes: “l’assemblea di una nazione deve essere sempre costituita in modo da isolare gli interessi particolari e rendere conforme al bene generale le decisioni della maggioranza” (S. p.9). In altre parole, la fazione è un attacco alla sovranità. Malgrado questi dubbi nel 1790 sono autorizzate le “libere società”, e già un anno dopo, grazie ad un intelligente modulo organizzativo, il “club dei giacobini” vede mille organizzazioni sul territorio francese.

Sarà successivamente la controrivoluzione a vedere la cosa in modo totalmente negativo: per essa la buona società è organica e gerarchica, ognuno ha il suo posto, desunto dalla tradizione, ed è la tradizione che ‘interpreta’ il volere divino e informa di sé la società. Alla fine quindi il pluralismo è il male sia per chi difende il contratto sociale sia per chi vuole un ordine teocratico.

Dall’altra parte dell’oceano i Partiti sono accettati, ma cercando di contenerne la “violenza devastatrice” (come dirà Madison).

Una sintesi è tentata nell’ottocento da Alexis de Tocqueville, che propone di distinguere tra “grandi” e “piccoli” Partiti. I primi sono diretti al bene comune e vanno considerati legittimi, i secondi vanno assimilati alle “fazioni” e da combattere.

Man mano che il secolo va avanti, però, i Partiti Politici prendono il centro della scena, questo avviene con due percorsi paralleli: nei Parlamenti gli eletti, che inizialmente sono “notabili” dotati di un potere locale nella società che traducono in potere politico, costituiscono Partiti con un basso livello di coesione interna, fuori si addensano movimenti di massa più identitari che premono per essere rappresentati e far sentire la propria voce organizzandosi in Partiti.

Tra “Partito dei notabili” (liberale) e “Partiti di massa” (cattolici, socialisti e poi fascisti) precipita la crisi degli anni venti. Il concetto e la prassi di Partito pluralista si trova schiacciato tra l’esaltazione della Nazione (in Francia) e dello Stato (in Germania ed Italia). Ciò che hanno in comune entrambe le nuove soluzioni è l’essere incentrate su entità superiori e la natura sia monista che organicista. Si tratta di un’aspirazione all’armonia ed alla totalità che identifica come nemico il pluralismo e quindi la divisione. In conseguenza viene negata la legittimità dei Partiti.

Si entra per questa via nell’età dei totalitarismi, in cui “i” Partiti mutano “nel” Partito, che sussume in sé la Nazione e si affianca (nel caso italiano e tedesco) o sostituisce (nel caso russo) allo Stato. Si passa per una brevissima stagione di Partiti confessionali di massa (socialisti per lo più) che trovano nel suffragio universale l’arma per affermarsi. Ma si sbocca, quasi subito, nella creazione di un solo Partito che prende tutto, è il caso ovviamente del Partito Nazionale Fascista. Nel 1942, al termine della fase espansiva dei totalitarismi, sono rimasti solo quattro paesi pluripartitici (Gran Bretagna, Irlanda, Svezia e Svizzera), ovunque nel continente ci sono Partiti Unici totalitari. Dirà Roberto Michels “ogni partito cerca, inevitabilmente, di imbrigliare lo Stato, di assorbirlo, di fagocitarlo e di adattarlo agli obiettivi e alle idealità del partito stesso”

Dunque sorgono, al posto dei vecchi “Partiti dei notabili” dei “Partiti di massa” che si considerano interpreti dell’interesse generale e non di interessi settoriali e limitati. Questa nuova forma cresce insieme ai vasti movimenti connessi con il processo di industrializzazione ed alla formazione collaterale di leghe, associazioni, movimenti cooperativi, sindacati, …

Ora, tuttavia, questo modello che ha informato di sé buona parte del novecento, “è morto”.

Ci sono fondamentalmente tre cause:

–        la società è diventata post-industriale;

–        in parte prevalente è diventata “opulenta” (termine di Galbraight);

–        si sono diffusi, ed hanno raggiunto diffusione capillare, nuovi media potentissimi.

Sotto la pressione di questi tre fattori tutti i partiti (ed in particolare quelli confessionali e socialisti) si secolarizzano gradualmente a partire dagli anni sessanta fino agli ottanta. Dopo questa data tentano di diventare “pigliatutto” (schema sul quale si dilunga in particolare Colin  Crouch) e in certi casi (in particolare francese) si leaderizzano. In Italia il processo è frenato dalla grande forza del PCI, fino alla “catarsi” del 1989 dopo la quale anche la sinistra affronta una “grande trasformazione”.

Gli effetti sono che l’iscritto perde la sua capacità (attraverso le gerarchie del partito e nei congressi) di influenzare e condizionare l’azione e diventa centrale il media televisivo. Un altro, nell’allontanamento dalla base e dai territori, non più necessari, è che inizia il “Partito cartellizzato” o “Stato-centrico”. Finiscono le grandi concentrazioni omogeneizzanti, connesse con la produzione, e inizia l’invasione capillare dei new-media, l’atomizzazione della vita quotidiana ed il declino delle appartenenze collettive. È il trionfo dell’individualismo “con tinte di narcisismo” (Ignazi, p.38). Spinge in questa direzione anche il movimento ecologista-libertario, figlio delle rivoluzioni sociali del 1968, che sposta l’attenzione sulla sicurezza fisica e il sostegno a valori “postmaterialisti” (come proporrà di considerare la cosa sia Giddens sia Inglehart). Nel frattempo anche le socialdemocrazie si sclerotizzano e i Partiti tornano quindi entro il campo di attrazione dello Stato. Man mano che perdono il contatto con la società, e riescono a “saltare” il livello locale nella costruzione del consenso grazie ai media, questi si riportano nella posizione che avevano guadagnato in passato (ovviamente in modo meno cruento ed anche massivo) occupando i ruoli ed i posti dell’amministrazione statale per sfruttarne le risorse. Ci sono molte conseguenze strutturali: la unità centrale di direzione dei maggiori partiti diventa più indipendente e isolata (anche finanziariamente), mentre le strutture locali si autonomizzano (andando in qualche modo verso un nuovo notabilato).

E, come nell’altro passaggio storico ricordato, ci sono rischi connessi strettamente con la sfiducia ed il discredito della rappresentanza e del pluralismo: la delega diretta ed individuale, “affidata ad un capo, un leader, un duce” (I. p.127). Si tratta di un esito insieme logico e ricorrente, che malgrado gli esiti disastrosi (incluso la guerra) “continua ad esercitare un certo fascino”. Il motivo è che ha il pregio della semplicità, della riduzione dei costi di decisione.

[2] – Chiamo “Piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per i diversi gruppi e ceti sociali, determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi coinvolti nella affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).

[3] – Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, 1997

[4] – Si veda, Ernesto Laclau, “La ragione populista

[5] – Pierre Rosanvallon “La politica nell’età della sfiducia”,

[6] – Colin Crouch, “Post-democrazia

[7] – Mauro Calise, “La democrazia dei leader

[8] – Nadia Urbinati “La democrazia in diretta

[9] – “Vox populi”, Il Mulino 2019.

[10] – Si veda, Marco Revelli, “Dentro e contro

[11] – Qualche spunto nel post “Appunti sul mutamento della piattaforma tecnologica”.

[12] – Si veda su questo punto, “Greta Thunberg la posta egemonica

[13] – Kuzmanovic e Autain sono due noti esponenti di France Insoumise, che incarnano una radicale differenza di linea e di prospettiva politica. Da tempo tra la linea popolare, rivolta a tentare di ricostruire un rapporto affettivo e di sostegno reciproco con i ceti popolari da decenni abbandonati dalla sinistra, e la linea intersezionale e multiculturalista, basata sull’insediamento sociale residuale della sinistra, ovvero parte dei ceti “riflessivi” provenienti dalle medie borghesie professional e renditiere urbane, si era aperto un conflitto. All’avvicinarsi delle elezioni europee, e in concomitanza con la ricerca, da parte della direzione del movimento, di un accordo con i residui organizzati dell’area socialista (il movimento di Chenènement e quello di Mauriel), ad inizio di settembre alcuni articoli sull’immigrazione e sulla posizione di svolta della Wagenknecht in Germania, hanno determinato l’avvio della rottura. Come ricostruivo in questo post, Kuzmanovic ha dichiarato che temi, anche importanti, come il femminismo, i migranti ed i diritti LGBT, non hanno a che fare specificamente con la ‘sinistra’, ma sono temi di lotta tipicamente liberali. Il punto è che la sinistra o è popolare o non è, e dunque ha quale suo specifico “la difesa delle classi popolari e la lotta contro il capitale”. Parte di questa lotta è la necessità di ridurre l’esposizione di queste agli effetti negativi collaterali implicati dalle immigrazioni, se eccessive in termini di ritmo e caratteristiche. Clémentine Autain, deputata di Parigi, oppone a questi argomenti un punto di vista identitario che teme di perdere “anima ed immagine”. Kuzmanovic ha finito per doversi dimettere.

[14] – La base di tutto che si fatica davvero ad assumere è che lo slittamento dalla “piattaforma tecnologica” fordista a quella post-fordista, e la sua radicalizzazione determinata dalla ristrutturazione capitalista del 2007-18 ha determinato una dualizzazione pronunciata e la divaricazione tra una minoranza sempre più tale di abbienti, soddisfatti e chiusi nelle torri d’avorio della propria presunzione ed una maggioranza, sempre più larga, di periferici o di spaventati.

[15] – Il riferimento è al giudizio da parte di Karl Marx di parte del programma della sinistra socialista francese di Guesde.

[16] – Ovvero Manolo Monereo, conversazione privata.

[17] – Si veda “Aufstehen

[18] – Si veda “Circa le dimissioni di Djiordie Kuzmanovic

[19] – Metafora calcistica, riferita al movimento di un attaccante che entra ed esce dalla linea dei difensori.

[20] – Un esempio, forse sgradevole, è il Renzi di lotta e di governo che monta, sulle orme dell’esempio berlusconiano un “populismo di governo” (cfr, Marco Revelli, “Dentro e contro. Quando il populismo è di governo”)

[21] – Per la metafora del “vuoto”, si veda Peter Mair, “Governare il vuoto, la fine della democrazia dei partiti

[22] – Si intende per “base sociale” i ceti, o frazione di questi, che forniscono il consenso di base, l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base di reclutamento principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che fa uso di questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra italiana sono in questo post.

[23] – Si intende per “base di massa” l’area di più largo consenso di massa, che si manifesta in occasione del voto o dei momenti di mobilitazione allargata.

[24] – Per questo aspetto segnalo l’intervento di Lenny Benbara “La France Insoumise, dal partito al movimento”.

[25] – Axel Honneth, “L’idea di socialismo”.

[26] – La cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo spesso il termine comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso di comunanza e reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad esempio, quando due connazionali si incontrano in un paese estero non familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé nell’altro (secondo una fulminante formula di Hegel) nel quadro di unità anonime.

Russia in America Latina: insidie ​​e opportunità, di Nicolas Dolo

Russia in America Latina: insidie ​​e opportunità

Il 23 gennaio 2019, Juan Guaido, presidente del parlamento venezuelano, si è proclamato Presidente della Repubblica agendo secondo le più discutibili disposizioni costituzionali. Il 35enne riceve immediatamente il sostegno di una sfilza di potenze occidentali, in particolare gli Stati Uniti, rivelando un’operazione di interferenza che assomiglia alla CIA in America Latina negli anni ’70 Qualunque cosa si possa pensare di questa auto-proclamazione, il secondo mandato di Nicolas Maduro sembra in ogni caso iniziare in condizioni particolarmente difficili. La Russia ha prontamente reagito e difeso il presidente venezuelano con le unghie e con i denti.

Pochi giorni prima del pronunciamiento di Guaido, tuttavia, la piattaforma online russa ” Colonel Cassad  ” , molto rilevante e “informata  “, ha ripreso un lungo articolo di Dmytro Strauss. Questo post, inizialmente pubblicato su un blog di informazione ucraino piuttosto marcato a sinistra, è una visione illuminata e severa del Venezuela, paese in cui l’autore risiede da diversi anni. Se ci fidiamo di lui, il presidente Maduro, finora poco considerato dai media internazionali, è personalmente responsabile della terribile situazione attuale nel suo paese.

Un’elezione totalmente anti-democratica

Strauss per prima cosa tratta il racconto dell’attuale leadership, che afferma che le ultime elezioni presidenziali sono innegabili, dal momento che Maduro avrebbe raccolto il 67% dei voti espressi.

I commissari politici del Partito socialista di unità socialista del Venezuela (PSUV) hanno, è vero, iniziato privando quasi la metà degli elettori del loro diritto al voto sfruttando la giustizia elettorale, e tra tutti quelli che potrebbero rappresentare un dimostrata opposizione politica al sistema. La stessa giustizia elettorale ha invalidato la maggior parte delle candidature dissenzienti, anche quelle del PSUV, a seguito di numerose accuse di atti di corruzione o di tradimento alla patria dei più sospetti.

Per stimolare l’elettorato, il governo ha anche costretto gli elettori a rinnovare la loro “Diario della Patria” (i tipi di tessere annonarie) direttamente in tende situate nelle exit poll. Nonostante questo dispositivo, vero ricatto al cibo, solo il 32% degli elettori si è alla fine recato alle urne nelle ultime elezioni presidenziali.

Supponendo che non ci fosse alcuna frode elettorale, di cui si possa legittimamente dubitare, Maduro sarebbe stato effettivamente eletto da appena l’11% dei venezuelani in età di voto. L’evidente mancanza di carisma del presidente venezuelano, a migliaia di miglia da quella di Hugo Chavez, non può da sola spiegare questa profonda disaffezione.

I Chavisti, rimossi dal potere, cercano la rivincita

Strauss torna quindi sulla capacità di Maduro, uomo d’apparato di prim’ordine che è riuscito a rivoltare gli organi di potere venezuelani in favore del suo entourage, e di escludere “chavisti”.

In occasione dei due colpi e movimenti di repressione dell’opposizione nel 2014 e 2017 Maduro ha approfittato degli eventi per emarginare in maniera massiccia i compagni di strada storici di Hugo Chavez dalla leadership politica, amministrativa, giudiziaria, diplomatico, economico e militari del paese con il pretesto di casi di corruzione o di accordo con un nemico invisibile. Questa epurazione ad esempio hanno costretto a “dimettersi” Rafael Ramirez, rappresentante permanente del Venezuela presso le Nazioni Unite e vecchio confidente di Chavez dal suo incarico nel 2017. Molto rispettato tra chavisti e come loro, sempre più critico delle derive del governo, è ancora minacciato da mille insidie dalla giustizia e dai servizi segreti del suo paese.

Dal suo esilio segreto, Ramirez ha iniziato a pubblicare all’inizio del 2018 testi aspri contro il potere venezuelano, e ha fatto inviti sempre più espliciti a rovesciare il “dittatore e traditore Maduro”. Proprio di recente, 27 membri della Guardia Nazionale Bolivariana sono stati arrestati dall’intelligence venezuelana. Sono sospettati di aver fomentato un ennesimo tentativo, vero o presunto, di colpo di stato militare. La loro incarcerazione, un segno dei tempi a Caracas, non ha mancato di provocare gravi disordini e scontri nelle strade della capitale, disordini ulteriormente esacerbati dalle dichiarazioni di Guaido.

Il disastro economico in corso

Strauss torna infine sul disastro economico del Venezuela e, questa è la più interessante, sulla percezione che i venezuelani hanno della assistenza dall’estero, tra cui Cina e Russia.

La realtà economica, sociale e della sicurezza del popolo venezuelano è tragica, con il paese che ha registrato un tasso di inflazione superiore all’800.000% nel 2018. Nei settori privato e pubblico, il reddito disponibile dei lavoratori è crollato. Molti dipendenti pubblici sono ora costretti a migliorare l’ordinario lavorando per la maggior parte del loro tempo da soli in proprio.I servizi pubblici di base non sono più assicurati, salute, polizia e istruzione inclusi. Le distribuzioni alimentari governative, che sono diventate indispensabili, sono esse stesse oggetto di diversione, la maggior parte dei “kit” concessi alle famiglie giungono loro mezzo vuoto. Il paese, considerato relativamente sicuro fino al 2013, è diventato allo stesso tempo il più pericoloso al mondo in termini di omicidi ogni 100.000 abitanti.

Più disastrose le une delle altre le scappatelle economiche del presidente Maduro hanno costituito un freno per la diversificazione economica, e hanno contribuito a svuotare più della metà delle riserve auree del paese. Queste ultime sono state sprecate come garanzia della creazione di una improbabile criptovaluta petrolifera,  un’alternativa alle transazioni in dollari ma già un clamoroso fallimento.

La Cina e la Russia sono volate in soccorso del Venezuela nel dicembre 2018. Le hanno concesso un prestito di $ 5 miliardi e un piano di investimento da $ 6 miliardi nei settori petrolifero e minerario. Strauss, tuttavia, ci dice che la popolazione venezuelana e i”chavisti” vedono questi piani di supporto con un occhio molto malevolo: essi lo considerano meno come un aiuto nella lotta contro l’imperialismo degli Stati Uniti che come un tentativo di “colonizzazione sino-russo -cubaine “, e quindi di interferenza diretta altrettanto riprovevole di quella degli Stati Uniti.

La Cina è sempre più presente in Sud America, dove è diventato il più grande investitore in molti paesi e il più grande partner commerciale del gigante brasiliano. Questo “piccolo” prestito di $ 5 miliardi probabilmente si inserisce nel quadro attuale della sua strategia di penetrazione commerciale “morbida” (alcuni direbbero di accerchiamento). Per quanto riguarda la Russia, d’altra parte, l’approccio sembra un po ‘diverso, e non senza rischi.

Lotta di influenza in America Latina

La Russia conosce poco l’America Latina, naturalmente dovuta a considerazioni geografiche, linguistiche e storiche. Nel nome della Dottrina Monroe, non abbandonata nonostante la relativa indifferenza di Donald Trump, lo stato profondo americano lo considera comunque come la sua zona privilegiata di influenza, con più o meno successo.

I russi hanno storicamente avvicinato questa parte del mondo durante la Guerra Fredda, principalmente attraverso il loro alleato cubano. Sebbene originariamente bolivariano stricto sensu(Dobbiamo ricordare qui che il Bolivarianismo era una dottrina nazionalista conservatrice che si opponeva alla dottrina liberale colombiana Santandériste). Hugo Chavez fu influenzato da alcuni pensatori marxisti. D’altra parte, Nicolas Maduro è un puro prodotto marxista-leninista, che è stato successivamente convertito dall’opportunismo al bolivarismo. In ogni caso, il Venezuela è gradualmente entrato in un processo di totale opposizione con gli Stati Uniti e, inversamente, in un riavvicinamento a Cuba e, indirettamente, alla Russia. Con grande pragmatismo, quest’ultima naturalmente non ha chiuso le porte a una nazione sudamericana che non era apertamente ostile ad essa.

Probabilmente in risposta alla strategia di accerchiamento del territorio russo ad opera di una NATO ormai completamente nelle mani dei neoconservatori, i russi, per la prima volta in Sud America, hanno condotto un’esercitazione militare su piccola scala all’inizio di dicembre 2018. Questo è stato l’atterraggio di due bombardieri in Venezuela e quindi un messaggio suggerendo agli Stati Uniti che la Russia ha i mezzi per far venire il “solletico” nella loro area diretta di influenza . A seguito di questo esercizio, e gli annunci di investimenti diretti nell’economia venezuelana, i rumori a Mosca dicono che i russi potrebbero pensare alla possibilità di aprire una base permanente di bombardieri in Venezuela.

Data la situazione politica quantomeno fragile di Caracas e l’ostilità della popolazione verso piani di aiuti stranieri, è tuttavia legittimo porre la questione della rilevanza di quest’ultima idea, e più in generale del sostegno fornito dalla Russia a Nicolas Maduro.

Un segno inosservato potrebbe segnalare l’inizio di un piccolo cambiamento strategico e confermare il realismo della diplomazia russa: in occasione della recente riunione del G20 a Buenos Aires, Putin ha ampiamente sottolineato il suo desiderio di sviluppare significativamente ulteriori rapporti con Argentina, e in particolare con il Brasile. Se non si mosso per il giuramento del Jair Bolsonaro del 1 ° gennaio 2019, Putin ha comunque delegato il Presidente della Duma di Stato Vyacheslav Volodin, a rappresentarlo. È stato in grado di parlare per qualche istante, e cordialmente, con il nuovo presidente brasiliano.

Convergenze di vedute tra russi e brasiliani

Nonostante la relativa ammirazione che Jair Bolsonaro dice di provare nei confronti del “Patriota” Donald Trump, e alcune battaglie comuni dei due presidenti, la linea di condotta del nuovo governo brasiliano in cui troviamo una percentuale molto alta di alti ufficiali, è in linea con la dottrina pragmatica del presidente Ernesto Geisel (1974-1979).

Come sviluppato in diversi articoli precedentemente pubblicati su Stratpol e altrove, è questa dottrina che ha causato il disallineamento strategico degli Stati Uniti nel 1977, e una relazione che può essere descritta come complicata tra le due nazioni. La dottrina militare brasiliana fu illustrata negli anni Venti per i suoi desideri di controllo del territorio e del destino nazionale, e l’esercito fu a favore quindi dell’iniziativa di sviluppo delle molte industrie strategiche del paese. Queste industrie hanno contribuito a limitare il più possibile la dipendenza del Brasile da paesi stranieri. Da un punto di vista geopolitico, l’esercito ha anche articolato l’idea di un eccezionalismo brasiliano e della necessaria leadership regionale del Brasile, che spera alla fine di diventare una delle grandi potenze mondiali.

In altre parole, le forze del nuovo Brasile, come quelle della Russia di Vladimir Putin, hanno un approccio multipolare, multilaterale, ragionevole e sovranista nelle relazioni internazionali. Le guardie del corpo di Bolsonaro sono estremamente sensibili ai segni di rispetto che altre grandi e medie potenze possono portare, e il fatto è che la Russia finora è stata estremamente misurata e rispettosa – a differenza, a proposito, dela Francia del presidente Macron.

Le relazioni commerciali tra Brasile e Russia sono ancora piuttosto limitate, e si concentrano principalmente sulle materie prime. Le possibilità di nuovi riavvicinamenti economici, tecnologici e strategici sono numerose ed evidenti. La Russia ha già dimostrato di essere l’unica grande sostenitrice del Brasile nelle sue ambizioni di seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, e questo approccio dovrebbe essere in grado di influenzare la qualità delle relazioni tra i due paesi a medio e lungo termine.

In contrasto con il Venezuela, che fa parte di un approccio sociale libertario e marxista perfettamente compatibile con l’idea del globalismo, Bolsonaro in Brazil è al passo con la Russia nel suo approccio alla società civile. Totale neutralità del servizio pubblico, lotta contro la teoria del genere, ritorno ai valori tradizionali del rispetto per la chiesa e la patria, lotta contro l’influenza politica e sociale degli oligarchi, libertà d’impresa piuttosto che libertà d’impresa, maggiore rispetto per le industrie strategiche, la lotta contro l’influenza dannosa delle ONG straniere al servizio di interessi spesso discutibili, sono solo alcune delle scelte e dei punti in comune tra questo nuovo Brasile e la Russia di Vladimir Putin.

Maduro in Venezuela non è in una situazione sostenibile

Il socialismo venezuelano di Maduro, d’altra parte, chiaramente non ha il vento nelle sue vele in Sud America. Sembrerebbe persino che il senso della storia sia sbagliato, dal momento che il continente passa al campo opposto. Tornando forse a una definizione più tradizionale di Bolivarismo, il presidente boliviano Evo Morales si era recato al giuramento del nuovo presidente del Brasile, con calore lodando il suo “fratello” Jair Bolsonaro.

Il massiccio flusso di rifugiati economici dal Venezuela al Brasile ora aggiunge un importante problema di sicurezza, umano ed economico alla reciproca ostilità ideologica tra i due paesi. Anche la Colombia e il Perù sono direttamente o indirettamente colpiti dalla situazione umanitaria venezuelana. I tre paesi erano ansiosi di riconoscere le affermazioni di Guaido, in nome di un “tutto tranne Maduro” finalmente comprensibile.

Mentre scuote alcuni uffici editoriali, anche a Mosca, l’idea di un intervento militare brasiliano in Venezuela (forse con il sostegno della Colombia) sembra ancora irrealistica. Si scontra anche con le abitudini dell’esercito brasiliano, molto più esperto nell’esercizio del soft power che nei conflitti diretti. Per Bolsonaro, il “fronte” è comunque all’interno del Brasile stesso. Non poteva permettersi di schierare forze armate all’estero, e quindi di rompere le sue promesse elettorali di rapido ripristino dell’ordine, sicurezza e progresso economico sul territorio nazionale – almeno non durante questa prima legislatura.

Jair Bolsonaro ha effettivamente indebolito Maduro eliminando sine die molti programmi di scambio economico precedentemente organizzati (in perdita) tra Brasile, Venezuela e Cuba da Lula e Dilma Rousseff. L’apertura dei conti della Banca nazionale di sviluppo (BNDES) di Rio de Janeiro ha anche rivelato il finanziamento di massicce transazioni fraudolente tra il produttore brasiliano Odebrecht e il governo di Caracas (circa 12 miliardi di reals – 3 miliardi di euro), gettando il Venezuela in ulteriore imbarazzo.

Un’opportunità storica per la Russia in Sud America

La tentazione è grande (e in qualche misura legittima) per i russi di opporsi direttamente agli Stati Uniti sul dossier venezuelano. La legittimità e il sostegno popolare del presidente Maduro, tuttavia, sono particolarmente bassi; è impossibile prevedere anche quando l’esercito di questo paese, più patriottico che chavista possa continuare realmente a sostenere il regime. In queste circostanze, il sostegno incondizionato al governo venezuelano corrente è senza dubbio una scommessa rischiosa.

La Russia, tuttavia, ha un’opportunità storica per mantenere il suo attuale rapporto strategico con il Venezuela e per costruire forti legami con il Brasile. Basterebbe che sorgesse come garante obiettivo e ragionato delle discussioni che si terranno tra le varie parti coinvolte: governo, opposizione, militari, nazioni vicine. Tutti questi attori non mancheranno di notare rapidamente la accortezza della diplomazia russa, che contrasta nettamente con il solito compiacimento degli Stati Uniti. Un colpo da maestro sarebbe quello di riunire i militari venezuelani boliviani e brasiliani, la cui visione dell’indipendenza sudamericana è finalmente abbastanza vicina – e nessuno dei quali è un vera e propria emanazione dello stato profondo degli Stati Uniti.

Oltre a ciò, la Russia starebbe gettando le fondamenta per un lavoro certosino e approfondito volto a sedurre e persuadere un nuovo alleato potenziale che i suoi interessi geostrategici a lungo termine coincidano molto più di quanto s immagini con i propri.

Greta sì, Greta no_ di Pierluigi Fagan e Roberto Buffagni

Pierluigi Fagan

 

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA. Sulla questione ecologia-Greta, mi trovo in dissenso profondo con molti amici ed amiche con i quali, di solito, si hanno punti di vista comuni. Che fare? Lasciar perdere per non sfilacciare ulteriormente le già sparute file del pensiero critico, o far di questo dissenso un momento di dialettica interna al nostro stesso pensiero critico? La domanda è retorica in tutta evidenza, la scelta è già fatta. Perché?

Ho l’impressione, forse sbaglio e chiedo in sincerità di dibattere la questione tra noi con la ponderazione ed intelligenza tipica dei frequentatori di questa pagina, che noi si sia finiti in un setting di pensiero la cui matrice per altri versi siamo molto lucidi a criticare. Per ragioni che qui non possiamo affrontare, ad un certo punto del secolo scorso, già ai suoi inizi, si è andata manifestando nel pensiero, uno spostamento di asse. Tra la relazione soggetto – oggetto fatta dal pensiero, è emerso il problema dello strumento che ci fa comporre e scambiare il pensiero: il linguaggio.

Tralasciamo i riferimenti più o meno colti e passiamo al momento successivo, quando un filosofo francese minore, pone all’attenzione la natura narrativa di ogni discorso, narrazioni fatte di linguaggio. Il linguaggio è materia della forma discorsiva che influisce, limita, indirizza il discorso stesso ed in più, tutto è discorso. Penso nessuno possa sottovalutare l’importanza di queste osservazioni ormai patrimonio della nostra conoscenza. Per altro ci era già arrivato anche Eraclito, e non solo lui, qualche secolo fa.

Danno da pensare due cose. La prima è il venirsi a formare di una sorta di monopolio concettuale di questo fatto, tutti ormai parlano più o meno solo di questo, tutto è narrazione e contro-narrazione.

Il secondo è che tale sviluppo è parallelo a fatti storici di estrema magnitudo. Nel mentre ci interrogavamo sulle parole e le cose, la grammatica generativa, le parole per dirlo, il media è il messaggio, in Occidente abbiamo fatto due guerre per un totale approssimato di 80 milioni di morti, abbiamo raggiunto la manipolazione nucleare a cui poi abbiamo fatto seguire la società dei consumi ed oggi la società dominata da un media (Internet), il libero scambio e dai rentier. Ma davvero ciò che diciamo è tutto nello strumento che usiamo per dirlo e nei veicoli che usiamo per scambiarcelo?

Rosa Parks era una sartina dell’Alabama, che non aveva finito gli studi di istruzione secondaria, che un giorno del 1955, tornando a casa stanca per il lavoro, osò sedersi su un sedile dell’autobus riservato ai bianchi. Venne arrestata per questo e questo fece scoppiare una contraddizione. Rosa Parks non fondò il movimento dei diritti civili, c’era già Martin Luther King, non andò in televisione a fare portavoce di quelle istanze, né pubblicò libri. Probabilmente, oggi sarebbe diverso perché diversa è la struttura della comunicazione e della formazione e gestione dell’opinione pubblica.

Ho visto su Repubblica stamane due cose. Uno è un video di interviste a giovani ieri riuniti a Piazza del Popolo, nel quale si tendeva a metter in contrasto i proclami integralisti di Greta contro lo shopping e l’utilizzo di aerei. L’altra è una intervista fatta da Formigli che sorrideva ironico mentre la ragazza svedese (ha sedici anni, non si capisce perché molti la chiamano “bambina”) ripeteva i suoi punti di vista che potremmo definire “ingenuamente radicali”. Domandava anche dell’Asperger come se a Rosa Parks avessero domandato della sua mancanza di diploma, come le gerarchie cattoliche chiesero a Giovanna d’Arco divenuta un po’ troppo ingombrante dopo aver svolto la funzione simbolica, quale fosse la sua formazione teologica ed i suoi rapporti con la magia. Mi sembra cioè che non tutto il mainstream sia poi così tranquillo nell’utilizzare la Rosa Parks svedese.

Di contro, la ragazza sciorinava il decalogo dell’ambientalista individuale ma due volte, sottolineava che il problema -in realtà- è sistemico. Dire che un viaggio in aereo inquina di più di tutti i nostri possibili sforzi sulla raccolta differenziata, è intaccare un caposaldo del nostro attuale modo di vivere. Dire di avere un cellulare di quattro anni fa datogli da uno che non lo usava più, anche. Dire che vanno bene i comportamenti individuali responsabili ma il problema è a livello di multinazionali e governi è un inquadramento proto-politico. Dire che il settore energetico svedese è “abbastanza pulito” ma aggiungere che serve a poco se si continua “a consumare, costruire, importare ed esportare merci” non è molto conforme al modo di vedere il mondo del WEF di Davos. O dire che in fondo Trump è meno ipocrita di tanti leader europei che si sciacquano la bocca con pie intenzioni a cui non conseguono fatti o “è tutto il sistema che è sbagliato ed i media hanno più responsabilità di ogni altro poiché se non c’è corretta informazione non c’è conoscenza diffusa e non può esserci mobilitazione” non sembrano imbeccate di chi presuntivamente la starebbe “manipolando” per fini neo-liberali. O almeno non solo, o almeno non del tutto.

Allora, certo la ragazza ha sedici anni ed ha la sua conformazione mentale bianco-nero. Ha dietro qualcuno ovvio. La sua rivolta individuale è stata da qualcuno scelta per far notizia e di notizia in notizia è diventato “un caso”. Un “caso” manipolato da opposti interessi, ovvio. Ognuno contribuisce a creare quel caso parlandone, nel bene e nel male. Inoltre, voluto o meno, l’intero discorso finisce per collassare sul riscaldamento climatico che è un terreno complesso ed incerto, facile da negare o sminuire o dubitare, quando invece attiene a questioni ben più complesse ed assai meno dubitabili, sminuibili, negabili.

Quello che mi e vi domando è perché non ci lamentiamo dell’assenza di un Martin Luther King, di un “movimento” politico che su questo tema possa far battaglia politica trasformativa del nostro modo di stare al mondo? Perché molte menti acute si dilettano solo in contro-narrazione della narrazione gretesca (ma è poi quella di Greta o è delle interpretazioni che gli sono state appiccicate addosso?) e non vanno alla cosa, cosa che non fa meno parte del dominio neo-liberale al pari delle diseguaglianze? Perché non c’è chi usa il simbolo a modo suo riempiendo di contenuti forti una questione che rischia di finire nel calderone del tema d’opinione settimanale e via alla prossima? Perché ci accaniamo sul media e sottovalutiamo il messaggio o almeno le sue potenzialità?

Insomma, non è che nella curva parabolica della svolta linguistica, siamo anche noi finiti nel paradigma ebraico de “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.”? Non è che schifiamo quei giovani ingenui e grezzi come ai nostri tempi altri disprezzavano la nostra ingenua indignazione per l’ingiustizia? Non è che la nostra critica ha finito col pender le stesse forme del discorso dominate trasformando tutto in inconsistenti nuvole di parole che non smuovo un granello di polvere?

Tra soggetto, linguaggio, discorso-narrazione, l’attenzione alla “parola” ci stiamo perdendo la “cosa”? E’ a questo che è servita la svolta linguistica? Trasformare tutto in pulviscolo per cui non si possono più far mattoni e con mattoni, nuove città? Non era forse questo “far città con le nostre mani” che dio voleva evitare colpendo Babele con la sua maledizione? Non stiamo noi stessi aiutando coloro che vogliono imporre “fatti” mentre noi si fanno solo “discorsi”?

A chiudere, una sola nota. Praticamente tutta la filosofia anglosassone cioè anglo-americana, quindi intrinsecamente scientista, liberale, mercato come meccanismo ordinante ogni sociale, tutto il pensiero complesso recente e dominante di quella cultura, si basa sulla svolta linguistica. Della serie “pensiamo a come pensiamo”, poi parliamo.

 

 

Roberto Buffagni

 

Perchè non me ne frega niente di Greta e delle sue opere? Non me ne frega niente perchè a) Greta è un Golem, mi fa pena e impressione (anche come padre) b) sotto c’è la fregatura malthusiana c) adesso semmai c’è bisogno di investimenti industriali, fabbriche a rotta di collo d) l’ambiente come propostomi dagli ambientalisti mi lascia gelido, mi piace la natura, l’aria aperta, i panorami, le bellezze naturali, sono cacciatore etc. e così la natura mi illumina la vita, mi poetizza, mi fa bene alla salute etc., ma quando me la propongono tipo bugiardino delle medicine non me ne frega niente, la mia reazione emotiva al riscaldamento climatico è “e io mi compro il condizionatore” e) l’altra natura che mi interessa sul serio, e che credo anche sia, come dire: d’attualità filosofico-politica? è la natura umana, e quella sì che mi mobilita, perché c’è tanta gente che la minaccia (poi c’entra anche con la natura non umana ma è un altro discorso) f) una proposta politica unificante che abbia come tema “salviamo il mondo” mi sembra destinata alla totale inefficacia e/o a usi preoccupanti, perché da un canto prevede possibile la concordia universale di tutti i buoni contro i cattivi inquinatori, dall’altro sottovaluta la caratteristica specificamente umana di fregarsene dei dati di realtà e operare, invece, sulla base di motivazioni riconducibili sia al proprio interesse personale o di gruppo, sia al desiderio eventualmente anche autodistruttivo, bref mi sembra ricadere sotto le critiche tipiche che si possono rivolgere contro l’universalismo politico.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/102176207669665731

Morte di un presidente, di Eric Margolis

 

GARCIA SCEGLIE DI USCIRE DI SCENA DA VERO UOMO

 

20 aprile 2019

Il carismatico ex-presidente del Perù, Alan García, un tempo salutato come “il John F. Kennedy dell’America Latina”, si è ucciso lo scorso mercoledì con un colpo di pistola alla testa. Una tragedia e allo stesso tempo la perdita di un uomo brillante.

Nel 1985 volai a Lima a intervistare García per conto del Wall Street Journal di New York. Garcia aveva appena assunto l’incarico di Presidente; credo di essere stato il primo giornalista non latinoamericano a intervistarlo. García era il successore del nazionalista Haya de la Torre, fondatore del partito militante dell’APRA, il cui scopo era quello di nazionalizzare le proprietà straniere nelle Americhe e mandare a casa gli yankee.

Lima, capitale del Perù di 9,8 milioni di abitanti, fu fondata dal Conquistador Pizarro nel 1535, quasi un secolo prima della mia città natale: New York City. La capitale del Perù, a quell’epoca era buia, polverosa, fredda e spettrale. Milioni di peruviani di lingua nativa quechua si erano trasferiti in massa a Lima provenienti dalle impoverite Ande. Le strade pullulavano di mendicanti e borseggiatori.

La situazione e il crimine a Lima era così grave che, mentre venivo accompagnato al palazzo presidenziale, il Capo di Cabinetto di Garcia mi aveva avvertito di togliere l’orologio e gli occhiali. Perché? “Possiamo essere attaccati anche sui gradini del palazzo”, rispose il mio accompagnatore.

Fui presentato ad Alan García, il nuovo presidente. Lui non parlava inglese; il mio spagnolo era orribile, ma abbiamo scoperto che eravamo entrambi laureati in università di lingua francese, lui alla Sorbona a Parigi e io all’Università di Ginevra. Così ci siamo messi a parlare in un confortevole francese, che ha rilassato me e l’amabile presidente. Garcia; di primo acchito mi sembrava una persona gradevole.

La nostra intervista è stata la sua prima occasione per rivolgersi agli americani e, in particolare, a Wall Street. Il Perù era sommerso dal debito estero e incapace di sfruttare la sua vasta industria mineraria senza incorrere in nuovi prestiti esteri. All’epoca i 19,5 milioni di persone che vivevano nel paese erano sopraffatti da miseria, povertà e disperazione.

Nelle alte Ande, la ribellione era in corso, guidata da due gruppi terroristi marxisti; il Túpac Amaru e il ben più pericoloso: Sendero Luminoso. Questi ultimi adottarono il maoismo e cercarono di trasformare il Perù in una seconda Albania staliniana! Per quanto deliranti e lunatici fossero, gli attivisti del Sendero Luminoso inflissero gravi danni al Perù fino a quando il successivo presidente, il feroce nippo-peruviano Alberto Fujimori li annientò (Fujimori è attualmente in prigione per omicidio e rapimento).

Nel corso della nostra intervista, convinsi García ad ammettere che sì, era un socialista, ma del tipo “europeo benevolo.” Dopo aver riportato il commento di García sul Wall Street Journal, negli Stati Uniti scoppiò un grande putiferio. In quelli stessi Stati Uniti, dove in pochi sapevano cosa fosse e dove fosse il Perù, uscirono titoli del tipo: “García ammette di essere un socialista”. C’erano affermazioni isteriche come “il Perù è una testa di ponte di Mosca e L’Avana.” Tutte sciocchezze naturalmente, ma tanto bastò perché i campanelli di allarme sul pericolo rosso si accendessero a Washington come a New York, seminando il panico fra banchieri e politici.

Mi sentii mortificato. I miei editori cercavano da me notizie sensazionali, non notizie normali e concrete. García in realtà rappresentava solo un semplice amministratore economico e un sognatore seduto su una torre d’avorio, un accademico senza alcuna idea di come gli affari funzionassero. Sotto di lui l’inflazione tocco` il 7,500%.

Fu precursore del venezuelano Hugo Chávez.

Alla fine del suo primo mandato nel 1990, García se ne andò con disonore andando a rifugiarsi nella sua vecchia facoltà di sociologia a Parigi. Dal mio punto di vista, la sociologia è la più grande ciarlataneria nel mondo accademico ad eccezione degli studi sui vari sessi che sono ancora peggio. La frenologia è più affidabile. García e io discutemmo delle tediose opere del sociologo francese Émile Durkheim fino a tarda notte.

Nel 2006, Garcia è riuscito a farsi rieleggere in Perù, questa volta promettendo rettitudine finanziaria, onestà e solide strategie economiche. I suoi successori furono deposti o imprigionati per corruzione. Garcia iniziò bene, ma presto si  fece soverchiare dal malaffare.

La fonte principale di questo malaffare era il più grande conglomerato di ingegneria / energia dell’America Latina, il leviatano Odebrecht, con sede in Brasile il quale ha provocato il più grande scandalo di corruzione del continente latino-americano. La ditta brasiliana ha pagato almeno 788 milioni di dollari in tangenti a capi di stato e politici in dodici nazioni latine per ottenere lucrosi contratti commerciali.

Finora, lo scandalo dei mostri, conosciuto in Brasile come “Lava Jato” (autolavaggio) ha abbattuto gli ex presidenti del Brasile, Collor de Mello, Dilma Rousseff, Lula da Silva; tre ex presidenti peruviani e leader in Ecuador, Venezuela, Panama e Repubblica Dominicana. La madre di tutti i casi di corruzione.

Alan García era prossimo all’arresto in questo scandalo. Quando è arrivata la polizia peruviana, Garcia si è sparato alla testa morendo poco dopo – una via d’uscita da vero uomo. Garcia era un uomo carismatico e mi mancherà. Adiós, el presidente!

 

Copyright Eric S. Margolis 2019

 

https://ericmargolis.com/2019/04/perus-garcia-takes-the-mans-way-out/

PERU’S GARCÍA TAKES THE MAN’S WAY OUT

Storia, Geopolitica e conflitti: appunti didattici, di Giuseppe Gagliano

Storia, Geopolitica e conflitti: appunti didattici.

È evidente che la lettura degli eventi storici può essere attuata attraverso approcci metodologici differenti. Per quanto mi concerne, nella mia attività di docente a Como, sono partito da una interpretazione che pone l’enfasi sul conflitto.

La storia è determinata infatti da una permanente e incessante conflittualità di natura politica, economica e militare, conflittualità cagionata da una lotta di potere per l’egemonia culturale, politica, economica(come mi ha insegnato Christian Harbulot direttore della Scuola di guerra economica di Parigi che è stato non a caso allievo di Braudel).

La storia, insomma, si muove sotto il segno di Ares. Il compito del docente è quello di dare ai discenti strumenti storiografici di alto livello per capire le linee di forza di questa dinamica conflittuale per comprendere, avrebbe detto Machiavelli, “la verità effettuale”.

Un altro aspetto che ho cercato di sottolineare con le mie studentesse di terza è il contributo dato da Carlo Maria Cipolla che, per esempio, sottolinea come i cinesi e gli arabi furono tecnologicamente all’avanguardia fino al XV secolo. Ma fu solo verso la metà del XVI secolo che l’Europa occidentale cominciò a prendere il sopravvento. Il carattere innovativo dell’Occidente derivò da due fonti. La prima era di natura culturale poiché incoraggiava il dominio sulla natura grazie alla sperimentazione, alla ricerca scientifica e alle ricompense riconosciute al capitalismo.

La seconda era la natura competitiva del mondo occidentale in cui stati abbastanza potenti da lanciarsi il guanto di sfida-Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Stati Uniti-si contesero in vari fasi il predominio sull’Europa. Ma a rivaleggiare nel contesto della civiltà europea non erano soli Stati. Banchieri e commercianti si facevano concorrenza e incoraggiavano la competizione tra re e Stati.

È insomma tra il XV e il XVIII secolo, come hanno dimostrato altri storici come Geoffrey Parker (storico militare sia Cambridge che a Yale) e Daniel R Headrick (docente di storia alla Università di Chicago), che la superiorità tecnologica europea si è manifestata sotto forma di navi e cannoni».In altri termini la
competizione economica, militare e tecnologica nella realtà storica sono elementi strettamente intrecciati.

Facciamo un altro esempio. Come sottolinea Peter Hugill, docente di geografia all’Università del Texas nel suo splendido saggio “Le comunicazioni mondiali dal 1844” (Feltrinelli), il primo importante stato mercantile, l’Olanda, si era formata come potenza europea verso la fine del 1500 introducendo importanti innovazioni come la centralizzazione del sistema bancario, la facilitazione del credito e la condivisione dei rischi attraverso la multiproprietà delle navi mercantili.

Per difendere l’immenso potere commerciale prodotto della sua flotta mercantile, l’Olanda investì massicciamente una flotta da guerra. Verso la fine del seicento, l’Inghilterra, nel tentativo di subentrare all’Olanda, riprese perfezionandole quelle innovazione.

I Navigation Act ,ideati per contrastare il potere commerciale dell’Olanda negando alle sue navi libero accesso ai porti britannici, costituirono un’altra importante innovazione così come l’adozione del principio mercantilistica con cui veniva data preferenza ai commerci con le colonie britanniche rispetto al libero mercato.

Seguendo l’esempio olandese, l’Inghilterra, a partire dalla metà del seicento, investì massicciamente per aumentare la potenza della sua flotta. Questa riflessione ,ad esempio, estrapolata dal saggio di Wende sull’impero britannico è stato concretamente utilizzata in una mia classe quarta facendo riferimento soprattutto ad Oliver Cromwell.

Insomma il ruolo della potenza militare ed economica ha svolto un ruolo essenziale nella dinamica conflittuale della storia.Infatti nella realtà storica hanno giocato, e giocano, un ruolo fondamentale. Basti pensare solo alla Cina e alla sua trasformazione in un potenza in grado di rivaleggiare alla pari con gli USA. Ad ogni modo facciamo, ancora una volta, due esempi storici. Il primo relativo alla espansione marittima dell’Europa.

Come dimostra Cipolla il veliero armato inventato dall’Europa atlantica nel corso dei secoli XIV e XV rese possibile l’espansione europea perché si trattava di uno strumento eccezionalmente efficiente che poteva navigare con un equipaggio relativamente ridotto capace però di controllare inusitate masse di energia inanimata per movimento distruzione. Insomma, grazie alle caratteristiche rivoluzionarie delle loro navi da guerra, gli europei in pochi decenni stabilirono il loro predominio sugli oceani.

A tale proposito, questo brano estrapolato dal saggio di Cipolla, mi è servito per fare comprendere alle studentesse di una terza liceo le differenti forme di crescita fra Europa e paesi extraeuropei. Ebbene, l’espansione marittima dell’Europa fu una delle circostanze che prepararono il terreno alla rivoluzione industriale e ,d’altra parte, la rivoluzione industriale stimolò a sua volta l’espansione europea. Una delle tesi alle quali giunge lo storico Cipolla, assolutamente condivisibile, è che il popolo tecnologicamente più progredito è destinato a prevalere, indipendentemente dal suo grado di civiltà.Il secondo esempio è relativo alla potenza economica della Spagna del cinquecento.

Infatti, su quale fondamento si basò la potenza economica, ed anche militare, della Spagna del ‘500? Uno di questi furono certamente le miniere di Potosì e di Zacatecas che diedero l’oro di cui la Spagna aveva bisogno per la sua proiezione di potenza come illustra magnificamente Cipolla nel saggio “Conquistadores, pirati, mercanti “(il Mulino)».

Anche allo scopo di verificare la credibilità di questa impostazione metodologica ho posto alle studentesse di una quarta liceo di Como queste domande:

Secondo il vostro punto di vista quale ruolo ha il conflitto, per esempio quello tra poteri, all’interno della storia?

Secondo la vostro opinione qual è il ruolo della globalizzazione commerciale nella storia studiata durante il quarto anno?

Il ruolo della tecnica, secondo la vostra opinione, ha avuto un ruolo rilevante nel predominio dell’Occidente o ha invece avuto un ruolo marginale?

L’intreccio tra potere militare, economico e politico ha svolto un ruolo fondamentale nella storia studiata quest’anno?

Le risposte date sono state uniformi. In particolare per la prima domanda è stata posta la giusta attenzione sul ruolo del conflitto nel contesto della Rivoluzione inglese e francese; per quanto concerne la seconda domanda l’attenzione è stata rivolta al ruolo del colonialismo nel seicento e nel settecento e, in particolare, al ruolo del commercio triangolare anche facendo riferimento ai contributi storiografici di Reinhard.

In relazione alla terza domanda ovviamente l’enfasi non poteva che essere posta sulla rivoluzione industriale interpreta prevalentemente a partire dalle riflessioni di David Landes e Christofer Hill. Infine, nella ultima domanda, il riferimento fatto è stato quello alla modernizzazione militare posta in essere da Pietro il Grande e alla proiezione di potenza di Caterina sul Mar Nero.

Giuseppe Gagliano

Introduzione a geopolitica e Internet Di  Laurent BLOCH

Introduzione a geopolitica e Internet

Di  Laurent BLOCH , 23 marzo 2017  Stampa l'articolo  lettura ottimizzata  Scarica l'articolo in formato PDF

Precedentemente responsabile dell’informatica scientifica presso l’Institut Pasteur, direttore del sistema informativo dell’Università Paris-Dauphine. È autore di numerosi libri sui sistemi di informazione e sulla loro sicurezza. Si dedica alla ricerca nella cyberstrategia. Autore di “Internet, vettore di potenza degli Stati Uniti”, ed. Diploweb 2017.

Internet è un fattore di potenza degli Stati Uniti? Se sì, come? Perché? fino a quando? Lo scopo di questo libro è di fornire alcune risposte a queste domande.

Laurent Bloch presenta in questa introduzione il suo approccio e il suo piano.

Diploweb.com , pubblica questo libro di Laurent Bloch, Internet, vettore del potere degli Stati Uniti?; fornisce a tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della situazione. Questo libro è già disponibile su Amazon in formato digitale Kindle e in formato cartaceo stampato . Sarà pubblicato qui in serie, capitolo per capitolo, ad una velocità di circa uno per trimestre.

introduzione

Internet è un fattore di potenza degli Stati Uniti? Se sì, come? Perché? fino a quando?

Lo scopo di questo libro è di fornire alcune risposte a queste domande.

Il primo capitolo ricorda brevemente il processo di creazione di Internet , non come spesso si legge per scopi militari, ma attraverso finanziamenti militari statunitensi, e in gran parte da cittadini statunitensi, nonostante importanti contributi europei come French Louis Pouzin  [ 1 ] . Il fatto di essere gli inventori di Internet ha dato agli Stati Uniti un’egemonia in quest’area. Sarebbe irragionevole aspettarsi che desistessero di propria iniziativa.

Il secondo capitolo specifica precisamente la natura di questo dominio che è Internet e introduce a questo scopo la nozione di cyberspazio , a cui verrà data una definizione e un modello operativo. Il cyberspazio sarà paragonato ad altri spazi pubblici globali (Global Commons) come l’alto mare, lo spazio aereo e lo spazio esterno. Come si esercita l’egemonia nel cyberspazio? Come si muovono gli Stati Uniti e le aziende statunitensi? Perché ora nel cyberspazio viene decisa l’attribuzione dell’egemonia globale?

Le polemiche sulla corsa alle elezioni presidenziali americane del 2016 hanno suggerito che la Russia sarebbe in grado di sfidare il dominio degli Stati Uniti sul cyberspazio: vedremo che non è così, anche supponendo che la Russia sia stata in grado di trarre vantaggio abilmente delle sue abilità in un approccio classico da debole a forte. Se l’egemonia americana nel cyberspazio è effettivamente soggetta a sfide, vengono piuttosto dall’Asia orientale, così come le debolezze interne della società americana, incluso il suo sistema educativo (vedi capitolo 7).


Un libro pubblicato da Diploweb.com, Kindle e formato tascabile


Il capitolo 3 analizza il funzionamento delle istituzioni di fatto che regolano il funzionamento di Internet e la posizione dominante degli americani. Capitolo 4 è dedicato alle grandi dati (Big Data) e il suo utilizzo da parte delle imprese (quasi tutti americani) per aumentare il loro potere . Il capitolo 5 esamina gli aspetti legali degli equilibri di potere nel cyberspazio . Nessuna egemonia politico-militare duratura è possibile senza egemonia culturale: questo è il tema del capitolo 6 sull’egemonia culturale nel cyberspazio . In un universo economico dove avere ricercatori e ingegneri di alto livello è un fattore di successo cruciale,il sistema educativo , che è l’argomento del capitolo 7, ha un ruolo decisivo.

Per comprendere le lotte di potere nel cyberspazio è necessario collocarle nel loro contesto storico, e per far ciò tornare alla guerra economica che ha contrapposto il Giappone agli Stati Uniti negli anni ’70 e ’80 , riassunto nel capitolo 8 Cercheremo di estrapolare le lezioni di questo conflitto all’ipotesi di conflitti sino-americani e russo-americani nel futuro (anche nel presente!).

Nel cyberspazio, come in altri spazi, le questioni topografiche hanno una grande influenza sull’esito delle battaglie, e nel Capitolo 9 esamineremo le ragioni che fanno di una posizione centrale una risorsa decisiva nel cyberspazio; questa posizione è occupata oggi dagli Stati Uniti .

Per comprendere tutti gli eventi che avvengono nel cyberspazio, oggi a vantaggio degli Stati Uniti, è necessario collocarli nel contesto di una rivoluzione industriale in atto dalla metà degli anni ’70, che mette il calcolo e Internet nel cuore del sistema industriale contemporaneo, al posto dell’elettricità industriale e del motore a combustione interna che dominava la grande industria del secolo precedente. Per fare luce sul nostro argomento, abbiamo aggiunto al nostro testo un allegato A che spiega brevemente la nozione della rivoluzione industriale e come si applica al nostro oggetto.

Molti aspetti dell’equilibrio di potere descritti nelle linee seguenti sono difficili da capire se non abbiamo un’idea abbastanza precisa degli aspetti materiali del cyberspazio, l’enorme quantità di investimenti da fare per occupare una posizione di potere. , la pesantezza dell’infrastruttura di Internet. Queste realtà devono essere lette, che è l’argomento dell’Appendice B, per capire che il cyberspazio non è solo uno spazio “virtuale” .

1 ]  Louis Pouzin, ingegnere e ricercatore francese, ha inventato alcuni importanti artefatti ancora in uso nell’informatica contemporanea: la shell per comunicare con un sistema operativo, e specialmente il datagramma, descritto nel primo capitolo di questo libro, concetto base rivoluzionaria del funzionamento di Internet

Julian Assange e le colonne (i colonnisti) infami, di Giuseppe Germinario

È sicuramente presto per stilare una graduatoria, ma di sicuro l’arresto di Julian Assange sarà in ottima posizione per conquistare il primato dell’evento più infame dell’anno. Si spera in qualche copertina alternativa al Time o al Financial Time. Anche il lato oscuro deve meritare almeno una lama di luce caravaggesca.

È la conferma di una amara constatazione. Il potere consolidato solitamente sa e può aspettare meglio di chi gli si oppone nel decidere tempi e modi di azione.

Perché tanto accanimento su Julian Assange?

In fondo, in questi dieci anni, è stato solo il punto terminale, dedito alla diffusione imparziale di un flusso immane e sorprendente di informazioni riservate e segrete rilasciate da ambienti specifici dei servizi di “intelligence” americani.

La Ragion di Stato del resto aveva individuato e neutralizzato i trafugatori e messaggeri di quel tesoro: Edward Snowden, rifugiato in Russia e Chelsea Manning, condannata, graziata da Obama e reincriminata recentemente con Trump. I pesci in realtà, a prima vista, paiono troppo piccoli per gestire da soli una simile impresa.

Pare che il destino, piuttosto che la Giustizia o la faida interna, abbia sentenziato provvidenzialmente la sorte di Rich Seth, il probabile vero responsabile di quelle fughe. Morto di una morte violenta, rimasta oscura nella dinamica e negli autori soprattutto per la frettolosità e il disinteresse con i quali sono state archiviate le indagini.

Perché, quindi, continuare nella persecuzione?

Le divergenze di strategie tra i diversi centri decisionali statunitensi si stanno rivelando inconciliabili sino a ridurre la lotta politica sullo scenario istituzionale ad una guerriglia pretestuosa e senza regole con una fazione disposta a prediligere, in mancanza di argomenti, l’arma giudiziaria e la diffamazione come strumento di eliminazione dell’avversario; le conseguenze distruttive sulla credibilità, la autorevolezza e la capacità di sintesi degli apparati e delle istituzioni sono disastrose. La traduzione operativa degli indirizzi da parte degli apparati si è trasformata in una lotta di potere senza esclusione di colpi sempre più ostentata e sempre meno propensa alla riservatezza necessaria a rendere l’esercizio del potere presentabile ed accettabile. Siamo alla parziale emersione dello stato profondo e della disarmonia della sua azione tipica delle crisi di sistema.

Da qui le crisi di coscienza di alcuni e l’ostentata arroganza e sicumera di altri. Uno dei motivi di tanta protervia nasce quindi dalla consapevolezza che le schegge impazzite e i grilli parlanti sono destinati a proliferare e diventare sempre più incontrollabili. Non rimane quindi che tentare di stringere ulteriormente la morsa sul sistema mediatico e di eliminare le voci dissenzienti, specie quelle non schierate, almeno apertamente e quindi più esposte.

Il grande merito di Julian Assange e della sua squadra è di aver creato un sistema di acquisizione e diffusione delle informazioni schermato in modo tale da rendere difficoltosa l’individuazione delle gole profonde.

Inizialmente la sua attività di divulgazione sembrava orientata ai danni della componente neocon repubblicana e delle sue avventure militari in Afghanistan e Iraq. Da qui la tolleranza e la popolarità negli ambienti democratici americani e progressisti in Europa. La condizione di Assange da paladino della libertà e della democrazia a strumento di potere e burattino nelle mani di Putin e dei suoi utili idioti si è ribaltata con la divulgazione delle malefatte del clan dei Clinton ai danni degli avversari interni al Partito Democratico e dei presunti suoi avversari repubblicani in grado di minacciare le sue ambizioni presidenziali. Trump non era tra questi ultimi; era ritenuto, anzi, l’avversario più debole e di comodo. Alle malefatte di piccolo cabotaggio si è aggiunta la pubblicità su quelle di calibro più pesante legate al suo ruolo di segretario di stato, in particolare durante l’intervento in Libia e nell’intreccio di relazioni con i sauditi.

In realtà lo straordinario patrimonio di informazioni detenuto da Wikileaks, composto da centinaia di migliaia, se non da milioni di file, non copre il solo spazio prettamente politico ed istituzionale americano; ospita diversi ambiti di azione strategica nei più vari angoli del mondo, compresi quelli di altri stati e delle multinazionali, in particolare quelle impegnate nel campo della elaborazione e gestione dei dati, sempre più sorprese  a colludere e fare affari mettendo a disposizione i propri dati. Si deve dar atto ad Assange e Wikileaks della veridicità di tutte le informazioni sino ad ora diffuse e della trasparenza di accesso ad esse.

Si sa però che l’informazione non è mai neutra. È soggetta alle pratiche di divulgazione, di interpretazione rispetto ai contesti e di manipolazione. Il dato viene individuato è costruito all’interno di queste dinamiche.

L’ulteriore contributo di wikileaks è stato quello di distribuire in pacchetti le informazioni. Sono il sistema mediatico e i singoli organi di informazione ad interpretare, selezionare, contestualizzare e diffondere i vari contenuti di wikileaks. Il loro problema, però, è che da almeno dieci anni non dispongono più del monopolio dell’informazione grazie alla diffusione delle reti social, a cominciare da Facebook e Twitter. Se queste reti da una parte, assieme alle agenzie di stampa, liberano in gran parte dall’onere, dai rischi e dalla gratificazione del lavoro di inchiesta gli organi di informazione, dall’altra consentono la proliferazione di canali alternativi spesso alternativi ed in competizione con quelli classici, almeno sino a quando i furori censori e la manipolazione sapiente della disponibilità dei dati avrà preso compiutamente il sopravvento. Sono dinamiche che assieme al potere di formazione della opinione pubblica stanno erodendo irreversibilmente le basi economiche del sistema e svelando pericolosamente i cordoni ombelicali e i meccanismi che legano la stampa libera e i centri di potere. Un arretramento che produce il riflesso incondizionato della partigianeria tanto settaria quanto più avulsa e dell’ulteriore perdita di autorevolezza.

Queste strategie e dinamiche, nella loro individuazione oggettiva, sono comunque il frutto di scelte soggettive degli attori in campo; di uomini con la loro intelligenza e con la loro stupidità, con il loro senso di opportunità e con la loro incomprensione dei tempi, con i loro propositi e le loro rivalse, con la loro generosità e la loro cattiveria, con la loro schiettezza e infine la loro infamia.

Julian Assange è caduto purtroppo nella morsa costrittiva della rivalsa dei centri di potere più cinici e dei detrattori, i più meschini dei quali sono proprio quelli che hanno fruito sino ad un minuto prima delle sue informazioni.

Le schiere di avversari livorosi si sono infoltite paurosamente offrendo agli strateghi della persecuzione nuovi strumenti e coperture per procedere nel loro disegno di annichilimento fisico e psicologico. Tanto più la fetta di privilegio da difendere è risicata tanto più il gelido cinismo si trasforma in livorosa rivalsa ed infamia.

Appena un anno fa abbiamo apprezzato il ventriloquo Soros lamentare l’eccessiva libertà e il pericolo conseguente di manipolazione dei social network. Appena un mese dopo è scattata l’operazione di rigorosa normalizzazione  dell’azione di questi, i cosiddetti GAFA i quali ovviamente pretendono il necessario lucro dal mercimonio. Una pratica che ha messo però a nudo la superiorità strategica legata alla straordinaria capacità di controllo e manipolazione dei dati delle aziende statunitensi e la diretta connivenza con gli apparati di intelligence. Un mondo che Assange aveva iniziato a disvelare. Un mondo che non tollera scorribande, in grado di presentare la vendetta su un piatto freddo.

IL GELIDO CINISMO

Hanno atteso sette anni. Con le dovute pressioni sono riusciti a trasformare l’asilo politico nell’ambasciata equadoregna a Londra in una prigionia sempre più insostenibile e sofferente sino al tradimento della revoca dello status di rifugiato. Dal cinismo delle alte sfere si passa quindi all’infamia da kapò del Presidente Moreno. Un primo obbiettivo è stato raggiunto: consegnare Assange alla Gran Bretagna; un paese che consente l’estradizione di fatto per decisione politica e che permette al paese richiedente, nella fattispecie gli Stati Uniti, di ricalibrare nel tempo i capi di accusa. Il modo meno compromettente per prolungare a tempo indeterminato le detenzioni ritardando la chiusura dei processi dalle costruzioni probatorie improbabili e dall’esito incerto.

IL RISENTIMENTO RANCOROSO E IMPOTENTE

Il caleidoscopio dei cattivi sentimenti si arricchisce a questo punto di un altro elemento: il risentimento rancoroso. In prima linea Hillary Clinton; non ha ancora introiettato il fiele della sconfitta. Lungi dal giustificare e riconoscere le proprie malefatte, rivelatesi alla fine così disastrose per gli interessi stessi del suo paese, non riesce a far altro che riversare la propria collera isterica e impotente ai danni del malcapitato che le ha svelate. Una anziana puerile e capricciosa che non riesce a rassegnarsi all’oblio. Una manifestazione per altro tanto rumorosa ma tutto sommato la meno nociva

IL VILE TRADIMENTO

Scendendo di un gradino la scala delle gerarchie di influenza subentra la viltà del tradimento. Tocca ai tanti giornalisti fruitori a buon mercato dei servizi di WikiLeaks e lesti voltagabbana pronti a spalleggiare e sostenere al momento opportuno gli argomenti capziosi degli inquisitori. Si distinguono tra questi Luke Harding e David Leigh, giornalisti del Guardian i quali hanno costruito la propria fortuna e reputazione su un libro e su un film costruito sui file di Assange per poi non solo avallare la tesi infondata dei legami tra WikiLeaks e Putin, ma addirittura passare a Scotland Yard le crittografie con le quali Assange riusciva ad acquisire le informazioni e che incautamente aveva trasmesso ai due paladini dell’informazione.

LO SCIACALLAGGIO

Buon ultima per importanza, primeggia per meschinità la vigliaccheria degli sciacalli. Una qualità presente in quell’area estesa del giornalismo di periferia che ha certificato il proprio servilismo di passatori di veline, ignorando elegantemente la mole di informazioni compromettenti a carico dei politici e delle classi dirigenti del proprio paese offerta di WikiLeaks. Primeggiano su tutte la quasi totalità delle testate italiane, ormai in gran parte impegnate a riportare più che altro i titoli e le interpretazioni delle testate estere, con alcuni manutengoli di alto rango dell’informazione a fungere da maramaldi. Si passa dalla perfida compostezza di un editorialista della Stampa, transfuga dal Corriere, al commento saccente di un critico di regime del Corriere, all’attacco sbracato di firme del Giornale sempre pronti ad assecondare le badogliate del loro finanziatore. A ciascuno il proprio stile, ma concordi e solidali nella missione. Un discorso a parte meritano i giornalisti di Repubblica. Stranamente rinunciano alle filippiche, ma stigmatizzano la parabola discendente di Assange, in debito di autorevolezza e popolarità dal momento in cui ha scelto come bersagli Obama e Clinton. Un giudizio viziato dall’accecamento ideologico che induce all’identificazione della fazione democratico-progressista con quella di popolo.

Nell’affare Assange rimane comunque una zona grigia tutta da esplorare: il silenzio di Trump e dello staff a lui più vicino. Il Presidente americano avrebbe potuto prolungare, probabilmente con una semplice telefonata al presidente equadoregno, la segregazione nel rifugio dell’ambasciata.

Il costo politico con il Russiagate in dirittura d’arrivo ma non concluso avrebbe potuto essere pesante. Potrebbe essere in corso un tentativo di portare Assange negli Stati Uniti, ma di farlo uscire dalla condanna all’esilio senza fine con una condanna simbolica simile a quella subita dalla Manning. Un disegno reso impalpabile dall’incertezza e dalla ferocia dello scontro politico in corso negli States. Rimane l’altra ipotesi, la più inquietante: che il sacrificio di Assange sia l’obolo in cambio del sacrificio di qualche pesce minore tra gli artefici della macchinazione del Russiagate. Trump ha pagato un prezzo molto alto con il sacrificio di Flynn in avvio di presidenza. Buona parte della vecchia guardia che lo aveva portato alla vittoria si era defilata e solo di recente si era riconciliata. Le veementi proteste di quell’area per l’arresto di Assange lasciano intuire che un altro cedimento di Trump della stessa natura rischia di creare una frattura irreparabile nella propria compagine in cambio di una tregua del tutto improbabile con i nemici. Un dilemma  che si scioglierà probabilmente nei prossimi mesi.

Nelle more la posta in palio è particolarmente importante. Passa dalla pretesa di extraterritorialità della giurisdizione statunitense al tentativo di restringere drasticamente le possibilità di accesso alle fonti della stampa, all’arbitrarietà della costruzione giuridica necessaria all’estradizione. Una costruzione che sta suscitando qualche perplessità, non si sa quanto sincera, anche in quella stampa che negli ultimi tempi ha perso ogni ritegno nella faziosità della propria narrazione.

OLTRE L’UNIONE EUROPEA, a cura di Luigi Longo

OLTRE L’UNIONE EUROPEA

a cura di Luigi Longo

 

Le Elezioni

                                                                                                                                     Generalmente mi ricordo
una domenica di sole
una mattina molto bella
un’aria già primaverile
in cui ti senti più pulito

                                                                                                                                     Anche la strada è più pulita
senza schiamazzi e senza suoni
chissà perché non piove mai
quando ci sono le elezioni

                                                                                                                                     Una curiosa sensazione
che rassomiglia un po’ a un esame
di cui non senti la paura
ma una dolcissima emozione

                                                                                                                                     E poi la gente per la strada
li vedo tutti più educati
sembrano anche un po’ più buoni
ed è più bella anche la scuola
quando ci sono le elezioni

                                                                                                                                     Persino nei carabinieri
c’è un’aria più rassicurante
ma mi ci vuole un certo sforzo
per presentarmi con coraggio

                                                                                                                                     C’è un gran silenzio nel mio seggio
un senso d’ordine e di pulizia
Democrazia!

                                                                                                                                     Mi danno in mano un paio di schede
e una bellissima matita
lunga sottile marroncina
perfettamente temperata

                                                                                                                                     E vado verso la cabina
volutamente disinvolto
per non tradire le emozioni

                                                                                                                                     E faccio un segno
sul mio segno
come son giuste le elezioni.

                                                                                                                                     E’ proprio vero che fa bene
un po’ di partecipazione
con cura piego le due schede

                                                                                                                                     e guardo ancora la matita
così perfetta e temperata…
Io quasi quasi me la porto via.
Democrazia!

Giorgio Gaber, Le elezioni, 1976-                                                                                                           1977, www.giorgiogaber.it

 

Nel mio precedente scritto Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica, apparso su questo sito il 26/11/2018, ho sostenuto la fine dell’Unione Europea come espressione del progetto statunitense nella fase monocentrica e la metamorfosi della Nato come nuovo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica.

Soprattutto a quelli che credono ancora nell’Unione Europea e nelle elezioni come massima espressione di democrazia e di partecipazione (sic) propongo la lettura di tre articoli di Manlio Dinucci (A camp Darby le forze speciali italiane, il “partito americano” nelle istituzioni UE e le 70 candeline (esplosive) della Nato apparsi su il Manifesto rispettivamente il 5/3/2019, 19/3/2019 e 2/4/2019) e la Risoluzione del Parlamento europeo del 12 marzo 2019 sullo stato delle relazioni politiche tra l’Unione europea e la Russia, pubblicata sul sito www.europarl.europa.eu (12/3/2019).

Sono letture che evidenziano l’imbarazzante e il vergognoso livello di servitù volontaria europea alle strategie statunitensi, a prescindere dal loro insanabile conflitto interno agli agenti strategici: si va dalle politiche di contrasto alla Russia, alle politiche di contrapposizione alle vie della seta della Cina; dalla americanizzazione dei territori, all’approntamento delle infrastrutture al servizio Usa-Nato.

Riporto, infine, le conclusioni del mio scritto innanzi citato:<< L’attuale Europa è finita. E’ stata ridotta ad una espressione geografica […] a servizio delle strategie statunitensi e, per la prima volta nella sua storia, non sarà protagonista del conflitto tra le potenze mondiali che si formeranno nella fase multicentrica e in quella policentrica. Sarà, ahinoi, solo un campo di battaglia del conflitto mondiale.

All’interno di questo cambiamento europeo che resta, comunque, subordinato alle strategie dei pre-dominanti (gli agenti strategici principali) statunitensi, mancano dei decisori che vogliono attuare un processo di sviluppo nazionale autodeterminato, a partire dalla creazione di uno spazio della resistenza, capace di incunearsi nei giochi che si aprono nella fase multicentrica per proporre un progetto e una strategia di uscita dalla servitù volontaria verso gli USA e guardare a Oriente per le possibili costruzioni di nuove relazioni, di nuove idee di sviluppo, di nuove idee di società, di una Europa diversa […]. Purtroppo, ahinoi, questi decisori non si vedono in giro per l’Europa né si vedranno nel breve-medio periodo, considerata la situazione di degrado culturale, politico e sociale. I dominanti possono fare ancora sonni tranquilli.

Resta un problema storico da affrontare e riguarda i soggetti che si formano nelle varie fasi oggettive della storia nazionale, europea e mondiale. La domanda che si pone è: come i soggetti (sessuati) di trasformazione arrivano, sono pronti alle aperture delle finestre, delle crepe che le fasi multicentrica e policentrica necessariamente apriranno?

Oggi soffriamo la mancanza di una teoria adeguata che ci orienti nella pratica e nella pratica teorica per pensare un progetto-processo di autonomia e di autodeterminazione nazionale ed europeo. Siamo ridotti a scoprire, con le elezioni statunitensi, europee e nazionali (sic), l’esistenza di stati profondi (i luoghi istituzionali dove gli agenti strategici principali, esecutivi e gestionali realizzano il dominio) e a riscoprire l’illusione ideologica che con la vittoria elettorale, cioè la presa del potere non del dominio, gli obiettivi indicati (a prescindere dalle finalità reali, ripeto reali) nel programma elettorale minimamente squilibranti del sistema sono irrealizzabili.>>.

 

 

A CAMP DARBY LE FORZE SPECIALI ITALIANE

L’arte della guerra. È stato stipulato un accordo che prevede il trasferimento in quest’area del Comando delle forze speciali dell’esercito italiano (Comfose) attualmente ospitato nella caserma Gamerra di Pisa, sede del Centro addestramento paracadutismo

Manlio Dinucci*

La notizia non è ufficiale ma già se ne parla: da ottobre su Camp Darby sventolerà il tricolore. Gli Stati uniti stanno per chiudere il loro più grande arsenale nel mondo fuori dalla madrepatria, restituendo all’Italia i circa 1000 ettari di territorio che occupano tra Pisa e Livorno?

Niente affatto. Non stanno chiudendo, ma ristrutturando la base perché vi possano essere stoccate ancora più armi e per potenziare i collegamenti col porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Nella ristrutturazione restava inutilizzata una porzioncina dell’area ricreativa: 34 ettari, poco più del 3% dell’intera area. È questa che lo US Army Europe ha deciso di restituire all’Italia, più precisamente al Ministero italiano della Difesa, per farne il miglior uso possibile.

È stato così stipulato un accordo che prevede il trasferimento in quest’area del Comando delle forze speciali dell’esercito italiano (Comfose) attualmente ospitato nella caserma Gamerra di Pisa, sede del Centro addestramento paracadutismo. Sono le forze sempre più impiegate nelle operazioni coperte: si infiltrano nottetempo in territorio straniero, individuano gli obiettivi da colpire, li eliminano con un‘azione fulminea paracadutandosi dagli aerei o calandosi dagli elicotteri, quindi si ritirano senza lasciare traccia salvo i morti e le distruzioni.

L’Italia, che le aveva usate soprattutto in Afghanistan, ha fatto un decisivo passo avanti nel loro potenziamento quando, nel 2014, è divenuto operativo il Comfose che riunisce sotto comando unificato quattro reggimenti: il 9° Reggimento d’assalto Col Moschin e il 185° Reggimento acquisizione obiettivi Folgore, il 28° Reggimento comunicazioni Pavia e il 4° Reggimento alpini paracadutisti Rangers. Nella cerimonia inaugurale nel 2014 fu annunciato che il Comfose avrebbe mantenuto un «collegamento costante con lo U.S. Army Special Operation Command», il più importante comando statunitense per le operazioni speciali formato da circa 30 mila specialisti impiegati soprattutto in Medio Oriente.

A Camp Darby – ha specificato l’anno scorso il colonnello Erik Berdy, comandante dello US Army Italy – già si svolgono addestramenti congiunti di militari statunitensi e italiani. Il trasferimento del Comfose in un’area di Camp Darby, formalmente appartenente all’Italia, permetterà di integrare a tutti gli effetti le forze speciali italiane con quelle statunitensi, impiegandole in operazioni coperte sotto comando Usa. Il tutto sotto la cappa del segreto militare.

Non può non venire a mente, a questo punto, la storia delle operazioni segrete di Camp Darby: dalle inchieste dei giudici Casson e Mastelloni è emerso che Camp Darby ha svolto sin dagli anni Sessanta la funzione di base della rete golpista costituita dalla Cia e dal Sifar nel quadro del piano segreto Gladio. Le basi Usa/Nato – scriveva Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione – hanno fornito gli esplosivi per le stragi, da Piazza Fontana a Capaci e Via d’Amelio. In queste basi «si riunivano terroristi neri, ufficiali della Nato, mafiosi, uomini politici italiani e massoni, alla vigilia di attentati».

Nessuno però, né in parlamento né negli enti locali, si preoccupa delle implicazioni del trasferimento delle forze speciali italiane di fatto all’interno di Camp Darby sotto comando Usa. I comuni di Pisa e Livorno, passati rispettivamente dal Pd alla Lega e al M5S, hanno continuato a promuovere, con la Regione Toscana, «l’integrazione tra la base militare Usa di Camp Darby e la comunità circostante». Pochi giorni fa è stato deciso di integrare i siti Web delle amministrazioni locali con quelli di Camp Darby. La rete di Camp Darby si estende sempre più sul territorio.

*il Manifesto del 5/3/2019

 

 

Risoluzione del Parlamento europeo del 12 marzo 2019 sullo stato delle relazioni politiche tra l’Unione europea e la Russia
Il Parlamento europeo,

– vista la sua risoluzione del 10 giugno 2015 sullo stato delle relazioni UE-Russia(1)

–visti gli accordi raggiunti a Minsk il 5 e il 19 settembre 2014 e il 12 febbraio 2015(2)

–viste le sue precedenti risoluzioni, in particolare quella del 14 giugno 2018 sui territori georgiani occupati a 10 anni dall’invasione russa(3), e del 4 febbraio 2016 sulla situazione dei diritti umani in Crimea, in particolare dei tatari di Crimea(4),

–vista la sua raccomandazione al Consiglio del 2 aprile 2014 concernente l’applicazione di restrizioni comuni in materia di visti ai funzionari russi coinvolti nel caso Sergei Magnitsky(5),

–viste le conclusioni del Consiglio “Affari esteri” del 14 marzo 2016 sulla Russia,

–visto il premio Sacharov per la libertà di pensiero 2018 conferito al regista ucraino Oleg Sentsov,

–vista la sua risoluzione del 14 giugno 2018 sulla Russia, in particolare il caso del prigioniero politico ucraino Oleg Sentsov(6),

–vista la sua risoluzione del 25 ottobre 2018 sulla situazione nel Mar d’Azov(7),

–vista la relazione finale dell’Ufficio dell’OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR) del 18 marzo 2018 sulle elezioni presidenziali nella Federazione russa,

–visto l’articolo 52 del suo regolamento,

–vista la relazione della commissione per gli affari esteri (A8-0073/2019),

A. considerando che l’Unione europea è una comunità basata su un insieme comune di valori, tra cui pace, libertà, democrazia, Stato di diritto e rispetto dei diritti fondamentali e umani;

B. considerando che riconosce che i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, dall’atto finale di Helsinki del 1975 e dalla Carta di Parigi dell’OSCE del 1990 rappresentano i capisaldi di un continente europeo pacifico;

C. considerando che tali valori costituiscono la base delle relazioni dell’Unione europea con le terze parti;

D. considerando che le relazioni dell’Unione europea con la Russia devono basarsi sui principi di diritto internazionale, rispetto dei diritti umani, democrazia e risoluzione pacifica dei conflitti e che, a causa dell’inosservanza di tali principi da parte della Russia, le relazioni dell’UE con la Russia si basano attualmente sulla cooperazione in alcuni settori selezionati di interesse comune, quali definiti nelle conclusioni del Consiglio “Affari esteri” del 14 marzo 2016 e sulla dissuasione credibile;

E. considerando che l’Unione europea continua ad essere disponibile ad un partenariato rafforzato e al dialogo che a esso conduce, e auspica una ripresa di relazioni di cooperazione con la Russia, dopo che le autorità russe si siano conformate ai loro obblighi internazionali e giuridici ed abbiano dimostrato il reale impegno della Russia a ricostituire la fiducia perduta; che relazioni costruttive e prevedibili sarebbero reciprocamente vantaggiose e, idealmente, nell’interesse di entrambe le parti;

F. considerando che la Federazione russa, in quanto membro a pieno titolo del Consiglio d’Europa e dell’OSCE, si è impegnata a osservare i principi della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani; che le continue e gravi violazioni dello Stato di diritto e l’adozione di leggi restrittive negli ultimi anni stanno mettendo sempre più in dubbio il rispetto degli obblighi nazionali e internazionali da parte della Russia; che la Russia non ha attuato oltre un migliaio di sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo (CEDU);

G. considerando che diverse relazioni governative mostrano il forte aumento, negli ultimi anni, dell’attività di spionaggio ostile da parte della Russia, che ha raggiunto livelli mai visti dalla Guerra fredda;

H. considerando che la piena attuazione degli accordi di Minsk e il generale rispetto del diritto internazionale rimangono un requisito essenziale per una più stretta cooperazione con la Russia; che, in risposta all’annessione illegale della Crimea e alla guerra ibrida condotta dalla Russia contro l’Ucraina, l’UE ha adottato una serie di misure restrittive che dovrebbero rimanere in vigore finché gli accordi di Minsk non saranno rispettati;

I. considerando che, dal 2015, sono emerse nuove aree di tensione tra l’Unione europea e la Russia, tra cui: l’intervento della Russia in Siria e l’ingerenza in paesi come la Libia e la Repubblica centrafricana; esercizi militari su larga scala (Zapad 2017); l’ingerenza russa volta a influenzare le elezioni e i referendum e ad alimentare le tensioni nelle società europee; il sostegno del Cremlino ai partiti antieuropeisti e ai movimenti di estrema destra; restrizioni alle libertà fondamentali ed estese violazioni dei diritti umani in Russia e il diffondersi di un sentimento anti LGBTI; la repressione dell’opposizione politica; azioni dirette e sistematiche contro i difensori dei diritti umani, i giornalisti e la società civile russa, tra cui la detenzione arbitraria di Oyub Titiev, direttore dell’ufficio in Cecenia del Centro per i diritti umani Memorial (HRC Memorial) o il caso di Yuri Dmitriev della filiale careliana di “Memorial”; la stigmatizzazione di attivisti della società civile, etichettati come “agenti stranieri”; gravi violazioni dei diritti umani nel Caucaso settentrionale, in particolare nella Repubblica cecena (sequestri, torture, esecuzioni extragiudiziali, cause penali pretestuose ecc.); la discriminazione della minoranza tatara nella Crimea occupata e la persecuzione politica di Aleksej Naval’nyj e molti altri, nonché uccisioni, come quelle di Boris Nemtsov e Sergei Magnitsky tra i casi più noti; attacchi informatici e ibridi e uccisioni sul territorio europeo eseguite da agenti dei servizi segreti russi utilizzando armi chimiche; intimidazioni, arresti e detenzioni di cittadini stranieri in Russia, tra cui il vincitore del premio Sacharov 2018 Oleg Sentsov e molti altri, in violazione del diritto internazionale; l’organizzazione di elezioni illegali e illegittime nel Donbas; l’organizzazione di elezioni presidenziali non democratiche e prive di qualsiasi scelta reale e con restrizioni alle libertà fondamentali; campagne di disinformazione; la costruzione illegale del ponte di Kerch; la militarizzazione su vasta scala della Crimea occupata e annessa illegalmente, nonché di parti del Mar Nero e del Mar d’Azov; restrizioni alla navigazione internazionale nel Mar d’Azov e attraverso lo stretto di Kerch, anche per le navi battenti bandiere degli Stati membri dell’UE; l’attacco e il sequestro illegali di navi della marina ucraina e l’arresto di militari ucraini nello stretto di Kerch; violazioni degli accordi sul controllo delle armi; il clima oppressivo per i giornalisti e i media indipendenti, con le continue detenzioni di giornalisti e blogger; e la posizione occupata dalla Russia (148° posto su 180) nell’indice mondiale della libertà di stampa 2018;

J. considerando che, dal 1° marzo 2018, il Centro per i diritti umani Memorial ha registrato 143 casi di prigionieri politici, 97 dei quali perseguitati per motivi religiosi; che, da un’analisi dell’elenco dei prigionieri politici stilato dal Centro per i diritti umani Memorial nel 2017, emerge che vi sono stati 23 casi di persone processate per reati connessi a eventi pubblici (sommosse e azioni violente contro un’autorità pubblica) e 21 casi, per lo più connessi alla pubblicazione di post su Internet, di procedimenti giudiziari che sono stati avviati in base agli articoli del codice penale in materia di “anti-estremismo”;

K. considerando che la Russia partecipa direttamente o indirettamente a una serie di conflitti che si protraggono nel vicinato comune – Transnistria, Ossezia del Sud, Abkhazia, Donbas e Nagorno Karabakh – che ostacolano seriamente lo sviluppo e la stabilità dei paesi vicini interessati, ne compromettono l’indipendenza e ne limitano le scelte libere e sovrane;

L. considerando che il conflitto nell’Ucraina orientale è durato più di quattro anni causando oltre 10.000 vittime, quasi un terzo delle quali civili, e migliaia di feriti tra la popolazione civile;

M. considerando che le tensioni e lo scontro attualmente persistenti tra l’UE e la Russia non sono nell’interesse di nessuna delle due parti; che i canali di comunicazione dovrebbero restare aperti nonostante i risultati deludenti; che la nuova divisione del continente mette a rischio la sicurezza tanto dell’UE quanto della Russia;

N. considerando che attualmente la Russia è il principale fornitore esterno di gas naturale dell’UE; considerando che l’energia continua a svolgere un ruolo centrale e strategico nelle relazioni UE-Russia; che la Russia utilizza l’energia come mezzo per difendere e promuovere i propri interessi di politica estera; che la dipendenza dell’Unione europea dall’approvvigionamento di gas russo è aumentata dal 2015; che la resilienza dell’Unione europea alle pressioni esterne può essere costruita attraverso la diversificazione dell’approvvigionamento energetico e la diminuzione della dipendenza dalla Russia; che, per quanto riguarda la sua sicurezza energetica, l’Unione europea deve esprimersi all’unisono e mostrare una forte solidarietà interna; che la forte dipendenza dell’UE dai combustibili fossili nuoce allo sviluppo di un’impostazione europea nei confronti della Russia che sia equilibrata, coerente e fondata su valori; che vi è la necessità di un’infrastruttura energetica più affidabile e strategica nell’UE, negli Stati membri e nei paesi del partenariato orientale (PO), al fine di aumentare la resilienza all’azione ibrida russa;

O. considerando che le azioni irresponsabili di aviogetti da combattimento russi nei pressi dello spazio aereo di Stati membri dell’Unione europea e della NATO pregiudicano la sicurezza dei voli civili e potrebbero costituire una minaccia per la sicurezza dello spazio aereo europeo; che la Russia ha condotto manovre militari provocatorie su larga scala nelle immediate vicinanze dell’UE;

P. considerando che la Russia continua a ignorare le sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo nonché le sentenze vincolanti della Corte internazionale di arbitrato, come nel caso di Naftogaz, mettendo a rischio i meccanismi internazionali di composizione delle controversie commerciali;

Q. considerando che la visione russa policentrica del concerto di potenze contrasta con quella dell’Unione europea di multilateralismo e di un ordine internazionale basato sulle norme; che l’adesione e il sostegno della Russia all’ordine multilaterale basato sulle norme creerebbero le condizioni per relazioni più strette con l’UE;

R. considerando che le autorità russe continuano a trattare le regioni occupate illegalmente come se fossero parte integrante del territorio russo, consentendo la partecipazione di rappresentanti di detti territori agli organi legislativi ed esecutivi della Federazione russa, in violazione del diritto internazionale;

S. considerando che il 21 dicembre 2018 il Consiglio, dopo aver valutato l’attuazione degli accordi di Minsk, ha prorogato le sanzioni economiche riguardanti settori specifici dell’economia russa fino al 31 luglio 2019;

T. considerando che le azioni della Russia violano il diritto internazionale, gli impegni internazionali e le buone relazioni di vicinato;

U. considerando che, nei documenti strategici della Federazione russa, l’UE e la NATO sono rappresentate come i principali avversari della Russia;

 

Sfide e interessi comuni

 

1. sottolinea che l’occupazione e l’annessione illegali della Crimea, regione dell’Ucraina, da parte della Russia nonché il coinvolgimento diretto e indiretto di quest’ultima in conflitti armati nella parte orientale dell’Ucraina e la violazione continua dell’integrità territoriale della Georgia e della Moldova costituiscono una deliberata violazione del diritto internazionale, dei principi democratici e dei valori fondamentali; condanna fortemente le violazioni dei diritti umani perpetrate dai rappresentanti russi nei territori occupati;

2. sottolinea che l’UE non può considerare un graduale ritorno a uno scenario del “non è successo niente” fino a quando la Russia non attui pienamente gli accordi di Minsk e non ripristini l’integrità territoriale dell’Ucraina; invita l’UE, a tale riguardo, a effettuare una completa rivalutazione critica delle proprie relazioni con la Federazione russa;

3. sottolinea che, nelle circostanze attuali, la Russia non può più essere considerata un “partner strategico”; è del parere che i principi di cui all’articolo 2 dell’accordo di partenariato e di cooperazione (APC) non siano più rispettati, e che l’APC andrebbe pertanto riconsiderato; ritiene che qualsiasi quadro per le relazioni tra l’Unione europea e la Russia dovrebbe basarsi sul pieno rispetto del diritto internazionale, dei principi di Helsinki dell’OSCE, dei principi democratici, dei diritti umani e dello Stato di diritto, e consentire un dialogo sulla gestione delle sfide globali e sul rafforzamento della governance globale nonché garantire l’applicazione delle norme internazionali, in particolare in vista di assicurare l’assetto di pace europeo e la sicurezza nel vicinato dell’UE e nei Balcani occidentali;

4. è del parere che l’attuazione degli accordi di Minsk dimostrerebbe la buona volontà della Russia di contribuire alla risoluzione del conflitto nell’Ucraina orientale e la sua capacità di garantire la sicurezza europea; sottolinea la necessità di portare avanti consultazioni nel processo formato Normandia, incluso un ruolo più forte dell’UE; ribadisce il proprio sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina;

5. crede nell’importanza di smorzare le tensioni attuali e avviare consultazioni con la Russia, al fine di ridurre il rischio di malintesi, errate interpretazioni e fraintendimenti; riconosce, tuttavia, che l’UE deve essere risoluta in merito alle sue aspettative sulla Russia; sottolinea l’importanza della cooperazione tra UE e Russia nell’assetto internazionale basato sulle norme e di un positivo impegno in seno alle organizzazioni internazionali e multilaterali di cui la Russia è membro, in particolare nel quadro dell’OSCE, in relazione alle questioni controverse e alle crisi;

6. condanna con forza il coinvolgimento della Russia nel caso Skripal e le campagne di disinformazione e gli attacchi informatici attuati dai servizi segreti russi, volti a destabilizzare l’infrastruttura di comunicazione pubblica e privata e ad accrescere le tensioni all’interno dell’UE e dei suoi Stati membri;

7. è fortemente preoccupato per i legami tra il governo russo e i partiti e governi di estrema destra e nazional-populisti nell’UE che mettono a rischio i valori fondamentali dell’Unione sanciti all’articolo 2 del trattato sull’Unione europea e contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tra cui il rispetto della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani;

8. deplora, inoltre, i tentativi della Russia di destabilizzare i paesi candidati all’adesione nell’UE, in particolare, a titolo di esempio, il sostegno fornito da Mosca alle organizzazioni e alle forze politiche che si oppongono all’accordo di Prespa, che dovrebbe porre fine all’annosa disputa tra la Grecia e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia in merito alla denominazione di quest’ultima;

9. ritiene che gli attori statali russi abbiano interferito con la campagna del referendum sulla Brexit con mezzi manifesti e occulti, anche sui media sociali e con finanziamenti potenzialmente illeciti, sui quali le autorità britanniche stanno attualmente indagando;

10. sottolinea che una maggiore trasparenza reciproca nelle attività militari e nelle attività delle guardie di frontiera è importante per evitare ulteriori tensioni; denuncia con forza la violazione da parte della Russia dello spazio aereo degli Stati membri dell’UE; chiede un codice di condotta chiaro in relazione allo spazio aereo utilizzato dagli aerei militari e civili; condanna fortemente, in tale contesto, le reiterate violazioni delle acque territoriali e dello spazio aereo dei paesi della regione del Mar Baltico da parte della Russia; condanna la Federazione russa per la sua responsabilità nell’abbattimento del volo MH17 sull’Ucraina orientale nel 2014, come dimostrato dalla squadra internazionale di investigatori e chiede che i responsabili siano consegnati alla giustizia;

11. deplora il notevole peggioramento della situazione dei diritti umani e le restrizioni diffuse e indebite della libertà di espressione, associazione e riunione pacifica in Russia ed esprime profonda preoccupazione per le continue repressioni, vessazioni e persecuzioni nei confronti di difensori dei diritti umani, attivisti e altri oppositori;

12. è profondamente preoccupato per il fatto che la Russia dimostri così apertamente il suo potere militare, rivolga minacce ad altri paesi e manifesti attraverso azioni concrete la sua volontà e prontezza ad usare la forza militare contro altre nazioni, comprese le armi nucleari avanzate, come ribadito in diverse occasioni nel 2018 dal presidente Putin;

13. condanna la continua repressione ad opera del governo russo nei confronti del dissenso e della libertà dei media nonché degli attivisti, degli oppositori politici e di quanti dissentono apertamente con il governo;

14. esprime preoccupazione per le relazioni sui casi di detenzione e tortura di uomini ritenuti omosessuali in Cecenia e condanna le dichiarazioni del governo ceceno, che negano l’esistenza di omosessuali nel paese e incitano alla violenza nei confronti delle persone LGBTI;

15. pone l’accento sul fatto che le sfide globali del cambiamento climatico, dell’ambiente, della sicurezza energetica, della digitalizzazione, dell’impiego di algoritmi nel processo decisionale e dell’intelligenza artificiale, nonché delle questioni di politica estera e di sicurezza, della non proliferazione di armi di distruzione di massa e della lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata e gli sviluppi nel delicato ambiente della regione artica richiedano un impegno selettivo con la Russia;

16. esprime preoccupazione per il possibile riciclaggio di miliardi di euro l’anno attraverso l’UE da parte di società e individui russi, nel tentativo di legalizzare i proventi della corruzione, e chiede che siano condotte indagini su tali reati;

17. sottolinea che il riciclaggio di denaro e le attività finanziarie della criminalità organizzata da parte della Russia sono utilizzate per finalità politiche sovversive e rappresentano una minaccia per la sicurezza e la stabilità europee; ritiene che un riciclaggio di denaro di tale portata rientri nelle attività ostili finalizzate a minare, disinformare e destabilizzare, e nel contempo a sostenere le attività criminali e la corruzione; osserva che le attività russe di riciclaggio di denaro nell’UE mettono a rischio la sovranità e lo Stato di diritto di tutti gli Stati membri in cui la Russia svolge tali attività; afferma che ciò rappresenta una minaccia per la sicurezza e la stabilità europee nonché una delle principali sfide per la politica estera e di sicurezza comune dell’UE;

18. condanna le attività di riciclaggio di denaro, i finanziamenti illeciti e altri mezzi impiegati nella guerra economica della Russia; invita le autorità finanziarie competenti dell’UE a intensificare la cooperazione reciproca e con i pertinenti servizi di intelligence e di sicurezza, al fine di contrastare le attività di riciclaggio di denaro russe;

19. ribadisce che, nonostante la posizione dell’Unione europea sia ferma, coerente e concertata riguardo alle sanzioni dell’UE nei confronti della Russia, che saranno prorogate fintantoché quest’ultima continuerà a violare il diritto internazionale, l’approccio in materia di politica estera e di sicurezza dell’UE nei confronti della Russia richiede maggiore coordinamento e coerenza; invita, in tale contesto, gli Stati membri a cessare i programmi “golden visa”, di cui beneficia l’oligarchia russa che spesso sostiene il Cremlino, e che possono compromettere l’efficacia delle sanzioni internazionali; reitera i suoi appelli precedenti per un atto Magnitsky europeo (il regime di sanzioni dell’UE per le violazioni dei diritti umani), ed invita il Consiglio a proseguire senza indugio i suoi lavori in materia; invita gli Stati membri a cooperare appieno a livello europeo per quanto riguarda la loro politica nei confronti della Russia;

20. sottolinea che le misure restrittive mirate nei confronti dell’Ucraina orientale e della Crimea occupata non sono volte a colpire i cittadini russi, ma taluni individui e imprese connessi alla leadership russa;

21. sottolinea, a tale proposito, che la coerenza fra le sue politiche interne ed esterne, unita ad un migliore coordinamento di queste ultime è la chiave per la riuscita di una politica estera e di sicurezza dell’Unione europea più coerente ed efficace anche nei confronti della Russia; ricorda che ciò si applica in particolare nell’ambito di politiche quali l’Unione europea della difesa, l’Unione europea dell’energia e gli strumenti di difesa informatica e di comunicazione strategica;

22. condanna le violazioni da parte della Russia dell’integrità territoriale dei paesi confinanti, avvenute con mezzi tra cui il rapimento illegale di cittadini di questi paesi, al fine di processarli davanti a un tribunale russo; condanna inoltre l’abuso di Interpol da parte della Russia mediante l’emissione di avvisi di “persone ricercate” (i cosiddetti “avvisi rossi”), per perseguire gli oppositori politici;

23. condanna le azioni della Russia nel Mar d’Azov, in quanto violano il diritto marittimo internazionale e gli impegni internazionali assunti dalla Russia, nonché la costruzione del ponte di Kerch e la posa di cavi sotterranei verso la penisola illegalmente annessa della Crimea senza il consenso dell’Ucraina; rimane profondamente preoccupato per la militarizzazione del Mar d’Azov, della regione del Mar Nero e della regione di Kaliningrad, nonché per il sistematico ricorso della Russia alla violazione delle acque territoriali dei paesi europei nel Mar Baltico;

24. ribadisce il proprio sostegno inequivocabile alla sovranità e all’integrità territoriale della Georgia; chiede che la Federazione russa cessi di occupare i territori dell’Abkhazia e di Tskhinvali/Ossezia meridionale in Georgia, e rispetti pienamente la sovranità e l’integrità territoriale della Georgia; sottolinea la necessità che la Federazione russa adempia incondizionatamente a tutte le disposizioni dell’accordo di cessate il fuoco del 12 agosto 2008, in particolare l’impegno a ritirare tutte le sue forze militari dal territorio della Georgia;

25. sottolinea che il mancato rispetto delle norme internazionali da parte della Russia – in questo caso la libertà dei mari, gli accordi bilaterali e l’annessione illegale della Crimea – rappresenta una minaccia per i paesi vicini della Russia in tutta Europa, non soltanto nella regione del Mar Nero, ma anche nella regione del Mar Baltico e nel Mediterraneo; sottolinea l’importanza di elaborare una politica decisa nei confronti della Russia su tutti questi aspetti;

26. osserva che le elezioni presidenziali del 18 marzo 2018 sono state poste sotto l’osservazione della missione internazionale di osservazione elettorale (IEOM) dell’ODIHR e dell’Assemblea parlamentare dell’OSCE; sottolinea che, secondo la relazione finale della missione di osservazione elettorale dell’ODIHR, le elezioni si sono svolte in un contesto giuridico e politico eccessivamente controllato, caratterizzato da continue pressioni nei confronti delle voci critiche e da limitazioni delle libertà fondamentali di riunione, associazione ed espressione, nonché della registrazione dei candidati, e che pertanto è mancata una reale concorrenza;

27. è preoccupato per il continuo sostegno della Russia a regimi e paesi autoritari come la Corea del Nord, l’Iran, il Venezuela, la Siria, Cuba, il Nicaragua e altri, e per la sua pratica costante di bloccare qualsiasi azione internazionale esercitando il diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite;

 

Aree di interesse comune

 

28. ribadisce il suo sostegno ai cinque principi che guidano la politica dell’UE nei confronti della Russia, e chiede una maggiore definizione del principio di dialogo selettivo; raccomanda di porre l’accento sulle questioni concernenti la regione MENA e la regione nordica e artica, il terrorismo, l’estremismo violento, la non proliferazione, il controllo delle armi, la stabilità strategica nel ciberspazio, la criminalità organizzata, la migrazione e il cambiamento climatico, inclusi sforzi congiunti volti a salvaguardare il Piano d’azione globale congiunto (JCPOA) con l’Iran, approvato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e a porre fine alla guerra in Siria; ribadisce che le consultazioni tra l’UE e la Russia sul ciberterrorismo e la criminalità organizzata devono proseguire, e le sistematiche minacce ibride da parte della Russia richiedono un forte deterrente; chiede, in tale contesto, un dialogo UE-Russia-Cina-Asia centrale sulla connettività;

29. sottolinea che l’UE è attualmente il principale partner commerciale della Russia e manterrà la sua posizione di partner economico chiave nel prossimo futuro, ma che il progetto Nord Stream 2 rafforza la dipendenza dell’UE dall’approvvigionamento di gas russo, minaccia il mercato interno dell’UE e non è in linea con la politica energetica dell’UE o con i suoi interessi strategici, e va pertanto fermato; sottolinea che l’UE resta impegnata a completare l’Unione europea dell’energia e a diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico; sottolinea che nessun nuovo progetto dovrebbe essere attuato senza la preventiva valutazione di conformità giuridica con il diritto dell’UE e con le priorità politiche concordate; deplora la politica russa di utilizzare le sue fonti energetiche come strumento politico per esercitare, mantenere ed aumentare la sua influenza e pressione politica su quella che considera essere la sua sfera d’influenza e sui consumatori finali;

30. sottolinea che i programmi di cooperazione transfrontaliera UE-Russia e la cooperazione costruttiva nell’ambito dei partenariati per la dimensione nordica e della regione euroartica del Mare di Barents offrono vantaggi tangibili ai cittadini delle aree transfrontaliere e sostengono lo sviluppo sostenibile di tali aree; raccomanda, in tale contesto, di continuare a promuovere tutti questi ambiti positivi di cooperazione costruttiva;

31. osserva l’importanza dei contatti interpersonali, per esempio tramite l’istruzione e la cultura;

32. invita il vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e di sicurezza e gli Stati membri a intensificare gli sforzi per giungere a una soluzione dei cosiddetti “conflitti congelati” nel vicinato orientale, al fine di garantire maggiore sicurezza e stabilità ai partner orientali dell’UE;

 

Raccomandazioni

 

33. sottolinea l’importanza di continuare a fornire sostegno politico e finanziario per favorire i contatti interpersonali in generale e, in particolare, agli attivisti, ai difensori dei diritti umani, ai blogger, ai media indipendenti, agli accademici apertamente critici e alle personalità pubbliche e alle ONG; invita la Commissione a programmare un’assistenza finanziaria, istituzionale e di sviluppo delle capacità più ambiziosa e a lungo termine per la società civile russa, a titolo degli strumenti finanziari esterni esistenti, e invita gli Stati membri dell’UE a contribuire maggiormente a tale assistenza; incoraggia gli Stati membri ad applicare attivamente gli orientamenti dell’UE sui difensori dei diritti umani, fornendo un sostegno e una protezione efficaci e tempestivi ai difensori dei diritti umani, ai giornalisti ed altri attivisti; invita in particolare gli Stati membri a rilasciare visti a lungo termine ai difensori a rischio e ai loro familiari; è favorevole all’aumento dei finanziamenti per la formazione dei giornalisti e gli scambi con i giornalisti europei, nonché per strumenti finalizzati all’avanzamento dei diritti umani e della democrazia, quali lo strumento europeo per la democrazia e i diritti umani (EIDHR) e il Fondo europeo per la democrazia (FED);

34. auspica maggiori contatti interpersonali, ponendo l’accento soprattutto sui giovani, su un dialogo e su una cooperazione più intensi tra esperti, ricercatori, società civile e autorità locali dell’UE e russi, e maggiori scambi di studenti, tirocinanti e giovani, in particolare nel quadro di Erasmus+; è a favore, in tale contesto, di maggiori finanziamenti per i nuovi programmi Erasmus+ nel periodo 2021-2027; osserva che l’Unione europea offre il più alto numero di opportunità di mobilità universitaria in Russia, rispetto ad altri paesi partner internazionali;

35. chiede il rilascio incondizionato di tutti i difensori dei diritti umani e altri soggetti detenuti per aver pacificamente esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, riunione e associazione, tra cui il direttore del Centro per i diritti umani Memorial nella Repubblica cecena, Oyub Titiev, processato sulla base di accuse pretestuose di possesso di stupefacenti; esorta le autorità russe a garantire il pieno rispetto dei loro diritti umani e giuridici, compresi l’accesso a un difensore e alle cure mediche, l’integrità fisica e la dignità nonché la protezione dalle vessazioni giudiziarie, dalla criminalizzazione e dall’arresto arbitrario;

36. osserva che le organizzazioni della società civile spesso sono troppo deboli per incidere in maniera sostanziale sulla lotta contro la corruzione in Russia, mentre le ONG sono sistematicamente scoraggiate dal partecipare attivamente alle azioni anticorruzione o dal promuovere l’integrità pubblica; sottolinea che è necessario coinvolgere la società civile nel monitoraggio indipendente dell’efficacia delle politiche anticorruzione; invita la Russia ad attuare correttamente le norme internazionali anticorruzione formulate, per esempio, nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione e nella Convenzione dell’OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali (Convenzione sulla lotta alla corruzione);

37. sottolinea che la promozione dei diritti umani e dello Stato di diritto deve essere il fulcro delle relazioni dell’UE con la Russia; invita pertanto l’UE e gli Stati membri a continuare a sollevare la questione dei diritti umani in tutti i contatti con i funzionari russi; incoraggia l’UE a fare continuamente appello alla Russia affinché abroghi o modifichi tutte le leggi e le regolamentazioni incompatibili con le norme internazionali in materia di diritti umani, incluse le disposizioni che limitano la libertà di espressione, riunione e associazione;

38. esprime la convinzione che l’adesione della Russia al Consiglio d’Europa sia un elemento importante dell’attuale panorama delle relazioni istituzionali in Europa; auspica che si possano trovare soluzioni per convincere la Russia a non rinunciare all’adesione al Consiglio d’Europa;

39. condanna i tentativi del governo russo di bloccare i servizi di messaggistica via Internet e i siti web; invita il governo russo a sostenere i diritti fondamentali alla libertà di espressione e alla vita privata sia online sia offline;

40. invita le istituzioni e gli Stati membri dell’UE ad impegnarsi di più per costruire la resilienza, in particolare nei settori informatico e dei media, compresi i meccanismi per individuare e contrastare le interferenze elettorali; chiede l’aumento della resilienza contro gli attacchi informatici; esprime profonda preoccupazione per il fatto che la reazione dell’UE alle campagne di propaganda e agli attacchi diretti di disinformazione di massa della Russia sia stata insufficiente e ritiene che debba essere ulteriormente rafforzata, soprattutto in vista delle prossime elezioni europee del maggio 2019; sottolinea, in tale contesto, la necessità di incrementare notevolmente i finanziamenti e le risorse umane dell’UE a favore della Task Force East StratCom; chiede un sostegno a livello di UE per il settore europeo della sicurezza informatica e per un mercato interno del digitale funzionante, e un maggiore impegno nella ricerca; incoraggia, in tale contesto, la promozione dei valori europei in Russia da parte di East StratCom; accoglie con favore l’adozione del piano d’azione dell’UE contro la disinformazione e invita gli Stati membri e tutti i pertinenti attori dell’UE ad attuarne le azioni e le misure, soprattutto in vista delle prossime elezioni europee del maggio 2019;

41. invita l’UE a valutare la creazione di un quadro giuridico vincolante, sia a livello UE sia internazionale, per affrontare la guerra ibrida, che consenta all’UE di rispondere in maniera incisiva alle campagne che minacciano la democrazia o lo Stato di diritto, comprese sanzioni mirate contro i responsabili dell’organizzazione e attuazione di tali campagne;

42. ritiene che, ai fini di un dialogo significativo, sia necessaria una maggiore unità fra gli Stati membri e una comunicazione più chiara dei limiti invalicabili per l’UE; sottolinea pertanto che l’Unione europea dovrebbe prepararsi ad adottare ulteriori sanzioni, incluse sanzioni personali mirate, e a limitare l’accesso ai finanziamenti e alla tecnologia, nel caso in cui la Russia continui a violare il diritto internazionale; sottolinea, tuttavia, che tali sanzioni non sono dirette al popolo russo, bensì mirate a determinati individui; invita il Consiglio ad eseguire un’analisi approfondita dell’efficacia e del rigore del regime di sanzioni in atto; accoglie con favore la decisione del Consiglio di imporre misure restrittive alle società europee coinvolte nella costruzione illegale del ponte di Kerch; ribadisce la sua preoccupazione per il coinvolgimento di queste società, che consapevolmente o inconsapevolmente hanno compromesso il regime di sanzioni dell’UE; invita la Commissione, in tale contesto, a valutare e verificare l’applicazione delle misure restrittive dell’Unione in vigore, ed esorta gli Stati membri a condividere le informazioni in loro possesso per quanto concerne le indagini nazionali in materia doganale o penale su casi di possibili violazioni;

43. chiede un meccanismo a livello di UE che consenta di esaminare i finanziamenti ai partiti politici e la conseguente adozione di misure al fine di evitare che alcuni partiti e movimenti siano usati per destabilizzare dall’interno il progetto europeo;

44. condanna la crescente portata e il numero delle esercitazioni militari russe, durante le quali le forze russe simulano scenari offensivi con l’uso di armi nucleari;

45. invita la Commissione e il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) ad elaborare senza indugio una proposta legislativa per una versione europea della legge Magnitsky, che consentirebbe di imporre divieti di rilascio del visto e sanzioni mirate, quali il congelamento dei beni immobili e degli interessi sui medesimi all’interno della giurisdizione dell’UE, nei confronti di singoli funzionari pubblici o di persone che svolgono una funzione pubblica, responsabili di atti di corruzione o gravi violazioni dei diritti umani; sottolinea l’importanza di elaborare nell’immediato una lista di sanzioni per garantire un’efficace applicazione della versione europea della legge Magnitsky;

46. invita l’UE a verificare l’applicazione delle misure restrittive in vigore nonché la condivisione di informazioni fra Stati membri, al fine di garantire che il regime di sanzioni dell’UE contro le azioni della Russia non sia compromesso, ma applicato proporzionatamente alle minacce poste dalla Russia; sottolinea il rischio di un allentamento delle sanzioni senza che la Russia dimostri, con azioni concrete e non solo a parole, di rispettare i confini dell’Europa, la sovranità dei paesi vicini e delle altre nazioni, nonché le norme e gli accordi internazionali; ribadisce che uno scenario del “non è successo niente” sarà possibile soltanto quando la Russia rispetterà appieno le norme e si limiterà ad agire pacificamente;

47. ribadisce che la Russia non ha diritto di veto in merito alle aspirazioni euro-atlantiche delle nazioni europee;

48. invita la Commissione a monitorare attentamente le conseguenze delle contro sanzioni russe nei confronti di operatori economici e, se necessario, a valutare l’adozione di misure risarcitorie;

49. sottolinea che esistono solo soluzioni politiche per il conflitto nell’Ucraina orientale; promuove misure per rafforzare la fiducia nella regione del Donbas; è a favore di un mandato per l’invio di una forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite in questa regione dell’Ucraina orientale; rinnova l’appello a favore della nomina di un inviato speciale dell’UE per la Crimea e la regione del Donbas;

50. condanna l’arbitrario provvedimento che impedisce l’accesso di politici dell’UE, tra cui deputati ed ex deputati al Parlamento europeo e funzionari UE, al territorio della Russia; chiede la revoca reciproca, immediata e senza condizioni, del divieto di accesso;

51. invita la Russia a rilasciare immediatamente i prigionieri politici, tra cui cittadini stranieri, e i giornalisti;

52. invita la Russia a cooperare appieno in relazione all’indagine internazionale sull’abbattimento del volo MH17, che potrebbe configurarsi come un crimine di guerra; condanna qualsiasi tentativo o decisione di concedere l’amnistia o di rinviare il procedimento di coloro che sono stati identificati come i responsabili, poiché gli autori dovrebbero essere chiamati a rispondere delle loro azioni;

53. invita il governo russo ad astenersi dal bloccare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla situazione in Siria, volte ad affrontare le continue violenze contro i civili anche mediante l’uso di armi chimiche, le gravi inosservanze delle Convenzioni di Ginevra e le violazioni dei diritti umani universali;

54. sostiene il celere completamento di un’Unione europea dell’energia integrata che, in futuro, includerebbe i partner orientali; pone l’accento sul ruolo che una politica ambiziosa in materia di efficienza energetica e fonti rinnovabili può svolgere in questo ambito; condanna con la massima fermezza le pressioni russe sulla Bielorussia volte a spingere questo Stato a rinunciare, de facto, alla sua indipendenza; sottolinea che, a prescindere dall’avanzamento di una strategia UE-Russia, l’UE deve rafforzare il suo impegno e sostegno a favore dei partner orientali e sostenere le riforme volte a rafforzare la sicurezza e la stabilità, la governance democratica e lo Stato di diritto;

55. è a favore di un aumento dei finanziamenti per il Fondo europeo per la democrazia (FED), il Russian Language News Exchange (RLNE) e altri strumenti che promuovono la democrazia e i diritti umani in Russia e altrove;

56. esorta le autorità russe a condannare il comunismo e il regime sovietico nonché a punire i responsabili dei crimini commessi sotto tale regime;

57. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione e al vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

 

(1) GU C 407 del 4.11.2016, pag. 35.
(2) “Protocollo sui risultati delle consultazioni del gruppo di contatto tripartito”, firmato il 5 settembre 2014, e “Pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk”, adottato il 12 febbraio 2015.
(3) Testi approvati, P8_TA(2018)0266.
(4) GU C 35 del 31.1.2018, pag. 38.
(5) GU C 408 del 30.11.2017, pag. 43.
(6) Testi approvati, P8_TA(2018)0259.
(7) Testi approvati, P8_TA(2018)0435.

 

 

IL «PARTITO AMERICANO» NELLE ISTITUZIONI UE

 

L’arte della guerra. Una risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo sostiene che «la Russia non può più essere considerata un partner strategico e l’Unione europea deve essere pronta a imporle ulteriori sanzioni se essa continua a violare il diritto internazionale»

 

di Manlio Dinucci*

 

«La Russia non può più essere considerata un partner strategico e l’Unione europea deve essere pronta a imporle ulteriori sanzioni se essa continua a violare il diritto internazionale»: così stabilisce la risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo con 402 voti a favore, 163 contro e 89 astensioni. La risoluzione, presentata dalla parlamentare lettone Sandra Kalniete, nega anzitutto la legittimità delle elezioni presidenziali in Russia, definendole «non-democratiche», presentando così il presidente Putin come un usurpatore.

Accusa la Russia non solo di «violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina e della Georgia», ma dell’«intervento in Siria e dell’interferenza in paesi come la Libia», e, in Europa, di «interferenza mirante ad influenzare le elezioni e ad accrescere le tensioni». Accusa la Russia di «violazione degli accordi di controllo degli armamenti», attribuendole la responsabilità di aver affossato il Trattato Inf. La accusa inoltre di «estese violazioni dei diritti umani al suo interno, comprese torture ed esecuzioni extragiudiziali», e di «assassini compiuti da suoi agenti con armi chimiche sul suolo europeo». Al termine di queste e altre accuse, il Parlamento europeo dichiara che il Nord Stream 2, il gasdotto destinato a raddoppiare la fornitura di gas russo alla Germania attraverso il Mar Baltico, «deve essere fermato perché accresce la dipendenza della Ue dalle forniture russe di gas, minacciando il suo mercato interno e i suoi interessi strategici».

La risoluzione del Parlamento europeo ripete fedelmente, non solo nei contenuti ma nelle stesse parole, le accuse che Usa e Nato rivolgono alla Russia. E, cosa più importante, ripete fedelmente la richiesta di bloccare il Nord Stream 2: obiettivo della strategia di Washington mirante a ridurre le forniture energetiche russe all’Unione europea per sostituirle con quelle provenienti dagli Stati uniti o comunque da compagnie statunitensi. Nello stesso quadro rientra la comunicazione della Commissione europea ai paesi membri, tra cui l’Italia, intenzionati ad aderire alla iniziativa cinese della Nuova Via della Seta: la Commissione li avverte che la Cina è un partner ma anche un concorrente economico e, cosa della massima importanza, «un rivale sistemico che promuove modelli alternativi di governance», in altre parole modelli alternativi alla governance finora dominata dalle potenze occidentali.

La Commissione avverte che occorre anzitutto «salvaguardare le infrastrutture digitali critiche da minacce potenzialmente serie alla sicurezza», derivanti da reti 5G fornite da società cinesi come la Huawei messa al bando negli Stati uniti. La Commissione europea ripete fedelmente l’avvertimento degli Stati uniti agli alleati.
Il Comandante Supremo Alleato in Europa, il generale Usa Scaparrotti, ha avvertito che le reti mobili ultraveloci di quinta generazione svolgeranno un ruolo sempre più importante nelle capacità belliche della Nato, per cui non sono ammesse «leggerezze» da parte degli alleati.

Tutto ciò conferma quale sia l’influenza che esercita il «partito americano», potente schieramento trasversale che orienta le politiche dell’Unione lungo le linee strategiche Usa/Nato.

Costruendo la falsa immagine di una Russia e una Cina minacciose, le istituzioni Ue preparano l’opinione pubblica ad accettare ciò che gli Usa a guida Trump stanno preparando per «difendere» l’Europa: gli Stati uniti – ha dichiarato alla Cnn un portavoce del Pentagono – si preparano a testare missili balistici con base a terra (proibiti dal Trattato Inf affossato da Washington), cioè nuovi euromissili che faranno di nuovo dell’Europa la base e allo stesso tempo il bersaglio di una guerra nucleare.

 

* il Manifesto del 19/3/2019

 

 

LE 70 CANDELINE (ESPLOSIVE) DELLA NATO

L’arte della guerra. Il 70° anniversario della Nato sarà celebrato dai 29 ministri degli Esteri dell’Alleanza, riuniti a Washington il 4 aprile

Manlio Dinucci*

Il 70° anniversario della Nato sarà celebrato dai 29 ministri degli Esteri dell’Alleanza, riuniti a Washington il 4 aprile. Un Consiglio Nord Atlantico in tono minore rispetto a quello al massimo livello dei capi di stato e di governo. Lo ha voluto il presidente Trump, non tanto contento degli alleati soprattutto perché sono per la maggior parte in ritardo nell’adeguare la spesa militare a quanto richiesto da Washington.

Presiederà il meeting il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, al quale il Consiglio Nord Atlantico ha appena rinnovato il mandato di altri due anni per meriti acquisiti al servizio degli Stati uniti. Il calendario di Stoltenberg a Washington è stato organizzato in base a una attenta regia, per confermare chi comanda nell’Alleanza. Il 2 aprile il Segretario generale della Nato sarà ricevuto dal presidente Donald Trump alla Casa Bianca. Il 3 aprile, farà una relazione alle due Camere riunite del Congresso e sarà ricevuto dal segretario di stato Michael Pompeo.

Quindi, ricevute le ultime istruzioni, presiederà il Consiglio Nord Atlantico del 4 aprile. Lo stesso Consiglio Nord Atlantico ha appena approvato la nomina del generale Tod Wolters, della US Air Force, quale Comandante Supremo alleato in Europa al posto del generale Curtis Scaparrotti dello US Army. Come è «tradizione», da 70 anni il Comandante Supremo Alleato in Europa è sempre un generale statunitense, nominato dal presidente degli Stati uniti.

Poiché il generale che ha l’incarico di comandante supremo della Nato è allo stesso tempo comandante del Comando Europeo degli Stati uniti, la Nato è di fatto inserita nella catena di comando che fa capo al presidente degli Stati uniti. Non si sa ancora quali saranno le «priorità» del generale Wolters, ma di certo non differiranno da quelle del generale Scaparrotti: anzitutto «assicurare gli interessi degli Stati uniti e sostenere una Europa che sia intera e in pace», impegno quest’ultimo che suona tragicamente grottesco a vent’anni dalla guerra con cui la Nato sotto comando Usa demolì la Federazione Jugoslava.

Priorità odierna – dichiara il generale Scaparrotti – è quella che le infrastrutture europee siano potenziate e integrate per permettere alle forze Usa/Nato di essere rapidamente posizionate contro «l’aggressione russa». La Nato sotto comando Usa prosegue così da settant’anni di guerra in guerra. Dalla guerra fredda, quando gli Stati uniti mantenevano gli alleati sotto il loro dominio, usando l’Europa come prima linea nel confronto nucleare con l’Unione Sovietica, all’attuale confronto con la Russia provocato dagli Stati uniti fondamentalmente per gli stessi scopi.

 

*il Manifesto del 2/4/2019

 

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