La preparazione di Draghi_di Gianni Candotto

Draghi, comunque, appartiene alla schiera ristretta dei decisori o quantomeno al livello immediatamente inferiore. E’ in grado quindi di adattare e rivedere le proprie posizioni in un contesto diverso, ferma restando la costanza della sua rete di relazioni e della sua appartenenza a determinati centri decisionali. Che sia in corso e che ci sia la consapevolezza e la necessità da almeno un paio di anni di un cambio di paradigma pare ormai evidente ai più_Giuseppe Germinario
DRAGHI E’ PREPARATO E HA UN GRAN CURRICULUM. QUINDI VIVA DRAGHI? PERCHE’ NO.
Dopo due anni e mezzo di grillismo e di improvvisati al governo, la domanda di gran parte della società è quella di avere persone competenti che sappiano gestire la cosa pubblica. Quindi per alcuni la figura di Draghi, che rappresenta l’antitesi umana e culturale del Di Maio di turno, rappresenta una lieta novità.
Al netto del fatto che in politica la competenza deve essere nella politica, non in una materia tecnica (essere un bravissimo architetto di suo non ha nessun valore per determinare la competenza politica, come essere un bravissimo medico, un bravissimo banchiere o un bravissimo fioraio, non significa essere un politico competente), ma questo è un argomento complesso che ci fuorvierebbe rispetto al ragionamento che voglio fare, occorre capire perché prima della competenza personale è necessario analizzare le idee che un politico vuol portare a compimento.
In politica conta molto la preparazione, perché la preparazione politica permette l’essere in grado di mettere in atto le idee che si vogliono portare avanti. Ma prima di tutto contano le idee che si vogliono portare avanti. Perché se le idee sono sbagliate la competenza è un pericolo, non una qualità.
Faccio un esempio pratico per semplificare il concetto (esempio che non c’entra con Draghi, ma è in generale). Prendiamo due politici fortemente favorevoli a un aumento dell’immigrazione in Italia. Di quelli che “non esistono i confini”, non esistono le nazioni, i popoli, abbiamo bisogno di milioni di immigrati perché ci paghino le pensioni ecc. La differenza tra i due è che uno è competente, l’altro incompetente e fannullone. Il risultato finale è che se governa il competente riuscirà a far venire molti più immigrati perché creerà un sistema efficiente di sussidi per immigrati, con casa, assistenza ecc., mentre se al governo ci sarà l’incompetente riuscirà a farne venire molti meno perché non riuscirà a organizzare un sistema di accoglienza ecc.ecc. Ma alla fine, se assumiamo che far venire milioni di immigrati sia un danno e un problema per l’Italia, il competente farà molti più danni dell’incompetente. Potrei fare esempi molto più estremi su quanti più danni può fare un competente preparato rispetto a un incompetente fannullone quando le idee sono molto più radicali e criminali, per esempio sulla volontà di creare una dittatura totalitaria, o di sterminare delle persone, ma mi fermo qua sperando che il concetto sia chiaro.
Quindi assunto che la competenza serve ad applicare con efficienza delle idee di governo, ma che la cosa fondamentale è sapere quali sono le idee, parliamo di Mario Draghi.
Quali sono quindi le idee che negli anni ha propugnato Mario Draghi? Quali sono le politiche che Draghi ha portato avanti negli anni?
Dal 1991 al 2001 è stato direttore generale del Tesoro e si è reso protagonista in tre vicende: le privatizzazioni del patrimonio dell’IRI (dal 1992 in poi), l’acquisto di derivati di Morgan Stanley (1994) e la legge Draghi (Testo Unico della Finanza legge 58 del 1998). Sulle privatizzazioni, oggi è opinione comune che si trattò di una scellerata operazione di svendita del patrimonio pubblico italiano che costò tantissimo all’Italia. Se Draghi fu forse (o forse no?) più il braccio operativo di questa operazione che la mente, fu comunque Draghi a presentare la vendita del patrimonio pubblico alla grande finanza anglosassone sul panfilo Britannia nel 1992.
Sempre sovrainteso da Draghi fu l’acquisto dei derivati “a copertura del debito”, i celebri “credit default swap” di Morgan Stanley, operazione riprodotta da tante amministrazioni locali, che dal 2008 creò un grande buco di bilancio a favore della grande banca d’affari americana (circa 25 miliardi). Un’operazione sicuramente disastrosa.
Un’altra decisione poi rivelatasi disastrosa è l’eliminazione della separazione tra banche d’affari e banche commerciali decisa nella legge Draghi del 1998. Questa legge ha permesso alle banche di usare il credito dei cittadini per acquistare titoli derivati e fare operazioni a rischio. Questa legge, assieme agli accordi europei di Basilea 3, anche lì Draghi ebbe un ruolo come presidente della BCE, fu lo strumento che permise alle banche operazioni spericolate e portò al fallimento di tante di esse, con i conseguenti disastri per i cittadini che avevano lasciato alle stesse i loro risparmi.
I tanti che lo ammirano, e oggi si sono moltiplicati come funghi, ricordano il “whatever it takes” del luglio 2012 che mise fine alla speculazione sul debito italiano, riportando il celebre spread a livelli più normali. Ma a parte essere un’operazione normale di una banca centrale, che l’Italia, se avesse avuto una banca centrale propria, avrebbe fatto da sola senza tanto clamore, bisogna analizzare i tempi. Fu fatta nel luglio 2012, 10 mesi dopo che l’Italia era andata in sofferenza per lo spread. E non in crisi di debito pubblico, che un po’ tutti gli studiosi un po’ più seri sapevano non esistere, ma sotto attacco speculativo. E la dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi di tutti oggi. Col debito al 125% del 2011 dicevano che lo stesso era insostenibile, oggi col debito al 160% in netto peggioramento lo spread è quasi a zero e il debito risulta sostenibilissimo. Questo perché l’Italia può sostenere un debito pubblico, pur non avendo una banca centrale creditrice di ultima istanza, fino circa al 230/240% del proprio Pil. Quindi era solo una speculazione finanziaria, e aver aspettato 10 mesi per difendere uno stato da un attacco speculativo, per me è ben lungi dall’essere un merito. Ma nel 2012 c’era Monti che applicava alla lettera i “consigli” proprio di Draghi della lettera Draghi Trichet inviata a Berlusconi il 5 agosto 2011.
Cosa diceva quella lettera, che era un po’ il manifesto politico di ciò che andava fatto secondo Draghi? Parlava di necessità di tagli pesanti alla spesa sociale. Monti e i suoi successori applicarono questa direttiva. I 50 miliardi di tagli alla sanità nascono da lì. E le mancanze degli ospedali, del personale, delle terapie intensive, che abbiamo avuto sott’occhio con l’emergenza Covid hanno origine lì: nella visione politica di Draghi. Nella lettera si parla di necessità di rendere flessibili i contratti di lavoro. Il dramma del precariato estremo dei giovani ha origine nelle idee che hanno ispirato la lettera di Draghi. Nella lettera si parla liberalizzazione dei mercati e aumento della concorrenza. Il fatto che lo Stato non abbia fatto nulla per evitare la vendita di tantissime aziende italiane a francesi o hedge funds ha origine lì (mentre i francesi hanno fatto leggi che vietano l’acquisto di aziende private francesi da parte di stranieri), il fatto che Amazon, per fare un esempio, faccia una concorrenza sleale ai negozi e questi ultimi siano costretti a chiudere ha origine lì. E così via.
Quindi il suo curriculum è quello di un liberista intransigente. E’ vero che nell’intervista del 25 marzo 2020 al Financial Times Draghi parla anche di investimenti pubblici, ma un’intervista a un giornale vale di meno dell’attività di una vita. Coerente. Da uomo preparato. Da liberista intransigente.
Se pensate che il liberismo intransigente sia la cura necessaria per l’Italia abbracciate l’idea che Draghi sia la soluzione. Se non lo pensate no.
E io penso che il liberismo sia il problema.
Non la soluzione.

Geopolitica secondo il Centro di Gravità, a cura di Piergiorgio Rosso

“L’1 e 2 febbraio 2020 quasi 100 “intellettuali, pensatori e artigiani” italiani, di discipline diverse, provenienti da percorsi professionali, culturali e storie politiche anche molto differenti, si sono incontrati a Roma per la prima volta, innanzitutto per conoscersi, uniti nel constatare la necessità di trovare punti di convergenza e analisi comuni per fronteggiare insieme la vera e propria transizione globale di sistema che è già in pieno avanzamento e si attua in tempi sempre più rapidi.”
E’ nato così su ispirazione di Giulietto Chiesa il Centro di Gravità (centrodigravità.org) che al momento non è che un gruppo stabile di soggetti molto diversi che promuovono analisi all’interno di gruppi di lavoro dedicati.
Il sottogruppo di lavoro Guerra e Geopolitica – cui ho partecipato – dopo un anno di confronti ha prodotto un primo documento “per un’ipotesi di posizionamento internazionale” dell’Italia che Italia e il Mondo – che ringrazio – ha deciso di ospitare.
Nell’orientarne la lettura vorrei sottolineare i passaggi che sottolineano il ruolo delle nazioni – non “individui” né “comunità” – come soggetti protagonisti dei conflitti internazionali, ma soprattutto la coppia identità/strategia nazionali: senza identità nazionale non si può pensare di essere considerati interlocutori a livello internazionale. Da qui parte il programma di lavoro che il gruppo si è dato a partire dalla sfida di contribuire a chiudere/suturare tre faglie che ancora dividono gli italiani, tre “guerre civili” irrisolte. I lavori del gruppo continuano. Buona lettura, Piergiorgio Rosso

Posizione geopolitica 22 dicembre 2020

PREMESSA

Il presente documento intende proporre in estrema sintesi una ipotesi di posizione geopolitica nazionale, basandosi su di una analisi che individua gli elementi che hanno portato alla presente fase conflittuale globale e particolare per la nostra nazione, introducendo il concetto basilare di interesse nazionale. La descrizione e le tesi sulle diverse élites dominanti ed il loro conflitto sono indicate, ma non sviluppate in termini di schieramento da scegliere, in quanto si vuole privilegiare l’autonomia di Patria piuttosto che le posizioni politiche. La bibliografia in calce è composta in modo distinto sia da testi ufficiali di organi istituzionali che da fonti pubblicistiche. INTRODUZIONE

La perdita di autonomia politica della nazione italiana viene datata da alcuni osservatori a partire dalla crisi politico-giudiziaria degli anni 1992-1993 detta “Mani Pulite”, periodo nel quale un’intera classe politica è stata annientata per via giudiziaria, è stata ratificata in Parlamento l’adesione al Trattato di Maastricht – in piena emergenza politica – l’intero, strategico, patrimonio dell’industria pubblica dell’IRI – risalente al 1933 – è stato smembrato e privatizzato, è stato cancellato il diritto dello Stato italiano a battere moneta. In realtà, non sfugge agli osservatori più attenti, che l’autonomia politica italiana era già stata pressoché annullata nell’immediato secondo dopoguerra, in quanto nazione sconfitta e costretta a firmare un Trattato di Pace (1947) che – lungi dal considerare la cosiddetta cobelligeranza del periodo 43’/45’ – rappresentava una vera e propria resa senza condizioni. Quel contesto si innestava inoltre su una precedente realtà politica e sociale ereditata dal secolo XIX nel quale era, sì stata “fatta l’Italia” – seppure con l’aiuto interessato di alcune potenze straniere – ma non gli italiani. La frattura Nord-Sud non era stata completamente sanata dalla classe dirigente liberale sia della Destra che della Sinistra storica: “… c’è fra il nord e il sud della 1 penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gli intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale…» (Giustino Fortunato/1911). Nel corso della discussione, interna al CdG, alla ricerca di un possibile nuovo posizionamento geopolitico dell’Italia, ci siamo presto resi conto che non aveva molto senso discutere di politica internazionale, senza prima definire se e come l’Italia poteva prima pensarsi e quindi presentarsi nel consesso internazionale, come una nazione. Come premessa a qualsiasi discussione geopolitica abbiamo pertanto identificato tre questioni irrisolte che a nostro parere ancora dividono profondamente e pesano sugli italiani. Le abbiamo chiamate tre guerre civili per segnalare la serietà di tre specifiche questioni storiche e l’assoluta priorità politica che esse oggi assumono.

UNA NUOVA IDENTITÀ NAZIONALE La premessa politica è che: “La tesi secondo la quale il principio nazionale risulterebbe superato è propria dei popoli vinti che accettano la sconfitta. L’emergere delle grandi realtà a livello continentale ha bensì posto in termini nuovi il rapporto di forze internazionali, ma non esclude, anzi presuppone, le nazioni come soggetti politici operanti.” Le “tre guerre civili” vengono sinteticamente descritte volendo offrire un’indicazione alla ricerca storica che auspicabilmente il CdG potrebbe promuovere ed alimentare. Esse sono: • Il “brigantaggio” o “lotta al banditismo” ingaggiata dal neonato Regno d’Italia nelle regioni meridionali e durata più di dieci anni; • La guerra civile 1943-45 e oltre; • La lotta armata degli anni ’70 del secolo scorso. L’obiettivo del documento è duplice. La rilettura e ricostruzione storica degli eventi legati alle “tre guerre civili” italiane ha un evidente scopo culturale. Ma assume in sé un significato politico in quanto premessa necessaria per: “… la rivendicazione, da parte della società italiana, del diritto di riconoscersi come comunità nazionale, con una propria identità civile, politica e storica e, su tale presupposto, a svolgere – nel quadro geopolitico – una missione di civiltà: una comunità di destino, avanguardia mondiale del diritto dei popoli”. Storicamente il Paese Italia ha avuto in età moderna un processo unificante che si è imposto sulle sue specificità ed identità storiche e geografiche, con un iniziale processo 2 militare sostenuto e diretto da opposti interessi stranieri (austriaci, inglesi e francesi). Questa presenza straniera ha prodotto un continuo condizionamento sulla classe dirigente politica italiana, che da una parte ha favorito gli interessi di trasferimento di ricchezza nazionale all’estero, dall’altra ha prodotto all’interno del Paese una frattura fra la progressiva integrazione europea dei gruppi economici settentrionali e la disgregazione delle strutture economiche meridionali. Tale iniziale processo ha creato e sviluppato un profondo disconoscimento popolare dello stato unitario tra le masse sociali. Ciononostante, le risorse umane e materiali del Paese hanno portato ad uno sviluppo economico elevato dell’Italia, con una capacità manifatturiera esportativa e una crescita del mercato interno, terzo d’Europa, e hanno prodotto un accumulo di risparmio domestico maggiore degli altri Paesi europei. Tale processo ha avuto ulteriori eventi negativi sulla coesione identitaria: la guerra civile successiva alla seconda guerra mondiale, che portò ad un inserimento nella sfera USA del Paese, ed il periodo di conflitto sociale armato degli anni ’70 del secolo scorso, culminato con il terrorismo, precedente alla caduta dell’Unione Sovietica, che fu caratterizzato nuovamente dal rientro delle ingerenze americane, inglesi e francesi. Queste ingerenze non hanno più la modalità esclusiva, del periodo post unitario del XIX secolo, ma sono inserite nel processo di unificazione europea che passa, dall’iniziale natura puramente commerciale, ad una natura strategico politica con i Trattati di Maastricht e Lisbona. Questo passaggio si sostanzia per la nazione italiana con la sostituzione della classe politica democristiana e socialista con quella ex-comunista e della sinistra democristiana (significativamente salvate dai processi di “Mani Pulite”), si rinforza con la privatizzazione di gran parte delle grandi aziende strategiche nazionali (svendita degli assetti pubblici, IRI) e culmina, alla fine del XX secolo, con la perdita della sovranità monetaria; tutti eventi che introducono e consolidano in Italia il quarto grande soggetto estero, la Germania, che prende un ruolo, da primo sub-dominante – rimanendo gli USA gli assoluti egemoni in Italia – rispetto ai sub-dominanti storici Francia e Regno Unito. Al presente abbiamo una realtà sociale che risulta frazionata e sempre più lontana da un’identità comune. Anche in questo presente, nonostante tutto, il Paese riesce a mantenere una capacità economica manifatturiera e finanziaria che lo pone secondo in Europa e in molti settori al primo posto. Non egualmente si mantiene la capacità di identità sociale, causa la destrutturazione della scuola 3 pubblica e della sanità, accelerate con l’autorità autonoma assunta dalle Regioni, parallela alla perdita di sovranità monetaria. Fattore questo che ha portato il governo statale a giustificare tutte le manovre restrittive, come obbligatoria ottemperanza alle direttive politiche e finanziarie europee. Quindi, i cittadini sono schiacciati tra un governo nazionale, che dichiara strumentalmente di non avere autonomia dall’”Europa”, e da governi regionali, che, obbligati dai vincoli di riduzione della spesa pubblica sistematicamente accettati dal governo nazionale ai tavoli europei, garantiscono le speculazioni del sistema criminale territoriale e i grandi capitali, privatizzando i servizi essenziali, acqua, luce, gas, trasporti, sanità e scuola. Le fasce sociali dominate e tradizionalmente patriottiche (lavoratori, studenti e piccola borghesia) sono disarticolate in una pletora di marginalità, individualizzate e alienate dai vecchi e nuovi strumenti di comunicazione Tale scenario è divenuto globale, portato dal sistema capitalistico occidentale in tutto il mondo, con il concorso/competizione di molti paesi. Assunto questo scenario vediamo che in esso, e in modo specifico proprio in occidente, è in corso il conflitto competitivo per la supremazia, tra diverse fazioni della formazione capitalistica tradizionale per l’introduzione sistematica delle tecnologie ed il nuovo sistema digitale, in cui la produzione di merci avviene avvalendosi anche di “materia prima immateriale”, come i dati e l’informazione. Prendendo atto che si è raggiunto un livello molto basso di coscienza sociale identitaria, si può ipotizzare che, per avviare una ricostruzione di tale identità sociale, vada adottato un paradigma diverso da quello che ha condotto allo stato presente. Pensiamo che sia possibile riproporre il paradigma di uno stato federale, che tenga conto delle diversità socio-culturali, sostituendolo allo stato centralizzato unitario – peraltro rimesso in discussione in modo disfunzionale con la riforma del Titolo V della Costituzione – che ha schiacciato tali diversità. Si riprenderebbe, così, un antico corso della millenaria storia italiana, che fin dall’Impero di Roma, iniziò un vasto ordinamento federale amministrativo, poi ripreso dalle Città Stato e dalle nostre sapienti Repubbliche Marinare. Il concetto di stato federale possibile, si basa sulle diversità culturali ed economiche ancora presenti in Italia. Il fine di tale impostazione è quello di superare la sperequazione prodotta dallo stato centrale, storicamente definita come questione meridionale. Per conseguire il risultato combinato di differenziazione locale ed identità nazionale, si introduce il principio di diretta 4 responsabilità della politica locale sull’amministrazione del territorio, lasciando allo stato centrale la competenza sulla politica internazionale e della difesa, sul bilancio generale, sulla politica industriale, infrastrutturale ed energetica e sui servizi universali del cittadino, sanità, scuola, acqua, ambiente e trasporti erogati esclusivamente da enti pubblici. Diversamente i settori specifici locali, piccola impresa, urbanizzazione e beni culturali (esclusa la loro tutela) sono di diretta amministrazione locale. Tale processo socialmente differenziativo viene compensato dal processo integrativo, che viene realizzato dall’erogazione statale dei servizi basilari, soprattutto nei territori più penalizzati. La tesi per cui in un mondo in cui i mercati non hanno confini, lo Stato non avrebbe più alcun ruolo né importanza, è in realtà una tesi portata avanti dai promotori della globalizzazione liberista. Per i paesi che accettano questa visione dell’economia mondiale, la capacità statale di rendere la politica indipendente dal principale partner commerciale di un paese, viene progressivamente erosa man mano che i paesi stessi si trovano intrappolati in una rete continua di interdipendenza. I mercati più grandi non arrivano senza un costo. Del resto le crisi del 2008 e quella del 2020 si sono incaricate di rendere difficile sostenere ancora tale tesi. Lo Stato (sovrano) continua ad essere la forza capace di plasmare e guidare lo sviluppo economico nazionale, compresa la stessa globalizzazione. La maggiore capacità di superare la distanza geografica, resa possibile dalle innovazioni nelle tecnologie di trasporto e comunicazione, è di scarsa utilità se esistono barriere politiche a tali movimenti. Le politiche di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione sono state necessarie per superare le barriere non tecniche al libero flusso di lavoro, capitale e merci. Pertanto, la forza abilitante della globalizzazione è lo Stato. In effetti, gli Stati più grandi e potenti – come gli USA – hanno usato la globalizzazione come mezzo per aumentare i loro poteri e interessi. Ci muoviamo da queste premesse – e dalla prioritaria soluzione delle “tre guerre civili” – per articolare alcuni principi che dovrebbero ispirare una strategia italiana volta a tutelare i propri interessi nazionali nel consesso internazionale.

CONTESTO INTERNAZIONALE

La conclusione della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, vedono la crisi dell’equilibrio bipolare che conteneva nell’egemonia dei Paesi Egemoni (USA ed URSS) i conflitti geopolitici dei diversi Paesi satelliti. 5 Fase mondiale conflitto permanente multinazionale. Quindi si entra in una fase in cui le élites dominanti sovranazionali vanno in conflitto tra loro tramite una nuova dinamica, composta da conflitti regionali e locali tra stati e dentro gli stessi stati, andando a recuperare contrapposizioni etniche e religiose. Il metodo conflittuale comporta un’estrema turbolenza in quanto libera gli interessi geopolitici delle diverse nazionalità, sia minori sia emergenti. La globalizzazione, in una nuova fase, contrasta il ruolo delle nazioni dominate nell’economia, anche sviluppando nuove tecnologie produttive e di controllo sociale. Nel settore produttivo si supera il rapporto con le merci materiali e i mezzi di produzione per l’impiego di mezzi immateriali: i dati e l’intelligenza artificiale. Di pari passo il controllo sociale sugli individui non necessita di organi intermedi, sindacati, partiti, ma si opera direttamente sul singolo individuo collegandolo in modo permanente con tecnologie attive, che ne acquisiscono (depredano) le informazioni personali linguistiche e biometriche, con cui predeterminano il comportamento nel lavoro, nei consumi e nella vita emotiva. Nuovi e vecchi fattori di forza. Il fattore di forza per svolgere il conflitto permanente avviato dalle élites dominanti resta la capacità militare. Restano soggetti attivi i Paesi che ospitano élites dominanti industriali militari a capacità continentale. Per capacità industriale militare deve intendersi un concetto complesso, che include oltre ai sistemi d’arma, i sistemi di veicolazione, archivio, elaborazione dell’informazione. In questo contesto il concetto di informazione va oltre quello tradizionale di notizie e propaganda, si estende come accennato ai dati globali sulle singole persone. USA. In questa fase di conflitto permanente multinazionale, la dinamica di posizionamento degli stati europei si è andata modificando dall’equilibrio istituzionalizzato con la NATO. L’elemento pattizio che ha permesso e permette di mantenere l’egemonia storica postguerra agli USA nell’occidente, di fatto, perdura, con gli accordi bilaterali che avallano la presenza militare americana nei diversi paesi europei. Di tale situazione l’Italia ne è stata ed è la maggiore vittima. In modo specifico in quanto ne limita ed abortisce il ruolo mediterraneo e con il medio e lontano oriente, cui è deputata per geopolitica e storia. Il fatto più recente è stata la cancellazione violenta dei rapporti 6 con la Libia. Gli USA appaiono, a qualsiasi osservatore attento, profondamente divisi al loro interno, sia fra i diversi schieramenti di cittadini sia, soprattutto, fra le varie élite dominanti. Le divisioni in essere, non mettono in discussione la necessità per gli Usa di mantenere la supremazia mondiale, ma sono dialetticamente concorrenti per quanto attiene alla migliore strategia da applicare, per mantenere la supremazia geopolitica degli USA sul mondo. Il mutamento strategico segnala che gli Stati Uniti hanno dovuto prendere atto di un loro predominio non incontrastato, così come avevano pensato, dopo il crollo dell’Urss, per un periodo di tempo tutto sommato breve (1990-2003). E’ in tal senso che si può parlare, oggi, di declino relativo del paese ancora predominante e – parallelamente alla maggiore assertività di Russia e Cina – dell’avvio di una fase multipolare del sistema-mondo. In ogni caso, gli Stati Uniti dovranno rigiocarsi la centralità globale, in un periodo che dovrebbe essere piuttosto lungo, di alcuni decenni almeno, e il cui esito non è scontato in partenza; non è affatto escluso che riacquistino la preminenza, ma nemmeno è indiscutibile un simile risultato. Si tratterà di una fase storica turbolenta – con svariati mutamenti di prospettive e di previsioni – di cui le crisi economiche sono soltanto il segnale premonitore. In questo processo la loro dialettica interna diviene strumentale ad adottare una posizione isolazionista (sovranista) o globalista (deep state) a seconda della congiuntura più favorevole a loro. Tale dialettica è dimostrata dal cambiamento di valori e tipologia sociale di consensi che hanno avuto i due partiti principali, repubblicano e democratico . Data questa premessa, sembra che le due fazioni USA, attualmente in lotta fra loro, si differenzino, rispetto alla priorità da dare al contenimento di Russia o Cina. Il gruppo isolazionista (sovranista – repubblicano) sembra avere l’intenzione di bloccare l’espansione cinese – non solo di tipo commerciale/logistico ma, soprattutto, di tipo militare/strategico – soprattutto nella “zona-mare”, per orientarla verso la parte continentale, quindi verso la zona centro-asiatica, dove potrebbe scontrarsi con la Russia. Mentre il gruppo globalista (democratico- Deep State) considera la Russia quale avversario principale, il primo da “contenere” e mettere in isolamento e in difficoltà. E’ indubbio, che le dirigenze attuali cinese e russa – ancorché insidiate al loro interno da fazioni che si oppongono a loro e vorrebbero giocare alla “globalizzazione” magari in nome dei “diritti civili” – comprendono molto bene il significato delle mosse statunitensi e hanno consapevolezza dell’interesse, di non breve momento, a collaborare per sventarle e non cadere nella “trappola”. 7 La fazione USA che dà priorità al contenimento della Russia, procurerebbe come ovvia conseguenza una maggior spinta sull’acceleratore, soprattutto, nell’area UE. E l’Italia – data la sua posizione geografica, e ancor più con la sua debolezza “strutturale” di “nazione incompiuta”, attraversata da spinte centrifughe, da ostilità interregionali, ecc. – assumerebbe, in quel contesto, un’importanza significativa e, quindi, maggiori pressioni e interferenze. Russia Il collasso dell’URSS, avvenuto alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, aveva portato, come conseguenza, la rapida spoliazione della nazione ex-sovietica, da parte di un’élite antinazionale interna (gli oligarchi) “aiutata” e guidata da “esperti” e consiglieri occidentali. Questo processo si interrompe con la crescita e la presa di potere, di un élite nazionale, che esprime la sua guida in Putin. La Russia putiniana, uscita vincente dallo scontro con la parte più “filo-occidentale” degli oligarchi – che pur mantenendo un certo potere economico non hanno accesso ad alcun potere politico – sembra godere di una relativa stabilità ma deve fare i conti con le continue insidie nel suo “estero vicino” (Georgia, Ucraina, Bielorussia, ecc.), una seria crisi economica – e la contestuale difficoltà a svincolare la sua economia dall’eccessiva dipendenza dalla vendita di fonti energetiche fossili – e con le storiche difficoltà nel tenere unito un Paese geograficamente immenso (immigrazione cinese nell’est siberiano). La Russia sta dimostrando di aver acquisito la consapevolezza che il suo sistema produttivo deve migliorare la complementarietà con il complesso della ricerca civile e militare (due mondi che in epoca sovietica viaggiavano totalmente disconnessi da quello economico-produttivo). Per il momento rimane un nano economico ma è ridiventata una nazione potente militarmente, in grado, in questo modo, di svolgere un ruolo globale e non solo regionale. Cina La Cina è un paese fortemente dipendente dall’esterno e tale resterà per molti anni a venire. Con una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone, la tigre asiatica dovrà guardare fuori dai suoi confini per accaparrarsi risorse sufficienti. Per quanto, infatti le politiche interne siano ambiziose e volte al ricorso di fonti energetiche interne, sfruttabili a livello nazionale, il sistema industriale cinese necessiterà, ancora per molti anni, di fonti energetiche di origine fossile importate da altre nazioni. Anche l’impegno su grande scala nell’utilizzo delle fonti energetiche 8 cosiddette “rinnovabili” e l’elettrificazione della mobilità necessitano per la Cina l’acquisizione e il controllo di metalli speciali di cui è ricco il continente africano. Il che spiega perché la Cina continuerà ad essere presente in Africa e in altre parti del mondo e a promuovere investimenti massicci in progetti cosiddetti “green” e non solo. La stessa cosa vale per le risorse alimentari: la dieta dei cinesi – progressivamente inurbatisi negli ultimi decenni – è drasticamente cambiata dagli anni del Grande Balzo In Avanti. La Cina non ha abbastanza risorse all’interno dei suoi immensi confini per sfamare la propria popolazione. A questo si accompagna la fragilità della sua sicurezza ai confini marittimi collocati sulle linee di una manciata di isole ed arcipelaghi del Mar Cinese Orientale – il cosiddetto “Filo di Perle” a poche centinaia di chilometri dalle sue coste – che non controlla né economicamente né tanto meno militarmente. Questa condizione di dipendenza dall’estero e di debolezza strategica ai suoi confini marittimi – per molti uno svantaggio nella corsa alla leadership mondiale – favorisce gli americani, i quali auspicano e lavorano affinché si prolunghi il più a lungo possibile. Sulla questione del conflitto USA-Cina e della nuova prospettiva in cui va inquadrato, è molto importante un saggio scritto da Giulietto Chiesa nell’ottobre scorso: Quale destino per l’Impero. UE In un recente saggio storico, Joshua Paul della Georgetown University, ha scandagliato gli archivi istituzionali del suo paese, portando alla luce come l’intelligence americana abbia avuto una parte sostanziale nel creare e finanziare il mito europeistico per ragioni strategiche. I cosiddetti padri fondatori dell’Ue erano a libro paga dei servizi segreti americani. L’occupazione americana dei paesi dell’UE non cessa ai nostri giorni, anche se trova in questa fase “due” Stati Uniti in contrasto fra loro. Ognuna delle due fazioni ha i suoi punti di riferimento in Europa. Quella dei sovranisti, venuta alla luce di recente soprattutto con Trump, si sta creando i suoi sodali tra coloro che si dichiarano sovranisti. Quella dei globalisti (Clinton, Bush, Obama) trova da sempre i suoi sodali nelle socialdemocrazie e nei tradizionali partiti ex-democristiani. Entrambe lavorano per creare una frattura tra le “vecchie” nazioni europee e le “nuove” – quelle che appartenevano al Patto di Varsavia nell’epoca del bipolarismo USA-URSS – in chiave anti-russa. La situazione della UE ha visto la realizzazione di una capacità economica continentale tramite l’aggregazione dei Paesi aderenti, ma non con una dialettica di equilibrio dei partecipanti, bensì con una prevaricazione degli interessi del blocco Franco Tedesco a danno dei paesi mediterranei, 9 ed un continuo boicottaggio USA operato prima dalla Gran Bretagna ora dalla Polonia. In questa dinamica il ruolo dei governi italiani è stato sempre subalterno ad entrambi, verso gli USA, primariamente, per la dipendenza militare industriale, verso la Francia e Germania per i ai vantaggi politici e finanziari portati ai gruppi storici stranieri egemoni nell’economia italiana. Questa schizofrenia non ha portato mai l’Italia ad inserirsi nelle iniziative di partecipazione strategica negli assetti industriali, civili e militari europei. Un discorso a parte merita di essere fatto sui rapporti che si sono consolidati, in questi ultimi trent’anni, fra Italia e Francia, riassumibili in estrema sintesi in pochissime parole: il PD è diventato il partito dei francesi in Italia. Qualsiasi evoluzione dei rapporti geopolitici con i nostri vicini francesi – articolabili in estrema sintesi nel triangolare con la Germania all’interno della Commissione Europea e nel definire le reciproche sfere d’influenza nel Nord Africa e nel Mediterraneo – deve necessariamente prima passare dalla liquidazione dei riferimenti italiani asserviti alla Francia, interni ai centri di potere politici, militari, economici e finanziari. INTERESSE NAZIONALE ITALIANO

Partiamo dalla doverosa premessa che l’Italia, uscita dal Trattato di Pace del 1947, non è un paese libero. Secondo un giudizio storico autorevole – ma ancora non condiviso da chi denomina gli “alleati” come nostri “liberatori” – le conseguenti osservazioni di cui tenere necessariamente conto sul piano geopolitico, sono: • Il Trattato di Pace mostra prima di tutto l’impotenza dell’Italia nel secondo dopoguerra; • Gli USA pensavano ad un Europa bastione contro l’URSS e in questa chiave usavano la democrazia ed il benessere; • Per la GB l’Italia doveva essere punita e le interessava la supremazia nel Mediterraneo, quindi indebolire la flotta e la presenza italiana in nord-africa (vedi anche le ricerche di Fasanella); • L’URSS mirava alle riparazioni per la sua ricostruzione, dava per scontato l’allineamento occidentale dell’Italia e mantenne un atteggiamento morbido, tranne sulla questione del confine orientale; • La Francia puntava ad una Germania neutralizzata e spezzettata. Intervenne limitatamente per promuovere i suoi interessi in Tunisia e sul confine occidentale. 10 Ad oggi le basi militari USA in Italia sono ufficialmente 8: • Friuli Venezia-Giulia Base aerea di Aviano USAF • Veneto Vicenza Caserma Ederle US Army • Veneto Vicenza Camp Del Din Base militare US Army • Toscana Pisa-Livorno Camp Darby Base militare US Army • Lazio Gaeta Naval Support Activity Base navale US Navy • Campania Napoli Naval Support Activity Naples US Navy (VI flotta) • Sicilia Niscemi Base radio US Navy • Sicilia Sigonella Base aerea US Navy A questi dati di fatto – che devono essere riconosciuti realisticamente come fondativi del carattere della nazione – si deve aggiungere quanto emerso dopo la firma dei Trattati di Maastricht e di Lisbona. Dichiara Guido Carli nelle sue memorie: “… L’economia di mercato, mutuata dall’esterno, è sempre stata una conquista precaria, fragile, esposta a continui rigurgiti di mentalità autarchica. Il vincolo esterno ha garantito il mantenimento dell’Italia nella comunità dei Paesi liberi. La nostra scelta del «vincolo esterno» è una costante che dura fino ad anni recentissimi e caratterizza anche la presenza della delegazione italiana a Maastricht. Essa nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese…” Tale visione di immaturità del popolo italiano, che sfiora il razzismo antropologico, si perfeziona duplicando il vincolo esterno aggiungendo anche quello europeo o meglio franco tedesco, come venne spiegato da Paolo Peluffo – che raccolse le memorie di Carli – il quale, a proposito di Maastricht, ha scritto: “ …. L’Italia si trovò nel giro di pochi mesi nella condizione di essere privata di alcuni dei suoi obiettivi strategici, per esempio nei Balcani, nel Mediterraneo, in Medio Oriente. La scelta del trattato di Maastricht …. apparve l’unica soluzione possibile, ma rappresentò anche lo scivolamento da un vincolo esterno a guida americana (quello che inizia nel 1945) ad un vicolo esterno a guida europea e dunque nel tempo franco-tedesca.” L’analisi schematica del contesto internazionale, svolta più sopra, ci consegna un sistema in accelerazione dinamica, verso un assetto sempre più multipolare. In questo contesto alcune nazioni trovano spazi che, nel contesto bipolare/unipolare del secolo passato, non avevano. Per le nazioni, che non competono a livello globale, risulta pertanto giustificata una posizione 11 internazionale flessibile, dove non si ponga come vincolo un singolo esito, cosa d’altronde impossibile determinare, in questa fase storica. A fronte di queste considerazioni, della collocazione strategica al centro del Mediterraneo, della residua ricchezza del proprio patrimonio industriale, produttivo e culturale e della tradizione di rapporti con le aree circostanti, in particolare nell’area adriatica e mediterranea, siamo convinti che l’Italia abbia ancora un ruolo autonomo significativo, orientato alla risoluzione positiva dei conflitti e alla creazione di un contesto che possa allargare rapporti oggi preclusi e garantire lo sviluppo economico e sociale del Paese. Si tratta, dunque, di sostituire il vincolo esterno con un vincolo interno dell’interesse nazionale, che si può definire con alcune considerazioni basilari e necessarie per delineare una nuova strategia per l’Italia, della quale la futura classe dirigente dovrà dotarsi. La prima cosa è fare pace con noi stessi: da qui la necessità di risolvere le “tre guerre civili” che abbiamo descritto più sopra. Serve ridare senso e forza allo Stato unitario, per evitare che con le istituzioni nazionali evapori la nazione. Il che comporta dare priorità alla costruzione di nuovi gruppi dirigenti politici fondati a partire dalla crisi e dalla destrutturazione degli attuali schieramenti politici, che siano in grado di dare prospettive e plasmare l’identità della nazione riorientando gli interessi e stabilendo nuove regole di governo, nonché capaci di individuare, in particolare tra i ceti professionali e direttivi, i referenti in grado di coagulare le forze necessarie a garantire il successo della svolta. Occorre ricostruire la reale identità storica italiana, per ottenere uno spirito civile e sociale che produca un orgoglio patriottico da trasmettere alle future generazioni, recuperando tutti i nostri antichi valori frutto del patrimonio di cultura e di Civiltà che ha portato un contributo assoluto per la centralità dell’uomo e delle arti. L’Italia ha anche una dimensione manifatturiera, materiale ed oggigiorno anche immateriale, da leader mondiale in molteplici settori, che dobbiamo alimentare e promuovere, prima di tutto, contrastando la sua svendita a proprietà estere che ne determinano lo sfruttamento irrispettoso dei lavoratori e dell’ambiente sino alla chiusura dell’impiantistica e conseguente disoccupazione, e, poi contrapponendoci ad un risorgente sentimento interno anti-industriale, falso-ambientalista. L’Italia non possiede nel suo territorio sufficienti fonti energetiche e altre materie prime essenziali per le produzioni strategiche; per acquisirle da altre nazioni, pagando quindi in valuta estera, deve considerare oltre ai vincoli geopolitici anche l’equilibrio della bilancia commerciale. Lo scambio 12 energia/materie prime contro manufatti, servizi ed agroalimentare è la formula che ha garantito meglio la relativa autonomia della Prima Repubblica, insieme al conto economico nazionale. L’esempio strategico di Enrico Mattei, a est (Russia) ed a sud (Nord Africa), rimane una scelta valida anche per il futuro, se non altro perché ancorata ad evidenti ragioni geografiche. Lo scambio commerciale intra-UE ed in particolare con Germania e Francia deve essere basato sulla reciprocità, per salvaguardare il patrimonio dei settori economici e lo sviluppo tecnologico nazionale. Il partenariato nei settori a dimensione continentale deve essere realizzato sempre con soggetti equivalenti a dimensione subcontinentale. Un’attenzione particolare va prestata al settore digitale o dei dati (traffico, gestione, elaborazione, archivio) pubblici, privati e classificati in cui è imprescindibile garantire la totale autonomia infrastrutturale tramite assetti esclusivamente nazionali. Il finanziamento delle attività di ricerca scientifica di base ed applicata deve assumere in questo contesto un significato insieme strategico e complementare al sistema industriale-manifatturiero, orientandosi verso nuove fonti energetiche non-intermittenti, in sostituzione progressiva di quelle fossili, e verso le tecnologie di recupero dei materiali da reimmettere nei cicli produttivi. Superamento delle condizioni materiali del trattato di pace/resa della seconda guerra mondiale, non più con le conseguenze della NATO, che potrà pure essere “cerebralmente morta” (Macron), ma questo non significa che gli USA abbandonino le loro basi in Italia. Per accompagnare gli USA a questo esito, per noi strategico, è necessario rinegoziare le intese bilaterali escludendo qualsiasi presenza di forze militari straniere sul nostro territorio, con l’obiettivo di conquistare agibilità politica autonoma nei confronti dei Paesi europei e mediterranei e commerciale con il resto del mondo. 13

BIBLIOGRAFIA

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Inascoltabile, di Vincenzo Cucinotta

C’è in questo mondo di politicanti e di media che volentieri li assecondano qualcosa che proprio non si può stare a sentire.
L’ultima indegnità che dobbiamo sopportarci da costoro è adesso il confronto tra il presente e i governi del primissimo dopoguerra.
Costoro dicono che essi stanno assieme nel governo Draghi in fieri come DC, liberali socialisti e comunisti stavano assieme nel governo guidato da De Gasperi.
Sarebbe lo stesso che io dicessi di essere come Claudia Schiffer perchè ho due occhi come lei, dite voi se non suona osceno questo confronto.
Draghi è venuto a commissionarli, possibile che ci sia chi non l’abbia ancora capito, per questo non credo, a differenza di persone che in genere la pensano similmente a me, che il problema sia Draghi, basti riflettere a cosa fosse il governo Conte.
Il primo governo Conte, quello gialloverde, costituiva un esperimento politico con caratteri interessanti in sé se non altro perchè permetteva di vedere quale svolta Salvini avesse impresso alla Lega, e nello stesso tempo permetteva di gettare luce su una realtà misteriosa come i 5S che nel frattempo erano diventati la forza politica di maggioranza relativa. Per quelli come me che vedevano nella falsa dicotomia destra-sinistra del ventennio che potremmo chiamare berlusconiano la pietosa menzogna coltivata per monopolizzare la politica da parte di due schieramenti che sui punti fondamentali camminavano invece gomito a gomito, si intravedeva una via per uscire da questa gabbia con questa inedita e a quel tempo imprevedibile alleanza.
La infausta svolta dell’agosto 2019 normalizza la politica italiana e rimette al centro del quadro politico italiano il PD che decide di allearsi con i 5S ma ancora una volta di rimessa.
Se voi ci pensate, a partire dalla discesa in campo di Berlusconi, il PD si è fatto concretamente veicolo passivo della UE, dei suoi paesi leader, e di tutta l’aggregato di potere sovranazionale che essa esprime. Per diventare appetibile agli elettori, il PD sfrutta abilmente un antiberlusconismo molto ostentato ma di fatto inconsistente.
Oggi, similmente, il PD prende ancora ordini da Bruxelles, e decide di cedere il ruolo di protagonista a quello stesso Conte che come dicevo altrove rappresenta la personificazione del trasformismo. Non è una scelta politica che può fruttare al PD, ma come si fa ad inventarsi una linea politica di cui si è scelto di fare a meno ormai da un quarto di secolo? Così, la strategia diventa quella di creare un super-PD inglobando nel suo corpaccione i 5S ormai allo sbando, in corso avanzato di balcanizzazione, e ciò che resta di LEU, sempre più inutile, soprattutto dopo la scissione di Renzi che ha tolto dal PD l’elemento più indigesto a quell’area.
Salvini è da una parte un politico sprovveduto per l’infausta svolta del Papeete, ma anche scalognato perchè è incappato nella pandemia. La pandemia ha colpito al cuore la Lega mettendone a nudo la sostanziale divisone interna e la provvisorietà di ogni segno di opposizione, vuoi verso la UE che verso i temi fondamentali, vuoi verso le misure anti-COVID sollevavano e che hanno valenza ben più ampia della contingente vicenda di tipo sanitario.
Incapaci di costruire un percorso di uscita dalla UE, incapaci di resistere alla narrazione mediatica della vicenda COVID, tutti i partiti sono stati messi a nudo nella loro funzione ormai marginale di copertura formale delle decisioni prese altrove e di strumenti ormai di convogliamento del consenso elettorale attraverso più o meno abili slogan, senza essere più portatori di reali alternative né politiche, né tanto meno ideologiche, uno strumento come tanti altri attraverso i quali un potere sempre più anonimo e oligarchico sta uccidendo ogni parvenza di democrazia nel nostro paese.
Chi oggi si allarma per Draghi, scambia insomma il segnale ormai visibile della crisi profonda e forse irreversibile della democrazia con la stessa crisi che data da ben più tempo e che lungo il 2020 si è assestata fermamente con la vicenda COVID. Dico irreversibile perchè quella crisi si basa su una scelta anch’essa ormai consolidatasi di superamento della costituzione, cioè della sua messa da parte ormai ridotta a un valore puramente simbolico. L’afasia del sistema politico italiano, aggravata dall’incapacità dell’organizzazione di nuove forze e di nuovi progetti politici, è la vera conferma che la democrazia è ormai in stato avanzato di coma.
Per capire come Draghi non sia il punto dirimente, basti riflettere sul fatto che egli è chiamato a sostituire Conte: davvero è questo passaggio che ci allarma, Conte quindi ci garantiva?
Tornando al tema iniziale, come si fa a confrontare una situazione di dichiarazione di morte del sistema politico italiano, con lo sforzo di lavorare assieme a un comune progetto partendo da ipotesi politiche in sé divergenti?
La situazione è esattamente opposta, allora il governo comune serviva a mettere da parte le differenze che costituivano la fonte dei problemi, oggi la fonte die problemi è la conformità totale, l’assenza di progetti e la pura e semplice funzione di gestione al servizio di poteri altri e lontani.
NB_tratto da facebook

Mario Draghi, la sua potenza di fuoco_ con Antonio de Martini

Mario Draghi è ripiombato sulla scena politica. Salutato come un salvatore; etichettato come un esponente della grande finanza, delle lobby finanziarie, dei poteri finanziari. Un abito troppo stretto per un vero decisore politico o, nel minore dei casi, a stretto contatto con i decisori, con gli strateghi. Draghi è tornato in Italia per sistemare le cose, non per galleggiare. E’ diverse spanne sopra gli altri attori. Che poi ci riesca, sarà tutto da vedere.

L’Italia è un paese troppo importante per essere lasciato completamente alla deriva; è un tassello fondamentale per bilanciare la posizione di Francia e Germania; è una piattaforma imprescindibile per influire nell’area mediterranea. I pochi a non rendersene conto sono gli italiani e la quasi totalità del suo ceto politico. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vdmdkf-mario-draghi-la-sua-potenza-di-fuoco-con-antonio-de-martini.html

Governo Draghi, sintesi_di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Il campo anti-sistemico (populista/sovranista/nazionalista) ha tentato e fallito il superamento della contrapposizione destra/sinistra (governo gialloverde) in conformità alla comune designazione della UE come “nemico principale”.
Oggi riesce a superare la contrapposizione destra/sinistra il campo sistemico (euroatlantico/mondialista), e ottiene una vittoria strategica di prima grandezza: integra in forma subalterna la principale forza politica anti-sistemica italiana (Nuova Lega) e predispone un contenitore/ghetto per le lunatic fringes anti-sistemiche (Fd’I). Fd’I è il contenitore/ghetto ideale delle forze anti-sistemiche perché è una forza politica erede del fascismo, che con il suo semplice rifiuto di integrarsi nella maggioranza sistemica la definisce e legittima, sul piano dei valori, quale riedizione/riattivazione dell’ arco costituzionale antifascista.
Qualcosa di analogo era già avvenuto in Francia con la riuscita dell’esperimento Macron, brillantemente improvvisato per scongiurare il pericolo Front national nelle presidenziali 2016; ma il governo Draghi ne è la forma compiuta e integrale.
Come sempre avviene, la vittoria del campo sistemico consegue agli errori (catastrofici) e alle insufficienze anzitutto culturali (gravi) del campo anti-sistemico; e ovviamente alla bravura degli strateghi del campo vittorioso.
I problemi che hanno portato alla nascita di un campo anti-sistemico in tutto l’Occidente, però, non spariscono, sebbene per ora non trovino una sintesi culturale e politica adeguata.

Investitura e legittimazione di Mario Draghi, di Roberto Buffagni

Roberto Buffagni:
<Investitura e legittimazione di Mario Draghi, brevissima nota.
In superficie, l’investitura e la legittimazione di Mario Draghi provengono dalla sua competenza tecnico-operativa, che viene messa in risalto dalla simmetrica e conclamata incompetenza del ceto politico italiano, che per l’ennesima volta si è fatto sfilare la patente da un banchiere. Sotto la superficie, però, l’investitura e la legittimazione di Mario Draghi sono sacrali, regali e sacerdotali insieme. Perché Mario Draghi è stato il banchiere centrale UE, ossia colui che conferiva legalità al denaro (funzione regale) e insieme colui che lo creava (funzione sacerdotale, analoga alla Transustanziazione delle specie eucaristiche). Mi spiego meglio. Nelle società tradizionali, il denaro ha valore intrinseco (oro, argento, beni preziosi in genere) e la funzione regale si esprime nel conio della moneta, che le conferisce legalità. Ma nella nostra società, il denaro non ha alcun valore intrinseco: consiste in biglietti di banca (forma residuale) e soprattutto in accrediti e addebiti elettronici, pure scritture contabili. Nelle nostra società, insomma, il denaro è moneta fiduciaria, ossia puro segno che acquisisce valore per il solo fatto che i prenditori glielo attribuiscono “sulla fiducia”, ossia “per pura fede” (“sola fides”, il presupposto della Riforma luterana). La fiducia e la fede però sono cose serie, e vanno garantite da qualcuno. Il qualcuno che le garantisce, in questo caso il banchiere centrale che transustanzia una pura scrittura elettronica nella moneta a corso legale che consente a tutti di vivere la vita quotidiana, assume by stealth la funzione sacerdotale. E sia detto per inciso, è questa funzione sacerdotale che lo qualifica a richiedere e celebrare “i sacrifici” che vengono regolarmente richiesti alle popolazioni dalle istituzioni economiche e politiche, che oggi risulta difficile distinguere.
Funzione regale e funzione sacerdotale implicano ovviamente una legittimazione incompatibile con la legittimazione oggi ufficialmente rivendicata da tutti i regimi politici occidentali, ossia “la volontà del popolo” (la democrazia a suffragio universale).>

 

PUBLIO CORNELIO SCIPIONE L’AFRICANO MAGGIORE, a cura di Antonio de Martini

Spunti dal passato. Pro domo nostra_Giuseppe Germinario
PUBLIO CORNELIO SCIPIONE L’AFRICANO MAGGIORE
Il giocatore di scacchi
Aveva solo 17 anni Publio Cornelio Scipione, il futuro Africano, quando, nel 218 a.C., ebbe il primo incontro ravvicinato con Annibale. Era la battaglia sul Ticino, e fu la prima amarezza delle tante patite da Roma per la durata di sedici anni (tanto restò Annibale in Italia: si è calcolato che i romani ci abbiano rimesso 300 mila morti!!! E si dice che, in percentuale, ci fu un dispiegamento di forze e di mezzi, superiore a quelli dell’Italia nella prima guerra mondiale!). Publio, benché diciassettenne, ma ben messo nel fisico, si distinse per valore e salvò il padre e lo zio rimasti feriti.
Data l’età, a nessuno passò per la testa di affidargli le legioni. Lui seguì da vicino il modo di agire di Annibale sul piano militare, e ci ragionò sopra, fino ad arrivare a delle conclusioni. Elaborò un piano strategico. Proprio come fa uno scacchista sulla scacchiera. E l’obiettivo strategico finale era costringere Annibale a sloggiare dall’Italia. Come prima mossa, Publio si fece mandare in Spagna.
Per la Spagna, infatti, passava la via dei rifornimenti per l’esercito di Annibale, e lui aveva aperto la strada con il suo leggendario passaggio di Pirenei ed Alpi. Perché non per il mare? Prima della prima guerra punica i cartaginesi, di origine fenicia e quindi grandi navigatori, erano superiori ai romani sul mare. Ma, durante il primo conflitto, i romani, consapevoli della loro inferiorità marinara, s’erano inventati il sistema dei ponti corvi, passarelle uncinate di legno con cui agganciavano le navi nemiche per assalirle, mentre il combattimento tradizionale mirava allo speronamento. Finita la guerra, mentre Cartagine ebbe un periodo di grave crisi politica, i romani fecero progressi prodigiosi nella marineria, e dominavano il mare. Quindi da Cartagine (Tunisi) gli aiuti potevano arrivare solo per via terrestre.
Tanto più che in Iberia (Spagna) i cartaginesi avevano costruito una città, Nuova Cartagine (=Cartagena), una vera fortezza inespugnabile. Ed infatti Scipione non riusciva a venirne a capo. Tuttavia la presenza romana aveva bloccato il flusso verso l’Italia. Ma aveva fatto in tempo a passare Asdrubale, fratello di Annibale, che si diresse verso l’Italia, per riunirsi con il fratello ed insieme attaccare Roma direttamente. Ma venne intercettato sul fiume Metauro, in Romagna, e morirono tutti i suoi soldati e lui stesso. Ma questa storia merita un racconto a parte, che, vedrete, è meglio di un film.
Gli indigeni dell’Iberia mal sopportavano il dispotismo cartaginese – tranne quelli che, come sempre avviene in presenza di una guerra, pensarono cinicamente di sfruttare la situazione, mettendosi al servizio dell’invasore – , dato che i punici la facevano da padroni. E si allearono con i romani. Un lato della fortezza di Nuova Cartagine era protetto da una bassa palude, bassa, ma sufficiente ad impedire assalti da quella parte. Gli iberici, però, rivelarono a Scipione che, in certi giorni dell’anno, si alzava un vento così forte, ma così forte che spostava tutta l’acqua ed asciugava il suolo. E si stava avvicinando uno di quei giorni. Al momento giusto Scipione sferrò un violento attacco contro la parte opposta alla palude, e lì accorsero tutti i cartaginesi, lasciando incustodita la zona sulla palude: tanto c’era la palude! E fu allora che reparti predisposti ad hoc da Publio, attaccarono il lato lasciato incustodito, ma ora asciutto, ed entrarono nella fortezza. Fine dei rifornimenti!
Tornato a Roma, Scipione prese a sostenere che era giunto il momento di portare la guerra in Africa. Ma dovette fare i conti con i suoi avversari politici. Qui è necessario chiarire qualcosa. Noi diciamo Roma Atene Cartagine come se ognuna di queste fosse un unico blocco. In realtà all’interno di queste città la dialettica politica (alla Hegel o alla Marx, come preferite)vedeva l’opposizione tra proprietari terrieri (antichi detentori del potere economico e quindi politico), e mercanti (vedi anche il post su Temistocle), una nuova categoria di ricchi, che miravano ad una gestione a loro vantaggiosa di economia e politica, ma osteggiata dai vecchi egemoni. In Roma e in quel momento gli Scipioni, benché di antica aristocrazia, miravano all’affermazione politica personale, appoggiandosi al ceto mercantile. Dunque i “conservatori” romani non vedevano di buon occhio la prospettiva politica (rischiosa per loro) di un successo del massimo rappresentante della parte avversa. Una domanda: c’è differenza con le dinamiche politiche di oggi? E fu facile per loro ottenere anche l’appoggio del popolo, ricordando che Annibale era ancora in Italia, e non era saggio spostare armati in Africa. Al massimo – concessero – Scipione faccia da solo: metta insieme un esercito e faccia quello che vuole. Non lo ritenevano capace di tanto, ma lui invece lo fece. Si portò in Sicilia, dove trovò ed arruolò gli otto mila superstiti della battaglia di Canne (che stavano là dal 216, ma anche questa è storia che merita un racconto a parte: ha dell’incredibile, ed invece è STORIA! Di cosa non sono stati capaci i nostri antenati! Se solo recuperassimo una frazione della loro valentia! Intanto però impariamo a conoscerli meglio). E partì per l’Africa.
Ma non attaccò direttamente Cartagine. Non sarebbe stato prudente, perché verso oriente vi erano diverse piazzeforti cartaginesi, che andavano eliminate, onde evitare un attacco alle spalle durante l’assedio. E lui le prese ad una ad una (lo scacchista!), finché non restò l’ostacolo più grosso, due accampamenti, uno numidico ed uno cartaginese. La Numidia corrisponde grosso modo alla Mauritania, ed era uscita da una grave crisi dinastica, grazie all’intervento cartaginese, per cui re divenne Siface che si alleò con i punici, mentre il suo rivale, Massinissa, si schierò con i romani, e tutt’e due garantivano pregevoli truppe di cavalleria. Bene! Scipione provò a prenderli con la forza, ma non ci riusciva. Giocò d’astuzia: finse di volere intavolare delle trattative, e per questo mandò dei suoi luogotenenti a parlare con i capi cartaginesi nell’accampamento. Era uso che una delegazione si presentasse con un codazzo di servi e schiavi per le necessità materiali dei delegati. E mentre si svolgevano i confronti diplomatici, questi servi se ne andavano in giro a curiosare nell’accampamento. Tanto nessuno badava a degli schiavi! Ma Scipione aveva fatto travestire da schiavi i suoi migliori esperti di costruzione di accampamenti, e questi giravano senza controllo, facendosi i selfies, pardon!, memorizzando a puntino ciò che vedevano. Finite le consultazioni, la delegazione romana tornò da Scipione, con l’impegno ad andare di nuovo l’indomani, per portare le novità da parte del console. Invece in piena notte i romani assalirono con proiettili incendiari quei settori dell’accampamento numidico considerati più esposti. Il fuoco provocò una gran confusione, ma nessuno sospettò l’attacco romano. I cartaginesi, anzi, accorsero in aiuto dei loro alleati, ma su entrambi piombarono i romani, che ebbero partita vinta. I cartaginesi fecero un ultimo tentativo di resistere, ma ai Campi Magni furono sbaragliati. La strada per Cartagine era spianata!
Scipione si presentò sotto le mura di Cartagine, ed intimò la resa, dettando anche le condizioni. Ma accettò la tregua proposta dai cartaginesi, perché richiamassero Annibale in patria: l’aveva iniziata lui la guerra, dicevano, che la risolvesse lui! Anche in Cartagine si opponevano due partiti, i proprietari terrieri, che proponevano un’espansione nella terra d’Africa , e facevano capo alla famiglia degli Annoni; ed i mercanti, conquistatori ed imperialisti, che avevano nella famiglia Barca, quella di Annibale, l’elemento di punta. E Annibale, bestemmiando come un turco (non me ne vogliano i turchi, si dice così, senza malizia), pur non essendo mai stato sconfitto, dovette lasciare l’Italia. SCACCO MATTO!
Narra Livio che Annibale provò a giocare d’astuzia. Chiese ed ottenne un colloquio con il giovane rivale, lo colmò di elogi, e gli propose di lasciare le cose come stavano: lui si impegnava a rimanere in Africa, e Scipione se ne tornasse in Italia, ché i romani l’avrebbero adorato, per aver costretto Annibale ad andarsene. Scipione gli rispose che non era il caso per Annibale di fare il furbo: “Se domani mi costringi a combattere, due sono gli esiti possibili: o vinci tu, o vinco io. Ma, se vinci tu, allora sì che siamo al punto di partenza, se invece vinco io, per voi è finita! Decidi tu. A Cartagine conoscono le condizioni. Se non mi costringi a combattere, valgono quelle che sanno, ma se vinco, metteremo sul conto anche questa battaglia.”. E Annibale, per ragioni politiche interne, si vide costretto alla battaglia. E fu la prima ed unica sconfitta per lui: 18 ottobre 202 avanti Cristo, a Naraggara, presso Zama.
Un trionfo mai visto prima accolse Scipione al suo rientro a Roma: 16 anni, tanto era durata la presenza di Annibale in Italia, con 300 mila morti, ed un terrore panico difficile da sradicare dall’animo romano. “ANNIBALE ALLE PORTE!”, si esclamava con terrore anche secoli dopo, quando si profilava un pericolo per la città. Scipione poi amava far credere di essere anche lui l’UNTO DEL SIGNORE: andava spesso nel tempio di Giove nel foro, a parlare con il dio, diceva, che gli aveva suggerito tutte le mosse. E creò intorno a sé un fenomeno di culto della personalità.
I suoi avversari politici, però, non si arresero. Riuscirono a coinvolgerlo in una storiaccia di concussione (di cui il responsabile era quasi sicuramente il fratello Lucio), in margine alla guerra contro Antioco III di Siria: era LA MACCHINA DEL FANGO (non abbiamo inventato nemmeno quella!). E Publio, indispettito perché si era dubitato di lui, preferì andarsene in volontario e dorato esilio in Campania, in una villa a Literno, che dà il nome all’odierna località, Villa Literno. E si narra che andandosene promise di non mettere mai più piede a Roma:
INGRATA PATRIA NON AVRAI LE MIE OSSA. E così fu. E morì qualche mese prima che Annibale si suicidasse. I due grandi nemici uscirono insieme dalla Storia: sotto a chi tocca!
Molto divertente e ben fatto è il film di Magni: “Scipione detto anche l’Africano”. Grandi attori!
DOMENICA PROSSIMA VEDREMO COME E PERCHE’ NASCE LA DEMOCRAZIA (IN GRECIA).

Il colpo di stato in Myanmar: perché adesso?, di: Phillip Orchard

Proseguiamo nell’opera di documentazione e di analisi delle dinamiche e delle ragioni del colpo di stato in Myanmar. E’ la volta di un articolo tratto dal sito Geopolitical Futures, diretto dall’analista americano George Friedman_Giuseppe Germinario

Il colpo di stato in Myanmar: perché adesso?

Ci sono enormi rischi nell’abbandonare il precedente accordo politico del paese.

Di: Phillip Orchard

Per il Myanmar, un paese in cui i vertici militari hanno dichiarato i colpi per la maggior parte della sua storia moderna, il

golpe di questa settimana non avrebbe dovuto essere una sorpresa. Giunte militari e governi fantoccio hanno governato

il Myanmarper tutti tranne circa 20 anni dall’indipendenza nel 1948. E quando finalmente ha acconsentito a una transizione

graduale allademocrazia a partire dal 2008, le forze armate si sono assicurate che non avrebbero mai dovuto rispondere

a nessuno tranne che a se stesse . Anche dopo che il partito sostenuto dai militari ha accettato con relativa grazia la sua

sconfitta nelle storiche elezioni del 2015, è stato difficile scuotere la sensazione che il tempo stringesse per il nuovo governo

di Aung San Suu Kyi dall’inizio.

Eppure, quando lunedì il capo militare generale Min Aung Hlaing ha annunciato l’ennesima acquisizione, ribaltando la

seconda schiacciante vittoria consecutiva della Lega nazionale per la democrazia guidata da Suu Kyi nelle elezioni di

novembre e imponendo almeno un anno di stato di emergenza, si è trattato davvero di una sorta di grattacapi. Ciò è in

parte dovuto al fatto che i militari non hanno mai effettivamente ceduto il pieno potere al governo civile, ed è difficile

vedere come i suoi interessi fondamentali potrebbero essere minacciati da un secondo mandato dell’NLD. Più confuso, la

motivazione originale dei militari per allentare la presa sul potere è stata guidata in qualche modo dai cambiamenti ancora

in corso nell’ambiente esterno del Myanmar che stavano rendendo insostenibile l’isolamento quasi totale del paese dall’Occidente.

Sembrava, in breve, che il paese avesse finalmente trovato una struttura di potere interna e una logica strategica

necessaria per far prosperare una parvenza di democrazia. Allora cosa è cambiato?

Creato per l’instabilità

Il Myanmar ospita quasi tutti gli elementi che generano instabilità perpetua. Fu governata dagli inglesi, e poi brevemente

dai giapponesi, fino al 1948. La sua topografia montuosa e ricoperta di giungla genera profonde fratture etniche, religiose

e socio-economiche in tutto il paese. Inoltre, rende difficile per qualsiasi governo l’estensione del governo centralizzato

all’intero paese. In effetti, gran parte delle regioni montuose estese che circondano il nucleo centrale sono, se non del tutto

prive di governo, governate dai più armati dei vari gruppi etnici del paese. Alcuni di questi gruppi sono stati in guerra con

il governo centrale per quasi un secolo. Condivide i confini con vicini molto più potenti – sospettosi l’uno dell’altro e quindi

inclini a competere per l’influenza nelle loro zone cuscinetto – mettendo il Myanmar nel fuoco incrociato. Ha un’abbondante

ricchezza di risorse naturali, ma prive delle strutture istituzionali necessarie per evitare quella che è nota come “maledizione

delle risorse”, queste risorse alimentano principalmente conflitti, corruzione e ingerenze straniere.

Gruppi etnici armati in Myanmar
(clicca per ingrandire)

Di conseguenza, il paese è stato essenzialmente in guerra con se stesso sin dall’indipendenza, e quelli con più potere

hanno avuto la tendenza a derivarlo principalmente dalla canna di una pistola. Il controllo del governo nazionale,

quindi, è stato il più delle volte i governi militari o nominalmente civili sostenuti dai militari. Ciò iniziò con il rovesciamento

del 1962 dell’ultimo governo eletto sulla base del fatto che le autorità dovevano condurre le sue varie campagne di

controinsurrezione con mano libera. Poco dopo, il regime nazionalizzò la maggior parte delle industrie del paese, esiliò

i mercanti indiani e pose divieti sulla maggior parte delle forme di aiuto e commercio estero. E per circa mezzo secolo

da allora, i militari hanno visto l’isolamento internazionale come inevitabile o in qualche modo necessario per proteggere

il paese da nefaste influenze esterne e darsi spazio per fare tutto ciò che riteneva necessario per governare come riteneva

opportuno.

I timori della giunta di minacce straniere erano abbastanza ragionevoli. Storicamente, il Myanmar è stato liberamente

utilizzato da potenze straniere per i propri scopi, dalla colonizzazione britannica all’espansione giapponese nella seconda

guerra mondiale al Kuomintang che organizza un’insurrezione contro Mao. Molte delle sue milizie etniche hanno ricevuto

il sostegno di potenze straniere, inclusi Stati Uniti e Cina, in tempi diversi. Durante la Guerra Fredda,

gli Stati Uniti avevano una grande impronta militare in Thailandia , storico avversario del Myanmar. Più recentemente,

gli interventi militari occidentali in Serbia, Iraq e altrove hanno convalidato la paura della giunta di ingerenze internazionali,

soprattutto alla luce della diffusa retorica del cambio di regime rivolta alla giunta.

L’istituzione della Corte penale internazionale e di altri tribunali internazionali, paradossalmente, potrebbe aver reso la giunta

meno propensa a rinunciare al potere per paura che sarebbe finita sotto processo all’Aia.

In breve, il regime conosceva i rischi storici di governare un redditizio angolo della terra con il pugno di ferro.

Ma verso la metà degli anni 2000, i problemi di isolamento erano diventati evidenti. L’economia era crollata da tempo, rendendo

il Myanmar uno dei paesi più poveri del mondo nella sua regione in più rapida crescita. Sebbene il sostegno cinese avesse

arricchito e trincerato il regime, aveva creato uno squilibrio strategico e stava effettivamente trasformando il Myanmar in uno

stato tributario.

La Cina è un avversario storico per il Myanmar e il sostegno regolare di Pechino a potenti eserciti ribelli etnici che dominano regioni

effettivamente autonome e produttrici di papaveri lungo il confine cinese ha solo acuito l’ostilità tra i vertici del Myanmar. La Cina,

inoltre, stava diventando sempre più potente. Di conseguenza, la paura della Cina ha soppiantato la paura dell’Occidente.

L’urgenza di sfruttare il potenziale latente del Myanmar come hub energetico e di risorse naturali che collega Cina, India e Sud-est

asiatico – e rendendosi così un alleato indispensabile per tutti i suoi vicini – è cresciuta. Per renderlo possibile, era necessario

attirare investimenti stranieri e questo significava indurre l’Unione europea e gli Stati Uniti a revocare le sanzioni.

E così alla fine degli anni 2000, i generali hanno iniziato un graduale processo di apertura. Il Myanmar ha iniziato la transizione a

un governo nominalmente civile attraverso le elezioni del 2010. Queste sono state boicottate dall’NLD e il nuovo governo guidato

dal presidente Thein Sein era pieno di generali in pensione da poco. Ma è stato comunque un momento cruciale, dal momento che

Thein Sein ha guidato una campagna di impegno di successo con l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti. Il governo ha liberato

Aung San Suu Kyi, che aveva guidato l’opposizione in gran parte dagli arresti domiciliari nei due decenni precedenti. Nel 2012 era

membro del parlamento. Nel 2015, stava guidando la NLD a una clamorosa vittoria alle elezioni nazionali.

La saggezza prevalente

I militari non hanno annullato i risultati elettorali, come avevano fatto in passato, in parte perché avrebbero comunque esercitato

un potere considerevole nel sistema che ha creato indipendentemente dai risultati. La costituzione del 2008, ad esempio, ha riservato

il 25 per cento dei seggi in parlamento ai militari (abbastanza per bloccare qualsiasi tentativo di sostituire la costituzione). Conservava

anche per sé quasi la piena autorità sulle questioni di sicurezza, in particolare le sue infinite battaglie con gli eserciti ribelli etnici.

I suoi lucrosi interessi commerciali erano garantiti in vari modi. Ha anche squalificato Suu Kyi dal diventare lei stessa presidente

(anche se, in quanto “consigliera di stato”, è ancora stata de facto il capo del governo).

Ci sono poche prove che qualcosa in questo accordo fosse intollerabile per i militari. E ci sono enormi rischi nell’abbandonarlo.

Così la stranezza della decisione di staccare la spina, mesi dopo che il partito di Suu Kyi è arrivato a una seconda vittoria a novembre.

A dire il vero, c’erano molti problemi con questo sistema. In effetti, il Myanmar aveva due governi separati che operavano in parallelo,

spesso con obiettivi e interessi contrastanti. Ciò ha complicato i compiti di governo di routine, per non parlare di problemi più intrattabili

come negoziare la pace e / o fare la guerra contro vari gruppi ribelli. Ha anche complicato gli obiettivi diplomatici del Myanmar, spesso

consentendo a potenze straniere e interessi commerciali di cercare di mettere le due parti a vicenda. (Ad esempio, Pechino aveva

investito pesantemente nel corteggiare Suu Kyi, che aveva bisogno di uno stretto rapporto con i cinesi per dare al suo governo un certo

potere sulle forze armate.) In un paese già enormemente difficile da governare come il Myanmar, renderebbe almeno un certo senso

muoversi verso un sistema più centralizzato e unificato con una chiara gerarchia di autorità. Dopotutto, questo è l’impulso dei

governi autoritari in tutto il sud-est asiatico .

La saggezza prevalente sembra essere che le ambizioni personali del generale Min Aung Hlaing sono il fattore centrale dietro il

trasferimento.

Il generale dovrebbe raggiungere l’età pensionabile a luglio. Con il Partito per la solidarietà e lo sviluppo sostenuto dai militari che

balbettava alle elezioni, la sua strada per rimanere al potere diventando presidente era chiusa. Così ha trovato un modo più diretto

per restare, o almeno così dice la teoria. Il generale ei suoi sostenitori possono infatti essere motivati ​​principalmente da ambizioni

personali; le figure potenti di solito lo sono. Ma dati i rischi connessi con la mossa, sembra improbabile che sia successo senza un

più ampio sostegno istituzionale all’interno delle forze armate – e la sensazione diffusa che i fattori che hanno costretto i militari a

iniziare a dilettarsi con la democrazia un decennio fa potrebbero essere gestiti anche se invertisse la rotta .

In altre parole, i militari potrebbero credere che la marea di investimenti stranieri che ha reso il Myanmar una delle economie in più

rapida crescita del mondo negli ultimi dieci anni non finirà bruscamente semplicemente a causa di un colpo di stato senza sangue.

Le aziende straniere in genere apprezzano la stabilità e la sicurezza più della democrazia e spostare le fabbriche è inoltre costoso.

Le aziende straniere apprezzano anche un ambiente in cui non corrono il rischio di entrare in conflitto con le sanzioni occidentali,

ovviamente, ma qui i militari potrebbero credere che l’Occidente non avrà davvero l’interesse a isolare il Myanmar completamente

come una volta. Gli Stati Uniti non vedono l’ora che un paese così strategicamente importante venga trascinato di nuovo nell’orbita

della Cina. Washington regolarmente trascura i colpi di stato nei paesi che servono i suoi interessi. E in ogni caso, è improbabile che

la causa della democrazia in Myanmar abbia la stessa risonanza politica in Occidente come negli anni ’90 e 2000, ora che l’opinione

di Suu Kyi, vincitrice del Premio Nobel per la pace, si è inasprita sulla sua presunta indifferenza. alla difficile situazione dell’etnia

Rohingya. Anche il Myanmar ha tutte le ragioni per credere che i vicini importanti non causeranno molte storie.

Come ha affermato lunedì il primo ministro thailandese Prayuth Chan-ocha, che ha guidato un colpo di stato nel 2014: “È un affare

interno”. Questo è il sentimento nella maggior parte delle capitali regionali.

Anche così, un colpo di stato è una mossa rischiosa. Il Myanmar ha ancora bisogno di una tonnellata di investimenti per modernizzare

la sua economia e soddisfare le crescenti esigenze della sua giovane popolazione, una generazione della quale ha raggiunto la maggiore

età in mezzo a un’abbondanza materiale senza precedenti. Le aziende probabilmente non fuggiranno – anche

quelle che hanno già annunciato la sospensione delle operazioni locali – ma presumibilmente l’incertezza renderà molto più difficile

attrarne di nuove e sostenere la traiettoria dell’ultimo decennio. La chiusura di Internet e del traffico aereo non genera molta fiducia

negli investitori. I militari possono promettere stabilità, ma possono continuare senza spargimento di sangue se un’altra rivoluzione

sociale esplode alla pari con la rivoluzione dello zafferano del 2008?

Molti a Washington, nel frattempo, sono effettivamente giunti alla conclusione che le sanzioni globali sono tipicamente controproducenti

e strategicamente rischiose. Ma l’amministrazione Biden ha detto che almeno alcune sanzioni mirate sono in arrivo. Una ripresa della

cooperazione bilaterale militare e di sicurezza è ora probabilmente un punto fermo. La Cina, da parte sua, ha trovato il modo per

approfondire la sua influenza economica in Myanmar sin dall’apertura, e esercita ancora una notevole influenza sui vari processi di

pace con i gruppi etnici ribelli. Il bisogno del Myanmar di aiuto esterno per bilanciarsi con Pechino è più forte che mai.

Ad ogni modo, i militari hanno apparentemente fatto la loro scelta: cercare di governare il Myanmar come molti dei suoi vicini sono gestiti –

illiberale, ma comunque più o meno accettato dall’Occidente, e quindi in grado di coprire le sue scommesse e forgiare un equilibrio

strategico con il maggiore. poteri alla sua periferia. L’unica differenza con il Myanmar è che era un completo paria circa un decennio

fa, aumentando in qualche modo le aspettative legate alla sua improbabile comparsa.

https://geopoliticalfutures.com/mailster/270421/8cf52c886442bd4fea150e7eb4caf43b/aHR0cHM6Ly9nZW9wb2xpdGljYWxmdXR1cmVzLmNvbS90aGUtY291cC1pbi1teWFubWFyLXdoeS1ub3cvP3RwYT1OemhoTmpCalltWXpaRFprWTJFd1kyRTVabVUwWlRFMk1UTXlNekEyTURnd01EaGpORE0

la battaglia prosegue, con Gianfranco Campa

La procedura di impeachement prosegue, ma il bersaglio non è più soltanto Trump. Si prepara il terreno ad una colossale epurazione e alla criminalizzazione di un movimento. Non sarà facile perseguirlo. Nel frattempo proseguono le fibrillazioni nel partito repubblicano. Si cerca di riproporre in politica estera le stesse dinamiche e gli stessi sistemi con gli stessi personaggi di cinque anni fa. La disposizione delle forze in campo è però profondamente mutata; la consistenza anche. Si comincia dal Myanmar, si proseguirà in Siria e in Europa. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vdij7n-la-battaglia-prosegue-con-gianfranco-campa.html

 

Anniversario, di Bernard Lugan

Qui sotto l’editoriale di Bernard Lugan apparso sul suo bollettino di febbraio. Una precisazione: truppe speciali inglesi e francesi erano già presenti in Cirenaica già da almeno il 2010. Un anno prima che iniziassero i moti._Giuseppe Germinario

Dieci anni fa, nel mese di febbraio 2011, scoppiò la guerra civile in Libia. Il 10 Marzo Nicolas Sarkozy è intervenuto in questo conflitto interno riconoscendo una delegazione di ribelli come rappresentanti della legalità libica !!!

La Francia è quindi entrata in un conflitto in cui i suoi interessi non erano in gioco

A Marzo, ha ottenuto l’autorizzazione delle Nazioni Unite per impiegare l’aviazione per

“Proteggere i civili”, in realtà le Milizie islamiche in Cirenaica e i Fratelli Musulmani di Misurata …

L’obiettivo ufficiale della guerra deciso da Nicolas Sarkozy era l’istituzione dello stato di diritto. Il suo risultato fu invece questo.

Le strutture statali libiche sono scomparse, lasciando il posto agli scontri delle milizie islamo-mafiose.

Quanto al vuoto libico, ha avuto conseguenze sull’intera area ciadiana e su parte del BSS.

Per non parlare della creazione di un file pompa di aspirazione migratoria.

Questo intervento ha distrutto il sistema di alleanze tribali su cui si basava la stabilità politica della Libia.

Il regime del colonnello Gheddafi lo aveva fatto; riuscì anzi a far convivere centro e periferia, articolando poteri e rendita di idrocarburi sulle realtà locali.

Politicamente, la Libia è infatti caratterizzata dalla debolezza del potere centrale rispetto al

hotline tribali. Genuino “Breakers of horizons”, le tribù hanno assunto il controllo più forte di questi corridoi di nomadizzazione che collegano il Mediterraneo alla regione del Ciad attraverso i quali viene effettuato il traffico odierno (droga e migranti) e le solidarietà jihadiste sono ancorate.

Mancata presa in considerazione di questi dati, quelli che, in nome dell’illusione democratica, hanno innescato il disastroso intervento del 2011,sono responsabili della corrente del caos. In effetti, le due chiavi che reggono la vita politica libica sono tribalismo e federalismo.

1) La Libia è naturalmente multicentrata e il rovesciamento del colonnello Gheddafi ha amplificato questa realtà dando vita a molteplici luoghi di potere indipendenti e rivalità di legittimità nate dal

guerra. Non è possibile stabilizzare la Libia se non tenendo conto della sua archeologia tribale

[1]

.

Il fallimento compiuto dall’ISIS tuttavia potrebbe servire da lezione. Era anzi la definizione tribale del paese l’ostacolo al califfato universale sostenuto dall’ISIS; le forti identità tribali lo hanno reso impossibile a causa anche dell’innesto di un movimento composto per lo più da stranieri. Come allora affermare di voler mettere fine al conflitto in corso quando le tribù, ossia le uniche vere forze politiche del paese sono escluse dalle trattative?

2) La Libia non ha un centro unificante. Le tre province che lo compongono non hanno punti di saldatura e sono separate da una massa sahariana vuota al 95%, mentre più del 80% della popolazione è concentrata su una stretta fascia costiera.

La soluzione quindi coinvolge due imperativi:

1) La ricostituzione delle alleanze tribali forgiate dal colonnello Gheddafi.

2) Un vero federalismo, perché la Cirenaica non accetterà mai la finzione di uno stato libico dominato dalla Tripolitania… e viceversa.

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