Il sogno liberale, di Andrea Zhok

Il sogno liberale

Come mi è capitato di sottolineare altrove, la nozione di “liberale” è strutturalmente ambigua per ragioni storiche. Purtroppo tale ambiguità continua a creare confusione e a smussare le armi dell’analisi, dove di volta in volta, di fronte agli stessi eventi, si finisce per invocare l’aggettivo “liberale”  a volte come causa di oppressione, a volte come fattore di emancipazione (così ha fatto recentemente, ad esempio, il prof. Orsini). Di fronte all’irreggimentazione, al controllo sociale, alla crescita di impulsi persecutori che ha tratteggiato questi ultimi due anni c’è ancora chi lo caratterizza utilizzando l’aggettivo “illiberale”, come se tutto ciò fosse estraneo e contrario all’essenza del liberalismo.

È perciò opportuno tentare un breve chiarimento concettuale e terminologico. Non provo qui a fornire un’analisi dello sviluppo storico e delle sue ragioni – svolta in altra sede – ma mi limito ad esplicitare l’ambiguità del termine liberalismo e a ribadire perché l’uso emancipativo del termine è latore di confusione.

I. Il liberalismo perfezionista

Esiste davvero una forma emancipativa del liberalismo?

Sì, esiste, si tratta di un’idea che concepisce il liberalismo come staccato dalla sua componente economica e che lo pone come una visione teorica che promuove il libero sviluppo umano. Questa concezione può essere chiamata “liberalismo perfezionista”, laddove il termine “perfezionista” è utilizzato nella filosofia morale contemporanea per definire una teoria che pone il senso dell’azione umana nell’esercizio e nel libero sviluppo delle proprie facoltà. Questa visione può essere rappresentata da pensatori come Benedetto Croce, in una cornice idealista, da Joseph Raz, Michael Polanyi e in parte John Rawls, in una cornice immanentista. Non è accidentale che la distinzione tra “liberalismo” e “liberismo” venne introdotta proprio da Croce per isolare il proprio liberalismo dalle istanze economiche (liberiste).

Qui l’idea portante è che l’uomo conferisce senso alla propria esistenza esplorandone le potenzialità e sviluppando le proprie capacità. Tale visione è minoritaria ed eccentrica rispetto allo sviluppo storico del liberalismo, ma è esistita ed esiste. Quanto sia essa lontana dalla prospettiva storica principale del liberalismo lo si può capire osservando come questo “liberalismo perfezionista” sia perfettamente compatibile con l’impianto teorico del critico per antonomasia del liberalismo, cioè di Karl Marx, la cui concezione del libero sviluppo umano (si vedano i Manoscritti economico-filosofici del 1844) è ampiamente sovrapponibile a questa visione. Non pochi soggetti, soprattutto intellettuali, si reputano liberali in quanto nutrono, in forma talvolta chiara, spesso confusa, un’immagine del genere.

 

II. Il liberalismo reale

Sul piano storico, tuttavia, questa versione del liberalismo disaccoppiata dal liberismo economico è ampiamente minoritaria, e influente quasi solo a livello di elaborazione intellettuale. Il liberalismo si è sviluppato incardinandosi nella teoria economica marginalista alla fine del XIX secolo, in questa forma ha acquisito centralità politica e ha imposto in modo egemonico la propria visione a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Chiamiamo questo liberalismo egemone “liberalismo reale”, nel senso in cui si parlava una volta di “socialismo reale”.

Per capire l’essenza del liberalismo reale bisogna comprendere come si configura la sua visione ideale, quella visione che ogni agente liberale coltiva dentro di sé come ispirazione, come motore della propria azione.

Si dice spesso che il liberalismo sarebbe “neutrale” sul piano etico, nel senso di non volersi impegnare nel prendere posizione sui temi eticamente più controversi e scottanti. L’idea della neutralità liberale storicamente nasce in contrapposizione alla sostanzialità delle posizioni religiose: che si parli di aborto, eutanasia, famiglia, educazione, ecc. ogni religione ha una posizione definita – non necessariamente immobile nel tempo, ma di volta in volta ben definita – mentre il liberalismo, sin dalle origini, si vanta di rigettare questa dimensione di valutazione sostanziale, che andrebbe risolta lasciando a ciascun individuo la scelta ultima.

Questa idea di “neutralità” etico-politica è tuttavia perfettamente illusoria. L’etica e la politica si muovono in un’atmosfera densa in cui non esiste neutralità, in cui scelte sovraindividuali si fanno sempre necessariamente, e in cui quando condotte specifiche vengono favorite, altre vengono sfavorite e ostacolate. La “neutralità” liberale è in effetti un camuffamento, magari in buona fede, ma un camuffamento. In effetti anche il liberalismo ha un’immagine ideale del mondo, proprio come ce l’ha il comunismo o il cristianesimo, solo che è un’immagine che si interpreta come poco esigente e perciò universale.

 

III. Libertà negativa e presunta “neutralità” etica

La concezione che caratterizza il liberalismo è innanzitutto una concezione che promuove una forma di libertà negativa: laica, asociale e apolitica. Il liberalismo tipicamente nega che queste specifiche proprietà siano alcunché di sostanziale perché sostiene che anche per questi tratti, come per ogni altro tratto, la scelta viene lasciata al singolo individuo (se essere laico o credente, sociale o asociale, politicamente attivo o passivo, ecc.). Solo che le cose non stanno così. Questo perché ciascuna di quelle dimensioni travalica il singolo e non è alla portata di alcuna scelta individuale, unilaterale.

Non posso decidere individualmente di condurre un’esistenza politica, se l’ambiente circostante non lo consente; non posso associarmi, se non ci sono le altrui condizioni per formare un’associazione; posso condurre una vita da mistico stilita, ma nessuna vita religiosa in assenza di una comunità religiosa operante; non posso vivere un’esistenza comunitaria, se le forme di vita comunitarie sono disgregate, ecc.

Il cuore della libertà negativa nel liberalismo reale  è che, non essendovi un divieto a indirizzare la vita in queste forme, ciascuno è in grado di decidere autonomamente se percorrerle o meno. Ma questo è semplicemente falso. Ogni scelta politica, legislativa, economica che venga fatta potrà essere funzionale a costruire forme di vita religiosa, politica, comunitaria, ecc. oppure può essere disfunzionale a questi fini. Quando uno di questi indirizzi non viene supportato, proprio per la loro natura sovraindividuale, esso deperisce e si estingue.

 

IV. La visione propositiva del modello liberale

Quest’apparente “neutralità” è solo metà della storia del “sogno liberale”. La seconda fondamentale parte è determinata sul terreno economico, dove gli indirizzi più chiaramente positivi, “sostanziali” del liberalismo si vedono all’opera. L’impianto economico liberale infatti coltiva la competizione su base individuale, venera il rischio, l’innovazione e la mobilità. Ciascuno di questi elementi opera costantemente come fattore che accresce l’insicurezza individuale e alimenta lo sradicamento sociale. In una cornice di concorrenza auspicabilmente perfetta ogni singolo individuo occupa una posizione sociale differenziale, dove ogni successo altrui è potenzialmente una minaccia al successo proprio. Quanto più ci si approssima alla base della piramide sociale, tanto minore diviene il proprio potere contrattuale nella società, e tanto maggiori diventano per ciascuno le possibilità di essere proprio escluso dal sistema, di venire espulso ed emarginato.

Sul piano tecnologico, finanziario e ambientale lo stimolo costante al rischio, all’accelerazione e all’innovazione crea condizioni strutturalmente instabili. Esse vengono compensate – da chi è economicamente nelle condizioni di farlo – con la creazione di cuscinetti difensivi (riserve monetarie, assicurazioni private, ecc.). Questo significa che all’insicurezza generata dal sistema si cerca di rimediare con la “sicurezza economica”, cioè con lo sforzo di accumulare denaro: quanto maggiore l’insicurezza tanto maggiore la spinta alla competizione più spregiudicata, che aumenta a sua volta l’insicurezza, le possibilità di fallimento e la frustrazione.

La spinta alla mobilità, nella ricerca di opportunità d’impiego, spezza la possibilità di una perdurante cooperazione territoriale, e con ciò corrode ogni senso di partecipazione comunitaria: il soggetto liberale non è più “parte di una comunità”, ma è “utente di un servizio urbano”. (Incidentalmente, è per sopperire a questo vuoto che la società liberale contemporanea si riempie ossessivamente la bocca di “comunità” / “community”: secondo un tipico canone liberale, meno una cosa esiste, più ossessivamente la si evoca per fingerne l’esistenza.)

In questa cornice in cui tutto converge verso l’isolamento individuale e la competizione interpersonale, l’Altro appare primariamente nella forma di un’insidia, una fonte di potenziale pericolo – o almeno di ingombro. In un mondo liberale, se qualcuno ti si avvicina la prima domanda che tende a sorgere è: “Cosa vuole questo da me?” Dunque non solo le condizioni economiche ed ambientali tendono a far crescere il senso di insicurezza, ma anche i singoli individui sono innanzitutto percepiti come potenziali minacce.

Questo sfondo genera una tendenza profonda, che rappresenta l’ispirazione e il motore del sogno liberale. Siccome sia l’ambiente che l’altro soggetto (se non altrimenti esplicitato), si profilano prima facie come potenziali minacce, la disposizione che anima la società liberale si orienta in due direzioni: la neutralizzazione difensiva dei rapporti con il prossimo e l’acquisizione di potere mediato sull’ambiente.

 

V. Figure del sogno liberale

Siccome ciascun soggetto individuale è vissuto innanzitutto come una potenziale minaccia, la concezione liberale lavora sistematicamente a creare o mantenere le distanze tra individuo e individuo, a isolarli preliminarmente e a consentirne l’associazione solo in forme contrattuali sorvegliate. La società liberale tende a divenire sempre più isterica intorno al pericolo che altri esseri umani, o altri gruppi umani, o altre forme di vita umane, rappresentano per “noi liberali”.

Rispetto ad ogni individuo cresce costantemente una sorta di permalosità strutturale, di ipersensibilità per cui l’altro potrebbe essere in procinto di ferirci, di offenderci in maniera insopportabile. Individui sradicati e psicologicamente provati dal distanziamento forzoso cui il mondo liberale conduce, temono il contatto diretto con il prossimo e a maggior ragione temono ogni forma di dipendenza dal prossimo. Figure emblematiche di questa dinamica sono, ad esempio, i giovani “hikikomori” che si rifiutano di uscire di casa e che si relazionano con gli altri solo in forma virtuale; o, in altro modo, sono figure emblematiche i pasdaran del “politicamente corretto”, alla continua ricerca di un possibile lato da cui potrebbero ritenersi offesi; o ancora, lo sono gli studenti dei college americani che firmano consensi scritti per avere rapporti sessuali, a garanzia che vi sia piena volontarietà dell’atto. Stendiamo poi un pietoso velo sulla recente isteria da contagio, che ha portato a galla strati profondi di questo autentico terrore nei confronti del prossimo.

Siccome il nostro prossimo è, proprio per la sua prossimità, il più pericoloso, il liberalismo reale dimostra la propria umanità come filantropismo verso i più remoti, verso coloro i quali hanno solo l’esistenza virtuale dei reportage giornalistici e delle raccolte di petizioni. Verso i lontani, gli sconosciuti, con cui mai entreremo in contatto e di cui nulla sappiamo, il liberalismo reale riversa la propria umanità residua, che, incapace di vicinanza, si trova a proprio agio invece nella sfera in cui può dipingere l’umanità a piacimento, con i tratti addomesticati del proprio immaginario. Se verso i più remoti il liberale può esercitare generosità, nei confronti del prossimo i rapporti sono governati dalla sfiducia e dal timore, e dunque le forme relazionali preferite sono l’isolamento o il rapporto mercenario, in cui il potere del denaro media la relazione tra esseri umani.

Dipendere da qualcun altro è, nel mondo liberale, la ricetta sicura per lo scacco, visto che per come il sistema funziona è razionale attendersi che tale dipendenza prenda la forma di uno sfruttamento. Questo varrà tanto sul piano lavorativo che su quello affettivo: se dipendo sono sottomesso; sono libero solo se sono io a sottomettere. Questo modello di indipendenza è quella che promuove ad esempio l’idea, sempre più diffusa nel Nord Europa, per cui avere un figlio dovrebbe essere disaccoppiato dall’avere un compagno o una compagna. Siccome un rapporto affettivo è percepito come un rischio e un vincolo, una subordinazione ad esigenze limitanti che intaccano la propria indipendenza, allora attingere ad una banca del seme o noleggiare un utero altrui, sono soluzioni decisamente preferibili.

La visione di principio della società nel liberalismo reale è quella di un sistema di percorsi di vita paralleli che non si intersecano se non con la mediazione di un controllo terzo (contratto, supervisione, giudice). I contatti ammessi e preventivati sono l’acquisizione di un servizio, l’erogazione retribuita di un servizio, o, dove entrambi falliscono, lo scontro. Un sistema che produce strutturalmente insicurezza ad ogni livello lavora per risparmiare ai propri adepti l’incertezza dei rapporti umani, l’insicurezza dei giudizi personali, il rischio dei contatti, la vulnerabilità dell’affettività.

Il sogno liberale consta di un mondo in cui non devi niente a nessuno, non hai bisogno di contare su nessuno, non dipendi da nessuno, ma in cui puoi portare avanti i tuoi progetti acquistando i servigi altrui. Questo tratto spiega il carattere insieme patetico e pericoloso dei grandi “sognatori” partoriti dal liberalismo, gente che conta di realizzare i propri infantili sogni di potenza comprandoli.

Il sistema del liberalismo reale perciò partorisce due forme umane: “servi” e “padroni”, che nello specifico si profilano come “frustrati senza remissione” e “imperatori per censo”.

Il primo gruppo, di gran lunga maggioritario, è rappresentato da tutti quelli che ambivano ad essere piccoli autocrati di un proprio regno a pagamento, ma che non ce l’hanno fatta. Questi cercano comunque di esercitare tutto il potere che viene loro concesso sul prossimo, sfogando almeno in parte la propria frustrazione, che tuttavia cova sempre sotto la cenere e nutre una rabbia costante, pronta ad esplodere. È gente che avrebbe voluto essere Bill Gates o Ellon Musk, e che rimarrà certa fino alla fine che, se avesse raggiunto quella posizione economicamente apicale, allora sì che il mondo avrebbe manifestato tutto il proprio senso. Essendo invece rimasti lontani dalla vetta non gli resta che rivalersi come possono sugli altri: piccoli delatori, burocrati inflessibili, bulli da parcheggio, ecc. Recentemente abbiamo avuto il piacere di ammirare simpatici esempi di questa tipologia umana in quelli che si sbracciavano orgogliosi per poter esibire il proprio Green Pass (come piccolo segno di esclusività), o in tutti quelli che vomitano odio bellicista fomentando guerre per procura.

Le guerre per procura sono in effetti un caso di scuola della visione liberale, perché combinano due elementi strutturali del liberalismo reale: il filantropismo per cause distanti in luoghi remoti e la frustrazione rabbiosa pronta ad esplodere, che può essere rilasciata verso l’apposito “malvagio” o lo “stato canaglia” di turno. Le guerre per procura in luoghi remoti, cui ci si può collegare televisivamente ore pasti, per poi tornare alla serietà della vita nel resto della giornata, sono una soluzione pulsionale perfetta per il cittadino liberale, che può al tempo stesso sentirsi un benefattore dell’umanità e sfogare il proprio desiderio rabbioso di distruzione (evitando così di sparare al vicino o di farsi sparare da esso).

Accanto all’esercito degli sconfitti dalla vita, che covano sotto un volto disciplinato una rabbia disperata, c’è poi la rarefatta truppa dei vincitori, di coloro i quali vedono la società dall’alto della propria capacità di comprare ogni cosa e persona che gli possa servire. Questi sono finalmente nella posizione che il sistema gli ha promesso come premio sommo: la capacità di “realizzare i propri sogni” in grande stile. Sciaguratamente chi ha fatto tutto ciò che il sistema gli richiedeva per raggiungere quei vertici, di norma non ha avuto né il tempo nè la cura per approfondire nulla, e i suoi sogni vivono dell’immaginario plastificato, astratto, convenzionale che il sistema secerne come sottoprodotto culturale. Nel migliore dei casi queste anime piatte “si realizzano” in qualche modo infantile, comprandosi qualcosa di molto molto grande e molto molto costoso (una nave, un razzo spaziale, un’isola). Il caso peggiore però è quello in cui questi stessi ritengano di essere nella posizione di “migliorare l’umanità” – un’umanità di cui hanno solo una conoscenza da rivista patinata postprandiale – e che cercheranno di “migliorare” realizzando qualche fantasia letteraria: l’emancipazione di quelle che nel proprio tinello gli appaiono come “minoranze oppresse”; il miglioramento della volgare umanità con qualche tecnologia transumanista, ecc. Questi imperatori per censo che si vogliono despoti illuminati sono obiettivamente personaggi pericolosi per l’unione di potere e astrattezza.

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Ciò che bisogna tenere fermo di questo quadro, in conclusione, è soprattutto un punto, un singolo punto essenziale.

L’idea che la forma di vita liberale sia una forma di vita pacifica, rispettosa degli altri e umanitariamente ispirata è una delle più straordinarie fandonie e delle maggiori illusioni autointerpretative che una cultura abbia mai partorito.

Il liberalismo reale nella sua evoluzione storica ha fatto serenamente commercio di schiavi finché gli è convenuto (si vedano gli ottimi studi di Losurdo); ha fatto ogni resistenza possibile all’avvento di governi democratici che non fossero vincolati al censo; ha guidato gli eserciti imperialisti nello sfruttamento senza remore del resto del mondo nel XIX secolo (e anche dopo); ha fomentato lo sciovinismo e la guerra con i suoi giornali alle soglie del 1914; dopo la parentesi delle guerre mondiali ha ripreso la propria battaglia ideologica (nella versione “difesa del mondo libero”) facendo una raffica di guerre per procura mentre si vantava del proprio pacifismo; e infine dagli anni ’70, nella forma neoliberale, ha ripreso l’opera di progressivo spegnimento delle democrazie e di sistematico sfruttamento di chiunque abbia basso potere contrattuale.

Questo quadro può sorprendere il cittadino ingenuo, che magari è caduto vittima della pubblicità-progresso che il marketing ideologico liberale coltiva con grande cura. Essendo una cultura che nasce da una generalizzazione dello scambio commerciale, il liberalismo ha avuto sempre straordinaria cura del marketing, proiettando ovunque immagini idealizzate e ampiamente finzionali di sé. Ma al netto di questi raffinati tentativi di dissimulazione, il nocciolo duro del mondo liberale è rappresentato da una linea di sviluppo individualmente rivolta ad ideali di conquista, strumentalizzazione e asservimento, perché questa è la forma in cui “i sogni si realizzano”. Ciascun soggetto è spinto ad immaginarsi come un soggetto sovrano, indipendente, che non ha bisogno di nessuno, che può disporre strumentalmente degli altri e che è a sua volta disposto ad essere utilizzato, se questo lo conduce avanti nella realizzazione del suo sogno solitario. Ciascuno è dunque  un re, un sovrano, un piccolo imperatore in potenza, e di diritto, che ha solo bisogno di un po’ di fortuna per esserlo anche di fatto. E se il destino non gli concede tale fortuna, sente di avere pieno titolo per sfogare la propria rabbia. Un sistema predatorio che genera con eguale intensità, sfruttamento, violenza, indifferenza e la più spettacolare ipocrisia.

https://sfero.me/article/il-sogno-liberale?fbclid=IwAR0N9Icsr5FYK7KPoecji66oHM5fsaHtqr1773H2ncMRLTDdmTrgAjFh33E

QUANDO CHI STA PERDENDO SI PORTA VIA IL PALLONE_ di Pierluigi Fagan

QUANDO CHI STA PERDENDO SI PORTA VIA IL PALLONE.

In un precedente post abbiamo usato una immagine simbolo del mondo come un pallone oggetto di giochi di contesa. Oggi continuiamo con la metafora del sogno di possederlo tutto questo pallone-mondo e laddove la realtà intralcia i sogni, si può arrivare a sottrarre l’oggetto stesso del contendere. Se non vincerò al gioco di quel pallone, mi porto via il pallone o lo buco, così nessun altro potrà giocarvi, fine dei giochi.

Ieri abbiamo assistito in mondovisione, forse per la prima volta che io ricordi, ad una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il nostro miglior uomo, nostro in quanto occidentali, ha arringato piuttosto arrabbiato il Mondo dicendo che se questa istituzione planetaria non è in grado di istruire un processo tipo Norimberga, se non è in grado di estromettere la Russia ed il suo fastidioso diritto di veto dal Consiglio di Sicurezza, allora tanto vale che l’ONU si sciolga ed ammetta la sua inutilità ed impotenza, lasciando il campo a qualche nuova forma ordinativa. Dopo settantasette anni, l’Assemblea dell’Umanità è stata arringata e sferzata da un ex comico ucraino che dopo aver invocato ripetutamente atti che porterebbero alla Terza guerra mondiale, dopo aver arringato e sgridato o parlamenti occidentali distribuendo via Zoom voti dei buoni e dei cattivi, dopo aver detto al parlamento degli ebrei israeliti di decidere da che parte stare nella grande battaglia finale del Bene contro il Male nella piana di Armageddon, arriva a dire al Mondo che deve sciogliere questa sua unica istituzione che ne riflette la globalità, visto che non riesce a decidere da che parte stare.

A fine marzo 2022 si contano 59 guerre attive di varia intensità nel mondo, ma solo la sua conta. Quella in Libia ha fatto pare 15.000 morti mal contati così come quella in Yemen, la ventennale in Afghanistan ha fatto 50.000 vittime civili, forse 200.000 in Iraq, quella in Siria ha fatto circa 500.000 morti, ma nessuno ha mai avuto la possibilità di andare all’ONU a lamentarsene.

Il corrispettivo di Zelensky nel sistema finanziario globale, il nostro miglioro uomo in quel ambito, quel Larry Fink CEO di BlackRock, ha serenamente sancito quello che già i più sapevano ovvero la fine della globalizzazione. Il denaro si traferirà sul digitale e la transizione energetica va spalmata ad anni se non decenni, nel mentre si torna al carbone o si sdogana in fretta il nucleare. I prezzi aumenteranno violentemente, ma molte produzioni prima disperse nelle catene del valore globale torneranno entro i confini dei sistemi di civiltà. L’Europa dell’est, ad esempio, potrebbe diventare il posto migliore in cui riportare produzioni appaltate in Asia, contando su poche regole e basso costo del lavoro. Ma se qualcuno in Africa o in Sud America si mostrerà buon amico del nuovo sistema occidentale, potrà meritare anche lui qualche delocalizzazione.

Nel frattempo, il sistema occidentale scopre improvvisamente che tutto ciò porta a doversi difendere dalla barbarie circondante e quale miglior difesa dell’attacco? Eccoci, quindi, tutti obbligati a riarmarci, siamo improvvisamente tutti in guerra. Tutti ora a studiare i missili ipersonici, bio-armi, cosmo-armi, psico-armi, info-armi e chissà cos’altro.

La guerra è una istituzione umana che, contrariamente a quanto alcuni ritengono, compare tardi nella nostra storia. La più antica prova di un massacro da scontro armato che abbiamo, data a soli 13.000 anni fa. Se ne trovano pochissimi altri esempi sino a che l’atmosfera territoriale in quel della Mesopotamia si scalda, più o meno a partire da 6000 anni fa. Lì si manifesta quella densità territoriale che in rapporto allo spazio e sue risorse, è il motivo per cui facciamo guerre ovvero pratica di violenza tra gruppi umani. Da allora, non abbiamo più smesso.

Finita quella ucraina scommetto sul Polo Nord, tanto lì non ci sono spettatori e ci si potrà darsele di santa ragione. Ci sono 412 miliardi di barili di petrolio e gas fossile, praticamente il 22% delle riserve globali, per un valore totale di 28.000 miliardi di dollari, più uranio, terre rare, oro, diamanti, zinco, nickel, carbone, grafite, palladio, ferro e le insidiose rotte della via della Seta del Sauron pechinese appoggiate dagli orchi russi.

Gli Stati Uniti debbono risolvere l’impossibile equazione del come mantenere un sostanziale controllo diretto ed indiretto sul Mondo onde preservare il loro comodo rapporto tra una esigua popolazione (4,5% del pianeta) ed una cospicua ricchezza (25% del Pil mondiale). Questo, nel mentre l’85% del mondo, cioè il non-Occidente, cresce in demografia e ricchezza, da decenni e per previsti decenni futuri. Il mondo si è molto densificato negli ultimi settanta anni, quindi, che si fa?

La guerra, appunto. Prima si rinserrano le fila del sistema occidentale, poi si rompe il consesso mondiale a vari livelli (la rottura delle c.d. organizzazioni multilaterali dall’ONU al WTO, continuerà nelle prossime settimane a mesi, potete giurarci), poi ci si trova nel più semplice formato “Civiltà vs Barbarie”, poi sarà quel che sarà.

La costruzione del blocco delle democrazie di mercato procede spedito a dimostrazione del fatto che tutto questo è stato a lungo prima pensato, poi preparato, ora eseguito con visione ed intenzione assai decisa. Catturata l’Europa, ora la NATO si rilancia in chiave globale. Alla riunione NATO del 6 aprile, si è messo in agenda la possibile disdetta dell’accordo del 1997 che istituì il Consiglio permanente congiunto Nato-Russia che vietava all’Alleanza di schierare ordigni nucleari nelle repubbliche ex Patto di Varsavia. Svezia e Finlandia stanno per rompere gli indugi per entrare operativamente nell’Alleanza portando la minaccia diretta a San Pietroburgo. Nel documento finale compaiono aggregati alle intenzioni nord atlantiche, gli AP4 (Asia-Pacifico-4 ovvero Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone) dopo che gli USA ed UK avevano già stretto l’alleanza militare diretta con Australia. Il Giappone, dopo lunga preparazione delle opinioni pubbliche che va avanti da qualche anno, sta valicando l’autoimposto limite al riarmo. Poi sarà l’aggiornamento dei Paesi a cui è concessa l’arma atomica. Il lungo post WWII è terminato, le potenze perdenti ora sono inglobate funzionalmente nel dominio a centro americano e così pioveranno miliardi per il riarmo di Germania e Giappone.

Tutto questo si sta svolgendo davanti ai nostri occhi attoniti. Villaggio globale, multiculturalismo, globalizzazione, soft power, governo mondiale, comunità di destino, cura della casa naturale comune planetaria ed una susseguente arruffata collezione di concetti che ancora un mese fa facevano sistema dogmatico di riferimento di ogni buon occidentale dal cuore d’oro, via. Ora il gioco diventa improvvisamente duro e quindi è il momento in cui i duri cominciano a giocare. Cominciando dal portarsi via il pallone perché o si fa parte della SuperLega delle democrazie di mercato di pelle bianca o non si gioca più. Si spara.

Non vi piace? Vabbe’, è previsto, almeno all’inizio un po’ di smarrimento è concesso. Ma vedrete che tra qualche mese, dopo bombardamenti psico-valoriali 7/24, finirete col schierarvi con Rampini. Basta con questa lagnosa autocoscienza critica occidentale, siamo la Civiltà guida ed un sordido mondo sempre più trafficato ci assedia. Tutti quindi a difendere le mura della città stante che, com’è noto, la miglior difesa è l’attacco. A livello di sistema-mondo, il motto ora è “la Russia fuori, la Cina sotto, nuovi alleati dentro”. Il regolamento di conti finale si sta preparando in gran fretta, per un Nuovo Secolo Americano questa è l’ultima chiamata e la risposta che vediamo approntarsi promette fuochi artificiali di grande effetto. Del resto senso comune dice che “non c’è due senza tre” e la prima impensabile WWIII, fa capolino all’orizzonte degli eventi che mai avremmo voluto vedere.

Punto di vista francese sulle elezioni francesi_da Front Populaire

Tutto conduce a un déjà vu. La novità di queste elezioni sembrava fosse Erich Zemmour. Troppo fragile il personaggio; troppo scolastico il programma; improponibile l’unilateralità di alcune soluzioni riguardanti l’immigrazione in un paese ormai con un quarto della popolazione d’origine nordafricana. Eppure l’organizzazione promotrice della sua candidatura è apparsa solida e ben radicata negli apparati istituzionali francesi. Il richiamo nostalgico ad un gaullismo di una Francia passata, piuttosto che un suo aggiornamento alla nuova realtà sociale ha fatto il resto. Da qui la conferma al ballottaggio dell’eterna oppositrice di comodo e di un presidente uscente frutto potente di un miracolo di mistificazione_Giuseppe Germinario

Front Populaire: Qual è l’elemento fondamentale da ricordare di queste elezioni?

Olivier Delorme: Ce ne sono diversi. Il primo è ovviamente il crollo dei due candidati in rappresentanza dei due partiti che hanno dominato la vita politica francese dal 1974 al 2017. Presentando il sindaco di Parigi e il presidente dell’Île-de-France in un Paese in cui le periferie sono in rivolta contro le metropoli della “felice globalizzazione” costituiva una provocazione quanto un suicidio. La nullità dei due candidati e il discredito di queste due forze che bloccarono la Francia in un vicolo cieco fecero il resto.

La seconda lezione è il livello molto basso di quella che comunemente viene chiamata “la sinistra” – un termine che non significa più nulla nel regime dell’Unione Europea dove è possibile un’unica politica, di destra e conforme al dogma tedesco. Queste sinistre sono più o meno al livello delle elezioni presidenziali del 1969 (31,14% contro il 31,64% del 2022), con un egemonico Jean-Luc Mélenchon (21,95%) al posto del comunista Jacques Duclos (21,27%) e atomizzate “altre sinistre ” (9,87% nel 1969, 9,68% nel 2022). Ma il PCF dell’epoca era una forza coerente, erede di una cultura e di una controsocietà profondamente radicata nella realtà francese.

Il voto di Mélenchon è un’aggregazione gassosa e instabile dei resti del “Midi rouge”, degli anticapitalisti “tradizionali”, comunitarismi e giovani borghesi dei centri cittadini intrisi di wokismo, scrittura inclusiva e tutte le sciocchezze dello pseudomodernismo, per a cui si sono aggiunti gli elettori socialisti, comunisti ed ecologisti che, secondo i sondaggi, all’ultimo momento hanno scelto di “votare utile” e di cercare di far arrivare al secondo turno il candidato “di sinistra” meglio piazzato – che avrebbe avuto il conseguenza principale dell’offrire una trionfante rielezione a Macron. Il tutto era intriso di completo irrealismo poiché i francesi sono profondamente attaccati alla Quinta Repubblica (anche se è stata sfigurata da revisioni europee e di convenienza), e poiché il programma dell’Unione popolare è incompatibile con le regole dell’Unione europea. Il colmo dell’incoerenza è stato raggiunto quando il candidato ha dichiarato che non voleva impegnarsi in nessuna resa dei conti con l’UE, ma che avrebbe inviato collaboratori che conoscevano bene il funzionamento… per negoziare il diritto di applicare il suo programma. Come Tsipras e Varoufakis. La “sinistra” francese è in realtà un papero a cui l’Ue ha tagliato la testa, ma che continua a correre.

La terza lezione è che Marine Le Pen ha una base elettorale stabile e relativamente omogenea a livello nazionale, con un’area di forza al Nord e al Grand Est e aree di debolezza nell’Ile-de-France, nelle grandi metropoli , l’Ovest, la Savoia, il Sud del Massiccio Centrale e l’estremo Sud-Ovest. Ha l’elettorato più popolare ed è al primo posto nelle categorie di età intermedia: la Francia dei dipendenti. Non ha subito la concorrenza di Éric Zemmour poiché, tra il 2017 e il 2022, ha ottenuto quasi 458.000 voti (il numero degli elettori è aumentato di 456.452). Quest’ultimo ottiene il meglio anche nelle città e nei quartieri della borghesia conservatrice.

FP: Macron sembra sorvolare le elezioni ed è stato dichiarato vincitore contro qualsiasi candidato. Come si spiega questo paradosso dopo un caotico mandato di cinque anni?

OD: Questa è la quarta grande lezione di queste elezioni: Macron non solo aumenta il punteggio percentuale del 2017, ma ottiene più di un milione di voti. In cinque anni ha cementato un elettorato liberale (da sempre una minoranza in Francia), i cattolici zombie dell’Occidente (per usare l’espressione di Emmanuel Todd), la borghesia delle grandi città (vincitrice della globalizzazione e attaccata all’inseguimento dello smantellamento dello stato sociale conseguente alla crisi del 1929 e alla seconda guerra mondiale), pensionati che si rifiutano di vedere cosa è successo ai loro omologhi greci sotto il governo della Troika – e che costituisce il programma di Macron.

Come quelli che qui sono stati giudicati eccessi di Trump e che in realtà erano messaggi inviati al suo elettorato, i continui insulti rivolti dall’attuale Presidente della Repubblica o dai suoi ministri ai francesi modesti hanno la stessa funzione – come le mani strappate e gli occhi cavati fuori durante le manifestazioni dei Gilet Gialli. Mirano a rassicurare il suo elettorato che non si indebolirà, che si farà di tutto per arricchirlo e mettere a tacere i perdenti della globalizzazione.

Questo terzo della popolazione ha in realtà aspirazioni totalitarie: mettere a tacere ed eliminare ogni opposizione attraverso la propaganda che regna nei mass media agli ordini, e se necessario attraverso la schlague e la censura. Qualunque cosa sia, questa opposizione non è combattuta nel merito, dal dibattito democratico. È screditato per quello che dovrebbe essere: fascista o assimilato per Le Pen o Zemmour; di sinistra per Mélenchon; antirepubblicani per tutti. Il metodo, di essenza totalitaria, mira ad eliminare l’avversario dal campo del dibattito ed è stato perfettamente illustrato dal rifiuto di Emmanuel Macron di confrontarsi prima del primo turno con gli altri candidati.

Detto questo, va messo in prospettiva il successo del presidente uscente, in parte dovuto al crollo del candidato LR. Mentre Macron ha ottenuto poco più di un milione di voti rispetto al 2017, François Fillon ha raccolto più di 7 milioni quell’anno, quando Valérie Pécresse non ha raccolto nemmeno 1,7 milioni. Il prelievo di voti di LR da parte di Macron al primo turno lo mette in testa, ma le sue riserve per il secondo turno si sono sciolte altrettanto. Perché è dubbio che la corrente Ciotti, che deve aver costituito una parte significativa dell’elettorato residuo del candidato LR, voti in massa per Macron.

FP: Nel 2017 la questione “europea” è stata al centro dei dibattiti. Era praticamente assente dalle elezioni del 2022. Come lo analizzi?

FARE:O i candidati sono europeisti e non vogliono che l’argomento venga discusso democraticamente poiché applicano il “metodo Monnet”. Si tratta, accumulando fatti tecnici compiuti di cui il cittadino non sa distinguere né la logica né il fine, avanzare verso il federalismo, senza dirlo soprattutto perché i francesi non lo vogliono. Macron ha anche segnato sufficientemente questo territorio perché il suo elettorato sappia che accelererà la marcia forzata verso questa Europa federale e americana. In questo senso, la vera decadenza consistente nel far sventolare due volte la bandiera europea dall’inizio dell’anno sotto l’Arco di Trionfo – questo luogo, soprattutto, simbolo delle lotte per l’indipendenza della Francia – è un segno rivolto a questo elettorato, paragonabile agli insulti rivolti alla Francia della gente comune.

O i candidati ignorano che la camicia di forza dell’euro e dei trattati europei rende impossibile qualsiasi “altra politica” e ritengono che non ci sia nulla da discutere.

Oppure, tatticamente, pensano che se parliamo apertamente di lasciare l’euro o l’Unione, perdiamo automaticamente le elezioni. Il che a mio avviso è un errore quando vediamo, ad esempio nei risultati dell’ultimo Eurobarometro, che l’attaccamento all’UE è in minoranza in Francia e, per quasi tutte le questioni, il più debole tra gli Stati membri, appena avanti o solo dietro la Grecia. Ciò è tanto più sfortunato, in un momento in cui, grazie alla guerra in Ucraina, la Commissione europea, compiendo un vero e proprio colpo di stato, sta usurpando poteri – in termini di divieto di diffusione dei media o fornitura di armi a un belligerante – che nessuno gli ha conferito.

FP: Dei 12 candidati in lizza, l’unico a porre davvero la domanda sulla nostra adesione all’Unione europea è stato Nicolas Dupont-Aignan. Ha guadagnato il 2,1%. Il sovranismo è destinato a essere impercettibile?

OD: Non significa niente e non è serio. Nicolas Dupont-Aignan ha detto tutto e il contrario di lasciare l’UE. Non è credibile. E non è il fatto di firmare ad un angolo del tavolo, in piena campagna elettorale, l’impegno a organizzare un referendum sull’uscita per ottenere l’appoggio di Generation Frexit, a sua volta frutto di una scissione dell’UPR di François Asselineau, che può rendere udibile questo discorso.

Se vogliamo diventare credibili, dobbiamo lavorare a monte, riunendo coloro che, al di là dell’arco politico, concordano sul presupposto per un’uscita per ristabilire la Repubblica e la democrazia. Dobbiamo smettere di fingere di essere noi quelli dietro cui dobbiamo schierarci. Dobbiamo costruire un programma per il legislatore e spiegare senza sosta a tutti perché i mali di cui soffrono derivano in larga maggioranza dall’abdicazione volontaria dei mezzi di azione sulla realtà da parte di politici che ora si limitano a soddisfare le ingiunzioni ideologiche di un non eletto tecnocrazia. La questione del tribuno che dovrà incarnare e portare questa parola può sorgere solo dopo che si è svolto un lavoro intellettuale e politico che non è mai stato svolto. In caso contrario, il sovranismo resterà gruppale.

Fronte Popolare è un primo passo perché è un luogo che permette l’incontro e il confronto tra le diverse correnti e personalità che rivendicano la sovranità. Ma dobbiamo andare ben oltre per costruire un programma di governo che tenga conto di tutte le dimensioni di un’uscita dall’euro e dall’UE, e riportando tutto ciò che ci divide al momento in cui, una volta compiuta l’uscita, la restaurazione della democrazia consentire ancora una volta alle persone di fare scelte reali tra politiche veramente diverse.

FP: Marine Le Pen è passata dall’eurocritica alla strategia dell’“altra Europa” che ha bisogno di essere “cambiata dall’interno”. Si può ancora chiamare sovranista?

OD: Marine Le Pen ha smesso di parlare di lasciare l’euro dal 2017. Il suo progetto prevede ora di sostituire gradualmente l’attuale UE con un’Alleanza europea delle nazioni. Quando ? Come ? Inoltre, molte delle misure che propone sono contrarie al quadro europeo così com’è e che non verrà modificato. Che si tratti della politica industriale, dell’aiuto nazionale che intende concedere agli agricoltori francesi, del rifiuto della privatizzazione del FES e delle dighe idrauliche, della priorità nazionale per gli appalti pubblici, delle misure che mettono fine alla gestione finanziaria dell’ospedale pubblico, molte proposte nel suo programma lo testimoniano al desiderio di riprendere il controllo delle leve abbandonate alla tecnocrazia di Bruxelles. Suppongono anche una rottura con i metodi della ” nuova gestione pubblica “.imposti dall’UE con l’entusiastica collaborazione di una tecnocrazia nazionale divenuta ultraliberale, metodi che fanno prevalere le logiche finanziarie sulle esigenze di un servizio pubblico efficiente.

Alcune di queste misure sono contrarie ai trattati europei, altre agli indirizzi di massima per le politiche economiche (BEPG) emanati da Bruxelles.

Marine Le Pen ha anche espresso il desiderio che la Francia non sia più l’unico Stato dell’Unione, insieme all’Italia, a pagare gli altri. Infatti, tra i grandi contributori netti [1]dell’Unione, solo questi due Stati versano l’intero contributo dovuto, mentre Germania e Paesi Bassi – che tuttavia accumulano eccedenze commerciali grazie alla sottovalutazione dell’euro rispetto ai fondamentali della loro economia – ma anche Austria, Danimarca e Svezia, hanno ottenuto cospicui sconti. Al contrario, il modo disastroso con cui Macron conduce qualsiasi trattativa europea pone un onere sempre più pesante sull’economia e sul contribuente francese. Marine Le Pen ha ribadito più volte la sua determinazione a porre fine a questo stato di cose, a ottenere uno sconto di cinque miliardi per la Francia e a destinare i soldi così recuperati dal pozzo senza fondo della tecnocrazia di Bruxelles.

Quale strategia adotterà per imporre questa politica? Seguirà l’esempio salutare del generale de Gaulle e la crisi della “sedia vuota” per fermare gli eccessi sovranazionali permanenti della Commissione e della Corte di giustizia?

Il programma di Marine Le Pen prevede anche di interrompere la cooperazione industriale con la Germania, che danneggia la nostra sovranità tecnologica e i nostri interessi industriali. Anche in questo caso, è uno dei molteplici tradimenti di Macron ad essere in discussione. L’attuale presidente infatti non ha mai smesso di spingere Dassault a realizzare i trasferimenti tecnologici che i tedeschi chiedono costantemente in numero sempre crescente, per ottenere il successo politico: la costruzione di un “europeo”. Non importa che questo successo della sua preziosa persona sia ottenuto a spese degli interessi della nostra industria della difesa!

Perché in realtà le esigenze francesi e tedesche in termini di aerei da combattimento sono divergenti e la Francia è perfettamente in grado di produrre questo aereo da sola. Ma il fanatico europeista Macron vuole un “aereo europeo” e i tedeschi – forse – finiranno per acconsentire a costruirlo solo se ottengono ciò che consentirà loro di mettersi al passo con l’industria aeronautica francese. Come per il bilancio europeo, la strategia di Macron è sempre la stessa: regalare tutto e fare della Francia il tacchino della farsa per apparire come l’europeo modello.

Quindi sì, porre fine alla svendita permanente del nostro strumento industriale e della nostra capacità di innovazione è indiscutibilmente una questione di politica sovranista. Lo stesso vale per la riforma della Costituzione che dovrebbe stabilire la superiorità delle sue disposizioni su qualsiasi norma internazionale.

L’enfasi sul nostro ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è anche una garanzia che questo seggio non sarà abbandonato all’Unione europea, poiché i funzionari tedeschi sono sempre più esigenti e poiché i macronisti lo evocano con parole sempre meno coperte.

Infine, l’uscita dall’organizzazione militare integrata della NATO auspicata da Marine Le Pen, come il discorso equilibrato della candidata sulla guerra in Ucraina, indicano che sembra determinata a rompere con l’allineamento servile con Washington in cui sono rimasti con noi gli ultimi tre presidenti .

Certamente, quindi, Marine Le Pen non è una candidata determinata a liberarci in modo rapido e radicale dalle costrizioni europee che ci stanno soffocando. La sua visione contrasta tuttavia con il tradimento permanente degli interessi nazionali a vantaggio di quelli della Germania o degli Stati Uniti incarnati da Macron. E si può pensare che se rimane fedele nell’azione ai principi del suo programma, è l’inizio di un processo di conflitto con l’UE e di riconquista di elementi importanti della nostra sovranità che si mette in moto. Questo è anche il motivo per cui Bruxelles è preoccupata per la sua possibile vittoria.

[1] Coloro che pagano al bilancio europeo più di quanto ricevono.

https://frontpopulaire.fr/o/Content/co8101581/olivier-delorme-s-il-est-elu-macron-accelerera-la-marche-forcee-vers-l-euro

– SONDERWEG – Alle radici del cosmo russo : cicli della storia. FINE [cap.4]_di Daniele Lanza

COSA è la Russia ? Cosa NON è ?
Quello che chiamiamo “Russia” e che identifichiamo con i confini politico amministrativi tratteggiati sulle carte non è quanto pensiamo o meglio, lo è solo in parte. La Russia – l’entità unitaria panrussa emersa nella prima età moderna, sopravvissuta sino ad oggi traverso innumerevoli mutazioni – sebbene ovviamente detenga lo status legale di stato, non lo è nella stessa accezione in cui lo sono i suoi analoghi europei ad occidente e questo per ragioni di fondo che a loro volta sollevano quesiti ultimi, come la natura e il significato dello stato stesso – in generale – e il suo rapporto con la società.
Per rimarcare la distanza tra il modello russo e gli stati europei si cita normalmente la dimensione geografica non comparabile naturalmente (che la Russia non sia uno stato nazionale in senso europeo è lapalissiano), ma nel fare questo si sorvola un elemento che ha più a che fare con la metafisica che con il materiale : l’analisi filosofica ha suggerito che altro non si tratti che di Costantinopoli, metafisicamente eiettata dal Bosforo e riemersa oltre 1000 km a nord nel cuore della pianura slavo orientale, entro i piccoli confini di un principato russo : a quest’ultimo, inizialmente minuscolo depositario simbolico della tradizione greca, le circostanze storiche permettono però di ingigantirsi all’inverosimile riproponendo l’impero bizantino (o quello ellenistico di Alessandro addirittura, per essere visionari all’iperbole) idealmente traslato su differenti coordinate geografiche.
Benchè le circostanze e quindi le strutture materiali mutino con l’andare del tempo, il substrato concettuale “universale” (che è il proprio SONDERWEG e al tempo stesso eccezionalità) tende a persistere, ridipingendosi di era in era a seconda del caso (con le tendenze o ideologie del momento) : l’andamento imponderabile degli eventi porta lo stato russo ad allontanarsi e scollarsi talvolta dalla propria “unicità” o “eccezionalità” per poi tornarvi inevitabilmente come per una legge della fisica, allorchè questa distanza dal sonderweg diventi intollerabile. Abbiamo dunque a che fare con un fenomeno analizzabile col metro della storia di lunghissimo corso : l’andamento ciclico di una civilizzazione. L’andamento ciclico della storia russa si percepisce alla luce dei passaggi che si sono visti nei capitoli precedenti : la Terza Roma si affievolisce si secolarizza (non riesce a far fronte alla secolarizzazione che investe tutto l’emisfero europeo) lasciando sul terreno un già grande aggregato territoriale che però è troppo fragile per affrontare le sfide dell’era nuova. Serve pertanto un nuovo “credo secolare” che Pietro il grande fornisce al paese trasformando il vecchio zarato in IMPERO RUSSO : Pietro Romanov che probabilmente realizzava la vulnerabilità del vecchio stato, bene memore del quasi annullamento agli inizi del secolo stesso per opera dei polacchi, decide dunque per un ritorno al concetto di “eccezionale” che si stava perdendo, tramite la sua idea di stato. Recuperare l’eccezionalità è una zona di passaggio TRAUMATICA, dal momento che per alterare l’andamento storico in corso occorrono misure radicali : così come quasi due secoli avanti Ivan il terribile carica con ideali messianici il proprio giovane zarato lanciandolo in imprese per l’epoca titaniche, Pietro il grande a sua volta sfigura il volto della società russa del suo tempo, ne attua una metamorfosi di prima grandezza consegnandola temporaneamente all’occidente.
Quando l’impero è oramai decadente e non può più servire allo scopo di difendere la sacralità dello spazio russo da interferenze esterne (ma anzi si va verso il collasso e lo smembramento territoriale) allora tutto si rimette in moto : in questo frangente una forza si interpone per impedirne la fine e questa è rappresentata dai bolscevichi stessi che invertono dalle fondamenta il moto di decomposizione dello stato russo (bramato dai suoi rivali). Nel riportare la capitale da San Pietroburgo a MOSCA, simbolicamente pongono fine non solo alla parentesi imperiale, ma anche alla parentesi OCCIDENTALE del paese, recuperando in un solo colpo non soltanto un’ideale universale (nell’ideologia socialista) , ma anche recuperando il destino distaccato dall’occidente della civilizzazione russa : il sonderweg, il cammino separato (in questo caso nei confronti dell’occidente) è recuperato nella cortina di ferro che cala attorno al primo stato socialista al mondo (perlomeno in prospettiva nazionalista e “autoctonista” si può interpretare così la dinamica).
Il processo rivoluzionario con quanto consegue, è il cataclisma che si abbatte sulla società russa della prima metà del 900, eppure anche questo in un’ottica patriottica è un male necessario : polverizzare i muri del presente, tramite una purificazione militare – per quanto traumatico – onde evitare che la sua decadenza trascini nel baratro finale (pathos dell’avvicendarsi di crepuscolo e rinascita).
Questo cammino ci porta i nostri giorni : l’era sovietica che per buona parte del secolo puntella il paese, si dissolve aprendo la strada allo spettro della disintegrazione territoriale impedita 70 anni prima. Non solo è in gioco la Russia “estesa” ovvero il suo hinterland di repubbliche post-sovietiche, ma ora lo stesso HEARTLAND è a rischio : a rischio di smarrire sé stesso, come ebbro di idee estranee alla propria tradizione ancestrale nell’era della comunicazione di massa, della globalizzazione, che agiscono come veicoli formidabili della dominanza occidentale sulla cultura planetaria con tempistiche di rapidità sconosciuta al passato.
Ancora una volta la storia si ripete dunque ! Come al tempo di Ivan IV, come al tempo di Pietro il Grande, come al tempo della rivoluzione d’ottobre, assistiamo ad un momento di grave crisi non solo dello stato russo, ma della stessa IDEA RUSSA ovvero in quanto civilizzazione a sé stante. La tragedia del decennio Ieltsiniano seguita da un “salvatore” nel ventennio a seguire non è dunque strana, ma al contrario segue perfettamente la logica di riassestamento del “destino” : varcata la soglia critica……si mette in moto qualcosa che si muove in direzione opposta per salvaguardare il “nucleo” della civiltà.
Vladimir Putin risulta quindi essere una di quelle enigmatiche (o tragiche) figure, quali statisti o sovrani che loro malgrado si trovano in fasi di passaggio : di coloro che trovano dietro sé macerie e dinnanzi a sé l’ignoto, dovendo farvi fronte con i mezzi che hanno. Se una spiegazione (non giustificazione) si può trovare per l’attuale presidente di Russia si potrebbe dire che è una persona ordinaria in circostanze (per il proprio paese) NON ordinarie : e disgraziatamente non si può far fronte a circostanze straordinarie con mezzi ordinari. In ottica russa nazionalista e considerato il contesto altro non sarebbe che uno strumento della storia, cui è affidato l’arduo compito di restaurare il giusto sentiero per la propria civiltà rimettendone in sesto la struttura materiale che si chiama stato.
La “creatura” in questione – al di là della formalità giuridica – NON è uno stato nazionale e nemmeno uno stato multietnico (come si vantano d’essere i più moderni stati d’occidente) : è uno stato sovranazionale ovvero sé stesso ed al tempo medesimo più di questo, definendosi proprio in quella che per noi è una contraddizione in termini (ma la stessa tradizione cristiana non vede forse tre entità in una sola ??). Si può evitare di sprofondare nella trappola semantica semplicemente superandola ed arrivando alla comprensione che quella russa è una forma di civilizzazione indipendente, a sé stante. Quella cui abbiamo assistito in questo ultimo mese tra Russia e Ucraina NON è una guerra tra due stati, ma una guerra CIVILE (interna alla “sovranazionalità” russa) e l’attrito trasformatosi in seconda guerra fredda tra paesi dell’occidente e Mosca NON è un conflitto tra stati (come la storia della diplomazia ci direbbe) bensì un confronto di civiltà : quella occidentale di stampo latino e germanico – immensa e frammentata in una moltitudine di stati e lingue diverse , mentre dall’altro quella russa di stampo bizantino, entità più limitata demograficamente ed economicamente, ma altrettanto grande geograficamente, unificata politicamente e linguisticamente e non priva di risorse naturali ed alleati (soprattutto). Questo il corretto modo – benchè troppo astratto per molti – di leggere le cose.
Il presidente legale (Vladimir Putin) dello spazio territoriale coincidente con tale civilizzazione ha come deciso – consapevolmente o meno – di assumersi un complesso ruolo storico che lo inserisce nel solco dei predecessori in quell’andamento ciclico che abbiamo tentato di descrivere. Una sfida molto ambiziosa considerato il grado di permeabilità del mondo odierno rispetto a secoli ed anche solo generazioni passate : COME ritornare al proprio sonderweg nel 21° secolo ? L’unica cosa certa, osservando l’andamento ciclico è che produrre il riavvicinamento comporta fiumi di sangue o in ogni caso un sacrificio collettivo di entità non calcolabile.
Il Sonderweg è in buona parte idea : reggerà la società russa al prezzo richiesto per tornare all’”idea” rinunciando al bene materiale che la generazione di apertura al mondo esterno ha portato? Non occorre perdersi in una diatriba “idea-materia” degna di Platone e Aristotele per carità (!), basti riflettere più concretamente sulla determinazione che caratterizza ogni suo passo a partire dall’inizio del conflitto : l’indifferenza riguardo lo scollegamento della Russia da molti benefit offerti dalla civiltà del consumo e della rete internet (dai fast food ai social network) è prova lampante di un atteggiamento particolare….non si odia l’occidente, ma se ne può fare a meno. Forse si invita a farne a meno : non si negano le comodità occidentali al proprio popolo, ma si ottiene che sia l’occidente a toglierle ottenendo così un doppio vantaggio : l’influenza materiale occidentale si attenua e non si potrà incolpare (direttamente) lo stato russo per questo (dall’esterno si dirà che è la Russia ad aver iniziato il conflitto, meritandosi la risposta, ma da una prospettiva interna non è così : la popolazione , che in generale supporta il proprio stato, se non il governo, attribuirà la colpa alla negatività occidentale contro i russi. Si incolperà il mondo esterno e non la Russia in sé). In sintesi efficace e dura come la pietra : nemmeno la minaccia di uno scollegamento totale dall’internet globale pare aver sortito un effetto significativo, nei giorni peggiori.
Concludiamo.
Riguardo il presidente concluderemmo che oramai – prossimo alla pensione – si è addossato un ruolo che va ben oltre la vita mortale di alcuno, fuori misura. Ha rinunciato ad un comune successore preferendo invece prendere una decisione storica che avrà obbligatoriamente riflessi su qualsiasi successore avrà mai : ha rimesso in moto la catena degli eventi, ha prodotto un’alterazione nello scorrimento temporale (per parlare come in fantascienza) della storia per il secolo in questione………questa la sua eredità a prescindere da come vada.
Vladimir Putin è un uomo profondamente solo, non compreso né dai nemici e nemmeno dagli amici, da coloro che ne sostengono le cause per pura fedeltà, dalla folla urlante che pure lo applaude per fisiologico trasporto patriottico, ma senza capire l’essenza intima delle sue ragioni. Un uomo che lascia ai suoi successori un enigmatico vuoto : COME farà la Russia a difendere il proprio nucleo vitale e il binario prestabilito (sonderweg) nel contesto globalizzato del 21° secolo ? Quale energia si utilizzerà per rendere coesa la società ? Ideologia ? Fede dinastica ? Fede religiosa ? Tutte sono esaurite storicamente e nulla di nuovo è stato proposto : il VUOTO è il peggiore nemico della Russia (non gli USA o la Nato), la più macroscopica lacuna che nemmeno l’uomo “del destino” ha potuto per ora modificare : l’assenza di un verbo materiale traverso il quale l’idea russa possa reincarnarsi come nei secoli passati, di volta in volta. Nessun nuovo anello dell’andamento ciclico è stato forgiato per questa fase di passaggio : possiamo quindi concludere che Putin nel scegliere uno “stato di cose” (o ritorno al sonderweg) anziché un successore in carne ed ossa ha optato per una variante grandiosa nell’uscire di scena…solo che al momento è monca. Come un regista che ha una grande sceneggiatura, ma di fatto scarso budget per realizzarlo sullo schermo (per metterla così).
I cicli passati sono analizzabili, ma quelli futuri sono imponderabili. Il 21° secolo vedrà.

 

SONDERWEG – Alle radici del cosmo russo : 1721-1921 (dai vascelli di Pietro alla corrente elettrica di Lenin [cap.3], di Daniele Lanza

3
Il nostro “spazio sacro” pian piano sbiadisce con l’avanzare dell’età di mezzo della storia europea.
Ecco quindi un secondo momento, ancor più stravolgente che ritroviamo al momento di passaggio col secolo ancora seguente (XVIII) : la riforma epocale orchestrata da Pietro il grande (primo ¼ del 18° secolo), sembrerebbe violare il canone di fondo del cosmo russo in quanto comparto geoculturale caratterizzato distinto da quello dell’occidente. In effetti l’identità pienamente europea scelta dal nuovo zar è qualcosa di emblematico che contrasta radicalmente col concetto di Russia vigente al suo tempo, con la sua immagine prestabilita, che esce fuori dalla storia (nel senso di uscire fuori del proprio destino naturale).
La questione ontologica che le riforme petrine schiudono è oggetto di riflessione sia nel momento in cui vengono messe in atto, sia nelle fasi storiche a venire quando diverranno oggetti di studio, nonché – tra i circoli intellettuali – quesito accademico ai massimi sistemi in merito all’identità russa. Le stesse correnti conservatrici e patriottiche contemporanee possono avere qualche frizione in merito : i più tradizionalisti sostenitori dell’idea eurasista sottolineano l’acuta contraddizione, lo strappo con una tradizione di autoctonia rispetto all’occidente, che si ricuce simbolicamente col ritorno della capitale in Mosca, sprofondati nello heartland russo, all’indomani della rivoluzione d’ottobre, mentre gli oppositori viceversa sostengono la scelta di Pietro il grande in favore della patria più forte che generò con le sue scelte. Nota oltremodo agli specialisti di filologia slava e filosofi la cesura morale mai sanata tra “occidentalisti” e “slavofili” che incendia il discorso culturale del XIX nell’impero zarista : i primi sono favorevoli ad un’apertura nei confronti del mondo esterno, mentre i secondi mostrano invece un atteggiamento strenuamente conservatore in merito al nucleo di civilizzazione russa da preservare dalla minaccia di idee aliene ad esso. Per proporre un’analogia efficace che renda l’entità del contrasto si può affermare che mentre in occidente nell’impero kaiseriano contemporaneo infuriava la kulturkampf tra l’identità prussiana sostenuta da Bismark e l’influenza ecclesiastica cattolica, nel contesto russo imperiale tale battaglia di cultura concerneva il rapporto tra occidente e Russia ossia il tema esistenziale in merito all’identità russa
Ad essere sinceri tale diatriba perde senso se si adotta un criterio d’analisi di corso ancor più lungo – cioè se si considera la bisecolare parentesi imperiale russa in un più grande continuum che copre il mezzo millennio che arriva ai giorni nostri – e considerando una straordinaria elasticità mentale tipica degli antichi imperi : la Russia imperiale occidentalizzata di Pietro il grande, per quanto in antitesi con la tradizione autoctona è anch’essa a modo suo una estesissima e particolare fase di transizione del cosmo slavo orientale adottata al fine di SOPRAVVIVERE alle sfide della modernità, che un sovrano molto acuto già intuiva. Pietro il grande viaggiò fuori del suo paese, la Russia profonda, più di altri, rendendosi conto – assai più dei suoi predecessori – di quanto fosse inadeguato il paese alla sfida che si sarebbe posta nel secolo entrante (1700) : si optò pertanto per una soluzione estrema, simile ad una terapia d’urto come adattare forzatamente il paese ai metodi e alle consuetudini dei suoi rivali d’occidente (che già allora si percepiva avrebbero presto controllato il globo). Diventare simili al proprio nemico, imparare da lui ed assumerne le armi proprio per evitare di esserne travolti un giorno : farlo meglio e il più presto possibile prima che sia troppo tardi (la stessa cosa che il Giappone imperiale tentò di fare a metà 800 per difendersi da europei e americani che bussavano alle porte ! La Cina lo ha fatto a partire dal 900. La Russia semplicemente decise di farlo 1-2 secoli prima).
Una vera contraddizione in termini ne nasce….una Russia che accetta l’estremo sacrificio di trasformarsi dalle fondamenta al fine di sopravvivere e rimanere sé stessa (perlomeno mantenere un suo nucleo inalterato. L’identità russa come è consegnata al mondo dalle riforme petrine, cela un dilemma : l’operazione di occidentalizzazione ha successo e la Russia recupera in qualche modo un’ideale imperiale (più standardizzato e razionalizzato) anche se al prezzo estremo di allontanarsi dal suo alveo d’origine. La Russia si innova e si fortifica sebbene a costo di prendere a modello gli stati europei la cui civilizzazione è rivale a quella slavo orientale : il paradosso di una sopravvivenza assicurata assumendo la forma e le abitudini dell’avversario il cui modello si vuole evitare. Contraddizione eliminata, spazzata via quando ancora altri 2 secoli più tardi un’onda sismica bussa alla porta (nel 1917).
Si entra quindi nel secolo veloce (900) : il paese, malgrado le centinaia d’anni d’espansione territoriale è nuovamente in situazione di drammatica inadeguatezza rispetto al mondo circostante che incalza e in particolare rispetto a quel “golden standard” che è l’occidente europeo (ed americano ora). La Russia imperiale agli inizi del XX secolo sta annegando infatti : prima nazione bianca ad essere sconfitta sul campo da un paese asiatico emergente (Giappone, 1904), percorso da disordini, che infine si lancia nella mischia di quella grande guerra globale in gestazione da quasi 50 anni in Europa (la chiamiamo prima guerra mondiale). Il conflitto che è la tomba della società liberale europea, per quanto riguarda la Russia significa la potenziale disgregazione di quanto si era costruito nelle centinaia di anni passati : il rapido disfacimento totale e la potenziale liquefazione della patria (in un contesto moderno di penetrazione sempre più rapida del pensiero occidentale) a rischio di perdersi definitivamente.
Eppure no : guarda caso anche in tale frangente disperato accade qualcosa (accade sempre “qualcosa” come in base ad un indecifrabile equilibrio della storia). La Russia profonda si solleva, abbraccia la rivoluzione popolare (1917), scagliandosi con vigore mai visto contro tutti i suoi nemici, interni ed esterni : le antiche nobiltà di stampo germanico – che costellavano l’aristocrazia imperiale – scompaiono…..la dinastia imperiale muore, la capitale lascia le sponde del Baltico per tornare ad essere un punto nel cuore della Russia centrale. In generale cala una cortina di separazione tra il cosmo russo e il resto d’Europa che sembrava esser stata superata alle soglie dell’era contemporanea, quando si pensava (probabilmente) che più nulla oramai poteva tener separati i popoli in impermeabile isolamento.
Come se la parte più profonda del paese (il popolo slavo essenzialmente), dopo secoli di torpore, si fosse decisa a rovesciare tutto e tutti, liberandosi di quella sovrastruttura imperiale che un tempo era stata la sorgente di forza del paese……ma che ora ne era al contrario una catena che ne intralciava lo sviluppo relegandolo allo stato di arretratezza che ne sanciva la sconfitta, come la grande guerra aveva insegnato. Tempo dunque di tornare a quell’autonomia di pensiero, quell’autosufficienza che esisteva in un tempo remoto ormai dimenticato…sotto l’egida efficace e dinamica del verbo socialista : insolita, ma efficace l’affinità tra l’ideologia socialista e l’antica mentalità slava (poco prona al mercantilismo e capitalismo anglosassoni) e in parole semplici il marxismo-leninismo poteva ben rappresentare la nuova e più appropriata veste di quel nucleo di civilizzazione autonoma ed esprimerne il messaggio alternativo con il linguaggio e l’energia adatta ai tempi correnti.
Anche in questo caso – come al tempo di Pietro il grande – a casi estremi, estremi rimedi : la frattura tra passato e presente è totale….la faglia di divisione con l’anacronistico passato è profonda. Come vorranno i teorici della rivoluzione d’ottobre (di ieri e di oggi), essa costituisce un evento che “esce fuori della storia” ovvero fuori della rutine convenzionale del destino che aveva accompagnato la storia dell’umanità fino a quel momento, per inaugurare una nuova umanità……
Perlomeno questo avrebbe voluto la retorica comunista. La rivoluzione socialista dei bolscevichi “esce” dalla storia esattamente come ne “esce” la rivoluzione imperiale di Pietro il grande tanto tempo prima : la ragione e le circostanze sono le medesime del resto. Si tratta di SALVARE il grande paese e il suo cuore dal potere delle forze esterne ad esso, rafforzandolo, modernizzandolo con misure draconiane, anche a costo del consenso……modernizzare il corpo della nazione anche contro la sua volontà per il suo stesso bene (con la speranza che un giorno ringrazierà, come un giovanotto inesperto che dopo grida ed urla un giorno riconoscerà la saggezza del proprio educatore di un tempo). Prodigiosi saranno gli effetti del 1917, riportando una civilizzazione russa in decadenza di nuovo nel novero delle potenze planetarie del secolo XX. Tanto si potrebbe dire sulla rivoluzione socialista che la Russia fa propria, ma più di ogni cosa questo : nell’invertire il trend di decadenza dell’impero recupera quell’eccezionalità perduta, che era la fede ortodossa dei primi tsar dal XVI sec in avanti, sacrificata in nome di un più moderno, ma secolarizzato spirito imperiale da Pietro il grande nel XVIII. L’era socialista (almeno nelle premesse) non soltanto si sbarazza di un vestito ormai anacronistico come l’impero, ma addirittura lo supera tornando In UN CERTO SENSO alla carica universale della cristianità di Bisanzio (debitrice alla lontana dell’ellenismo stesso) in quel faro dei popoli che era l’entità sovietica, provvista di ineguagliabile ideale di giustizia sociale ed internazionalismo (…). L’Unione Sovietica torna ad incarnare una “patria dello spirito” come era quella di secoli addietro, anche se in differente ed inimmaginabile guisa : i bolscevichi in tale prospettiva (eterodossa per i più) i veri ed autentici salvatori della patria che ne ristabiliscono il destino naturale sotto la guida di Lenin, mentre i bianchi si ritrovano nello sgradito ruolo di falsi nazionalisti, combattenti a sostegno di una Russia (occidentalizzata) che non è quella reale, che deraglia dalla sua prerogativa “autoctona”.
Lungi dall’essere eterno il faro dei popoli tuttavia.
L’esperimento socialista sovietico si arena all’improvviso dopo 7 decadi, riportando nuovamente al disfacimento della patria come 70 anni prima : si rimette in moto quel moto di disgregazione che lo stato nato dalla rivoluzione bolscevica aveva arrestato per buona parte del secolo XX.
Tempo di perestroika, Gorbachev e quindi Eltsin (si sa pressochè tutto) e quel tragitto che ci porta sino a noi oggi.
Mi sono addossato la responsabilità di dare al lettore una visione globale delle cose (obiettivo arrogante più che ambizioso, eppure le circostanze autorizzano un tentativo almeno). Cerchiamo di andare al punto della situazione e concludere questo fiume di parole che ormai può confondere chi lo legge. Torniamo idealmente all’incipit di questa serie di capitoli, con il prossimo e conclusivo…

 

potere e territorio. Intervista a Jean-Robert Pitte #8

Presidente della Società Geografica, Jean-Robert Pitte dedica le sue ricerche alla storia della geografia dei paesaggi, della gastronomia e del vino. È membro dell’Accademia di scienze morali e politiche e autore di un’abbondante opera che gli è valsa numerosi premi. È stato anche presidente dell’Università della Sorbona (Parigi IV) dal 2003 al 2008.

Intervista condotta da Louis du Breil.

Secondo te, su cosa si basa il potere di un Paese?

Nell’evocare il potere di un Paese, pensiamo prima alla sua economia e tutti conoscono l’aforisma di Jean Bodin secondo cui “non c’è ricchezza se non per gli uomini”. Il pensatore rinascimentale aveva ragione e il suo punto di vista vale anche per gli eserciti, la politica e la cultura, altre sfaccettature del potere. Aggiungo che non è il numero degli uomini che conta per primo. Devono essere educati, animati da curiosità ed empatia verso i loro coetanei, rispettosi dello stato di diritto e, analizzando questi criteri, Singapore, la Svizzera o il Lussemburgo pesano molto più della Nigeria o del Pakistan. Il resto, ovvero il clima, la ricchezza dei terreni coltivabili, le materie prime, la facilità di accesso sono solo la ciliegina sulla torta che non conta molto senza perseveranza e un progetto strutturato.

Leggi anche: Cos’è il potere? Riflessioni incrociate. Serie speciale Conflitti

Il potere non si basa solo sul PIL, ma anche sulla capacità di difendersi o espandersi con mezzi militari. La storia dimostra la fragilità di queste potenzialità. Ci sono paesi con eserciti altamente addestrati che sono colossi con i piedi d’argilla, come la Corea del Nord, e paesi neutrali senza una vera autodifesa o forze d’attacco che vivono nella prosperità, come la Svizzera, i paesi scandinavi o Singapore. I paesi militarmente potenti, come la Cina o la Russia, hanno grandi risorse ed eserciti gonfi, ma i loro leader sanno anche cosa hanno da perdere se si impegnano in avventure militari. La vastità dei loro territori è per loro una sfida permanente e il mantenimento dell’unità richiede un grande sforzo. Le invettive dei loro leader nei confronti di Taiwan o dell’Ucraina sono solo mezzi più o meno illusori per rafforzare la loro unità nazionale. Non è detto che i popoli siano pronti a sacrificare il loro potere d’acquisto e il loro benessere per la gloria di una conquista territoriale. I nazionalismi un tempo galvanizzavano i popoli. È ancora rilevante? Le conquiste militari riuscite si basavano su un progetto politico, culturale ed economico attraente per i popoli conquistati. Questo era il caso di È ancora rilevante? Le conquiste militari riuscite si basavano su un progetto politico, culturale ed economico attraente per i popoli conquistati. Questo era il caso di È ancora rilevante? Le conquiste militari riuscite si basavano su un progetto politico, culturale ed economico attraente per i popoli conquistati. Questo era il caso dil’impero di Alessandro o di Roma, tanto meno per le ambizioni di Carlo V, Luigi XIV o Napoleone, in nessun modo per la Germania nazista, il Giappone imperialista degli anni ’30, l’Unione Sovietica. Lo scoraggiamento non si sarebbe impadronito ben presto di potenti eserciti formati da soldati di professione mal pagati o, a fortiori, da coscritti? La domanda potrebbe sorgere anche per l’Iran.

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Geografia e guerra. Filippo Boulanger

La Germania è una grande potenza con relativamente poche risorse naturali, ma ha un’industria ad alte prestazioni e servizi che si irradiano in tutto il pianeta. Di conseguenza, i suoi leader sono più influenti e ascoltati rispetto a quelli dei paesi economicamente più dipendenti. Il potere, infine, dipende dall’influenza della cultura di un Paese: da questo punto di vista il Giappone, che per molto tempo visse in autarchia (dal 1601 al 1868), si è risvegliato e oggi esercita una grandissima influenza in tutti i campi artistici e culturali . Quello che stupisce è il contrasto che si può osservare con l’influenza politica di questo Paese e, ancor più, strategica, la sua capacità militare che poggia principalmente sull’alleanza con gli Stati Uniti, come quella della Germania sulla NATO. Alcuni sostengono che furono le condizioni imposte dagli Alleati a questi due paesi nel 1945 che consentirono loro di risparmiare ingenti spese militari per sviluppare il resto della loro economia. Ciò non è del tutto esatto se si pensa al ruolo trainante delle industrie militari nello sviluppo del potere economico degli Stati Uniti, della Francia o di Israele. Quest’ultimo Paese è senza dubbio l’unico – con Taiwan – in cui i giovani sarebbero pronti a prendere le armi per salvare la propria indipendenza, il proprio stile di vita e la propria democrazia. Ciò non è del tutto esatto se si pensa al ruolo trainante delle industrie militari nello sviluppo del potere economico degli Stati Uniti, della Francia o di Israele. Quest’ultimo Paese è senza dubbio l’unico – con Taiwan – in cui i giovani sarebbero pronti a prendere le armi per salvare la propria indipendenza, il proprio stile di vita e la propria democrazia. Ciò non è del tutto esatto se si pensa al ruolo trainante delle industrie militari nello sviluppo del potere economico degli Stati Uniti, della Francia o di Israele. Quest’ultimo Paese è senza dubbio l’unico – con Taiwan – in cui i giovani sarebbero pronti a prendere le armi per salvare la propria indipendenza, il proprio stile di vita e la propria democrazia.

La geografia condiziona il potere di uno stato?

Probabilmente non la sua superficie, che spesso è un handicap per Stati molto grandi. Hanno difficoltà a gestire e sviluppare il loro territorio, a creare una rete di trasporto efficiente, a mantenere le periferie nell’alma mater, a proteggere i propri confini da flussi migratori incontrollati, a meno che non spendano molti soldi e dispieghino colossali polizie o militari risorse. Lo si vede nel Caucaso per la Russia, nel Tibet o nello Xinjiang, anche a Hong Kong per la Cina, al confine tra Stati Uniti e Messico, oltreoceano per la Francia a cominciare dalla Corsica, ma ufficialmente metropolitana.

Prendiamo altri esempi. Il Sahara e il Sahel settentrionale sono molto scarsamente controllati da Algeria, Libia, Mauritania, Mali, ecc. Il Brasile ha molte difficoltà nell’impostare una sana gestione dell’Amazzonia ed è ancora più problematico per altri paesi con fitte foreste equatoriali, in Africa centrale o in Indonesia. Ma le ragioni sono più da ricercarsi nelle modalità di governo di questi paesi e nello sviluppo culturale e tecnico delle loro popolazioni che nel clima.

In una lettera al re di Prussia del 10 novembre 1804, riferendosi alla Russia, Napoleone scrisse questa frase che è stata riprodotta e distorta a suo piacimento: “la politica di tutte le potenze è nella loro geografia”. Non ci credo affatto; è una visione molto deterministica della realtà geopolitica. Credo molto di più in quanto scrisse Vidal de La Blache nel 1903 sulla Tavola Geografica di Francia: “La storia di un popolo è inseparabile dalla regione che abita”. Va da sé che i dati ambientali influiscono sul modo in cui uno Stato pianifica il proprio territorio e gestisce la propria economia, ma possono essere oggetto di molteplici scelte che dipendono dal know-how e dalla buona volontà degli abitanti e dei loro governanti, in una parola, della libertà umana. Come aveva chiaramente mostrato Pierre Gourou, le zone tropicali umide dell’Africa o dell’America Latina sono molto scarsamente popolate e poco sviluppate, mentre diverse centinaia di abitanti vivono in ogni chilometro quadrato dei delta e delle pianure del sud-est asiatico grazie alla coltivazione del riso e all’agricoltura. La mappa dell’analfabetismo è molto vicina a quella della miseria, una correlazione che è una causalità e che non ha alcun legame con il clima o con qualsiasi altro fattore ambientale.

I giacimenti di petrolio e gas naturale rappresentano una colossale ricchezza naturale di cui i paesi del Golfo hanno beneficiato per decenni. Possiamo, tuttavia, prevedere senza grandi rischi che questa manna non durerà per sempre e che solo gli Stati interessati che avranno investito nell’istruzione superiore dei loro giovani e nello sviluppo delle attività industriali e dei servizi ne usciranno vincitori quando il tempo arriva. .

L’indice di sviluppo umano è un importante criterio di differenziazione tra paesi, più interessante del potere che lascia da parte molti aspetti della vita degli abitanti. Si basa sull’aspettativa di vita, sulla ricchezza e sul livello di istruzione delle popolazioni. Tra i primi dieci paesi del pianeta, alcuni hanno un vero potere economico e politico, ma altri no: Islanda, Norvegia, Giappone, Svizzera, Finlandia, Svezia, Australia, Germania, Danimarca, Paesi Bassi. È chiaro che al di fuori dell’Australia pochi sono coloro che dispongono di abbondanti risorse energetiche o minerarie e che la maggior parte, a parte la Germania, non è favorita dal loro ambiente che è subpolare, montuoso, paludoso o regolarmente afflitto da cataclismi.

Infine, l’apertura dei paesi al mondo dipende più dalle loro scelte politiche, strategiche e culturali che dalla loro geografia fisica. Ad esempio, l’insularità non è in alcun modo determinante. Di certo la Gran Bretagna ha sempre giocato una carta diversa da quella dell’Europa continentale e il Giappone si è chiuso in se stesso dal 1601 al 1868, cosa più difficile se non fossero stati stati insulari. Ma la loro apertura internazionale è indiscutibile nel corso della storia. Inoltre, altre isole come Singapore, Mauritius, Taiwan o persino Cipro hanno una storia largamente aperta al commercio. Stessa osservazione per i paesi molto montuosi: il Nepal è largamente aperto al mondo mentre il vicino Bhutan è quasi completamente chiuso.

In che modo la pianificazione territoriale riflette il potere di un popolo?

Più che al servizio del suo potere, il corretto sviluppo del territorio di uno Stato deve essere pensato al servizio del maggior numero dei suoi abitanti. Deve soddisfare la loro sicurezza, i loro bisogni economici, la loro mobilità, ma anche il loro benessere. Questo è raramente il caso nel mondo. I paesi che hanno pensato solo al loro potere hanno favorito complessi militari-industriali che raramente hanno servito il loro popolo. È il caso degli Stati totalitari o dittatoriali: ieri la Germania nazista o l’Unione Sovietica, oggi la Repubblica popolare cinese, la Russia, la Corea del Nord, l’Iran, il Pakistan. Tra i paesi democratici solo Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Giappone, India, Corea del Sud, Israele dispone di potenti industrie di armi ed eserciti in grado di intervenire efficacemente in un conflitto senza pregiudicare il benessere della sua popolazione. In diversi paesi, queste attività creano persino posti di lavoro e ricchezza, poiché sono in gran parte orientate all’esportazione. Stimolano anche lo sviluppo di alte tecnologie in campi pacifici come l’aeronautica, l’elettronica o le telecomunicazioni.

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Cos’è il potere?

Nei paesi poveri il territorio è poco sviluppato. L’urbanizzazione è galoppante e spontanea, sfociando in città mostruose dove regnano precarietà, insicurezza, congestione e inquinamento. Risulta da un esodo rurale forzato dalla miseria contadina e dall’illusione dell’Eldorado delle città. I mezzi di trasporto sono arcaici e incompleti. Ciò si traduce nella creazione di intere aree che non sono controllate dagli stati. Può essere visto quasi ovunque in Africa, in diversi paesi del Medio Oriente, in misura minore in alcune sacche di vari paesi dell’America Latina , tutti afflitti da guerre civili mortali e affetti da una completa mancanza di governo.

Tuttavia, non tutti i paesi ricchi hanno progettato la loro pianificazione regionale per servire il maggior numero di persone. Così in Francia, dalla metà del 20° secolo, il DATAR o i suoi avatar hanno, ovviamente, decentrato un po’ a ragione l’industria dell’Ile-de-France, ma hanno pensato allo sviluppo favorendo le grandi metropoli e le connessioni veloci tra loro. Hanno in gran parte trascurato lo spazio rurale che tuttavia rappresenta una parte molto ampia del territorio francese, che è molto scarsamente popolato e costituisce un vasto deserto educativo, medico, commerciale e culturale. Jean-François Gravier lo aveva sottolineato nel 1947 quando pubblicò il suo saggio intitolato Parigi e il deserto francese. Nel turismo, lo Stato ha favorito la specializzazione di alcune regioni (Alpi settentrionali, costa della Linguadoca) lasciando molti altri al turismo diffuso e spontaneo che ha una bassa capacità di accoglienza mentre il suo potenziale è immenso su scala europea e globale per l’elevata qualità dei suoi paesaggi (Massiccio Centrale, Pirenei, Alpi meridionali, ecc.). Negli anni a venire, l’abbandono agricolo rischia di aggravare ulteriormente questi contrasti già molto forti. Data la distribuzione della popolazione, questo problema pesa poco sul piano elettorale in Francia, in particolare in occasione delle elezioni presidenziali o legislative, un po’ di più durante le elezioni senatoriali. Negli anni a venire, l’abbandono agricolo rischia di aggravare ulteriormente questi contrasti già molto forti. Data la distribuzione della popolazione, questo problema pesa poco sul piano elettorale in Francia, in particolare in occasione delle elezioni presidenziali o legislative, un po’ di più durante le elezioni senatoriali. Negli anni a venire, l’abbandono agricolo rischia di aggravare ulteriormente questi contrasti già molto forti. Data la distribuzione della popolazione, questo problema pesa poco sul piano elettorale in Francia, in particolare in occasione delle elezioni presidenziali o legislative, un po’ di più durante le elezioni senatoriali.

Ha diretto l’Università di Parigi IV, oggi Università della Sorbona, dal 2003 al 2008. In che modo l’università francese può contribuire al potere educativo del Paese?

Ho presieduto un’università che si chiamava allora Paris-Sorbonne, nome voluto dal suo primo presidente, Alphonse Dupront, che voleva far rivivere il prestigio di uno dei più famosi college dell’Università di Parigi nel Medioevo in cui eravamo situato. Per alcuni decenni, questa università ha fatto brillare le lettere e le discipline umanistiche di lingua francese in tutto il mondo favorendo standard elevati, eleganza intellettuale, pensiero critico, rispetto reciproco, trasmissione senza concessioni. Ha popolato con i suoi laureati università francesi e molte università straniere. Grazie al suo nome prestigioso e all’alto livello di insegnamento e ricerca, ha potuto aprire nel 2006 una filiale ad Abu Dhabi, che forma in francese parte dell’élite degli Emirati Arabi Uniti e del Medio Oriente.

Non spetta a me oggi valutare una casa che è stata mia per mezzo secolo e alla cui influenza mi dedico con passione fin dai tempi dei miei studi. Quello che posso dire è che deve rimanere fedele alla sua reputazione di quasi otto secoli fa. Non può accontentarsi di accogliere studenti che non scelgono corsi superiori selettivi, vivendo solo di sussidi statali che saranno sempre necessariamente limitati se alcuni dei suoi studenti abbandonano nei primi anni di corso e che alcuni dei suoi laureati trovano essi stessi disoccupati o in lavori poco qualificati. Deve anche proteggersi dalle mode intellettuali dei campus dall’altra parte dell’Atlantico. La riforma del “parcoursup” basata su una pagella scolastica esauriente e sull’espressione della motivazione del futuro studente va nella giusta direzione, ma la sua applicazione è lenta in molte università. Il potere di un paese si basa anche sulle sue grandi università, come accade nella maggior parte dei paesi sviluppati. In Francia, ahimè, le università hanno rinunciato alla formazione dell’élite e hanno lasciato questa missione alle “grandes écoles”, precedute dalle classi preparatorie, istituti propri della Francia, certamente di alta qualità, ma in cui la ricerca è spesso preoccupazione secondaria. È un peccato che, a differenza dell’Inghilterra, degli Stati Uniti o del Giappone, l’élite della Francia sia raramente qualificata nel campo delle discipline umanistiche, delle lettere e delle arti,

Fondata nel 1821, la Società Geografica che tu presiedi è la più antica del mondo. Nel contesto dell’attuazione del Congresso di Vienna e dell’intensificazione delle esplorazioni geografiche, la sua creazione è stata il risultato di una certa concezione del potere?

Napoleone aveva detto nel 1807: “Se in un punto centrale come Parigi ci fossero diversi professori di geografia che potessero raccogliere conoscenze sparse, confrontarle, purificarle, che si sarebbe nel caso di consultarli con sicurezza per essere istruiti sui fatti e cose, sarebbe un’istituzione buona e utile. » . Questo manifesto, scaturito dallo spirito di curiosità dell’Illuminismo, sfociò nel 1821, pochi mesi dopo la morte dell’imperatore deposto, nella creazione della Società Geografica dedita anzitutto alla conoscenza del mondo, a riempire il bianco di le carte che ancora oggi occupano il cuore di tutti i continenti. Naturalmente, commercianti, missionari, soldati, gli amministratori civili trarranno vantaggio da questa nuova conoscenza per dispiegare la loro attività in tutti i continenti e costituire decenni dopo un vasto impero coloniale. Possiamo quindi affermare che la potenza della Francia a cavallo del 20° secolo non avrebbe potuto affermarsi senza l’attuazione di strategie basate su una solida conoscenza della geografia terrestre e dei mari nel mondo.

L’insegnamento della geografia sembra oggi essere trascurato. Da dove pensi che derivi questa mancanza di interesse pubblico per la geografia? Questo è dannoso per la comprensione dei francesi del proprio territorio e del potere francese nel mondo?  

L’insegnamento della geografia è cambiato molto negli ultimi decenni. Purtroppo, nel volersi ancorare a basi teoriche non facilmente accessibili ai comuni mortali, a differenza della storia, ha in parte perso la capacità di far sognare, di muovere, di nutrire uno sguardo di meraviglia sul mondo. Nulla è perduto e alcuni insegnanti continuano ad entusiasmare i loro alunni e studenti. Ciò si riscontra in particolare nel campo della cartografia, che sta suscitando un crescente interesse nell’istruzione secondaria, superiore, nella stampa e nella televisione. In ogni caso, è certo che l’ignoranza geografica porta alla sfiducia, persino al disprezzo nei confronti degli altri. È anche in una certa misura un’arma di distruzione di massa.

Pensi che il potere debba essere dispiegato o piuttosto assunto nel ruolo che i paesi dovrebbero svolgere?

Un paese potente è rispettato e svolge pienamente un ruolo originale nella globalizzazione. Non ha bisogno di mostrare i suoi artigli, anche se tutti sanno che esistono e che se necessario può usarli. Tre paesi, Stati Uniti, Russia e Cina, stanno oggi valutando il potere dell’altro. Il primo manifesta piuttosto una stanchezza per il suo ruolo di poliziotto del mondo, che incoraggia gli altri due che giocano pericolosamente a spaventare le loro popolazioni e i loro vicini. Quanto all’Europa, sta lottando per unirsi, per svolgere un ruolo politico e per formare un vero esercito, che è molto sfortunato per la pace nel mondo. O avanzerà verso una maggiore coesione, o cadrà in pezzi in volo creando molti danni dentro e intorno a sé. Coloro che hanno conosciuto la seconda guerra mondiale sono praticamente tutti scomparsi e la cultura storica dei loro discendenti è troppo elementare: ahimè, i popoli hanno la memoria corta e troppo volentieri ricadono nei loro solchi preferiti. Un po’ più di cultura storica e geografica non potrebbe danneggiarli!

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Pensa al potere. Intervista a Rémi Brague

https://www.revueconflits.com/la-puissance-et-le-territoire-entretien-avec-jean-robert-pitte/

Ucraina! Il vizio d’origine di un regime_di Max Bonelli

La narrazione di casa nostra ci presenta ossessivamente Zelensky, un attore nel pieno esercizio delle sue funzioni e il regime ucraino come i paladini delle libertà del mondo occidentale in antitesi al totalitarismo dell’invasore russo. Max Bonelli ci offre un primo spaccato inquietante della natura del regime ucraino, impegnato a combattere con la stessa intensità sia l’esercito russo che una parte molto significativa della propria popolazione. Un regime che ovviamente ha il diritto di opporsi militarmente, ma che altrettanto ovviamente in questi anni ha perseguito politicamente una linea di aperta ostilità ed aggressione verso la Russia e di feroce repressione verso una componente fondamentale della propria popolazione e ai danni della consistente opposizione politica presente nel paese. Il regime ha avuto quasi dieci anni per cercare un accordo dignitoso con le parti. Istigato e lautamente foraggiato dalle componenti più avventuriste delle élites statunitensi ed europee ha scelto la strada di un nazionalismo territoriale ed etnico che prescinde dalla complessità ed eterogeneità del paese. Un aspetto particolarmente inquietante anche e soprattutto per i paesi della Unione Europea. Il lirismo che ammanta le azioni della dirigenza europeista, visto l’esito dell’esperimento ucraino ed il veleno introiettato dall’accettazione senza remore nel proprio seno del particolare nazionalismo proprio di buona parte dei paesi dell’Europa Orientale, è una maschera che con disinvoltura nasconde ormai a stenti intenti particolarmente inquietanti, già intravisti nella gestione della crisi pandemica ed una supina ed autodistruttiva subordinazione politica all’avventurismo statunitense, disposto ad alimentare e strumentalizzare chiunque, per quanto impresentabile, pur di perseguire i propri obbiettivi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v10kpiv-peccati-dorigine-di-un-regime-con-max-bonelli.html

 

 

gli ultimi giorni della battaglia per Mariupol, di gilbert doctorow

Leggi tutto: gli ultimi giorni della battaglia per Mariupol

L’operazione russa per la presa della città portuale di Mariupol sta volgendo a buon fine. Il “successo” deve essere inteso oggi in un senso qualificato, dal momento che gran parte della città ora giace in rovina e fino a 4.000 civili potrebbero essere stati uccisi nei combattimenti, in gran parte vittime degli ultranazionalisti ucraini felici scatenati. I soldati del battaglione Azov e altri irregolari che trattenevano la città da posizioni fortificate nelle comunità residenziali di questa città di 460.000 hanno sparato arbitrariamente a coloro che hanno cercato di fuggire dai sotterranei dei condomini per andare a prendere l’acqua o che hanno osato tentare di raggiungere i corridoi umanitari e uscire dal città. La popolazione civile fu tenuta in ostaggio e costituiva uno “scudo umano”. Hanno protetto le forze ucraine dalla piena furia dell’artiglieria russa e dagli attacchi aerei di precisione,

Tutti i combattimenti per Mariupol hanno avuto pochissima copertura nei media occidentali. Tutto ciò di cui abbiamo sentito parlare è stata la difficoltà di stabilire corridoi umanitari e interviste con i pochi civili terrorizzati che sono riusciti a raggiungere l’Occidente. Ad essere onesti, la situazione sul campo a Mariupol è stata riferita solo in parte dai russi perché è stato un lavoro in corso che hanno mantenuto sotto regole di segretezza in linea con la loro intera “operazione militare speciale”.

Ora che la cattura di Mariupol è nella sua fase finale, alcune informazioni di valore sono state pubblicate nei media russi alternativi e propongo di presentarle qui per dare ai lettori un’idea di come questa guerra viene perseguita e perché. Fonte principale:  https://www.9111.ru/questions/777777777771838727/

In effetti, la maggior parte della città vera e propria è stata presa dall’esercito russo e dalle milizie di Donetsk, con la significativa assistenza di un battaglione di ceceni guidato dal loro leader Kadyrov. Poiché le rotte fuori città in direzione est sono state liberate e poiché i cecchini e altre forze Azov sono stati respinti per fornire un certo livello di sicurezza nelle strade, un gran numero di civili ha lasciato la città la scorsa settimana. Si stima che la popolazione civile rimasta a Mariupol attualmente sia circa un terzo di quella che era all’inizio del conflitto.

I combattenti Azov, altri irregolari e le forze dell’esercito ucraino erano all’inizio circa 4.000 e ora sono stati ridotti a causa delle vittime. Tra di loro ci sono “mercenari stranieri” come dicono da tempo i russi. Ora dalle conversazioni telefoniche intercettate di questi belligeranti, sembra che tra gli stranieri ci siano istruttori della NATO. Ciò significa che la guerra per procura tra Russia e USA/NATO inizia ad avvicinarsi a un confronto diretto, contraddicendo le dichiarazioni pubbliche dell’amministrazione Biden. Se i russi riusciranno a portare in vita questi istruttori della NATO, che è uno dei loro compiti prioritari, le prossime sessioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU potrebbero essere molto tese.

A dire il vero, le 4.000 forze nemiche sopra menzionate erano solo quelle all’interno della città. Le forze ucraine, forse dieci volte di più, erano posizionate a ovest della città all’inizio delle ostilità. Presumibilmente sono stati respinti in Occidente.

Come sappiamo da circa una settimana, le restanti forze dell’Azov e altre forze ucraine si sono ritirate dalla città vera e propria in due località alla periferia di Mariupol: il porto e il territorio industriale dell’Azovstal. I russi ora hanno completamente accerchiato entrambi.

Il porto corre per circa 3 chilometri lungo il mare e raggiunge nell’entroterra circa 300 metri. È da qui che la scorsa settimana il gruppo Azov ha cercato di inviare in elicottero una dozzina o più dei suoi alti ufficiali. L’elicottero è stato abbattuto dai russi, uccidendo tutti a bordo. Anche un elicottero di soccorso è stato distrutto dai russi, ma qui è sopravvissuto un ucraino ed è stato interrogato sull’operazione fallita.

Il porto viene ora sgomberato dalle forze nemiche, con la milizia del Donbas in testa.  

Il complesso industriale dell’Azovstal è molto più difficile da decifrare. Si compone di due acciaierie. La loro caratteristica specifica sono i livelli sotterranei che scendono da sei a otto piani, dove il nemico deve essere stanato con metodi d’assedio non con sbarramenti di artiglieria o bombardamenti. Potrebbero esserci fino a 3.000 nazionalisti e soldati dell’esercito ucraino. Il compito principale per i russi è controllare tutti gli ingressi e le uscite della metropolitana.

I russi non stanno bombardando per due motivi:

Primo, non ha senso distruggere l’infrastruttura sopra il livello del suolo se il nemico è rintanato al di sotto. Inoltre, nelle vicinanze sono presenti alcuni edifici residenziali.

Secondo, se bombardi e seppellisci i nazionalisti sottoterra, non ci saranno testimoni da portare in tribunale per parlare delle atrocità che queste persone hanno commesso nel Donbas. E potrebbero benissimo esserci in questi bunker sotterranei ancora altri laboratori biologici che fino ad ora sono stati tenuti molto accuratamente nascosti alla vista. I russi vogliono mettere le mani sulla prova.

Qualunque sia il livello di distruzione, la vittoria russa in attesa sulle forze ucraine a Mariupol è tutt’altro che di Pirro. Si tratta di una vittoria a sangue pieno di grande importanza strategica in quanto dà ai russi il pieno controllo del litorale del Mar d’Azov. Sigilla il ponte terrestre che collega la terraferma della Federazione Russa con la Crimea. È anche un elemento chiave per garantire l’approvvigionamento idrico della Crimea, che era stata interrotta dall’Ucraina per infliggere il massimo dolore alla Crimea russa. Con l’acqua che scorre ancora una volta dal Dnepr, vi sono solide basi per riprendere l’agricoltura in Crimea ai suoi livelli tradizionali e anche per sostenere gli afflussi turistici, una fonte di reddito fondamentale per la regione. A ciò si aggiunga la probabilità che con un po’ di tempo e investimenti, Mariupol riassuma il suo importante ruolo economico di porto marittimo e città industriale.

©Gilbert Doctorow, 2022

https://gilbertdoctorow-com.translate.goog/2022/04/09/read-all-about-it-final-days-of-the-battle-for-mariupol/?fbclid=IwAR2NYKqYYnySsfVpvaAgIptAKKrdM4WmIeCzfxzAwA5FTJNnrO6w-4nanwA&_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it

Stati Uniti, Russia! Nebbia della guerra, nebbie nelle menti_con Gianfranco Campa

Un presidente ormai isolato, ignorato, oltre il limite del patetico. Un ceto politico sempre più privo di senso istituzionale, tutto preso dallo scontro politico e dalle beghe interne. E’ la situazione paradossale della più grande potenza mondiale, laddove solo il Pentagono e quindi gran parte delle più alte cariche militari sembrano aver conservato prudenza e lucidità in un contesto geopolitico sempre più mutevole e conflittuale. L’Ucraina è attualmente il centro focale delle attenzioni, ma è sicuramente uno soltanto degli episodi che costelleranno la scacchiera internazionale in uno stillicidio di provocazioni e risposte. L’Ucraina è attualmente un porto delle nebbie dove la verità pretende di essere dettata dai detentori della propaganda e del sistema mediatico. Vedremo se il castello di menzogne riuscirà a reggere sino al logoramento dell’iniziativa russa oppure andrà incontro al crollo di una realtà politica e socioeconomica che, specie in Europa, si avvia sempre più velocemente verso un drammatico dissesto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Russia, Ucraina! Guerra civile e guerra tra stati_con Antonio de Martini

Tutta la saggezza e la maestria di Antonio de Martini. Siamo tutti impegnati a seguire e decifrare i movimenti militari nella guerra in Ucraina. Con essi i risvolti tragici legati ad esecuzioni e rappresaglie con il corollario delle morti dei civili; inevitabili queste ultime come in una qualsiasi guerra moderna, ma in una dimensione molto ridotta almeno sino ad ora, se comparato con quanto successo in Iraq, in Siria, in Afghanistan. Una condotta militare dettata da una scelta politica precisa da parte di Putin. La dovizia di fatti e di immagini induce e serve a nascondere il filo conduttore delle strategie politiche in corso. De Martini lo sottolinea continuamente. Strategie il cui filo conduttore si può ricondurre agli antefatti della guerra civile in Russia di un secolo fa con la diretta partecipazione di anglosassoni e a quelli della seconda guerra mondiale, riconducibili alla rete di contatti costruita dai tedeschi e riportata nella loro integrità agli statunitensi nel secondo dopoguerra. Una trappola ordita dal mondo anglosassone, dalla quale il governo russo mostra di poterne uscire con grande difficoltà. Più il conflitto rischia di assumere i connotati di una guerra civile, più lo scontro rischia di impantanarsi seguendo direzioni imprevedibili. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v10df6p-russia-ucraina-una-guerra-civile-con-antonio-de-martini.html

 

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