Vilfredo Pareto Trasformazione della democrazia, una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Vilfredo Pareto Trasformazione della democrazia, Editore Il Foglio, pp. 116, € 12,00

È opportuna questa nuova edizione del libretto di Pareto, la prima del quale è del 1921, in cui il grande sociologo riuniva quattro testi pubblicati l’anno precedente sulla “Rivista di Milano”; e quindi nel 1920, anno decisivo per la crisi del regime liberale, l’occupazione delle fabbriche e il decollo del movimento fascista.

Alla prima edizione ne seguivano ben otto e tutte, come scrive Carlo Gambescia nel saggio introdotto, in anni politicamente caldi il cui comune denominatore è “quello di un clima segnato dalla diffidenza verso la democrazia liberale e di sfiducia verso le esangui élite italiane, politiche ed economiche, sempre però pronte al compromesso, anche, con il diavolo, pur di tenersi a galla”.

Nella situazione degli anni ’20, scrive Gambescia, Pareto “scorge, a verifica delle teorie del Trattato, uscito nel 1916, lo sviluppo di un fenomeno che definisce, fin dal titolo, «trasformazione della democrazia», e ne individua e riassume, «spiccatissimi», «almeno tre caratteri principali, cioè: 1) L’affievolirsi della sovranità centrale e l’invigorirsi di fattori anarchici; 2) il veloce progredire nel ciclo della plutocrazia demagogica; 3) la trasformazione dei sentimenti della borghesia e della classe che ancora governa».

Non è un caso che almeno un paio di tali caratteri erano stati avvertiti da due giuristi contemporanei di Pareto: Santi Romano, in specie nel saggio “Lo Stato moderno e la sua crisi” (del 1909) e Maurice Hauriou in diverse opere e saggi (ora raccolte negli “Écrits sociologiques” silloge di più saggi del doyen negli anni a cavallo tra i due secoli).

Il giurista siciliano sottolineava l’emergere di poteri “nuovi” tendenzialmente più che “centripeti”, contestatori dell’ordinamento dello Stato rappresentativo (cioè borghese); il francese il ciclo dei regimi politici e il carattere disgregatore del denaro (la plutocrazia) e del pensiero critico (oggi diremmo del relativismo). Prova (tra le altre) di come, oltre un secolo fa vi fosse consapevolezza della decadenza delle istituzioni realizzate dopo la rivoluzione del 1789 e di come stesse nascendo qualcosa di nuovo (ossia, per chi condivide, con Pareto e i due giuristi, il carattere “ciclico” della storia, qualcosa di antico in forma rinnovata).

Gambescia si chiede quale sia il “succo sociologico” di un’opera come “Trasformazione della democrazia”. E lo trova “In quella che Giovanni Busino ha ridefinito «teoria della spoliazione». Come modalità, tra le tante altre cose, riteniamo, per approcciarsi all’analisi dei processi politici.

Secondo Busino, le sue  «pagine più originali sono quelle sulle relazioni della democrazia colle forze di mercato». Sotto questo aspetto – oltre agli ovvi richiami al Trattato – l’ultimo libro di Pareto, Trasformazione della democrazia, con il suo concetto di plutocrazia demagogica, rinvia, dal punto di vista delle scelte politiche, all’idea dello spreco di risorse: un arraffa, arraffa, se ci si perdona la caduta di stile, condiviso dalla plutocrazia con gli attori sociali, quelli che ovviamente si prestino ai suoi giochi”.

Lo scopo della spoliazione “è di conservare il potere, di restare al centro, in posizione sovra-ordinata, del processo politico … Sottraendo risorse ai nemici per conferirle agli amici. Ma anche con ogni altro mezzo: dalla corruzione alla collusione”.

E, scrive Gambescia citando Belligni: “scrive Belligni, portando alle estreme conseguenze le intuizioni teoriche paretiane e cogliendo il senso profondo del ciclo plutocratico, che «col ridursi dell’ammontare complessivo della torta sociale, il costo relativo delle taglie destinate alle clientele e alla classe politica cresce fino a farsi insostenibile, provocando l’insorgere di questioni morali e addirittura spingendo talvolta i popoli alla rivolta, come avveniva nelle carestie del passato. Se nei periodi di sviluppo “i politicanti prendono per sé grosse fette di torta, altre minori ne prelevano i politici secondari”, nei periodi di crisi ciò non viene più tollerato e sono spesso gli stessi politicanti, dal governo o dall’opposizione, a insorgere farisaicamente contro gli sprechi e le ruberie, agitando istanze e programmi moralizzatori». Abbiamo avuto un esempio di “plutocrazia demagogica” anche con Berlusconi, sostiene Gambescia, ricordando quanto scrive Barbieri in tre casi emblematici: “1) il salvataggio dell’Alitalia; 2) L’estensione innovativa dei compiti della Protezione civile alla gestione dei grandi eventi; 3) Lo scudo fiscale”. Conclude il saggio introduttivo Gambescia che “Purtroppo la libertà, la vera libertà, sembra per molti essere ancora un peso. Si preferisce anche a livello politico, disconoscere il grande valore racchiuso nel ruolo sociale degli uomini creativi, liberi e indipendenti per privilegiare i piagnistei interessati dei parassiti, sempre pronti a tendere la mano e sfruttare gli atri”. Ma gli uomini sono fatti in un certo modo (il “legno storto” di Kant riappare) e “per dirla con Pareto, va sempre scansato «il pericolo di trascorrere anche oltre i campi del possibile e di andare vagando per gli sterminati spazi dell’immaginazione».

Anche perché, purtroppo, sociologicamente parlando, non ci sfugge che sotto il plutocrate demagogo c’è il parassita e viceversa. Il ciclo della spoliazione sembra essere nelle cose sociali stesse della democrazia”.

Scrive Pareto all’inizio del saggio che “Lo studio del complesso sociale è lungo, ed il solo tentativo di compierlo occupa i due volumi della Sociologia”; e in effetti il libro è l’applicazione delle idee più diffusamente (e più in generale) esposte nel Trattato di sociologia generale. Dato che ad una recensione non è possibile dare conto di tanto lavoro, ci limitiamo a un solo aspetto, quello che ha più interessato sia Gambescia che gli studiosi di Pareto citati nel saggio introduttivo: quello della spoliazione politica.

Com’è noto, solo per limitarci al pensiero politico-sociale italiano, il fatto che i governanti prelevino parte delle risorse sociali è noto – e anche, entro certi limiti – logico.

Almeno a partire da Maffeo Pantaleoni per arrivare, in tempi recenti, a Gianfranco Miglio e Cesare Cosciani, l’appropriazione politica (o spoliazione politica o rendita politica) è stata ampiamente analizzata da scienziati politici e economisti italiani, come Fortunato, Puviani, Mosca, Michels, Santangelo Spoto.

Tuttavia è una concezione/constatazione che, per questo ovvia e applicabile ad ogni regime politico (e non solo alla democrazia), è nel           comportamento – universale – dei governanti ossia delle “classi elette”. E per ciò poco frequentata dagli intellettuali di regime (o di Corte).

Se applichiamo, la distinzione, risalente a Pantaleoni, degli assetti finanziari dei rapporti governanti/governati, abbiamo tre “assetti”: predatorio, parassitario e tutoriale. La cui connotazione (preferibile da chi scrive) è che l’ultimo sia di un rapporto equilibrato e “sinallagmatico” tra élite e governati; il parassitario di una condizione di sfruttamento, non tale però da far deperire l’organismo ospite (cioè la comunità); il terzo, predatorio, che la fa deperire, talvolta portandola alla fine (cioè al termine del ciclo politico).

Applicando tale criterio, con la “seconda repubblica” (centrosinistra soprattutto, ma comunque centrodestra compreso, anche se responsabile minore) siamo passati dall’assetto parassitario della “prima repubblica”, caratterizzato da crescente prelievo fiscale, ma addolcito da una crescita economica notevole (le élite, per tale aspetto, migliori dall’Unità d’Italia), a un prelievo fiscale aumentato ulteriormente, malgrado la stagnazione economica più che ventennale nella “seconda repubblica” (la peggiore di sempre dal 1861). Non c’è da meravigliarsi, preoccupati da un tale sfascio storico, che il 4 marzo il popolo italiano abbia dato alle “elette” il benservito.

Teodoro Klitsche de la Grange

Perché siamo privi di una cultura strategica?, di Piero Visani

Qui sotto un saggio di Piero Visani, già pubblicato nel 2013. L’interesse, ovviamente, scaturisce dall’analisi dell’approccio di fondo che ha mosso le scelte di politica estera e di intervento militare delle classi dirigenti del nostro paese piuttosto che dall’approvazione o meno delle specifiche azioni nelle particolari contingenze politiche_Giuseppe Germinario

Perché siamo privi di una cultura strategica?

https://derteufel50.blogspot.com/2013/11/perche-siamo-privi-di-una-cultura.html?fbclid=IwAR3gPdagjKsfdP0q18-25135cqqH9I3TizVy-2-p_SL2m52DW78P5jxmCEQ
Peter Pace, Edmund Giambastiani, addirittura Marilyn Quagliotti: se si guarda al vertice militare delle Forze Armate statunitensi, vale a dire al braccio armato della maggiore potenza mondiale, i cognomi di origine italiana non mancano certo e occupano posizioni di assoluto prestigio. Peter Pace è un marine, addirittura il primo che sia riuscito a raggiungere l’ambita carica di Chairman of the Joint Chiefs of Staff, l’equivalente del nostro Capo di Stato Maggiore della Difesa; Edmund Giambastiani è oggi al vertice militare della NATO, dopo essere stato ai massimi livelli dell’U. S. Navy. Marilyn Quagliotti è un generale a due stelle dell’Esercito con il prestigioso incarico di vicedirettore della DISA (Defense Information Systems Agency) e anche lei – come i suoi due più titolati colleghi e forse in misura ancora maggiore, visto che si tratta di una donna – smentisce quelli che potremmo definire i luoghi comuni sulla “ridotta attitudine militare” degli italiani. Quello che si vuole dire, in sostanza, è che non si arriva ai vertici dell’apparato militare statunitense se non si hanno qualità di un certo tipo e, tra queste, la “ridotta attitudine militare” non è certamente un requisito necessario, anzi.

Malgrado ciò, malgrado il fatto che sia possibilissimo per elementi di chiara origine italiana farsi strada fino ai massimi gradi della più importante organizzazione militare del mondo, lo stereotipo di “mandolinai e pizzaioli”, di gente inaffidabile, che non sa battersi e tanto meno lo ama, ci perseguita da tempo. A quando risale la genesi di questo dato storico negativo? Tralasciando i repentini capovolgimenti di fronte che hanno fatto la storia di casa Savoia, cioè della casata che ha svolto un ruolo determinante nella storia d’Italia, e che tuttavia si riferiscono molto più alle sue vicende preunitarie che a quelle successive, è possibile trovare parecchie tracce di inaffidabilità e di scarsa propensione al combattimento nella storia italiana. Un esempio classico di inaffidabilità politica è rappresentato dai “giri di valzer” che caratterizzarono l’Italia giolittiana, con l’appartenenza formale alla Triplice Alleanza con gli Imperi centrali e le scelte politiche successive, esattamente antitetiche, che portarono l’Italia ad entrare nella Grande Guerra dalla parte dell’Intesa. A sua volta, un esempio classico di scarsa propensione al combattimento è rappresentato dalla rotta di Caporetto[i] e dai fenomeni che si verificarono durante ed a seguito della medesima, con i ben noti casi di “sciopero militare” mai troppo indagati da un lato e strumentalmente utilizzati per coprire le macroscopiche deficienze professionali degli alti comandi e del corpo ufficiali dall’altro.

Certo è che già al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale la tesi che gli italiani “non sapessero” o “non amassero battersi” era una voce piuttosto diffusa e radicata, se tutti gli interventisti, compresi quelli della Sinistra nazionale[ii], reclamarono con forza la scelta della via delle armi proprio per smentire, anche e soprattutto con il loro personale esempio, tale fama disonorevole. Il loro sacrificio non fu vano, non solo perché portò alla vittoria del 1918, ma anche perché consentì il lievitare nel nostro Paese di un fenomeno come quello dell’arditismo, autentica smentita vivente, con la sua valentia delle armi e la sua estetica della morte, dei troppi luoghi comuni che circolavano a carico delle qualità militari degli italiani.

Sfortunatamente per i nostri destini di Nazione, la contrapposizione tra “i soliti quattro gatti” capaci di fare miracoli con l’ardimento e l’inventiva, e un’istituzione militare burocratica, misoneista, professionalmente discutibile e tecnicamente inetta, corrosa dal carrierismo e da clientelismi di tutti i generi, è una “sottile linea rossa” che percorre la storia nazionale dal 1918 in avanti, intinta (ci si perdoni la retorica, ma è necessaria) nel sangue dei suoi figli migliori: dalle intuizioni di Giulio Dohuet sul bombardamento strategico a quelle di Teseo Tesei sulla possibilità di usare mezzi navali modestissimi come moltiplicatore di forza di un Paese povero e scarsamente industrializzato, dalle imprese grandi e piccole degli eroi, noti e meno noti, della seconda guerra mondiale a fenomeni di “estetica della guerra” come la carica del “Savoia Cavalleria” ad Isbuschenskij (estate 1942), è tutta una storia di occasioni perdute, di opportunità vanificate, di sacrifici utili solo come prove testimoniali (e solo per chi fosse in grado di apprezzarli), affondati in un sistema di colossale inefficienza, di ritardo tecnologico, di compiaciuta autoesaltazione della propria ignoranza.

Il dramma vero, tuttavia, avviene dopo ed è quell’8 settembre 1943 che, a tutti gli effetti, segna la “morte della Patria”[iii], che getta deliberatamente una “Nazione allo sbando”[iv], che invia “tutti a casa” (almeno quelli che vorranno e riusciranno a tornarci) non soltanto in senso stretto, ma in senso lato, inducendoli a confondere il loro focolare, il loro piccolo Heimat, con la loro casa unica e vera – l’Italia -, privandoli di un senso di comunità, di Nazione, di destino che non fosse riservato alla loro dimensione personalissima e privatissima, inducendo gli uni a vergognarsi del passato e gli altri a vergognarsi del futuro, creando una dimensione di guerra civile permanente che ancora non si è ricomposta – e difficilmente appare in grado di ricomporsi – in una memoria condivisa, in cui non ci sia più da vergognarsi di alcunché.

Fatto oggetto di una pesante rimozione storica, ovviamente tutt’altro che disinteressata, in quanto intorno ad esso ruota tutta la legittimità di ciò che è venuto dopo, l’8 settembre è scarsamente compreso dagli italiani non solo nei suoi effetti sul piano interno, ma anche e soprattutto su quello internazionale. Un esercito che cessa di battersi e si sfascia in preda a varie forme di dissoluzione, dall’ammutinamento[v] alla fuga di massa; una flotta che si consegna al nemico, sono tutti fenomeni che non potevano certo rafforzare la stima del mondo nei confronti delle capacità belliche degli italiani, che peraltro già durante il secondo conflitto mondiale non erano certo rifulse per colpa di una classe militare di livello professionale decisamente basso[vi] e talvolta pure di dubbia lealtà.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, si apre una nuova fase storica, ma l’8 settembre è lì e non si può toglierlo facilmente di mezzo. E’ una presenza ingombrante, ma in realtà è molto più ingombrante – per le forze politiche emerse vittoriose dagli sconvolgimenti della guerra – la presenza di forze militari nazionali in quanto tali, perché nessuno le vuole: non le vogliono i comunisti, che le considerano l’unico ostacolo vero all’auspicato passaggio dell’Italia dal blocco occidentale a quello sovietico, ma non le vogliono e si limitano a tollerarle anche i moderati raccolti intorno alla Democrazia cristiana che, come cattolici, nutrono una più o meno spiccata diffidenza (a seconda del loro livello di riferimento agli orientamenti dottrinali delle origini) nei riguardi di tutto ciò che è militare.

Su questo sfondo, l’Italia repubblicana nasce afflitta da un’anomalia che è al tempo stesso una gravissima debolezza strategica: dispone di forze militari, perché non esiste Paese al mondo degno di questo nome che non ne disponga e perché la sua posizione al confine tra due blocchi in conflitto non è tale da consentire alle sue classi dirigenti di esserne priva, ma tali forze risultano totalmente delegittimate. Delegittimate sul piano politico, perché nessuno dei grandi partiti di massa le ritiene degne di rispetto, in quanto retaggio di un passato deprecabile (quello del militarismo fascista[vii]), e delegittimate sul piano culturale non solo perché la Costituzione repubblicana “ripudia la guerra”, ma soprattutto perché nessuno, all’interno del Paese, ragiona più in termini di sovranità nazionale (di cui le Forze Armate costituiscono ovviamente la massima espressione), ma solo di appartenenza a blocchi politici, ideologici ed economici contrapposti.

L’Italia del secondo dopoguerra è dunque una Nazione priva di una cultura militare e di una cultura strategica, e, conseguentemente, di una cultura nazionale. Non riesce dunque ad immaginarsi come Nazione, il che può anche essere comprensibile, considerato l’esito avuto da oltre due decenni di retorica ultranazionalista del fascismo, ma è terribilmente problematico. Cerca nuove forme di vita e di identità, nella forse comprensibile ma certo assurda speranza di definire nuovi percorsi, di trovare nuove strade, di inventare nuovi modelli di identità nazionale.

Questo potente complesso di illusioni trova facile alimento negli anni della “Guerra fredda”, quando il blocco moderato riunito intorno alla Democrazia cristiana non ha e deve avere altra preoccupazione se non quella di consumare la sicurezza prodotta da altri, in primo luogo dagli americani. Il contributo che le è richiesto è di tipo soprattutto formale: una struttura militare per certi versi piuttosto grande, in grado di articolarsi su divisioni e brigate da schierare al confine orientale, a difesa da un potenziale attacco del Patto di Varsavia. Su quale poi sia la reale consistenza operativa di tale struttura, non è il caso di soffermarsi troppo: chiunque abbia prestato il servizio militare obbligatorio in quegli anni ricorderà la modesta efficienza dei reparti e l’assai carente (usiamo un eufemismo) livello di tensione morale che li pervadeva. Non mancavano le eccezioni in positivo, sia chiaro, ma si perdevano nel mare magnum di un’istituzione che dava palesemente prova di non credere in se stessa (e lo si vedeva benissimo).

Questa situazione di privilegio, questa possibilità di consumare a basso costo la sicurezza prodotta da altri, è venuta progressivamente a mancare nel momento in cui, con la fine della “Guerra fredda” e il collasso dell’URSS e del blocco sovietico, l’Italia, come molti altri Paesi europei, si è trovata nella necessità di trasformarsi da consumatrice a produttrice di sicurezza, di definire un interesse nazionale e delle priorità strategiche atte a tutelarlo. Per noi, infatti, si è trattato di un autentico trauma e non eravamo in alcun modo attrezzati ad affrontarlo.

Fino a quel momento, l’appartenenza ad un blocco militare come la NATO ci aveva consentito di nascondere dietro un profilo internazionale le nostre carenze puramente nazionali. Nella nuova realtà, però, quel gioco delle parti non era più riproducibile. Occorreva assumersi responsabilità in proprio e, per farlo, eravamo totalmente privi degli strumenti adatti.

Lo strumento per eccellenza, cioè le Forze Armate in quanto tali, era ancora il problema più facile da risolvere: era sufficiente riconfigurarlo sulla base delle nuove realtà del mutato quadro strategico internazionale. Malgrado ciò, c’è voluto un quindicennio prima che il nostro corpo ufficiali si piegasse all’esigenza di dotare il Paese di uno strumento militare professionale su base volontaria. C’era tutto da guadagnare, in un passaggio del genere, in termini di legittimazione funzionale, visto che sarebbe profondamente mutata in senso professionale la natura dell’organizzazione militare, ma al contrario è stato fatto ogni sforzo per evitare questo approdo, peraltro inevitabile, nella difesa di uno status quo ispirata a considerazioni le più diverse, ma certo non professionali.

I veri problemi, tuttavia, erano altri e consistevano essenzialmente nel dotare il Paese di una cultura strategica e di una cultura militare. Ma – e qui sta il punto – le due forze politicamente dominanti nel Paese, quella cattolica e quella comunista, erano impossibilitate a farlo dalla loro natura sostanzialmente a-nazionale, dal loro riferirsi ad ideologie internazionaliste profondamente diverse, ma certo prive di qualsiasi ispirazione nazionale. Occorreva trovare una soluzione che consentisse all’Italia di continuare a sviluppare una delle sue peculiarità storiche più negative, vale a dire fingere di fare quello che facevano gli altri, quando in realtà faceva qualcosa di profondamente diverso o, più probabilmente, non faceva nulla. Non c’era alcuna possibilità di sviluppare un concetto di interesse nazionale e tanto meno una cultura strategica nazionale, poiché la cosa fuoriusciva completamente dall’orizzonte culturale e si sarebbe tentati di dire anche antropologico di una classe dirigente che, per basse ragioni di bottega, aveva commesso il grave errore di identificare fascismo e Nazione, con la conseguenza che, invece di fare particolari danni al primo, ormai sconfitto, erano state inferte ferite irreparabili alla seconda, con esiti catastrofici per il futuro del Paese e della sua stessa percezione di sé. Ci sarebbe da interrogarsi a lungo se ciò sia avvenuto a caso o per una scelta politica precisa, ma non è questa la sede. Quel che conta davvero è che, nel momento in cui i mutamenti della politica internazionale richiedevano all’Italia un maggiore protagonismo in termini di produzione di sicurezza, il nostro Paese non disponeva di una cultura che gli consentisse di farlo. Semmai, era da tempo in preda ad una subcultura fatta di stereotipi negativi, di lassismo, di menefreghismo palesemente intesa a far pascere gli italiani, per di più con soddisfatto autocompiacimento, nei loro peggiori difetti, contenti di autorappresentarsi (non necessariamente di essere) nel modo peggiore possibile. E’ sufficiente pensare a certo cinema od a certa letteratura, in cui l’italiano o è cialtrone o non è, nel senso che la cialtroneria viene deliberatamente promossa come dato consustanziale, e ovviamente irrinunciabile, dell’identità nazionale[viii].

Poiché era inammissibile sottrarsi ad obblighi che scaturivano dalla nostra posizione internazionale ed anche da vincoli di alleanza e solidarietà con il mondo occidentale, la via che all’inizio degli anni Ottanta venne scelta per giustificare una sempre maggiore presenza italiana in campo internazionale, presenza affidata essenzialmente alle sue forze militari, fu quella delle “missioni di pace” che, a cominciare dal Libano (1982-1984), presero a diventare la stucchevole litania di accompagnamento di qualsiasi impegno italiano all’estero.

Come è fin troppo noto, c’era e c’è ben poco di realmente pacifico nelle missioni che hanno accompagnato il crescente impegno militare italiano all’estero degli ultimi due decenni. Nella maggior parte dei casi, erano interventi di stabilizzazione e – quel che è davvero importante rilevare e che tutti tendevano (e tendono) invece a sottorappresentare -, se la finalità di fondo era innegabilmente pacifica, non altrettanto lo erano (e non avrebbero potuto esserlo) le modalità di intervento, che, per evidenti motivi tecnici, erano invece di stampo militare tradizionale. Questo secondo aspetto è sempre stato deliberatamente nascosto, persino in occasione di eventi come la battaglia al check point “Pasta” a Mogadiscio (2 luglio 1993), mentre avrebbe dovuto essere rappresentato, anzi sovrarappresentato, anche per rispetto nei confronti dei nostri militari, dal momento che i giusti obiettivi di stabilizzazione di fondo dovevano essere talvolta ottenuti con il ricorso alle armi.

Anche se la nostra classe dirigente – politica e non – tende a negarlo (con pochissime eccezioni di rilievo, ad esempio il generale Carlo Jean), il vero problema di credibilità strategica internazionale dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e l’8 settembre 1943 consiste nel ricostituirsi una credibilità militare. Una grande opportunità in questo senso sarebbe stata offerta dalla partecipazione di una brigata terrestre alla Guerra del Golfo del 1990-91, dato che quel conflitto, che si svolgeva all’interno di una precisa deliberazione dell’ONU, godeva di una legittimazione politica assoluta, che nessuno avrebbe potuto scalfire. Per contro, si è preferito optare ancora una volta sull’impegno aereo e su quello navale, rinunciando a quello terrestre, molto più visibile e impegnativo. O, peggio, si è preferito arrivare con una presenza terrestre in forze a cose fatte, come nel caso del secondo conflitto iracheno, svoltosi peraltro in un quadro di legittimità internazionale assai più fragile, ciò che comunque è servito, in negativo, a consolidare a nostro carico una robusta fama di profittatori. Così come lo sono serviti, sempre in negativo, i milioni di dollari pagati ai rapitori in tentativi più o meno riusciti di recupero di ostaggi, esperiti pure quando un blitz di forze speciali, condotto anche non da soli ma in stretta collaborazione con gli americani, avrebbe enormemente giovato alla nostra immagine internazionale e alla nostra stessa autostima[ix].

La motivazione che viene addotta costantemente a scusante di comportamenti così timidi, rinunciatari o addirittura sgradevoli, da parte della dirigenza politica e militare, è che il Paese, nella sua intima essenza, non avrebbe la fibra per resistere ai drammi ed alle sofferenze di un conflitto. Gli eventi di Mogadiscio e quelli ben più gravi e recenti di Nassiriya (12 novembre 2003) hanno dimostrato invece esattamente il contrario, vale a dire che l’opinione pubblica italiana non è formata da “mammoni” o da vili, ma da cittadini consapevoli che qualunque tipo di impegno internazionale impone i suoi costi, anche in termini di vite umane. In tali occasioni, quindi, non ci sono state manifestazioni di piazza contro il governo, ma un dolore sentito, commosso, composto e partecipe, che spesso ha dato luogo a partecipazioni di folla assolutamente inattese a cerimonie, ufficiali e non, di omaggio ai caduti.

Il problema della mancanza di una cultura strategica non è dunque un problema di base, ma di vertice e, in particolare, di quella che è l’autorappresentazione degli italiani da parte della cultura dominante. Quello italiano è un popolo come gli altri, con pregi e difetti. Quella che è assolutamente peculiare, al punto da costituire un’autentica anomalia, è l’incultura strategica che viene diffusa dal vertice, un vertice che a nessun livello – politico, militare o culturale – riesce ad immaginare l’Italia come Nazione e i suoi cittadini come popolo, come comunità nazionale.

Questa non è purtroppo una novità: se guardiamo alla storia unitaria, i peggiori insuccessi militari italiani, da Adua[x] a Caporetto, dalle tante sconfitte della seconda guerra mondiale all’8 settembre, non sono frutto della codardia popolare, ma della gigantesca insipienza di una classe dirigente, politica e non, che di dirigente aveva soltanto il nome ed i relativi privilegi, non certamente la capacità di acquisire competenze di vertice e tanto meno quella di assumersi le proprie responsabilità. Spesso, nella storia nazionale, le masse si trovano in situazioni difficili e disperate e, salvo pochissime eccezioni, fuggono. Ma chi le ha messe in quelle condizioni, chi le ha gettate irresponsabilmente allo sbaraglio? Chi ha commesso errori politici e tecnici macroscopici? Chi, al momento buono, non si è fatto trovare con i propri soldati a condividere la sconfitta, ma già pronto a ricostruirsi una verginità, a rifarsi una carriera, a far dimenticare le proprie colpe?

Questa irresponsabilità di vertice si è sposata, nel secondo dopoguerra, con una assoluta estraneità delle culture dominanti – cattolica e comunista – alla dimensione nazionale. E quando, nel corso degli anni Novanta, la Prima Repubblica è stata travolta dagli scandali e si è profilata per un attimo la possibilità di un cambiamento, ci si è ben presto resi conto che nessun cambiamento era possibile, dal momento che, se la dimensione politica era in crisi (poi in larga misura rientrata) non lo era per niente la dimensione metapolitica. Non a caso – e crediamo si tratti di affermazione assolutamente incontestabile – il quadro di riferimento culturale in cui si sono svolte le “missioni di pace” all’estero condotte dal governo Berlusconi è il medesimo di quelli in cui si sono svolte le missioni precedenti: lagnosa insistenza sull’ossimoro “soldati di pace”, sovrarappresentazione della “via italiana al peacekeeping” (la tesi che vuole che gli italiani – in quanto “brava gente” – siano molto più capaci di altri popoli ad entrare in relazione con le popolazioni locali: un wishful thinking che cerca di recuperare “in positivo” gli stereotipi che ci portiamo addosso in ambito internazionale – simpatici, allegroni, maniaci del calcio e delle donne, e soprattutto gente “con il cuore in mano” (che all’estero suona in realtà come “inutilmente chiassosi ed emotivi”) – per farne un punto di forza, prescindendo proprio da alcuni fattori fondamentali in certi contesti, come l’impiego della forza stessa, la credibilità e l’effettivo controllo sul territorio, e lasciando comprensibilmente cadere un velo di silenzio su pratiche non propriamente esaltanti, come l’elargizione massiccia di grandi quantità di denaro ad amici e soprattutto a nemici, potenziali e non, a fini di stabilizzazione in nostro favore delle aree affidate al nostro controllo); nessun tentativo di rilegittimazione – ovviamente graduale e progressiva – della funzione militare come funzione “guerriera”.

Sotto quest’ultimo profilo, occorre riconoscere che il governo Berlusconi, ammesso e non concesso che l’abbia cercata, non ha trovato alcuna sponda, sotto il profilo metapolitico, in ambito militare, e non solo perché, restringendo i bilanci della Difesa più ancora di quanto avessero fatto i precedenti esecutivi di centrosinistra, se ne è comprensibilmente alienato le simpatie, ma anche e soprattutto perché – e, tra tutte le anomalie fin qui riscontrate, questa è forse la maggiore – i militari italiani, a parte le solite ristrettissime eccezioni, sembrano i più contenti, da parecchio tempo a questa parte di essere ossimori viventi, di “essere non essendo”, di rinunciare consapevolmente alla loro funzione primaria (quella guerriera) per andare alla ricerca di funzioni altre che restituiscano loro una parvenza di legittimità in un contesto dove, in questo caso del tutto a ragione, percepiscono di non averne alcuna[xi]. Non è un caso che, nel nostro Paese, la più instancabile promotrice della figura risibile dei “soldati di pace” sia proprio l’istituzione militare, con qualche correttivo parziale dovuto ad una residua forma di ritegno, ma con un’insistenza degna di miglior causa. Se, infatti, una modestissima legittimazione su questo versante è stata con il tempo (forse) trovata, il problema (che, sia detto per inciso, sembra sfuggire del tutto ai militari) è che si tratta di una legittimazione a-funzionale, nel senso che sono riusciti a legittimarsi ad essere ciò che non dovrebbero essere. Non ci sembra un gran risultato.

Se si guarda a tutto questo, non è difficile approdare alla conclusione che siamo privi di una cultura strategica per il semplice fatto che siamo impossibilitati ad averne una. La cultura che in questo campo si è consolidata nel nostro Paese negli ultimi decenni è talmente solida da essere diventata – con i meccanismi tipici dei totalitarismi più raffinati, quelli “dolci” – un obbligo a cui nessuna persona di retto sentire è in grado di sottrarsi, per un automatismo di pensiero tipico delle “democrazie guidate”, che è quello per cui si è liberi di pensare ciò che ci viene chiesto di pensare. Se poi per caso questa persona fosse dotata di tanto coraggio o di tanta incoscienza, ci penserebbe il sistema di valori edificato dalla cultura dominante a sottolinearne la “diversità” (quella che si combatte a parole, quando non fa comodo evidenziarla per delegittimare l’avversario), l’estraneità, la stramberia, l’appartenenza a quella che il mondo anglossassone (che la sa lunga in materia, in quanto è l’inventore di tale sistema) è solito definire una lunatic fringe, cioè una frangia di emarginati che non è il caso di prendere troppo sul serio, in quanto lunatici, simpatico eufemismo per non dire pazzi. E’ sufficiente partecipare ad un dibattito pubblico, anche a livelli molto modesti, per constatare di persona, prima ancora di essere contrastati dal moderatore (cosa che, se si sostengono certe tesi, avviene quasi regolarmente, dovunque si sia invitati a parlare), che il problema non è ovviamente quello di esprimere liberamente le proprie idee (questo si può benissimo farlo, tanto nessuno ascolta), ma semmai essere chiamati a farlo in un contesto culturale talmente condizionato da fare apparire provenienti da un altro pianeta (ed essere trattati, per quanto cortesemente, di conseguenza).

Con questo, il cerchio si chiude, ma all’interno del cerchio non rimangono soltanto pochi malcapitati, ma un intero Paese che oggi è costretto dalla sua cultura dominante a “pensare cooperativo”, a fare continue attestazioni di becero pacifismo in una realtà che è sempre più competitiva e che potrebbe presto diventare anche conflittuale. La logica sequenziale non è uno dei punti di forza né della cultura né del carattere nazionale, ma, se venisse usata almeno una volta, potrebbe forse indurre qualche mente di funzionalità anche non superiore alla media a chiedersi quali vantaggi abbia prodotto, per l’Italia come comunità nazionale, ispirare le proprie logiche ad un “buonismo” di facciata (ché la realtà sottostante – come sappiamo – è alquanto diversa e lascia spazio a fenomeni dove il “cattivismo” malavitoso è, a tutti i livelli, assai diffuso) e ad una concezione irenica del mondo: non granché, si potrebbe dire, vista la nostra caduta a picco in tutte le più importanti classifiche internazionali, a favore di Paesi che molti italiani continuano a considerare (anche se magari, in nome del “politicamente corretto”, si astengono dal dirlo) un’accozzaglia di selvaggi.

Il fatto è che, per “pensare strategico” e per avere una cultura conseguente, occorre immaginarsi come popolo, come Nazione, come comunità di destino, non come un insieme malamente coeso di individui e interessi permanentemente in conflitto tra loro. Occorre avere un’etica della responsabilità e degli obiettivi condivisi. Occorre, in una parola, “fare sistema”, come si dice oggi, con un neologismo che può piacere o meno, ma che comunque rende bene l’idea. Sfortunatamente, poco o nulla di tutto questo sta avvenendo e la cosa non è casuale, ma frutto di crescenti ritardi culturali. Accade infatti che coloro che si ritengono all’avanguardia e che continuano a ripetere – a trent’anni di distanza – slogan che andavano bene (forse) a metà degli anni Settanta, sono ovviamente scivolati in retroguardia, anche se non se ne sono accorti. Se continuano ad avere successo, è perché detengono importanti posizioni di potere e perché i loro slogan di amore e fratellanza universali sono quelli che si sposano meglio con quell’”etica dell’irresponsabilità” che pare esercitare un’attrazione irresistibile su una significativa componente dei nostri connazionali. I fautori dell’”impegno” politico nei roaring Seventies sono diventati oggi fautori di un irenismo e di un “buonismo” che si sposa nel migliore dei modi con la paura di affrontare il mondo (e il mercato) che è tipica di chi sa che da un confronto globale ha tutto da perdere e poco o nulla da guadagnare, da chi non ha voglia di impegnarsi, di lottare, di sforzarsi, e preferisce le piccole certezze di un’esistenza garantita (che avrò per me, mio figlio – ormai è chiaro – non ne avrà alcuna: ecco uno splendido esempio di senso della comunità e della continuità…), di un anonimato, di un rifugiarsi nel cantuccio che sarebbe anche allettante, almeno per qualcuno, se potesse durare in eterno, ma che invece è frutto di un capitale faticosamente accumulato in passato ed ora in via di dissoluzione per eccesso di consumo irresponsabile.

L’”assenza dalla Storia” – il sogno neanche tanto proibito di una parte non trascurabile di italiani – è però un sogno impossibile, perché non ci si può assentare dalla dinamica storica, anche se molti provano seriamente a farlo. Su questo sfondo, la speranza che l’Italia possa cominciare a “pensare strategico” è più di un sogno, è probabilmente un’autentica utopia. Che però, come tutte le utopie, ha quanto meno il merito di indicare obiettivi, di porre traguardi. E ci si può muovere nella sua direzione per piccoli passi, senza traumi particolari, alla sola condizione di voler sottrarsi al nullismo odierno, alle parole d’ordine sbagliate, alle false verità ripetute stancamente come slogan di regimi totalitari. In caso contrario, perdurerà e ovviamente si aggraverà una condizione di vuoto culturale che è soprattutto una condizione di vuoto strategico. Quel che è certo è che, in futuro, o acquisiremo una dimensione internazionale competitiva, e tutti gli strumenti utili a farlo, tra cui una cultura strategica e una militare, o cesseremo letteralmente di esistere e ritorneremo ad essere quell’”espressione geografica” di cui parlava con disprezzo il Metternich. Il vero problema è che questa è probabilmente una prospettiva assai allettante per molti italiani.

Piero Visani

 

NOTE

 

[i] Su Caporetto, si leggano le illuminanti considerazioni di M. SILVESTRI, Caporetto. Una battaglia e un enigma, Mondadori, Milano 1984, in particolare per quanto concerne il “filo rosso” che lega l’”Italia caporetta” a quella dell’8 settembre 1943 e, per molti versi, a quella di sempre.

[ii] In proposito chi scrive, giovane laureando in Storia all’Università di Torino con una tesi di storia militare, all’inizio degli anni Settanta ebbe il privilegio di raccogliere in tal senso la testimonianza diretta di uno dei massimi storici militari italiani, Piero Pieri, ormai molto anziano ma ancora lucidissimo nel riaffermare la propria volontà, quale interventista di Sinistra, di “dimostrare al mondo che gli italiani sapevano battersi”.

[iii] Sul tema, resta fondamentale il saggio di E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996.

[iv] Sul tema si legga l’interessantissimo saggio di E. AGA ROSSI, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, nuova edizione, Il Mulino, Bologna 1998.

[v] Sono note, ad esempio, le polemiche sulla reale natura dei fatti di Cefalonia del settembre 1943.

[vi] Si leggano, sul tema, le impietose ma in larga misura condivisibili valutazioni di G. ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005.

[vii] La questione meriterebbe un’indagine a parte. Quello che si può dire in questa sede è che, se il fascismo fosse stato realmente militarista, al di là di qualche modesta esibizione di facciata, avrebbe fatto ogni sforzo per ammodernare le forze armate e, soprattutto, per sottrarle al controllo di un corpo ufficiali ottusamente conservatore, misoneista e, in non pochi casi, professionalmente incompetente.

[viii] Per fare un esempio molto chiaro, si pensi all’interpretazione di uno sport molto popolare come il calcio in due film diversi, ma entrambi piuttosto noti (il secondo addirittura premiato con l’Oscar per il migliore film straniero nel 1992): Fuga per la vittoria (Escape to Victory) di John Huston (1981) e Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991). Nel primo, il calcio è uno strumento con il quale dei combattenti, per quanto in misura largamente prevalente civili in uniforme e non soldati di professione, cercano di ridicolizzare il nemico e al tempo stesso di farne uno strumento per sottrarsi alla prigionia; dunque è un mezzo, non un fine. Nel secondo, il calcio è la rivendicazione dell’identità nazionale: nel mezzo di una bufera planetaria, la partitella (neppure una partita regolare in uno stadio vero, come nel film precedente) in un campetto di fortuna di un’isola greca è il modo per riconoscersi, per affermare (sic) un sé, per trasmettere al mondo il messaggio: “gli altri facciano pure le guerre, noi ci facciamo la partita” e – quel che è peggio – ci riconosciamo come tali solo quando la facciamo. Qui dunque il calcio è un fine, non un mezzo; è il punto di convergenza di un’identità fragile, è l’esteriorizzazione dell’irresponsabilità più totale.

[ix] Su questo sfondo, la vicenda di Fabrizio Quattrocchi e della sua nobilissima rivendicazione a “far vedere come muore un italiano” si pone a livelli di altezza tali da risultare gravemente stridente con il resto. Il che ne accresce ovviamente la portata.

[x] Su Adua e la mancanza di preparazione e di professionalità che già in quella circostanza (ma c’erano illustri precedenti come Custoza e Lissa nel 1866) venne palesata dalla classe militare italiana, si veda D. QUIRICO, Adua. La battaglia che cambiò la storia d’Italia, Mondadori, Milano 2004.

[xi] Il tema in questione è sostanzialmente tabù nel nostro Paese, per cui, essendo chi scrive uno dei pochi che ha cercato di svilupparlo, per altro in semiclandestinità, è purtroppo costretto a ricorrere all’autocitazione: cfr. P. VISANI, Forze Armate, mass media ed opinione pubblica nell’Italia attuale. Cause e problemi di un difficile rapporto, Roma 1994

La cappa, di Piero Visani

La cappa

da https://derteufel50.blogspot.com/2018/11/la-cappa.html?spref=fb&fbclid=IwAR1Q1oyDyb6lv3L-sF04SigW6nuSOYGFEICVOtUEv0b6D3xd0jZWxmu0s4c
       I discorsi del presidente Mattarella in occasione del 4 Novembre e non pochi altri interventi di esponenti della casta politico-culturale che ancora grava su questo sfortunato Paese hanno avuto la splendida peculiarità di illustrare con estremo vigore quanto grande si sia fatto il distacco tra “Paese legale” e “Paese reale”.
       Da una parte, il “Paese legale”, con i suoi stanchi e sempre più vuoti riti, il suo cattocomunismo d’accatto, le sue cerimonie da sacrestia, i suoi sepolcri imbiancati, le sue mummie, le vittime delle guerre e le vittime di certe contiguità (à la Emanuela Orlandi…), il suo universo di (dis)valori in cui ormai si riconoscono in sempre meno, anche se quei sempre meno hanno occupato militarmente la società civile, mentre quelli che in teoria avrebbero dovuto loro opporsi gli facevano semplicemente il verso, presi in questioni di veline e olgettine, e di affari più o meno leciti.
        Dall’altra, il “Paese reale”, quello delle nostre famiglie, dei vostri nonni e di mio nonno, preso prigioniero durante la Strafexpedition del 1916 ma sufficientemente onesto, dopo due anni di prigionia in un Paese nemico come l’Ungheria, da riconoscere che la popolazione ungherese, pur ridotta alla fame dal blocco navale praticato dagli Stati dell’Intesa contro gli Imperi Centrali, era umana al punto da risultare capace di dividere il pochissimo che aveva con i prigionieri italiani.
       Quel “Paese legale” ormai esiste SOLO per coloro che ne fanno parte e le sue stracche giaculatorie sembrano figlie di un’altra epoca a molti di coloro che sono costretti ad ascoltarle, con crescente, insostenibile disgusto. Ai più acculturati sotto il profilo filmico, sembra di stare dentro “La notte dei morti viventi”. Ai più acculturati sotto il profilo politico-culturale, non posso dire che cosa sembra, perché non intendo beccarmi una querela.
       E i milioni di cittadini del “Paese reale”, quando sentono le note de “La canzone del Piave“, si emozionano, si commuovono, gioiscono, perché sanno che quella guerra terribile fu il completamento della nostra unificazione nazionale. I “sepolcri imbiancati”, per contro, non riescono ad emozionarsi di niente e per niente, ma non è che di morti, guerre e uccisioni non se ne intendano, come cercano di farci credere.
      La cappa metapolitica che grava sull’Italia, tuttavia, è ai suoi colpi di coda, anche se molti devono ancora comprendere che, se non si crea una narrazione alternativa a quella dominante, i progressi verso questo inevitabile cambiamento saranno più lenti di quanto si possa auspicare. Ma i tempi stanno cambiando, e i NEMICI DELLA VITA non riusciranno a fermare questo processo, anche se faranno ogni sforzo per ritardarlo.
                   Piero Visani
 
 

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! , di Gianfranco la Grassa

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! UN DIBATTITO NON INUTILE

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/riandiamo-un-po-alla-storia-un-dibattito-non-inutile

  1. Nel 1972, su Critica marxista, uscì un articolo di Emilio Sereni, improntato allo “storicismo” tipico del marxismo italiano, che di fatto lanciò un dibattito sulla centralità o meno, nel marxismo, dello sviluppo delle forze produttive o invece della trasformazione dei rapporti di produzione, ai fini del passaggio da una formazione sociale all’altra, cioè da un modo di produzione, considerato il nocciolo fondamentale della formazione sociale, ad un altro. A Sereni rispose Luporini; e da lì iniziò appunto il dibattito che vide la partecipazione di molti studiosi marxisti, in particolare italiani e francesi, fra cui Althusser e alcuni della sua scuola. A quel dibattito partecipai anch’io, da poco tornato dal soggiorno a Parigi (all’EPHE, oggi EHESS) dove avevo studiato con Bettelheim, passato all’impostazione althusseriana dopo un periodo di maggiore ortodossia. In seguito a quel dibattito si formarono in Critica marxista alcuni gruppi di studio sui modi di produzione divisi per fase storica: quello antico (e schiavistico), quello feudale, quello capitalistico e il modo di produzione asiatico. Il terzo si sarebbe dovuto interessare anche della formazione sociale di transizione al socialismo. In definitiva, l’unico gruppo che funzionò fu quello sul modo di produzione antico (diretto da Aldo Schiavone), che pubblicò anche un volume con gli Editori Riuniti.

Quel dibattito, se seguito da qualcuno ignaro di marxismo e comunismo, poteva forse apparire quasi “teologico”. In ogni caso, non credo che la maggior parte dei “militanti di base” del Pci fosse in grado di capire che cosa si giocava in esso; anche se poi, alla fin fine, non fu giocato quasi nulla perché il Pci non era disponibile ad alcuna rimessa in discussione della propria linea, tanto più che la prevalenza nel partito stava andando alla nuova segreteria berlingueriana, addirittura interessata al “trasferimento” verso il capitalismo occidentale (io avrei dovuto capirlo fin dall’autunno del ’71 in seguito ad un importante incontro alle Botteghe Oscure; rimasi invece perplesso e afferrai il problema un po’ più tardi, comunque ben prima di altri e del famoso viaggio di un “plenipotenziario” piciista nel 1978, in costanza di rapimento Moro). In ogni caso, la nuova direzione del Pci non era per nulla intenzionata a disquisire su problemi come quelli dibattuti a “Critica marxista” nel ’72, riguardanti di fatto la lotta al capitalismo e la possibilità di transizione al socialismo. Tuttavia, è interessante comprendere il senso ultimo di quella discussione poiché si tratta, da una parte, di qualcosa di non irrilevante per la storia del comunismo e del suo pensiero; e poi perché serve a rendersi conto come, dietro a questioni apparentemente teoriche, considerate dai più astruse, si celino precise scelte di linea politica, che guidano poi determinate pratiche delle varie forze in campo.

Affinché si renda più comprensibile quanto si discusse allora ricordo brevemente, e non con intenti professorali, che le forze produttive venivano distinte in soggettive ed oggettive. Le prime riguardano la capacità lavorativa umana, con le sue prerogative e abilità specifiche (se ci sono); le seconde si riferiscono alle condizioni della produzione esterne a detta capacità lavorativa, quelle su cui quest’ultima si esercita (ad es. la terra o varie materie prime da essa fornite) o che l’assistono nella lavorazione come la strumentazione e la tecnologia (e quindi la scienza che ne è pur sempre alla base), ecc. Tale distinzione va ricordata perché la polemica contro la tesi del primato delle forze produttive si è spesso esercitata con riferimento a quelle oggettive – tutte le ciance sulla necessità di rallentare lo sviluppo e la stessa ricerca scientifica, tornando a tecnologie ritenute più blande e meno dannose per la natura – mentre esalta, in realtà relegandola al compimento di maggiori sforzi e fatica, la capacità di lavoro del “soggetto umano” (o dell’Uomo).

E’ bene tenere presente che quel dibattito era comunque condotto tra studiosi con una buona, o almeno più che discreta, conoscenza del marxismo, a differenza di quelli che seguiranno dopo l’infausto ’68 (scusate se ormai lo valuto abbastanza negativamente), una vera débacle per il Marx scienziato delle diverse formazioni sociali succedutesi nella storia della società umana; e, in particolare, di quella capitalistica. La conoscenza comune di allora consentiva una polemica a volte aspra, ma appunto condotta alla guisa di quelle dottrinarie interne ad un’unica religione; la discussione, cioè, avveniva in base ad una terminologia teorica in larga parte condivisa, caratterizzata soltanto da differenziazioni nell’interpretazione e nelle conseguenze pratiche che ne derivavano. In definitiva, nella polemica ci s’intendeva, si sapeva bene dove erano situati i punti di contrasto; e si era ben consci del significato politico del dissenso, non riguardante esclusivamente i “massimi sistemi”, le “alte concezioni” dell’Umanità e dei suoi “destini ultimi”.

Insomma, anche i filosofi marxisti, in quanto reali conoscitori di tale corrente di pensiero e delle sue finalità in tema di lotta per il comunismo, erano ben consapevoli della posta in gioco: la linea politica adottata dalle varie organizzazioni denominate comuniste. Oggi, tutto questo non esiste più. Ci sono filosofi vaneggianti e scienziati alla ricerca di nuovi paradigmi teorici per comprendere le dinamiche dell’attuale formazione sociale (o formazioni sociali), in cui solo dei visionari pseudocomunisti (o degli incalliti vetero-anticomunisti) possono credere esista ancora qualcosa da definirsi comunismo o anche solo socialismo. Il povero Marx è stato triturato e ricondotto al minuscolo cervello dei miseri e opportunisti intellettuali dell’ultimo mezzo secolo. Ogni discussione con simili personaggi appare ormai sterile; allora no, il contrasto tra marxisti aveva un senso e notevoli effetti pratici.

 

  1. Lo scopo politico della discussione, tralasciando i “tesori” di dottrina che comunque venivano esibiti, si può, credo, sintetizzare come farò qui di seguito. I teorici delle forze produttive – cioè del loro sviluppo in quanto molla decisiva (pur con la possibilità di qualche “azione di ritorno”: dai rapporti alle forze) della trasformazione dei rapporti sociali di produzione e dunque dell’intera società – sostenevano tale tesi per giustificare l’attendismo, l’accoccolarsi entro i meccanismi di riproduzione dei rapporti nelle società del campo capitalistico (“occidentale”), coadiuvando di fatto i loro gruppi dominanti con la scusa che non era ancora matura la trasformazione sociale per l’immaturità dello sviluppo delle forze in oggetto.

Ovviamente, questa tesi centrale era contornata da tutta una serie di altre argomentazioni, che fungevano da sua “cintura protettiva”, soprattutto tesa però a creare una fitta nebbia in cui non si intravedesse il nocciolo centrale: l’attendismo e il ripiegamento su posizioni di sostanziale supporto (subordinato) allo sviluppo capitalistico. Vi erano i discorsi sull’utilizzo della “democrazia” parlamentare (cioè elettoralistica, dunque nulla a che vedere con il preteso “governo del popolo”) per accrescere l’influenza delle “masse lavoratrici” sulle classi dominanti, considerate solo in quanto proprietarie private dei mezzi produttivi (e dei capitali monetari). Si trattava in realtà di captare i voti di queste masse per essere accettati all’interno dei gruppi di vertice e integrarsi nel sistema dei meccanismi (ri)produttivi del capitale, in modo che una parte dei dirigenti (in specie sindacali o di cooperative) potesse accedere alla proprietà capitalistica stessa, mentre l’apparato di partito sarebbe divenuto l’organo privilegiato di rappresentanza nella sfera politica di questi nuovi spezzoni di classe dominante. Non avvertite un che di odierno?

Un gran battage fu sollevato intorno al fumoso discorso concernente le “riforme di struttura” (cardine dell’altrettanto nebbiosa “via italiana al socialismo”), di cui mai si precisò con nettezza il significato e la portata; le proposte in merito furono appena abbozzate e tutto sommato avanzate per fare scena, e nascondere alla “base” il proprio progressivo cambio di casacca (scrissi sull’argomento un preciso articolo nei primi anni ’70, che è stato pubblicato qualche anno fa nel sito Conflitti e strategie). Infine vi fu il blaterare sull’appoggio all’industria “pubblica”, che doveva servire a contrastare, e dunque calmierare, le pretese arroganti del monopolio privato. In realtà, era più facile contrattare vie di collaborazione con i gruppi dominanti – chiedendo fra l’altro di essere accettati quale una delle loro rappresentanze nella sfera della politica – attraverso contatti con le frazioni dei partiti governativi aventi influenza sui (o che subivano l’influenza dei) gruppi manageriali delle grandi imprese “pubbliche”. Ve l’immaginate un membro del Pci, o un aderente stretto al partito, che facesse in quegli anni carriera nelle alte o almeno medio-alte vette delle grandi imprese private? Fiat, Pirelli, Olivetti o che so io potevano al massimo finanziare giornali e case editrici, in cui facevano “bella mostra” di sé intellettuali pseudo-comunisti: o di stampo riformista o di quel tipo “ultrarivoluzionario” che serviva a far meglio risaltare il “buon senso” del riformismo (su cui poi del resto è ripiegata la stragrande maggioranza degli “ultrarivoluzionari”). Invece, nelle imprese “pubbliche” si trovava, anche ai piani alti o medio-alti del management, un certo numero di individui addestrati nell’imprenditoria “rossa” (sic!); talvolta in modo palese, altre volte copertamente, ma comunque sempre ammessi nella stanza delle decisioni dei dominanti.

Questa era comunque la “cintura protettiva” – per subornare le “masse” – della più dotta tesi circa la centralità dello sviluppo delle forze produttive: tesi, però, nella versione in uso nei partiti comunisti del campo capitalistico e specialmente nel PCI. Nel campo socialista – che tale non era mai stato, ma lo si è capito un po’ tardi; e ancora adesso buona parte degli scribacchini, di qualsiasi orientamento ideologico, nemmeno lo sospetta – la tesi in oggetto era presentata in forma diversa. In tale area si sosteneva che i rapporti sociali erano già per l’essenziale stati trasformati; non però in rapporti comunisti, come pensano alcuni ignorantissimi intellettuali e politicanti odierni, bensì più semplicemente in rapporti socialisti, primo stadio del comunismo. Il problema fondamentale sarebbe stato allora rappresentato da un certo qual avanzamento dei rapporti rispetto allo sviluppo suddetto; si riteneva quindi indispensabile adeguare quest’ultimo ai rapporti.

In ogni caso, in entrambi i filoni di quel movimento comunista da noi (che ci pensavamo autentici marxisti-leninisti) accusato di “revisionismo”, si affermava che bisognava prestare massima, e centrale, attenzione alle forze produttive. Così agendo, si sarebbe finalmente preparata la base per la trasformazione dei rapporti capitalistici; e in modo indolore, non violento, senza rivoluzione, con pieno rispetto delle forme democratico-parlamentari. Questa la tesi riformistica, gradualista, sostenuta in occidente (campo capitalistico). A est (nel cosiddetto “socialismo reale”), la tesi serviva ai fortemente centralizzati (e del tutto verticistici) gruppi al potere per soffocare ogni critica ad essi, che avrebbe soltanto provocato l’indebolimento della trasformazione dei rapporti, appunto pensati come già socialisti, da irrobustire invece tramite l’ulteriore sviluppo delle forze produttive.

Negli anni ’60, in particolare nella loro seconda metà, pur essendomi allontanato dal Pci nel ’63, ero discretamente edotto delle pratiche del partito, “molto produttive” in fatto di poteri acquisiti nell’ambito dell’organizzazione e riproduzione dei rapporti capitalistici. Andai da Bettelheim a Parigi – e non a Cambridge od Oxford o all’MIT, ecc., mossa essenziale per la carriera accademica in un paese ormai succube degli Stati Uniti e del campo “atlantico” – perché interessato alla critica, non soltanto politicistica ma pure teorico-dottrinale, delle tesi “revisioniste”, gradual-riformistiche, del presunto comunismo italiano. Quindi, all’epoca del dibattito di cui si sta parlando, conoscevo bene la portata d’esso, che cosa si stava giocando; e che, lo ribadisco, in effetti non si giocò per il veloce tralignare del piciismo in senso filo-“occidentale” (pur in modo mascherato fino allo sfacelo del “blocco sovietico”). Purtroppo ci fu chi nemmeno intuì, almeno a spanne, un simile sbocco e si mise di fatto nelle mani di certe “trame”, in specie elaborate dai Servizi dei paesi orientali per motivi già più volte indicati in altri miei scritti; ma che poi provocarono la reazione di quelli occidentali, appoggiati da buona parte dei “poliziotti” piciisti, con la creazione di un caos in cui chi non si era tirato indietro in tempo fu travolto negli anni detti “di piombo”. Anni in cui il tanto declamato (per incutere timore e violento anticomunismo) “terrorismo rosso” non fu tanto rosso, bensì frutto di trame e lotte segrete tra vari Servizi e forze politiche “occidentali” per arrivare infine, una volta crollato il sedicente “socialismo”, alla svolta in Italia con la distruzione della prima Repubblica e il tentativo di creare un nuovo regime fondato appunto sui postpiciisti (del “tradimento”); tentativo di fatto fallito per l’insipienza e rara inettitudine dei dirigenti di quel partito che mutò nome e colori più di un camaleonte.

Ricordo, en passant, che molti – anche alcuni ancora in circolazione ma di cui non farò il nome – mi criticarono a quel tempo come “criptorevisionista” per aver compreso in tempo con buona approssimazione cosa stava avvenendo nel Pci e dintorni, e nel non aver mai voluto partecipare ad una lotta scriteriata e balorda – condotta senza alcuna protezione, allo sbaraglio – contro il “revisionismo”, lotta che non poteva che condurre dove ha condotto certi “compagni”: galera o tradimento o tutti e due! Il fatto è che io non sono un vero intellettuale. Sono un prodotto della medio-alta “classe” imprenditoriale e ho sufficiente concretezza per capire che le “idee” non orientano il mondo. Purtroppo sono un prodotto mal riuscito che non voleva essere “padrone”, ma nemmeno servo come sono gli intellettuali (quasi tutti); e purtroppo chi non sta da una precisa parte subisce le più malefiche conseguenze. Così non sono un miliardario (padrone) e nemmeno un “maître à penser” (servo ignobile ma ben pagato). E nemmeno un “esperto”, portaborse di qualche “Maestro” e andato ad “allenarsi” nel mondo accademico anglo-americano, giocando al ritorno per qualche anno al marxista o al critico liberal per essere infine chiamato a cianciare nei media o infilato in qualche Ministero o simile (sono decine e decine i “chiamati in causa”, perché di questi bassi opportunisti, che hanno impestato tutti i gruppetti “antirevisionisti” e “rivoluzionari” dell’epoca per procurarsi titoli di merito in ambito accademico e/o giornalistico, ne ho conosciuti in quantità superiore ad ogni più sfrenata immaginazione).

 

  1. La critica sostenuta dalla corrente, che poneva i rapporti di produzione in posizione decisiva nella transizione da una formazione sociale all’altra, intendeva riprendere l’orientamento rivoluzionario contro l’ormai avvenuta pacificazione tra comunismo europeo (eurocomunismo) – ma anche di molti altri paesi, perfino del “terzo mondo” – e i gruppi dominanti nei paesi capitalistici dell’area a più alto sviluppo, un sistema di paesi centrato sugli Stati Uniti e la loro politica imperiale; e non semplicemente imperialistica come si diceva con linguaggio impreciso e tributario di una pseudo-ortodossia leninista o di un più generico concetto di imperialismo in quanto dominio coloniale o neocoloniale.

Ci furono molte forzature: ad es. la considerazione della ben nota (ormai a pochi per la verità) Prefazione del ’59 di Marx, trattata a volte addirittura da testo non marxista. In un mio libro di alcuni anni fa, “Due passi in Marx”, ho cercato di compiere una più ponderata valutazione di quel testo, considerato la base dell’economicismo delle correnti favorevoli alla tesi della centralità delle forze produttive. In realtà, molti dei critici di questa tesi non erano veramente usciti da essa. Ci sono stati quelli che pensavano alle tecniche produttive in uso nei paesi ad alta produttività come sempre in grado di riprodurre i rapporti (capitalistici) in esse “incorporati”, rapporti che le avrebbero dunque plasmate ai fini di questa incessante (auto)riproduzione (pure io sono caduto in posizioni simili per qualche tempo). Si arrivava così, magari inconsapevolmente, a implicite forme di luddismo poiché per distruggere i rapporti era necessario annientare una serie di tecnologie; o quanto meno si sosteneva la necessità di non importare – nei paesi in cui si voleva attuare la transizione al socialismo – le tecnologie dei paesi capitalistici se non dopo attenta analisi e trasformazione per riadattarle ai “bisogni” (del tutto imprecisati e non conosciuti) di quei paesi.

La vecchia ortodossia sosteneva che i rapporti capitalistici si sarebbero ad un certo punto trasformati in catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive; sarebbero perciò state necessariamente suscitate le forze rivoluzionarie capaci di spezzarle, provocando la nascita di nuovi rapporti. Nella critica a tale tesi si prendeva atto della capacità di sviluppo del capitalismo, che non ha alcun limite prefissato da nessuna “legge storica” (di tipo economico). Tuttavia, si accreditava di fatto l’idea che tale formazione sociale è la più adeguata allo sviluppo produttivo, accompagnato quasi sempre dall’innovazione tecnico-organizzativa; giacché sviluppo e crescita (che non richiede, di per sé, l’innovazione) non sono lo stesso fenomeno, ma sono di solito fra loro collegati. Nel contempo, una parte delle critiche alla tesi dello sviluppo delle forze produttive diffondeva il timore che quest’ultimo riproducesse sempre i rapporti della società “da rivoluzionare”, per cui bisognava essere diffidenti nei suoi confronti e, in definitiva, boicottarlo. Non si usciva così per nulla dalla tesi della centralità delle forze produttive (oggettive); e il capitalismo diventava una sorta di mostruoso automa sempre in riproduzione di per se stesso, a meno di non intralciarne lo sviluppo, e dunque l’innovazione tecnica; da cui consegue in genere l’impossibilità di aumentare la produttività del lavoro, ottenuta di solito con una diversa organizzazione del processo lavorativo e l’introduzione di nuove tecnologie che spesso alleviano la fatica dei lavoratori.

Peggiore ancora è stata la critica alla tesi delle forze produttive proveniente dagli “umanisti”, da coloro che piangevano (e ancora piangono) sulle sorti della “classe operaia” o delle “masse lavoratrici”, sacrificate sull’altare dei profitti capitalistici (soprattutto di quei “parassiti” dei finanzieri). Sarebbe stato invece necessario fare appello alle risorse di questa classe o delle masse, capaci (secondo i soliti cervelloni degli intellettuali di questa fatta, del tutto avulsi dal mondo così com’esso è!) d’inventività e innovazione sociale; soprattutto in grado di ribellarsi ai soprusi del Capitale (quello ovviamente totale, che intende sopraffare e sottomettere a sé tutto l’insieme dell’Essere Umano, dell’intero suo corpo e delle sue capacità cognitive). La Fiera delle imbecillità sessantottarde (e seguenti) è stata ricchissima di prodotti di scarto di “avanguardie” pseudo-culturali di una demenza sconosciuta, credo, in altre epoche storiche della società umana. In ogni caso, in simili tesi – e in quelle del “comando” del Capitale, della “sfida operaia” con “risposta” del suddetto Capitale, e via vaneggiando – non c’è alcuna prevalenza dei rapporti sociali; semplicemente si esalta la forza produttiva dell’Uomo, o in generale o con specifico riferimento all’Uomo Lavoratore nella fabbrica (prima quella meccanica fordista e poi quella presunta sociale complessiva) del capitalismo.

 

  1. Del resto, anche lo spostamento verso la centralità dei rapporti sociali (da trasformare) non è stato scevro di limiti gravi. Nei casi di maggiore superficialità ci si è attenuti fondamentalmente ai rapporti mercantili, ai rapporti tra uomini “cosificati” nel mero scambio di prodotti del proprio lavoro in quanto merci (siamo nei paraggi del sismondismo e proudhonismo). La riduzione economicistica dei rapporti sociali è qui molto evidente; soprattutto però si fa dell’ambito di “superficie” della formazione sociale capitalistica – dove, come Marx aveva avvertito, vige una sempre maggiore libertà nello scambio ed una tendenziale eguaglianza di valore delle merci scambiate tra compratori e acquirenti, nel senso di una oscillazione dei prezzi intorno ai valori (prescindendo dalla trasformazione dei valori in prezzi di produzione, che non ci interessa) – il fulcro della società. Allora, ancora una volta, la lotta anticapitalistica viene ridotta a pura questione di rapporti di forza nella distribuzione del prodotto, alla ricerca di una maggiore “equità” nello “sfruttamento” (creazione ed estrazione del plusvalore come profitto) che è la vera acquisizione di Marx come scienziato e non come chiacchierone filosofico sulla sorte dell’Uomo, alienato nel mercato. A che cosa si poteva giungere allora? A proporre quell’aberrazione teorica e politica del “socialismo di mercato”, ultimo rifugio (ormai diroccato) di meri “sopravvissuti”, che cercano di difendere il loro passato di fallimentari teorici e storici degli altrettanto falliti tentativi di transizione al socialismo.

C’è stato a mio avviso un positivo tentativo di formulare una tesi di trasformazione dei rapporti sociali (da Marx indicati quali rapporti di produzione sia pure sociali) in quanto critica ad ogni forma di attendismo gradualistico (tesi delle forze produttive) o di puro “ultrarivoluzionarismo” parolaio in favore dell’Uomo (o in generale o di quello Lavoratore o delle “Masse popolari”, ecc.). Si è trattato del tentativo althusseriano. Condotto tuttavia con sostanziale inconsapevolezza della teoria del valore marxiana, che è teoria dello sfruttamento (estrazione di plusvalore, forma di valore del pluslavoro) pur nella supposizione (astrazione scientifica) di una perfetta parità di forze e quindi di eguaglianza tra venditore e acquirente di forza lavoro in qualità di merce. Tutto sembrava invece rinviare ad un rapporto di forza nella “lotta di classe” che, ad un certo punto, si trasformava così in entità piuttosto confusa e poco perspicua, un autentico deus ex machina di particolare artificiosità.

Si è dovuto accettare la tradizionale divisione della storia del capitalismo in due epoche: quella concorrenziale (sostanzialmente ottocentesca) e quella del monopolismo (trasformazione avvenuta in particolare a partire dalla lunga crisi del 1873-96). Si è anche distinto tra la determinazione d’ultima istanza (dell’economico: ulteriore omaggio all’ortodossia) e la dominanza. Si è allora sostenuto che nella prima epoca del capitalismo (concorrenziale) sia la determinazione d’ultima istanza che la dominanza appartenevano all’economico (alla sfera produttiva e finanziaria); mentre nella seconda epoca (monopolistica) quest’ultimo restava determinante in ultima istanza mentre la dominanza passava alla sfera della politica e dell’ideologia, condensata nell’indicazione della presenza decisiva degli “apparati ideologici di Stato”. Difficile pensare ai caratteri della determinazione d’ultima istanza, dato che non si potevano ridurre i rapporti sociali capitalistici soltanto a quelli nel mercato; e nemmeno fare semplice riferimento alla tecnologia e all’organizzazione lavorativa nelle fabbriche. Quanto alla dominanza nell’epoca del monopolismo, è ovvio che i rapporti di produzione venivano in sostanza pensati quali meri rapporti di potere.

Interessante la distinzione tra proprietà (dei mezzi produttivi), considerata nella sua mera forma giuridica (ma né Marx né alcun marxista pensante l’hanno ridotta a questo), e potere di disposizione o di controllo sui mezzi stessi. Tale potere rinviava però appunto, in definitiva, a quello detenuto negli apparati della sfera politica e ideologica. In primo luogo, mi sembra sia venuta a mancare una più netta distinzione tra gli apparati propriamente statali, con particolare riferimento a quelli di tipo coercitivo e repressivo, e quelli esercitanti l’egemonia attraverso l’ideologia; e anche nell’ambito di questi ultimi sarebbe stato indispensabile distinguere tra la trasmissione di forme culturali di lunga durata (con le loro tradizioni, ecc.) e l’approntamento di ideologie più spicciole, spesso “di moda” per brevi periodi, che hanno solitamente una ben più scoperta funzione di mascheramento e di menzogna circa le intenzioni dei gruppi dominanti (per cui sono spesso fonte di incultura o di “semicultura” come quella tipica di certo ceto medio “sinistrorso” odierno).

Di fatto, lo Stato è divenuto nell’althusserismo un coacervo di apparati dei più svariati tipi, tutti però raggruppati nello stesso luogo, eletto a principale campo, dunque anche oggetto (obiettivo), dello scontro tra gruppi sociali; privilegiando inoltre il conflitto “in verticale” tra dominanti e dominati, con il solito schema duale di semplificazione caratteristico del marxismo tradizionale. Lo Stato è, sì, un insieme di apparati, ma in quanto condensazione, precipitazione, di un complesso intreccio di conflitti tra più gruppi sociali, in cui si verifica, in circostanze diverse, il prevalere di uno o di alcuni d’essi o il loro accordo compromissorio, ecc. L’insieme di apparati mantiene, anche a lungo, uno “statuto legale” unitario, che tuttavia nasconde lo scontro e il mutare delle egemonie e del potere vero e proprio; un potere, inoltre, sempre “corazzato di coercizione”, altrimenti non consente alcun predominio sicuro e prolungato di un dato gruppo sociale. Chi crede in quello decisivo della cultura (della sua egemonia non “corazzata di coercizione”) è il solito intellettuale arruffone, che fa il gioco dei dominanti, sempre ben pagato e onorato per i suoi bassi servigi di confusione mentale indotta in potenziali oppositori.

Inoltre, nella storia, i più lunghi periodi sono caratterizzati dal conflitto tra gruppi dominanti di alto e medio-alto livello; a volte ciò si traduce nella formazione dei cosiddetti blocchi sociali, in cui gruppi a più basso livello sono trascinati e orientati nella lotta da quelli dominanti. Proprio per questo, in tali periodi storici, all’interno dei gruppi a basso e medio-basso livello, quand’anche si situino in posizione d’urto con quelli dominanti, si formano nuclei dirigenti (“élites”) che vengono infine cooptati verso l’alto, verso i dominanti stessi. Solo in particolari congiunture di scontro acuto e violento tra i dominanti, con disgregazione del collante (egemonico) sociale, paralisi del potere coercitivo (i suoi vari apparati di intralciano l’un l’altro e alla fine si sgretolano), con conseguente crisi aperta del suddetto “statuto legale” unitario che tiene legati i vari apparati, le élites dei raggruppamenti sociali di medio e basso livello emergono in dominanza, ricreando a lungo andare altri (e diversi) gruppi dotati di egemonia (culturale) e di potere (politico) in una società nuovamente “normalizzata”, in genere mutata nella forma dei rapporti sociali che la caratterizzano prevalentemente (si tratta allora di una nuova formazione sociale).

 

  1. Ho cercato di sintetizzare nel migliore (o meno peggiore) modo possibile un dibattito che ha coinvolto principi fondamentali di una teoria – poi trasformata in dottrina – all’origine di complesse pratiche di quello che è stato denominato movimento operaio, in specie di quello di orientamento comunista, dato che nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia si è allontanata del tutto dal marxismo. Ci si ricordi in particolare il Congresso del SPD tedesco a Bad Godesberg nel 1959, quando viene ufficialmente dichiarato l’abbandono di tale impostazione teorica e dottrinale. A qualcuno sembrerà forse che quel dibattito, lanciato dal Pci nel 1972-73, non abbia più molto da dire. Sarebbe un errore. Intanto, pur non rifacendosi al marxismo, le teorie decresciste (e ambientaliste, ecc.) sono di fatto dentro l’orizzonte della tesi relativa allo sviluppo delle forze produttive. Il fatto di considerarlo negativo invece che positivo non cambia in nulla l’impostazione sostanziale, che dimentica opportunamente, e opportunisticamente, il problema della trasformazione dei rapporti sociali – per la qual trasformazione occorre rifarsi alla politica del conflitto; magari non più “di classe”, ma pur sempre conflitto tra interessi di gruppi sociali differenti – mettendo così in bella evidenza la vera natura di simili tesi.

Criticare la tesi della centralità delle forze produttive in termini di sviluppo e trasformazione della società significa quindi prendere netta posizione contro le tesi dei decrescisti, metterne in luce il falso anticapitalismo, mentre essi si pongono invece al pieno servizio dei capitalisti, una parte dei quali ha perso fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di questa società; per cui si dedica a imbrogliare le carte – servendosi anche di “ultrarivoluzionari” pronti ad ogni lucroso servigio (non soltanto in termini di denaro) – pur di distrarre l’attenzione dai veri nodi del problema capitalistico. In questo senso, i decrescisti sono dello stesso stampo di coloro che insistono nell’attribuire l’attuale crisi ai “cattivi” finanzieri o anche alla “finanza tout court” e ai banchieri o alle manovre monetarie, ecc.

Del resto, solo una parte (minoritaria) del decrescismo (e della “difesa della Natura”) dipende dalla perdita di fiducia nelle “sorti progressive” del capitalismo; la parte maggioritaria è rappresentata da consapevoli imbonitori, pagati dalle imprese capitalistiche che lucrano ottimi affari con tutte le “mode” attuali: le energie alternative (che sono un modo accessorio di guadagnare lauti profitti), i commerci equosolidali, le coltivazioni “biologiche” e tutta una serie di altri imbrogli, del tutto interstiziali nel capitalismo odierno, affidati a gruppi di (inizialmente) semidiseredati, alcuni dei quali diventano agenti discretamente ben pagati dai dominanti. Il tutto fa brodo per un capitalismo che dovrà attraversare una lunga crisi quanto meno di stagnazione tendenziale, tipo quella di fine ‘800.

In definitiva, si cerca di dirottare la possibile lotta e critica lontano dal centro del problema odierno: l’attuale configurazione del sistema mondiale dei rapporti capitalistici, che vede ancora in posizione preminente gli Stati Uniti, anche se cresce l’attuale multipolarismo, provocando quella frattura interna ai vertici politici di tale paese tutto sommato positiva per i futuri sviluppi della nuova fase in cui stiamo entrando. E’ senz’altro indispensabile coltivare la massima attenzione per la differente politica (in quanto complesso di mosse strategiche) condotta dai diversi gruppi dominanti. Tale attenzione deve però indirizzarsi all’analisi e valutazione delle possibilità di un’opposizione alle loro mosse (appunto differenti), senza mai dimenticare che certe critiche alla società attuale, sommariamente indicata come capitalistica, servono in realtà gli interessi di specifici gruppi dominanti o di altri, dimenticando il fulcro essenziale rappresentato dai rapporti sociali e dalla politica che ne consegue, celata dietro i vaneggiamenti sulla difesa dell’“ordine naturale”  e dell’ambiente o della Umanità in generale.

La conoscenza del dibattito, di cui si sta discutendo, ha pure un altro scopo precipuo. Ci sono alcuni vecchi arnesi del “rivoluzionarismo” sessantottardo (e seguenti), che sfruttano la (peraltro vaga) conoscenza della critica alle forze produttive per tentare ancora una volta di difendere, nella sostanza, la formazione sociale capitalistica nella sua peggiore configurazione storica, quella che, tanto per andare al pratico, vede la società italiana in mano ai “cotonieri” (spero ci si ricorderà da dove deriva tale termine da me affibbiato ad una classe imprenditoriale di puri servi). Gli ambigui e torbidi pseudo-pensatori del “fu” sessantottismo sviluppavano fino a non molto tempo fa il seguente argomento: se si è contro la decrescita, essi affermavano, allora si è favorevoli alla centralità delle forze produttive in sviluppo. Che si sia per lo sviluppo o per il sostanziale blocco di tali forze, non è affatto il problema centrale e non muta l’orientamento di fondo.

Mettere il segno meno invece che più alle forze produttive serve, in ogni caso, ad allontanare l’attenzione del critico dall’analisi dei rapporti sociali costitutivi della formazione sociale capitalistica. Il fine dei vecchi e nuovi arnesi di una rivoluzione soltanto declamata, anzi urlata, è proprio quello di impedire che si parli del capitale in quanto rapporto sociale. Il capitalismo sarebbe solo un Male per l’Uomo; questo sostengono al massimo i finti rivoluzionari. Nel migliore dei casi, se sono in buona fede, manifestano soltanto insoddisfazione e angoscia. Si arrangino come fanno tutti gli individui concreti, semplici uomini (al minuscolo), che hanno sempre al loro fianco l’orizzonte della morte. Il capitale non c’entra nulla con questo problema, non lo può risolvere, ma nemmeno lo aggrava più che tanto.

I teorici della centralità dei rapporti sociali (di produzione o considerati in senso sociale complessivo) tentavano invece di contrastare il gradualismo riformista di quelli che venivano considerati “i revisionisti”, gli opportunisti ormai lanciati verso la collaborazione con il sistema capitalistico e i suoi gruppi dominanti. Vi era ancora la credenza di poter rilanciare la rivoluzione e riprendere la transizione verso la nuova formazione sociale socialista (in attesa di quella comunista); ma senza mai il sogno impossibile di evitare il disagio legato alla malattia, alla morte, alle disgrazie varie che ci affannano, chi più e chi meno, per tutta la nostra vita individuale. Nessun althusseriano si è mai scagliato contro la crescita della produzione, contro l’innovazione tecnica e via dicendo. Semplicemente dicevamo: questi risultati li ottiene anche il capitalismo, i rapporti del capitale non sono affatto catene che impediscono la loro realizzazione. I “revisionisti”, per giustificare il loro cedimento opportunistico, sostenevano invece proprio che, se il capitalismo si stava sviluppando, allora i suoi rapporti sociali non erano ancora diventati le famose catene; era perciò utile non creare disordini, non avere intenti rivoluzionari, si doveva aiutarlo a svilupparsi ancora di più, cosicché si sarebbe infine (campa cavallo….) impiccato da solo a questi suoi rapporti una volta divenuti impedimenti allo sviluppo.

Oggi, quel dibattito è stato superato – ma non è caduta in disuso la sua utilità, ove attentamente valutata – perché è crollata ogni prospettiva di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo che, per alcuni sopravvissuti, è ormai una semplice aspirazione sentimentale. Non vi è dubbio che il capitalismo – e fra l’altro la nostra ignoranza è tale che chiamiamo tutto capitalismo, senza riuscire a fare un minimo di distinzione decente tra diverse formazioni sociali quali il “capitalismo borghese” di matrice inglese e la società dominata dai funzionari del capitale, sviluppatasi negli Usa e ormai diffusa in tutto l’“occidente” – si sta dimostrando una società con molte mostruosità, soprattutto però culturali. Adesso stiamo vivendo una crisi che rimette in discussione molte “conquiste” – di quelle che però i pensatori del disagio trattano da solo “materiali”, quindi quasi da disprezzare – ma non si tratta della fine di una società “cattiva”, da cui poi sorgerà quella “migliore”. E’ una fase storica di riarticolazione dei rapporti (di potere) tra gruppi sociali e tra diverse formazioni sociali, alcune nuove in sul farsi “a est” e tutto sommato tuttora poco conosciute.

Sarebbe indispensabile mettere all’ordine del giorno l’analisi di questi differenti rapporti sociali. Invece, chi ha ormai abdicato ad ogni intento di pensare criticamente, problematicamente, si abbandona ai lamenti sull’Uomo alienato o sulla Natura violentata. Si curassero il loro spleen in splendida solitudine e non ci seccassero! No, hanno scoperto che i gruppi dominanti – e soprattutto i subdominanti, i “cotonieri” reazionari e smaniosi di mettersi al servizio dei predominanti – li pagano bene, li ospitano nelle Università (ormai luoghi di abiezione), li fanno scrivere sui giornali, li ammettono in TV, pubblicano tutte le più futili e ignobili aberrazioni del loro pensare con case editrici che ancora si impegnano nel distribuirle, nel finanziare convegni organizzati per rimbecillire viepiù il popolo e trasmettere il messaggio che ormai siamo alla fine della Storia, alla fine di ogni speranza; salvo quella di questi cialtroni che se la ridono fra loro e si divertono alle nostre spalle.

 

  1. E allora noi torniamo testardamente ai rapporti sociali. Usciamo da un fallimento storico; fallimento solo se considerato in relazione all’obiettivo di trasformazione sociale che è stato l’intendimento dei comunisti per ben oltre un secolo. Ho già detto in altra occasione che la Rivoluzione d’ottobre (e altri eventi rivoluzionari che ne sono seguiti), considerata dal punto di vista dei suoi effetti di mutamento delle fasi storiche, non è fallita per nulla; ma non era questo l’obiettivo perseguito per tanto tempo e ormai alle spalle. Quindi su questo dobbiamo ragionare e trarre le opportune conclusioni. Tenuto conto dei vari “ismi” ancora in campo, non credo proprio che il marxismo ci faccia brutta figura; rispetto al liberismo è a mio avviso assai più avanti. Per cui solo i totalmente ignoranti della reale problematica di Marx si gonfiano il petto quando ripetono le loro stolte ricette sul libero mercato con i suoi “automatismi”, sul vantaggio per i consumatori delle liberalizzazioni che porterebbero all’abbassamento dei prezzi (ma dove mai vivono questi individui: o sono dementi o, piuttosto, dei furfantoni ben pagati da gruppi dominanti sempre più rapaci).

Quindi, in attesa che il movimento sociale effettivo stimoli nuovi pensieri e nuove ipotesi (che non s’inventano per genio di qualcuno, altrimenti dovremmo credere che da quarant’anni viviamo in un mondo di perfetti deficienti), dobbiamo sfruttare l’insegnamento del marxismo e del suo indubbio invecchiamento e logoramento – nel promuovere una pratica politica in base a determinate previsioni, rivelatesi assai imperfette, circa la dinamica della società capitalistica – che ci segnala errori di valutazione o comunque l’impossibilità dell’effettuazione di quella pratica con quei dati obiettivi. Secondo me, occorre giungere ad alcune conclusioni da considerarsi abbastanza definitive. Innanzitutto, è indispensabile smetterla con l’idea di poter rappresentare, sia pure in schema, il reale, immaginando di esso una precisa struttura di relazioni, dotata di una cosiddetta dinamica che è in effetti una cinematica, un succedersi in momenti successivi di configurazioni diverse (da noi pensate e costruite via ipotesi) della struttura (inesistente come tale nel reale).

Si possono ravvicinare fin che si vuole questi successivi momenti, costruendo l’immagine di un movimento apparentemente continuo; il successo di questa nostra “rappresentazione” del reale dipende dalla posizione della configurazione iniziale e dalla supposizione di mutamento delle variabili secondo una successione che si pensa legata a specifiche leggi, deterministiche o probabilistiche. Sempre, all’improvviso, appare una discontinuità che ci lascia “sorpresi”; non è, però, in senso proprio una discontinuità; più semplicemente, la continuità costruita, ravvicinando quanto più possibile i momenti successivi, dipende pur sempre dalla struttura posta all’inizio appunto come mera rappresentazione del reale. Poiché quest’ultimo è continuamente sfuggente, ci si trova ad un certo punto nella necessità di pensare una nuova struttura, che è una differente singolarità da cui riprende avvio la successione delle nostre supposizioni circa il suo movimento. La “discontinuità” dipende dalla nostra impossibilità di agire con efficacia nel reale continuo, fluido, oscillante, squilibrante. Siamo obbligati ad arrestarlo, stabilizzarlo, strutturarlo, ecc. per svolgere un’attività capace di produrre effetti; così comportandoci, tuttavia, i nostri schemi invecchiano e arriva il momento in cui essi non orientano più azioni dotate di senso e di incisività.

Salvo i soliti discorsi “orientaleggianti” – che mai hanno risolto i problemi nelle formazioni sociali dimostratesi vincenti su scala mondiale, e che continueranno ad esserlo finché troveranno di contro a loro questi “santoni” imbelli – il nostro modo di agire nella moderna società non è in grado di discostarsi dal procedimento appena indicato. Essenziale diventa allora prendere atto del problema e non sognare di avere rappresentato compiutamente, sia pure in schema, il reale e il suo effettivo movimento. Quel che accade nel Cosmo, dove i mutamenti possono anche riguardare decine e centinaia di milioni di anni, non ci interessa “qui ed ora”. E per favore lasciamo stare il fascino della microfisica perché non siamo microbi pensanti. Atteniamoci al nostro mondo – macrofisico, da una parte, e sociale dall’altra – e consideriamoci individui agenti e pensanti in una data epoca storica della società.

Se vogliamo elucubrare su problemi sempre esistenti per noi umani, del tipo della vita e della morte con tutto ciò che “ci va dietro”, nessuna obiezione; è atteggiamento assai più che comprensibile, direi doveroso. Quando però riflettiamo sul nostro vivere nel cosiddetto “divenire storico-sociale”, cerchiamo di non perdere il buon senso e non lasciamoci andare a fantasie, che pretenderebbero di trascendere l’orizzonte spazio-temporale in cui siamo situati. Sia nel fare storia (pensare il passato) sia nella previsione del futuro, è meglio utilizzare categorie teoriche (più o meno elaborate, talvolta perfino inconsapevoli) adatte alla formulazione di specifiche ipotesi (anche per quanto concerne il passato usiamo ipotesi); e si tratta pur sempre di teorie (e ipotesi) mediante le quali interpretiamo il presente al fine di potervi agire per giungere a determinati obiettivi. Queste categorie teoriche (e le ipotesi) sono transitorie, mostreranno infine la corda; più elastici saremo, prima riusciremo a cogliere la loro obsolescenza, la loro progressiva riduzione di presa sulla “realtà”. Quanto al movimento reale, lasciamolo tranquillo a svolgere il suo consueto lavoro di logoramento delle nostre pratiche, delle nostre speranze, delle nostre convinzioni di averlo fermato e poi indirizzato come piacerebbe a noi; se ne sbatte altamente dei nostri desideri, anzi potrebbe pure irritarsi e reagire con violenza se ci venisse in testa di averlo “imbracato” definitivamente.

Non si creda che quanto appena detto abbia qualcosa a che vedere con il relativismo. Quest’ultimo è in definitiva incertezza, indecisione, quasi sempre incapacità di scendere in campo prendendo posizione (partito); il tutto mascherato da capacità (molto limitata invero) di valutare vari corni del dilemma con moderazione e tolleranza, ecc. (si pensi alla ben nota, e fastidiosa quant’altre mai, frase di Voltaire, una frase “buonista”, di piatto conformismo, perfettamente adatta al “ceto medio semicolto” odierno!). Quando si agisce veramente – dove l’azione contempla pure l’apparente inazione, il temporeggiamento, il surplace a volte assai lungo (come fanno i ciclisti velocisti) – e non semplicemente ci si dedica alle chiacchiere fatue e ideologicamente favorite dai vari gruppi dominanti per bloccare ogni azione a loro contraria, si deve assumere “partito” nel conflitto, nel contempo ponendo e analizzando nei particolari il campo in cui esso si svolge e i diversi “partiti” e interpretazioni del campo (in effetti, di campi differenti) assunti dai soggetti agenti nella lotta. Tuttavia, ci si deve preparare all’eventuale sconfitta, al riconoscimento di errori in questa lotta, ai mutamenti di fase che spiazzano alla lunga i vincitori non meno dei perdenti ed esigono il riconoscimento, intanto in termini di principio, di nuove singolarità sopravvenienti (che sempre sopravverranno) e di cui ancora una volta occorrerà ricercare le categorie interpretative, ecc. ecc.

 

  1. Fondamentale, nella lotta passata dei comunisti, sarebbe stata la coerentizzazione (nella teoria e nella pratica) del “modello” marxista utilizzato per interpretare, e prevedere, la dinamica sociale del capitale, l’evoluzione dei rapporti nella formazione sociale definita capitalistica; una definizione rimasta pressoché immutata da almeno un secolo e mezzo a questa parte. Un conto è impiegare genericamente il termine capitale per indicare ogni dotazione – in strumentazioni produttive ed in moneta in quanto equivalente generale dei prodotti scambiati come merci – in possesso di particolari agenti (soprattutto, ma non solo, nella sfera economica della società); un altro è indicare un sistema di rapporti sociali di forma storicamente peculiare, perché questo è il capitale nella sua precisa accezione marxiana.

Marx studiò il “modello” di questo capitale (sistema di rapporti, ecc.) nel suo primo luogo di definitiva affermazione, l’Inghilterra; ne trasse una serie di conclusioni e si disse convinto che esso si sarebbe esteso a tutto il mondo. In effetti, tale “modello” fu surrettiziamente mutato in corso d’opera dai marxisti successivi, senza che nessuno si ponesse però troppi problemi al proposito. Inoltre, anche Marx ebbe incertezze; per esempio usò indifferentemente classe operaia e proletariato, e la classe in questione (quella che avrebbe dovuto emancipare tutta l’umanità emancipando se stessa dallo sfruttamento) fu da lui a volte considerata – e i marxisti successivi sempre così la considerarono – l’insieme degli operai in senso stretto, quelli addetti alle mansioni fondamentalmente esecutive (e di più basso livello, ripetitive, ecc.), mentre altre volte egli fece riferimento al lavoratore complessivo (“ingegnere e manovale”).

Si badi bene: proprio dai termini usati si comprende come Marx avesse in mente la dominanza, nei rapporti sociali della formazione a modo di produzione capitalistico, di quelli instauratisi nell’unità produttiva in senso stretto, nella “fabbrica”, risultato di una storica trasformazione della bottega artigiana, attraverso la fase transitoria della manifattura, descritta nelle pagine sulla accumulazione originaria del capitale; accumulazione intesa quale trasformazione di rapporti, non semplicemente crescita di “forze produttive oggettive”. La fabbrica è il luogo della trasformazione di materie prime in prodotti finiti; si può considerare più genericamente la trasformazione di input in output, in ogni caso è sempre presente un preciso processo lavorativo che vede associati, in forma cooperativa, la figura dirigenziale (“l’ingegnere”) e quella esecutiva (“il manovale”).

Il testo più significativo per le indicazioni, comunque sommarie, relative alla formazione dell’operaio combinato, in quanto complessivo insieme di lavoratori direttivi ed esecutivi in cooperazione, è il cosiddetto Capitolo VI inedito (edito molto dopo la morte di Marx), in cui vi sono pure le splendide pagine sulla sussunzione, prima formale e poi reale, del lavoro nel capitale (con passaggio da una determinata forma, transitoria, dei rapporti sociali capitalistici ad un’altra, quella considerata definitiva). Capitolo comunque tolto dall’autore stesso nella pubblicazione del primo libro de Il Capitale, l’unico testo di quest’opera effettivamente e integralmente di Marx. Non mi lancio in illazioni sui motivi del toglimento, non sono “addottorato” in sedute spiritiche; noto solo che non è stato pubblicato, rendendo più difficile quella coerentizzazione cui ho sopra accennato.

Il sottoscritto ha preteso di compierla con un lavoro durato molti anni e che è stato consegnato in centinaia, e più ancora, di pagine, tutte pubblicate negli ultimi 15-20 anni. Le do quindi per conosciute, altrimenti chi vuole si documenti. Ricordo solo che tale dinamica, fondata sulla “spietata” concorrenza intercapitalistica, mette in moto la centralizzazione dei capitali, da cui deriva non tanto il passaggio al capitalismo monopolistico (e poi ancora a quello di Stato, tutto sommato una contraddizione in termini), quanto invece la trasformazione di quel rapporto che è il capitale. Le “potenze mentali della produzione” – in definitiva la capacità di dirigere e innovare nei processi produttivi di fabbrica, di trasformazione di input in output – spettavano nel più antico capitalismo concorrenziale al capitalista, considerato il proprietario privato dei mezzi di produzione.

Con la centralizzazione, tale capacità (detta poi, non da Marx, imprenditoriale) si sarebbe trasferita, per il Nostro, nell’“ingegnere” divenuto lavoratore salariato e facente ormai parte dell’operaio combinato (lavoratore collettivo cooperativo), mentre il capitalista sarebbe divenuto solo proprietario; una proprietà trasformata con l’affermarsi della società per azioni. Detto in termini molto più moderni, Marx avrebbe pensato una sorta di “rivoluzione dei tecnici” (in realtà un loro vero amalgama cooperativo con i lavoratori manuali ed esecutivi) e non quella “manageriale” teorizzata 70-80 anni dopo da Burnham. In ogni caso, da tutto ciò discendono le conclusioni di Marx in merito alla trasmutazione della società capitalistica in socialistica – un cambiamento da lui già creduto in atto ai suoi tempi (si legga anche soltanto l’ultimo paragrafo del capitolo sull’accumulazione originaria) – che ho molte volte analizzata con dovizia di particolari nei miei scritti.

Una volta coerentizzato il “modello” marxiano di avvento del capitalismo, di suo sviluppo e di transizione ad altra società – sempre in termini di trasformazione dei rapporti sociali e non per quanto concerne l’aspetto quantitativo dei capitali accumulati e centralizzati, con semplici modificazioni delle “forme di mercato” – si comprende più facilmente l’impasse della lotta comunista e infine il suo tramontare ed esaurirsi. Può restare la tristezza, la nostalgia, il rimpianto, sentimenti umanissimi; anche perché i sacrifici, le morti, la galera, la miseria, ecc. per conseguire quel risultato irraggiungibile sono stati immensi, altro che i crimini commessi dai comunisti come sostengono gli incalliti delinquenti che si sentono appagati in questa società! Se però da questi sentimenti si insiste a volere trarre l’indicazione di una (im)possibile ripresa della lotta per il comunismo, dobbiamo allontanarci con molta decisione e chiarezza critica dagli “zombi” incapaci di afferrare la realtà del loro essere morti.

 

  1. Mi guardo bene dal ripercorrere qui, nelle sue varie tappe, la mia coerentizzazione del “modello” marxiano – consegnata per il momento ai dieci video dedicati alla discussione su Marx – al fine di metterne in luce le manchevolezze e la necessità di superarlo, senza semplicemente ridurlo a indegni sbrodolamenti filosofici ma anzi mantenendone lo spirito scientifico e l’intento critico-problematico in merito alla doppia faccia della formazione capitalistica, con la sua “superficie” (soprattutto mercantile) e le sue “viscere profonde”, dove si agitano i grandi sconvolgimenti che hanno determinato sia mutamenti non minori della suddetta formazione sociale sia l’obsolescenza della teoria con cui Marx volle rappresentarla nella sua strutturazione (in una data forma di rapporti antagonistici) e nella dinamica direzionata, oggettivamente, alla trasmutazione: prima socialistica e infine comunistica.

Mi è sembrato non inutile riandare ad un vecchio dibattito, pur ripercorrendolo veramente a volo d’uccello. Tuttavia, m’interessava soprattutto metterne in luce alcuni aspetti salienti. Innanzitutto le modalità secondo cui avvenivano allora le discussioni in campo marxista. Secondo me non esiste oggi la stessa serietà e lo stesso rigore nei dibattiti (rari) che ancora ci sono. Bisogna inoltre ben dire che non vi è più, almeno nei settori intenzionati a criticare la moderna società, alcuna teoria comunemente condivisa. Allora ci si poteva accusare reciprocamente di “revisionismo” o di “estremismo infantile”, secondo l’abitudine invalsa da molti decenni, ma le categorie di riferimento erano comunque consolidate e ci si riusciva ad intendere pur nelle più aspre diatribe. Era inoltre chiara a chi partecipava al dibattito – a parte la solita “base militante”, soprattutto interessata a quello che dicevano i capi e capetti; che si trattasse di quelli del Pci o quelli dei vari gruppetti via via formatisi soprattutto dopo il ’68 – la posta politica in gioco dietro la solo apparente astrattezza di certi temi teorici, conditi anche di ampie carrellate storiche intorno alle vicende del cosiddetto movimento operaio e all’evoluzione del suo pensiero nelle diverse correnti riformiste e rivoluzionarie.

Infine, non si creda che alcune delle misere tesi venute a quel tempo alla moda e ancora in piena vita – tipo la decrescita o l’eco-sostenibilità e altre piacevolezze di questi tempi di degrado intellettuale e culturale – non abbiano proprio nulla a che vedere con quel dibattito, pur se in forma di grave scadimento dell’intelligenza teorica dei problemi. Spesso si tratta di tesi che si rifanno, in modo più o meno aperto, alla totale dimenticanza della politica come campo di scontro e conflitto acuto tra interessi, sempre avvolti da specifiche ideologie, di dati gruppi sociali, in genere sempre quelli dominanti che ormai conducono al 100% le danze in questa fase storica. I “deboli” critici del capitalismo diventano semplici detrattori di ogni modernità e progresso (considerato un termine osceno anche soltanto in termini del tutto “materiali”) perché non comprendono più nulla della necessità di andare ai rapporti sociali di ogni data fase storica, sia pure con la consapevolezza di una conoscenza via ipotesi sempre soggette ad errori e alla necessità di revisioni o di drastici cambiamenti di indirizzo. Si preferisce oggi soddisfare l’orrendo ceto medio semicolto, il quale magari blatera di predominio di chi controlla la TV e poi ripete tutte le più stupide insulsaggini che da quelle “scatolette” sostengono, con atteggiamento da geni assoluti, i loro beniamini, intellettuali che hanno ormai l’intelletto in completa défaillance.

Non credo ci sia molto altro da dire. Se volete, prendete questo mia memorizzazione come una vacanza, ma non credo sia priva di interesse per chi capisce come la teoria non sia una fisima da intellettuali. Anzi, oggi sono proprio quelli che passano per intellettuali presso l’incolto “volgo” i più carenti in fatto di teoria. Non pensano, sputano quello che ritengono più facile far passare per scienza, riducendo quest’ultima (basata su ipotesi sempre rivedibili) a certezza assoluta e indiscutibile, cui il “popolo” deve sempre adeguarsi. Poi ci sono i “tecnici”, anche peggiori nella loro limitatezza di visione e nell’arroganza e presunzione con cui “sparano” i loro verdetti e le loro ricette quasi che la lotta politica, oggi sempre più acuta e spesso sconclusionata per mancanza di ampie visioni e di solidi appoggi sociali, sia riducibile alle formulette imparate in Università che sarebbero ormai da chiudere, a partire da quelle “ricche e famose” anglo-americane. Viviamo un’epoca di transizione, ma particolarmente povera di intelligenza. Insisto che, anche solo mezzo secolo fa, ci si muoveva intellettualmente in un ben diverso ambito, assai meno deteriorato. Non parliamo della prima metà del secolo XX o di ancor prima. Chiudiamo qui, senza rimpianti ma ricordando; e facendo tesoro dei ricordi!

 

 

LA PEGGIORE DI TUTTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA PEGGIORE DI TUTTE

È implicito (sempre) ed esplicito (molto spesso) che, quando le èlite del centrosinistra italiano si lagnano del governo del cambiamento, sono persuase che il loro modo di governare era il migliore e che il popolo italiano è stato irriconoscente a dar loro il benservito.

In realtà tale convinzione desta stupore, dati i risultati economici più che mediocri della classe dirigente della seconda repubblica, centrodestra compreso (anche se responsabile minore); e il perché lo spieghiamo.

Devo premettere di non essere convinto che la struttura economica determini le sovrastrutture (non sono marxista); e, di conseguenza non ritengo che il progresso o il regresso di una comunità si misuri (solo) in termini economici piuttosto che politici, culturali, morali, tecnici. Ritengo il dato economico non determinante ed esclusivo, ma comunque molto importante, e che abbia quanto meno il vantaggio di potersi esprimere in numeri, meno soggetti a manipolazioni e valutazioni soggettive (se i conti sono fatti onestamente).

Fatta questa premessa possiamo dividere le classi dirigenti, ovvero le èlite, la classe politica, (e anche la formula politica) dall’unità in poi in quattro “fasi”: la monarchia liberale (1861-1911), il regime fascista (1922-1943); la “prima repubblica” (1946-1994); la “seconda repubblica” (1994-2018), e  vedere quanto in ciascun periodo si sia incrementato il PIL individuale, indice privilegiato del benessere.

Orbene nella monarchia liberale l’incremento del PIL pro-capite fu dello 0,6% annuo, più modesto nell’ ‘800, molto più deciso nel periodo giolittiano (1,6% annuo).

Nel periodo fascista l’incremento continuò; anche se fu abbassato dalla depressione del 29-32 (-7,2%) e dalle guerre, soprattutto quella d’Etiopia (-4,3%) il  risultato, fino al 1939 fu di un aumento di circa il 50% rispetto al 1919. Con la seconda guerra mondiale si ridusse di quasi la metà.

L’età d’oro del PIL pro-capite fu quella della “prima repubblica”: l’aumento nel periodo fino al 1973 si attestò sul 5,3% annuo; dal 1973 al 1994 in un più modesto – ma rispettabile – 2.5% annuo.

Nella seconda repubblica la musica purtroppo cambiava: ad un modestissimo aumento dello 0,3% annuo, faceva riscontro un incremento del prelievo fiscale, anche in brevi periodi di PIL pro-capite in picchiata, come nella crisi del 2008-2014 in cui il calo è stato del 12,8%.

Resta il fatto che durante la “Seconda repubblica” i risultati, in termini di benessere, sono stati i peggiori di tutti i periodi politici in cui abbiamo suddiviso la storia dell’Italia unita.

Pertanto, non si capisce perché l’elettorato italiano non avrebbe dovuto concludere che i cattivi risultati non dovessero dipendere (se non totalmente, in buona parte) dalla mediocrità – politica e culturale – della classe dirigente. Semmai desta stupore la pazienza e la mansuetudine di un popolo che sopporta per un quarto di secolo l’inconsistenza di élite gàrrule e autoreferenziali.

Certo queste rispondono: noi siamo stati i più buoni. Abbiamo aiutato banche straniere e italiane, migranti africani e mediorientali, e soprattutto i tax-consommers, ossia la corte dei miracoli che prospera sul bilancio pubblico. Bilancio che Giustino Fortunato, oltre un secolo fa, definiva “la lista civile della borghesia parassitaria”, e che tale è – in larga parte – rimasto.

Buonismo, angelisme, legalitarismo sono le derivazioni odierne che servono ad occultare i risultati della classe dirigente in via di detronizzazione (il vertice – in gran parte – già licenziato, l’aiutantato no), sotto il profilo economico la peggiore, sia nel tempo che nello spazio, tenuto conto che nello stesso periodo 1994-2018 i risultati economici dell’Italia sono stati i peggiori sia dell’UE che dell’eurozona.

Onde spiegare ad un italiano indigente, a un “esodato”, ad un creditore della P.A. (e così via) che i sacrifici sopportati sono stati disposti per bontà d’animo verso migranti ecc. ecc., è assai difficile perché non si giudica sul criterio gnoseologico vero/falso o con quello etico (già più “vicino”) buono/cattivo ed è quindi irrilevante (o poco rilevante). Perché funzione della politica è proteggere la comunità e il di essa benessere e così gli interessi (pubblici) di questa e dei cittadini, come sostenuto da secoli di pensiero politico realista, da Machiavelli e Hobbes a Meinecke e Schmitt, passando per Richelieu e Federico il Grande (tra i tanti).

Fare della politica una litania di buone intenzioni è funzionale soprattutto ad individuare l’avversario in colui che non manifesta altrettanta devozione; al momento, soprattutto Salvini, che “devoto” non è ed è soddisfatto di non esserlo: ma, piuttosto, ricorda ogni giorno di difendere gli interessi degli italiani.

Speriamo che lui e Di Maio li perseguano con la stessa coerenza ed efficacia di altri governi europei, non di quelli italiani che li hanno preceduti.

Teodoro Kltsche de la Grange

DALLA STORIA PROFONDA, DI PIERLUIGI FAGAN

A proposito di contesto e induzione. Il ruolo della componente soggettiva?_Giuseppe Germinario

NOVITA’ DALLA STORIA PROFONDA. E’ ormai in pieno corso una rivoluzione paradigmatica nel campo della storia umana pre-antica. L’ Antichità e la sua storia narrativa, inizia con le prime forme di testimonianze scritte, circa cinquemila anni fa. La storia profonda è quella che la precede e sconfina con la paleoantropologia, avvalendosi di archeologia, geologia, biologia, climatologia e tutto ciò che può aiutare a ricostruire il quadro. Il processo è fortemente abduttivo, secondo Peirce, la vera forma del pensiero scientifico, l’unica forma che davvero produce nuova conoscenza.

Il focus della rivoluzione paradigmatica è nel periodo che va dal 15000 a.C. al 3000 a.C., un periodo prima segmentato tra Paleolitico superiore, Mesolitico e Neolitico, classificazioni che hanno due problemi collegati: le due principali (paleo-neo) vennero fatte nel 1865 quando le prove dei tempi addietro erano ben scarse e prese in esame solo per i cambiamenti nella lavorazione della pietra. La mentalità dominante al tempo era prettamente da Rivoluzione industriale. Oggi usiamo una grandissima massa di scavi e reperti, un grande ventaglio di discipline che ci raccontano cose dei tempi profondi che esulano dalla morfologia dei soli strumenti di pietra. Scaviamo un po’ dappertutto e sono spuntate fuori talmente tante incongruenze con la narrativa consolidata (Kuhn), da necessitare quello che oggi è il salto paradigmatico ad una nuova ricostruzione comprensiva.

In breve, non c’è stata nessuna rivoluzione neolitica, l’agricoltura non è stata “inventata” ma praticata per 10.000 anni prima come cura del selvatico, poi orticultura, poi agricoltura intenzionale, sempre come integratore alimentare di un dieta molto variata (caccia, pesca, raccolta, vari tipo di coltivazione) offerta dalle “terre umide”, prima di diventare l’unica forma di sussistenza. Ciò si è accompagnato con la domesticazione animale che è altrettanto longeva. La stanzialità è altrettanto antica, ancora quattromila anni prima della nascita del binomio stabile agricoltura-stato, c’erano città di 5000 abitanti che o non coltivavano nulla o molto poco.

Hobbes, Locke, Vico, Morgan, Engels (Marx), Spencer, Spengler, sulle orme di Giulio Cesare, hanno confezionato una narrativa moderna retro-proiettata su un telo bianco passivo che ha dato l’illusione di conoscenza reale quando in realtà si trattava di cinematografia. Non fu l’innovazione umana a cambiare la storia, né il motore primo fu il modo di produzione che cambiò come adattamento e non di sua spontaneità, né tutto ciò fu un progresso ma semmai un triste adattamento a condizioni sempre più strette, la faccenda durò migliaia di anni.

Nella Mezzaluna fertile allargata, il motore degli eventi del tempo profondo fu un meccanismo di correlazioni tra geografia, demografia, ambiente-clima. Il clima che s’avviava alla de-glaciazione subì uno shock tra il 10.800 ed il 9.600 a.C., poi una lunga fase “paradisiaca” (a cui si riferiscono tutte le mitologie antiche inclusa la Genesi che è solo quella che qui da noi si conosce meglio) e di nuovo un beve shock intorno al 6000 a.C. . Le comunità umane si mossero nei territori in virtù delle migliori ecologie locali, crescendo con una certa continuità. Più crescevano e si stanzializzavano, più aumentavano le epidemie, più aumentava la fertilità riproduttiva per compensare. Dopo il 6000 a.C., clima più secco, aridità dei terreni dovuta a molti fattori, rendimenti decrescenti della sussistenza mista, portarono ad un ricorso sempre maggiore all’agricoltura. Questa, tra l’altro, retroagì sulla complessione umana fragilizzando le ossa, rimpicciolendo il cervello, de-complessificando la mente umana esternalizzando la complessità nella struttura sociale (divisione del lavoro necessitante prima coordinamento e poi gerarchia), tutte dinamiche che rinforzavano il processo che le causava (rinforzo di feedback).

Tanti stimoli si possono trarre da questo cambiamento paradigmatico in corso: come usiamo le discipline se in forma integrata o imperialistica (oggi ad esempio l’economia), come consideriamo il tempo storico (a lunghe transizioni o a balzi “rivoluzionari”), quante variabili inseriamo nei modelli descrittivi (sistemica e complessità delle descrizioni) (da dopo McNeill ovvero da dopo quello che i meno addentro alle faccende degli storici scambiano per dopo Diamond, le epidemie sono diventate un fattore decisivo prima del tutto ignorato), l’antropocentrismo motore mosso poi da chissà cosa lascia il campo all’ adattamento condizionato dal fuori di noi, cambiano modi di considerare la società complesse ed i modi di produzione, la gerarchia e la guerra, la convivenza interna alle società, tra le società tra loro, tra le forme associate di vita umana e l’ambiente in cui crescono o decrescono periodicamente, per non dire delle trasformazioni di cultura materiale e non, incluse le concezioni metafisiche, teleologiche, escatologiche ed il senso della faccenda se ce ne è uno o più d’uno o nessuno.

Il libro postato (che sto studiando) non è che una delle tante ricostruzioni aggiornate che contemplano alcuni importanti risultati della ricerca degli ultimi venti anni, non è detto sia il miglior modo di interpretare i fatti ma i fatti usciti dalla ricerca sono tutti riferiti e quindi aiutano a farsi una idea complessiva. Qui una recensione da parte di un grande archeologo (che stimo molto) diverso dall’Autore, J.C. Scott, che è un professore di scienze politiche nonché antropologo di tendenze anarchiche di Yale, fortemente influenzato da Karl Polanyi.

Si cambia il modo di leggere il passato, quando si è spinti a trovare nuovi modi di leggere il presente ed il futuro. Oggi è uno di quei momenti. Meno male che c’è almeno un campo in cui il pensiero umano prende il moto ondoso, la bonaccia intellettuale prelude a morte certa.

Consiglio la lettura di questo articolo prima del libro: https://www.lrb.co.uk/…/steven-mit…/why-did-we-start-farmin

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”, di Fabio Falchi

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2018/10/multipolarismo-e-pragmatismo.html?fbclid=IwAR2FkxZRIOgVgpP7B-1BXLecqoDzwi6g9MSQGZ5rxLF_cZI1dIEPqvaMvbw

La vittoria di Bolsonaro difficilmente potrà riportare l’America Latina ai tempi dell’operazione Condor, ma certo segna l’inizio di una nuova fase storica per il continente americano dopo la breve fase del cosiddetto “socialismo dell’America Latina”, che comunque non potrà essere cancellata. Facile prevedere perciò anche per l’America Latina un periodo contrassegnato da nuove lotte e aspri conflitti, ma si può pure ritenere che la politica degli Usa nel continente americano dipenderà sempre più dai gruppi subdominanti latino-americani.
In ogni caso, la partita decisiva nei prossimi decenni sarà (salvo che non vi siano mutamenti improvvisi e di portata mondiale) quella in Estremo Oriente, che assorbirà sempre più le limitate risorse degli Usa. Pure in Medio Oriente del resto gli Usa si vedono già costretti a dipendere sempre più dai loro alleati (Israele e Arabia Saudita – non a caso Obama, con l’accordo sul nucleare con l’Iran, aveva cercato di evitare che la politica di questi Paesi potesse compromettere gli interessi degli Usa a livello globale) e qualcosa di simile vale pure per l’Europa.
Lo scontro in atto ai vertici della potenza egemone peraltro riguarda la ridefinizione del ruolo degli Usa anche a livello geopolitico (che non si può separare dalla questione dell’economia degli Usa) e in particolare il confronto con la Russia che per la parte del gruppo dominante ostile a Trump è ancora il nemico principale, anche se al riguardo la stessa politica di Trump è tutt’altro che coerente e chiara. Di fatto, gli Usa a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso hanno cercato di risolvere il problema del loro declino relativo (Paul Kennedy) mediante l’espansione del capitalismo finanziario (Giovanni Arrighi), puntando tutto sulla globalizzazione made in Usa. Il crollo dell’Urss favorì una “accelerazione” di questa politica e la prima guerra del Golfo illuse gli Usa di potere pure ridefinire la carta geopolitica mondiale con interventi di carattere militare. Invero, questa politica – confermando il giudizio di Fernand Braudel secondo cui la prevalenza del capitalismo finanziario è il segnale dell’autunno della potenza egemone – ha favorito l’eccezionale crescita della Cina, ha generato instabilità a livello mondiale, ha indebolito il sistema socio-economico americano, ha evidenziato la debolezza del sistema militare degli Usa per quanto concerne il controllo diretto di un Paese (Afghanistan e Iraq) e ha creato un caos che è stato sfruttato sul piano geopolitico sia dalla Russia che da potenze regionali, e su quello economico (oltre alla Cina e altri Paesi asiatici) soprattutto dalla Germania, cui tutto o quasi era stato concesso per saldarla all’Atlantico dopo il crollo dell’Urss.
In questo contesto non sarà facile quindi per gli Usa gestire la crisi della Ue, che non è altro che una aggregazione di Stati nazionali in lotta tra di loro (ossia una nullità geopolitica e militare) ed è prevedibile che anche in Europa gli Usa dovranno contare sempre più su gruppi subdominanti. Tuttavia, mentre il gruppo obamiano-clintoniano (per capirsi) sostiene decisamente l’euroatlantismo in funzione antirussa, secondo la logica deterritorializzante tipica del predominio del capitalismo finanziario, viceversa la politica di Trump cerca (non senza contraddizioni) di conciliare la politica di potenza degli Usa con una forma di riterritorializzazione della politica e dell’economia che vada a vantaggio della società americana nel suo complesso.
Comunque, sia che prevalga la politica di Trump sia che prevalga quella dei suoi avversari, è inevitabile che gli Usa si imbattano nei limiti della propria potenza, limiti che dipendono sia da una “sovraesposizione imperiale” dell’America sia dalla crescita di altre potenze. In altri termini, Trump o non Trump, il multipolarismo non solo è già una realtà, ma è pure una realtà che genererà nuovi conflitti e numerose scosse di terremoto geopolitico e geo-economico. Che questo possa pure essere occasione di crescita politica ed economica per diversi Paesi lo si può concedere, ma certo sempre più si evidenzieranno i difetti dell’architettura politica ed economica della stessa Ue, i cui centri di potere sono legati a doppio filo con la parte dello Stato profondo americano ostile a Trump.
D’altronde l’Ue è imperniata sulla supremazia dell’area baltica, mentre l’area mediterranea è quella ormai che conta di più sotto il profilo geopolitico e geostrategico. E nei prossimi decenni l’“esplosione” demografica dell’Africa, potrebbe avere effetti devastanti per il continente europeo, tanto più se si considera il totale e vergognoso fallimento della Ue nel controllare l’immigrazione irregolare. In pratica, l’unica strategia degli eurocrati per quel che riguarda l’area mediterranea pare consistere nel dare carta bianca alla Francia, la cui politica nel continente africano oltre ad aver già danneggiato gravemente l’Italia è del tutto inadeguata a risolvere gli attuali problemi dell’Africa. Invero, l’ambiziosa e velleitaria politica della Francia, che da tempo non è più una grande potenza, potrà solo rendere ancora più difficili i rapporti tra l’Europa e l’Africa.
Pertanto, pare logico che la politica di un Paese come l’Italia nella presente fase storica dovrebbe essere il più possibile “pragmatica”. Nondimeno, è difficile non riconoscere che la politica dei giallo-verdi, benché sia attenta, a differenza dei governi precedenti, a difendere l’interesse nazionale, mostra già molteplici carenze sotto il profilo strategico. La mancanza di una vera strategia politica da parte dei giallo-verdi del resto è confermata dalla manovra del governo, che punta soprattutto sul consenso elettorale.
Una legislatura dura (in teoria) cinque anni. Vi era quindi tutto il tempo per rivedere la riforma delle pensioni e per introdurre il reddito di cittadinanza (al riguardo si sarebbe potuto agire in “modo graduale”) mentre essenziale sarebbe stato puntare subito su investimenti nella R&S, nelle infrastrutture e soprattutto nei settori strategici (energia, robotica, sistemi di difesa ecc.) e al tempo stesso ridefinire gli equilibri di potere nel nostro Paese, adottando nuovi dispositivi di legge e una serie di misure di carattere politico-culturale (a cominciare dal settore della comunicazione, sostenendo la piccola editoria e moltiplicando centri studi e di ricerca in funzione di un nuovo corso politico e culturale).
In questa prospettiva, lo scontro con gli eurocrati avrebbe avuto ben altro significato (e lo stesso vale per la possibile adozione di nuovi strumenti finanziari). In sostanza, barcamenarsi tra Scilla e Cariddi non significa essere “pragmatici” ma solo navigare a vista.

IL LEGGIADRO FILO SPINATO, di Pierluigi Fagan

IL LEGGIADRO FILO SPINATO.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan?__tn__=%2CdC-RH-R-R&eid=ARCw5TGJ87JUTKj9tmT0_T6Wp4SJHFgCRC0vldc_c7P3znfOgHhwmobhgTsbuxt05tL6ZMVd2Ai0fUIB&hc_ref=ARRu_WEX732vEx9UNlFm3oi4_9TZBZGQUAzKJz71m8AT3o38F94hTd9-5t7vAJpN4b0&fref=nf

La geopolitica ha alcune costanti di lungo corso per via della parte “geo” che ne compone l’oggetto, la geografia fisica, in genere, non cambia. Così dalla Dottrina Monroe, ovvero dal 1823 (poi allargata dal Corollario Roosevelt 1904), ovvero da poco dopo che gli “americani” hanno avuto uno stato diventando quindi soggetto geopolitico, gli USA ritengono di dover esser il centro di un sistema che ha tutto intorno due fasce a cui non ci si deve/può avvicinare: 1) tutta la terra continentale (tant’è che chiamiamo “americani” gli statunitensi); 2) tutti e due gli oceani su cui affacciano.

Entro questi spazi, le sovranità le decidono loro se non direttamente, almeno evitando il formarsi di backdoor per eventuali nemici. Molti anni dopo, ci hanno provato anche i tedeschi a tirar fuori una teoria del genere pervertendo il concetto di Lebensraum (spazio vitale) che in verità aveva origini bio-geografiche o con Schmitt col concetto di “grande spazio”. Ma di nuovo, ciò che la geografia e la storia permettono in un contesto, non è detto si possa replicare in altro contesto. Non c’è nulla di più resistente all’idealismo della geografia fisica.

Gli USA si sono momentaneamente allontanati dall’applicazione della Dottrina Monroe in coincidenza dell’affermarsi della strategia globalista che aveva una sua convinzione post-materialistica quindi a-geografica che alcuni teorici liberali continuano a teorizzare (con sempre minor convinzione). Raggiunta una inedita massa critica di governi di centro-sinistra o sinistra-sinistra al 2008, è poi iniziata la Reconquista che ha segnato punti importanti in Cile, Argentina ed ora Brasile. Il Latinobarometro del 2016, censiva un 28% di elettori di centro-destra e solo il 20% di centro-sinistra, con ovviamente un baricentro di 36% centrista, spesso inclinato più a destra che a sinistra.

Alcuni indicano a spiegazione un mix fatto di sette protestanti, insopportabilità della criminalità e corruzione, incapacità della sinistra di far funzionare il capitalismo secondo i suoi spiriti animali, crollo dei proventi da vendita di materie prime che rimangono il principale asset latino-americano. Morti Kirchner, Chavez, Castro e con Lula in galera, le seconde generazioni non hanno ben performato. I leader della speranza hanno un certo vantaggio su i manager della gestione che quelle speranze, in genere, debbono ridimensionare.

Archiviato il trionfo di Bolsonaro, ora la partita si giocherà tra il mantenimento delle promesse fatte dalle destre coadiuvate ovviamente dagli Stati Uniti da vedere però quanto in grado di condividere la loro ricchezza vista la postura neo-egoista da una parte e il messicano Obrador ragionevolmente social-democratico dall’altra. Il crollo dei prezzi delle materie prime permane (con grande gaudio dei statunitensi nel frattempo riconvertitesi al materialismo-realista che a questo punto si riproporranno come principale/unico partner commerciale dotandosi di una congrua riserva utile a trincerarsi maggiormente in casa visti gli incerti tempi multipolari), la contrazione generale degli scambi internazionali pure, fintanto che gli statunitensi continueranno a drogarsi intensamente la criminalità certo non diminuirà, il Venezuela (preda ambita per via delle corpose riserve petrolifere) cadrà e la Cina continuerà a corteggiare l’area offrendo una alternativa sempre più difficile da perseguire.

Nel migliore dei mondi immaginabili ma non necessariamente possibili, la vera alternativa sarebbe la costituzione di uno stato latino-mediterraneo europeo dove portoghesi, spagnoli ed italiani potrebbero rappresentare l’alternativa ideale per un sistema di co-evoluzione basato su familiarità, reciprocità e differenza. In fondo, la Monroe che è una dottrina non solo geografica ma geostorica, venne fatta ai tempi proprio contro gli europei perché legami e relazioni stratificate nel tempo storico, contano.

Il tempo e gli uomini ci diranno come andrà a finire, per ora “Monroe is back” (che poi in realtà la dottrina era di J.Q.Adams, quinto presidente USA).

«Oggi […] le terre anche loro son libere, salvo alcuni scampoli come le colonie francesi e inglesi, e il campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato.»

(Carlo Emilio Gadda, La meccanica, 1929)

Identitari e globalisti 3a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la terza parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente importanti spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

1a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/10/identitari-e-globalisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

2a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/14/identitari-e-globalisti-2a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Il nemico principale dei liberali italiani.

Quanto ai liberali italiani, l’individuazione del nemico principale è agevole. L’Italia è tra i primi dieci Stati del pianeta (su quasi 200) per prodotto nazionale lordo; tra i primi venti per il P.I,L. (Prodotto Individuale Lordo). Ma se passiamo a quelle classifiche dove ad essere presi in considerazione sono attività e funzioni pubbliche, raramente andiamo oltre metà (dai primi posti passiamo alle ultime file). Anche se certe graduatorie possono non apparire del tutto convincenti, le posizioni analoghe raggiunte, la distanza che le separa da quelle “private”, e la concordanza dei dati (da quelli sulla giustizia, a quelli sui tempi della p.a., da quelli sulla morosità del settore pubblico a quelli sul numero dei dipendenti in rapporto ai servizi) rendono evidente che il problema principale della società italiana è costituito dagli apparati pubblici, dal loro costo, dal rapporto di questo con il rendimento (la “macchina di Fortunato”), dalla scarsa responsabilizzazione, dalla tendenza a sottrarsi al controllo politico, a quella di approfittare delle stesse insufficienze per limitare la libertà dei cittadini e l’efficienza economica. Non stupisce che tali apparati – spesso parassitari – prelevino una quantità crescente di risorse (da un quarto del PNL di mezzo secolo fa alla quasi metà del 2015) e che tale prelievo sia aumentato durante la crisi economica (a PNL decrescente corrisponde una tassazione crescente).

Con la crisi del 2008, il “golpe” dello spread nel 2011 e la svendita dei titoli del debito pubblico, al parassitismo poliburocratico si è sommato quello della finanza (internazionale e non), rendendolo ancora più intollerabile.

Qualche anno fa un Ministro, con un’inconsapevole ironia, disse in Parlamento che “pagare le tasse è bellissimo”; da tutti i dati risulta che è sicuramente bellissimo, ma per chi ne approfitta, non per chi le paga; per quest’ultimo (cioè la grande maggioranza) è sicuramente inutile, perché ne riceve di ritorno solo una frazione di quel che da.

Anche (e soprattutto) perché, diversamente da un tedesco, francese o spagnolo, prestazioni e servizi pubblici erogati a un italiano sono generalmente di livello qualitativo e quantitativo inferiore, peraltro non in pochi casi peggiorato proprio quando ne erano aumentati i “corrispettivi”.

La difesa parlata del Welfare ha aumentato il volume quando ne calavano le prestazioni: tanto chiasso è stato in tutta evidenza programmato e gestito per occultare la prassi opposta (come diceva Aldo Bozzi, in politica le parole servono a coprire i fatti). Ciò non comporta solo un espropriazione ossia quello che Miglio chiamava “rendita politica”, declinata nella storia in tutte le forme e modi (dal saccheggio allo sfruttamento durevole dei governati), ma anche una perdita generale di libertà. E non solo economica: il parassitismo poliburocratico va riducendo anche gli spazi di libertà non economica. Ad esempio una delle vie indirette a tal fine più praticate negli ultimi vent’anni dalle élite decadenti è stato di peggiorare l’accesso alle procedure giudiziarie per la riscossione dei crediti verso le PP.AA., di guisa da procrastinarne il pagamento; o anche la riduzione ai tassi minimi degli interessi legali, che essendo lo Stato il maggior debitore, significa azzerare (o quasi) il costo – a carico dei creditori – del mantenimento del debito (e quindi incentivarlo). Se un Puviani redivivo dovesse riscrivere L’illusione finanziaria vi dedicherebbe un capitolo.

L’altro aspetto preoccupante è che le prassi predatorie, praticate dal regime decadente hanno consumato quella legittimità che, con una certa fatica, la c.d. “prima Repubblica” si era faticosamente conquistata. Anche se quella legittimità era stata lungi da essere piena, ma piuttosto ricordava – anche ai tempi di De Gasperi ed Einaudi – quella che Ferrero definiva “quasi-legittimità”, il consenso ai partiti di sistema (cioè i partiti del CLN) era comunque enormemente superiore all’attuale. In definitiva, ad impiegare l’indice elettorale, tra il 90% dei votanti degli anni ’70-’80 i partiti di “sistema” ottenevano circa l’80-90% dei suffragi (cioè il consenso di due terzi abbondanti degli elettori); oggigiorno i partiti non identitari ossia PD, spezzoni di centristi e Forza Italia ottengono circa il 45% dei voti espressi, questi pari a meno di 2/3 degli elettori. Cioè il consenso di circa il 30% dei cittadini.

Che poi la scarsa propensione a votare riduca anche il consenso dei partiti “populisti” è una magra consolazione: perché significa che recarsi a votare è considerato dagli elettori sempre più inutile. Disaffezione dalla politica che corrisponde a disillusione e spesso a disperazione per chi non vede via d’uscita e proposta credibile ad una crisi economica ed epocale.

E non ha neppure la consapevolezza e la visione delle soluzioni, né a livello di base né molto spesso a quello di vertice.

Nei partiti identitari se Lega e Fratelli d’Italia hanno una visione e un programma (abbastanza) coerente, anche se talvolta non liberale, quelli dei grillini sono assai più sfocati, equivoci, talvolta ondeggianti tra utopia e strumentalizzazione di idola consunti.

Va da se che la transizione in corso provocherà alle prossime elezioni politiche e nel Parlamento futuro, o una (risicata) maggioranza dei populisti o – meno probabile – un’altrettanta modesta maggioranza da “antico regime” ascrivibile probabilmente alla coalizione tra leghisti, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Comunque un paese spaccato in due.

Ma in una situazione difficile i liberali possono offrire le fondamenta di soluzioni condivise malgrado il cambio di discriminante: tutela dei diritti fondamentali (del cittadino e non solo dell’uomo), distinzione dei poteri, democrazia rappresentativa, funzioni pubbliche realmente tali e non appropriate (di fatto) a corporazioni, lobbies e così via. Sono le costanti che hanno sorretto il liberalismo in quasi cinque secoli, malgrado le transizioni tra discriminanti, che hanno arricchito nella storia il bagaglio ideale e la prassi del liberalismo, facendolo diventare common sense. Chi oggi contrasta, nel mondo “occidentale” il diritto di libertà religiosa o di pensiero? Chi il diritto di voto uguale per tutti? Chi la solidarietà (fraternité) fra cittadini in uno Stato sociale (caso mai sono le forme o la misura ad essere discusse)? Anche la discriminante identità/globalizzazione sarà ricomposta e conciliata.

Fine al quale il liberalismo italiano, per la sua caratteristica storica nazionale, intesa come tutela dell’esistenza e specificità della comunità tra altre comunità di pari livello e dignità, alieno da volontà di dominio e sopraffazione è particolarmente vocato. La servilità che Orlando vedeva nel secondo dopoguerra come tara (anche delle future) classi dirigenti della Repubblica può ormai solo accompagnare ed aiutare il processo di decomposizione comunitaria.

L’essenziale è tener la testa rivolta al futuro, e non averne paura. Peggio ancora, adagiarsi sul passato. Al termine di un ciclo politico, quando la decadenza stessa è alla frutta, guardare al passato significa solo ritardare la nascita del nuovo. Evento che non dipende tanto dalla volontà umana, quanto da regolarità politiche e storiche.

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

Teodoro Klitsche de la Grange

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