Lo spionaggio economico: un’antica arte nata in Italia, di Giuseppe Gagliano

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Roma, 6 gen – Dal punto di vista storico nel corso del medioevo spetta certamente ai paesi mediterranei, ed in particolare all’Italia, il merito di avere travalicato gli avamposti asiatici sulle sponde del Mar Nero, in Siria e in Terrasanta. L’opera di predicazione dei mis.sionari non impedì loro di osservare e di svolgere una collaterale azione diplomatica e di spionaggio economico ragguagliando i propri committenti – ora papi ora sovrani – sulla presenza di determinati prodotti nelle piazze mercantili, sulle condizioni delle strade e sulle città lungo le piste carovaniere. Alle spalle dei più avventurosi viaggi di mercatura durante il medioevo ci furono spesso importanti compagnie commerciali e talora cancellerie degli Stati che avevano bisogno di informazioni strategiche sia in ambito strettamente economico che in ambito militare.

A questo proposito pensiamo al viaggio commissionato da Papa Innocenzo IV nel 1245 al francescano Giovanni del Carpine allo scopo di studiare – fra l’ altro – la strategia e la tattica militare dei mongoli (viaggio che si concretizzerà in un’opera composta nel 1247 dal titolo Storia dei mongoli). Oppure pensiamo al viaggio fatto dal francescano Odorico da Pordenone, attorno al 1318, in direzione di Costantinopoli – partendo da Venezia – grazie al quale sarà in grado di fornire un prezioso quanto preciso elenco di merci, di prodotti esotici e di spezie che troverà nei paesi orientali (dalla manna della Caldea al pepe di Malabar, dallo zenzero di Ceylon alla canfora e alla noce moscata dell’isola di Giava). Un’altra fonte preziosa di informazioni sia economiche che di natura politica furono quelle date dal mercante Nicolò de’ Conti a Papa Eugenio IV nel 1400 relative ai suoi 25 anni di viaggio tra Damasco, India e Sumatra.

Un altro illuminante esempio di “spionaggio medievale” ci viene offerto dal mercante di pietre preziose veneziano Cesare Federici che, intorno alla seconda metà del 1500, avrà modo di viaggiare a Baghdad e in India. In particolar modo descriverà, con estrema accuratezza, i movimenti commerciali dei porti indiani e degli empori sia di Ceylon che dell’arcipelago malese. Inoltre, dato l’interesse specifico per le pietre preziose, sarà in grado di redigere un vera e propria carta geografica delle pietre presenti sia a Delhi sia a Giava.

Tuttavia, a partire dal 1500, la presenza italiana ed in particolare quella veneziana, genovese e fiorentina, verrà profondamente ridimensionata a causa del dominio delle grandi potenze nazionali come la Spagna e il Portogallo in un primo momento e in un secondo momento a causa della spietata guerra economica tra le compagnie olandesi ed inglesi come d’altronde avranno modo di testimoniare sia il mercante Filippo Sassetti verso il 1578 che il mercante fiorentino Francesco Carletti nel 1602.

Ieri – come oggi – cercando di semplificare l’assenza di una politica statale di lungo respiro (quando non addirittura l’assenza dello stato in quanto tale), di una politica di potenza e l’assenza di una sinergia (certo contraddittoria e complessa) tra soggetti statali e attori economici privati saranno alcune delle cause che determineranno il tramonto delle potenze marinare italiane più propense a farsi guerra tra di loro che ad avere una politica comune come accade oggi nel contesto europeo.

Giuseppe Gagliano

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MACHIAVELLI SUL POPULISMO

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L’Italia è tornata ad essere laboratorio politico. Media, giornalisti, insegnanti d’università e di liceo, blogger, filosofi, banchieri, scienziati ed altri s’interrogano sul populismo e sul perché il nostro sia il primo paese europeo occidentale ad essere governato da un bicolore popul-sovran-identitario. Certezze scosse e novità impreviste rendono inutili strumenti (ed autori) usuali fino a pochi anni fa. Dato il carattere di svolta e novità epocale, abbiamo provato a chiedere lumi a Niccolò Machiavelli. Il quale ci ha gentilmente concesso questo colloquio.

Qual è la principale causa del successo populista?

Gli è che tutti i reggimenti politici sono come gli uomini: nascono, crescono, decadono e muoiono.

Il vostro reggimento, nato da una sconfitta militare, e con una classe divenuta dirigente “per grazia di chi lo concede” (il potere) è durato tanto: segno che quei governanti, divenuti tali per fortuna, non erano scarsi d’ “ingegno e virtù”. Ma col passare dei decenni l’uno e l’altro si sono consunti. I nipoti di quei vecchi, ossia i governanti di quella che chiamate la seconda repubblica, non potevano ereditare “ingegno e virtù” né comprarli al mercato.

Quindi i populisti vincono per demerito degli altri?

Non so se quanto per demerito o per il decorso del ciclo politico (nascita, crescita, decadenza, fine). Sicuramente un po’ per assenza di ingegno e virtù, un po’ per tale “regolarità” politica.

E perché nessuno ne parla?

Non sia ingenuo. Parlare della propria assenza di virtù è come ammettere di essere inadatto a governare da una parte; dall’altra sminuire i propri meriti di vincitori. Quanto al ciclo politico, tale idea è contraria a quella di progresso sulla quale le vecchie elite avevano costruito la propria fortuna. Ammettere che non avevano la ricetta per realizzarle le “magnifiche sorti e progressive”, è confessarsi dei Dulcamara, ricchi di parole e poveri d’ingegno. Per gli altri vale sempre il discorso sui loro meriti; che non sono gli stessi se dipendono da quella regolarità. Seneca scriveva volentem ducunt fata, nolentem trahunt: ma se è il fato a decidere, loro di che possono vantarsi?

Gli sfrattati dal governo dicono che quello populista durerà poco. Che ci può dire?

Che questi ragazzi (Salvini, Di Maio) non sono grulli! Forse non mi hanno letto ma hanno capito. Come ho scritto, quando qualcuno conquista il potere “con il favore degli altri suoi cittadini” e questi quel favore ce l’hanno perché hanno vinto le elezioni, l’essenziale è non inimicarsi il popolo: non hanno ottenuto il potere col “favore dei grandi” ma con quello del popolo e “debbe pertanto uno che diventi principe”, “mantenerselo amico”.

Ciò è facile, perché gli basta non opprimerlo. E così sarà sostenuto dal popolo anche nelle avversità, come quelle in cui vi trovate. Avendolo i loro predecessori oppresso, caricato di tasse e privato di risorse, non gli è difficile, con poco, far capire che la musica è cambiata.

Che ne pensa a proposito delle tasse degli italiani?

I predecessori non avevano capito che i cittadini possono perdonare o meglio sopportare governanti che gli hanno ammazzato il padre o il fratello, ma non perdonano né dimenticano chi gli ha tolto la roba. Quelli credevano di imbrogliarli con discorsi commoventi, ma alla lunga non hanno retto.

Ma i vecchi governanti distribuivano quanto prelevato. Non è così?

Se anche lo fosse – e non lo è o non lo è del tutto – hanno trascurato che un principe può essere liberale quando spende denaro d’altri, ma non quando distribuisce quello proprio o dei propri sudditi. Chi lo vota non lo dimentica. E c’è altro.

Che cosa?

I vecchi governanti contavano troppo di tenersi su col favore dei grandi più che del popolo. Grandi che sono alemani, francesi ed altro. Hanno persino dato la fiducia – loro eletti dal popolo – ad un governo di persone mai elette neanche in un condominio, ma graditi ai grandi. I quali hanno governato di guisa da non scontentare quelli (dal cui favore dipendevano), ma dispiacendo il popolo. Hanno dimenticato che quando si governa con i grandi, che sono – almeno – pari a loro, questi non si possono “comandare né maneggiare a suo modo”. E infatti, i grandi li hanno aiutati poco o punto, quando ne avevano necessità.

Non è che i vecchi pensavano di poter persuadere il popolo della bontà della loro politica?

Si può governare con due mezzi: la forza del leone o l’astuzia della volpe. Ma non si può credere che, ripetendo le stesse cose per anni, e con risultati coì modesti tutti potessero essere abbindolati per sempre credendo a quei ritornelli. A volte capita, come a Messer Nicia “Quanto felice sia ciascun sel vede/chi nasce sciocco ed ogni cosa crede”. Ma si trattava di uno e non di tutti. E lo stesso Messer Nicia era vittima dei raggiri di Ligurio in quell’occasione specifica. Questi pretendevano di andare avanti per sempre e con tutti, con le loro azioni buoniste.

E se le cose fossero andate bene, forse queste astuzie sarebbero state utili. Orazioni e cerimonie lo sono, quando c’è tempo buono “ma non sia alcun dì sì poco cervello/ che creda, se la cosa sua ruina che Dio lo salvi senz’altro puntello/ perché morrà sotto quella ruina”. Cosa, per l’appunto, loro capitato con la crisi.

In definitiva cosa consiglia ai nuovi governanti?

Di tenersi stretto il popolo, perché non possono contare – o possono poco – sul favore dei grandi.

Non pensa che alemani ed altri possono profittare della divisione degli italiani? E far cadere il governo?

Di sicuro: e dividere i nemici è la prima regola per il successo della lotta. Ma attenzione: “la cagione della disunione delle repubbliche … è l’ozio o la pace, la cagione della unione è la paura e la guerra”. A minacciare sempre spread, sanzioni ed altro, il consenso del popolo al governo viene ad essere rafforzato. Come capitato nella guerra tra Roma e Veio.

La ringrazio. Mi concederà un’altra intervista?

Certo. Sa qui sto bene come a S. Casciano tra una briscola e una scopetta con i beati. Ma son tutti così buoni! E io mi annoio un po’. Meglio così tornare di quando in quando con i viventi, tutti intenti a sporcarsi le mani con la politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

Elogio dello Stato nazione, di Andrea Zhok

Elogio dello Stato nazione

Ogni tanto, più frequentemente di quanto si creda, si incontrano persone convinte in buona fede che gli Stati nazione siano un reperto archeologico, un vecchiume prossimo a finire nella famosa pattumiera della storia. Esse vagheggiano un mondo senza confini, magari governato in modo discreto e non intrusivo da un remoto ente amministrativo neutrale, premurosamente sollecito a garantire i diritti di ciascuno. In questo mondo da spot della Coca-Cola, tra un coro alla luce degli accendini ed eccitanti viaggi in luoghi esotici, essi sognano una serena grande famiglia umana, pacificata e cosmopolita…

Ed è a quel punto che suona la sveglia, fuori diluvia, e ti sta piovendo in casa.

Purtroppo i vagheggiamenti di questi garbati sognatori non sono mere fantasie ludiche, ma opinioni politiche che vanno a detrimento dell’unica cosa che li separa da qualcosa che è l’esatto opposto dei loro auspici.

  • Sull’origine degli Stati.

A partire dall’età del Bronzo, organizzazioni statali hanno cominciato a subentrare a quelle tribali come forma di governo secondo legge. Ogni comunità umana, anche la più primitiva ed esigua, ha sempre sentito il bisogno di munirsi di leggi, orali o scritte, per gestire i rapporti tra i membri della comunità al di là della ‘legge del più forte’ (che equivale all’assenza di legge). Le più diffuse e tradizionali forme di ordinamento politico ricalcavano le forme di autorità proprie dei nuclei famigliari, con un centro di comando inteso come ‘padre’ della comunità, cui ci si rivolge per ottenere giustizia. Questo modello, familistico e poi tribale si amplia ed estende enormemente nelle successive forme statali: regni o imperi. Continua qui a vigere un ordinamento autoritario e paternalistico in cui gli inferiori sono vincolati al potere del sovrano in quanto quest’ultimo è legittimo; al tempo stesso vige una ‘reciprocità asimmetrica’, tale per cui il superiore deve ‘prendersi cura dell’inferiore’ (difesa, sostentamento emergenziale).

La legittimità del sovrano premoderno è conferita dalla discendenza corretta (sangue reale) o dalla nomina secondo forme tradizionalmente legittimate (es.: l’adozione degli imperatori romani). In ogni caso al sovrano si deve assoluta lealtà in quanto è il garante di ogni ordine e in ultima istanza della stessa vita civile. (Il regicidio condivide con il parricidio/matricidio lo stigma di peggiore dei reati concepibili.) Dal vertice di comando discende poi una piramide di parziali, e revocabili, deleghe di potere ad altri soggetti, che emulano il ruolo del sovrano con funzioni e territori più circoscritti (ciò è evidente nel feudalesimo, ma onnipresente).

  • Le radici delle democrazie negli Stati nazione

Fino a tempi recenti gli ordinamenti statali democratici sono stati un’assoluta rarità, di cui trovavamo traccia episodica nel mondo antico. La precondizione per tentativi di governo su basi egualitarie era una forte unità popolare, culturalmente consapevole di sé, operante nei limiti circoscritti di una città-stato. Tutti i pochi casi registrati prima del mondo moderno hanno queste caratteristiche di località e omogeneità culturale, dalle città greche (Megara, Argo, Chio, e paradigmaticamente Atene) agli isolati esperimenti medievali in Svizzera e Islanda.

Per vedere la nascita di Stati democratici di estensione superiore a quella di una città dobbiamo prima vedere la nascita degli Stati nazione, che cominciano a germogliare dopo la Rivoluzione Francese. La Rivoluzione del 1789 fa venir meno le forme di legittimazione attribuite alle dinastie tradizionali (a partire dall’ereditarietà) e con ciò la capacità del sovrano di esigere lealtà e di esercitare la propria sovranità.

Con il venir meno del collante rappresentato dalla lealtà al sovrano gli Stati esistenti avevano bisogno di trovare un collante sociale alternativo. Tale collante non poteva essere semplicemente inventato dal nulla, pena l’inefficacia, e tuttavia esso non era già disponibile in forma compiuta: questo è il ruolo che è stato assegnato appunto all’idea di nazione come comunità naturale/culturale. Come ricorda Federico Chabod nella sua celebre analisi dell’Idea di Nazione (1961) il modello su cui si è costruita tale idea era tributario di due componenti, una di ordine naturalistico, legata all’identità territoriale ed etnica, ed una di ordine culturalistico, legata all’identità culturale e linguistica. Come ricorda Chabod, tra le nazioni che presero forma nel corso dell’800 la Germania presentava una preponderanza di tratti naturalistici e l’Italia una preponderanza di tratti culturalistici.

  • La nazione tra tradizione e volontarismo

La nazione è il popolo ‘accomunato da una medesima nascita’, dove tale comunanza di nascita può essere definita con riferimento a una pluralità di aspetti: territoriali, linguistici, religiosi, di costume, etnici, ecc. In questo senso la nazione non è mai bell’e pronta, pur non essendo mai una creazione fantastica: essa è, dall’inizio, in parte un fattore realmente dato in una tradizione storica, ed in parte un fattore che si cerca volontaristicamente di portare alla luce, e talora di inventare (si pensi all’omogeneizzazione di una lingua standardizzata in comune). L’operazione che porta alla luce le moderne nazioni è un’operazione politica straordinaria, la cui novità e potenza è spesso molto poco apprezzata.

Lo Stato nazione non è mai stato un mero fatto di cui prendere nota. La moderna mentalità politica, maturata ai banchi del supermercato, con l’idea che o qualcosa è pronto o ti rivolgi a un altro fornitore, tende a considerare lo Stato nazione come un artificio, perché non lo si trova mai pronto sul bancone della storia. Ma senza una componente volontaristica nessun consorzio umano, famiglie di sangue incluse, può esistere. Soltanto un’umanità enervata, che prende la dimensione della vita sociale come un ‘prodotto’ tra gli altri, può azzardare una tale assurdità. Nessuna famiglia, nessuna città, nessuno Stato possono funzionare senza che vi sia anche una componente volontaristica nel voler costruire qualcosa insieme.

Gli Stati nazione sono perciò nati da una base reale, ma ovviamente imperfetta, che ha richiesto uno sforzo storico costato fatica, lacrime e sangue. L’idea fondativa dello Stato nazione era quello di portare una struttura istituzionale e operativa all’altezza di un popolo in embrione, che aveva bisogno per esprimersi di disporre di un’organizzazione demografica e territoriale abbastanza ampia per potersi difendersi economicamente e militarmente. Lo Stato nazione era un’entità intermedia tra la dimensione politica della comunità locale (come la città stato) e quella anonima degli imperi, tenuti insieme dalla fedeltà ad una linea dinastica (l’ultimo di questi imperi sovranazionali fu quello austroungarico, il cui collante fino alla fine fu la fedeltà agli Asburgo). Lo Stato nazione moderno si presenta perciò come una sintesi tra l’esigenza di comunanza e affinità sufficiente a creare un corpo politico, e l’esigenza di forza e autonomia sufficiente a difendersi. In generale, omogenità culturale e limitatezza territoriale conferiscono forza come compattezza, mentre l’estensione demografica e territoriale conferiscono forza come potenza economico-militare; le due tendenze operano in senso inverso. Possono essere Stati nazione efficienti sia Stati relativamente piccoli, ma omogenei e compatti, sia Stati più vasti, ma meno omogenei: storie diverse in luoghi diversi hanno trovato compromessi diversi.

  • Il nesso interno tra nazione e democrazia

Come detto, è nel contesto dei moderni Stati nazione e solo qui che trovano spazio le istanze delle moderne democrazie. Le pretese democratiche degli stati moderni si fondano sullo spostamento del soggetto della sovranità dal monarca al popolo nazionale. Il processo di democratizzazione notoriamente non è stato immediato, tuttavia nel momento stesso in cui la sovranità dello Stato è stata attribuita alla nazione, cioè al ‘popolo accomunato da una medesima nascita’, il percorso verso l’estensione del suffragio e le istituzioni democratiche era aperto.

Il nesso tra democrazia e idea di nazione è profondo e non accidentale. Il primo presupposto della democrazia, infatti, è l’assunto per cui ciascun cittadino si affida al giudizio di tutti gli altri, accettando l’esito della volontà maggioritaria, anche quando avversa. In questo comportamento non c’è niente di scontato. La storia mostra come, chi sia convinto che una ‘maggioranza’ vuole distruggere la propria forma di vita, o la propria comunità, opponga ogni tipo di resistenza, legale o illegale, anche al prezzo eventualmente di soccombere a quella maggioranza. La maggioranza non conferisce automaticamente legittimità. Sul piano individuale, se un elettore dichiarasse di votare per massimizzare il danno verso il paese in cui vota difficilmente questa si presenterebbe come un’opzione di voto legittima: potrebbe essere tollerata, ritenendola ininfluente, ma essa resterebbe di principio inaccettabile.

L’accettazione degli esiti di un voto in una democrazia presuppone l’assunto che tutti i votanti siano idealmente accomunati dall’interesse per il proprio paese e dalla prosperità del suo popolo. Solo sotto questo assunto tacito si può accettare la sconfitta democratica come una sconfitta relativa e non come la resa ad un nemico. Il votante in una democrazia accetta che il proprio voto valga di diritto quanto quello di chiunque altro in quanto esiste un punto di vista accomunante da cui, nonostante tutte le differenze individuali, l’altro cittadino è un alter ego, un ‘altro-come-me’. E tale punto di vista è fornito dall’idea di un interesse comune per il bene del paese. Il diritto di voto, e in generale i diritti politici, sono idealmente definiti da un presupposto valoriale, ovvero dal comune ‘amore per il paese’.

Una democrazia non è un astratto esercizio istituzionale, ma un costrutto che ha come presupposto etico e pratico l’esistenza di uno Stato nazione. Se, o nella misura in cui, questo fattore accomunante viene meno, la democrazia perde di tenuta e legittimazione, fino all’ineffettualità o alla scomparsa.

La sovranità democratica esige un ampio spazio di condivisione di interessi e valori, per lo più taciti, in quanto è solo sotto queste premesse che essa può imporre il riequilibrio dei poteri alle parti più forti della società: solo nel nome di un superiore interesse comune divengono possibili, ad esempio, norme che impongono tassazioni redistributive o servizi pubblici universalistici.

Questo spazio di condivisione ha due caratteristiche essenziali:

1) Deve trattarsi di un spazio definito in termini territoriali e demografici: coloro i quali partecipano del patto sociale, conferiscono legittimità democratica, operano le scelte politiche, subiscono prelievi fiscali e godono dei servizi pubblici in un certo territorio devono essere sostanzialmente entità coincidenti, con piccoli margini di aggiustamento. Questa è la ragione di fondo dell’esistenza di confini amministrativi.

2) Deve essere uno spazio di condivisione che consente un’interazione fattiva tra i soggetti che lo abitano, che devono perciò avere tradizioni materiali, culturali e linguistiche comuni, o affini. Senza questo strato comune non c’è modo che un edificio normativo possa mai venire implementato. Ci possono essere gradi di comunanza variabili e differenze parziali, ma il grado di diversità deve essere sorvegliato e non può variare liberamente. Questo è un tratto che il liberalismo ha sistematicamente sottovalutato, ignorando il ruolo decisivo delle normatività silenti che abitano i significati sociali: parole, simboli, atti. (Questa sottovalutazione si percepisce in maniera trasparente nell’imbarazzo a trattare istanze etiche allotrie, come quelle mosse da ampie fasce della cultura islamica trapiantata in occidente).

Non basta dunque parlare di Stato per nominare un’istituzione capace di difendere i più deboli e di operare in una dimensione egalitaria. È necessario uno Stato dotato di un collante sociale diffuso, e questo è quanto lo Stato nazione ha fornito. Quando uno Stato viene depauperato del suo collante sociale, come accade con le moderne dinamiche di mercato, ad esso deve progressivamente subentrare un controllo autoritario, che supplisce alla tacita normatività condivisa con norme repressive rinforzate da sanzioni. Questo è in effetti il modello dello ‘Stato minimo’ o ‘Stato sentinella’ auspicato dal liberalismo, che, lungi dal rappresentare una garanzia delle libertà individuali, rappresenta invece una riduzione drastica di ogni libertà autentica. Lo ‘Stato sentinella’, infatti, è uno Stato dove il cittadino non è partecipe con altri cittadini ad alcun progetto comune, ma esiste in competizione costante con tutti gli altri. Questa situazione moltiplica gli spazi di conflitto potenziale e reale all’interno della società, che perciò esige interventi punitivi e securitari. In questo senso il destino paradossale dello Stato auspicato dalla tradizione liberale è di produrre una società sorvegliata, irrigidita, impaurita, in ultima istanza priva di libertà (salvo quella di contratto).

  • Conclusioni

Lo Stato nazione democratico è di gran lunga la più efficace forma istituzionale mai inventata a sostegno dell’egalitarismo e a tutela dei più deboli. I diritti, quali che siano, non fluttuano a mezz’aria e non cadono dal cielo: essi esistono solo se e dove c’è uno Stato. E solo uno Stato nazione democratico concepisce i diritti in forma egalitaria, cioè come appartenenti a tutti i cittadini parimenti soggetti alle medesime leggi. Solo dove ci sono giudici formati e nominati secondo procedure sorvegliate da uno Stato, e solo dove c’è un diritto forgiato democraticamente, esiste la possibilità che il debole sia giudicato come il forte, il povero come il ricco, che il più giusto possa avere la meglio sul più forte. A garantire tutto ciò è solo il potere sovrano dello Stato e nient’altro.

Chiunque vagheggi di un mondo dove non ci siano Stati, dove non ci siano confini, dove non ci siano appartenenze nazionali e linguistiche, o dove tutto ciò sia ridotto ai minimi termini, che lo sappia oppure no, sta supportando oggettivamente la legge del più forte.

Chi sostiene tali idee sta virtualmente consegnando ogni individuo all’arbitrio delle multinazionali, e/o alla prevaricazione della criminalità organizzata, e/o alle violenze dei signori della guerra, ecc.

Chiunque vagheggi la fine degli Stati nazione, senza sapere bene con cosa sostituirli, ma perseguendo qualche irenica visione cosmopolita, di fatto sta lavorando per il dominio di gruppi di interesse privato dalle agende imperscrutabili e fatalmente antidemocratiche.

Chiunque chiacchieri a cuor leggero di fine degli Stati nazione, potrà credersi la persona migliore del mondo, ma sta concretamente aiutando la presa di potere dei peggiori.

COSTITUZIONE UNGHERESE E STATO DI DIRITTO (testo integrale), di Teodoro Klitsche de la Grange

Qui sotto il testo integrale del saggio. Chi avesse già letto la 1a parte, già pubblicata il 2 gennaio scorso, può ripartire dal punto 5. Buona lettura_Giuseppe Germinario

COSTITUZIONE UNGHERESE E STATO DI DIRITTO

La costituzione già vigente in Ungheria, prima dell’attuale (ossia quella adottata nel 1949 ampiamente modificata dopo il crollo del regime comunista) grazie anche agli interventi della Corte costituzionale, era stata adattata alla nuova situazione politica.

Dal 2012 è entrata in vigore la nuova Costituzione. Il testo è suddiviso in tre parti, con numerazione diversa: gli articoli della prima parte sui “principi fondamentali” sono segnati da una lettera (da A a T); la seconda parte sui diritti e doveri (intitolata Libertà e responsabilità) porta numeri romani (da I a XXXI); e, infine, la terza parte sull’organizzazione dello stato ha numeri arabi (da 1 a 54).

La Costituzione del 2012 nel preambolo fa esplicito riferimento al cristianesimo, e recita: “Riconosciamo il ruolo del cristianesimo nella preservazione della nazione. Rispettiamo le diverse tradizioni religiose presenti nel nostro paese”; è garantita la protezione del feto (art. II). Un altro articolo definisce il matrimonio come unione tra uomo e donna e dispone la protezione della famiglia come “la base per la sopravvivenza della nazione”. La “fonte del potere pubblico è il popolo” dispone l’art. B.

L’art. C (I° comma) dispone che “il funzionamento dello Stato ungherese si fonda sul principio della separazione dei poteri”.

Sempre l’art. C (II° e III° comma) fonda il monopolio della violenza legittima dello Stato, che appare completato dal diritto ed obbligo (per tutti) di intervenire in modo legittimo, contro simili pretese (di conquistare o esercitare il potere con la violenza) che pare fondante un diritto di resistenza “minore”.

Il controllo di costituzionalità è sia preventivo che successivo (al contrario di quello italiano che è solo successivo); dato che precedentemente era possibile l’azione popolare, il ricorso (diretto) individuale è attribuito (così restringendolo) ai soli soggetti lesi dall’atto impugnato (v. art. 24).

I giudici e i magistrati della Procura “sono indipendenti”; non possono essere iscritti a partiti, né svolgere attività politica. Si noti che i Presidenti della Corte Costituzionale, della Corte Suprema d’Appello e il Procuratore generale sono eletti dall’Assemblea nazionale. Tale soluzione era quella già prescritta nella Costituzione del 1949, tipica degli Stati del socialismo reale, anche se, in quelli, estesa a tutti i giudici, peraltro revocabili (e quindi non inamovibili)[1]. La regolazione delle garanzie istituzionali dello status e della retribuzione dei magistrati è demandata ad una “legge organica”.

L’art. L dispone che “L’Ungheria tutela l’istituto del matrimonio quale unione volontaria di vita tra l’uomo e la donna, nonché la famiglia come base della sopravvivenza della Nazione. L’Ungheria sostiene l’impegno ad avere figli”.

L’art. O dispone che “Ognuno è responsabile di se stesso ed è tenuto a concorrere all’espletamento delle funzioni statali e comunitarie secondo le proprie competenze e possibilità”.

L’art. R al comma I° dispone che la Legge fondamentale (cioè la Costituzione) è “la base dell’ordinamento giuridico dell’Ungheria”. Al comma III che “le norme della Legge Fondamentale vanno interpretate in armonia con il loro fine, con la Professione Nazionale ivi compresa, e con le conquiste della nostra costituzione storica”.

L’art. S prescrive le norme per le modifiche costituzionali che ne richiedono l’approvazione con maggioranza qualificata “dei due terzi dei deputati dell’Assemblea Nazionale” (è così una Costituzione rigida). L’art. T (comma IV°) prescrive poi che “le leggi organiche sono approvate con la maggioranza dei due terzi dei deputati presenti” (tali leggi sono prescritte dalla costituzione in materia di particolare rilievo, indicate dalla stessa legge fondamentale).

L’art. I dispone “I diritti inviolabili ed inalienabili dell’uomo vanno rispettati. È obbligo primario dello Stato la protezione di essi”, il III comma prescrive “Le norme che riguardano i diritti e i doveri fondamentali sono stabilite dalla legge. Un diritto fondamentale può essere limitato, nella misura strettamente necessaria, allo scopo di far valere un altro diritto fondamentale o di difendere dei valori costituzionali, in modo proporzionato al fine intenzionato e nel rispetto dei contenuti essenziali del medesimo diritto fondamentale”. Tale ultimo precetto ricorda, per la garanzia del contenuto, l’art. 19 (II° comma) della Grundgesetz tedesca.

Gli articoli dal II al XXX proteggono i diritti di libertà e proprietà garantiti in ogni Stato borghese, con particolare attenzione alla famiglia e ai minori (articoli XVI e XVIII). L’art. XXXI prevede, tra l’altro obblighi e limiti dello Stato d’eccezione, che sono destinati a essere disciplinati dettagliatamente dagli artt. 48-54.

Quanto all’organizzazione dello Stato, l’art. 15 prescrive il principio di legalità per gli atti del Governo, l’art. 21 la sfiducia al Primo Ministro eletto dall’Assemblea Nazionale (con indicazione del sostituto “suggerito” il che ne fa una “sfiducia costruttiva”).

L’art. 30 istituisce il Commissario dei diritti fondamentali che “svolge l’attività di protezione dei diritti fondamentali. Chiunque può richiedere il suo intervento. Il Commissario dei Diritti Fondamentali esamina e fa esaminare gli abusi relativi ai diritti fondamentali dei quali è stato informato, e per risolverli intraprende provvedimenti speciali o generali”; è eletto (con i sostituti dello stesso) dall’Assemblea nazionale, e non può essere (come i sostituti) membro di partiti né svolgere attività politica. Altre norme disciplinano i “governi locali” (artt. 31-35); la finanza pubblica (artt. 36-44); la forza pubblica e le operazioni militari (artt. 45-47).

  1. Com’è noto si è dubitato da parte di organi dell’Unione Europea che, non tanto la Costituzione, ma soprattutto alcune leggi approvate successivamente dall’Assemblea Nazionale, siano lesive dello Stato di diritto.

Occorre previamente fare un breve cenno alla precedente Costituzione dell’Ungheria (del 1949 – in pieno stalinismo) per notare le (enormi) differenze con quella del 2012.

La Costituzione “stalinista” inizia con un entusiastico plauso alla sconfitta e all’occupazione militare dell’Ungheria da parte dell’URSS[2]; prosegue col disporre (art. 4) “Nella Repubblica popolare di Ungheria la massima parte dei più importanti mezzi di produzione è proprietà dello Stato, delle organizzazioni pubbliche o delle cooperative. Mezzi di produzione possono trovarsi anche in mani private” (il corsivo è mio) l’art. 5 dispone la pianificazione; l’art. 6 la “proprietà del popolo” di (quasi tutto); l’art. 9 il diritto (e il dovere) al lavoro.

Il praesidium dell’Assemblea nazionale, come in altre costituzioni degli Stati del “socialismo reale” faceva un po’ di tutto, dalla rappresentanza (internazionale), alla normativa d’urgenza, all’annullamento degli atti degli organi statali per illegittimità (o perché contrastanti con “gli interessi dei lavoratori”)[3].

I giudici erano elettivi (art. 39), come il Procuratore generale. Gli artt. 45-58 tutelavano i diritti dei cittadini e dei lavoratori; gli artt. 59-61 i doveri dei cittadini. Poi l’art. 66 poneva sotto riserva di legge “l’elezione e la revoca” dei deputati.

Si capisce che, data la storia dell’Ungheria nel secondo dopo-guerra e la dura resistenza del popolo all’occupazione sovietica, il costituente del 2012 abbia proclamato nella “Professione nazionale” (cioè il “preambolo”) che “Onoriamo le conquiste della nostra costituzione storica e la Sacra Corona, la quale incarna dell’Ungheria la continuità costituzionale dello Stato e l’unità della nazione. Non riconosciamo la sospensione della nostra costituzione storica avvenuta sotto occupazione straniera. Neghiamo la prescrizione dei crimini disumani commessi contro la nazione ungherese ed i suoi cittadini durante le dittature nazionalsocialista e comunista.  Non riconosciamo la Costituzione comunista dell’anno 1949, perché fondamento di tirannia e ne dichiariamo perciò l’invalidità (il corsivo è mio). Concordiamo con i deputati della prima Assemblea Nazionale libera, i quali, con la loro prima delibera, dichiararono che la nostra odierna libertà germogliò dalla nostra rivoluzione del 1956. La ricostituzione dell’autodeterminazione statale della nostra Patria, persa il diciannove marzo 1944, la consideriamo avvenuta il 2 maggio 1990, data dell’inaugurazione della prima rappresentanza nazionale a seguito di elezioni libere. Riteniamo tale data l’inizio della nuova democrazia e del nuovo ordinamento costituzionale della nostra patria”.

Anche se l’ “invalidità” può creare dei problemi di carattere giuridico, allorquando si cerchi di assicurare una continuità giuridico-normativa a cambiamenti della forma di Stato e del regime politico, è comprensibile politicamente che un popolo, così geloso della propria indipendenza, abbia voluto rimarcare la (radicale) discontinuità della nuova Costituzione rispetto al regime di “occupazione straniera”, che è la sostanza di quanto capitato all’Ungheria nel XX secolo. Se il tutto può apparire “politicamente scorretto” è altrettanto storicamente esatto.

In sostanza la “Professione nazionale” afferma sul punto due principi: che la libertà politica è, in primo luogo, quella del popolo di determinare autonomamente la forma della sua esistenza, politica in primo luogo; e che se la volontà del popolo è coartata il prodotto di tale coercizione – coerentemente al principio democratico – non è riferibile al popolo e alla sua volizione, ma all’occupante straniero[4]; onde è invalido.

L’art. B della Carta ungherese proclama che “l’Ungheria è uno stato di diritto, indipendente e democratico” (il corsivo è mio); al comma III che la “fonte del potere pubblico è il popolo”.

Ciò stante occorre vedere se le disposizioni e il preambolo della Costituzione ungherese sono riconducibili al “tipo ideale” dello Stato borghese di diritto.

I principi dello Stato borghese di diritto sono enunciati nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dans laquelle la garantie des Droits m’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Di tale asserzione “non avere una costituzione “è un errore evidente, perché ogni Stato per il solo fatto di esistere è una Costituzione (Santi Romano); ma è sicuramente esatto che, distinzione dei poteri e garanzia dei diritti fondamentali sono le “cartine di tornasole” che distinguono lo Stato di diritto da quello che non lo è.

Su ciò la migliore dottrina concorda. A citare soltanto maestri del diritto pubblico come Vittorio Emanuela Orlando, il quale individuava tra le caratteristiche del “governo rappresentativo” (cioè lo Stato borghese di diritto) la distinzione dei poteri e la tutela giuridica[5]; lo stesso sosteneva Carl Schmitt [6] e, attualizzandolo alla “Stato sociale” Ernst Forsthoff[7].

Applicando tal criterio distintivo è sicuro che la Costituzione dell’Ungheria è quella di uno Stato di diritto: la separazione dei poteri c’è, la tutela dei diritti fondamentali pure. Anche attraverso autorità che in Italia non abbiamo come il “Commissario dei diritti fondamentali”. Se qualcuno può rilevare che la nomina dei magistrati apicali è demandata al potere politico, si può replicare che il tutto risulta anche da altre Costituzioni, come quella USA (la Corte Suprema di nomina presidenziale); peraltro in USA la gran parte dei giudici sono di nomina o elezione da parte di insiemi politici, e nessuno ha, che risulti, dubitato che la Costituzione degli Stati Uniti non fosse riconducibile ad uno Stato di diritto.

Le costituzioni moderne riconducibili allo Stato di diritto hanno diverse forme di governo (presidenziale, parlamentare, del “primo ministro”, federale, e cosi via) ma nessuno – che mi risulti – ha revocato in dubbio che ad esempio, la Costituzione francese (della III e IV Repubblica), parlamentare e centralizzata non fosse di democrazia liberale perché quella degli USA è presidenziale e federale, o viceversa.

  1. Il Parlamento europeo, nel settembre 2018 ha approvato una risoluzione “sull’evidente rischio di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione” (tra cui, v. testo, “il rispetto della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani”). Sulla stampa il tutto è stato riassunto, per lo più, come “violazione dello Stato di diritto”. L’elencazione, nel testo della risoluzione (e dell’allegato), delle “preoccupazioni” del Parlamento, ne indica dodici, dal funzionamento del sistema costituzionale ed elettorale ai diritti economici e sociali.

Quanto a quelle “preoccupazioni” che riguardano lo Stato di diritto, le più importanti sono quelle costituzionali in relazione alle insufficienze del dibattito nella fase costituente[8]; e alla limitazione dei poteri e dell’accesso alla Corte costituzionale[9].

Seguono preoccupazioni sulle garanzie istituzionali dei giudici e di altre autorità, con particolare riguardo al ruolo del Presidente del consiglio nazionale della magistratura ungherese rispetto all’organo collegiale[10].

Quanto alla “libertà di espressione” sono censurati (tra l’altro) le nomine “che disciplinano l’elezione dei membri del Consiglio dei media”. Seguono preoccupazioni su alcuni diritti generalmente riconosciuti (libertà di associazione, diritto delle minoranze, libertà religiose).

Tra i fatti suscitanti preoccupazione c’è che la polizia locale di un villaggio infliggeva multe “per infrazioni stradali minori” soltanto ai rom. Quanto ai migranti, ai rifugiati e ai richiedenti asilo il documento in esame sottolinea situazioni di privazione arbitraria della libertà, maltrattamenti e “periodi di detenzione lunghi e indefiniti” nelle zone di transito dove sono trasferiti  i richiedenti asilo.

Nel complesso un insieme di contestazioni che, nella stragrande maggioranza possono ricondursi a tre classi distinte.

La prima in cui si possono riscontrare mende analoghe a quelle accertate per l’Ungheria nei confronti di altri paesi dell’Unione, ma che non hanno dato occasione all’UE di attivare procedure d’infrazione per violazione dei principi nello Stato di diritto. Così, se la polizia ungherese tratta duramente i migranti, quella italiana è stata condannata dalla Corte EDU per i fatti di Genova (della caserma Diaz) per violazioni compiute nei confronti di cittadini italiani (soprattutto) e stranieri, non meno gravi. Ma nessuno che ci risulti ha attivato una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, e non è dato intendere le ragioni di tale discrezionalità.

L’altra classe è di “infrazioni” relative ad istituti che sono tranquillamente applicati da altri Stati membri dell’UE.

Così quella sull’actio popularis  alla Corte Costituzionale ungherese, dato che, sempre a far paragoni con l’Italia, nel nostro ordinamento l’actio popularis non c’è. Né quanto al “funzionamento del sistema elettorale” risulta che la UE abbia trovato alcunchè da ridire sul fatto che, avendo la Corte Costituzionale italiana, dichiarato incostituzionale la legge elettorale in base alla quale era stato eletto il Parlamento nella legislatura 2013-2018, il Parlamento stesso, e tutti gli atti dello stesso, (elezione del Presidente della Repubblica e fiducia al Governo compresi) erano invalidi per invalidità derivata.

Alla terza classe appartengono mende di rilievo assai modesto e non incidenti sui principi dello Stato di diritto: così il contenuto dei sussidiari degli scolari ungheresi o l’atteggiamento nei confronti delle unioni tra persone dello stesso sesso. Lo Stato di diritto era la risposta della borghesia rivoluzionaria allo Stato di polizia monarchico, onde sono a quello riconducibili limiti e discipline relative alla modellazione e all’esercizio dei poteri pubblici. Nei casi citati sopra si tratta di rapporti tra privati, che possono essere riconosciuti o no da uno Stato sia di diritto che di altro tipo e forma.

Pertanto atteso che non molto del contestato all’Ungheria mette in forse lo Stato di diritto e che per questo paese si esprimono preoccupazioni che sono taciute per altri, occorre vedere in cosa (e perché) la Costituzione e le leggi ungheresi sono così invise agli organi dell’UE; tenuto conto che le violazioni contestate dei principi dello Stato borghese di diritto non sono tali, o comunque non sono più preoccupanti di quanto capita in altri Stati dell’Unione.

  1. Il proprium (l’ “originalità”) della Costituzione ungherese è non nello scostamento dallo Stato di diritto, ma nell’abbondanza di asserzioni – più che di norme – le quali contraddicono alcuni degli idola condivisi a partire dal secondo dopoguerra del XX secolo, in Europa e nel mondo occidentale – o almeno in parte di questo.

La “professione nazionale” ungherese nelle prime affermazioni (siamo orgogliosi…) è una sintesi delle radici etno-culturali e della storia ungherese: in primo luogo l’esistenza della nazione dal momento della “costituzione” da parte di Santo Stefano; il ruolo della religione cristiana nella “preservazione della nazione”; la difesa del fianco sud-orientale dell’Europa (intesa in senso carolingio, cioè la comunità dei popoli formata dal cristianesimo occidentale).

Passa poi a una serie di dichiarazioni (dichiariamo….) di valori a cominciare dalla dignità umana, la libertà la quale “può svilupparsi solo nella collaborazione con gli altri, nel valore dato alla famiglia e alla nazione, quali “quadro principale della nostra convivenza…; l’obbligo di assistenza; da notare l’affermazione con cui si chiude questa parte della “professione nazionale” “Dichiariamo che la sovranità del popolo esiste solo là dove lo Stato è al servizio dei suoi cittadini, e gestisce i loro affari con equità, senza soprusi né parzialità” (i corsivi sono miei) che sembra indirizzata contro l’uso predatorio, improprio e mistificante del potere (e del lessico) politico. Dopo la parte sopra ricordata si può leggere questa asserzione, sorprendente per un documento costituzionale “Dichiariamo che, in seguito a decenni del XX secolo che hanno portato ad una decadenza morale abbiamo inevitabilmente bisogno di un rinnovamento spirituale e intellettuale” e, subito dopo, la “Legge Fondamentale è la base del nostro ordinamento giuridico: un patto tra gli ungheresi del passato, del presente e del futuro, Un quadro vivo che esprime la volontà della nazione, la forma secondo la quale vorremmo vivere” (i corsivi sono miei). Volontà e forma: due termini posti in assoluto risalto e che, in altri documenti costituzionali sono usati, se lo sono, in modo non “fondativo” ossia come direttive di “organizzazione” del mondo d’esistenza nazionale. La protezione – elemento essenziale dell’obbligazione politica – è prescritta dall’art. G: “l’Ungheria tutela i suoi cittadini” (v. anche l’art. I, sopra riportato). Per i cittadini – si noti – è più generica – e quindi più estesa – che per i “diritti umani” (art. I), spettanti anche ai non-cittadini.

Nel complesso il testo della Costituzione ungherese vigente risulta valorizzare elementi che non risultano presenti – o lo sono in misura assai minore – in altre costituzioni contemporanee. Li si esamina (con l’opposto) per coppie di opposizioni.

Esistente/normativo.

Se il primo era normale in una concezione costituzionale pre o anti moderna (da Aristotele a de Bonald), è stato progressivamente eliminato o ridotto successivamente (nei testi, s’intende, non nella realtà). Nella costituzione dell’Ungheria  la comunità nazionale è il termine a quo e quello ad quem della Costituzione, che serve all’esistenza ordinata della stessa. L’istituzione politica (lo Stato) è al servizio di quella e provvede a tutelarla. La comunità non è un aggregato d’individui consenzienti, ma è un soggetto della Storia, da questa modellata in oltre un millennio di esistenza. Ha un futuro perché ha un passato – ed è consapevole di ciò. Preamboli di altre Costituzioni si sono incaricati d’indicare i principi dell’ordinamento, altri ancora sono espressione di volontà politica (nel momento costituente); ma – che ci risulti – nessuno ha un così ampio riferimento alla “durata” storica della comunità nazionale: con la conseguenza che è questa – esistente e reale da mille anni – a darsi una forma politica. Sempre a ricordare i “preamboli” o le “dichiarazioni”, quelle dei paesi del socialismo reale, prendevano le mosse dalla Rivoluzione d’ottobre (URSS) o dall’esito della seconda guerra mondiale e delle lotte di liberazione (DDR, Jugoslavia, Cina, Polonia, Romania; Albania e Cecoslovacchia erano parzialmente differenti) per procedere all’edificazione di una società socialista. Tanto futuro e poco o punto passato; in genere quanto sufficiente a giustificare il cammino intrapreso per il futuro. Tenuto conto che, in una prospettiva marxista lo Stato era destinato ad estinguersi (e tale esito considerato positivo per la libertà umana) è chiaro che il passato era irrilevante ed il futuro decisivo.

È inutile aggiungere che non solo l’accento posto sull’esistente rispetto al normativo e del passato rispetto al futuro esaurisce l’eterodossia della costituzione ungherese, caratterizzata da una visione comunitaria – al contrario di altre che possono apparire accordi di associazione tra apolidi; nonchè di un approccio superindividuale in equilibrio con quello individualistico.

  1. In questo la Costituzione ungherese, è originale non solo rispetto ad altri documenti costituzionali ma anche rispetto ai referenti ideali – o almeno a molti di questi che sono generalmente condivisi dalle cosiddette èlite.

In primo luogo, a prendere quale pietra di paragone il dibattito di qualche anno fa sulle “radici giudaico-cristiane” della “costituzione” europea e sull’opportunità di ivi dichiararlo (risolta in senso negativo) la Costituzione ungherese è – al contrario – tutto un richiamo alle radici storiche del popolo ungherese.

In secondo luogo la prevalenza dell’esistenza comunitaria sulla normatività (consista sia in norme che nella “tavola dei valori”), in un periodo che privilegia le norme – mutevoli – e i valori (meno mobili), tale riferimento alla comunità (che dura da più di mille anni) e quindi, una costante rispetto alle variabili: norme, valori e le stesse forme di Stato e di governo (da monarchia feudale a duplice monarchia a repubblica socialista). È quindi eterodossa se non eretica[11].

Il popolo nella costituzione ungherese ha sicuramente una posizione centrale. Ma non più di quanto lo abbia in altre costituzioni moderne, quella italiana compresa. In primo luogo perché il popolo è, nella Costituzione del 2012, non preso nella sua accezione naturalistica, come in alcune ideologie e concezioni a sfondo (anche) razziale, connotate dal fatto che il popolo prescelto è per natura superiore (migliore, più dotato) di altri e quindi destinato a dominare (in se rapporto e concetto politico).

L’assenza di qualsiasi riferimento naturalistico e il precetto sul rapporto collaborativo alla “cultura e libertà degli altri popoli”, quello dell’adesione all’UE, la funzione dell’esercito di protezione dell’indipendenza e dell’integrità territoriale oltre allo svolgimento delle missioni di pace ed umanitarie, escludono esplicitamente (o implicitamente) la volontà di aggressione e dominio. Se invece si fa riferimento al “popolo” in senso culturale, indubbiamente, questo emerge con forza dalle disposizioni costituzionali: ma non è nulla di diverso da come era concepito da teorici dello Stato moderno e della democrazia politica: da Sieyès a Renan, da Mazzini a Gioberti (tra tanti).

Se poi si va a considerare il popolo come attore politico, se è sicuramente titolare del potere costituente e della sovranità, non esercita però competenze diverse da altre repubbliche parlamentari nel determinare i poteri costituiti. A differenza degli USA il corpo elettorale non elegge (gran parte) dei giudici e dei P.M.; a differenza degli USA e della Francia non sceglie il Presidente della Repubblica, quindi non condiziona direttamente il governo; elegge solo il Parlamento (e le autorità locali), come in Italia.

Quello che sicuramente compete al popolo è la sovranità: quindi prima che il potere nello Stato, il potere sopra lo Stato, nel determinarne la forma e il diritto per assicurare l’ordine[12]. Ma questa affermazione di sovranità popolare risulta quanto mai invisa, anche se, nella forma di governo, configura soluzioni e istituti simili alle altre costituzioni europee.

  1. Ad Orban, nell’attirarsi le “preoccupazioni” dell’UE deve aver contribuito quel suo affermare ripetutamente di volere una democrazia “illiberale”. Indubbiamente se si definisce il liberalismo in base a quanto si può leggere su (tanta) stampa, e vedere nei talk-show ad audience elevata, ossia come governance di un mondo globalizzato, l’espressione di Orban corrisponde alla realtà: di fronte ad un liberalismo depolicizzato e anche de-democratizzato, la sua posizione è antitetica. Ma se, di converso, si va alla concezione del liberalismo “classico”, come dottrina della limitazione del potere, della tutela delle libertà politiche e civili, la conclusione è inversa. Anche se non si può dire, crocianamente, che Orban è liberale e non lo sa, è comunque meno illiberale di quanto pensi.

Come scrive Schmitt lo Stato borghese (democratico-liberale) consiste nell’unione dei principi di forma politica con quelli dello Stato borghese[13]. È l’effetto sinergico degli uni e degli altri che ha causato il successo di tale “formula politica” negli ultimi due secoli. Se si rinuncia o si depotenziano i primi in una visione spoliticizzata e/o de-democratizzata che prescinde dal popolo, dalla sovranità e dalle istituzioni democratiche, ciò che ne risulta non ha appeal politico (o ne ha poco). Se il leader ungherese – come i populisti – pone l’accento più sul principio democratico, i globalisti di converso lo annichiliscono in una melassa privatistica, priva o carente del “pubblico”.

Il problema di come possa reggersi un’istituzione politica chiamata anche alla protezione giuridica dei diritti “dell’uomo e del cittadino” se il ruolo pubblico è minimizzato è tema poco frequentato, perché di soluzione quanto mai difficile.

Chi applica il diritto garantendo l’ordine comunitario,  a tal fine deve avere legittimità ed autorità nella comunità, cioè un carattere “pubblico” e “politico”. Ma se non lo ha, o ne ha una versione depotenziata da altre potestates (neppure indirectae), il ruolo di protezione, anche delle “obbligazioni-contratto” (Miglio), si riduce; vale pur sempre il detto di Hegel che “Lo Stato la realtà della libertà concreta”. Senza Stato, politica e ordine non c’è realtà e concretezza della libertà. Ossia quel che più interessa di quella.

  1. Si potrebbe obiettare che i testi costituzionali sono spesso “cataloghi di Laparello”, pieni di seduzioni verbali, destinate ad essere smentite o ridimensionate dalla realtà dell’applicazione reale. Niente è più facilmente dimostrabile, specie ad un italiano della decadenza della repubblica, dove parafrasando il giudizio di Tocqueville sull’ancien règime, abbondano norme commoventi e altisonanti, ma con una pratica applicativa fiacca[14]. Resta il fatto che, a meno di gravi, manifeste, reiterate e persistenti contraddizioni dell’applicazione concreta rispetto all’enunciato astratto, si deve prendere per buono quanto voluto dal costituente. A smentire il quale non sono idonei i sussidiari degli studenti ungheresi e gli abusi dei vigili urbani.
  2. Piuttosto l’elemento probabilmente più interessante e aperto al futuro (perché consolidato dal passato) è la concezione organica della democrazia che emerge dal documento costituzionale. La democrazia non è solo né tanto una procedura, ma forma e modo dell’esistenza politica. Come scrive Giovanni Sessa[15] “Nel mondo classico il popolo-demos è custode della cittadinanza, incarna la comunità politica … L’alternativa possibile all’oligarchia finanziaria e transnazionale della governance, può davvero essere ravvisata nel concetto greco di democrazia organica, centrata sulla sovranità popolare e delle identità etno-culturali …nelle diverse forme di democrazie moderne, la sovranità è dell’individuo o di gruppi di potere … Il modello prevalente nella prassi politica contemporanea allinea la direzione degli affari pubblici, alle modalità di gestione tipiche degli affari privati. Il mercato, vero deus ex machina del liberalismo, non può accordarsi con la democrazia in senso classico, in quanto esige la soppressione del limite e della frontiera, mentre la democrazia è ad essi consustanziale, la si può esercitare solo in seno ad una politia”.

D’altra parte se in una democrazia anche rappresentativa i poteri pubblici sono direttamente o indirettamente dipendenti dal consenso del popolo, dall’altra, i poteri globali hanno in comune la caratteristica di non avere un popolo, e di essere poco o punto riferibili anche ai popoli delle sintesi politiche in cui operano. E questo spiega ostilità ed avversione.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] L’art. 39 prescriveva “Nella Repubblica popolare di Ungheria tutti i giudici sono eletti; i giudici eletti posso essere revocati”.

[2] Si legge nel preambolo “Il glorioso esercito della grande Unione sovietica ha liberato il nostro paese dal giogo dei fascisti tedeschi, infranto il dominio politico antidemocratico dei proprietari terrieri e dei grandi capitalisti e schiuso al nostro popolo lavoratore il cammino dell’evoluzione democratica. Giunta al potere in virtù delle sue lotte accanite contro i padroni e i difensori dell’antico regime, la classe operaia alleata ai contadini laboriosi ha ricostruito, con l’aiuto disinteressato dell’Unione sovietica, il nostro paese devastato dalla guerra … La Costituzione della Repubblica popolare di Ungheria, indicando il cammino dell’evoluzione futura, è l’espressione dei cambiamenti fondamentali che hanno avuto luogo nella struttura economica e sociale del nostro paese, del risultato di queste lotte e di questo lavoro di ricostruzione”.

[3] V. anche il potere “concorrente” del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 26 della Costituzione ungherese abrogata.

[4] Un liberale o un democratico italiano del Risorgimento non avrebbe pensato nulla di diverso, Per Mazzini o Cavour pensare che i principi fondamentali dell’ordinamento fossero dettati da Metternich, indipendentemente dal loro contenuto, sarebbe sembrato il prodotto di un asservimento non solo materiale, ma anche – e soprattutto – spirituale, se creduto.

[5] v. Principi di diritto costituzionale p. 64 ss. e per i diritti fondamentali p. 264 ss.

[6] v. Verfassunslehre trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione Milano 1984, pp. 212-264.

[7] v. Stato di diritto in trasformazione Milano 1973, segnatamente p. 42.

[8] Si legge nel testo della risoluzione “La Commissione di Venezia ha valutato positivamente il fatto che la Legge fondamentale introduca un ordinamento costituzionale fondato sui principi essenziali della democrazia, dello Stato di diritto e della protezione dei diritti fondamentali … Le critiche riguardavano la mancanza di trasparenza del processo, l’insufficiente coinvolgimento della società civile, la mancanza di una vera consultazione, la messa in pericolo della separazione dei poteri e l’indebolimento del sistema nazionale di bilanciamento dei poteri” anche se si da atto della correttezza delle operazioni elettorali.

[9] “Le competenze della Corte costituzionale ungherese sono state limitate a seguito di una riforma costituzionale, anche per quanto riguarda le questioni di bilancio, l’abolizione dell’actio popularis, la possibilità per la Corte di fare riferimento alla propria giurisprudenza anteriore al 1º gennaio 2012 e la limitazione della facoltà della Corte di controllare la costituzionalità di eventuali modifiche della Legge fondamentale, eccetto quelle di carattere esclusivamente procedurale” (v. testo) e si esprime preoccupazione anche per la procedura di nomina dei giudici.

[10] Si legge che è avvertita “la necessità di rafforzare il ruolo dell’organo collettivo, il Consiglio nazionale della magistratura (NJC), in quanto organo di vigilanza, dato che il presidente dell’NJO, essendo eletto dal parlamento ungherese, non può essere considerato un organo di autogoverno giudiziario. A seguito delle raccomandazioni internazionali, lo status del presidente dell’NJO è stato modificato limitandone le competenze, al fine di garantire un migliore equilibrio tra il presidente e l’NJC” sul pensionamento dei giudici e il reintegro nelle funzioni; sul trattamento dei magistrati dlla Procura.

[11] Non era così nella fase ascendente dello Stato borghese moderno. Sieyès scriveva che “La nazione è tutto ciò che è in grado di essere per il solo fatto di esistere…Alla volontà nazionale basta invece soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità”. È evidente nel pensiero dell’abate il perdurare della comunità nazionale rispetto a norme, costumi, forme politiche come il suo essere loro superiore, potendoli cambiare, conservando tuttavia la propria identità: in suo esse perseverari, applicando il conatus di Spinoza.

[12] V. tra i tanti, Max von Seydel.

[13] V. anche sul punto, più estesamente di recente, il mio lavoro Democrazie illiberali? V. Civium libertas, 14-12-2018.

[14] V. sul punto mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Democrazie illiberali? citato e Themi e dike nel tramonto della Repubblica, in Italia e il mondo – luglio 2018. Testimoniate da tante condanne dei Tribunali Internazionali alla Repubblica Italiana.

[15] V. Saggio introduttivo a L. Rougier La fine della democrazia?, trad. it. Oaks editore 2018, n. 53.

Elogio dell’identità, di Andrea Zhok

Andrea Zhok
Elogio dell’identità

tratto da https://www.academia.edu/37853989/Elogio_dellidentit%C3%A0
I problemi posti dalle rivendicazioni identitarie e dalla natura delle identità
collettive sono, politicamente e moralmente, tra i più scottanti della nostra
contemporaneità. Nel dibattito italiano, probabilmente, la più autorevole voce
critica rivoltasi reiteratamente contro ogni pretesa identitaria è quella
dell’eminente antropologo Francesco Remotti, che vi ha dedicato due monografie
a quasi tre lustri di distanza: Contro l’identità (1996) e L’ossessione identitaria
(2010). Nelle pagine seguenti prenderemo l’eccellente lavoro argomentativo ivi
svolto come punto di partenza per sostenere una tesi per certi versi
diametralmente opposta a quella promossa da Remotti: laddove quest’ultimo
perviene ad un vero e proprio tentativo di eradicare ogni riferimento all’identità
come pericoloso e fuorviante, noi andremo a sostenere che intorno al tema
dell’identità gravitano alcune delle questioni più centrali ed imprescindibili per la
nostra epoca e, invero, per l’umanità in generale.
Contro l’identità?
La posizione aspramente critica di Remotti verso ogni rivendicazione
identitaria è andata radicalizzandosi nel corso del tempo. Nel lavoro del 1996,
nonostante la visione univocamente negativa delle rivendicazioni identitarie
come fenomeno storico, l’antropologo concedeva che la spinta alla ricerca di
un’identità (come identità di gruppo) fosse “un’esigenza irrinunciabile” (Remotti
1996: 57). Nel testo più recente invece egli giunge a sostenere senz’altro che
“si può fare a meno dell’identità” (Remotti 2010: XVIII). Radicalizzazione a
parte, la batteria argomentativa dei due testi è sostanzialmente omogenea, e
può essere presentata senza differenziare tra di essi. Secondo Remotti la nozione
di identità applicata alla realtà sociale e psicologica rappresenterebbe una
finzione esiziale, che “promette ciò che non c’è” (Remotti 2010: XII), e che non
ci può essere. Ad essere promessa sarebbe un’identità intesa come stabilità e
chiusura, che si fonderebbe in ultima istanza sull’idea metafisica del permanere
di una sostanza (Remotti 2010: XIII). Con le rivendicazioni di identità noi
chiederemmo “che questo nucleo sostanziale venga riconosciuto a monte e
preliminarmente rispetto ai nostri diritti e alle nostre caratteristiche” (Remotti
2
2010: 95). A sostegno della sua polemica, Remotti si richiama ripetutamente
alla critica hegeliana al principio di identità, per mostrare che “l’alterità si insinua
nell’identità” divenendone una dimensione fondamentale e irrinunciabile
(Remotti 2010: 27). In questo senso “l’identità per Hegel è improponibile, perché
il mondo è una continua trasformazione” (Remotti 2010: 28). L’idea stessa di
applicare il principio di identità alla sfera della realtà e dell’esperienza sarebbe
un’assurdità, un “pasticcio concettuale” (Remotti 2010: XXII), in quanto nulla si
presenta mai come compiutamente identico a se stesso.
Questo errore concettuale tuttavia, lungi dall’essere un errore veniale,
comporta per l’autore gravi pericoli sul piano sociale. L’appello all’identità come
dimensione storico-sociale fomenterebbe fatalmente l’intolleranza, la xenofobia,
lo sciovinismo. Remotti giunge fino ad affermare che a suo avviso non ci sarebbe
“poi molta differenza tra razzismo e identitarismo.” (Remotti 2010: XIV) La
rivendicazione di un’identità sarebbe fatta sempre contro un’alterità (Remotti
1996: 62), con un atto di separazione artificiale e violenta. Istanze di
‘purificazione’ e ortodossia sarebbero cruciali per ogni identitarismo, sia esso a
base etnica, religiosa, o altro. Ma anche quando non si dovesse giungere agli
estremi dello scontro e della violenza, gli appelli all’identità promuoverebbero
pur sempre un “impoverimento culturale”. L’identità infatti “si avvinghia alla
particolarità, perché la particolarità è garanzia di coerenza, e la coerenza è un
valore tipico dell’identità.” (Remotti 1996: 21) L’identitarismo sarebbe dunque
strutturalmente incline al particolarismo, all’allontanamento da ogni dimensione
di universalità e comprensività, e questo nel nome dell’omogeneità e della
coerenza.
In questo quadro, che si configura come univocamente negativo, l’autore si
pone giustamente la domanda su come sia possibile che gli appelli all’identità
possano attecchire in prima istanza. E la risposta che si dà è duplice. Da un lato
egli sostiene che la ricerca dell’identità culturale si presenterebbe come una
pulsione rilevante in quanto la specie umana sarebbe caratterizzata da una sorta
di incompletezza biologica (cfr. Remotti 1996: 14): l’uomo, diversamente dagli
altri animali, non avrebbe già in sé le risorse per affrontare il proprio ambiente,
ma richiederebbe necessariamente un complemento culturale. Questa natura di
‘bisogno’ quasi-biologico spiegherebbe la tenacia con cui si presentano le fedeltà
culturali, e con ciò anche il successo degli appelli all’identità culturale (cfr.
Remotti 1996: 17). A questa ragione essenzialmente psicologica per motivare la
tenacia dell’identitarismo, Remotti ne aggiunge un’altra utilitarista. Sulla scorta
di alcune analisi di Ugo Fabietti, egli ammette che la ricerca di identità può essere
uno strumento “per avere successo nell’accaparramento delle risorse” (Remotti
2010: 35): l’identità di gruppo darebbe forza e coerenza alle richieste del gruppo
stesso. Queste due ‘ragioni identitarie’ vengono trattate da Remotti alla stregua
di accidenti, psicologici e antropologici, privi di una giustificazione profonda e
dunque sacrificabili. E per illustrarne la contingenza egli adduce svariati esempi,
3
tratti dalla sua grande esperienza di antropologo culturale, e relativi a comunità
dell’Africa sub-sahariana o dell’entroterra amazzonico, dove l’identità di un’etnia
o di una società presentano tratti (relativamente) fluidi.
Naturalmente questo breve riassunto non può esaurire la ricchezza
argomentativa delle pagine di Remotti, cui rinviamo il lettore, ma questi ci
sembrano gli snodi cruciali delle sue tesi, quegli snodi che portano a ritenere il
riferimento all’identità collettiva qualcosa da eliminare, e che ora proveremo a
rileggere in chiave alternativa.
Sull’identità semantica del termine “identità”
Dalle pagine di Remotti si può avere a tratti l’impressione che l’intento di fondo
sia di delegittimare un concetto, come se il problema fosse la natura
semanticamente fuorviante del riferimento all’identità. Balena più volte l’idea
che la parola identità evochi un’irraggiungibile persistenza sostanziale, la quale
spingerebbe ad immaginare situazioni di ‘purezza’, ‘ortodossia’ e ‘intolleranza’
che colliderebbero inevitabilmente con la realtà. Ora, che nell’uso politico degli
appelli all’identità ci possano essere aspetti fuorvianti, tendenziosi ed esiziali è
certo; peraltro questo può accadere per qualunque concetto che venga brandito
per promuovere un’agenda politica. Ma che nel concetto di identità collettiva, o
nel suo uso culturale e politico, siano intrinsecamente incluse propensioni alla
purezza, all’ortodossia e all’intolleranza, questo è senz’altro falso.
La prima cosa da osservare, pur non potendola approfondire quanto
meriterebbe, è che “identità” è una parola la cui identità semantica funziona
esattamente come per tutte le altre parole, dipendendo dall’uso pubblico che se
ne fa. Esiste un uso logico del termine identità, dove si fa riferimento ad una
sovrapponibilità rigida di qualità o predicati tra occorrenze differenti. Questo uso
è chiaramente inadatto a qualsiasi applicazione alla realtà fenomenica, dove non
esistono mai due entità compiutamente identiche. Ma ciò naturalmente non
significa che non siano sensatamente esprimibili identità fenomeniche: possiamo
dire che l’oggetto A sembra una sedia, che l’oggetto B somiglia a una sedia, e
che l’oggetto C non sembra affatto una sedia. Il fatto che nessuna applicazione
identificativa di un termine determini univocamente un numero chiaro e definito
di predicati non implica che quel termine non abbia identità semantica. I
significati materiali (non logico-tautologici) hanno senza eccezioni ‘bordi
sfumati’: esistono tratti considerati nell’uso comune più centrali, tratti
considerati più contingenti o periferici, e tratti senz’altro estranei (cfr. Rosch &
Mervis 1975; cfr. Zhok 2014: 113-175). Se qualcuno vuole utilizzare la rigidità
del principio logico di identità sul piano delle ordinarie unità semantiche, è
qualcosa che rappresenta un uso irragionevolmente restrittivo, che non
delegittima in alcun modo l’uso comune delle identificazioni e reidentificazioni
4
materiali. Pensiamo al caso, più prossimo alle identità sociali, dell’identità di una
persona. Un soggetto può avere un saldo senso della propria identità personale,
può successivamente entrare in una crisi psicotica che lo fa dubitare della propria
identità (con grave sofferenza psichica), e lo stesso soggetto può infine guarire,
ristabilendo, magari in forma rettificata, la propria identità. Dovremmo dire che
la persona in crisi psicotica che lamenta la sensazione di ‘perdita di identità’ si
sta lamentando a vuoto perché non c’è mai stata davvero alcuna identità? Lo
psicotico in sofferenza starebbe fraintendendo se stesso? O non dobbiamo
piuttosto fare spazio ad una nozione di identità più realistica e meno astratta di
quella logica?
Quando parliamo di identità, applicando il termine ad entità biologiche,
personali o sociali, il termine non può per essenza significare un’immobilità
statica o una separazione netta tra nocciolo permanente e tratti contingenti.
Torniamo all’esempio dell’identità personale: tra il me stesso infante e il me
stesso adulto posso avere difficoltà a indicare quali cose siano rimaste
precisamente le stesse, e anche laddove fossi in grado di farlo (es.: il mio
genoma) non è affatto detto che quel nucleo comune sia ciò che rappresenta la
mia identità personale. In effetti, se un incidente mi avesse reso perennemente
incosciente, il mio genoma sarebbe lo stesso, ma la mia identità personale
sarebbe perduta. Non è quella presunta unità sostanziale ad essere da me
percepita come mia identità. Sul piano fenomenologico ciò che percepiamo come
identità è piuttosto l’unità di senso intertemporale che connette i vari momenti
della nostra vita in una sequenza intelligibile, unità tale per cui ogni momento
successivo è reso intelligibile dai momenti precedenti, pur superandoli. Lasciamo
da parte le svariate teorie dell’identità personale, da Locke a Parfit, e limitiamoci
a portare alla luce il fenomeno associato qui all’idea di identità: ciò che
chiamiamo intuitivamente nostra identità personale è qualcosa che, lungi dal
configurarsi come isolamento di un nucleo sostanziale, richiama la capacità di
sentirsi connessi al proprio passato in vista del proprio futuro. In questa
continuità di sviluppo non c’è niente che vieti l’assimilazione del nuovo, la
sostituzione di abiti obsoleti, il rilancio di nuovi progetti. Questo senso di
un’identità ‘organica’, come unità di senso di un’azione nel tempo, è molto più
consona all’idea d’identità collettiva di ogni riferimento ad astratte formulazioni
logiche. Da questa prospettiva la battaglia anti-identitaria promossa da Remotti
corre il rischio di risultare meramente nominalistica e fuori bersaglio.
Hegel e la natura delle identità collettive
Nella proposta teorica di Remotti il riferimento a Hegel gioca un ruolo tanto
centrale quanto paradossale. Hegel viene infatti chiamato giustamente in causa
come pensatore del divenire e della storicità, e come critico dell’astrattezza del
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principio di identità. Tuttavia lo stesso Hegel potrebbe essere letto come uno dei
più autorevoli pensatori ad aver sviluppato un’argomentazione organica a
sostegno di quei principi che stanno al centro delle moderne rivendicazioni
identitarie. Lungi dall’essere un semplice ‘fautore della diversità e del
cambiamento’, Hegel presenta un modello di sviluppo delle comunità storiche
che consente precisamente di concepire lo sviluppo come assimilazione del
diverso e come sintesi. Nelle stesse pagine in cui introduce la sua celebre critica
all’astrattezza del principio di identità Hegel fa spazio al proprio concetto
concreto di identità, posizionato idealmente come télos del processo dialettico.
L’Assoluto è definito da Hegel come “identità dell’identità e della non-identità”
(Hegel 1986: 96), formulazione volutamente paradossale con cui si intende ciò
che guida il processo storico (e ontologico) di unificazione del diverso. Al netto
di questioni di filologia hegeliana in cui qui non possiamo entrare, è essenziale
rilevare come l’istanza ‘identitaria’ che Hegel mette alla porta nella versione
intellettualistica del principio d’identità rientra dalla finestra nella forma della
tendenza di ogni sviluppo storico alla sintesi. Il processo di sintesi delle
opposizioni attraverso cui, nella descrizione hegeliana, progredisce lo Spirito è
un processo che cresce attraverso la diversità, ma che non si acquieta affatto
nel mero riconoscimento della diversità in quanto tale. La tendenza sintetica
degli sviluppi storici è una tendenza verso l’identità, ma non un’identità statica
e omogeneizzatrice (come l’Assoluto schellinghiano), bensì un’identità dinamica
e assimilatrice. Il significato storico attribuito a questo processo risulta chiaro
guardando alla natura ideale dello Stato come sintesi terminale dello Spirito
Oggettivo: lo Stato hegeliano, sulla scorta delle idealizzazioni classiche delle
città-stato, è concepito come una dimensione sociale dove le istanze centrifughe
dell’interesse privato, proprie della “società civile”, vengono ricondotte
all’interesse comune, proprio dei rapporti famigliari. Lo Stato, come Hegel lo
descrive, ha un’identità, e conferisce identità ai propri membri, pur non
eliminandone le differenze individuali, né delegittimando il perseguimento dei
loro interessi personali. Naturalmente, se qui stessimo valutando nel merito la
proposta teorica hegeliana, potremmo osservare, come è stato spesso fatto, che
contrariamente alle intenzioni del suo autore, lo Stato hegeliano si configura più
come un ideale normativo che come un’effettiva realizzazione storica. Ciò
rappresenta forse una critica alla concezione hegeliana della storia e dei rapporti
tra razionalità e realtà, ma non impedisce in alcun modo di usare criticamente
quella concettualità.
Un concetto hegeliano in particolare può risultare specialmente utile per una
lettura della nozione di ‘identità collettiva’ che sia produttiva e non cada in
formulazioni astratte e insostenibili: si tratta del celebre concetto di Aufhebung
(“superamento”). Come noto, Hegel concepisce la Aufhebung come il momento
cardine dei processi di sintesi storica: nel corso di uno sviluppo storico (ma
potremmo estendere il ragionamento all’evoluzione naturale), il superamento di
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una parzialità (‘errore’, ‘falsità’) avviene negandola, e al contempo inglobandola,
cioè assimilando le ragioni che l’avevano portata alla luce in prima istanza.
L’Aufhebung è negazione determinata che, nel momento in cui supera una
parzialità, ne conserva le ragioni (cfr. Hegel, 1986b: 94). Ciò che, nel presente
contesto, è particolarmente rilevante nella nozione di Aufhebung è che essa
consente di concettualizzare un tratto comune ai processi di sviluppo di
un’identità organica. Così, un’identità personale in sviluppo incontra
ripetutamente situazioni che segnalano la parzialità o inadeguatezza di abiti e
conoscenze pregressi; quando ciò accade, se uno sviluppo personale ci
dev’essere, esso avviene prendendo quel limite come la base da cui promuovere
un’integrazione di abiti o conoscenze passate, ipotizzando una soluzione
all’altezza della nuova situazione. In questo processo gli abiti o le conoscenze
precedenti non vengono annullati, giacché il loro funzionamento pregresso viene
riconosciuto nella sua (parziale) validità, e ampliato. Ciò che essi erano in grado
di fare rimane in gioco, anche se la metamorfosi cui vengono sottoposti nel
venire assorbiti da una sintesi superiore può renderli a prima vista irriconoscibili.
Ogni ‘nuova verità’ non oblitera la validità delle vecchie verità, ma trasforma
queste ultime, conservandole ed ampliandone la portata. Così, in uno sviluppo
biografico, esperienze, conoscenze e abiti passati possono essere o non essere
direttamente accessibili al recupero mnemonico, ma in ogni caso è costruendo
su quelle esperienze, quelle conoscenze, quegli abiti che ciascuno diviene la
personalità che in ciascun momento è. In analogia con lo sviluppo dell’identità
personale possiamo ora provare a introdurre una nozione plausibile di identità
collettiva.
L’identità come universalità situata
Come osservato, un’identità organica, personale o sociale, non può essere
concepita secondo il modello statico della sostanza, ma solo secondo il modello
dinamico della continuità di sviluppo. In ogni momento della storia di una
comunità (così come di una persona, o persino di una specie biologica)
l’affidamento all’esperienza passata in vista del futuro è la chiave per uno
sviluppo che sia tale. Come ricorda Hayek (cfr. Hayek 1982: 17), ogni
società/comunità elabora nel corso della propria storia abiti collettivi e regole di
comportamento comune che vengono messi alla prova nel contesto ambientale
e culturale in cui si trova. Tali regole si consolidano nella misura in cui
consentono al gruppo di prosperare, o si dissolvono se la loro adozione va a
detrimento della sopravvivenza del gruppo. Tali regole ed abiti non sono
escogitati sulla base di un calcolo realistico della possibilità di condurre ad esiti
positivi; tentativi di anticipazione razionale naturalmente ci sono, ma il
funzionamento storico di ogni organismo sociale è di gran lunga troppo
7
complesso per confidare in predizioni astratte: ciò che permane come eredità
culturale e regolativa per le prossime generazioni è essenzialmente ciò che, per
buona volontà o buona sorte, ha ‘funzionato’, permettendo a quella
comunità/società di prosperare.
Nessun singolo membro ha mai una conoscenza dettagliata di cosa,
nell’apparato vigente di regole e costumi, ha fatto funzionare quella
comunità/società. In ogni momento successivo di sviluppo, perciò, ogni nuova
iniziativa deve partire come datità inaggirabile, non solo dal contesto ambientale
e storico, ma anche dalla stratificazione reale di abiti collettivi, costumi, regole
sociali tacite o esplicite, e ‘valori’. Si tratta di un dato necessario per una
successiva condotta razionale, non perché ci siano state ragioni incontrovertibili
per l’adozione proprio di quell’ordine normativo invece di altri, ma perché
nessuno domina razionalmente tutte le buone o meno buone ragioni che hanno
fatto ‘funzionare’ quell’ordine normativo. E proprio per questa ragione nessuno
è in grado di stabilire con certezza a tavolino cosa dev’essere cambiato e come.
Questo ordine normativo consolidato di una comunità in un presente è ciò che
possiamo legittimamente nominare come l’identità di quella comunità.
Qui l’analogia con lo sviluppo biologico di una specie può essere illuminante.
Nelle descrizioni evoluzionistiche ortodosse ogni specie è divenuta ciò che è, non
perché fosse a priori necessario giungere a quegli esiti, e neppure perché in
assoluto quello status quo debba essere considerato l’unico ottimale. Specie
differenti avevano antenati comuni. Fenotipi alternativi, generati per variazione
genetica casuale, e confrontati con contesti ambientale divergenti, hanno
prodotto specie diverse: certe soluzioni si sono imposte in certi gruppi, e
soluzioni diverse in altri. Per quanto, in linea di principio, un medesimo
antecedente potesse portare tanto alla specie A che alla specie B, una volta che
la variazione si è consolidata nel tempo, le due specie hanno identità differenti
e il percorso evolutivo non può essere omesso come irrilevante, anche se di fatto
è stato generato accidentalmente. Questo significa che anche se, in linea di
principio non c’erano ragioni cogenti per l’esistenza di A, o per la sua diversità
da B, ora le due specie hanno la loro irriducibile identità, dipendente dal percorso
di storia naturale da cui derivano.
Un ragionamento simile può essere esteso alle comunità o società storiche.
Possiamo prendere la comune appartenenza alla specie umana come analogo
del comune antecedente biologico nell’esempio delle specie. Che un esemplare
della specie Homo Sapiens sia nato e cresciuto nell’entroterra rurale cinese, in
un quartiere sovraffollato di Buenos Aires o in un paesino delle alpi svizzere,
possiamo certamente pensarlo come mero accidente. Ma crescendo nel contesto
fisico, culturale e normativo di ciascuna di queste comunità, per ciascun
individuo, un’identità specifica ha preso forma, e insieme a questa identità anche
una rete di dipendenze, indebitamenti morali, impegni, promesse, progetti. Il
fatto che ‘in linea di principio’ tutto avrebbe potuto essere diverso, non toglie
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che ora è come è, e che tale realtà ha valore normativo per chi la vive. Ciascuno
di noi è vincolato a rapporti di indebitamento morale con i propri genitori o
famigliari, di affetto con i propri figli, di lealtà con i propri collaboratori, di
obbedienza al medesimo ‘patto sociale’ con i propri concittadini, ecc. E il tutto
avviene secondo l’ordine normativo sviluppatosi in quel luogo, in relazione a
quell’ambiente fisico, ereditando quella cultura materiale, quelle istituzioni, ecc.
Tutti questi elementi elevano richieste reali nei nostri confronti e sono il
presupposto affinché si possano sviluppare progetti riconoscibili e funzionanti.
Possiamo concedere senza difficoltà che se fossimo nati in un villaggio cinese, in
un paesino svizzero, in una metropoli sudamericana, o in mille altri contesti le
nostre dipendenze, lealtà, doveri e possibilità sarebbero diversi. Noi saremmo
diversi. Ma questo riconoscimento di contingenza ‘di diritto’ non comporta affatto
la possibilità di ignorare la realtà del percorso storico-culturale cui apparteniamo
e che ci porta in questo momento ad essere ciò che siamo. In ogni momento
presente quel percorso storico-culturale co-determina identità personali e
definisce un’identità collettiva. Che tale identità collettiva non abbia confini ben
definiti e che non sia rappresentata da un elenco pronto di tratti e qualità non è
un’obiezione, ma un fatto che riguarda tutte le identità semantiche in generale.
Noi riconosciamo facilmente la nostra identità di gruppo, di norma vissuta
tacitamente, quando siamo esposti ad identità differenti (ad esempio andando a
vivere all’estero). Ma tale riconoscimento intuitivo non è conoscenza e, dunque,
non equivale alla capacità di nominare cosa vi rientra e cosa no.
Queste identità collettive, molto diversamente da come definite da Remotti,
non sono temporalmente immote, e non hanno dimensioni precise. Non sono
immobili perché sono entità in perenne sviluppo, che in condizioni di evoluzione
fisiologica acquisiranno gradualmente nuove potenzialità e lasceranno cadere in
disuso regole ed abiti nati per confrontare circostanze non più attuali. In questo
senso il riconoscimento di un’identità collettiva non comporta affatto il
riconoscimento di qualcosa come una “essenza perenne”. Anche se possiamo
riconoscere spesso alcuni tratti persistenti nel percorso storico di un popolo, di
una città, di una nazione, ma non sono quei tratti, eventualmente permanenti,
a rappresentare l’identità di quel popolo, di quella città o nazione. L’identità qui
non è una presunta sostanza identica al variare degli accidenti, ma è il portato
storico-culturale ora disponibile, che crea lo spazio per il rispetto di regole
comuni e per la produzione di progetti comuni.
Tali identità non hanno poi neppure dimensioni precise, in quanto si tratta
sempre di sfere di appartenenza vigenti a ‘cerchi concentrici’: possiamo
riconoscere simultaneamente in noi un’identità locale o urbana, un’identità
regionale, nazionale, europea o mediterranea o mitteleuropea, ecc. L’identità ha
dunque una sorta di ‘molteplicità’ interna, ma si tratta di una molteplicità che
non comporta, o non necessariamente, un conflitto tra identificazioni differenti.
Può accadere, per dire, che le lealtà verso la propria città e la propria nazione
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entrino in tensione, ma tali appartenenze hanno il potenziale per coordinarsi
armonicamente, condividendo la medesima natura.
È qui importante distinguere queste identità collettive da un’altra forma di
identità collettiva con cui vengono spesso confuse. Non di rado le rivendicazioni
identitarie vengono associate a istanze particolariste, legate alla difesa di gruppi
speciali, che come tali si percepiscono (cfr. Taylor 1994). Ma le identità collettive
di cui parliamo qui sono relative a gruppi che hanno, almeno in linea di principio,
la complessità interna sufficiente ad un’autoriproduzione nel tempo: anche se di
fatto una città moderna non vive se non in relazioni, commerciali e politiche, con
realtà esterne, essa ha una struttura organizzativa, una divisione del lavoro e
dei ruoli sociali tali da potersi concepire come un’entità potenzialmente
autonoma. Questa nozione di identità collettiva non è un’idiosincrasia
sociologica, ma il modo fondamentale in cui i gruppi sociali si sono sempre
identificati nella storia: come ‘microcosmi’. Le città-stato dell’antichità ne sono
rappresentanze eminenti, ma ciò appare anche registrato nell’area semantica di
molte parole che nominano tali identità collettive: non è un caso che
originariamente la parola tedesca per stato (Staat) e quella per città (Stadt)
coincidessero; come non è un caso che la parola russa per ‘villaggio’, e poi
‘comune’ (Mir) fosse la stessa per ‘mondo’; o che in italiano ‘paese’ possa
indicare tanto la comunità locale che quella nazionale, ecc. Questo senso di
‘identità collettiva’ va tenuto nettamente distinto da altre forme di identità
particolari, che si possono formare attorno a singole caratteristiche, singoli gusti
o singole passioni. Nell’ambito delle discussioni comunitariste è stato elaborato
per questo secondo senso di identità collettiva l’espressione “life-style enclaves”
(Bellah et al. 1985: 335). Essere juventini, melomani, o vegetariani, ma anche
buddisti o anabattisti, caucasici o afroamericani, donne o uomini, eterosessuali
o omosessuali, ecc. non rappresenta identità collettive coordinate intorno alla
possibilità di un’autoriproduzione sociale autonoma. Non sono comunità, non
hanno una storia, né un’organizzazione, né un radicamento territoriale comune.
In alcuni casi, naturalmente, potrebbero in linea di principio diventare comunità
(un gruppo etnico o religioso può pretendere di diventare nazione), ma di norma
tali identità collettive esistono e operano rivendicazioni, rappresentando
particolarità che vogliono presentarsi come tali. Rispetto a tale identitarismo
particolare l’identità collettiva di cui qui parliamo è invece un’identità che si
concepisce come una “universalità potenziale”. Qui di nuovo il modello hegeliano
dello Stato può tornare utile: tali identità collettive, come lo Stato di Hegel, sono
universalità situate, ovvero punti di vista storici sul mondo tutto. Si tratta cioè,
come gli Stati hegeliani, di esistenze storiche circoscritte, che al tempo stesso
ambiscono di principio ad incarnare lo Spirito Oggettivo, la Ragione divenuta
Realtà. Fuori dal linguaggio hegeliano: un’identità collettiva è qualcosa che
emerge da un percorso storico comune, radicato in un ambiente comune
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(geografico, urbanistico), idealmente capace di autoriproduzione sociale
autonoma e di formulare a tal fine progetti comuni.
I rischi dell’identitarismo
Giunti a questo punto, bisogna concedere a Remotti che le sue preoccupazioni
intorno a usi pericolosi dell’invocazione identitaria non sono immotivate. Quando
un’identità collettiva è solo tacitamente vissuta è difficile che l’identità stessa
venga invocata o divenga tema di discussione. L’identitarismo come
rivendicazione segnala tipicamente una preoccupazione: la reazione ad una
minaccia percepita. Talvolta tali minacce hanno carattere di invasione culturale
o religiosa, ma in epoca moderna la forma primaria di minaccia all’identità è
rappresentata da una pluralità di fenomeni connessi alla globalizzazione
economica. I processi economici tipici del capitalismo maturo tendono infatti ad
erodere ogni identità di gruppo.
Il funzionamento ordinario del mercato spinge verso flessibilità di mansioni e
competenze, dislocazioni di attività produttive, migrazioni di forza lavoro e
precarizzazione contrattuale. La facilità con cui i capitali si spostano produce una
spinta al movimento delle forze produttive e delle merci, movimento che ha
sempre carattere provvisorio, giacché variazioni delle esigenze di mercato
possono modificare, anche repentinamente, i flussi tanto delle forze produttive
che delle merci. Al tempo stesso, la natura di concorrenza su base individuale
dei moderni rapporti di produzione tende a rompere solidarietà locali, a creare
divergenze di interessi, e a mettere in competizione idealmente ogni agente
economico con ogni altro. Infine, l’intercambiabilità dei modi e delle forme di
produzione sul pianeta produce da un lato un incentivo allo spostamento degli
apparati produttivi (delocalizzazioni) e dall’altro un incentivo agli spostamenti
delle persone, in cerca di lavoro e condizioni di vita migliori (migrazioni intra- e
inter-nazionali). Tutti questi processi convergono in un processo costante di
destabilizzazione che spinge l’individuo in un tendenziale isolamento, spezzando
lealtà e appartenenze sovraindividuali (cfr. Zhok 2006: 295-370).
Di fronte a questi processi possono sorgere, e spesso sorgono, movimenti
politici che nel nome di un’identità collettiva (locale, etnica, nazionale, ecc.)
cercano di porre un argine a queste tendenze disgregative. Purtroppo il carattere
difensivo-reattivo di queste istanze le predispone facilmente a tesi aggressive e
populiste. Questo è ciò che accadde con i movimenti nazionalisti e sciovinisti in
Europa negli ultimi decenni prima della Prima Guerra Mondiale, e questo è
quanto accade oggi in Europa con movimenti non di rado alimentati da istanze
xenofobe. È innegabile che queste tendenze possano degenerare. E tuttavia è
opportuno comprendere che niente è risolto se di fronte ai problemi reali posti
dall’erosione contemporanea delle identità collettive ci si limita a stigmatizzare
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le reazioni degenerate di identitarismo provinciale, ottusamente conservatore,
xenofobo o addirittura razzista. Un problema storico reale, se non è affrontato
bene, verrà comunque affrontato, male.
Identità come mezzo e come valore
Nel quadro fornito da Remotti, alle rivendicazioni identitarie era concessa una
specifica e circoscritta funzione: l’appello all’identità poteva risultare utile ad un
gruppo nella lotta per l’ottenimento di risorse. In questo senso l’identità veniva
letta come una dimensione strumentale, talvolta favorevole alla gestione delle
proprie finalità. Ora, questa interpretazione è, a nostro avviso, singolarmente
fuorviante, e conduce effettivamente a considerare l’identità come un tratto
sociale (o anche personale) sacrificabile. Remotti scrive che l’identità sarebbe
“la forma estrema di rivendicazione dell’unità da parte dei soggetti – individuali
e collettivi – che invece sono contrassegnati al loro interno da un’inesorabile
molteplicità” (Remotti 2010: 52).
Ma qui dobbiamo chiederci: come è possibile che soggetti, individuali e
collettivi, contrassegnati da tale “inesorabile molteplicità” mirino poi ad un’unità
di senso? Su quale base dovrebbero trovare tale ispirazione all’unità, se essa
non inerisce loro? Forse perché ciò sarebbe strumentalmente utile al
raggiungimento di certi fini? Ma se io non avessi alcuna identità come potrei
intendere che qualcosa è un mio fine? Esso potrebbe essere un fine altrui, e il
mio perseguimento di esso potrebbe tornare a mio detrimento.
Supponiamo che io desideri X, ma che l’ottenimento di X comporti la perdita
integrale della mia identità: in che senso potrei davvero volere X? Certo, posso
naturalmente sacrificare me stesso, ma un sacrificio sarà per un’identità diversa,
a favore di un altro individuo o gruppo. Finalità esistono solo per soggettività
dotate di un’identità. Posso volere X perché ciò promuove la mia sopravvivenza,
o posso posporre Y perché ciò consentirà a un mio piano di imporsi, o posso
ambire a Z perché ciò si confà al mio progetto di vita. Certi obiettivi sono comuni
ad ogni essere vivente (all’identità che il vivente è), altri obiettivi saranno
comuni ai membri di una specie (all’identità che quella specie è), altri saranno
obiettivi comuni ai membri di una comunità storico-culturale (all’identità che
quella comunità è) e altri ancora a diversi momenti della vita di un individuo (alla
sua identità personale).
Come osservava Alasdair MacIntyre, virtualmente la totalità delle finalità
specificamente umane sono rese possibili solo dall’esistenza di specifiche
pratiche, specifiche tradizioni, con specifiche finalità interne (cfr. MacIntyre
2007: 188). Posso mirare a fare scacco matto solo all’interno della pratica storica
degli scacchi, posso aspirare a comporre un capolavoro sinfonico solo all’interno
della tradizione della musica occidentale, posso ambire ad essere eletto deputato
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solo all’interno delle pratiche istituzionali della democrazia parlamentare, posso
sperare di eccellere nelle performance ‘poetico-musicali’ tipiche dei griot solo
entro quella tradizione orale africana, posso bramare la decapitazione del mio
primo nemico solo in una cultura come quella degli ilongot filippini, ecc. ecc. Non
ha alcun senso fare una comparazione di valore, per dire, tra le performance del
griot e quelle di un pianista classico, così come tra le aspirazioni di eccellenza
del primo di contro a quelle del secondo. Solo nella cornice definita da una certa
identità, personale e/o collettiva (culturale), certe finalità hanno senso. Fini
emergono in relazione a ciò che un soggetto (individuale o collettivo) è, e senza
identità di un soggetto nessun fine viene alla luce. L’identità avrà pure la sua
importanza come strumento per facilitare l’ottenimento di risorse, ma prima di
ciò essa è quel qualcosa per cui si cercano risorse: prima di essere un mezzo per
implementare senso e finalità, l’identità appartiene alla sfera di ciò che fornisce
senso e finalità.
Un’identità collettiva è ciò che consente a ciascun individuo di concepire la
propria azione storica come qualcosa che trascende i limiti della propria finitezza
e caducità. Solo nella misura in cui riusciamo in qualche misura ad identificarci
con altri possiamo considerarli eredi potenziali di qualunque cosa, grande o
minima, desideriamo lasciare di noi stessi. E solo nella misura in cui una tale
identificazione può avvenire vi sono ragioni autentiche per ottemperare a regole
comuni, leggi, patti sociali. Come osservava Douglass North (cfr. North 1981:
45), in assenza di una dimensione di appartenenza collettiva fatalmente
proliferano i ‘free riders’: violatori di regole, evasori, corrotti, criminali, ecc.
Infatti in nessuna società o comunità l’ottemperanza a regole, leggi, patti, ecc.
può avvenire sulla sola scorta della minaccia di sanzioni: le occasioni di
violazione senza rischio sono onnipresenti. In ogni gruppo sociale funzionante,
a tenere in piedi l’adesione personale a quella comune dimensione normativa è
un certo grado di identificazione con il gruppo stesso, i cui membri si sentono
perciò vincolati reciprocamente da diritti e doveri, aspettative etiche e lealtà
personali. Quanto più debole l’identità di un gruppo, tanto più forti le tendenze
centrifughe, le violazioni normative, gli opportunismi.
Concludendo questa breve analisi possiamo dire che, se da un lato i rischi
legati a forme ottuse di rivendicazione identitaria non vanno sottovalutati,
dall’altro le istanze legate al tema di un’identità collettiva sono istanze profonde,
non sradicabili senza gravi danni sul piano del senso e del valore. Definire forme
intelligenti e fertili di tutela identitaria, forme capaci di confrontarsi con il diverso
senza né aggredirlo, né disgregarsi, è un compito complesso, rischioso e, in un
contesto come quello della moderna economia globalizzata, anche schiettamente
‘inattuale’. Ma tralasciare, o persino screditare, quel compito è un errore senza
remissione.
13
Bibliografia
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COSTITUZIONE UNGHERESE E STATO DI DIRITTO 1a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE UNGHERESE E STATO DI DIRITTO

La costituzione già vigente in Ungheria, prima dell’attuale (ossia quella adottata nel 1949 ampiamente modificata dopo il crollo del regime comunista) grazie anche agli interventi della Corte costituzionale, era stata adattata alla nuova situazione politica.

Dal 2012 è entrata in vigore la nuova Costituzione. Il testo è suddiviso in tre parti, con numerazione diversa: gli articoli della prima parte sui “principi fondamentali” sono segnati da una lettera (da A a T); la seconda parte sui diritti e doveri (intitolata Libertà e responsabilità) porta numeri romani (da I a XXXI); e, infine, la terza parte sull’organizzazione dello stato ha numeri arabi (da 1 a 54).

La Costituzione del 2012 nel preambolo fa esplicito riferimento al cristianesimo, e recita: “Riconosciamo il ruolo del cristianesimo nella preservazione della nazione. Rispettiamo le diverse tradizioni religiose presenti nel nostro paese”; è garantita la protezione del feto (art. II). Un altro articolo definisce il matrimonio come unione tra uomo e donna e dispone la protezione della famiglia come “la base per la sopravvivenza della nazione”. La “fonte del potere pubblico è il popolo” dispone l’art. B.

L’art. C (I° comma) dispone che “il funzionamento dello Stato ungherese si fonda sul principio della separazione dei poteri”.

Sempre l’art. C (II° e III° comma) fonda il monopolio della violenza legittima dello Stato, che appare completato dal diritto ed obbligo (per tutti) di intervenire in modo legittimo, contro simili pretese (di conquistare o esercitare il potere con la violenza) che pare fondante un diritto di resistenza “minore”.

Il controllo di costituzionalità è sia preventivo che successivo (al contrario di quello italiano che è solo successivo); dato che precedentemente era possibile l’azione popolare, il ricorso (diretto) individuale è attribuito (così restringendolo) ai soli soggetti lesi dall’atto impugnato (v. art. 24).

I giudici e i magistrati della Procura “sono indipendenti”; non possono essere iscritti a partiti, né svolgere attività politica. Si noti che i Presidenti della Corte Costituzionale, della Corte Suprema d’Appello e il Procuratore generale sono eletti dall’Assemblea nazionale. Tale soluzione era quella già prescritta nella Costituzione del 1949, tipica degli Stati del socialismo reale, anche se, in quelli, estesa a tutti i giudici, peraltro revocabili (e quindi non inamovibili)[1]. La regolazione delle garanzie istituzionali dello status e della retribuzione dei magistrati è demandata ad una “legge organica”.

L’art. L dispone che “L’Ungheria tutela l’istituto del matrimonio quale unione volontaria di vita tra l’uomo e la donna, nonché la famiglia come base della sopravvivenza della Nazione. L’Ungheria sostiene l’impegno ad avere figli”.

L’art. O dispone che “Ognuno è responsabile di se stesso ed è tenuto a concorrere all’espletamento delle funzioni statali e comunitarie secondo le proprie competenze e possibilità”.

L’art. R al comma I° dispone che la Legge fondamentale (cioè la Costituzione) è “la base dell’ordinamento giuridico dell’Ungheria”. Al comma III che “le norme della Legge Fondamentale vanno interpretate in armonia con il loro fine, con la Professione Nazionale ivi compresa, e con le conquiste della nostra costituzione storica”.

L’art. S prescrive le norme per le modifiche costituzionali che ne richiedono l’approvazione con maggioranza qualificata “dei due terzi dei deputati dell’Assemblea Nazionale” (è così una Costituzione rigida). L’art. T (comma IV°) prescrive poi che “le leggi organiche sono approvate con la maggioranza dei due terzi dei deputati presenti” (tali leggi sono prescritte dalla costituzione in materia di particolare rilievo, indicate dalla stessa legge fondamentale).

L’art. I dispone “I diritti inviolabili ed inalienabili dell’uomo vanno rispettati. È obbligo primario dello Stato la protezione di essi”, il III comma prescrive “Le norme che riguardano i diritti e i doveri fondamentali sono stabilite dalla legge. Un diritto fondamentale può essere limitato, nella misura strettamente necessaria, allo scopo di far valere un altro diritto fondamentale o di difendere dei valori costituzionali, in modo proporzionato al fine intenzionato e nel rispetto dei contenuti essenziali del medesimo diritto fondamentale”. Tale ultimo precetto ricorda, per la garanzia del contenuto, l’art. 19 (II° comma) della Grundgesetz tedesca.

Gli articoli dal II al XXX proteggono i diritti di libertà e proprietà garantiti in ogni Stato borghese, con particolare attenzione alla famiglia e ai minori (articoli XVI e XVIII). L’art. XXXI prevede, tra l’altro obblighi e limiti dello Stato d’eccezione, che sono destinati a essere disciplinati dettagliatamente dagli artt. 48-54.

Quanto all’organizzazione dello Stato, l’art. 15 prescrive il principio di legalità per gli atti del Governo, l’art. 21 la sfiducia al Primo Ministro eletto dall’Assemblea Nazionale (con indicazione del sostituto “suggerito” il che ne fa una “sfiducia costruttiva”).

L’art. 30 istituisce il Commissario dei diritti fondamentali che “svolge l’attività di protezione dei diritti fondamentali. Chiunque può richiedere il suo intervento. Il Commissario dei Diritti Fondamentali esamina e fa esaminare gli abusi relativi ai diritti fondamentali dei quali è stato informato, e per risolverli intraprende provvedimenti speciali o generali”; è eletto (con i sostituti dello stesso) dall’Assemblea nazionale, e non può essere (come i sostituti) membro di partiti né svolgere attività politica. Altre norme disciplinano i “governi locali” (artt. 31-35); la finanza pubblica (artt. 36-44); la forza pubblica e le operazioni militari (artt. 45-47).

  1. Com’è noto si è dubitato da parte di organi dell’Unione Europea che, non tanto la Costituzione, ma soprattutto alcune leggi approvate successivamente dall’Assemblea Nazionale, siano lesive dello Stato di diritto.

Occorre previamente fare un breve cenno alla precedente Costituzione dell’Ungheria (del 1949 – in pieno stalinismo) per notare le (enormi) differenze con quella del 2012.

La Costituzione “stalinista” inizia con un entusiastico plauso alla sconfitta e all’occupazione militare dell’Ungheria da parte dell’URSS[2]; prosegue col disporre (art. 4) “Nella Repubblica popolare di Ungheria la massima parte dei più importanti mezzi di produzione è proprietà dello Stato, delle organizzazioni pubbliche o delle cooperative. Mezzi di produzione possono trovarsi anche in mani private” (il corsivo è mio) l’art. 5 dispone la pianificazione; l’art. 6 la “proprietà del popolo” di (quasi tutto); l’art. 9 il diritto (e il dovere) al lavoro.

Il praesidium dell’Assemblea nazionale, come in altre costituzioni degli Stati del “socialismo reale” faceva un po’ di tutto, dalla rappresentanza (internazionale), alla normativa d’urgenza, all’annullamento degli atti degli organi statali per illegittimità (o perché contrastanti con “gli interessi dei lavoratori”)[3].

I giudici erano elettivi (art. 39), come il Procuratore generale. Gli artt. 45-58 tutelavano i diritti dei cittadini e dei lavoratori; gli artt. 59-61 i doveri dei cittadini. Poi l’art. 66 poneva sotto riserva di legge “l’elezione e la revoca” dei deputati.

Si capisce che, data la storia dell’Ungheria nel secondo dopo-guerra e la dura resistenza del popolo all’occupazione sovietica, il costituente del 2012 abbia proclamato nella “Professione nazionale” (cioè il “preambolo”) che “Onoriamo le conquiste della nostra costituzione storica e la Sacra Corona, la quale incarna dell’Ungheria la continuità costituzionale dello Stato e l’unità della nazione. Non riconosciamo la sospensione della nostra costituzione storica avvenuta sotto occupazione straniera. Neghiamo la prescrizione dei crimini disumani commessi contro la nazione ungherese ed i suoi cittadini durante le dittature nazionalsocialista e comunista.  Non riconosciamo la Costituzione comunista dell’anno 1949, perché fondamento di tirannia e ne dichiariamo perciò l’invalidità (il corsivo è mio). Concordiamo con i deputati della prima Assemblea Nazionale libera, i quali, con la loro prima delibera, dichiararono che la nostra odierna libertà germogliò dalla nostra rivoluzione del 1956. La ricostituzione dell’autodeterminazione statale della nostra Patria, persa il diciannove marzo 1944, la consideriamo avvenuta il 2 maggio 1990, data dell’inaugurazione della prima rappresentanza nazionale a seguito di elezioni libere. Riteniamo tale data l’inizio della nuova democrazia e del nuovo ordinamento costituzionale della nostra patria”.

Anche se l’ “invalidità” può creare dei problemi di carattere giuridico, allorquando si cerchi di assicurare una continuità giuridico-normativa a cambiamenti della forma di Stato e del regime politico, è comprensibile politicamente che un popolo, così geloso della propria indipendenza, abbia voluto rimarcare la (radicale) discontinuità della nuova Costituzione rispetto al regime di “occupazione straniera”, che è la sostanza di quanto capitato all’Ungheria nel XX secolo. Se il tutto può apparire “politicamente scorretto” è altrettanto storicamente esatto.

In sostanza la “Professione nazionale” afferma sul punto due principi: che la libertà politica è, in primo luogo, quella del popolo di determinare autonomamente la forma della sua esistenza, politica in primo luogo; e che se la volontà del popolo è coartata il prodotto di tale coercizione – coerentemente al principio democratico – non è riferibile al popolo e alla sua volizione, ma all’occupante straniero[4]; onde è invalido.

L’art. B della Carta ungherese proclama che “l’Ungheria è uno stato di diritto, indipendente e democratico” (il corsivo è mio); al comma III che la “fonte del potere pubblico è il popolo”.

Ciò stante occorre vedere se le disposizioni e il preambolo della Costituzione ungherese sono riconducibili al “tipo ideale” dello Stato borghese di diritto.

I principi dello Stato borghese di diritto sono enunciati nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dans laquelle la garantie des Droits m’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Di tale asserzione “non avere una costituzione “è un errore evidente, perché ogni Stato per il solo fatto di esistere è una Costituzione (Santi Romano); ma è sicuramente esatto che, distinzione dei poteri e garanzia dei diritti fondamentali sono le “cartine di tornasole” che distinguono lo Stato di diritto da quello che non lo è.

Su ciò la migliore dottrina concorda. A citare soltanto maestri del diritto pubblico come Vittorio Emanuela Orlando, il quale individuava tra le caratteristiche del “governo rappresentativo” (cioè lo Stato borghese di diritto) la distinzione dei poteri e la tutela giuridica[5]; lo stesso sosteneva Carl Schmitt [6] e, attualizzandolo alla “Stato sociale” Ernst Forsthoff[7].

Applicando tal criterio distintivo è sicuro che la Costituzione dell’Ungheria è quella di uno Stato di diritto: la separazione dei poteri c’è, la tutela dei diritti fondamentali pure. Anche attraverso autorità che in Italia non abbiamo come il “Commissario dei diritti fondamentali”. Se qualcuno può rilevare che la nomina dei magistrati apicali è demandata al potere politico, si può replicare che il tutto risulta anche da altre Costituzioni, come quella USA (la Corte Suprema di nomina presidenziale); peraltro in USA la gran parte dei giudici sono di nomina o elezione da parte di insiemi politici, e nessuno ha, che risulti, dubitato che la Costituzione degli Stati Uniti non fosse riconducibile ad uno Stato di diritto.

Le costituzioni moderne riconducibili allo Stato di diritto hanno diverse forme di governo (presidenziale, parlamentare, del “primo ministro”, federale, e cosi via) ma nessuno – che mi risulti – ha revocato in dubbio che ad esempio, la Costituzione francese (della III e IV Repubblica), parlamentare e centralizzata non fosse di democrazia liberale perché quella degli USA è presidenziale e federale, o viceversa.

[1] L’art. 39 prescriveva “Nella Repubblica popolare di Ungheria tutti i giudici sono eletti; i giudici eletti posso essere revocati”.

[2] Si legge nel preambolo “Il glorioso esercito della grande Unione sovietica ha liberato il nostro paese dal giogo dei fascisti tedeschi, infranto il dominio politico antidemocratico dei proprietari terrieri e dei grandi capitalisti e schiuso al nostro popolo lavoratore il cammino dell’evoluzione democratica. Giunta al potere in virtù delle sue lotte accanite contro i padroni e i difensori dell’antico regime, la classe operaia alleata ai contadini laboriosi ha ricostruito, con l’aiuto disinteressato dell’Unione sovietica, il nostro paese devastato dalla guerra … La Costituzione della Repubblica popolare di Ungheria, indicando il cammino dell’evoluzione futura, è l’espressione dei cambiamenti fondamentali che hanno avuto luogo nella struttura economica e sociale del nostro paese, del risultato di queste lotte e di questo lavoro di ricostruzione”.

[3] V. anche il potere “concorrente” del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 26 della Costituzione ungherese abrogata.

[4] Un liberale o un democratico italiano del Risorgimento non avrebbe pensato nulla di diverso, Per Mazzini o Cavour pensare che i principi fondamentali dell’ordinamento fossero dettati da Metternich, indipendentemente dal loro contenuto, sarebbe sembrato il prodotto di un asservimento non solo materiale, ma anche – e soprattutto – spirituale, se creduto.

[5] v. Principi di diritto costituzionale p. 64 ss. e per i diritti fondamentali p. 264 ss.

[6] v. Verfassunslehre trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione Milano 1984, pp. 212-264.

[7] v. Stato di diritto in trasformazione Milano 1973, segnatamente p. 42.

trasformismo in azione, di Giuseppe Angiuli

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi)euroscettica


In una fase storica contraddistinta da una contrapposizione frontale e difficilmente sanabile fra i popoli del nostro continente e le oligarchie finanziarie riunite attorno alla tecnocrazia U.E., una delle peggiori disgrazie che sono capitate al popolo italiano è stata quella di essersi trovato fra i piedi la peggiore sinistra politica che sia esistita da almeno due secoli a questa parte.
In questi decenni in cui il grande capitale speculativo trans-nazionale, facendo leva sull’imposizione di un assurdo sistema di vincoli di stabilità finanziaria (elemento connaturato ed ineluttabile per un’eurozona nata fin dal principio su presupposti anti-democratici), ha proceduto come un treno inarrestabile nel percorso di sistematico attacco ai diritti sociali che avevano garantito per un lungo periodo il benessere di buona parte degli italiani, il ceto politico un tempo formatosi fra le fila del vecchio partito comunista più forte dell’occidente ha sempre svolto egregiamente, con uno zelo servile assai gradito ai padroni del vapore, il suo ruolo di cane da guardia degli interessi dei grandi poteri oligarchici euro-atlantisti, accompagnando le classi lavoratrici ed i ceti produttivi del nostro
Paese, fin dai tempi dell’approvazione del Trattato di Maastricht, verso una lenta ed ineluttabile agonia, venduta come il meraviglioso paese di Bengodi.
Ma mentre la maggior parte degli ex comunisti italiani (a partire da Napolitano, D’Alema, Veltroni e Bersani) non hanno mai nascosto la loro cieca e fideistica adesione al processo di sistematica erosione della sovranità popolare man mano che prendeva corpo il sempre maggiore accentramento di poteri in capo agli organismi tecnocratici dell’eurozona – al punto che oggi essi appaiono in grave difficoltà dinanzi ai loro storici elettori e sono quasi costretti a rinunciare ad un impegno politico in prima persona – vi è qualcuno, forse più scaltro e più cinico di loro, che ha sempre avuto l’abilità di preservarsi una immagine di uomo dall’intelligenza duttile e creativa, più al passo coi tempi, al punto da essere oggi accreditato, specie dopo la nascita della inedita associazione politica chiamata Patria e Costituzione, come il più presentabile dei leader della sinistra storica italiana, l’unico apparentemente ancora in grado di dare una lettura articolata della crisi dell’eurozona,
l’unico con una visione generale ancora quanto meno legata alla realtà oggettiva dei fatti.
Stefano Fassina, economista di scuola bocconiana, nonostante sia risaputo il suo contributo
scientifico fornito per alcuni anni al Fondo Monetario Internazionale (tempio dell’ideologia neoliberista mondiale), è riuscito a ritagliarsi un ruolo di nicchia che, nel panorama desertificato della sinistra odierna, lo proietta come potenziale punto di riferimento per tante persone di sensibilità progressista che, disorientate dalla decomposizione degli schemi ideologici novecenteschi, quantunque oggi manifestino ostilità alla Unione Europea ed alle sue politiche di austerità, non se la sentono di unire le loro forze a quelle del cosiddetto campo “populista” (Lega e Movimento 5 Stelle).


Tuttavia, un’attenta rilettura delle scelte e delle vicende nella storia recente di Stefano Fassina dovrebbe fornire a noi tutti una nutrita serie di argomenti per dubitare seriamente dell’effettiva affidabilità del Nostro quale potenziale leader di una possibile o fantomatica area politica di sinistra patriottica o sovranista.
La politica, come insegna il Machiavelli nel suo mai sufficientemente letto Principe, è spesso l’arte della dissimulazione dei propri intenti strategici, ragion per cui i bene accorti sanno che per valutare in modo attendibile i reali intenti di un uomo politico non ci si può solo soffermare sulle parole o sui discorsi che questi pronuncia in pubblico bensì occorre prima di tutto osservare la coerenza nei comportamenti e nelle scelte che ne segnano il percorso.
Ebbene, applicando tale metro di valutazione agli anni più recenti della carriera politica di Stefano Fassina, non può che emergere un ritratto assai poco limpido dell’economista bocconiano, il quale troppo spesso ci ha dato l’impressione di non credere fino in fondo nelle sue improvvise sterzate euroscettiche alle quali ci ha di tanto in tanto abituato ed a cui ha poi sempre fatto seguire degli improvvisi e puntuali rientri nell’ovile sinistrorso, specie in coincidenza con le più importanti scadenze elettorali.
Ci spiace rilevare che quando in questi anni di drammatica crisi si è trattato di affrontare seriamente la Troika e le sue inaccettabili imposizioni ai popoli europei, Stefano Fassina, nonostante le apparenze, non è mai stato in grado di fare seguire alle sue parole i fatti.
Di sicuro, non si può non riconoscergli delle notevoli doti di camaleontismo e di equilibrismo politico con cui è spesso riuscito ad affabulare i sinistri più euroscettici, illudendoli di essere pronto a costruire per loro una vera casa politica per poi lasciarli puntualmente all’addiaccio, privi di una guida e di una strategia, sedotti e abbandonati, mentre lui non ha avuto molti problemi nel farsi rieleggere al Parlamento nelle fila del raggruppamento post-dalemiano Liberi e Uguali.

Stefano Fassina al Roma Pride nel 2015
Eppure, anche ai sinistri più colti ed euroscettici, quelli che hanno compreso le cause strutturali dei guasti della moneta unica leggendo i libri di Bagnai o di Cesaratto, non dovrebbe risultare molto difficile comprendere che in realtà Fassina non ha mai fatto sul serio quando si è trattato di fare i conti con il mostro tecnocratico dei tempi odierni, chiamato U.E.
Se non bastasse il fatto di essere stato un importante dirigente del PD all’atto della nascita del Governo Monti nel 2011, il Nostro sarà a lungo ricordato soprattutto per avere ricoperto il ruolo di vice Ministro dell’Economia (non proprio un dicastero qualsiasi) nel Governo Letta nel 2013, proprio in coincidenza con un periodo terribile per il popolo italiano, in cui le oligarchie di Bruxelles e di Francoforte imponevano l’adozione di due misure draconiane che a tutt’oggi costituiscono una vera camicia di forza per la nostra economia, rendendo di fatto impossibile l’adozione di sensate misure fondate su investimenti pubblici e spesa a deficit: stiamo parlando del fiscal compact e della famigerata modifica dell’art. 81 della Costituzione con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio nella nostra magna charta.
E giusto a proposito di tali interventi esiziali per le sorti dell’economia italiana, Fassina nel 2013 – palesando una sudditanza psicologica verso l’Europa a trazione teutonica – aveva impudentemente dichiarato che tali misure di controllo rigoroso sui conti pubblici, “pur sbagliate sul piano economico”, erano comunque utili sul piano politico al fine di “dare garanzie all’opinione pubblica tedesca” (sic)
Non è difficile rintracciare in quelle parole di Fassina lo stesso cinismo manifestato da Mario Monti quando ebbe a definire la crisi greca come “il più grande successo dell’euro”, giacchè con quella crisi che pure ha fatto tanti morti e feriti si sarebbe comunque riusciti a convincere la Germania della presunta sostenibilità della moneta unica nel medio-lungo periodo.
In altri termini, lo stesso Fassina il quale oggi strepita contro la presunta incapacità del Governo giallo-verde di sapere imporsi con la Commissione Europea, all’epoca in cui il famigerato regime del fiscal compact stava giusto entrando in vigore, difendeva le finalità di fondo di quel tipo di misure austeritarie anti-democratiche, che soffocano sul nascere qualsiasi vagito di sovranità degli Stati nazionali e la cui cogenza costituisce il vero fattore che ha impedito al Governo Conte di imprimere dei connotati maggiormente espansivi alla manovra finanziaria per il 2019.

Stefano Fassina in compagnia di Yanis Varoufakis
Ed anche negli anni successivi alla sua plateale rottura con Renzi e col PD, il Nostro, pur essendosi insistentemente proposto – finora con evidente scarso successo – come possibile guida politica di una nuova area di sinistra patriottica, costituzionalista ed apparentemente anti-eurista, non ha mai mancato di lasciarci basiti per avere sempre immancabilmente assunto, in tutti i passaggi decisivi del suo percorso, delle scelte e delle posizioni politiche oggettivamente funzionali ai desiderata dei poteri finanziari globalisti https://www.youtube.com/watch?v=IJXIvF_-q_0.
Poco più di un anno e mezzo fa, nell’aprile del 2017, quando si era nel pieno svolgimento del ballottaggio alle Presidenziali francesi, Fassina non aveva mancato di esortare la sinistra d’oltralpe a prendere posizione netta contro il presunto “pericolo xenofobo” a suo dire costituito da Marine Le Pen e così, aderendo alla più consunta vulgata dell’antifascismo d’accatto, il Nostro aveva dato anch’egli il suo piccolo contributo alla scalata all’Eliseo di Emmanuel Macron, vero garante della finanza cosmopolita e parassita, oggi investito da una vera e propria insurrezione popolare con delle conseguenze geopolitiche tuttora imprevedibili per le sorti della malconcia Francia2
.
A ben vedere, in quella improvvida uscita che sapeva tanto di implicito sostegno a Macron sta tutto lo spirito gesuitico di Stefano Fassina.
In tale occasione, infatti, il Nostro non aveva dichiarato un sostegno esplicito al rampollo del Gruppo Rothschild – la cui candidatura era stata partorita in tutta fretta, in certi salotti parigini che contano, al fine di scongiurare un pericoloso scivolamento della Francia nel campo “populista” – ma nel rivolgersi al compagno Jean-Luc Mélenchon (leader indiscusso della sinistra anti-eurista francese) aveva impiegato quei tipici toni da aut-aut a cui si è soliti ricorrere negli ambienti conformisti di sinistra per manipolare a dovere gli ingenui militanti di base ed il cui significato era:
“Sì è vero, Macron rappresenterà pure gli interessi della grande finanza ma non vorrai mica
schierarti con la neo-fascista Le Pen”?
Nel marzo dello stesso anno 2017, nell’accogliere il citato Jean-Luc Mélenchon a Roma in
occasione dell’importante convegno internazionale sul Piano B per l’uscita dall’euro, Fassina aveva accettato supinamente il veto alla presenza al convegno del prof. Alberto Bagnai (primo economista italiano ad avere portato all’attenzione della nostra opinione pubblica i guasti sistemici dovuti all’incauta adozione della moneta unica), un veto postogli con toni ultimativi da Eleonora Forenza, euro-deputata eletta a Strasburgo con

2
https://www.repubblica.it/politica/2017/04/24/news/elezioni_francia_fassina_le_pen_invotabile_me_lenchon_si_schier
i_-163769308/?fbclid=IwAR1RPAgNf3Y7cizjOzkuGMTol_8RvfU1EYSIhLK713Ep-ZelgeRb7iEYGuo
6
Rifondazione Comunista e da sempre distintasi per delle posizioni apertamente filo-globaliste.
In questi ultimi tempi, in piena continuità col suo spirito gesuitico, abbiamo assistito ad un Fassina spesso intento ad attaccare insistentemente e con una veemenza oratoria degna di miglior causa l’azione del Governo Conte, quasi che il suo principale obiettivo tattico fosse quello di mettere in difficoltà l’esecutivo proprio nei momenti più delicati della sua azione di contrapposizione/contrattazione con gli organismi implacabili del mostro tecnocratico
chiamato U.E.
E mentre attacca il Governo giallo-verde vestendo i panni del vero sovranista ferito nella sua dignità, lo stesso ineffabile Fassina non mostra di avere alcun imbarazzo nel proporre delle improbabili tavole rotonde sul tema delle nazionalizzazioni con candidati impegnati nella corsa alla segreteria del PD, così come, appena pochi mesi fa, egli non ha avuto alcun ritegno nel rivolgere una lettera aperta all’attuale Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti per invogliarlo ad accogliere una rinnovata unità d’azione tra la sinistra sparuta e in cerca d’autore e le componenti anti-renziane interne allo stesso PD
Con tutto il rispetto per Fassina, se per lui la ricostruzione della sinistra storica passa per una rinnovata collaborazione con il PD (ossia con quel soggetto politico che agli occhi della storia porterà la principale responsabilità per avere attuato, su diktat dei mercati finanziari, una regressione dei diritti sociali a livelli pre-novecenteschi per decine di milioni di lavoratori e giovani precari italiani), noi ci dichiariamo ormai stufi dei suoi consueti funambolismi e facciamo non poca fatica a credere che il suo vero obiettivo politico sia mai stato effettivamente quello di proporsi come credibile soggetto motore di una eventuale area di “sinistra anti-euro”.
Forse sarà ancora in grado di incantare i sinistri più colti ma ingenui, Fassina, portandoli fuori strada per l’ennesima volta per poi lasciarli privi di un contenitore politico degno delle loro attese ma non potrà farcela ad ingannare i patrioti costituzionali più avveduti, i quali oggigiorno, dopo anni di umiliazioni e di sventure inferte al popolo italiano, hanno finalmente capito da quale parte sta l’economista bocconiano, già in forza all’F.M.I. e pertanto faranno volentieri a meno dei suoi consigli per provare a dare risposte in senso keynesiano al grande bisogno di svolta largamente avvertito dalle classi lavoratrici e dai ceti produttivi del nostro Paese, penalizzati da anni di massacro sociale e di distruzione economica compiuti sull’altare dell’austerità eurocratica.
Non ce ne voglia Stefano Fassina ma noi crediamo che, in fin dei conti, tanto la nostra Patria quanto la nostra Costituzione oggi abbiano bisogno di ben altri alfieri per tornare finalmente a risplendere di luce piena.
Giuseppe Angiuli

3
Per il resoconto dettagliato della vicenda che fece infuriare Alberto Bagnai, sospingendolo definitivamente fra le
braccia di Salvini e della Lega, si legga qui: http://goofynomics.blogspot.com/search?q=Fassina+convegno+Piano+B
4
https://www.facebook.com/events/301223977164077/
5 Cfr. il testo della “Lettera aperta a Nicola Zingaretti, per una sinistra che riparta”, qui pubblicata:
https://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/lettera-aperta-a-nicola-zingaretti-per-una-sinistra-cheriparta_a_23468974/

È Huawei la prima vittima della guerra economica fra Usa e Cina?, di Giuseppe Gagliano

tratto da https://www.ilprimatonazionale.it/economia/huawei-prima-vittima-guerra-commerciale-usa-cina-99335/?fbclid=IwAR2xuRHH5orSdiqlwcMTj9Myzv0oIbEottR1e-EGUyn1n7jSmatvKuPOS54

Roma, 24 dic – Il gigante cinese delle telecomunicazioni è rimasto così deluso dagli Stati Uniti che pare stia valutando di ritirarsi da questo mercato. Huawei infatti non è la benvenuta negli Usa almeno dal 2012, anno in cui un rapporto del Senato americano indicava delle falle nella sicurezza dei suoi dispositivi. Secondo questo richiamo, inoltre, il gruppo rappresentava “una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti”, senza nemmeno fornire delle prove concrete a supporto delle accuse. Qualche mese dopo, gli sforzi delle autorità americane per impedire a Huawei di accedere al loro mercato sono aumentati. A marzo 2018, i principali operatori e distributori telefonici americani (AT&T, Verizon e BestBuy) si sono arresi alla pressione politica e hanno deciso di non vendere i cellulari o altri prodotti a marchio Huawei. Il gruppo cinese ha rinunciato così a mettere sul mercato americano il suo ultimo modello di cellulare, il Mate 10 Pro. Il vero duro colpo per Huawei è arrivato però ad agosto, con la promulgazione del Defense Authorization Act. La legge vieta alle agenzie governative statunitensi o al personale e alle strutture che desiderano lavorare con il governo di utilizzare i dispositivi Huawei, ZTE o di altre imprese cinesi. I prodotti Huawei e ZTE sono così ufficialmente banditi dal mercato pubblico americano.

A seguire, in altri Paesi alleati degli Stati Uniti, in particolare quelli appartenenti al club “Five Eyes” (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada), si sono moltiplicati i sospetti riguardo Huawei. Il 23 agosto, l’Australia ha dichiarato il divieto a Huawei e ZTE di aprire la loro rete 5G, appellandosi al rischio di spionaggio. In ottobre il Regno Unito ha avviato un’inchiesta per valutare se il Paese fosse “troppo dipendente” da un unico fornitore per le telecomunicazioni. In un Paese dove la maggioranza degli operatori internet utilizza prodotti Huawei, il gruppo cinese sembrava direttamente preso di mira. Il 28 novembre la Nuova Zelanda ha vietato al suo operatore storico, Spark, di rifornirsi da Huawei, citando i problemi di sicurezza legati alla tecnologia 5G. Una settimana dopo anche all’operatore inglese BT è toccato rinunciare al rifornimento da Huawei per le reti 5G, citando nuovamente i problemi relativi alla sicurezza. Il giorno precedente, il titolare dell’MI6 aveva chiesto di punto in bianco ai media di bandire completamente le apparecchiature telefoniche Huawei. Infine, il 7 dicembre, Reuters ha annunciato che anche il Giappone si apprestava a ritirare Huawei e ZTE dal suo mercato pubblico sul 5G.

Le conquiste realizzate da Huawei sui mercati dei vicini alleati degli USA sembrano così franare come un castello di sabbia. L’insieme dei Paesi o delle aziende che hanno deciso di non fare più affari con il marchio cinese motivano la loro scelta indicando i rischi connessi alla sicurezza. Seppur non si citi espressamente il rischio di spionaggio, l’obiettivo sembra proprio quello di dimostrare l’inaffidabilità del gruppo. Nel Regno Unito, BT ha dichiarato che “Huawei rimane un importante fornitore di dispositivi al di fuori della rete principale, nonché un partner prezioso per l’innovazione” e ha anche annunciato di aver già ritirato, come misura di sicurezza, i componenti dello stesso marchio per le reti 3G e 4G. In Nuova Zelanda si cerca di spiegare che “non si tratta del Paese, ma dell’azienda nello specifico” e che sono i proprietari della 5G ad aver creato una rete più vulnerabile ai cyberattacchi… un altro modo per dire che Huawei non si merita fiducia su questo tipo di tecnologie sensibili. Solo l’Australia ha ufficialmente menzionato il rischio di spionaggio stimando che “le implicazioni per i fornitori (dei prodotti per le telecomunicazioni) esposti alle decisioni extragiudiziarie di un governo straniero” costituiscono un rischio per la sicurezza. Le autorità australiane si riferivano all’art. 7 della legge sui servizi segreti nazionali cinesi del 2017, secondo cui tutte le attività imprenditoriali cinesi devono cooperare con l’intelligence del proprio Paese. Huawei ha risposto negando d’intrattenere rapporti con lo Stato cinese.

Un temibile concorrente

Sia che intendano allertare i propri partner dei gravi rischi che corre la sicurezza, sia che vogliano vincere una guerra commerciale, non si può non notare lo sforzo concertato delle autorità statunitensi per indebolire Huawei. Il 23 novembre, il Wall Street Journal ha accusato gli Stati Uniti di condurre una campagna nei confronti di alcuni dei suoi alleati – tra cui l’Italia, la Germania e la Francia – al fine che questi rinuncino alla tecnologia 5G prodotta dall’azienda cinese. In un’intervista rilasciata al Journal du Dimanche il 24 novembre, l’amministratore delegato di Huawei France ha cercato di rassicurare tutti i suoi clienti europei puntando il dito contro le manovre americane: “Lavoriamo da più di dieci anni in Germania e non abbiamo mai avuto il minimo problema, esattamente come negli altri 170 Paesi dove ci siamo stabiliti. Sospetti senza fondamento come questi emergono in un clima di tensioni commerciali e geopolitiche”.

In effetti è difficile non vedere in queste misure un tentativo da parte degli Stati Uniti di indebolire un rivale temibile su un mercato che, peraltro, si prospetta promettente. Un rapporto del Senato americano del 15 novembre dedicava un intero capitolo al dominio cinese sul mercato mondiale del 5G, il quale si può descrivere come un nuovo terreno di guerra economica che va conquistato. Secondo il rapporto, “il governo cinese cerca di superare a livello industriale gli USA per aggiudicarsi una fetta più grande di benefici economici e d’innovazione tecnologica”. Malgrado la concorrenza sleale degli Stati Uniti e il rischio spionaggio, si sottolineava la necessità di superare la Cina.

Le accuse americane coincidono peraltro con i primi lanci delle reti 5G al mondo, i quali hanno avuto inizio negli Stati Uniti nell’ottobre 2018 e che, in Cina e in Europa, inizieranno rispettivamente nel 2019 nel 2025. È così che gli Stati Uniti cercano di sabotare gli sforzi di Huawei, la quale sembrava essere molto favorita in questi mercati. L’azienda, leader del 5G, ha di recente annunciato di aver siglato 22 contratti commerciali per l’installazione di questa rete: è stata l’unica a guadagnare terreno sui mercati nel 2017, passando dal 25 al 28%, strappando il trono ai suoi rivali europei, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. Huawei rappresenta, anche nel mercato del 5G, una minaccia crescente per il gigante americano Qualcomm. L’azienda cinese ha infatti sviluppato le proprie smart card compatibili con la tecnologia 5G, mettendo in pericolo il predominio di Qualcomm, che primeggiava ampiamente sul mercato.

La rimessa in gioco della carta dell’extraterritorialità del diritto statunitense

La campagna di destabilizzazione di Huawei sul mercato del 5G appare come un’ulteriore rappresentazione della guerra economica che Cina e Stati Uniti stanno per scatenare. Dopo aver cercato di gettare fango sulla reputazione del gigante cinese, pare che gli Stati Uniti vogliano passare alla fase successiva. Mentre il 1° dicembre aveva inizio a Buenos Aires il vertice del G20, la direttrice finanziaria cinese Meng Wanzhou veniva arrestata all’aeroporto di Vancouver su richiesta degli Stati Uniti. Meng Wanzhou, che è figlia del capo di Huawei, rischia l’estradizione negli Stati Uniti. Le ragioni ufficiali dell’arresto non sono chiare, ma, secondo Le Figaro, Huawei è accusata di violare l’embargo statunitense contro l’Iran. Lo spettro dell’extraterritorialità del diritto americano sembra così essersi abbattuta nuovamente sul suo avversario economico. Un altro esempio recente si è verificato il 22 novembre, quando la Société Générale si è vista precipitare addosso una multa da 1,35 miliardi di dollari per aver violato gli embarghi americani. Se Huawei verrà condannata, nell’arco di un anno per la Cina saranno due le società di telecomunicazioni – leader nel settore – a essere prese di mira: a giugno 2018, infatti, ZTE è stata accusata di aver violato gli embarghi del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) all’Iran e alla Corea del Nord. ZTE ha dovuto pagare una multa da 1 miliardo di dollari e si è vista imporre la presenza nelle sue sedi di un “compliance team”, una squadra addetta al controllo della conformità, per un periodo di dieci anni.

Rispetto all’arresto di Meng Wanzhou, le autorità cinesi hanno reagito senza celare la collera, pretendendo fermamente la liberazione della cittadina. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il consigliere all’economia alla Casa Bianca ha assicurato che il Presidente Donald Trump non fosse stato informato dell’arresto della dirigente. È quindi così che, durante il G20, si è svolto il tête-à-téte con il Presidente Xi Jinping. Una nota amara che non può accontentare la parte cinese e che sembra suonare la campana a morto per la tregua commerciale tra i due giganti.

Giuseppe Gagliano

ONU e i global compact su migrazioni e rifugiati. Intervista al professor Augusto Sinagra

La firma all’ONU dei recenti compact su migrazioni e rifugiati ha sollevato anche se tardivamente qualche discussione anche in Italia. Un po’ poco rispetto alla rilevanza del problema e all’enfasi e al clamore che ha accompagnato l’impegno di Matteo Salvini in materia di immigrazione sin dalla costituzione del Governo Conte. Il motivo lo si può trovare nell’atteggiamento acritico dell’opposizione e nell’imbarazzo che un tale argomento suscita in un governo composto da forze politiche così diverse. Da qui l’atteggiamento furtivo della diplomazia e  il tentativo di lasciar passare sotto silenzio la posizione italiana. Sarà un tema che comunque non tarderà a conquistare la ribalta. Il professor Sinagra ha offerto le sue autorevoli opinioni sull’argomento. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

ALTERNATIVE CHIARE, di Andrea Zhok

Al momento, in Italia, salvo quei pasdaran del PD che oramai considerano Milton Friedman un moderato e che per uno scranno a Bruxelles si venderebbero la mamma, tutti gli altri rappresentanti politici, dentro e fuori il Parlamento dicono di voler cambiare l’Unione Europea e i suoi vincoli.

Bene, partiamo da qui.
Prima di spararsi reciprocamente addosso a colpi di -ismi (europeismi, sovranismi, ecc.), proviamo a chiederci quali sono le parti in campo.

Se qualcuno vuole “cambiare l’UE dall’interno”, bene sono tutt’orecchi.

Solo, per piacere, non è che a un elettorato di intelligenza anche modesta può bastare sentire, una volta di più, le roboanti chiacchiere di qualcuno che – Renzi-style – ci racconti che andrà a “battere i pugni” sul tavolo di Bruxelles.
Anche i meno brillanti oramai sgamano il giochino: strillo qualche slogan critico dell’EU, mi faccio eleggere, e poi, tra un brunch a Bruxelles e un apericena a Strasburgo, spiego contrito che ci ho provato, ma che non ci si può fare nulla (faccina, sipario).

Questo francamente non è più accettabile.

Chiunque chieda alle prossime elezioni un voto per “cambiare l’Europa” deve prendersi l’onere di spiegare cosa vuole fare e come crede di poterlo ottenere.
Altrimenti si tratta semplicemente di una frode.

Per parte mia, io sono sempre disposto a ragionare in termini pragmatici.

Se qualcuno mi riesce a spiegare come pensa di ottenere a livello europeo:

1) una condivisione dei rischi sul debito tra tutti i paesi;

2) un sistema di intervento mirato ad approssimare la piena occupazione, anche a scapito di eventuali fiammate inflattive;

3) l’abolizione dei paradisi fiscali interni all’UE e la soppressione delle forme di fiscal dumping;

4) un sistema massiccio di investimenti pubblici per portare tutti i paesi al livello di ricerca, sviluppo e produttività dei ‘primi della classe’;

5) una mutualizzazione integrale delle responsabilità e degli oneri relativi ai flussi migratori;

quello avrà il mio voto.

Ma beninteso, non mi interessa sapere semplicemente che qualcuno è favorevole a queste richieste. Sarebbe troppo comodo.

Mi interessa sapere precisamente come pensa di muoversi per ottenerne l’accettazione e implementazione.

Se qualcuno è in grado di spiegarmelo, magnifico, sono disposto a votarlo e anche a fare campagna elettorale a suo favore.

Se invece sentirò soltanto chiacchiere su “quanto sarebbe bello se”, “faremo pressioni”, “prenderemo iniziative”, “invieremo documenti”, “raccoglieremo firme”, e insomma “meneremo il can per l’aia finché non muore di vecchiaia”, beh, mi spiace, ma questo non è più accettabile.

E’ infatti un esempio di straordinaria malafede che tutti quelli che esigono un piano dettagliato minuto per minuto, con valutazione costi-benefici, rispetto ad un’opzione di Italexit, poi invece si candidino per la millemillesima volta alle elezioni senza nessuna indicazione circa come ottenere ciò che dicono di voler ottenere.

Non fare nulla non implica che nulla accadrà.

Non fare nulla significa venire bolliti poco a poco come la proverbiale rana: svuotati industrialmente, resi incapaci di reagire, distrutti come mercato interno, demoliti come industria pubblica, frantumati come servizi pubblici e infrastrutture.

Chi mena il can per l’aia è obiettivamente complice di tutto questo.

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