EMERGENZA CORONAVIRUS_UN APPELLO

Qui sotto il testo di un appello-documento che proponiamo ai lettori e agli altri blog ed iniziative editoriali. Una volta raccolta l’adesione di altri gruppi editoriali, ci proponiamo di predisporre la sua diffusione e il suo sostegno politico. Sul sito sono disponibili gli indirizzi email e sui socianetwork

EMERGENZA CORONAVIRUS_UN APPELLO

I dati forniti ogni giorno dalla Protezione Civile sulla diffusione del coronavirus nel nostro Paese non lasciano dubbi riguardo al fatto che ci si trovi ad affrontare una gravissima emergenza sanitaria; una criticità che ha già richiesto l’adozione di eccezionali misure di sicurezza pubblica. Attualmente la regione più colpita è la Lombardia, il motore economico dell’Italia; la regione che dispone per altro di cospicue ed efficienti strutture sanitarie, le migliori attualmente disponibili nel paese. Ciononostante, perfino la sanità lombarda rischia il collasso, non tanto per il numero di casi di contagio quanto per l’inusitato numero di ricoveri negli ospedali e soprattutto nei reparti di terapia intensiva. Vi entrano sempre più malati di quanti ne escano. Medici e infermieri stanno facendo il possibile e l’impossibile. Uomini, mezzi e risorse (posti letto inclusi) però sono insufficienti e, mancando non si sa per quanto un vaccino per il coronavirus, esposto al rischio di contagio. Se la situazione della sanità lombarda è già così critica, si può allora immaginare cosa accadrebbe se il virus si diffondesse, come pare ormai stia facendo, nelle altre regioni, in particolare quelle del Sud le quali non dispongono di strutture sanitarie di pari livello. Certo, si deve riconoscere che la maggior parte dei cittadini ha accettato consapevolmente la restrizione della propria libertà di movimento, comprendendo che è necessario rallentare il decorso e limitare ad ogni costo l’assalto ai reparti di terapia intensiva. In gioco, difatti, non vi è solo la vita di anziani debilitati ma anche la “tenuta” del nostro sistema sanitario nazionale (peraltro già reso assai fragile dai numerosi tagli, sia di uomini che di mezzi, decisi in questi ultimi anni). È in gioco la salute di tutti i cittadini, la coesione sociale e l’integrità del nostro apparato economico. Occorre quindi che le misure di sicurezza decise dal governo (e che ci si augura possano dare qualche risultato nelle prossime settimane) siano rispettate non solo dalla maggioranza dei cittadini ma da tutti i cittadini, nessuno escluso. In altri termini, bisogna anche farle rispettare. Se si tollera che alcuni possano violarle (per leggerezza, per scarso spirito civico o per qualunque altro motivo) si rende di fatto vano anche il sacrificio (pure economico) di tutti gli altri. Le forze dell’ordine stanno svolgendo i propri compiti con grande impegno, ma è evidente la loro condizione di sovraccarico. Vi sono però anche le Forze Armate! Dispongono di uomini, mezzi e competenze tali da potere svolgere con efficienza buona parte dei compiti che adesso svolgono le sole forze dell’ordine e della Protezione Civile. Le Forze Armate sono perfettamente in grado di presidiare il territorio, di svolgere compiti di “sostegno” e di soccorso. Sono estremamente utili e preziose in questa situazione di emergenza. Chiediamo dunque al governo di non esitare ad impiegare al più presto le nostre unità militari – come del resto è già accaduto in occasione di alcune calamità naturali – per far fronte a questa grave emergenza sanitaria. Le Forze Armate possono certamente dare un contributo indiretto ma decisivo alla difesa del nostro sistema sanitario nazionale e alla tutela della sicurezza e della salute pubblica di tutti gli italiani. Loro, assieme alle forze dell’ordine, ai vertici della sanità. Non solo e non basta. È evidente che il contesto geopolitico, la diffusione della pandemia, le incognite sul futuro lasciano sperare ben poco in un sostegno internazionale fattivo. Il coronavirus stesso è diventato un veicolo ed uno strumento di confronto e conflitto geopolitico. Gli aiuti sono estemporanei, limitati al momento al contributo della sola Cina, per altro in apparenza responsabile della diffusione del virus, interessati e soprattutto del tutto inadeguati alla necessità. Occorrono una autorità decisionale, una gerarchia, un coordinamento di sforzi che possano garantire non solo l’assistenza sanitaria, la limitazione della diffusione di un virus ancora di fatto sconosciuto, l’ordine pubblico. Non basta. Devono provvedere a rappresentare realisticamente la situazione, a ricostruire un tessuto economico con promozioni, sollecitazioni, incentivi ed interventi diretti a ricostruire le filiere produttive necessarie a garantire nel miglior modo possibile le forniture di sussistenza e i materiali sanitari minimi necessari ad affrontare l’emergenza. La nazione è ancora ricca delle capacità e competenze professionali ed imprenditoriali necessarie; sono da motivare, incentivare e coordinare. Il Governo e buona parte dei vertici istituzionali purtroppo stanno rivelando, pur in una condizione di straordinaria emergenza, la loro inadeguatezza e la loro scarsa autonomia decisionale, la loro permeabilità alle pressioni esterne. Una incertezza deleteria solo in parte comprensibile in una condizione di emergenza inusuale. Una condizione suscettibile di sviluppi e tentazioni inquietanti e dirompenti se non corretta da una attribuzione chiara di responsabilità ed obbiettivi ad organismi direttamente preposti alla gestione della crisi e sotto la diretta responsabilità politica della massima autorità dello Stato. Ai giuristi il compito di definire l’ambito di intervento compatibile e alla massima istituzione di porre in atto le decisioni e le strutture organizzative.

 

L’Italia alla prova del coronavirus (e degli avvoltoi) di Patriottismo Costituzionale

L’Italia alla prova del coronavirus (e degli avvoltoi)

di Patriottismo Costituzionale

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
(…)
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai

 

Dal punto di vista più strettamente sanitario, il pericolo del coronavirus è rappresentata dalla grande velocità di contagio nella forma di areosol associata all’alta percentuale di contagiati che hanno bisogno di cure specialistiche. Si parla di una percentuale del 10-15-20%. Nessun sistema sanitario al mondo può reggere un peso simile.

Fino alla produzione del vaccino l’unico rimedio è quello di rallentare il contagio. Questo obiettivo è reso molto complesso dal fatto che, come già scritto, il coronavirus si diffonde per aerosol, come spiega il professor Marc G. Wathelet, noto virologo che ha guidato un gruppo di studio sulla SARS, che può diffondere il virus su grandi distanze e tra persone che non interagiscono faccia a faccia.

L’unica soluzione quindi è quella cinese: fermarsi. A meno che non si sia disposti a sopportare una ecatombe.

E qui sta il punto.

Il coronavirus sta facendo saltare in aria il sogno globalista di un unico mercato mondiale dove capitali, merci e forza lavoro si muovono ininterrottamente e senza incontrare ostacoli secondo le convenienze del capitale e dei suoi profitti. Un mondo da sogno in cui le catene della produzioni si dislocano laddove i costi sono minori per poi spostare le merci laddove la domanda è maggiore. Un mondo dove sembrava possibile la realizzazione del grande sogno del capitalista: vivere sotto l’unica legge dell’accumulazione di ricchezza e potere, slegato completamente da qualsiasi altra considerazione e freno che riguardino uomini, comunità e luoghi. In questi giorni tutto questo sta crollando, e il grande capitale deve trovarsi un luogo e accettare nuovamente di arrivare a compromessi con uomini e comunità.

Se il mondo nato negli anni Ottanta del secolo scorso sta crollando, uno nuovo dovrà pur nascere. Non sappiamo come sarà. Siamo a una biforcazione della storia: potremmo procedere avanti e superare le contraddizioni di un modello produttivo, politico e sociale che ormai non ha più nessuna soluzione in positivo da offrire all’umanità; oppure potremmo rivelarci talmente svuotati di vitalità, saggezza e intelligenza da rimanere prigionieri di un sistema che ha bisogno di disastri, guerre e immani distruzioni per poter ripartire.

Il coronavirus sta rivelando chiaro e nitido che abbiamo bisogno di uno stato. È allo stato e ai suoi bracci operativi che in questo momento i cittadini di ogni paese si rivolgono per avere protezione e sicurezza. E sono gli stati che in questi decenni hanno mantenuto un ruolo e una presenza robusta nella protezione sociale e nell’economia ad avere maggiore successo nella lotta al diffondersi dell’epidemia. Dove invece lo stato è stato sottoposto all’attacco dell’ideologia neoliberista che gli assegnava il ruolo di semplice regolatore e facilitatore della concorrenza privata, lì ha rivelato tutta la difficoltà a cambiare passo e assumersi responsabilità che pensava di non doversi più assumere, perché “il privato sa fare meglio di lui”.

Il coronavirus sta spingendo gli stati e i governi ad ampliare la propria sfera di controllo e a limitare le normali libertà personali dei suoi cittadini. Come in uno stato di guerra. E proprio questa è la nostra situazione attuale. Siamo in guerra. Una guerra atipica, strana, surreale, dove c’è un nemico chiaro anche se così microscopico che non si vede a occhio nudo, e tanti nemici nascosti e non dichiarati che però si vedono benissimo, ci stanno molto vicino. Anzi, li abbiamo proprio in casa ai massimi vertici della macchina statale. Il coronavirus, infatti, sta indirettamente rivelando con chiarezza il muso da sciacallo e il becco da avvoltoio dei nostri fratelli europei che per sfruttare appieno le nostre difficoltà anticipano la riunione dell’Eurogruppo per l’approvazione del MES. Ma sta anche evidenziando la contraddizione di un governo che, da una parte, mostra i muscoli imponendo una sorta di legge marziale ai suoi cittadini (necessaria, peraltro) e, dall’altra, persiste imperterrito nella sua politica di sottomissione allo straniero e cessione di sovranità a favore della Unione europea, alias Germania.

Il coronavirus sta mettendo in rilievo in tutta la sua evidenza l’opposizione tra due modelli economici: il primo basato sulla pianificazione da parte del grande capitale finanziario e monopolistico privato, che governa stati e popoli attraverso la paura del fantasma dei mercati, lo stuzzicamento continuo del desiderio e l’indottrinamento alla religione della competizione e del merito attraverso il totale controllo dei mezzi di comunicazione di massa; il secondo basato sul concetto di economia mista, dove libera impresa e imprese pubbliche convivono e si integrano sotto la direzione e la regia di uno stato che controlla i settori strategici, la moneta e quindi la finanza. La realtà di questi giorni sta rivelando tutto il pericoloso irrealismo fallimentare del primo modello e tutta la necessità storica del secondo. Resta tutto da vedere verso quale stato e verso quale cittadinanza ci stiamo dirigendo. Ma questo è un altro discorso.

Come ne usciremo noi Italiani? Anche in questo caso siamo a un bivio: potremmo essere alla vigilia di un nuovo 8 settembre, oppure alla prova del momento le classi dirigenti italiane sapranno rivelare al loro interno risorse tenute nascoste e soffocate dalla marea liberista ed eurista di questi ultimi quaranta anni. Logica e realismo fanno purtroppo pendere la bilancia sulla prima ipotesi. Quarant’anni di selezione artificiale del personale dirigente a ogni livello (amministrazione dello stato, università, media, pensiero economico, scuola, esercito, ecc.) ci hanno portato nella condizione che chi ha in mano le leve del potere letteralmente è incapace a pensare soluzioni che evadano dal quadro concettuale vigente. Non ce la fanno. Hanno passato tutta la loro vita formativa e lavorativa in un ambiente che li ha segnati e resi inservibili.

Eppure qualche segnale di speranza c’è:

Se l’Europa continua a tentennare segnerà definitivamente la sua fine. E se lo farà … l’Italia dovrà procedere per conto proprio. (…) Dieci anni fa, in occasione di una crisi finanziaria drammatica … i soldi per salvare le banche sono stati trovati. Ora vanno trovati i soldi per salvare l’economia reale, l’economia delle imprese. (Fabio Tamburini, direttore del quotidiano economico Sole 24 Ore)

Non è tempo di chiedere conti, di chiedere al direttore Tamburini dov’era tutto questo tempo, o perché è stato necessario un evento tanto drammatico come una pandemia per costringere il padronato a cominciare a pensare di rinunciare al suo tanto caro strumento di dominio e sottomissione del mondo del lavoro italiano. O per fargli notare che i soldi per le banche non sono stati esattamente “trovati”, bensì sono stati “creati” dalle banche centrali di tutto il mondo. Non è questo il momento di polemizzare e indebolire il fronte che si sta creando a difesa della nostra indipendenza e sovranità. Verrà il tempo per i chiarimenti. E, chissà, forse avremo anche noi la nostra Norimberga.

Lentamente il governo italiano sta prendendo consapevolezza dell’entità della sfida e sta sollevando il livello degli stanziamenti per combattere la diffusione del virus e dei suoi effetti sull’economia e sul corpo sociale. Ma ancora non basta. E soprattutto non basta perché finché quei miliardi verranno stanziati all’interno delle regole contabili e finanziarie europee, finché li chiederemo ai mercati, li dovremmo ripagare in futuro noi cittadini con interessi salati nella forma di tagli, tasse, tributi e ulteriori dismissioni. Si riveleranno l’ennesima arma regalata ai nostri “fratelli” europei e ai creditori, e l’8 settembre sarà solo rinviato. Le uniche vere soluzioni sono due: o cambia radicalmente l’Ue (il che significa limitarne radicalmente i poteri e rivedere dalle fondamenta le regole di convivenza fra gli stati pienamente sovrani che ne facciano parte) o l’Italia ne esce fuori. La terza alternativa è la nostra totale sottomissione.

https://patriottismocostituzionale.blog/2020/03/13/litalia-alla-prova-del-coronavirus-e-degli-avvoltoi/?fbclid=IwAR1x8wtN-KIgjq44NqaFRJ0jZul7aFzAk5AIaEkmWuFyGYuiJt2sa3-3crg

NON SALVANO LA VITA. UCCIDONO LA LIBERTÀ, di Antonio de Martini

NON SALVANO LA VITA. UCCIDONO LA LIBERTÀ

L’Istituto Superiore di Sanità ha dichiarato in conferenza stampa che le cartelle cliniche giunte finora dai vari ospedali sono un centinaio di cui due di deceduti di solo coronavirus.

L’età media dei morti supera gli ottanta anni. L’OMS ha dichiarato che il conteggio dei morti è “ preesumptive”
Ossia, se è morto in questo periodo deve essere morto per il coronavirus.

I picchi classici di mortalità invernale degli anziani – febbraio- sono stati più elevati di questo 2020 nel 2015 e nel 2017 anche se quest’anno febbraio ha avuto un giorno in più.

Perché abbiamo sentito la necessità collettiva di dare concretezza al concetto di morte identificandolo in un virus?

Credo avvenga perché decenni di benessere e cure mediche tecnologiche ci hanno fatto perdere contiguità col concetto di morte.

Pensiamo di poter creare un “fronte antimorte” come fosse una coalizione politica e offrire agli elettori di eliminarla dalle liste elettorali della nostra esistenza.

Facciamo parte di un mondo , quello occidentale, che ha teorizzato anche la “guerra con zero morti “ ( nostri ovviamente) facendola precedere da una campagna di de-umanizzazione degli avversari che invece vanno sterminati col flit perché sono alieni: serbi, arabi, afgani.
Per uno dei “ nostri” morto, cinquanta missili vendicatori.

Era ben più accettabile umanamente la dottrina giudaico-nazista della “ razza eletta” che teorizzava una gerarchia tra le razze umane.
Ma tutte umane.

Questa nuova teologia in formazione ha deciso che l’uomo è onnipotente e può muovere guerra al “ cambiamento climatico “, alle “ ingiustizie” identificate dalle nevrastenie individuali anche di una bambina disturbata. O a un virus.

Basta che la guerra venga santificata in TV. Ma niente conferenze stampa: solo omelie senza contraddittorio.

Sè questa campagna ossessiva di comunicazione fosse stata fatta , mettiamo, contro il Papa, adesso San Pietro sarebbe un cumulo di macerie.

Oggi fa notizia ed è oggetto di azione di governo, anche il decesso di un novantenne raffreddato tra i brividi di terrore di milioni di cittadini.

Azione di governo simbolica badate bene .
Un po’ come il capo tribù che scaglia frecce contro il cielo avaro di pioggia.
Fino a che la tribù gli crede, buon per lui.

La paura di morire è diventata terrore e poi tabù. Ora si è trasformata in una nevrosi irrazionale collettiva fino alla alienazione.

L’uomo che è un animale sociale destinato a morire fin dalla nascita, viene invitato a non socializzare nemmeno col vicino di casa.

Con questo sistema non gli si allunga la vita, ( al massimo si alleggerisce l’ospedale): lo si annulla politicamente.

Può comprare da mangiare e da fumare ( con tanti saluti alla salute).. Si rinviano elezioni e referendum.

Si negano ai demografi i dati disaggregati sulla mortalità, in maniera che nessuno possa , studiandoli, rielaborarli e offrire spiegazioni alternative a quelle del ministero.

Esiste da secoli l’istituto dello “ stato di emergenza” in cui una nazione in pericolo si affida all’organizzazione militare “ che ha mezzi e know how per reagire a minacce batteriologiche .
La Spagna ha decretato lo stato di emergenza, la Repubblica Ceca anche. Gli Stati Uniti hanno decretato lo stato di emergenza.
Altri paesi seguono a ruota.

Noi abbiamo nominato un capo degli acquisti fino a ieri deputato a sviluppare l’attività industriale notoriamente deficitaria e invitato la popolazione ad affacciarsi alla finestra e cantare “ bella ciao” (TG1 di ieri ore 20).
Non si stanziano fondi per ospedali e ricerche, ma si distribuiscono elemosine sotto forma di buono pasto ( voucher fa più fino).

Stiamo assistendo a due stupri: quella della realtà e della libertà individuale.

IMMUNITA’ DI GREGGE MA NON GREGGI, di Massimo Morigi

IMMUNITA’ DI GREGGE MA NON GREGGI.  BREVE CONSIDERAZIONE GEOPOLITICA SU REGNO UNITO ED ITALIA A CONFRONTO DI FRONTE AL CORONAVIRUS

 

Di Massimo Morigi

 

Nella conferenza stampa di martedì 12 marzo, Sir Patrick Vallace, UK Government Chief Scientific Adviser, vale a dire il consigliere scientifico particolare del Primo Ministro, carica inesistente nel Bel Paese ma di estremo e strategica importanza nel Regno Unito, in relazione all’epidemia di Cronavirus ha affermato, testuali parole: «It’s not possible to stop everybody getting it and it’s also not desiderable because you want some immunity in the population». Fornendo qui  l’URL attraverso il quale si può prendere diretta contezza di quella parte della conferenza stampa dove è stato pronunciato questo giudizio, https://twitter.com/BBCNews/status/1238151926379880449, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200313223603/https://twitter.com/BBCNews/status/1238151926379880449, osserviamo solo che il falso umanitarismo è sempre foriero di disastri  materiali e morali mentre una vera democrazia  – se per democrazia non s’intendono le “pappe del cuore” ma un preciso comune sentire, che travalica la destra e la sinistra e  sempre diretto a fare appello e leva sulle capacità di consapevolezza ed orgoglio di un popolo – è sempre collegata con una volontà imperiale che, nel caso inglese di come buona parte dell’opinione pubblica intende reagire a questa grave crisi epidemiologica, non significa certo ricostruire passati domini su terre lontane ma, molto semplicemente, accettare le sfide che ci presenta la storia  non in maniera passiva ma affrontarle a viso aperto ed attrezzandosi perché queste sfide procurino meno danni possibili (infatti il corollario di accettare che l’epidemia si diffonda e così sviluppare un’immunità di gregge che porti alla fine alla sua estinzione è, ovviamente, potenziare le strutture ospedaliere che possano consentire ai casi più gravi di essere salvati con le maggiori probabilità di successo). Certo, si tratta di una volontà imperiale molto “sui generis” che è, in primo luogo e principalmente, una volontà di comando sul proprio destino e non su qullo altrui ma, non nascondiamolo, siamo in presenza di propositi che se portati fino in fondo, infatti Sir Patrick Vallace parla anche per conto e per voce del nuovo primo ministro Boris Johnson (il quale churchillianamente tuona: «abituatevi a perdere i vostri cari»), intendono portare il Regno Unito sullo scenario internazionale come una potenza  la quale, anche se ha perduto dopo la seconda guerra mondiale il primato economico e militare, non accetterà mai alcun tipo di ricatto, né economico né militare. Il coronavirus, quindi, come un’occasione per riproporsi come un imprescindibile attore in uno scenario geopolitico in tempi, non di coronavirus come piagnucolando e scimmiottando titoli di opere letterarie ripetono ad ogni piè sospinto i nostri prezzolati e servi media nazionali, ma in tempi odierni e futuri di un sempre più tumultuoso e violento policentrismo. In una trasmissione di una importante emittente italiana, abbiamo potuto assistere alla piagnucolosa intervista a studenti italiani ospiti della “Perfida Albione” (questo era il senso del servizio) che di fronte al comportamento del governo di Sua Maestà Britannica si erano isolati in casa (comportamento legittimo,  evitare di cadere vittima di un’epidemia è una più che legittima aspirazione) ma che a questo comportamento, oltre aggiungere pesanti e gratuite querimonie contro il governo inglese, univano sentiti ed accorati elogi su quanto stava facendo il governo italiano. Piccole domande: se sono tanto impauriti perché non se ne tornano nella «Bella Italia, amate sponde» visto che nessuno li trattiene? e se apprezzano tanto l’operato del nostro governo perché una volta tornati in Patria (campa cavallo…)  non si mettono a fare politica attiva nel nostro paese piuttosto che rompere i … degli altri? (altrettanto campa cavallo, perché questi soggetti, oltre ad essere immediatamete spendibili per basse ricette di cucina politica nostrana, una volta tornati sul nostro artistico ed umanitario suolo potrebbero facilmente trovare lavoro, trovarlo sì ma come raccoglitori di pomodori).  Per ora in Italia la crisi epidemiologica del coronavirus non sembra  portare alcunchè di buono. Come sempre confidiamo sulla nottola di Minerva che spicca il suo volo solo all’imbrunire  (cioè, tradotto nel linguaggio di una rinnovata dialettica, sulle Epifanie strategiche di cui anche il nostro Paese ha fornito begli esempi nella sua storia).

 

 

 

 

 

 

EPIDEMIA CORONAVIRUS: DUE APPROCCI STRATEGICI A CONFRONTO, di Roberto Buffagni

Culto cinese degli antenati

Culto dei Lari

 

I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto

 

 

Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.

L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche  delle nazioni e dei popoli. La scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.

Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due:

  1. Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese)
  2. Si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).

Chi sceglie il modello 1 fa un calcolo costi/benefici, e sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione. Questa quota è più o meno ampia a seconda delle capacità di risposta del servizio sanitario nazionale, in particolare del numero di posti disponibili in terapia intensiva. A quanto riesco a capire, infatti, il Coronavirus presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%, mi pare) di malati che abbisognano di cure nei reparti di terapia intensiva. Se così stanno le cose, in caso di contagio massiccio della popolazione – in Germania, ad esempio, Angela Merkel prevede un 60-70% di contagiati – nessun servizio sanitario nazionale sarà in grado di prestare le cure necessarie a tutta la percentuale di malati da ricoverarsi in T.I., una quota dei quali viene così condannata a morte in anticipo. La quota di pre-condannati a morte sarà più o meno ampia a seconda delle capacità del sistema sanitario, della composizione demografica della popolazione (rischiano di più i vecchi), e di altri fattori imprevedibili quali eventuali mutazioni del virus.

La ratio di questa decisione sembra la seguente:

  1. L’adozione del modello 2 (contenimento dell’infezione) ha costi economici devastanti
  2. La quota di popolazione che viene pre-condannata a morte è in larga misura composta di persone anziane e/o già malate, e pertanto la sua scomparsa non soltanto non compromette la funzionalità del sistema economico ma semmai la favorisce, alleviando i costi del sistema pensionistico e dell’assistenza sanitaria e sociale nel medio periodo, per di più innescando un processo economicamente espansivo grazie alle eredità che, come già avvenuto nelle grandi epidemie del passato, accresceranno liquidità e patrimonio di giovani con più alta propensione al consumo e all’investimento rispetto ai loro maggiori.
  3. Soprattutto, la scelta del modello 1 accresce la potenza economico-politica relativa dei paesi che lo adottano rispetto ai loro concorrenti che adottano il modello 2, e devono scontare il danno economico devastante che comporta. Approfittando delle difficoltà dei loro concorrenti 2, le imprese dei paesi 1 potranno rapidamente sostituirsi ad essi, conquistando significative quote di mercato e imponendo loro, nel medio periodo, la propria egemonia economica e politica.

Naturalmente, per l’adozione del modello 1 sono indispensabili due requisiti: un centro direzionale politico statale coerentemente e tradizionalmente orientato su una accezione particolarmente radicale e spietata dell’interesse nazionale (tipici i casi britannico e tedesco); una forte disciplina sociale (ecco perché l’adozione del modello 1 da parte della Francia sarà problematica, e probabilmente si assisterà a una riconversione della scelta strategica verso il modello 2).

L’adozione del modello 1, insomma, corrisponde a uno stile strategico squisitamente bellico. La scelta di sacrificare consapevolmente una parte della popolazione economicamente e politicamente poco utile a vantaggio della potenza che può sviluppare il sistema economico-politico, in soldoni la scelta di liberarsi dalla zavorra per combattere più efficacemente, è infatti una tipica scelta necessitata in tempo di guerra, quando è normale perché indispensabile, ad esempio, privilegiare cure mediche e rifornimenti alimentari dei combattenti su cura e vitto di tutti gli altri, donne, vecchi e bambini compresi, nei soli limiti imposti dalla tenuta del morale della popolazione, che è altrettanto indispensabile sostenere.

Gli Stati che adottano il modello 1, dunque, non agiscono come se i loro concorrenti fossero avversari, ma come se fossero nemici, e come se la competizione economica fosse una vera e propria guerra, che si differenzia dalla guerra guerreggiata per il solo fatto che non scendono in campo gli eserciti. La condotta di questo tipo di guerra, proprio perché è una guerra coperta, sarà particolarmente dura e spietata, perché non vi ha luogo alcuno né il diritto bellico, né l’onore militare che ad esempio vieta il maltrattamento o peggio l’uccisione di prigionieri e civili, l’impiego di armi di distruzione di massa, etc. Per concludere, la scelta del modello 1 privilegia, nella valutazione strategica, la finestra di opportunità immediata (conquistare con un’azione rapida e violenta un vantaggio strategico sul nemico)  sulla finestra di opportunità strategica di medio-lungo periodo (rinsaldare la coesione nazionale, diminuire la dipendenza e vulnerabilità  della propria economia dalle altrui accrescendo investimenti statali e domanda interna).

 

***

 

Alla luce di quanto delineato a proposito degli Stati che adottano il modello 1, è più facile descrivere lo stile etico-politico degli Stati che adottano il modello 2.

Nel caso della Cina, è indubbio che il centro direttivo politico cinese sappia molto bene che la competizione economica è componente decisiva della “guerra ibrida”.  Furono anzi proprio due colonnelli dello Stato Maggiore cinese,  Liang Qiao e Xiangsui Wang, che negli anni Ottanta elaborarono il testo seminale sulla “guerra asimmetrica”[1]. Credo che il centro direzionale politico cinese abbia scelto, pare con successo, di adottare il modello 2 per tre ragioni di fondo: a) il carattere spiccatamente comunitario della tradizione culturale cinese, nella quale il concetto liberale di individuo e il concetto cristiano di persona hanno rilievo scarso o nullo b) il profondo rispetto per i vecchi e gli antenati, cardine del confucianesimo c) una valutazione strategica di lungo periodo, riassumibile in queste due massime di Sun Tzu, il pensatore che più ispira lo stile strategico cinese: “La vittoria si ottiene quando i superiori e gli inferiori sono animati dallo stesso spirito”  e  “Una guida coerente permette agli uomini di sviluppare la fiducia che il loro ambiente sia onesto e affidabile, e che valga la pena combattere per esso.” In altri termini, penso che la direzione cinese abbia valutato che il vantaggio strategico di lungo periodo di preservare e anzi rafforzare la coesione sociale e culturale della propria popolazione superasse il costo di breve-medio periodo del danno economico, e della rinuncia a profittare nell’immediato delle difficoltà degli avversari. Perché “le vie che portano a conoscere il successo” sono tre: 1. Sapere quando si può o non si può combattere 2. Sapersi avvalere sia di forze numerose che di forze esigue 3. Saper infondere uguali propositi nei superiori e negli inferiori.”

Nel caso dell’Italia, la scelta – per quanto incerta e mal eseguita – del modello 2 credo dipenda dalle seguenti ragioni. 1) Sul piano culturale, dall’influsso della civiltà italiana ed europea premoderna, infusa com’è di sensibilità precristiana, contadina e mediterranea per la famiglia e la creaturalità, poi parzialmente assorbita dal cattolicesimo controriformato e dal barocco: un influsso  di lunghissima durata che continua ad operare nonostante la protestantizzazione della Chiesa cattolica odierna, e nonostante l’egemonia culturale, almeno di superficie, di liberalismo ideologico e liberismo economico 2) Sempre sul piano culturale, dal pacifismo instaurato dopo la sconfitta nella IIGM e perpetuato prima dalle sinistre comuniste e dal mondo cattolico, poi dalle dirigenze liberal-progressiste UE; un pacifismo che genera espressioni buffe come “soldati di pace”, e la negazione metodica della dimensione tragica della storia 3) Sul piano politico, sia dal grave disordine istituzionale, ove i livelli decisionali si sovrappongono e ostacolano reciprocamente, come s’è palesato nel conflitto tra Stato e Regioni all’apertura della crisi epidemiologica; sia dalle preoccupazioni elettorali di tutti i partiti; sia dalla fragile legittimazione dello Stato, antico problema italiano 4) sul piano politico-operativo, dalla sbalorditiva incapacità delle classi dirigenti, nelle quali decenni di selezione alla rovescia e abitudine a scaricare responsabilità, scelte e relative motivazioni sulle spalle dell’Unione Europea hanno indotto una forma mentis che induce sempre a imboccare la linea di minor resistenza: che in questo caso è proprio la scelta di contenere il contagio, perché per scegliere la via del triage bellico di massa (comunque la si giudichi, e io la giudico molto negativamente) ci vuole una notevolissima capacità di decisione politica.

In altre parole, la scelta italiana del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili,  e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché. Però lo siamo stati, e di questo dobbiamo ringraziare i nostri antenati defunti, i Lari[2] il cui culto, sotto diversi nomi, si perde nei secoli e millenni; e che senza saperlo, oggi onoriamo e veneriamo facendo tutto il possibile per curare i nostri padri, madri, nonni, anche se non servono più a niente.

Farebbe sorridere Sun Tzu e forse anche Hegel constatare che i due modelli impongono metodi operativi di implementazione esattamente opposti rispetto allo stile strategico.

L’implementazione del modello 1 (non conteniamo il contagio, sacrifichiamo consapevolmente una quota di popolazione) non richiede alcuna misura di restrizione della libertà: la vita quotidiana prosegue esattamente come prima, tranne che molti si ammalano e una percentuale non esattamente prevedibile ma non trascurabile di essi, non potendo ottenere le cure necessarie per ragioni di capienza del servizio sanitario, muore.

L’implementazione del modello 2 (conteniamo il contagio per salvare tutti i salvabili) richiede invece l’applicazione di misure severissime di restrizione delle libertà personali, e anzi esigerebbe, per essere coerentemente effettuato, il dispiegamento di una vera e propria dittatura, per quanto morbida e temporanea, in modo da garantire l’unità del comando e la protezione della comunità dallo scatenamento delle passioni irrazionali, cioè da se stessa. Operativamente, la direzione esecutiva del modello 2 dovrebbe essere affidata proprio alle forze armate, che possiedono sia le competenze tecniche, sia la struttura rigidamente gerarchica adatte.

Concludo dicendo che sono contento che l’Italia abbia scelto di salvare tutti i salvabili. Lo sta facendo goffamente, e non sa bene perché lo fa: ma lo fa. Stavolta è facile dire: right or wrong, my country.

[1] Liang Qiao e Xiangsui Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG Edizioni 2011

[2] v. https://www.romanoimpero.com/2018/07/culto-dei-lari.html

IL CUOCO DI BORDO E BARBANERA, di Massimo Morigi

 

 

IL CUOCO DI BORDO E L’ASSALTO DEI PIRATI ALLA NAVE

 

Di Massimo Morigi

 

Oggi 13 marzo 2020 tutti i grandi organi di informazione, tutti allineati, sono indignati per le dichiarazioni del presidente della BCE Christine Lagarde di lasciare i tassi invariati e che il ruolo della BCE non è quello di fare abbassare lo spread, alle quali ha immediatamente fatta eco la “durissima” replica del Presidente della Repubblica italiana (mamma mia che impressione!) nelle quali, testuali parole, stigmatizza «L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione» (a rileggerle, scorre per la schiena un brivido di orgoglio patriottico e non aggiungiamo altro… per carità di Patria). Difficile dire se il presidente della BCE abbia compiuta una gaffe oppure abbia scientemente voluto dare una mano alla speculazione internazionale che in questa gravissima e sistemica crisi non solo epidemiologica ma economica, sociale e politica dell’Italia scommette sul crollo del paese. Per noi il migliore commento alla situazione ci viene da Stadi sul cammino della vita di Søren Kierkegaard, dove il pre-esistenzialista filosofo danese a metafora della condizione umana priva di punti riferimento scriveva: «State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.» Alle quali parole, come chiosa della situazione attuale, aggiungiamo: «E venuta a sapere della situazione della nave, i pirati stanno compiendo  l’abbordaggio».

 

 

 

 

La nave è ormai in preda al cuoco di bordo e ciò che trasmette al microfono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani.

Politica – da PensieriParole.it <https://www.pensieriparole.it/aforismi/politica/>

Søren Aabye Kierkegaard

 

 

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Approvando, citando gli  Stadi sul cammino della vita di Søren Kierkegaard

 

 

 

“State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.”

Søren Kierkegaard – Stadi sul cammino della vita

 

Stadier paa Livets Vei. Studier af Forskjellige sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder
Autore Søren Kierkegaard
1ª ed. originale 1845
1ª ed. italiana 1993
Genere saggio
Sottogenere filosofia
Lingua originale danese

Stadi sul cammino della vita. Studi di autori diversi raccolti, dati alle stampe e pubblicati da Hilarius il Rilegatore (in danese Stadier på Livets Vej) è un’opera del filosofo Søren Kierkegaard del 1845, al cui interno vengono raccolti scritti firmati con gli pseudonimi Hilarius il Rilegatore, William Afham e Frater Taciturnus. Viene considerato una specie di continuazione della raccolta Enten-Eller che prevalentemente si occupa di vita etica e vita estetica, mentre qui l’autore si occupa di vita religiosa

 

Stages On Life’s Way: Studies by Various Persons, compiled, forwarded to the press, and published by Hilarious Bookbinder (Stadier paa Livets Vej. Studier af Forskjellige. Sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder)

https://www.academia.edu/24856545/Stages_on_the_way_of_life_Kierkegaard

The captain is on the bridge and the cook is in the galley. These days – as Kierkegaard used to say – we find the cook has taken the helm and is handing out orders, so we know what we are going to eat tomorrow but have no idea in which direction we are sailing.The crisis is giving rise to disquiet, because we no longer know what is on tomorrow’s menu.

 

Iuyuguy767585

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What is the biggest battle ever fought?

 

 

Kevin Flint, studied History

Updated February 14, 2018 · Featured on HuffPost · Upvoted by David Bliss, MA in history and Vadim Mikhnevych, Former Driver-Electrician in the Air Forces

The Battle of Vienna
So yes, there have been large and protracted actions defined as battles that have lasted weeks, months, or years. But if we want to narrow the definition of “battle” to be defined as a single uninterrupted moment of conflict (ie the classical definition of “battle”,) then September 12, 1683 is a strong contender for both number of combatants simultaneously engaged, and because at 5 PM that day there occurred what could well be the most awesome spectacle in the history of battle.

The set up: For 2 months the mighty army of the Ottoman Empire had laid siege to Vienna. And though they massively outnumbered the 15,000 defenders by 10 or 20 to 1, it was no easy task. The fortifications and walls of Vienna were some of the most modern of the era, and reinforced with 370 cannon. The Ottomans were forced to slowly whittle down the defenses by completely cutting off the city and using extensive tunneling and sapper action to reduce the walls.




The Relief: Arriving on September 11, the Polish and German relief forces had managed to quickly consolidate their fractious alliance under the leadership of the Polish King. Early the next morning, as they were still consolidating and readying their order and lines of battle, the Ottoman forces attacked. At the same time, beneath the clashing infantry, a subterranean battle was being waged as thousands of Ottoman sappers in miles of tunnels faced an army of counter sappers from the city defenders.

The counter sappers managed to delay or disarm the massive bombs intended to devastate the walls. This denied the Ottoman infantry the chance to take the city, and to assume strong defensive positions within the walls.

The Charge: Late in the afternoon, after an entire day of massive infantry battle above and below the ground, the exhausted Polish-German forces let out a cheer. For they saw that their cavalry was finally ready to engage en masse. At the top of the hill abutting the battlefield, 20,000 men on horseback had formed up. Spearheaded by 3000 Polish Hussars – the most elite and heaviest cavalry of the age – they charged. Not as individual units or in bunches, but all at once. The largest cavalry charge in human history. 20,000 horses. 80,000 hooves pounding the ground in unison. A mass of steel and flesh and muscle crashing down upon an Ottoman infantry that was worn out from 12 hours of intense fighting.

The ground did tremble. A man made earthquake. And though the Ottoman forces well outnumbered the relief army in infantry forces, this thunderous, deafening wall of cavalry carved a massive hole straight through their lines. A deep gash was cut all the way through to the supply tents and camps of the Ottomans, ripping the army into fractious pieces. Faced with this massive, unprecedented attack, the Ottoman forces collapsed, and slaughter followed. And though fighting would continue into nightfall, the greatest cavalry charge in human history had finished the battle, and solidified the Habsburg dynasty’s power in Europe.

Fun tidbit: Remember the epic siege of Gondor in Tolkien’s “The Lord of the Rings?” Many think it was inspired by the Battle of Vienna. It has many parallels, including the massive cavalry charge that finally breaks the siege just in time. Though I think it would be fair to say the Ottoman Empire was considerably more civilized than the Orc horde, their fate was quite similar.


​Edit… For those of you who enjoyed this, I just wrote another one.
Kevin Flint’s answer to What is the most ridiculous war ever fought in our history?

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Le verità del genocidio in Rwanda, di Bernard Lugan

26 anni dopo la tragedia, la storia del genocidio in Ruanda è conosciuta solo attraverso la sua versione ufficiale. Scritto dai vincitori, viene ripetuto più e più volte dai media in linea con la versione imposta dal regime del generale Kagame.

Questa storia ufficiale si può sintetizzare in tre punti:

1) Il 6 aprile 1994, gli “estremisti” Hutu abbatterono l’aereo del presidente Hutu Habyarimana.

2) La notte dal 6 al 7 aprile, questi stessi “estremisti” hutu hanno effettuato un colpo di stato per istituire il GIR (governo provvisorio ruandese), impegnatosi quindi a scatenare il genocidio dei Tutsi, un genocidio pianificato da lunga data.

3) Le forze Tutsi dell’RPF furono quindi costrette a violare il cessate il fuoco in vigore per salvare le popolazioni dal massacro.

Tuttavia, questa storia è falsa perché:

1) Gli “estremisti” hutu non hanno assassinato il loro stesso presidente.

2) Non vi fu alcun colpo di stato nella notte tra il 6 e il 7 aprile; al contrario un tentativo di rispettare la legalità costituzionale mediante la formazione di un potere civile.

3) L’RPF lanciò la sua offensiva all’annuncio della morte del presidente Habyarimana, quindi diverse ore precedenti i primi massacri. Sapendo che sarebbe andato etno-matematicamente (90% di Hutu e 10% di Tutsi) a perdere le elezioni alla fine del periodo di transizione, la sua unica possibilità di salire al potere era la sola vittoria militare.

A fronte della ricostruzione storica finalizzata a legittimare la presa del potere dell’RPF con la forza, la vera storia del genocidio in Ruanda è stata scritta, giorno dopo giorno per quasi 15 anni, al cospetto delle quattro Camere dell’ICTR (International Criminal Tribunal for Ruanda), creato l’8 novembre 1994 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Questo tribunale, situato ad Arusha, in Tanzania, ha concluso i suoi lavori il 31 dicembre 2015 e ha giudicato 69 personalità hutu. Nel corso del processo furono prodotte migliaia di testimonianze, decine di migliaia di documenti scritti, audio, fotografici o filmati e furono presentate e sostenute dozzine di relazioni di esperti. Tuttavia, coloro che affermano di parlare del Ruanda non hanno mai consultato questi archivi, e quando li menzionano, è il più delle volte solo per sentito dire …

Eppure, nel corso delle audizioni, è stata scritta una nuova versione della storia del genocidio in Ruanda che ha sconvolto i tre punti fondamentali, ossia lo stato delle conoscenze che avevamo nel 1994, e la campagna di disinformazione dei centri alimentati da Kigali:

1) Nessuna delle quattro Camere che compongono l’ICTR ha confermato la validità del cuore della storia ufficiale, vale a dire la premeditazione del genocidio. Secondo i giudici, l’accusa non era in realtà in grado di dimostrare che il genocidio era stato pianificato, poiché il procuratore non era riuscito a provare l’esistenza di un accordo prima del 6 aprile 1994 al fine di pianificarlo ed eseguirlo.

2) Dopo il postulato della pianificazione, qual è stato il fattore scatenante di questo genocidio? Anche in questo caso, la risposta è molto chiara: al cospetto delle quattro Camere dell’ICTR, fu attuato alla morte del presidente Hutu Habyarimana, ucciso nell’esplosione del suo aereo abbattuto da due missili di cui conosciamo l’origine, numeri di identificazione e identità di chi li ha sparati … Chi ha quindi ordinato questo attacco? Sotto la pressione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, all’ICTR non è stato permesso di indagare su questo crimine. L’unica certezza è che questo attacco non è stato commesso dagli “estremisti” hutu …

3) Il 6 aprile 1994, dopo la notizia della morte del presidente Habyarimana, le forze del generale Kagame lanciarono un’offensiva preparata per diverse settimane contro l’esercito nazionale ruandese sconvolto dalla morte del suo capo di stato maggiore ucciso al momento dell’attacco, e i cui armamenti erano stati consegnati alle Nazioni Unite nel quadro del cessate il fuoco e degli accordi di pace.

In qualità di esperto giurato davanti all’ICTR in otto dei principali processi tenuti lì, ho preparato e redatto otto perizie che ho poi presentato e sostenuto davanti alle varie Camere tra il 2002 e il 2012.

Conservati negli archivi dell’ICTR, questi rapporti erano precedentemente accessibili solo a un pubblico più che limitato. Nessun giornalista o “esperto” che afferma di parlare del Ruanda li ha consultati. Eppure, queste otto relazioni costituiscono elementi essenziali per una comprensione approfondita dei tragici eventi che hanno travolto il Ruanda tra il 1990 e il 1994. Segnano anche altrettante fasi dell’evoluzione della storiografia del genocidio e consentono di comprendere il funzionamento interno di questa enorme macchina che era l’ICTR.
Complessivamente in un volume di 585 pagine, questi otto rapporti costituiscono una base di conoscenza senza la quale è illusorio fingere di parlare del genocidio del Ruanda in modo scientifico.

Per ottenere il documento in formato PDF (585 pages/30 euros) :
https://bernardlugan.blogspot.com/2020/03/dix-ans-dexpertises-devant-le-tribunal.html

 

CORONAVIRUS E STATO D’ECCEZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS E STATO D’ECCEZIONE

Da quando si è profilata l’emergenza sanitaria, la celebre affermazione di Carl Schmitt “sovrano è chi decide dello stato di eccezione” è stata ripetuta tante volte e in modo bipartisan, dalla destra alla sinistra. Qualcuno l’ha fatto – come sempre nelle affermazioni politiche – per sostenere più poteri al governo che alle regioni (per lo più a direzione politica avversa) altri per diverse ragioni.

Approfittando che sta sulla cresta dell’onda, ricordiamo quanto scrive Schmitt, e ancor più il suo allievo Fortsthoff, sul carattere delle “misure” che il sovrano (o comunque i poteri pubblici) prendono in casi di emergenza.

Sostiene Forsthoff che tali misure vanno ricondotte al concetto di “provvedimento”. Citando Schmitt scrive che è “tipico del provvedimento «che il procedimento sia determinato, nel suo contenuto, da un dato di fatto concreto e sia completamente permeato da uno scopo obiettivo». Perciò contrappone il provvedimento alla decisione emessa nella dovuta forma di un regolare procedimento ed alla norma di legge, «se essa esprime essenzialmente un principio di diritto, cioè se essa vuole essere soprattutto giusta, permeata dall’idea di diritto»… Caratteristica del provvedimento è una specifica relazione tra mezzo e scopo. Il provvedimento è diretto ad un determinato scopo, A questo scopo sono adattati e subordinati i mezzi che sono usati per il suo raggiungimento” mentre “la sentenza giudiziaria in quanto è presa «in base al diritto» sta al di sopra della adeguatezza allo scopo e del perseguimento di esso, che distinguono il provvedimento”; mentre nella legge scopo e idea di giustizia sono ambo presenti “La norma giuridica può essere creata per regolare un rapporto della vita in modo adeguato, cioè in conformità ad uno scopo ed in corrispondenza alle idee correnti di giustizia. Una tale legge, nel suo complesso, è sottratta alla determinazione di uno scopo, poiché contiene in se stessa un valore”. Quindi “L’ordinamento non è mai solo mezzo a scopo, esso ha un proprio valore”. Lo scopo, che in altri atti giuridici ha un ruolo di comprimario o subordinato, nelle misure d’eccezioni è determinante; l’idoneità delle stesse è commisurata alla congruità a conseguire lo scopo.

Ne consegue che la “tavola dei valori” o “le idee di giustizia” che informano ogni ordinamento sono qui subordinate. Il perché è chiaro: allorquando è in gioco l’esistenza e/o beni pubblici essenziali come la vita, la sicurezza collettiva, il resto, come l’intendenza di De Gaulle, segue. Dov’è che le misure hanno la propria validità e legittimità? La prima nell’essere adeguate allo scopo (“razionali rispetto allo scopo” avrebbe scritto Max Weber), la seconda nell’essere prese da un’autorità che goda di fiducia e largo consenso.

In questo senso la vicenda del coronavirus è iniziata proprio male. Ai governatori leghisti delle regioni del Nord che chiedono di mettere in quarantena gli studenti, di qualsiasi nazionalità, provenienti dalla Cina, il segretario Dem replicava “Allarmismi ridicoli… il governo ha già sospeso i voli provenienti dalla Cina, dunque non si capisce come i bambini possano arrivare” (fonte “Il Messaggero”); e una loquace deputata Dem “i governatori fomentano panico e intolleranza”; la Ministra Azzolina “Il governo si è mosso immediatamente e voglio tranquillizzare tutti perché la propaganda non fa assolutamente bene: non ci sono motivazioni al momento per pensare di escludere gli alunni dalla scuola” (fonte: “Il Messaggero”).

Il Presidente Conte, forse per non essere tacciato di sovranismo, rimanda tutto a presidi e primari “Ci dobbiamo fidare delle autorità scolastiche e sanitarie, se ci dicono che non ci sono le condizioni per il provvedimento in discussione invito i governatori del nord a fidarsi di chi ha specifica competenza”, senza porsi il problema di cosa succede se i presidi e i primari non avessero la stessa opinione (dato il numero è impossibile che ne abbiano una condivisa da tutti).

È chiaro che tutte queste affermazioni erano condizionate dalla ideologia e dalla lotta politica: accoglienze e frontiere aperte versus sovranismo e frontiere chiuse. Cioè erano proprio il contrario di quello che una misura d’emergenza deve essere. Il fatto che (almeno) dai tempi di Boccaccio e della peste nera è noto che l’isolamento è un efficace strumento di riduzione del contagio e che il virus se ne impipa delle divisioni politiche ed ideologiche, così come i mezzi per combatterlo; l’agente patogeno non è antifascista o anticomunista, ma semplicemente (e banalmente) pericoloso come terremoti, inondazioni (e altro).

Resta il fatto che dopo poche settimane Conte ha chiuso province, regioni, scuole e, da ultimo, tutta Italia dimenticandosi di governatori, presidi e primari: probabilmente ha fatto bene, ma ci sono volute – per farlo – diverse settimane nelle quali il coronavirus non ha trovato ostacoli, o ne ha trovati meno.

E rimane il problema della fiducia che può ispirare ai cittadini una maggioranza ed un governo che fa di una questione essenzialmente “tecnica” (nel senso indicato) una faccenda politico-ideologica: sarebbe meglio che facessero tesoro dell’intera lezione di Schmitt e Forsthoff (e Weber) sul punto.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il discorso di Conte, di Alessandro Visalli

Il discorso di Conte: coronavirus e cronache del crollo.

Raramente, forse mai, un momento così solenne è stato fatto oggetto di un discorso così inadeguato. Mai in tempo di pace un’intera nazione era stata fermata, limitati gli spostamenti da paese a paese, da città a città, chiusi gli esercizi ad orario da coprifuoco, ostacolati i normali spostamenti, impedite le manifestazioni e qualunque riunione, dai matrimoni alle funzioni religiose, ai funerali.

Mai in tempo di pace.

Perché, in effetti, non siamo più in tempo di pace.

Qualcuno ci ha dichiarato guerra. E non è stato il coronavirus.

Lui non è neppure un essere vivente, e non è tanto meno un’individualità (si tratta di una nuvola di virus a Rna, continuamente mutanti). Il coronavirus si sta semplicemente adattando ad un nuovo ambiente, essendo ‘saltato’ dal vecchio ospite ad un altro. Non è una cosa particolarmente strana, noi conviviamo con miliardi di organismi, batteri e virus, che sono integrati nel nostro organismo, ma questo è nuovo.

Quella che ci ha dichiarato guerra è la nostra stessa follia. In linguaggio informatico sarebbe un difetto di sistema. Aver per decenni ridotto la spesa sanitaria, portandola sotto il livello di un paese a reddito pro capite medio come la Cina, eliminato quasi tutti i servizi territoriali di prevenzione, ridotta la pubblica amministrazione sotto la media europea (16% dei lavoratori). Solo Germania, Lussemburgo e Olanda hanno meno dipendenti pubblici, paesi come la Scandinavia ne hanno il doppio. In generale siamo alla metà dei paesi nordici, il 14% dei dipendenti, per 3,2 milioni di addetti. Per fare un paragone con paesi simili, la Spagna ne ha il 15% e la Francia ben il 22%. Portarci al livello della famosa burocrazia e livello dei servizi pubblici francesi significherebbe, dunque, assumere 1,5 milioni di addetti, portarci intanto alla media europea corrisponderebbe a 0,4 milioni di assunzioni urgenti.

Se avessimo più di 3.000 dispositivi di respirazione assistita, più di 5.000 posti letto in rianimazione (300 in Campania), più di 100.000 medici specializzati, se avessimo i 50.000 infermieri che mancano alle piante organiche, o non avessimo chiuso per risparmiare centinaia di presidi ospedalieri, soprattutto al sud, ora potremmo offrire soccorso.

Non capiterebbe, come ho sentito su You Tube[1], che una povera donna con complicazioni neurologiche possa ammalarsi a casa e non ricevere nessun soccorso e quindi possa morire soffocata dopo solo due giorni. Non so se è vero, probabilmente no, ma potrebbe facilmente diventarlo tra breve.

Dunque siamo in guerra.

Il 13 maggio 1940 il primo ministro britannico, appena nominato, pronuncia un drammatico discorso alla Camera dei Comuni, nella quale annuncia “blood, toil, tears and sweat”. Non promette altro che “molti, molti lunghi mesi di lotta e sofferenza”, ma anche lo scopo della lotta: “la vittoria”, per la sopravvivenza.

Le cose stanno così. Anche noi dobbiamo vincere perché se riusciamo a non lasciare nessuno indietro, a prestare soccorso anche all’ultimo, a stringere il meno fortunato nel nostro abbraccio, allora sopravviveremo come nazione e sapremo di avere uno Stato.

Nel post “Coronavirus, cronache del crollodi ieri raccontavo di chi ci ha portati in questa guerra. Un sistema economico completamente privo di capacità di assorbire shock di questo genere nel quale tutte le catene di fornitura e produttive, di tutti i beni e servizi, sono ormai estese a livello mondiale ed interconnesse, nel quale nulla o quasi si può produrre senza ricevere componenti, materiali, competenze da qualche altra parte del mondo, spesso a grandissima distanza. Un sistema nel quale l’intera catena economica è eterodiretta, dai centri decisionali delle multinazionali, o dipende per segmenti decisivi da fornitori che non possiamo controllare. Dunque, un modello insostenibile sotto il profilo ambientale e fragilissimo sotto quello economico. Che è stato interamente ed unicamente costruito, in una lunga fase di follia e debolezza degli Stati, per sfruttare fino all’ultimo centesimo i differenziali di prezzo e di potere che il capitale mobile riusciva a estorcere a lavoratori deboli o a imprese subordinate[2].

Come si reagisce in guerra, una volta che si è capito chi è il nemico?

Ricordando chi si è. Noi, il popolo, siamo tutto. Loro, i lontani contabili ed i vicini servi del profitto e delle rendite, sono niente.

È quindi ora di combattere. Ed è ora che la nostra casa comune apra le sue porte, che accolga tutti e non lasci fuori, al freddo, nessuno.

Quando si è in guerra si fanno misure da guerra. È il momento, non si può aspettare, il paese non può aspettare l’autorizzazione. Non può aspettare che il nemico si impietosisca. Quando persino il direttore del Sole 24 ore, in televisione, dice che l’Italia deve andare per conto suo se l’Europa tentenna[3], è chiaro che chi parla di compatibilità con l’astratta contabilità da bottegai germanica deve essere trattato come un traditore della patria nell’ora più buia.

Vediamo che sta succedendo.

Provo a fare uno schema, basandomi su un modello[4] a quattro settori del sistema economico italiano: “stato”, “famiglie”, “imprese”, “estero”. Schematicamente: lo Stato spende 500 miliardi, incassandoli con le tasse ed impegna 3 milioni di lavoratori[5]; Il settore delle famiglie spende 1.000 miliardi di consumi e riceve due terzi di questa somma dalle imprese per lavoro dipendente ed il resto dallo Stato o sotto forme di lavoro autonomo e professionale o per redditi da capitale[6]; Il settore delle imprese (70% di servizio) produce valore aggiunto per 1.780 miliardi ed impiega 17 milioni di lavoratori. Dal settore estero sono importati 510 miliardi di beni e servizi ed esportati 560 miliardi.

Ora, immaginiamo che le misure adottate (“zona rossa” estesa all’intero paese, limitazioni nella circolazione, chiusure selettive), comportino a partire dall’immediato e poi progressivamente per sei mesi un calo del 50% del commercio all’ingrosso e dettaglio, del 10% dei servizi alle imprese e del 20% dei settori professionali[7]. Sul montante complessivo dei redditi delle famiglie l’impatto diretto potrebbe essere qualcosa nell’ordine del 5%. Calcolando un moltiplicatore ragionevole potrebbe salire al 6-8%. Questo impatto si ripartirebbe come impulso deflazionistico per metà all’estero, riducendo le importazioni (ma dall’estero potrebbero arrivare analoghi input, man mano che l’epidemia procede negli altri paesi), e per metà sul mercato interno.

Potrebbe valere in modo grezzo qualcosa come 3 punti di Pil, e comportare nuovi disoccupati pari a 2 milioni di persone.

Ma ciò solo se il sistema delle imprese produttive (30% del valore aggiunto, 5 milioni di addetti diretti) non viene toccato e se la logistica resta non toccata dal crollo del commercio (in altre parole, se i flussi si spostano su altri canali di acquisto, ma le persone comprano). Facciamo l’ipotesi che, invece, il settore produttivo, messo in crisi dalla riduzione della mobilità personale e, in misura maggiore, dalle difficoltà della logistica integrata mondiale, abbia un massiccio calo congiunturale del 30% e, similmente, la logistica[8]. In questo caso l’impatto distruggerebbe 600 miliardi di valore aggiunto su base annuale (ovvero 300 in sei mesi) e una quota di investimenti. Ma avrebbe impatto anche sui 3,5 milioni di addetti diretti dell’industria e sul milione della logistica. Un crollo di questa misura si può stimare impatterebbe sul reddito degli addetti provocando un’ulteriore riduzione dei consumi, inoltre aggiungerebbe 1,5 milioni di disoccupati diretti. Trattandosi di posti di lavoro di buona qualità, questi potrebbero portare ad un impatto indiretto molto significativo.

Agendo sul monte complessivo dei redditi delle famiglie tutto ciò potrebbe impattare in modo analogo per un altro 4% di Pil in meno, che con lo stesso moltiplicatore salirebbe al 7-8%. L’impulso deflazionario complessivo che stiamo rischiando sarebbe quindi, con queste assunzioni, nell’ordine del 16% del reddito medio delle famiglie italiane.

Con questi scenari non è affatto improbabile una severissima recessione compresa tra quella del 2009 (perdita di 6 punti di Pil) e quella successiva del 2012-13 (perdita di 4 punti) ed i disoccupati salirebbero di quasi 4 milioni aggiuntivi.

Il punto è stabilire che manovra dovrebbe fare un governo all’altezza del momento per fermare una valanga che si propagherebbe come fuoco nella steppa, attraverso il calo della domanda. In parte potrebbe riassorbire qualche quota di disoccupazione con assunzioni di emergenza nella sanità (che ha 0,6 milioni di addetti) in modo da poter garantire il soccorso necessario a ciascuno, e nei servizi sociali e tecnici. Ma difficilmente in tempi rapidi si potrebbe andare oltre poche centinaia di migliaia di assunzioni, e il gap con la Francia non potrebbe essere colmato.

Dandosi nel medio periodo l’obiettivo di arrivare a 1,5 milioni di assunzioni aggiuntive nella P.A., bisognerebbe però, subito, compensare almeno il 75% del calo dei redditi cumulato che potrebbe essere stimato, se va bene, a 90 miliardi complessivi in sei mesi, ovvero compensare 15 miliardi al mese. Ciò oltre un danno fiscale di circa 40 miliardi, 6 al mese[9]. Inoltre, sono indispensabili investimenti urgenti nella sanità per alcuni miliardi.

La misura macroeconomica della manovra dovrebbe essere dunque di oltre 110-130 miliardi, ovvero quasi 20 miliardi al mese in media. Naturalmente tali somme andrebbero impegnate progressivamente, solo man mano che gli impulsi di crisi, propagandosi, richiedano interventi correttivi e compensativi[10]. Di questi almeno 10 miliardi al mese dovrebbero essere destinati al sostegno del reddito.

Questo per combattere la guerra.

Ma come usarli in modo sia efficace sia equo? Oltre agli investimenti diretti nella sanità, bisognerebbe investire risorse in attività capaci di colpire l’occupazione potenzialmente lasciata libera dalla contrazione, nella produzione socialmente e tecnicamente necessaria, nella riorganizzazione della distribuzione, nei servizi civili, …

Ricapitoliamo, se vogliamo vincere dobbiamo, e man mano che si rende necessario:

  • Investire con modalità di urgenza tutte le somme necessarie nella sanità, dando priorità alle macchine salvavita, ai Dpi, al personale medico ed infermieristico, quindi alle strutture, ai centri territoriali, ai servizi sociali di prevenzione;
  • Requisire tutte le strutture disponibili, se necessarie ad erogare servizi indispensabili, soprattutto al sud;
  • Precettare tutto il personale necessario ad erogare i servizi di prima necessità;
  • Garantire con mezzi pubblici la distribuzione, precettandola o sostituendola, se le catene logistiche interne dovessero entrare in crisi;
  • Imporre alle industrie idonee, qualunque sia la nazionalità della proprietà, programmi di fabbricazione, fornendogli specifiche, assistenza tecnica, mandati, per rendere indipendente il paese delle principali forniture strategiche, partendo da quelle mediche, in considerazione del possibile crollo delle supply chain mondiali;
  • Nazionalizzare tutte le imprese, finanziarie o non, che dovessero entrare in crisi non risolvibile per effetto della crisi e quindi creare un veicolo di gestione delle imprese pubbliche e nazionalizzate, sul modello della vecchia Iri;
  • Per gestire tutto questo con il minimo dell’inefficienza, creare un centro di pianificazione di emergenza, dotato dei necessari poteri;
  • In favore del sostegno del reddito, sospendere immediatamente il pagamento dei mutui e degli affitti (provvedendo con risorse pubbliche ad attenuare l’impatto sulle controparti), per chiunque dichiari una riduzione del reddito superiore al 30%;
  • Integrare il reddito, con la Cig in deroga o Reddito di Cittadinanza straordinario, di chiunque dichiari una riduzione tra il 30% ed il 100% del reddito, fino al massimo di 1.000 euro;
  • Sospendere per sei mesi in modo generalizzato i pagamenti fiscali a tutti i cittadini ed a tutte le imprese con un fatturato inferiore a una soglia da definire;
  • Sospendere per tre mesi ogni rateizzazione, a qualsiasi titolo;
  • Sospendere, e poi revocare, tutte le normative europee che fossero in conflitto con queste misure di emergenze, necessarie per la sopravvivenza della nazione;
  • Sospendere, e poi revisionare profondamente, la normativa bancaria di Basilea;
  • Sospendere, e poi revocare, il Mes.

Questo è il minimo per continuare ad essere un paese civile.

 

[1] – Questo video: https://www.youtube.com/watch?v=ZgJHdun0TGs

[2] – Inoltre questo modello è esattamente lo stesso che ha compresso per decenni il reddito e l’indipendenza dei lavoratori in occidente, rendendo ovvio che la maggior parte delle persone viva con contratti senza protezioni, precari, a tempo, con singole settimane di risparmi, sovraindebitati. Fa stare l’economia in costante stato di carenza di domanda, per cui i prezzi dei beni di prima necessità continuano a calare, e tutti coloro che li producono sono giorno dopo giorno alla disperata ricerca di un modo di risparmiare qualche costo di produzione, anche se comporta andarsi a cercare un fornitore dall’altra parte del mondo che costa il 2 per cento meno di quello sotto casa, che chiude. È così che ci siamo trovati senza mascherine.

[3] – Fabio Tamburini su La 7: “Se l’Europa continua a tentennare segna la sua fine, ed è giusto che l’Italia vada per conto suo. [..] I soldi per salvare le banche sono stati trovati ora vanno trovati per salvare l’economia reale”.

[4] – Alcuni dati: http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCN_PILN; http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=20596; https://www.eticapa.it/eticapa/quanti-sono-e-quanto-costano-gli-impiegati-pubblici-italiani/;

[5] – Si veda http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/attivita_istituzionali/formazione_e_gestione_del_bilancio/bilancio_di_previsione/bilancio_semplificato/ lo Stato spende 500 miliardi all’anno di spese correnti e 78 di interessi quota parte (49) dei 320 miliardi di investimenti, inoltre impiega 3,2 milioni di lavoratori, riceve un totale di 510 miliardi di tasse (260 dalle imprese), cui vanno aggiunti 65 miliardi di entrate non tributarie.

[6] – 700 miliardi di redditi da lavoro dipendente dalle imprese, 150 dallo Stato, oltre che, probabilmente, 150 da lavoro autonomo e professionale. Si possono stimare per differenza 200 miliardi di reddito da capitale e rendite. Infine, questo settore paga circa 250 miliardi di tasse.

[7] – Il commercio, secondo alcune stime, vale qualcosa come 190 miliardi, i servizi alle imprese 50 e i servizi professionali altri 60 miliardi. Un impatto del genere sui redditi degli addetti diretti alle filiere coinvolte impatterebbe per ca. 100 miliardi e potrebbe produrre, al netto delle tasse, una riduzione dei consumi stimabile in ca. 50 miliardi per sei mesi. Poi c’è l’impatto sul rilevante settore del turismo, se non altro per differimento e rinvio di vacanze.

[8] – Che vale almeno altri 100 miliardi.

[9] – Queste stime sono ottenute dalle assunzioni di cui sopra, su dati Istat 2019, e valutando prudenzialmente un basso contagio intersettoriale, oltre una limitatissima trasmissione di impulsi di crisi dall’estero.

[10] – Chiaramente il proporzionamento della manovra non è un compito espletabile con le poche informazioni disponibili e senza l’ausilio di un modello di simulazione adeguato, che non sia, ovviamente escludendo modelli di “output gap” e modelli dell’equilibrio generale, come quelli impiegati nelle Banche Centrali, o al Ministero delle Finanze, noti per fallire sistematicamente le previsioni.

https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/il-discorso-di-conte-coronavirus-e.html

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA

Caro Carlo,

rispondo al cortese intervento sul tuo blog del 6 marzo u.s..

In primo luogo quando scrivo nella mia recensione di “usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa)” mi riferivo al noto episodio dell’invito (rivolto se, ben ricordo, dalla Feltrinelli) a De Benoist, poi annullato per le “contestazioni” di insegnanti di sinistra, e non alla Tua recensione, dotta e ragionata, non come quelle dei contestatori “a prescindere”.

Quanto al resto, ritengo di essere da sempre un seguace del liberalismo “triste”, che a me piace chiamare “forte”: ossia quello che non dimentica né la realtà e la storia, né i presupposti del politico, cioè le regolarità, le leggi sociologiche che non solo Miglio ma, come puoi leggere dalla mia recensione, anche il giovane V. E. Orlando (nel 1881) riteneva ineluttabili, che (anche) il giurista non può accantonare.

E venendo ad Orban, Ti posso rimandare per un’analisi più dettagliata al mio articolo “Costituzione ungherese e Stato di diritto” pubblicato da “Italia e il mondo” nel gennaio 2019 e mesi dopo, col titolo: “Attacco alla costituzione ungherese” su stampa da Nova Historica, in cui analizzavo la risoluzione del parlamento UE per la procedura d’infrazione all’Ungheria per violazioni dello “Stato di diritto” (ecc. ecc.).

Da tale risoluzione risulta che lo Stato di diritto ungherese era messo in pericolo da:

  1. a) l’assenza nei sussidiari ungheresi di immagini di famiglie omosessuali (del tipo Tognazzi e Serrault nel “Vizietto”).
  2. b) Dal fatto che i vigili urbani di un paese ungherese elevavano troppe contravvenzioni ai rom.
  3. c) Dal fatto che la Corte EDU avesse condannato l’Ungheria per la brutalità della polizia nel respingere i migranti.
  4. d) Dall’abolizione del ricorso diretto alla Corte Costituzionale (mentre nel ventennio circa – dopo il crollo del comunismo –era stato in vigore). Ma anche in Italia ai cittadini non è dato adire direttamente la Corte Costituzionale (come avviene per il TAR, p.es.) e all’UE nessuno ne mena scandalo; come neppure del fatto che l’Italia sia stata condannata dalla Corte EDU per la brutalità nella repressione e le torture poliziesche a Genova nel 2001 (e perché non aprono la procedura d’infrazione?). Peraltro, non è stato notato che la Costituzione ungherese prevede oltre a quelle “classiche” un’istituzione di garanzia che manca in quella italiana: il difensore civico.

Penso che risoluzioni come questa non colgono l’obiettivo esternato, ma servono più che altro alla guerra (psicologica) delle elite decadenti.

Più meritatamente una procedura d’infrazione spetterebbe all’Italia della Seconda Repubblica che, tante volte sanzionata dalle Corti europee (sia la Corte EDU che la Corte di Giustizia) ha poco o punto cambiato l’abitudine di conculcare i diritti, anche quelli più elementari, dei cittadini.

Per questi, e altri fatti e i correlativi comportamenti strabici della UE mi chiedevo se quello che dispiaceva tanto della Costituzione Ungherese fosse invece che, nella stessa, era ben chiaro e solennemente affermato la centralità del popolo e ancor più la continuità storica della comunità nazionale, a partire da Santo Stefano d’Ungheria.

Dichiarazioni che, specie la seconda, difficilmente si trovano in documenti analoghi, ma sono nient’altro che l’enunciazione di un fatto: che l’esistenza di una comunità è il presupposto dello Stato, anche quello “borghese di diritto”. Spesso attualmente dimenticato. E che, aimè, contribuisce a spoliticizzare ed emasculare il liberalismo. È esatta, a mio avviso, la critica di Schmitt che questo non fonda un potere, ma lo limita; per cui il liberalismo forte è quello che riconosce il nemico nell’oppressore delle libertà (politica, in primo luogo) e delle garanzie di queste. Ma se il nemico dei liberali non è più chi conculca la libertà ma diventa chi difende la famiglia tradizionale, i rapporti comunitari e la comunità, ciò non significa altro se de-politicizzare il liberalismo (chi difenderà la libertà politica, se neppure i liberali lo fanno?), e, ancor più, compiere l’errore più grave in politica: quello di identificare il nemico sbagliato. Quanto alla mafiosità di Orlando ritengo che la Sicilia abbia dato alla cultura tre dei maggiori esponenti del diritto e della scienza politica a cavallo del XIX e XX secolo: Gaetano Mosca, V.E. Orlando e Santi Romano. Sono orgoglioso che fossero italiani e non mi interessa cosa nelle loro azioni o scritti può essere valutato prossimo all’ “onorata società” (anche qualche affermazione di Santi Romano è imputata di “mafiosità”).

Ricambio i saluti, con immutata stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

In calce il testo di riferimento di Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2020/03/storie-di-liberalismo-e-di-amicizia-una.html?spref=fb&fbclid=IwAR2_qadultF2O4tJ9h5qt8k31lOLjqJpJIIM0Vr3sl4l_LAyEP-vbt8AbNg

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