La Svezia pratica la selezione naturale nelle RSA colpite dal Coronavirus, di Max Bonelli

La Svezia pratica la selezione naturale nelle

RSA colpite dal Coronavirus

 

 

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Il buonismo multiculturale e globalista svedese riserva la  soluzione finale per gli anziani.

 

Mi ero ripromesso di non scrivere più niente sul Covid-19, dopo 4 mesi di lavaggio del cervello su scala mondiale è obbiettivamente difficile aggiungere un nuovo tassello a questo enorme mosaico di notizie che nonostante la mole d’informazione non riescono a dare un quadro di verità esaustiva sull’argomento.

Ma i casi della vita vogliono che la mia piccola esistenza sfiori delle situazioni storiche

rappresentate in maniera distorta dai media se non  totalmente censurate. Fu così 6 anni fa, quando fui il primo a scrivere e dimostrare che i cecchini a piazza Maidan in Ucraina erano al servizio delle forze che avevano sostenuto il golpe filo-occidentale contro il governo legittimamente eletto.

Così adesso che per una serie di situazioni famigliari e professionali posso raccontarvi  episodi di vita invece che fredde statistiche interpretate in maniera soggettiva da virologi e giornalisti più preoccupati di non contraddire le decisioni degli amici politici che di trovare un filo di Arianna che porti alla verità.

Ma andiamo per ordine: mia madre causa una serie di patologie importanti non curabili nelle mura domestiche è in RSA a Roma. Il bravo medico internista che ha la responsabilità clinica di circa 30 ultraottantenni allettate, all’inizio di marzo 2020 chiude la RSA alle visite esterne e prova a prevenire il contagio della struttura. Nonostante questo ad aprile il coronavirus entra nella casa di cura e circa due terzi delle vecchiette sono contagiate. Mia madre è tra le fortunate non risulta positiva, ed insieme alle altre negative viene messa in un piano in stanza singola.

Dopo 10 giorni nonostante le tute biologiche del personale risulta positiva, va in crisi respiratoria ma gli viene dato l’ossigeno  e la supera. Oggi sta bene e si è negativizzata, in totale nella struttura sono decedute 2 vecchiette su 30 con una letalità del 7%. Decisamente sotto la media nazionale che si attesta al 14%.

Un risultato più che dignitoso dovuto ad un buon medico che à riuscito a far affluire nella clinica l’attrezzatura necessaria e che ha 40 anni di pratica clinica alle spalle.

Per una persona come me che viaggia (o meglio viaggiava molto) è rassicurante sapere che la propria madre ha al servizio del personale sanitario di primo ordine.

Perchè ho usato l’imperfetto per il verbo viaggiare? Negli ultimi 3 mesi sono rimasto bloccato in Svezia paese dove ho vissuto in pianta stabile per una decina di anni e che continuo a frequentare per consulenze nell’ambito delle farmacie ospedaliere.

Poco male avevano bisogno di farmacisti nella emergenza Covid-19 e quindi non sto con le mani in mano.

La situazione delle RSA svedesi è a dir poco lacunosa ma non credevo fino al punto che vi sto descrivendo.

Ero alla fine di  un mio turno in farmacia ed aiutavo un collega di origine mediorientale che da poco ha acquisito una carica dirigenziale, a distribuire  i farmaci ad un addetto ad una RSA particolarmente colpita dal Coronavirus, il dialogo avvenne più o meno in questi termini.

 

Io: Salve Gustav ecco i farmaci che ci avete richiesto. Volevo poi chiedere se è vera la notizia che da voi sono morte 20 persone per Coronavirus?

 

Gustav: Sì purtroppo è vera.

 

 

Io: Ma quante persone ospitavate nella vostra casa da riposo?

 

Gustav: Una sessantina circa..

 

La curiosità mi pressa a continuare nelle domande

 

Io: Ma non avete provato a dare ossigeno con i respiratori?

 

Gustav arrossendo in viso sotto i capelli fulvi ben pettinati come un soldato:

 

Sai sono molto anziani ed allora parliamo con i parenti …se sopravvivono bene altrimenti è meglio che muoiono senza una lunga degenza in ospedale o lunghe cure.

Non abbiamo respiratori non ce ne sono così tanti quanti occorrono.

 

Collega arabo: Certo, quando sono così vecchi meglio così.

 

Io mi contraggo nei lineamenti a fatica dissimulo la rabbia:

 

Ma è terribile, non vi rendete conto che questa cosa è allucinante!

Vengono lasciati a morire perché anziani?!

E per te che preghi 3 volte a giorno il tuo Allah va tutto bene?

 

Collega arabo: 5 volte al giorno veramente…

 

Io ormai incontenibile:

ancora meglio ma che preghi a fare se non riesci a vedere quanto tutto questo è inumano!

 

Gustav ormai imbarazzato: adesso devo andare..

 

Collega arabo: No tu hai ragione questo paese è senza religione ma che possiamo fare?

 

Io: e non c’è uno straccio di giornalista che pubblica queste enormità!!

 

Finisco il turno penso al mio collega arabo andato via da Bassora, arrivato in Svezia

ha fatto la sua piccola carriera a forza di duro lavoro e tanti signorsì. Per comprare una villa di legno ad 80%sotto mutuo ed una volvo a 90% sotto debito.

Devi farti piacere tutto quando sei strozzato così. Sono contento delle mie mille attività e della frugalità della mia esistenza che mi da la libertà di alzare la voce anche quando non dovrei.

In fondo il mondo neoliberista è questo: ti convincono che devi avere certi status , una villa di 200 metri quadri piuttosto che una baita di 60, od una Volvo ultimo modello magari elettrica piuttosto che un usato che cammina a benzina, in cambio ti ruba la libertà di pensare, parlare e scrivere(se sei un giornalista).

Un mondo così ha bisogno di nuovi disperati pronti a fare il lavoro ad un prezzo più basso di un italiano o di uno svedese e dire sempre di sì a tutto anche contro i propri principi.

I giornali svedesi parlano di una star locale che viene accusata del reato di “commercio di essere umano” facendosi adescare da una prostituta e chiaramente  di Covid-19 che qui durerà più a lungo sia per il clima che rimane sotto i 23 gradi fino ad estate inoltrata sia per la non volontà di trasferire risorse nella sanità.

Le risorse vengono stanziate per le imprese in difficoltà non per gli anziani che sono un peso per la società. Per loro non ci sono soldi ne  posto sui giornali ma solo una  versione scandinava della “soluzione finale” di tedesca memoria.

 

Le vere ragioni della morte di Abdelmalek Droukdal, di Bernard Lugan

Qui sotto la traduzione del notiziario di Bernard Lugan, il più puntuale analista francese della situazione sociopolitica del continente africano. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Abdelmalek Droukdal, il capo di Al-Quaïda in tutta l’Africa del Nord e la fascia sahéliana, da due decenni l’uomo più ricercato in Algeria, ha abbandonato il suo santuario di Kabylia con il suo Stato Maggiore per raggiungere il nord del Mali laddove l’armata francese lo ha abbattuto. E’ stato «neutralizzato» nella regione di Tessalit, in territorio touareg; un dato dalla importanza fondamentale.

Sorgono due domande:
1) Perché ha corso questo rischio?
2) Perché era diventato imbarazzante per gli algerini i quali non potevano non sapere del suo “spostamento”?

1) Per diverse settimane, i gruppi jihadisti dalle obbedienze diverse e dalle motivazioni disparate si sono combattuti nella BSS (Fascia Sahelo-Sahariana). Un conflitto aperta e scoppiato contemporaneamente tra l’EIGS (Stato islamico nel Grand Sahara), legato a Daesh e i gruppi che si richiamano al movimento di Al Qaeda, gli EIGS accusati dai primi di tradimento. Di fatto, i due principali leader etno-regionali della nebulosa di Al Qaeda, vale a dire il Touareg ifora Iyad Ag Ghali e il Peul Ahmadou Koufa, capo della Katiba Macina, stanno attualmente negoziando con Bamako.

2) L’Algeria è inquieta nel vedere Daesh avvicinarsi  alle sue frontiere. Or dunque, poiché considera il BSS come propria retrovia, l’Algeria ha sempre “patrocinato” un accordo di pace. Il suo uomo sul posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive in Algérie dove possiede una casa. Politicamente egli dispone di quattro referenze:
– Egli è touareg ifora;
– è musulmano «fondamentalista».
– Oltre al sostegno dei touareg, dispone di una base popolare a Bamako grazie alla fedeltà dell’imam Mahmoud Dicko.
– Soprattutto, è contrario alla dissoluzione del Mali, una assoluta priorità per l’Algeria, che non vuole un Azawad indipendente; rappresenterebbe un faro per i propri Touareg.
La negoziazione che procede al momento «discretamente» ha per scopo la regolazione di due conflitti differenti i quali, non ostante le apparenze e la versione popolare, non hanno una matrice islamica. Si tratta in effetti di conflitti iscritti nella notte dei tempi, come descritti da me nel libro Les Guerres du Sahel delle origini in nessun viaggio,  di risorgenze etno-storico-politiche-oggi mimetizzate dietro il paravento islamico.
Questi due conflitti, ciascuno dalla propria dinamica sono:
– Quello del Soum-Macina-Liptako, condotto dai Peul; da qui l’importanza di Ahmadou Koufa.
– Quello del nord Mali, l’attualizzazione della tradizionale contestazione dei touareg; da qui l’importanza dell’Iad di Agha.
Or dunque, Abdelmalek Droukdal era contrario a questi accordi, e aveva deciso o ancora era stato persuaso a recarsi nella zona, forse per ristabilire un modus vivendi con Daech. Mais, surtout, per riprendere in mano e imporre la propria autorità a sua volta a Ahmadou Koufa e a Iyad ag Ghali.
Rappresentava dunque l’ostacolo al piano di pace regionale tendente a isolare i gruppi di Daech, in modo da regolare  rispettivamente il problema touareg in Mali e il problema peul nel sud del Mali e nel nord del Burkina Faso. Ecco il perché della sua morte.

Lo stratagemma della “salsiccia” dei gruppi terroristi è perfettamente riuscito. Prova due cose:

1) L’Algeria è tornata nel conflitto.

2) I militari francesi che hanno condotto l’operazione si sono ispirati alla massima di Kipling secondo il quale “il lupo afghano è inseguito in Afghanistan dal levriero afghano”.

In altre parole, non cesso di dirlo dall’inizio del conflitto, una raffinata conoscenza delle popolazioni che è indispensabile

Se la strategia dovesse essere coronata da successo, con il ritorno al gioco politico dei Touareg uniti dalla guida di Iyad ag Ghali e  dei Peul, al seguito di Ahmadou Koufa,

si potranno concentrare tutti i mezzi  sull’EIGS, con uno scivolamento delle operazioni verso l’est del Niger e della BSS.

Il problema è ormai è di sapere se il Fezzan Libico sta sfuggendo al generale Haftar (voce del comunicato del 28 maggio 2020 ). Nel caso la Turquie, nostro «buono» e «leale» alleato in seno alla NATO, avrebbe dunque un corridoio che consentirebbe ai propri servizi una linea diretta per sostenere i combattenti dell’EIGS. L’imperativo sarà quindi di riprendere il controllo fisico della regione di Madama, in modo da impedire la rianimazione del terrorismo attraverso la Libia.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

TIMEO DANAOS…, di Teodoro Klitsche de la Grange

TIMEO DANAOS…

Non è vero che il Covid-19 faccia solo dei danni: tra gli effetti benefici (rari) ha aperto gli occhi (perfino!) alle élite decadenti del centrosinistra nostrano. E cosa ha rivelato? che, come da molti decenni risultava da rilevazioni e statistiche, l’handicap (principale) dell’Italia è di avere, rispetto non solo agli altri paesi sviluppati, ma a gran parte di quelli esistenti sul pianeta, amministrazione e burocrazia di rara inefficienza, di guisa da riuscire a sminuire, travisare, minimizzare le misure decise dal Parlamento e dal governo. Meglio tardi che mai. Non solo Salvini, la Meloni e Berlusconi, ma anche dall’opposta sponda è tutta un’invocazione, meglio una maledizione – a San Burocrazio. Anche da coloro che dell’inefficienza dell’amministrazione hanno fatto una risorsa di governo (e spesso per tirare a campare, anche sul piano personale e privato).

Ma a tale “conversione” sulla via di Damasco, occorre prestare, per così dire, una fede critica. Ovvero valutarla dall’esperienza, dalla forma istituzionale e dalla storia.

In primo luogo: tutti sostengono che le misure straordinarie per compensare gli italiani dei danni sono state attuate con sconcertante lentezza; molti aggiungono, argomentando della (rapida) realizzazione del ponte di Genova, che occorre fare a meno di (gran parte) dei passaggi amministrativi i quali appesantiscono i procedimenti di esecuzione delle opere pubbliche. Si può replicare che non basta. In effetti le amministrazioni pubbliche italiane – salvo qualche eccezione – sono lente e gravate da passaggi inutili sia nell’erogare sussidi che nel concedere autorizzazioni, pagare debiti o realizzare opere ed interventi. Cassa integrazione lenta, bonus per partite IVA, esecuzioni di lavori pubblici sono solo i capitoli di un libro assai più esteso. Intervenire solo per questi significa da un lato mettere la classica toppa a un vestito vecchio e liso, dall’altro  gattopardescamente, a cambiare qualcosa perché (quasi) tutto rimanga uguale. Se l’Italia da circa trent’anni non cresce lo si deve, in buona parte, all’inefficienza dell’amministrazione. La costruzione in tempi record di qualche ospedale, grazie a deroghe alle leggi, non può cambiare l’andazzo generale. Così come, ad esempio, non servirono i vasti poteri concessi ad organi commissariali tenuti alla sola osservanza dei principi generali dell’ordinamento (e non della legge) nominati in forza della legislazione per il terremoto campano-lucano (1980); poteri che non trasformarono Campania e Basilicata nella Svizzera o nel Lussemburgo del sud.

Secondariamente l’“ideologia” alla base dell’intervento pubblico nell’economia è una specie robusta di costruttivismo, fondato sulla (pretesa) razionalità di un disegno di sviluppo centralizzato, guidato e iper-regolato rispetto alla disordinata (ed ingiusta) spontaneità del libero gioco degli interessi.

A parte altri tipi di obiezione che le si possono muovere è sicuro che anche il più razionale, corretto e giusto dei pianificatori-programmatori-amministratori non è in possesso né di tutte le informazioni di chi opera sul mercato (tutti) né può sostituirsi alle loro intenzioni e volontà, O meglio, se lo fa (e lo fa sempre) deve usare una coazione tanto più estesa quanto è il potere che esercita.

Il maggior esempio nel XX secolo di costruttivismo realizzato è stato il socialismo reale, con i suoi piani quinquennali (e altro). Quando, con l’ultima costituzione sovietica il PCUS ne annunciò la realizzazione, mancavano pochi anni a che tutto crollasse nell’indifferenza generale.

In terzo luogo, la crescita dell’amministrazione e della burocrazia è tendenza pluricentenaria dello Stato moderno, in particolare negli ultimi due secoli. Tanti pensatori, da Tocqueville a Donoso Cortes, Da Marx a Silvio Spaventa, da Fortunato a Don Sturzo (tra i tanti) l’hanno trattata. Ma è ineluttabile che la burocrazia, come scrive Max Weber, è la componente tipica  dello Stato moderno. Perché, anche se spesso ipertrofica, costituisce il tipo razionale di gestione pubblica.

Anche al fine di limitarne il potere, furono previste, nella successiva evoluzione dello Stato borghese vari tipi di garanzie. Tra queste la più importante (e incisiva) è il controllo dell’operato amministrativo da parte del giudice;  quello “ordinario” e/o quelli “nuovi”: la giustizia amministrativa e, successivamente, quella costituzionale.

In particolare quella amministrativa ed ordinaria è stata oggetto di limitazioni (e perfino di autolimitazioni) inconsuete e ripetute negli anni della “seconda Repubblica” al fine esternato di “ridurre le spese”. Che alla faccia dell’intenzione virtuosamente manifestata, non hanno fatto altro che aumentare. Anche in occasione della presente crisi sanitaria, si è sentito spesso dire che, per accelerare le procedure, occorre limitare i poteri dei giudici penali e dei TAR. Gli invocati “scudi” proliferano; un’avvenente ex-ministro pochi giorni fa, in televisione, se l’è presa con i TAR.

Ma non è dato capire a chi, se non ai giudici, devono rivolgersi le centinaia di migliaia di cittadini creditori insoddisfatti delle PP.AA. (spesso da lustri).

Piuttosto è il caso di attuare e far finalmente funzionare la normativa sulle responsabilità dei funzionati, prevista dall’art. 28 della Costituzione, e mai realmente attivata. Non quindi di limitare i poteri dei giudici (spesso timidamente esercitati) ma di rendere effettiva la responsabilità dei funzionari. Ma la classe politica consentirà ad abbandonare al rispetto del diritto l’aiutantato amministrativo?

Teodoro Klitsche de la Grange

Le città americane bruciano. Domani potrebbe toccare alle nostre di Daniele Scalea

Qui sotto un interessante articolo di Daniele Scalea sui disordini sempre più aspri che stanno interessando le città americane. Il connotato razziale delle dinamiche sociopolitiche statunitensi ha da sempre assunto una notevole rilevanza sino a sovrapporsi e conformare spesso il conflitto sociale spesso nei suoi aspetti più deleteri. Sta di fatto, però, che negli ultimi cinquant’anni e progressivamente il collante ideologico del “melting pot”, del crogiolo e della fusione delle diverse comunità razziali si è trasformato nel suo opposto; nella affermazione ermetica della propria identità razziale sino a sfociare nella aperta contrapposizione ostile. Questo a dispetto anche della cruda realtà ben evidenziata da Daniele Scalea. L’altro apparente paradosso è che, se gran parte delle forze politiche hanno assecondato questa tendenza, i democratico-progressisti ne sono diventati i più accesi alfieri e gli ostaggi più ingabbiati nei propri stessi stereotipi e nelle proprie dinamiche di acquisizione del consenso. Una trappola che rischia di risucchiare lo stesso Trump in questo gioco al massacro. Da qui il cedimento progressivo sino agli atti di delegittimazione ed autodelegittimazione vera e propria delle locali forze dell’ordine. Atti che stanno provocando scoramento e dissenso in gran parte di esse.

 Un atto agli antipodi di un riconoscimento delle responsabilità dirette e personali legate alla morte di George Floyd. E’ un ulteriore passo che sta conducendo quel paese alla guerra civile, cioè al regolamento diretto dei conti tra i cittadini. I crudi video allegati rendono più di mille parole. Da tre giorni le città dell’american redoubt zone sono infatti presidiate da milizie civili.

 Una dinamica che sta interessando con qualche tempo di ritardo le città europee e l’Italia. Basta osservare la progressiva chiusura e regolazione interna delle diverse comunità etniche presenti in città come Torino, Milano, Bologna con la tendenza a diffondersi anche nei centri più piccoli. Come pure analogo è lo scivolamento su posizioni integraliste e compiacenti della sinistra progressista. Il recentissimo accordo governativo con il Qatar, con il quale si lascia ampio spazio alle forze più radicali per le loro attività esterne di proselitismo religioso e organizzazione interna delle comunità islamiche sono la conferma di questa cecità spesso confortata da veri e propri mercimoni. L’esperienza francese delle banlieu, dei quartieri ghetto, non ha evidentemente insegnato alcunché o forse troppo. Si continua piuttosto a chiudere un occhio se non due sulla azione promozionale e sulle attività di finanziamento di figure filantropiche come Soros di squadre dedite ad alimentare la natura e la virulenza di queste dinamiche. E’ il paradosso, l’ennesimo, dei paladini dei cittadini del mondo. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Le città americane bruciano. Domani potrebbe toccare alle nostre

di Daniele Scalea

https://www.centromachiavelli.com/2020/06/01/rivolta-usa-george-floyd-violenza-sinistra-disinformazione/

Da una settimana le grandi città degli USA sono in preda al caos, dopo che le manifestazioni anti-polizia sono rapidamente degenerate in rivolte e saccheggi, con danni ingenti, morti e feriti. Ciò che sta accadendo Oltreatlantico ha a che fare con dinamiche proprie della società americana, retaggio d’un passato segnato da schiavismo, segregazione razziale e un presente di forte sperequazione sociale tra afroamericani e resto della società. Eppure, ha molte più similitudini di quel che pensiamo con le nostre società europee, e offre inquietanti anticipazioni d’un futuro che potrebbe riguardare anche noi.

Ma andiamo con ordine. Partiamo riepilogando succintamente ciò che è accaduto, perché non sempre l’informazione giunta in Italia è stata ricca di dettagli (e men che meno equilibrata). Il 25 maggio George Floyd, un pregiudicato (rapina a mano armata) afro-americano, è stato arrestato dalla polizia di Minneapolis per aver circolato una banconota falsa. Nel corso dell’arresto, al quale secondo i poliziotti avrebbe opposto resistenza, Floyd ha perso la vita. Sono circolati filmati realizzati dai passanti in cui si vede l’uomo a terra lamentarsi di non poter respirare, mentre un poliziotto lo tiene lungamente immobilizzato col ginocchio sul collo. Il comportamento della pattuglia coinvolta è subito apparso eccessivamente violento e inconscientemente pericoloso, e malgrado l’autopsia abbia escluso l’asfissia come causa della morte, è difficile non crederla collegata alle modalità dell’arresto.

David Patrick Underwood, agente federale ucciso dai “manifestanti”

La morte di George Floyd è diventata l’innesco per manifestazioni e proteste contro il “razzismo sistemico” che interesserebbe la polizia e le istituzioni americane in genere. Le forze dell’ordine sono state attaccate con violenza: un agente (nero!) è stato ucciso con colpi d’arma da fuoco. Altri sono stati feriti in scontri a fuoco che si stanno facendo sempre più frequenti. La Casa Bianca è sotto assedio dei manifestanti anti-Trump, malgrado Minneapolis sia una città amministrata dai democratici (e la polizia “normale” negli USA dipende dall’amministrazione comunale o statale, non da quella federale). Fin qui c’è una logica, per quanto illegale, in ciò che fanno i “manifestanti”. Impossibile invece legare alla morte di Floyd e alla “lotta al razzismo” i saccheggi che si stanno sistematicamente svolgendo in decine di città americane; colpiti sono non solo i negozi delle grandi catene ma anche i piccoli esercizi a gestione familiare (inclusi quelli di afro-americani e latini). La polizia, che ricordiamo dipendere dall’amministrazione cittadina (in tutte le grandi città interessate dalle rivolte afferente al Partito Democratico) il più delle volte non interviene. Negozianti e cittadini si stanno organizzando autonomamente per difendere le loro proprietà e i loro quartieri, ma spesso hanno la peggio e sono vittime di aggressioni d’indicibile brutalità, come attestato nei video seguenti [VIDEO CON CONTENUTI SENSIBILI: non guardare se facilmente impressionabili]:

ELIJAH
@ElijahSchaffer

BREAKING: man critically injured at Dallas riots It appears he attempted to defend a shop with a large sword Looters ran at him, then he charged rioters They then beat him with a skateboard and stoned him with medium sized rocks I called an Ambulance and it’s on the way
ELIJAH

@ElijahSchaffer

Kicked in the head laying lifeless on the street

A man had his teeth literally knocked out by Portland rioters

Reporter @farleymedia shows how vicious these riots have become

Nobody is safe

No business is exempt from destruction

https://twitter.com/i/status/1267022974542102528

Patrol_Investigations_RPD @PatrolRpd

Do you know any of these men❓Yesterday, May 30, these men violently attacked a store owner & her husband who were trying to protect their business from being looted. Please look at the video & still images. If you know any of them, please call Crime Stoppers @ 423-9300.

https://twitter.com/i/status/1267202275895803904

Teddy Suh @suhteddey

I saw some violence and looting and confusion in .

https://twitter.com/i/status/1267215081265217537

Daily Caller

@DailyCaller

MSNBC reporter says “I want to be clear on how I characterize this. This is mostly a protest. It is not generally speaking unruly.”

As a building burns in the background…

https://twitter.com/i/status/1266223410008514562

Malgrado i “manifestanti” abbiano assaltato anche la sede della CNN ad Atlanta, i media progressisti stanno facendo i salti mortali per giustificare le rivolte e caratterizzarle come “pacifiche”, talvolta con esiti comici (nel video seguente c’è un cronista che dichiara: “Si tratta di proteste che, parlando in generale, non sono indisciplinate”. Nel frattempo, sullo sfondo, si vede un edificio dato alle fiamme, e la grafica informa che il fuoco è stato appiccato anche alla stazione di polizia).

Ovviamente i politici di Sinistra non sono da meno. I tumulti avvengono in città da loro amministrate, con la polizia che non vuole o non può frenarli. Il Presidente Trump sta offrendo la Guardia Nazionale per sedare i disordini, ma per ora poche città l’hanno accettata, malgrado la situazione sia fuori controllo da giorni. Del resto, politici democratici stanno partecipando ai cortei pacifici, mentre i loro rampolli partecipano ai tumulti più violenti. La figlia del sindaco di New York Bill De Blasio è stata arrestata. La figlia della deputata Ilhan Omar su Twitter ha organizzato una colletta di “beni di prima necessità” per i manifestanti, tra cui barre di compensato da usare come scudi e …mazze da hockey. Poco male: i progressisti hanno già trovato dei capri espiatori. Le rivolte sarebbero opera, niente meno, che dei suprematisti bianchi e, ovviamente, dei Russi, che nella paranoia maccartista dei democratici stanno bene ovunque.

Ultima annotazione: la Sinistra, anche in America, ha fatto propria la causa del lockdown. Le amministrazioni democratiche sono state implacabili nel chiudere in casa i cittadini. Improvvisamente, in nome della lotta al “razzismo” e a Trump, cortei e assembramenti divengono leciti ed anzi encomiabili: che il coronavirus abbia preferenze ideologiche e colpisca solo i conservatori? Lo scopriremo fra un paio di settimane, tempo di incubazione e peggioramento dei sintomi della Covid-19.

Completato questo doveroso quadro, spostiamoci ora alla visione contestuale e alle lezioni da trarne.

1. Esiste una storia problematica di brutalità della polizia contro gli afro-americani; ma l’America del 2020 non è quella del 1991-92, del pestaggio a Rodney King e della rivolta di Los Angeles. All’epoca i poliziotti responsabili furono prosciolti. La vicenda di George Floyd è forse più grave di quella di King, ma anche le conseguenze sono state assai differenti.
Il capo della Polizia, Medaria Arradondo, un nero d’origine messicana nominato dal sindaco democratico di Minneapolis, dopo un solo giorno dagli eventi ha licenziato in tronco tutti e quattro i componenti della pattuglia. Dopo quattro giorni è stata formulata l’accusa d’omicidio per il maggiore responsabile. Addirittura, tanta è stata l’esecrazione generale, che la moglie dell’ex poliziotto si è affrettata a chiedere il divorzio dando pubblicità alla cosa. Dov’è il “razzismo sistemico” in tutto ciò? La vicenda assomiglia semmai a quanto accadde nel 2016 al bianco Tony Timpa, un soggetto con problemi psichiatrici immobilizzato in una posizione pericolosa dai poliziotti che lui stesso aveva chiamato (tra i quali un nero), e che ci lasciò la pelle. Anche in questo caso abbiamo un video dell’accaduto, nessun agente coinvolto è stato punito, eppure non si sono viste mobilitazioni di piazza.
Certo: gli afro-americani hanno più probabilità di essere uccisi dalla polizia (anche se la maggior parte delle vittime è d’etnia bianca). Ma è vero anche il contrario: gli agenti hanno una più elevata probabilità di essere uccisi da criminali afro-americani (tra 2004 e 2015 responsabili del 43% delle uccisioni pur essendo il 13% della popolazione; dei 48 agenti uccisi nel 2019 il 35% è stato ucciso da neri – dati FBI). Uno studio statistico recente non ha rilevato pregiudiziali anti-neri nelle uccisioni a fuoco da parte di forze dell’ordine; al contrario si è visto (qui e qui) che sono gli agenti neri e ispanici a premere il grilletto con maggior facilità. Più che un problema di razzismo, sembrerebbe trattarsi di disparità etnica nella partecipazione ad attività criminali. Gli afro-americani, che compongono la parte economicamente più povera, più spesso si dedicano ad attività criminali e più spesso hanno a che fare con la polizia: sia come vittime sia come carnefici.

2. Chiaramente un commentatore progressista ricondurrà anche le predette disparità sociali al “razzismo sistemico”, ed è esattamente ciò che fanno per rinfocolare la rivolta. Se lo Stato e le istituzioni sono intrinsecamente razziste, tutti i dati e argomenti presentati al punto 1 sono fatui: qualsiasi cosa sia avvenuta, se una minoranza etnica è implicata, a monte ci saranno sempre l’ingiustizia e lo sfruttamento da parte dei bianchi. Il neomarxismo post-operaista, egemone nelle università e nella cultura, identifica nelle minoranze il nuovo soggetto rivoluzionario capace di scardinare ciò che resta dell’ordine sociale tradizionale. Centinaia di corsi, articoli, talk show e serie Tv hanno spiegato che “il Sistema” è intrinsecamente razzista, che il benessere e la prosperità dell’Occidente bianco dipendono dallo sfruttamento del resto del mondo “colorato”, che non si può scendere a patti con quest’ordine sociale ma che va distrutto alle fondamenta. Così si soffia sul fuoco della rivolta e la si legittima anche nelle sue estreme manifestazioni. Gli antifa, estremisti di sinistra dediti alla violenza politica, sono i grandi protagonisti dei tumulti assieme alle gang afro-americane.

3. Il controllo dell’informazione mainstream permette di controllare il sentire comune. Mostrando le immagini della morte di George Floyd si è suscitata una giusta indignazione contro alcuni poliziotti violenti. Inquadrando la vicenda nel presunto razzismo di gran parte dei poliziotti si è incanalata la rabbia dai singoli alle istituzioni, così che nemmeno le pronte misure prese contro i rei possano placare gli animi: la questione non è più “giustizia per George Floyd” (più che licenziare e incriminare i responsabili che si può fare?), ma la lotta contro Trump, il “razzismo sistemico dei bianchi” e via dicendo. Nascondendo le immagini delle peggiori violenze dei rivoltosi, si evita che nasca indignazione anche contro di essi.

4. Tutti gli elementi predetti ci sono già, in nuce, anche in Italia. Da noi non c’è una comunità minoritaria che discende da una storia di schiavismo, ma c’è una crescente componente allogena che, da quando i flussi sono divenuti caotici e incontrollati (cioè dal 2011), sempre meno è assimilata o anche solo integrata dalla società italiana. Anche nelle nostre città, come già accaduto in quelle francesi o tedesche, si stanno creando comunità dall’identità separata, con proprie reti sociali sganciate dal resto della popolazione, economicamente svantaggiate e socialmente emarginate. Su tali svantaggi lucrano gli agitatori di professione, coloro che da varie cattedre e pulpiti raccontano che l’Italia è razzista e ciò sta all’origine di tutti i problemi delle minoranze. In America le violenze sono state perpetrate da gang criminali ed estremisti di sinista (gli Antifa). Anche in Italia con l’immigrazione di massa è arrivato il crimine organizzato di matrice etnica e anche da noi esistono realtà estremiste, come gli anarco-insurrezionalisti e certi “centri sociali”, che praticano la violenza politica e sognano una rivoluzione manu militari. Tutti i fattori del caos americano sono presenti anche da noi. La rivolta delle banlieue francesi ci ha svelato anni fa che certi fenomeni non sono più esclusiva degli USA, ma fanno parte anche della realtà europea. Oggi il fuoco divampa Oltreatlantico, presto potrebbe farlo da noi, se non sapremo prendere contromisure. Quali? Contrastare con una narrazione alternativa la propaganda estremista della Sinistra; tornare a un’immigrazione controllata e regolata che permetta di assimilare culturalmente e socialmente i nuovi arrivati; estirpare i fenomeni d’illegalità estremista e violenza politica che ancora sussistono quasi indisturbati nel nostro Paese.

Daniele Scalea

Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di “Storia e dottrina del jihadismo” e “Geopolitica del Medio Oriente” all’Università Cusano. Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi.

Attenti a quei due, di Giuseppe Germinario

La videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione della von der Leyen al Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione Europea, almeno nelle intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità. Lo stile adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente. Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto alla ricorrente tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole e rozza retorica intrisa di lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del clamore di tanti precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una battaglia politica vera tra i vari paesi europei e all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle classi dirigenti più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha confermato una volta di più l’attendismo e la passività del ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli uni hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli altri hanno mostrato scetticismo sulla sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle procedure e ai canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per credere!

Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo. L’urgenza espressa dal nostro paese rientra nell’ordine dei mesi colti dalle dita di una mano o poco più. La crisi di liquidità delle imprese, l’interruzione istantanea della rete di relazioni economiche in un contesto in cui la fluidità dei circuiti era già compromessa dagli sconvolgimenti geopolitici e dalle innovazioni tecnologiche stanno compromettendo l’esistenza di un numero enorme di aziende non necessariamente decotte. Il tempo richiesto dall’impegno finanziario del “recovery fund”, del “sure”, dei finanziamenti della BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l’eccezione non casuale del MES, rientra nell’ordine degli anni (sei) con elargizioni per di più rateizzate e legate al rispetto e verifica dei protocolli. Un criterio quest’ultimo, per altro, particolarmente virtuoso nelle procedure rispetto a quelle di concessione ed esecuzione dei lavori adottate dalle amministrazioni pubbliche italiane così come illustrate in particolare a suo tempo da Fabrizio Barca.

Lo è anche per i centri decisionali europei di quei paesi che detengono il pallino della definizione e del controllo dei meccanismi europei. Il fattore tempo è uno strumento fondamentale nel confronto geopolitico e geoeconomico, nella ridefinizione quindi delle gerarchie e delle posizioni. Lo è anche per un altro motivo, probabilmente ancora più importante. La sopravvivenza della Unione Europea nella sua attuale conformazione e progressione dipende in gran parte dall’esito del confronto politico negli Stati Uniti con i suoi riverberi in Europa; in subordine dall’acceso confronto politico interno agli stessi paesi motori del processo di integrazione, Francia e Germania.

Agli occhi dei critici più o meno istituzionali assume per la verità importanza sostanziale un altra caratteristica dell’intervento europeo: la grave insufficienza degli stanziamenti rispetto alle necessità, solo in parte mitigata dagli interventi provvidenziali ma circoscritti sulla liquidità corrente della BCE.

Sarebbero due ambiti di critica realmente dirimenti se fossero fondati i presupposti sui quali poggiano. Che la finalità dell’Unione Europea sia quella di garantire la coesione e lo sviluppo equilibrato delle economie e delle regioni in un ambito di cosiddetto libero mercato; che gli strumenti normativi, procedurali ed amministrativi di cui dispone la UE siano idonei al perseguimento di quegli obbiettivi.

La finalità ultima e dirimente della UE è in realtà il processo di integrazione all’interno del quale si predeterminano gerarchie, controlli e controllori sulla base di scontri, confronti, occupazione ed infiltrazione nei posti di comando che vedono regolarmente gli stessi deus ex-machina, attori principali e comparse. Le compensazioni previste sono solo una forma di redistribuzione parziale che non intaccano minimamente le dinamiche. Le rendono in realtà più tollerabili ed agevolano la fluidità del circuito domanda/offerta del mercato; le istituzionalizzano e le perpetuano con l’indebitamento.

Gli strumenti, compresi i fondi strutturali, sono stati tutti indistintamente costruiti in funzione di quella dinamica principale.

Il duo Merkel-Macron, da comprimari quali sono, a differenza di gran parte della nostra classe dirigente e del nostro ceto politico che le ignora o finge di ignorale, conoscono benissimo questa narrazione e le susseguenti implicazioni.

Sanno benissimo che passano attraverso un indebolimento progressivo delle prerogative e delle capacità di controllo e di intervento degli stati nazionali di cui sono essi stessi vittime rispetto agli altri attori geoeconomicopolitici; ma in misura molto minore, è questo infatti il loro ambito di azione prioritario, rispetto ad altri quali la Spagna e l’Italia. Di fatto l’UE agisce strutturalmente per garantire la libera circolazione finanziaria e per impedire la formazione di grandi imprese paragonabili in dimensioni e qualità a quelle americane ed ora cinesi, specie nei settori strategici dell’alta tecnologia e della difesa. I pochissimi settori nei quali Francia e Germania si sono ritagliati uno spazio, come nell’aereonautica (Consorzio AIRBUS), lo hanno acquisito a dispetto della UE e ora rischiano di perderlo grazie al mercimonio dei tedeschi i quali, forti della loro supposta “integrità morale”, dopo aver acquisito il controllo di una tecnologia francese a loro estranea, hanno recentemente cercato si svenderla agli americani in cambio di un loro benestare nell’acquisizione nel campo della chimica. Acquisizioni in cui sono compresi fardelli legali e risarcitori talmente pesanti da rivelarsi fatali per il colosso tedesco della Bayer. Il riferimento è alla ex-americana Monsanto. Altri, come il progetto Galileo, hanno goduto di un sostegno europeo parziale ma con pesanti limitazioni legate all’uso esclusivamente civile di una tecnologia di fatto superiore a quella americana. La conferma ulteriore di come i vincoli politici dai quali è legata la costruzione europea determinano le dinamiche e le scelte economiche.

Se il duo ha tanto insistito nel loro discorso sul carattere a fondo perduto di buona parte del “recovery fund”e sul “sure” e sull’interlocuzione diretta della UE con i beneficiari e le regioni, ma glissando elegantemente sulle necessarie garanzie pubbliche, è perché conoscono benissimo la frammentazione del panorama politico, lo scarso attaccamento alla nazione e allo stato nazionale di buona parte dello zoccolo duro dell’elettorato leghista e la propensione assistenzialista della componente grillina e progressista. Come le sirene con Ulisse, il loro di fatto è un richiamo alle origini di una Lega, possibilmente dimentica delle sue ambizioni di partito nazionale e nuovamente attratta dalle suggestioni di un polo eurobavarese, proprio nel momento in cui tra l’altro questo avrebbe meno da offrire.

Non è un caso altresì che il duo, accompagnato dieci giorni dopo dalla loro ventriloqua, abbia insistito sull’uso del canale dei fondi strutturali nella gestione del fondo. Non ostante l’ampia letteratura a disposizione, in Italia non riesce ad insinuarsi nemmeno il sospetto che quei fondi possano costituire il principale veicolo dell’integrazione, piuttosto che della coesione. Potenzialmente un veicolo di ulteriore esposizione alle dinamiche di squilibrio e di dipendenza delle zone depresse o a sviluppo intermedio rispetto ai centri politicoeconomici. Con il criterio del cofinanziamento vincolano, se non tutti, almeno la gran parte dei fondi statali al rispetto dei criteri europeistici, di quelle regole di concorrenza che impediscono il sorgere, con il necessario sostegno e la copertura pubblica in qualche maniera protezionistica, di realtà imprenditoriali autoctone. Una dinamica tanto più consolidata quanto meno sono disponibili risorse nazionali aggiuntive ed autonome per gli investimenti, quanto meno è presente l’ambizione a scelte autonome di una classe dirigente. Una ulteriore spinta al regionalismo, vecchio cavallo di battaglia della UE e di tante forze politiche non farebbe che accentuare tale predisposizione. È una tendenza fattiva che ha trovato tanto spazio e compromesso, nelle modalità di esercizio, paesi come l’Italia e la Spagna con i risultati ormai evidenti, ha intaccato la solidità della Francia, ha assunto una maschera simile ad una finzione nei paesi dell’Europa Orientale, indossata con il solo scopo di poter accedere ai fondi europei. La lezione degli anni ‘90 che ha portato, contestualmente al trasferimento all’Europa Orientale di gran parte dei fondi europei, allo smantellamento repentino in Italia delle agenzie nazionali e di tutto il relativo apparato tecnico-amministrativo in grado di progettare opere strategiche e processi di industrializzazione, nonché del sistema di incentivi non è stata appresa, pur considerando le grandi pecche di quel sistema. Solo la Germania è sembrata immune dalle conseguente di tali scelte, ma solo perché, risorta sotto impulso americano con una impronta federalista, esentata in quanto paese occupato da scelte di politica estera dirimenti e perché in possesso di una rete associativa e corporativa, direttamente coinvolta nelle scelte, tale da garantire sufficiente omogeneità politica tra i laender della federazione; soprattutto perché, grazie al suo progressivo e certosino controllo diretto ed indiretto delle leve politiche e burocratiche della UE, in questo ben avvallato dalla paterna accondiscendenza degli USA sino ad un paio di anni fa, ha saputo prepararsi e predeterminare gli indirizzi e la gestione di essa.

È arrivato il momento di chiarire un altro aspetto della natura particolare dell’azione delle strutture della UE in funzione dei due interventi oggetto di attenzione. Si parla costantemente di leggi e giurisprudenza europea. La produzione della Commissione Europea è fatta in realtà di norme frutto di trattative e pressioni degli Stati Nazionali ed espressione della immane attività lobbistica di aziende ed associazioni accettata e riconosciuta dagli organismi comunitari senza nemmeno i bilanciamenti che l’analoga legislazione americana, alla quale si è ispirata, ha creato a tutela dei cittadini e delle decisioni politiche; suscettibile quindi delle più svariate pressioni, interpretazioni e modifiche. Una dinamica che penalizza fortemente gli attori del panorama economico italiano. Che la UE non goda di uno statuto internazionale particolare è dimostrato dal fatto che organizzazioni internazionali come l’OMC non la riconoscano. Due aspetti che mettono all’angolo una volta per tutto il lirismo europeista della nostra classe dirigente utile a nascondere la propria assenza di protagonismo ed autorevolezza e il proprio fallimento; l’assenza di sagacia nelle continue contrattazioni in sede europea.

Alla luce di quanto detto le due novità più importanti degli interventi del duo e del commissario europeo assumono una luce particolare. La prima è che, almeno nelle intenzioni, la Unione Europea potrà diventare soggetto di imposta e quindi esattore diretto. La seconda è che comincia a farsi strada il concetto di tutela ed autonomia della produzione industriale. Due tabù cominciano ad essere messi in discussione. Il primo è l’acquisizione di una prima prerogativa statuale della UE, la riscossione delle tasse. Saremmo ben lontani dall’acquisizione della massa critica di risorse, stimata in un 20% del PIL, tale da dare corpo alla prerogativa; ma è un principio che comincia ad insinuarsi. La seconda appare una messa in discussione della verità assoluta del dogma del libero mercato. In quanto dogma, ben lungi ed impossibile da essere praticato coerentemente nell’azione quotidiana, quando si tratta in effetti di tradurlo in norme, comportamenti e sanzioni. Ma un’arma comunque necessaria da brandire alla bisogna in mano al censore investito e abilitato. Apparentemente parrebbe finalmente un sussulto di ambizione verso i potenti del globo. Non bisogna dimenticare però che uno dei protagonisti, Macron, è stato il cofautore della crisi del complesso nucleare francese, della cessione del settore delle turbine alla americana GE, strategico nel settore navale e nucleare, della produzione dei treni alla Siemens e di pericolosi tentennamenti nella vicenda AIRBUS. La seconda appare come la paladina di un primato industriale su prodotti maturi disposta a mantenere questa posizione sacrificando settori strategici altrui. Di una esposizione rischiosissima ai venti speculativi della finanza. Per non parlare della permeabilità esterna del proprio apparato istituzionale. Una coppia quindi molto poco credibile. Tanto più che l’obbiettivo strategico dell’economia verde può risolversi tranquillamente in un paravento per nascondere la residualità e la subordinazione nelle scelte strategiche, quello più corposo del 5G allo stato appare del tutto velleitario.

Allo stato l’iniziativa potrebbe assumere due significati non necessariamente alternativi.

Il primo potrebbe essere quello di gettare il cuore oltre l’ostacolo visto l’incalzare degli avversari interni ed esterni al progetto europeo e i punti fermi ormai stabiliti dalla Corte Federale tedesca che inibiscono ulteriori traccheggiamenti. Il secondo è che il vero obbiettivo è un riassetto definitivo degli equilibri interni che prevedono l’annichilimento definitivo di alcuni stati europei, l’Italia in primis; la definizione della Francia come partner politico-economico sostitutivo dell’Italia, come fornitore quindi dell’indotto, vista la crisi della sua grande industria. Un progetto però ancora tutto da definire e da costruire con parecchi terzi incomodi all’interno, soprattutto tra i paesi dell’Europa Orientale, legati del tutto strumentalmente ed opportunisticamente alla costruzione europea e molto più sensibili politicamente alle sirene americane; con numerosi e particolarmente influenti osservatori esterni, in primis gli Stati Uniti. I due potrebbero coltivare l’illusione, con la sconfitta di Trump, ad un ritorno al passato. Speranza mal riposta. Con il direttore d’orchestra che comincia a perdere colpi, il loro appare certamente un progetto foriero di conflitti distruttivi nel continenti piuttosto che un sussulto capace di costruire un nucleo politico di paesi europei in grado di partecipare attivamente alle dinamiche geopolitiche. Più che un oggetto di contesa, il nostro paese, con la sua attuale classe dirigente, appare in proposito, in questo contesto, una pallina da ping pong sballottata a piacimento senza alcuna considerazione. Dal punto di vista storico, in Europa ogni tentativo interno di posizione egemonica o di dominio continentale diretto si è risolto in catastrofi foriere di nuovi equilibri sempre precari. Non è detto che la storia si ripeta pedissequamente, ma gli ingredienti per una nuova disfatta si intravedono tutti.

https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2020/05/18/initiative-franco-allemande-pour-la-relance-europeenne-face-a-la-crise-du-coronavirus

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/about_the_european_commission/eu_budget/2020.2139_it_04.pdf

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it#documents

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

CONFUSIONE ORGANIZZATA, di Pierluigi Fagan

CONFUSIONE ORGANIZZATA. Il mondo occidentale è da tempo in un difficile ed epocale transizione. Il modo occidentale di stare al mondo creato in Europa lungo i precedenti cinque secoli, il modo moderno, non dà più garanzie di fornire adattamento ai tempi che vengono. Si può leggere la difficoltà obiettiva di questa fase storica per il soggetto occidentale, almeno da cinquanta anni. La fase in corso vede un sistema già molto disordinato, colpito da una causa disordinante nuova, un virus con alta replicazione, medio effetto sanitario, bassa mortalità.

Il mondo occidentale è un sistema che gravita intorno a gli Stati Uniti d’America. Ma gli USA sono condannati a pagare il prezzo più alto della transizione storica. Gli USA sono il 4,5% della popolazione mondiale, avevano circa il 50% del pil mondiale ai primi anni ’50, oggi ne hanno la metà, nei prossimi decenni ne avranno la metà della metà. Rimane comunque una bella cifra visto il rapporto con la popolazione e visto che se la percentuale diminuisce, ciò su cui si applica aumenta. Tant’è che a livello di pil procapite, se un italiano ha in teoria 41.000 euro anno, un francese 48.000, un tedesco 55.000, un americano avrebbe ben 67.000 dollari procapite teorici. Ma non li ha, perché il sistema di ridistribuzione interno della ricchezza nazionale è particolarmente ineguale.

In America c’è un indice di diseguaglianza che è il doppio della Francia ed il triplo della Germania, cioè danno troppo a pochi e troppo poco a molti. Sono convinti sia giusto così perché la società deve premiare ad incentivi (quindi anche più dell’obiettivo valore) chi traina lo sviluppo economico, gli altri vengono trascinati. Quando il totale della torta era molto ampio, questo sistema sbilanciato permetteva comunque di avere il 10% meno ricco sopra la linea della minima decenza. Quando il totale si è andato contraendo, il 10% meno ricco è andato sotto, anche più del 10%. Nel tempo sarà molto più del 10% che andrà sotto se non si cambia il sistema di ridistribuzione, ma pare che nessuno abbia in agenda questa ristrutturazione che prima che fiscale è culturale. Quindi rimane solo la possibilità di gestire la tensione sociale da una parte e lottare sempre più furiosamente per mantenere alta la propria percentuale di pil del mondo, il che porta a vari tipi di tensioni per dominarlo ed impedire che altri concorrenti emergano.

Negli ultimi tempi, è arrivato il virus. Il presidente americano ha capito subito i danni che il virus avrebbe fatto non tanto o solo dal punto di vista sanitario, ma dal punto di vista economico. Tant’è che non ha fatto assolutamente nulla per tempo, pur sapendo perfettamente cosa stava succedendo. I suoi strateghi di comunicazione, hanno sviluppato una strategia di confusione organizzata ben precisa. Ogni giorno, qui su facebook, qualche ingenuo pubblica articoli, video, filippiche negazioniste, rivelazioni sconcertanti, movimenti contro le mascherine, dubbi statistici e sanitari, insight conto l’OMS, Bill Gates, Rothschild ed altri “illuminati” che tramano per farci loro schiavi biopolitici. Il virus non c’è, se c’è non è così grave, se è grave è colpa dei cinesi, comunque è meno grave della crisi economica che porterà, meno grave della perdita della libertà, comunque poi arriva qualche vaccino, forse. C’è una marea montante di agenti confusionari sul fronte informativo, di agitatori politici su quello sociale, tutti tesi a “gestire” il problema. Si sarebbe potuta investire la stessa energia dal punto di vista epidemiologico o sanitario, ma sarebbe stato ammettere che in effetti c’era il virus, il che avrebbe fatto sì che effettivamente il virus, modificando i comportamenti individuali, avrebbe depresso oltre il gestibile l’economia già duramente colpita.

Il virus pare colpisca la popolazione afroamericana col doppio di incidenza delle altre etnie, ma nessuno sa perché. Certo, ci possono esser ragioni sociali ma non è detto poiché altre etnie come gli ispanici sono socialmente deprivati eppure hanno incidenze molto più lievi. Sta di fatto che dal punto di vista sanitario è così e certo la strategia negazionista del governo, acuisce il senso di paura ed ingiustizia. Poi si sommano gli effetti sociali, diversi punti percentuali di disoccupazione per gli afroamericani in più rispetto ai bianchi i quali però, per la prima volta da decenni, si trovano anch’essi in relativa massa esposti alla disperazione sociale. Il morto di Minneapolis, diventa la scintilla che appicca l’incendio sociale. Come per le epidemie, come per gli incendi, intervenendo subito si soffoca il fenomeno sul nascere, ma perché soffocarlo e non invece alimentarlo?

Ecco allora comparire assaltatori di negozi ed istituzioni, qualche sparo, qualche morto, distruzione della proprietà che in America è peggio che stuprare la figlia del vicino, il Presidente che twitta minacciando cani che sbranano i manifestanti, forse a breve (ma non tanto breve, “the show must go on” almeno finché frutta sempre maggiore richiesta popolare di ordine e di disciplina) l’esercito. E visto che organizzare attriti e confusioni è ritenuto buono per manipolare gli andamenti sociali, scatta anche la guerra ai social.

Nel frattempo, dopo la fiammata di accuse sull’origine manipolata o forse solo distratta del virus da parte cinese, tra nuovi dazi e sanzioni, sponde verso Taiwan, manipolazione dei moti di Hong Kong, pronunciamenti del congresso in favore degli Uiguri, guardando con occhio interessato e chissà se solo con l’occhio alle tensioni tra Cina ed India, guerriglia sul 5G e pressioni su Israele che fa affari con Pechino, si combatte la battaglia fondamentale: rallentare la rincorsa cinese. E’ la rincorsa cinese infatti, la forza che spinge a restringere ulteriormente il peso del pil americano sul totale mondo, direttamente ed indirettamente.

Poiché Merkel l’altro giorni gli ha detto in una litigata la telefono che lei non sarebbe andata al G7 pianificato a giugno, Trump lo sposta a settembre ma invitando i russi (e questo già si sapeva) ma anche australiani, coreani del sud ed indiani ovvero la nuova cintura di contenimento anti-cinese. Tanto non si farà neanche a settembre, a due mesi dal voto chi si espone senza saper nulla del dopo?

Virus, crollo economico, social, Cina e chissà cos’altro da qui a novembre quando si voterà per la presidenza. Tutto il mondo e quello occidentale in particolare, è invitato, obbligato a scegliere modalità referendum, tra “o con noi o contro di noi” ed internamente “o con me o contro di me”. Anarchici assaltatori della proprietà privata e marmaglia nera evocati sul piano interno, cinesi infidi ed illiberali su quello esterno, una vaga e confusa nuvola di scienziati al soldo di Big Pharma (il secondo maggior contributore elettorale di Trump), Bill Gates, microchip sottocutanei, social media, Rothschild, onde del 5G (se il 5G fosse americano sarebbe salutare, ovvio, come lo sono le onde elettromagnetica del wi-fi o delle reti mobili tradizionali che ovviamente non lo sono affatto), Rockfeller, socialisti, globalisti, WHO, non c’è più destra né sinistra ma solo popolo verso élite (purché siano vaghe, lontane, imprecisate e soprattutto non quelle che governano l’America) per tutti i confusi del quadrante occidentale.

Mancano poco più di cinque mesi alle elezioni ed andrà sempre peggio, statene certi. Dispiace perder tempo a scrivere queste banalità, ma vedo che per molti non sono banalità. Soprattutto per qual vasto gruppo di brancolanti nel buio che si è arruolato spontaneamente a difendere il paladino del popolo ed i suoi centri di potere al centro della lotta per il potere imperiale. I tanti “servi volontari” che si sommano a fascistelli e conservatori di varia foggia, che palpitano accorati nella difesa dei valori occidentali più fondanti: perpetuare il potere dei Pochi su i Molti.

[Ho preso questa simpatica “mappa del delirio” da un post sulla pagina del >movimento arancione del Gen. Pappalardo (che fa già ridere così)<, un altro movimento organizzato perché la confusione non è mai troppa di questi tempi].

tratto da facebook

Le prospettive del sovranismo. Una conversazione tra Vincenzo Costa, Andrea Zhok e Roberto Buffagni

Conversazione sulle prospettive del “sovranismo”

Pubblichiamo una lunga conversazione sulle prospettive del “sovranismo” tra Vincenzo Costa (Università del Molise), Andrea Zhok (Università Statale di Milano), e il nostro collaboratore Roberto Buffagni. La conversazione si è sviluppata in questi giorni sulla pagina Facebook di Vincenzo Costa. Sono intervenuti molti altri interlocutori, che spesso hanno dato un contributo importante al dialogo. Non pubblichiamo tutti gli interventi per ragioni di ordine e brevità. Invitiamo i lettori interessati a leggere l’intero scambio di opinioni sulla pagina del prof. Costa.

 

Il post di Vincenzo Costa che ha dato inizio alla discussione è questo:

Vincenzo Costa

La fine del sovranismo e l’orizzonte della sinistra a venire

Con le decisioni di ieri della UE si chiude una fase. Il crollo della UE non ci sarà. La UE ha molte criticità ma non tali da portare al suo crollo. Consegnerebbe i paesi europei a potenze estranee, e questo nessuno lo vuole, non lo vuole il popolo e non lo vogliono le élites.

Finisce l’epoca del sovranismo, di destra e di sinistra. Epoca che ha consumato energie e forze intellettuali, senza produrre niente se non strabismo e cecità rispetto alle trasformazioni reali e ai bisogni effettivi del paese.

L’orizzonte della sinistra a venire è un altro: le diseguaglianze crescenti, le lacerazioni del tessuto sociale, una cultura di sinistra arretrata e attardata su un liberalismo da anni ‘80, la riduzione di democrazia e di sovranità popolare, che va distinta dalla sovranità nazionale.

Rimarranno piccole sacche unificate dall’antieuropeismo, dall’odio contro i crucchi, etc., sempre più espressione di nazionalismo che di aderenza alle esigenze popolari e del paese. Estranee alla tradizione socialista e con la faccia rivolta all’indietro invece che verso il futuro

Viene l’ora di una sinistra socialista, riformista, positiva, che non aspetti né l’apocalisse né la rigenerazione. E che traduca esigenze reali in idee, invece di fossilizzarsi attorno a idee astratte che poco interessano le persone reali.

Non nascerà domani, sarà un lungo cammino, ma bisogna iniziarne uno nella direzione giusta. Quello sovranista si è rivelato essere solo un vicolo cieco.

A volte piccoli segni marcano cambiamenti profondi, che bisogna sapere cogliere.

Ps. Questo non è un post polemico. Anzi.

Andrea Zhok

Senza polemica, a mio personale e fallibilissimo giudizio, credo che non sia una buona analisi, Vincenzo, qualunque sia il senso che diamo a un termine scivoloso come “sovranismo”.

Se “sovranismo” vuole intendere quella sorta di neoliberismo nazionalista brandeggiato da Salvini (e da parecchi altri in Europa) non credo affatto che sia morto, tutt’altro. E’ e resta quasi ovunque forza dominante, perché la profondità e multifattorialità del fallimento della sinistra non si cancella in un giorno e questi vivono del discredito della sinistra.

Se “sovranismo” vuole intendere “antieuropeismo”, dubito molto che la manovra annunciata di millemila miliardi arriverà ad essere ciò che pretende di essere. Di fatto i veti incrociati ci sono e continuano ad essere robusti. Inoltre non siamo affatto in presenza né di una mutualizzazione del debito, né di una corresponsabilità fiscale, neanche lontanamente. Infine le cifre coinvolte, visto che si continua ad operare senza monetizzazione del debito ma in forma di offerta di titoli sul mercato dei capitali, saranno alla fine piuttosto modeste. Un calcolo di ieri sul Corriere (fonte entusiasticamente europeista) diceva che potremmo avere a che fare con un 0,7% del Pil per anno, per 6 anni, a fronte di una perdita di oltre il 9% solo quest’anno. Diciamo che vedervi un’operazione epocale è mero wishful thinking. E tacciamo la questione delle condizionalità legate all’erogazione del credito, condizionalità ancora molto vaghe, ma che finora hanno sempre rappresentato il punto dirimente. Qui non si è superato ancora nessun problema, ma proprio neanche mezzo.
In tutto questo quadro l’unica cosa ad essere cambiata è che la Germania ha accettato il principio di poter operare una redistribuzione interna all’UE. Il principio è significativo e idealmente potrebbe essere il segno di una riforma dell’UE a venire. Ma dopo 12 anni di fallimento profondissimo mi sa che i tempi per un ribaltamento della direzione non ci siano più. Diciamo quanto meno che siamo molto lontani dal poter dire che l’antieuropeismo sarebbe morto perché l’Unione Europea avrebbe dimostrato di essere madre e non matrigna. Francamente prematuro.

Se “sovranismo” è un altro modo dire “ritorno alla centralità dello Stato nazione”, credo che a fronte degli esiti catastrofici della pandemia sugli ordinamenti dell’iperglobalizzazione contemporanea, questo ritorno in auge è appena agli inizi e proseguirà per lungo tempo. Le catene di produzione del valore iperestese si sono dimostrate fragili e il ruolo difensivo degli Stati nazionali si è dimostrato cruciale. Lo Stato nazione è destinato a ritornare durevolmente al centro della scacchiera (che in verità aveva lasciato solo sul piano propagandistico e ideologico.)

Non so se ci sono altre accezioni di “sovranismo” di cui dare conto. A me queste paiono le principali, e nessuna di queste parla di un ‘de profundis’ del “sovranismo” (anche se magari la parola potrebbe andare fuori moda.)

Vincenzo Costa

Caro Andrea grazie del tuo commento, che come sempre sopra porta un contribuito di riflessione importante. E mi offre la possibilità di precisare. Certo, è probabile che le nostre analisi divergano profondamente, e di conseguenza anche la direzione dell’agire politico. E probabilmente ci troveremo a fare scelte politiche diverse. Ma spero che la discussione tra noi rimanga aperta, perché rappresenta per me uno stimolo importante. le posizioni sono appunto divergenti.

Io credo che il sovranismo socialista o di sinistra sia finito. Per sovranismo di sinistra intendo l’idea secondo cui l’obbiettivo principale è uscire dalla UE, e che questa è una precondizione per porre sul tavolo le esigenze del lavoro e dei diritti delle classi meno abbienti, per non dire che è la precondizione per parlare di riforme in senso socialista democratico (nei commenti al post molti lo hanno osservato esplicitamente).

Questo sovranismo è defunto, e non per gli accordi di ieri, ma perché è sterile. Non vi sarà alcuna implosione della UE, né alcuna uscita dall’Euro. Almeno, allo stato attuale sembra molto improbabile. Quindi è un’idea sterile, senza prospettiva politica, che si è dimostrata incapace di sviluppare egemonia nelle classi lavoratrici. Al massimo trova accoglienza presso qualche intellettuale.

Nel caso in cui avvenisse sarebbe gestita da una classe dirigente pessima, e sarebbe pagata interamente dalle classi popolari. Ne abbiamo già parlato: uscire dall’euro significa un 30% di svalutazione, un’inflazione di circa 7-8%. Quindi la ricchezza privata nazionale, di cui tanto si parla, sarebbe erosa. Praticamente si farebbe una patrimoniale pazzesca. Facciamo prima a fare un patrimoniale del 2% e siamo a posto, ci costa meno.

Questa svalutazione e inflazione sarebbero pagate interamente dalle classi popolari, dato che i grandi capitali si sposterebbe molto prima (come hanno fatto già durante questa estate e come fanno ogni volta che 4tira aria cattiva). Pietro Ingrao, tempo fa, dichiarava lo stato nazione troppo ristretto per tutelarsi contro il capitale internazionale. Io non starò certo a cercare di convincerti, ma vi fu e vi è tutta una letteratura per cui gli stati nazionali erano vasi di argilla tra vasi di ferro. Se vuoi farti un’idea del dibattito nella sinistra dell’epoca prova a guardare Dockès, L’internazionale del capitale e Michalet, Il capitalismo mondiale, come anche Crisi e terza via di Ingrao. Tutti editori riuniti. Non che si debba sottoscrivere quelle tesi, datate, ma solo per dire che la narrazione sulla Banca d’ Italia e il divorzio col Tesoro, e la svendita di un paese magnifico è una semplificazione bestiale, e sta producendo, secondo me, accecamento. Fanatismo. Le cose stavano diversamente e stanno diversamente. Un piccolo stato come il nostro sarebbe divorato dai ricatti di multinazionali e altri grandi stati. Dalle grinfie dell’odiata Germania alle grinfie di chi? Questo bisogna dirlo.

Ma insomma, così ho detto troppo, e non sono cose da FB, a meno che non si voglia volgerle in chiave propagandistica o fare la sfida all’OK corrall, cosa di cui non ho molta voglia. Il punto è che l’uscita dalla UE è un salto nel buio, che se si andasse a votare non avrebbe alcun seguito (secondo me), non appena le persone capiscono che dei loro risparmi in banca perderebbero il 30%. Dal punto di vista macroeconomico una follia, una distruzione di ricchezza nazionale. Tutto opinabile, per carità, ma non credo sia opinabile che il sovranismo, nel modo che ho specificato prima, si è rivelato sterile. Ha portato solo un poco di acqua e di argomenti alle destre. Questi i fatti.

La UE può venire meno solo perché implode per le sue contraddizioni interne. Questo non è escluso, ma è improbabile. La sua dissoluzione consegnerebbe i paesi europei alla forza di altri, e questo non conviene a nessuno. Il punto non è allora uscire dalla UE ma avere una classe dirigente che, come legittimamente fanno gli altri, sappia fare gli interessi del paese. Si può fare un altro percorso.

L’idea di un debito comune non è praticabile, e fossimo noi tedeschi ci guarderemmo dall’accettarla. Tu fai debiti e io me li accollo? Dai. Quello che si sta facendo non è moltissimo, ma non è niente. Sono passi avanti importanti, che non vanno enfatizzati come fanno i governativi ma neanche minimizzati. Sono cose importanti.

In ogni caso, per come la vedo io si tratta di concentrarsi su questioni concrete: la rivoluzione tecnologica e la ristrutturazione del mondo del lavoro, la disoccupazione, la mobilità sociale etc. Un intero orizzonte di problemi che bisogna giocarsi stando DENTRO la UE, perché a questo ci consegna la storia. La UE è diventata il drappo rosso che fa infuriare il toro e lo inganna, distogliendolo dai veri problemi. Almeno io la vedo così. Alla fine, il post non aveva un tono o un fine polemico. Voleva solo dire che secondo me una fase si chiude perché mi sembra che non porti a niente, e che vale piuttosto la pena seguire altre strade, sia dal punto di vista teorico che pratico. Come dire, era una sorta di confessione pubblica, poi ognuno segue quello che crede vero e giusto.

Infine, lo stato-nazione tornerà, sta tornando, ma non sarà quello di prima. Tornasse quello di prima sarebbe lo zimbello di grandi imperi finanziari e industriali. Oppure vuoi mettere i dazi alle frontiere e fare una bella politica mercantilista? Magari prendiamo Fichte e lo stato commerciale chiuso a modello? Credo che siamo entrambi d’accordo che non possono essere quelle le soluzioni.

Grazie della discussione, Andrea.

 

Andrea Zhok

Sono d’accordo con un paio di cose (lo sono sempre stato, peraltro). Primo, non credo che porre in testa all’agenda politica l’Italexit sia produttivo. L’Italexit è un mezzo, non un fine, e bisogna tener fermo il fine, e renderlo plausibile (e molto si può fare senza puntare senz’altro sull’Italexit, in termini di proposte politiche socialiste). In effetti sono uscito da una forza politica che proponeva l’Italexit come tema primario e preliminare proprio per un disaccordo su questo punto.

In secondo luogo è vero che un’uscita unilaterale sarebbe un’operazione di grande complessità, che dovrebbe essere gestita dalla stessa classe dirigente che finora non è riuscita a fare cose ben più semplici, come riprendere in mano un po’ di industria strategica in mano statale.

Detto questo sono invece in netto disaccordo con quasi tutte le altre analisi particolari.

La tua analisi degli effetti dell’inflazione è a mio avviso, perdonami, proprio sbagliata. Dove si abbatte l’inflazione dipende da decisioni politiche molto semplici da gestire (se non lo si vuole gestire è una scelta politica, ma certo non è qualcosa da ascrivere ad un problema tecnico intrinseco all’inflazione. Inoltre un’inflazione moderata in un contesto come quello italiano sarebbe una benedizione, perché costringerebbe gli ingenti capitali immobili a rimettersi in circolazione, ad investirsi, e simultaneamente abbatterebbe il debito pubblico reale. Un’inflazione moderata per qualche anno per un paese come l’Italia, se gestita decentemente (un’indicizzazione parziale dei salari?) sarebbe una benedizione, non un problema.

La questione dell’isolamento fuori dall’UE è a mio avviso mal posta. L’UE è una struttura definita da certi trattati. Al posto di quei trattati si possono stipulare trattati diversi, magari tra paesi con maggiore omogeneità di interessi. Al momento l’UE è un sistema votato alla paralisi (lo ha dimostrato costantemente per anni), e che dunque non è d’aiuto per nessuno. Poi, come dico sempre, se vogliamo credere ai miracoli, per me va bene: se domattina con accordo unanime si chiama “Unione Europea” un sistema di collaborazione istituzionale su basi keynesiane, bene, mi farò piacere il vecchio nome per un nuovo oggetto. Ma al momento è solo una pastoia neoliberale.

La questione del “debito comune” poi è, temo, di nuovo mal posta. Se hai una moneta comune e una politica economica comune, definite dai trattati, allora mantenere competizione fiscale illimitata e responsabilità separata dei debiti è una follia suicida. Non può funzionare, perché non è né carne né pesce. Questo arrangiamento istituzionale era stato proposto come passo intermedio verso gli “Stati Uniti d’Europa”, dunque verso un orizzonte di unificazione della legislazione fiscale e del debito pubblico. Oggi moltissimi hanno enormi dubbi rispetto a questa prospettiva, ma è almeno una prospettiva internamente coerente. Se però non si va avanti bisogna andare indietro.
(Per inciso, i sovranisti duri e puri non vogliono affatto la mutualizzazione del debito, perché essa sarebbe un passo ulteriore verso un’unificazione europea. Però l’argomento che guarda alla mutualizzazione del debito come se fosse un dettaglio indipendente, e non fosse correlato con la comunanza della moneta, del mercato e della fiscalità, è semplicemente un errore: un europeista deve volere la mutualizzazione anche del debito, un sovranista deve volere la separazione anche della moneta, ma volere la moneta comune + robe come l’Olanda che gioca al paradiso fiscale e senza mutualizzazione del debito, beh, questo può volerlo solo un masochista.).

Molto altro sarebbe da dire, ma un’altra volta.

 

Roberto Buffagni

Nel loro dialogo, a mio avviso, Vincenzo Costa e Andrea Zhok prendono in considerazione i due versanti della questione “sovranismo”/europeismo”, e per così dire procedono in parallelo con le loro argomentazioni. Provo a integrare. Dice Vincenzo Costa che “il sovranismo è sconfitto” (personalmente concordo). Dice Andrea Zhok che no, perché a) il “sovranismo realmente esistente”, cioè “quella sorta di neoliberismo nazionalista brandeggiato da Salvini (e da parecchi altri in Europa)” è tutt’altro che sconfitto”, perché “E’ e resta quasi ovunque forza dominante, perché la profondità e multifattorialità del fallimento della sinistra non si cancella in un giorno e questi vivono del discredito della sinistra.” b) i problemi e le contraddizioni della UE, questo ferro di legno, sono tutt’altro che risolti o in via di soluzione (concordo anche su questo). Concordo con entrambi i dialoganti, che pur dissentono tra loro, per i seguenti motivi.

1) Il “sovranismo realmente esistente”, cioè “quella sorta di nazionalismo neoliberista brandeggiato da Salvini” (Zhok) è l’unico realmente esistente, in tutta Europa e per il vero in tutto l’Occidente, perché il vasto e articolato benché confuso e confusionario movimento che s’usa etichettare sotto il nome “sovranismo” (che è poi parola che a scopo cosmetico sostituisce la più corretta “nazionalismo”) è una reazione al “globalismo” o “mondialismo”, ed essendo una vera e propria reazione, è il negativo fotografico del suo nemico. Chi sono le forze politiche che hanno costruito e governano la UE? Sono le classi dirigenti europee (e statunitensi): liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.
Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?
Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico. L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.
Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.
Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).
Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.
L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.
Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire una volta per tutte i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno, ai tempi dell’entusiasmo europeista, pretendeva di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.
Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.
A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.
Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.
In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

Dunque, la “reazione sovranista” non poteva che venire da una cultura politica di destra, perché solo nella cultura politica di destra esistono elementi, già prefabbricati, in grado di contrapporsi all’universalismo politico: nazione, popolo, comunità e (Deus avertat) razza.

2) Ma la “reazione sovranista al mondialismo” incontra necessariamente, sulla sua strada, un’altra per così dire Entità che non è una forza politica bensì una vera e propria forza di sistema impersonale, un criterio, una logica, ed è, per dirla con de Benoist, la Forma Capitale, la quale è ordinata alla logica più universalista di tutte. La incontra necessariamente per il banale ma non trascurabile motivo che se il “sovranismo” non interpreta e rappresenta gli interessi del Lavoro, perde. E’ in effetti lo stesso identico problema che si trovarono ad affrontare i fascismi negli anni entre deux guerres del Novecento, e anche stavolta la soluzione è estremamente difficile. La soluzione sarebbe, in linea teorica, quella del superamento della contrapposizione destra/sinistra, e dell’alleanza strategica tra nazionalismo e socialismo. Le condizioni oggettive ci sarebbero tutte. Mancano le condizioni soggettive, vale a dire: a) sul piano teorico, manca una articolazione sufficiente dell’universalismo. E’ possibile un universalismo che integri in sé non solo la possibilità, ma la legittimità permanente delle differenze? Differenze tra popoli, culture, regimi politici, etc.? Sì che è possibile. Ne offrirebbe una, anzi ne offrirebbe diverse il pensiero del realismo politico cristiano, se ci fosse ancora, come forza culturalmente e politicamente attiva, il realismo politico cristiano (non c’è più) b) mancando una cultura politica e non solo politica abbastanza coerente da integrare universalismo e particolarismo delle differenze, manca anche il punto di contatto tra cultura politica “di sinistra” (che non può non essere universalista) e cultura politica “di destra” (che non può non essere particolarista). Dunque i tentativi di alleanza “al di là della destra e della sinistra”, che pur sono stati esperiti, e anche con una certa buonafede, in Francia e (con meno buonafede) in Italia, sono falliti. Falliti per ragioni contingenti (infinite) ma falliti anche per questa ragione, non contingente ma essenziale o strutturale, che costituisce un colossale ostacolo alla formazione di un soggetto politico in grado di contrapporsi alle forze mondialiste ed europeiste in modo davvero efficace, il che significa “contrapporsi alle forze europeiste e mondialiste integrando la parte decisiva delle loro ragioni“. La parte decisiva delle ragioni delle forze mondialiste e europeiste è l’universalismo spirituale, cioè a dire il concetto filosofico e religioso di “umanità”, di partecipazione di tutti gli uomini a un medesimo Logos.

Se non viene integrata questa ragione del mondialismo, e ricompresa con una articolata e coerente legittimazione delle differenze all’interno della comune umanità, si abbandona tout court la radice della civiltà europea e letteralmente si regredisce alla barbarie identitaria, tribale o, peggio (Deus avertat, di nuovo) razziale/razzista.

3) Quindi, per quanto ho esposto sopra, che cosa è successo? E’ successo che il “sovranismo realmente esistente”, nato da una cultura politica di destra, fallita l’alleanza con le culture politiche (minoritarie) di sinistra che si contrappongono a mondialismo ed europeismo, è regredito. Non è regredito alla barbarie, per fortuna, ma è regredito alla Guerra Fredda. Ha tirato fuori dal baule del nonno tutti i vecchi stilemi e riflessi condizionati della guerra fredda: americanismo perinde ac cadaver, tirannide comunista con la Cina al posto dell’URSS, statalismo e sindacalismo egualitarista come Babau, liberismo da poveracci con la partita IVA martire dei comunisti e Briatore come modello di vita, e come ciliegina sul gelato, la gestione imbecille della pandemia in corso, con il “virus comunista” e il suo corteggio di allucinanti scemenze complottiste e di mascherina totalitaria (ciò, si noti bene, quando era facile per una opposizione decente fornire il massimo appoggio al governo per l’emergenza sanitaria, e fare la massima opposizione alla gestione dell’emergenza economica).

Ora, siccome la Guerra Fredda non c’è più e il nemico non è il comunismo, va da sé che il “sovranismo realmente esistente” è condannato a perdere, anche se sicuramente resterà una forza politica molto rilevante e potrà anche andare al governo, in Italia e altrove.

4) Che fa intanto il nemico, vale a dire le forze mondialiste/europeiste? Il nemico si dimostra più bravo, più capace di imparare dai propri errori, di integrare le ragioni dell’avversario e di prendere l’iniziativa. In Francia, con l’esperimento Macron, ha dimostrato di sapere, lui sì, stringere un’alleanza strategica fra destra e sinistra: ha infatti alleato le borghesie (termine improprio, facciamo per capirci) di destra e di sinistra contro populismo e sovranismo, in una riedizione aggiornata del compromesso louis-philippard del 1830; e ora, con il Recovery Fund, il quale sul piano empirico sarà sicuramente una fregatura per i paesi mediterranei, ma sul piano qualitativo è una svolta che può rivelarsi decisiva, ha forse saputo dare inizio a una vera e propria integrazione economica europea.

5) Per riassumere. Penso che abbia ragione Andrea Zhok quando espone le mille ragioni oggettive, strutturali, della precarietà e contraddittorietà della UE; e del fatto che essa non può che essere un nemico dei popoli e dei lavoratori europei. Esse ci sono, ci sono eccome, e per il solo fatto di esserci attestano che la partita NON è chiusa, e che si spalancano intere autostrade a venti corsie per una opposizione efficace. Penso che abbia ragione Vincenzo Costa quando dice che “il sovranismo è sconfitto”, perché è sconfitto il “sovranismo realmente esistente”, il quale si è in buona sostanza sconfitto da sé, per le gravi insufficienze soggettive delle quali ho tratteggiato un abbozzo ai punti precedenti.

Insomma, la partita non è chiusa perché non sono chiuse le contraddizioni e i conflitti reali; ma il primo tempo è finito con la sconfitta dell’opposizione all’europeismo e al mondialismo, perché non basta che le contraddizioni e i conflitti vi siano: bisogna anche sapervisi inserire nel modo opportuno.

Vincenzo Costa

Grazie del contributo. Un’analisi accurata che da molto da pensare.

Andrea Zhok

Roberto Buffagni. Analisi molto bella e articolata, di cui ti ringrazio.
La trovo convincente sul piano dell’analisi della parabola del “sovranismo realmente esistente” identificato con la Lega e i suoi cespugli.
La trovo affascinante, ma meno convincente per quanto riguarda la macroanalisi storica.

Nello specifico la categoria storica decisiva, quella di ‘universalismo’, è a mio avviso troppo indeterminata per esaminare la storia successiva alla Rivoluzione francese.

La vera lotta degli ultimi due secoli è stata solo in piccola parte lotta tra universalismo e particolarismo, ma molto più spesso è stata lotta tra tipi radicalmente diversi di universalismo. Nel movimento comunista e socialista, accanto ad un universalismo scientista e livellatore, positivista ed imperialista, è sempre esistito (in considerevole confusione concettuale, va detto) un universalismo che dichiarava diritto dell’intera umanità l’autogoverno e la sovranità dei popoli, la loro autodeterminazione, cioè un universalismo che riconosceva e legittimava le nazioni, le culture, le diversità territoriali. Questo non è particolarismo, è universalismo, ma non del tipo astratto formulato dal primo illuminismo. (Incidentalmente, avendone il tempo potrei mostrare come solo questo universalismo è concretamente sostenibile).

La seconda questione, correlata alla prima, su cui (in un altro momento) vorrei approfondire il discorso è legata al nesso tra universalismo e capitalismo. Nel quadro che proponi si giunge alla conclusione paradossale che imperialismo, comunismo, illuminismo, capitalismo ed europeismo sono solo aspetti di un medesimo Moloch concettuale, l’universalismo. Però capisci bene che trattare Lenin come alleato del capitalismo – e qui si arriva – opera una semplificazione concettuale davvero troppo ardua da metabolizzare.

Arrivato qui il dovere mi chiama, ma ti rimando – secondo l’indecente costume accademico – al mio libro sulla ragione liberale, dove cerco di mettere a fuoco proprio al differenza tra l’universalismo liberale, legato alll’evoluzione del capitalismo, ed un universalismo democratico (talvolta socialista) che diverge dal primo molto precocemente, e che non è senz’altro assimilabile alla ‘destra’ (l’eredità dell’Ancien Regime).

Roberto Buffagni

Grazie a te. In effetti dire che il comunismo leninista è un alleato segreto del capitalismo è un po’ forte, non ci sarebbero arrivati neanche i geni dell’Ufficio Falsi Politico-Letterari dell’Okhrana, quelli del “Protocollo dei Savi di Sion”. Il tuo libro lo leggerò volentieri. Come sai la mia cultura politica è di destra e non sono né storico né filosofo di professione, quindi, in mancanza di dovere d’informazione esaustiva professionale, tra le mie letture di dilettante ci sono più opere “di destra” che opere “di sinistra”; però conosco anche io, anche se non abbastanza bene, che è effettivamente esistito un “universalismo democratico, talvolta socialista” che fa ampio spazio alle differenze, pur senza rinunciare all’universalismo, anzi. Basta fare il nome di Giuseppe Mazzini, l’Apostolo le cui severe sembianze riprodotte in busti di marmo o bronzo tuttora costellano i giardinetti italiani, per la gioia dei piccioni (ci scherzo un po’ ma lo rispetto molto, eh?). Io sono persuaso che sia certamente possibile, anche oggi, una articolazione dell’universalismo che comprenda e legittimi la permanenza delle differenze particolari, e delle gerarchie di valori che ne conseguono. Non mi risulta che essa via sia in misura sufficiente e sufficientemente egemonica, da un canto; e dall’altro, ho l’impressione (è solo un’impressione ma è molto forte) che ad essere in questione nell’arena politica e filosofica, oggi, siano questioni antropologiche di fondo che rinviano alla radice del problema; e la radice del problema è vecchia se non antica, vale a dire l’illuminismo e la rivoluzione francese, e probabilmente anche le guerre di religione intracristiane. L’impressione si fonda anzitutto sul fatto (perché questo mi pare un fatto) che, per farla cortissima: il segreto o il trucco liberalcapitalistico di fondo è: far sì che la gerarchia e il comando, indispensabili per la sussistenza di ogni società, siano quanto più possibile depurati dal comando dell’uomo sull’uomo. Comando impersonale sulle cose e sulle procedure, e comando impersonale delle cose e delle procedure sugli uomini. Ora, se tu vuoi limitare il capitalismo liberale, e restringerlo nel recinto dell’Economico, dovrai di nuovo giustificare e legittimare il comando dell’uomo sull’uomo; e come fai, se non giustifichi e legittimi una gerarchia che NON risponda al criterio democratico del denaro? Ci sono i voti, un altro criterio quantitativo e democratico. Bastano? Non lo so (sul serio non lo so, e mi fermo qui perché non so proseguire).

Michel Onfray, Teoria della dittatura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Michel Onfray, Teoria della dittatura, Ponte alle Grazie 2020, pp. 219, € 16,50.

 

Michel Onfray con questo saggio ci offre una “nuova” concezione della dittatura, che non è quella classica del secolo XX, in cui il termine era usato (soprattutto) per designare il totalitarismo, ma è la dittatura mascherata, con parecchi punti di contatto con il dispostismo mite descritto da Tocqueville in un celebre passo della Democratie en Amérique (2,4,6).

L’autore si pone il problema se la società attuale sia veramente libera, o almeno, abbia fatto negli ultimi decenni progressi verso la libertà. Per rispondere a questi interrogativi usa criteri desunti dalle due opere di Orwell più note: 1984 e La fattoria degli animali, in cui il romanziere inglese descriveva i totalitarismi del XX secolo: nazismo e comunismo. Da queste, Onfray desume sette “comandamenti” idonei a demolire le libertà e realizzare una dittatura: distruggere la libertà, impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l’odio; aspirare all’impero.

Ai comandamenti seguono i “principi” che ne sono le deduzioni conseguenti, come Praticare una lingua nuova, Usare un linguaggio a doppia valenza, Inventare la memoria, Cancellare il passato, Creare la realtà, e così via.

Comandamenti e principi che si trovano, per lo più, sia nei totalitarismo del ‘900 che nell’Europa di Maastricht, qui ovviamente in versione soft. Una particolare attenzione l’autore da alla comunicazione: Orwell in 1984 aveva descritto una società in cui il potere era esercitato prima che con la coazione, con un raffinato stravolgimento del legame tra realtà e rappresentazioni verbali. La neolingua è finalizzata a ridurre il pensiero “il potere sulle cose passa per il potere sulle parole”. La stessa riduzione dei vocaboli, la semplificazione della grammatica e della sintassi riducono le possibilità di un pensiero diversificato ed analitico. Ancor più se i termini sono (volontariamente) equivoci. Si arriva così a creare una realtà immaginaria: la realtà non ha un’esistenza autonoma, indipendente dal soggetto: è un prodotto della coscienza del soggetto che “le fornisce senso, vita e verità”. Continua Onfray “Una metafisica di questo tipo è estremamente interessante dal punto di vista politico… Se la realtà è solo quello che la coscienza le permette di essere, basta agire sulle coscienze per produrre la realtà che si desidera. In ambito di realtà, ciò che è, è soltanto ciò che si trova dentro la coscienza, quindi dentro la testa del soggetto. Grazie all’educazione delle coscienze, il potere potrà allora produrre la realtà che più gli conviene”.

Ovviamente per far questo occorre “non credere a quello che si vede o a quello che si sente; … credere soltanto a quello che il Partito sostiene”. Ossia la scissione tra rappresentazione verbale e realtà serve a corroborare l’esercizio del rapporto di comando-obbedienza, quindi a creare consenso al potere. Più consenso significa usare meno la forza.

L’autore riporta le frasi di uno dei personaggi di 1984, l’intellettuale-dirigente del Partito. Questi racconta al protagonista “Tu credi che la realtà sia oggettiva, esterna, che esista di per sé. Credi anche che la natura della realtà si riveli da sé… Ma, Winston, ti assicuro che quella realtà non è esterna…(esiste) soltanto nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. Ciò che il Partito considera la verità è la verità”.. Anche la storia è vissuta e percepita in 1984 attraverso il ministero della Verità, solo in funzione del presente e in quanto serve al potere: il passato è riscritto per le esigenze  contingenti del Partito.

Nella conclusione l’autore sostiene “Chi può dire, oggi come oggi, di non essere d’accordo sul fatto che il ritratto del totalitarismo abbozzato da Orwell sia quasi un affresco dei nostri anni? Anche oggi, in effetti, la libertà è difesa male, la lingua messa sotto attacco, la verità cassata, la storia strumentalizzata, la natura bypassata, l’odio incoraggiato e l’imperialismo in marcia”. Il culto votato oggi al progresso è un “progressismo nichilista”, una marcia verso il nulla: e Onfray enumera tutti i sintomi che riconducono ai “comandamenti” di Orwell la situazione attuale, tra cui la moralina, concetto di Nietzsche il cui “nome rimanda, da una parte alla morale” e dall’altra agli stupefacenti, la quale “contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il verso al falso, l’informazione all’intossicazione”. In un mondo siffatto il “progresso” consiste “nel mobilitare la scuola, i media, la cultura e il Web per fare propaganda… nel nascondere il vero potere e nello sviare altrove l’attenzione… consiste infine nel governare senza il popolo, contro il popolo e nonostante il popolo”.

Ossia nella mistificazione di un potere il quale diffonde un conformismo di massa per esercitare il dominio (detto nella vecchia lingua) o la governance, come si esprimono, nella neolingua, le classi dirigenti. Ma come possa ciò salvarci dall’evidente decadenza in cui sta sprofondando lentamente l’Europa e, più in fretta, l’Italia, non è dato comprendere. Anzi è (il frutto e) la derivazione, nel senso di Pareto, di questa stessa decadenza.

Teodoro Klitsche de la Grange

Libia: fine del gioco per il maresciallo Haftar?, di Bernard Lugan

Il maresciallo Haftar non è riuscito a prendere Tripoli, nonostante i suoi annunci di vittoria e il massiccio aiuto ricevuto dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti. Nelle ultime settimane ha anche subito gravi battute d’arresto militari, perdendo la posizione strategica di Gharyan e la base aerea di Watiya in Tripolitania.

Ecco i quattro motivi di questo scacco:

1) Il maresciallo Haftar non ha fanteria, i suoi unici veri combattenti sul campo sono mercenari, principalmente sudanesi, supportati da contractors russi di basso valore militare. Questi ultimi si sono appena ritirati dal fronte di Tripoli dopo aver subito gravi perdite al cospetto delle forze speciali turche.

2) Le milizie di Zintan di cui sperava il supporto si sono schierati alla fine con i turchi-tripolitani.

3) L’intervento militare della Turchia ha rovesciato l’equilibrio di potere a favore del GNA (Governo dell’Unione Nazionale) di Tripoli.

4) La Russia, che non ha mai ingaggiato il suo esercito, ritiene che Haftar non sia più l’uomo giusto alla attuale situazione.

 

Pertanto sorgono quattro domande:

–  Qual è la linea rossa tracciata dalla Russia alla Turchia?

– Chi succederà al maresciallo Haftar a Bengasi?

– Quale soluzione politica è possibile?

– Quali conseguenze per il presidente Déby i cui oppositori sono installati a Fezzan?

 

1) Dov’è tracciata la linea rossa dalla Russia?

Dopo aver sostenuto il maresciallo Haftar, Mosca si è resa conto che costui non era in grado di prendere il potere a Tripoli. I russi sanno anche che il maresciallo è odiato in Tripolitania, dove coloro che hanno rovesciato il regime del colonnello Gheddafi lo considerano, giustamente o erroneamente, come suo successore. Questo è il motivo per cui sembrano averlo abbandonato, ma fissando una linea rossa alla Turchia. Dove è tracciata? Ecco tutta la questione

Per Mosca, la priorità è congelare la situazione sul terreno, in attesa di trovare un successore del maresciallo Haftar, che implica un’evoluzione nelle posizioni dell’Egitto e in particolare degli Emirati Arabi Uniti i quali sostengono ancora quest’ultimo. Militarmente, e da quello che è possibile sapere, Mosca avrebbe deciso di santuarizzare il fronte a ovest di Sirte.

In questo contesto, l’annuncio americano dell’invio di aerei russi ultra moderni al generale Haftar è una disinformazione perché, per quanto ne sappiamo, questi aerei “moderni” sono in realtà quattro dispositivi di seconda mano che, in ogni caso, non modificheranno l’equilibrio delle forze sul terreno.

2) Chi succede al maresciallo Haftar?

Diversi nomi sono in predicato. Tra questi, i “candidati” più autorevoli sembrano essere:

– Il generale Abderrazak Nadhouri, l’attuale capo dello staff, la cui stella è però offuscata dalle sconfitte subite in Tripolitania contro le forze turco-misuratine.

– Il Generale Ahmed Aoun, della tribù Ferjan nella regione di Sirte. Se questo ex generale di Muammar Gheddafi, popolare nell’esercito del maresciallo Haftar, fosse naturalmente in grado di radunare i kadhafisti della Tripolitania, quale sarebbe la reazione di coloro che rovesciarono il vecchio regime, in particolare il potente Zintani ?

– Si dice che Aguila Salah, il presidente della Camera dei rappresentanti che siede a Tobrouk sia il puledro dell’Egitto. L’uomo si è opposto al maresciallo Haftar da quando, consapevole del punto morto militare in cui si era cacciato, aveva proposto un piano per porre fine alla crisi attorno alla riforma di un consiglio presidenziale tripartito su base regionale ( Tripolitania, Cirenaica e Fezzan).

3) Soluzioni politiche

La domanda è semplicemente affermata:

– Con la Turchia impegnata militarmente a fianco del GNA, il generale Haftar non prenderà Tripoli.

– Con la Russia che santifica la Cirenaica, il GNA non prevarrà a Bengasi.

Conclusione: la negoziazione può quindi riprendere. Ma su basi diverse da quelle irrealistiche, perché solo elettorali, poste dalla “comunità internazionale”.

In tal modo :

1) Alla conferenza di Berlino dello scorso gennaio, la divisione del potere era stata quasi stabilita, il comando dell’esercito tornato in Cirenaica e la presidenza in Tripolitania. Tuttavia, i negoziati si erano fermati sul posto da assegnare al generale Haftar che, spinto dagli Emirati, aveva adottato una posizione massimalista che aveva interdetto la Russia.

2) Fayez el Sarraj, il capo del GNA (governo dell’Unione nazionale) con sede a Tripoli potrebbe dimettersi. Chi lo potrebbe sostituire allora? Misrati Fahti Bachaga essendo unanime con tutti coloro che temono il dominio della città-stato di Misrata sulla Tripolitania, un’opzione più consensuale sarebbe quella di Zentani Oussama Jouli. Soprattutto dal momento che quest’ultimo ha radunato nella sua persona la frazione di Zintani fino ad allora alleata con il generale Haftar, ma che ha permesso alle forze turche-GNA di riprendere la base aerea di Watiya il 12 maggio. È importante notare che, durante la guerra contro il colonnello Gheddafi, le forze speciali francesi avevano appoggiato le truppe di Osama Jouli.

Ci saremmo così spostati, in un certo senso, verso un ampio federalismo. Resta da risolvere la questione della condivisione del petrolio che, tenendo conto delle posizioni geografiche dei depositi, faciliterebbe la ricerca di un equilibrio territoriale.

4) Conseguenze per il Ciad

Con le forze di Misrata-GNA-Turchia che attualmente hanno acquisito un vantaggio, probabilmente le tribù fezzane si uniranno a loro. Se così fosse, le conseguenze regionali sarebbero quindi significative perché la Turchia, che già sostiene i gruppi terroristici armati nel BSS, sarebbe quindi direttamente in contatto con l’area, costringendo così Barkane a riposizionarsi a Madama.

In realtà, il generale Haftar non ha mai veramente controllato il Fezzan, il suo unico supporto quasi affidabile è che ci sono alcune tribù arabe i cui capi vengono comprati. Per il resto, i Toubou che odiano gli arabi vendono al miglior offerente e, come per i tuareg, si sporgono verso Tripoli.

Tuttavia, questo Fezzan in cui le tribù definiscono le loro alleanze in base all’equilibrio di potere a Tripoli e Bengasi, è la retrovia degli avversari del presidente Déby. Per la cronaca, nel 2019, la loro ultima offensiva, che stava per raggiungere N’Djamena, è stata bloccata solo dall’intervento dell’aviazione francese.

Tra questi oppositori, quello che sembra essere attualmente il più militarmente pericoloso per il presidente Déby è il Toubou-Gorane Mahamat Mahdi Ali che è a capo del FACT (Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad). Quest’ultimo che afferma di avere 4000 combattenti, sa di poter contare sul bacino etnico che si estende sulle regioni di Borkou, Ennedi e Kanem. Per il momento, le sue forze sono di stanza nella Libia centrale, a circa sessanta chilometri da Jufra, nella regione di Jebel Sawad (Fonte: Fezzan Consultation ). Il crollo del generale Haftar avrebbe quindi aperto Mahamat Mahdi Ali, una “finestra di fuoco” che non avrebbe mancato di sfruttare.

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